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3 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Maggio/giugno 2009 – Anno X IL VOTO DI GIUGNO. SINTESI E TABELLE da pagina 15 Editoriali Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino Stracciamoci pure le vesti dopo il voto europeo! È andata male per l’Europa (pochi votanti), per la de- mocrazia (tanti voti a forze politiche di dubbia inclinazione democratica), per la sinistra (la destra ha stravinto). E prepariamoci, a queste condizioni, a stracciarcele di nuovo fra 5 anni. Pen- so che il presunto separatismo fra ele- zioni europee ed elezioni nazionali, il tentativo di dividere l’efficientissima democrazia nazionale (?!) dall’Europa pervasa da un cd deficit… >>> Segue a pagina 5 Prima delle elezioni il PD aveva detto: basta affidare ai gossip la lotta a Berlusconi e al centro de- stra, e basta conflitti e competizioni interne sino a dopo i ballottaggi. Le cose però non sono andate così. La sinistra, di fronte ai gravi infortuni del Presidente del Consiglio, ha dato l’im- pressione di non aver mai smesso di coltivare la prospettiva “della spallata”. E ad urne del primo turno elettorale ancora aperte è cominciato… >>> Segue a pagina 2 Elezioni europee dov’è il problema? ANDREA PIERUCCI Occorre un nuovo meridionalismo ANDREA GEREMICCA A farne le spese è l’idea di Europa GIANNI PITTELLA Nei primi mesi del 2009, come era facile prevedere, anche la Campania ha accusato i colpi della recessione economica che ha fat- to seguito alla prima crisi finanzia- ria del nuovo mondo globalizzato, quella che, ormai convenzional- mente, si considera aperta dal fal- limento della Lehman Brothers, una delle più aggressive banche ame- ricane nella stagione della finanza originate to distribute: il paradigma operativo che, grazie… >>> Segue a pagina 7 Prima di cercare di indagare le cause e i rimedi da porre al genera- lizzato arretramento dei partiti tradi- zionali di ispirazione socialdemocra- tica registrato alle ultime elezioni per il Parlamento europeo e come questo andamento nelle urne si intrecci forte- mente con l’altro fenomeno, opposto nella forma ma politicamente comple- mentare nella sostanza, dell’astensioni- smo, dovremmo chiederci se esista in questo momento un sentimento… >>> Segue a pagina 4 In Campania l’economia non tira MASSIMO LO CICERO MEZZOGIORNO ALLO SBANDO Dove si è persa la sinistra? Stralci dal volume di Biagio de Giovanni “A destra tutta” Commenti di Piero Craveri, Gilberto Marselli, Antonio Ghirelli da pagina 23 Le immagini che pubblichiamo in questo numero sono tratte dal volume Volti del Mediterraneo di Pino Bertelli Prefazione di Pedrag Matvejevic OSSERVATORIO EUROMEDITERRANEO E DEL MAR NERO FORUM UNIVERSALE DELLE CULTURE NAPOLI 2013

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Rivista Mezzogiorno Europa

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3Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Mag

gio/g

iugno

200

9 –

Anno

X

IL VOTO DI GIUGNO. SINTESI E TABELLE da pagina 15

Editoriali

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Stracciamoci pure le vesti dopo il voto europeo! È andata male per l’Europa (pochi votanti), per la de-mocrazia (tanti voti a forze politiche di dubbia inclinazione democratica), per la sinistra (la destra ha stravinto). E prepariamoci, a queste condizioni, a stracciarcele di nuovo fra 5 anni. Pen-so che il presunto separatismo fra ele-zioni europee ed elezioni nazionali, il tentativo di dividere l’efficientissima democrazia nazionale (?!) dall’Europa pervasa da un cd deficit…

>>> Segue a pagina 5

Prima delle elezioni il PD aveva detto: basta affidare ai gossip la lotta a Berlusconi e al centro de-stra, e basta conflitti e competizioni interne sino a dopo i ballottaggi. Le cose però non sono andate così. La sinistra, di fronte ai gravi infortuni del Presidente del Consiglio, ha dato l’im-pressione di non aver mai smesso di coltivare la prospettiva “della spallata”. E ad urne del primo turno elettorale ancora aperte è cominciato…

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Elezioni europeedov’è il problema?AndrEA PiErucci

Occorre un nuovomeridionalismoAndrEA GErEmiccA

A farne le speseè l’idea di EuropaGiAnni PittEllA

Nei primi mesi del 2009, come era facile prevedere, anche la Campania ha accusato i colpi della recessione economica che ha fat-to seguito alla prima crisi finanzia-ria del nuovo mondo globalizzato, quella che, ormai convenzional-mente, si considera aperta dal fal-limento della Lehman Brothers, una delle più aggressive banche ame-ricane nella stagione della finanza originate to distribute: il paradigma operativo che, grazie…

>>> Segue a pagina 7

Prima di cercare di indagare le cause e i rimedi da porre al genera-lizzato arretramento dei partiti tradi-zionali di ispirazione socialdemocra-tica registrato alle ultime elezioni per il Parlamento europeo e come questo andamento nelle urne si intrecci forte-mente con l’altro fenomeno, opposto nella forma ma politicamente comple-mentare nella sostanza, dell’astensioni-smo, dovremmo chiederci se esista in questo momento un sentimento…

>>> Segue a pagina 4

in campania l’economia non tiramAssimO lO cicErO

MEZZOGIORNOALLO SBANDO

Dove si è persa la sinistra?

Stralci dal volumedi Biagio de Giovanni

“A destra tutta” Commenti di

Piero Craveri, Gilberto Marselli,Antonio Ghirelli

da pagina 23

Le immagini che pubblichiamo

in questo numerosono trattedal volume

Volti del Mediterraneo

di Pino Bertelli

Prefazionedi Pedrag Matvejevic’

OSSERVATORIO EUROMEDITERRANEO

E DEL MAR NERO

FORUM UNIVERSALEDELLE CULTURE

NAPOLI 2013

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editoriale

Segue dalla prima pagina >>>… il tormentone delle candidatu-re alla segreteria. Riemerge così il nervo scoperto della sinistra italiana dentro la crisi della socialdemocrazia europea: un paralizzante ritardo nel-la elaborazione di strategie, politiche, programmi e proposte innovative, di riforme orientate alla modernizzazio-ne del paese, di strumenti permanen-ti di partecipazione alla vita politica e istituzionale e di formazione delle nuove classi dirigenti.

Il modo di atteggiarsi nei confronti del voto di Giugno, eludendo una seria riflessione sulle ragioni politiche e cul-turali dell’astensionismo, della sconfit-ta del centrosinistra, del successo del centrodestra, e del forte incremento della Lega e dell’Idv non può essere considerato un mero errore. Un pec-cato veniale. Tradisce una inquietan-te volontà di autoconservazione sino all’autodistruzione. Come i Tuareg: meglio morire che cambiare, prendere atto del proprio fallimento, promuove-re un dibattito vero. Il clima che si re-spira è del si salvi chi può. E le analisi, le proposte, i posizionamenti appaio-no finalizzati a questo obiettivo.

Si prenda la proposta della Fon-dazione SUDD, di Antonio Bassoli-no. Potrebbe essere una buona idea se tendesse a rilanciare (se ne è già parlato in passato, e si torna a parlar-ne ogni tanto) una sede permanente di coordinamento istituzionale tra le Regioni del Mezzogiorno per stabi-lire modi, forme e tempi di program-mazione e gestione unitaria di risorse, infrastrutture e politiche di sviluppo a scala territoriale ampia. (penso all’uso dei Fondi europei). Insomma una “ma-croregione del Sud” che consentisse al Mezzogiorno di essere più ascolta-to e incisivo nelle politiche dei governi nazionali. E più competitivo a livello europeo e globale. Ma Antonio Bas-solino ha altro in mente e lo dichiara.

Pensa ad un soggetto non istituziona-le ma politico, per pesare nel sistema dei partiti (il Congresso del PD è alle porte) e “affrancare il Mezzogiorno dalla sudditanza romana”. “Perché la politica è in movimento (intervi-sta al Corriere del Mezzogiorno del 20 Giugno) e io voglio riprendere a fare politica, ma una politica nuova. Basta con lo stampino dei program-mi che arrivano da Roma, a me non piace fare il tipografo”. Un approccio del genere ha tutta l’aria di una “Lega del Sud” (che già traspariva, ricorda-te? nel “Manifesto di Eboli” del 2.000): di tutto il Sud contro tutto il resto del paese. Ma attenzione: il Mezzogiorno nella sua storia è stato percorso più di una volta “da bordate di un cattivo autonomismo” che diventa isolamen-to, entropia ostile e rancorosa di un mondo chiuso in se stesso. Vogliamo ripercorre quella strada, alimentando l’estraneità e l’ostilità tra Nord e Sud col risultato di allontanare definitiva-mente il Mezzogiorno dall’Italia e l’Ita-lia dall’Europa? O vogliamo costruire una statualità rinnovata, ridisegnando il profilo meridionalista, nazionale ed europeo della sinistra riformista? E con chi si vuole fare una “politica nuova” per il Mezzogiorno? Con Lombardo da un lato, e i principali responsabili del disastro economico (e politico) di queste regioni? Perché, si ha voglia di concentrare in buona e in mala fede, a torto e a ragione, tutti gli attacchi ai governi e alla politiche nazionali (di centrodestra e di centrosinistra): le responsabilità delle classi dirigenti meridionali per i disastri prodotti nel Mezzogiorno sono sotto gli occhi e nella coscienza di tutti.

A leggere controluce da un lato i dati sulla qualità della vita nel Mezzo-giorno riportati proprio in queste set-timane dagli Uffici Studi della Banca d’Italia, della Svimez, della Camere di Commercio e ripresi da Massimo Lo Cicero in questo numero della ri-vista, e dall’altro il dati sull’andamento, cioè sullo stato della politica e delle istituzioni in questa stessa realtà, tro-

viamo una impressionante “sim-metria”. Il Mezzogiorno (e dentro il Mezzogiorno regioni decisive come la Campania) è collocato agli ultimi posti in tutti i settori, non solo in quello dello sviluppo economico: dal PIL alle attività produttive, al lavoro, ai livelli di occupazione, agli indici di po-vertà, al funzionamento dei ser-vizi, alla condizione urbana, al funzionamento della Pubblica amministrazione e delle istitu-zioni locali, ai problemi della si-curezza e della legalità, all’assistenza all’infanzia, allo stato dei diritti civili. Nello stesso tempo il Mezzogiorno (e in primis la Campania) registra, ri-spetto al quadro nazionale, la più alta flessione di voti al centrosinistra (che al Sud governa la grande maggioran-za delle Regioni, dei Comuni e delle Province) e il maggiore incremento del centrodestra (come risulta anche dal-le tabelle curate per questa rivista dal responsabile del Servizio Statistiche e Censimenti del Comune di Napoli).

In questo contesto l’elezione “plebiscitaria” di un Assessore del-la Giunta regionale campana (“il più votato nella IV Circoscrizione dopo Berlusconi”), sul quale Antonio Bas-solino si è fortemente “speso” in tut-to il Mezzogiorno, potrebbe appari-re un dato controtendenza. Ma non è così. Il candidato in questione, su un totale di 137.705 preferenze ha fatto il pieno in Campania, ma nel Mezzogiorno ha ottenuto 12.681. La percentuale più bassa tra tutti i can-didati. Questo – assieme al crescente fenomeno delle astensioni (pari, nel Mezzogiorno, al 43 per cento degli aventi diritto al voto, a Napoli al 50,5 per cento) – dimostra a quale punto sia giunto il livello di “legittimazione meridionalista” dei massimi esponen-ti politici del Sud. Rivela però anche segnali significativi, seppure parzia-li (e più altrove che in Campania) di esaurimento del voto “non esigente”, che per anni ha caratterizzato il com-portamento elettorale nelle regioni del

Sud, condizionato dall’uso clientelare della spesa pubblica.

Una politica nuova per il Mezzo-giorno è necessaria e possibile. Ma la sinistra riformista deve trovare la for-za, dentro e fuori di se – nella società, sui territori, tra le persone in carne e ossa – di voltare pagina, rinnovando analisi, metodi di lavoro, strategie po-litiche e programmi. E formando una nuova classe dirigente. Altrimenti i fantasmi, i vizi e i riti del recente pas-sato la renderanno sempre più margi-nale e ininfluente.

In questo numero della rivista ri-portiamo ampi stralci del volume di Biagio de Giovanni A destra tutta. Dove si è persa la sinistra? con appunti e commenti di Piero Craveri, Gilber-to Marselli e Antonio Ghirelli. Perché ci sembra forte e stimolante la tesi di de Giovanni – e su questo vorremmo proseguire la riflessione e il confron-to – sulla centralità della questione meridionale. La cui scomparsa dal ta-volo della discussione rappresenta “la scomparsa del tessuto strategico della sinistra e di un passaggio decisivo su cui si è costruita la stessa storia repub-blicana nel suo insieme”, perché intor-no al tema del dualismo italiano “si è formata la coscienza storico-politica non solo della sinistra ma della stessa democrazia repubblicana”.

Il voto di Giugno richiama tutti alla inderogabilità e urgenza della ricostru-zione di questa coscienza democrati-ca nazionale. Sapendo che il successo della destra in Europa e della Lega in

OCCORRE uN NuOvOMERIDIONALISMO

Andrea Geremicca

[ Dal voto emerge un pa-ralizzante ritardo della sini-stra riformista nella elabora-zione di strategie, politiche, programmi e proposte inno-vative, di riforme orientate alla modernizzazione del paese, di strumenti perma-nenti di partecipazione alla vita politica e istituzionale e di formazione delle nuove classi dirigenti. ]

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3Italia renderanno più difficile e contra-stato il processo di coesione nazionale da un lato e di unione europea dall’al-tro. Le chiusure localistiche e le spinte centrifughe si allargheranno e divente-ranno più aspre. La sinistra dovrà per-ciò misurarsi su terreni inesplorati di analisi e di iniziativa politico-culturale. L’uso intelligente della comunicazione mediatica e degli spazi di opinione non bastano. Occorre coinvolgere le migliori energie della società – cultu-ra, professionalità, saperi, competen-ze – promuovendo la costruzione di luoghi strutturati e permanenti di par-tecipazione creativa e di democrazia operosa, di elaborazione collegiale delle decisioni e di attribuzione tra-sparente dei ruoli e delle responsabi-lità. L’esperienza di questi anni dimo-stra che la politica “liquida”, i partiti personali, il leaderismo senza leader-ship possono generare mostri. Servono partiti veri. Nuovi – niente a che fare con i partiti organizzati di massa del passato – ma veri. Non comitati elet-torali del notabile di turno o supporti ancillari degli eletti. Questo è un pro-blema di tutto il paese, ma riguarda in modo particolare il Mezzogiorno. Perché qui la società è più gelatinosa, friabile, cedevole, espressione di una economia a maglie assai più larghe e labili che in altre parti. E la tradizione dell’associazionismo sociale, a comin-ciare dalle storiche leghe sindacali, e assai più debole che altrove. Qui la po-litica e i partiti sono, anzi erano, prati-camente tutto. Certo: non ci sfugge il dato nuovo ed estremamente positivo della diffusione crescente, anche nel Mezzogiorno, di Fondazioni, Centri e Associazioni di studio, ricerca e inizia-tiva. Ma immaginare che questi punti di partecipazione democratica possa-no surrogare, sostituire o rappresenta-re una alternativa ai partiti è un errore. Anzi, senza la presenza di un sistema di partiti “veri”, la stessa rete associa-tiva è destinata a inaridirsi e a ripie-gare su se stessa invece di rappresen-tare un terreno prezioso di reciproco stimolo, autonomia e riconoscimento

tra politica e cultura, partiti e società sempre più complesse. Ovviamente, il discorso sul radicamento sociale e sulla innovazione politico-culturale della sinistra riformista non ha senso se si limita alla forma-partito, a misure di ingegneria organizzativa e istituziona-le. Chiama in causa scelte strategiche, che vanno affrontate senza stanche reiterazioni di vecchie impostazioni e senza “nuovismi” privi di rigore e co-erenza culturale.

Questo vale per il Mezzogiorno e per l’Europa.

Per il Mezzogiorno. Se è vero che una Lega del Sud non ha senso, è al-trettanto vero che non avrebbe senso una lettura meramente rivendicativa ed economicista della Questione, che elude il ruolo del Mezzogiorno nella riforma complessiva dello Stato de-mocratico e nella costruzione dell’Eu-ropa politica, creando spazio alla re-torica populista di quel neo-leghismo meridionale che pur si vorrebbe com-battere. Occorre perciò determinazio-ne nel denunciare il disimpegno dello Stato e dei poteri pubblici nazionali nei confronti del Mezzogiorno. Ma altrettanta fermezza occorre di fronte al deficit di governance e alle pesan-ti responsabilità delle classi dirigenti nel Mezzogiorno. Riconoscendo al tempo stesso, senza impacci e arroc-camenti, i limiti e i ritardi della cultura meridionale, che non ha saputo riela-borare l’analisi del dualismo italiano nel nuovo contesto europeo e globale, rinunciando a “guardare”, a interve-nire e a incidere sui cambiamenti del paese. La nostra non è una petizione di principio, la testimonianza civile e morale di protagonisti sconfitti in una realtà marginale. Al contrario, è una precisa posizione politica e culturale. Di allarme, ma al tempo stesso di spe-ranza e fiducia. Si tratta di “smettere di lamentarci delle angustie di oggi e guardare lontano, allargando il nostro orizzonte di riferimento”. Di fare leva sulle potenzialità e le energie materia-li e immateriali, civili, culturali, eco-nomiche, produttive; sui punti di ec-

cellenza e la buone pratiche che nel Mezzogiorno esistono, e sono tante, ma non fanno sistema per il vuoto di un progetto strategico unificante. In proposito si è aperto un interessante confronto di analisi e di idee – sia pure a fatica e con qualche reticenza – tra le Fondazioni, le Associazioni e i Cen-tri di cultura e ricerca meridionalisti, già convocati al Quirinale dal Capo dello Stato, che invitò a intensificare e rinnovare l’impegno “per dare più voce al Mezzogiorno”. Quell’invito non è stato lasciato cadere, e potrà trovare rilevante impulso nel network permanente tra antichi e nuovi “ope-ratori del pensiero meridionalista” at-tivato a Palazzo Partanna dall’Unio-ne degli Industriali di Napoli, con un proprio sito web per uno scambio di notizie e opinioni in tempo reale, e una raccolta di documenti, elabora-zioni, risoluzioni, proposte e atti sul

Mezzogiorno a disposizione di ricer-catori e studenti..

Per l’Europa. Bisogna essere fer-missimi nel contrastare la deriva che vorrebbe rimettere in discussione e bloccare il processo di unificazione. Ma come? Dice de Giovanni nel ci-tato volume: “mandando in soffitta vecchie ingenuità di ortodossia eu-ropeista (anch’esse fra le rovine del vecchio sistema) e cercando un più alto livello di mediazione fra spazi nazionali e spazio europeo-mondia-le, che ampli e non riduca l’unità del mercato e sostenga la rappresentazio-ne di un’Europa degli Stati aperta alla globalizzazione, e dinamica e forte in questa apertura”. Valgano in proposito i lucidi e stimolanti interventi di Gian-ni Pittella e Andrea Pierucci, ai quali rimandiamo, in attesa dei contributi dei lettori ad una riflessione che non finisce qui.

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Segue dalla prima pagina >>>… popolare che possa esprimere un voto “europeo”. Il mantenimento della pace e la solidarietà tra i popoli necessa-ri a uscire rapidamente dalle distruzioni materiali e morali causate dalla guerra, è stato un potente collante facilmente comprensibile da popolazioni duramen-te provate da dittature e atrocità, che ha unito classi dirigenti e cittadini intorno all’idea di Europa. Era il grandioso pro-getto di trasformare un giorno le nazio-ni che si erano combattute ferocemente per secoli nel teatro del vecchio conti-nente in un’unica entità politica e eco-nomica, con moneta e istituzioni con-divise, sul modello vincente degli Stati Uniti d’America. L’obiettivo di massimiz-zare prosperità e sviluppo era perseguito attraverso la realizzazione di un grande mercato unico secondo i canoni classici della libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone.

Esaurita, dopo l’abbattimento del Muro, la potente spinta propulsiva che aveva animato i padri fondatori nel do-poguerra rendendo ormai impensabi-le un conflitto armato o anche solo un confronto doganale, questa pragmatica alleanza tra politica e cittadini intorno al progetto europeo ha ritrovato nuove motivazioni solo grazie all’iniziativa le-gata alla volontà, alla lungimiranza, alla credibilità e alla stima riconosciuta alle figure degli statisti ultimi allievi di quella cultura. È il momento storico dell’intro-duzione della moneta unica. Da allora, siamo nel 2002, la cesura tra la dimen-sione europea e la dimensione, possia-mo dire, domestica è stata netta e si è tornati in Europa alla costruzione di un muro, questa volta di diffidenza e di di-saffezione senza precedenti, alla quale hanno contribuito molti fattori.

Gli attentati terroristici seguiti all’11 settembre che hanno colpito anche il cuore del vecchio continente hanno ingenerato una sensazione di minaccia incombente e di rischio generalizzato,

che ha rotto l’incantesimo di stabilità e sicurezza di cui avevano goduto gli europei per più di un cinquanten-nio, creato sull’assioma che la pace potesse essere mes-sa in pericolo come in passato solo da un conflitto interno alla Comunità stes-sa. Nella risposta all’attacco terroristico, identificata erroneamente nella guerra al regime iracheno, l’Unione europea si è inoltre drammaticamente spaccata, evidenziando visioni contrastanti degli equilibri internazionali che hanno allon-tanato l’ambito traguardo di divenire fi-nalmente un ‘global player’.

Sul piano economico cito i due fattori disgreganti che sono apparsi più evidenti e macroscopici. Il primo, parti-colarmente avvertito in Italia, è stata la maldestra gestione del “change over” dalla moneta nazionale all’Euro che ha permesso lo scatenarsi di una selvaggia speculazione sui prezzi di cui ancora le famiglie pagano gli effetti. Un messaggio dirompente, avvertito dalla generalità dei consumatori. Da allora si guarda a tutto quello che viene da Bruxelles con sospetto. Secondo, l’inadeguatezza del-le istituzioni comunitarie ad affrontare gli effetti della globalizzazione e dell’av-vento sul mercato mondiale di nuovi pae si produttori e trasformatori.

Le istituzioni europee si sono dimo-strate inadeguate a fronteggiare e gover-nare gli imponenti flussi di immigrati e di merci messi in movimento dal nuovo assetto economico mondiale, domina-to da un liberismo senza regole che ha acuito le drammatiche diseguaglianze tra le aree più ricche e le più povere del mondo tagliate fuori anche dal nuovo modello di crescita. I cittadini europei si sono sentiti esposti e aggrediti dagli sconvolgimenti produttivi e demogra-fici che ne sono seguiti, esplosi anche all’interno delle stesse frontiere euro-pee con l’allargamento ai paesi dell’est e del tutto inediti, come lo era stata la minaccia di Al Qaeda. La reazione ge-nerale è stato un sentimento difensivo e prevalente di paura. A farne le spese è stata proprio quell’idea di Europa che

predica l’abbattimento delle frontiere e la libera circolazione di beni, persone e servizi. E quell’altra idea, ispirata al so-cialismo democratico e al popolarismo che vede, guarda caso, nella solidarie-tà, nella fratellanza, nell’uguaglianza, nell’accoglienza, il fondamento della civiltà e della prosperità umana.

Questa ondata confusa ha investito sul piano politico prima di tutto i governi nazionali a maggioranza sia socialdemo-cratica che centrista, spingendo in avanti anche in paesi di più antica tradizione democratica una destra maggiormen-te disposta a cavalcare e amplificare le paure, a solleticare nazionalismo, prote-zionismo, in alcuni casi la xeonofobia. In una parola: l’antieuropeismo, lo stesso che ha imposto una dura battuta di arre-sto al processo verso il trattato costitu-zionale. Con una governance Ue dove il Consiglio dei capi di governo è deci-sivo e la destra è prevalente, Bruxelles si trasforma troppo spesso in un luogo di mediazione dove si agisce solo secondo la dinamica delle proprie convenienze o per arginare quelle degli altri. La crisi economica, con il suo carico di reces-sione e disoccupazione, non ha fatto che aumentare ansie collettive e timori.

Il progetto dell’Europa è diventato distante, per molti addirittura ostile ed è una tendenza difficile da contrastare per le forze progressiste in questo momento disorientate e in difficoltà.

Ecco perché l’esito a due facce del voto del 6 giugno scorso non può cata-logarsi nè considerarsi semplicemente “europeo”. L’astensionismo dilagante denuncia il disinteresse per un’istitu-zione considerata distante dai proble-mi che assillano oggi le famiglie. Il ver-detto uscito dalle urne è stato in larga parte l’espressione del giudizio che gli elettori danno in questo momento dei comportamenti e delle scelte dei par-titi nazionali, al governo e all’opposi-

zione, in questo scenario di crisi che non è solo econo-mico, ma sociale e valoriale. Come si vede il male oscuro che sembra voler far pagare il conto del fallimento del ‘tur-

bo capitalismo’ proprio alle forze che hanno voluto rappresentare da sem-pre le aspettative e gli interessi dei ceti medio-bassi e delle politiche muscolari e della teoria dello scontro tra civiltà a chi indica da sempre la via del dialo-go, ha radici ben più profonde di una semplice e momentanea disaffezione per le istituzioni europee. La risposta e il riscatto dello schieramento pro-gressista a livello nazionale e europeo, sono affidati alla capacità di proporre e comunicare soluzioni efficaci e con-vincenti e di prendere decisioni chiare e coraggiose là dove gli sono affidate. C’è molto da fare. Occorre una nuova agenda sociale, interventi normativi sui mercati finanziari per impedire che pos-sa ripetersi la gigantesca manovra spe-culativa che ha messo in ginocchio il risparmio e i consumi, strumenti finan-ziari innovativi che alimentino i prov-vedimenti a sostegno delle famiglie e delle piccole imprese, programmi am-bientali coraggiosi, piani per il rilancio dell’istruzione e della ricerca pubblica, politiche migratorie equilibrate che sap-piano contemperare il rispetto dei diritti di chi cerca asilo, pace e lavoro con il bisogno di una pacifica convivenza e di un effettiva integrazione nei territo-ri di accoglienza che eviti lo scatenarsi di guerre tra poveri nelle periferie più degradate. E altro ancora.

Tutte questioni che per essere risolte con successo non possono che essere affrontate sia sul piano nazionale che so-vranazionale e che richiedono per que-sto la messa in campo di forze politiche adeguate come dimensione e come ca-pacità di elaborazione e di percezione delle dinamiche sociali e dei sentimenti dei ceti che si vuole rappresentare: oc-corre un nuovo riformismo globale, in grado di cogliere la sfida lanciata all’ere-dità del pensiero politico novecentesco dai bisogni del terzo millennio.

A fARNE LE SpESEè L’IDEA DI EuROpA

Gianni Pittella

[ La reazione generale è stato un senti-mento difensivo e prevalente di paura. A farne le spese è proprio quell’idea di Europa che predica l’abbattimento delle frontiere e la libera circolazione di beni, persone e servizi. ]

editoriale

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Segue dalla prima pagina >>>… democratico mi sembra misera-mente e dolorosamente fallito: c’è un problema di democrazia punto e basta. Certo, la difficoltà europea è più visibile, i partiti politici denuncia-no molto più facilmente le aberrazio-ni europee (come se a Bruxelles non ci fossero loro, ma degli strani omini verdi provenienti da chissà dove) che non le situazioni nazionali. Cercherò di capire qualche ragione delle difficoltà elettorali in occasione delle elezioni europee.Vorrei avanzare qualche idea circa le ragioni di questa difficoltà de-mocratica. Non dirò che la gente non sa che c’è l’Europa: prenderci in giro va bene, ma non esageriamo! Né dirò che la comunicazione delle Istituzioni non funziona bene. Forse è vero, ma non sono convinto che sia il proble-ma centrale. È, ancora, non dirò che “l’Europa è lontana dalla gente”: non capisco più cosa significhi. Non credo proprio che possiamo utilizzare cate-gorie pionieristiche sull’Europa, quali l’ignoranza del cittadino o il carattere burocratico delle Istituzioni (certamen-te valide trent’anni or sono); invece le Istituzioni nazionali sono ben cono-sciute e nient’affatto burocratiche! Non mettiamo tutto sul conto della comu-nicazione, che è certo importante, ma non è l’unica cosa al mondo. Soprattut-to, le forme della comunicazione non sono la sola cosa al mondo, né la causa di tutti i beni e di tutti i mali. Viceversa quel che è determinante è il messaggio che passa o, anche, la realtà che viene comunicata.

pochi votantiCredo che le cause politiche sia-

no fondamentali. La prima riguarda la mancanza dell’Europa politica o, me-glio, la sua debolezza. Bisogna però in-tenderci sul significato di questa espres-sione. Essa ha una doppia valenza, al-

trimenti non si capisce cosa succede. Direi che, forse, piuttosto che di “man-canza dell’Europa politica”, potremmo parlare senz’altro di deficit politico gra-ve. Non si tratta, infatti, solo della man-canza di una capacità di agire in alcuni settori cruciali per la vita dei cittadini e dei paesi nei quali gli Stati ormai agi-scono poco e male: il primo esempio ne è la Politica estera. Si tratta anche, e forse in modo più acuto del diniego di democrazia effettuato dalle forze po-litiche che rifiutano, si veda la recente non-campagna elettorale, di presentare le loro proposte, la loro futura politica europea ai cittadini. In altri termini, da un lato al cittadino vengono propinate le favolette sull’informazione, sull’Euro-pa lontana ecc. e, dall’altro, si prendono importanti decisioni che coinvolgono giorno dopo giorno il cittadino stesso. Vediamo questi due aspetti.

La grande difficoltà dell’Europa di esprimere appieno una politica nelle materie che suscitano l’inquietudine dei cittadini è la più evidente. La lista è lunga, ma vorrei citarne alcune.

La sicurezza è la prima. Non si tratta tanto della paura degli scippato-ri e dei ladruncoli, quanto delle grandi paure, quelle relative ai rischi di crisi internazionale e di guerra, di terrori-smo, di degradazione ambientale, di perdita del lavoro, di malattie, che si tratti di veri problemi o di paure indot-te per qualsiasi ragione. L’Unione euro-pea non può, in molti casi, risponde-re non avendo poteri per agire; in altri casi, i governi fanno “melina”. In effetti, l’Unione ha una certa competenza in tutte queste materie, ma questa com-petenza è limitata e non è, da sola, ri-solutiva; spesso anche queste compe-tenze limitate subiscono il ricatto del voto all’unanimità in Consiglio. Dun-que, l’Europa non “fa il suo dovere”! Alla fine, l’Unione europea, nell’im-maginario di molti, è la “causa” di tutti i mali, quando ne potrebbe essere la soluzione. Si pensi all’immigrazione. Fino ad oggi, nonostante la drammatici-tà del problema, alcuni governi hanno impedito all’UE di dettare regole uguali

per tutti per favorire l’immigrazione le-gale contro quella illegale. Dopodiché si lamentano perché l’immigrazione illegale aumenta e accusano l’Unione di non far nulla per assicurare frontie-re stagne. Di nuovo: è colpa dell’Unio-ne. Per rispondere a questo problema si dovrebbero fare riforme dei trattati che dessero all’Unione poteri più com-pleti in queste materie, tanto più che la “sovranità nazionale” finisce per essere inefficiente, poiché i problemi in que-stione non sono nazionali.

La situazione attuale è che l’Euro-pa politica c’è, certo, ma è organizza-ta in modo da poter solo assumersi le colpe di quel che accade. Il cittadino vede e può vedere solo questo: un’Eu-ropa inefficace. Ma questa situazione fa sì che questa percezione esista an-che quando i risultati ci sono, come per esempio alla frontiera libanese dopo la guerra con Israele o alla frontiera fra Russia e Georgia; al massimo c’è un Mi-nistro degli esteri o un Capo di governo che si sono mostrati bravissimi.

Un altro esempio è la crisi finanzia-ria ed economica. Nessuno è entusia-sta della risposta che le abbiamo dato e, forse, lo saremo ancora meno in au-tunno per via dell’aumento probabile

della disoccupazione. L’Europa, si dice, è incapace di dare una risposta comu-ne. Ora non dobbiamo confondere l’in-soddisfazione per la risposta data (che, tuttavia, ha almeno evitato il ritorno al protezionismo ed a pratiche inflazioni-stiche) col fatto che la risposta comune ci sia stata. L’opportunità di mantenere i lavoratori nelle imprese, la politica nei confronti delle banche, la politica este-ra in questa materia sono tutte compo-nenti solide di un’azione comune. Ma l’Europa può fare solo una parte della politica economica e, dunque, si dice, è incapace di dare risposte comuni e, questa volta, è piuttosto falso. È certo che la convinzione – a volte giusta, a volte meno giusta – che l’Europa sia de-bole ed inefficace non attira certo folle di elettori per il Parlamento europeo. D’altronde, meriterebbe anche una pic-cola riflessione l’atteggiamento, a mio parere estremamente sbagliato di alcu-ni federalisti e di altri intellettuali che, in mancanza degli Stati Uniti d’Europa considerano il Parlamento privo di po-teri o l’Europa politica solo una specie di finzione che cela il ruolo dei gover-ni nazionali. Così si diventa una forza di distruzione dell’Europa. Ce n’è pro-prio bisogno?

ELEZIONI EuROpEEDOv’è IL pROBLEMA?

Andrea Pierucci

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6una falla nellademocrazia

L’altra questione che concerne l’Europa politica è, secondo me, ancora più grave perché rappre-senta una falla nella democrazia e, purtroppo, la responsabilità politi-ca incombe tutta intera sulle forze politiche che concorrono alla cam-pagna elettorale. Quando fanno cam-pagna (e questa volta non è stato vero in una buona parte dei paesi europei) la fanno per regolare i conti naziona-li e questo è molto evidente; oppure, se le elezioni sono accoppiate, tutta la propaganda verte sulle altre elezio-ni (per esempio, in Belgio la campa-gna ha avuto come tema il successo o l’insuccesso dei socialisti in Wallonie e in Italia ha avuto come tema le am-ministrative e, tema nuovo, le avven-ture sentimentali del Primo Ministro). Naturalmente, gli elettori lo vedono benissimo: perché dovrebbero votare per elezioni europee?

La conseguenza è che i cittadini non sono effettivamente chiamati a votare e a controllare quel che suc-cede in Europa, ne sono esclusi. È incredibile vedere che la propagan-da “europea” nelle elezioni europee è la prerogativa dei partiti anti-eu-ropei, mentre gli altri non ne fanno. Eppure proprio i partiti pro-europei si dicono convinti della necessità di rafforzare il Parlamento europeo e di dare più spazio all’Europa: mentono o semplicemente evitano di sprecar-si in un’elezione che non è fatta per dare una consacrazione ai rispettivi leaders? Oppure alcuni dirigenti che hanno accesso ai meccanismi europei sperano di avere le mani libere in un sistema istituzionale che decide circa l’80% delle nostre leggi? La conse-guenza immediata è che gli elettori non hanno voglia di andare a votare, non perché l’Europa sia lontana, ma perché essa è “schermata”. La conse-guenza indotta è un danno oggettivo per la democrazia e un forte incita-mento a discreditarla. Già che l’allon-

tanamento dei cittadini dalla politica, la critica annoiata delle istituzioni, la sfiducia nei nostri dirigenti sarebbero sufficienti per creare preoccupazio-ne alle forze politiche democratiche, che, invece, sembrano non curarsene. Concretamente questo porta a pochi votanti in genere e a tanti votanti an-tieuropei. L’astensionismo colpisce i partiti che sostengono la costruzione europea e i partiti di sinistra e favori-sce le posizioni antieuropee. Partico-larmente impressionante è il fatto che i partiti antieuropei creano legami fra di loro molto più spesso degli altri. Sono decenni che esistono i partiti europei, perlomeno in campo PPE e sociali-sta, ma nessun vero ruolo è stato loro concesso; questo è chiaro da molto tempo (si veda, fra gli altri il libro di Mariachiara Esposito e di Gianni Pit-tella). A dir vero in queste elezioni ne ho sentito parlare pochissimo! Nella grandissima maggioranza dei casi, gli atteggiamenti antieuropei sono legati a posizioni di estrema destra, nazio-naliste o xenofobe. L’insipienza delle forze pro europee trascina la volata di una destra minacciosa e antidemocra-tica. Ci sarebbe da domandarsi se non ci troviamo di fronte a pericolose ten-denze suicide dei medesimi partiti de-mocratici: che si suicidassero, ma che ci lasciassero la democrazia!

L’indebolimento della sinistra

Le elezioni europee hanno con-fermato che la sinistra è fortemente indebolita. Basta guardare l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna (ma anche gli altri) per non avere dubbi. Gli elettori

votano sempre meno la sinistra, in molti casi per via di astensione o di voti di protesta. Al livello naziona-le la tendenza è certa, ma è un po’ contenuta dalla sindrome di “Anni-bale alle porte” che obbliga gli elet-tori “di sinistra” a sostenere le forze che non vogliono Berlusconi o Sar-kozy. Ma perché? A me sembra che vi siano diverse ragioni. La prima è

la radicale rinuncia a esprimere idee di fondo con la necessaria convinzione. La sinistra è solidale? Certo, ma purché questo non metta in causa la produzio-ne; e poi il settore pubblico o il terzo settore sono inefficienti; e ancora, lo Stato del benessere costa troppo – pro-prio come la destra. Eguaglianza fra uo-mini e donne? Ovviamente! Ma chi si ricorda della campagna elettorale per le presidenziali in Francia, nella quale una buona fetta del Partito socialista ha massacrato Segolène Royal in quanto donna? Dov’è una campagna seria per più servizi sociali che favoriscano l’im-piego delle donne? Come si combatte la crisi? Boh! E poi i distinguo. La destra si unisce – mancando forti ideologie è ovvio che prevalga la volontà unitaria. La sinistra si divide, come negli anni 70 (i marxisti leninisti linea nera o ros-sa!), si permette di far cadere i propri governi per far vedere chi è più tosto, si permette, si veda la questione dei lavoratori italiani o portoghesi in Gran Bretagna, in un settore particolare, di discriminare i lavoratori sulla base della cittadinanza, racconta storie che non stanno in piedi, in alcuni paesi si concede l’oscar delle ruberie – sempre mancando forti ideologie.

Al di là delle battute, mi sembra che la sinistra sia incapace di proporre programmi e metodi di lavoro. Questo è assolutamente paradossale, perché, poi, al livello locale, ci sono esempi di strategie di sinistra gestite brillan-temente e efficacemente. D’altra par-te, al livello europeo la sinistra parla pochissimo e non agisce in comune; il declino del sindacato europeo, per esempio, ne è un figlio assolutamen-te legittimo. Ma, in queste condizioni,

perché un elettore di sinistra dovrebbe scomodarsi per andare a votare: tanto, il voto europeo non serve per buttar fuori Berlusconi o Sarkozy! Credo che la sinistra dovrebbe tornare a pensare al mondo di oggi e di domani. L’illu-sione che tanto prima o poi gli elettori si accorgeranno di quanto sia cattivo il Berlusconi di turno e torneranno, per miracolo, a votare a sinistra dovrebbe essere cancellata.

In Italia, poi, la sinistra si è diver-tita a svariare. È noto che nel mondo delle tribù e dei clan primitivi la virilità è una dote essenziale per detenere il potere, per comandare. Normalmen-te, una sessualità largamente esposta nelle nostre civiltà è una prerogativa dell’estrema destra che cerca ragioni per il governo di capi naturali (cosa di più naturale che una forte pulsione sessuale?). Puntualmente, la sinistra è caduta in trappola, una vera e ben or-ganizzata trappola, mi pare! Noemi, le presunte orge alla Villa del premier, le veline in lista, la moglie tradita e trat-tata con assoluta maschia condiscen-denza non hanno avuto l’effetto scan-dalizzante sperato dalla sinistra che ci si è buttata a capo fitto. Tutt’altro: hanno mostrato la “virilità” del capo! Quanti uomini maturi, prima di pro-vare un eventuale disgusto (comun-que la ragazza in questione è proprio piccola, comunque i soldi dello Stato sono stati usati per fini, come dire?, non istituzionali) hanno provato invi-dia e si sono morsi la lingua per non essere anche loro a Villa Certosa? E vai! Il Presidente operaio diventa an-che super maschio: ma davvero vale la pena di votarlo! Il “successo” della sinistra è stato completato dal fatto che le (piccole) masse scandalizzate ab-biano votato per l’IdV, politicamente tendente a zero, ma ben decisa a de-nunciare il “maschiaccio”. Ma l’hanno fatto apposta o si sono solo clamoro-samente sbagliate?

Pudicamente, non parlerò dell’ef-fetto che il Maschio Capo ed i suoi pseudo-detrattori fanno sui nostri part-ners europei.

[ è da segnalare l’atteggia-mento, estremamente sba-gliato, di alcuni federalisti e di altri intellettuali che, in man-canza degli Stati uniti d’Eu-ropa considerano il parla-mento privo di poteri o l’Euro-pa politica solo una specie di finzione che cela il ruolo dei governi nazionali. ]

editoriale

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Segue dalla prima pagina >>>…alla utilizzazione dei derivati e della ingegneria finanziaria ha ribal-tato la tradizionale prassi bancaria. Una prassi secondo la quale la ban-ca concedeva credito alle imprese, generando un rischio, che ammini-strava affiancando la dinamica dei progetti finanziati ed agendo come un supervisore, ed una sorta di tuto-re degli imprenditori e dei manager, sui quali ricadeva la responsabilità diretta delle gestioni aziendali (origi-nate and hold). Nel trapasso dalla pri-mavera all’estate gli indizi e le prime impressioni sul carattere, la intensità e le cause dei fenomeni recessivi accu-

sati dall’economia campana sono di-ventati, progressivamente, insiemi di dati statistici assemblati e numerose, ed autorevoli, organizzazioni econo-miche hanno formulato le proprie dia-gnosi sui sintomi ed i dati che erano disponibili. Nel seguito di questo ar-ticolo cerchiamo di esporre ordinata-mente la dimensione macroeconomi-ca della recessione in atto in Campa-nia e le interpretazioni che riteniamo attendibili sulla sua origine.

In breve, e per anticipare il sen-so dell’analisi successiva, la crisi mondiale non è la determinante di fondo della recessione economica in atto nella regione. Una prolun-gata stagione di bassa crescita, in Italia, nel Mezzogiorno ed in Cam-pania, ha fiaccato da molti anni la struttura economica regionale ed ha determinato una fragilità endemica che è stata facilmente travolta dagli

effetti della crisi internazionale. Alla fragilità economica di un mercato, che cresce molto lentamente da ol-tre dieci anni, si affianca, inoltre, una crescente marginalità rispetto alle grandi correnti dell’economia mondiale. La seconda circostan-za, paradossalmente, ha forse im-munizzato, per una certa parte, le condizioni dell’economia locale dalle patologie e dalle tossine che la crisi finanziaria disseminava alla scala mondiale. Questa tesi viene avanzata, a giugno del 2009, dalla Svimez, e proposta come una sorta di prima anticipazione dei giudizi che troveranno una manifestazione compiuta nella presentazione del rapporto annuale, prevista per il 16 luglio 2009.

L’Italia, sostiene l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, ha trovato un fattore attenuante degli effetti negativi della crisi finanziaria mondiale nella cir-costanza che fosse ancora parziale l’integrazione dei propri intermedia-ri bancari e finanziari nei mercati internazionali. Ma, essendo debo-le la nostra economia ancor prima dell’impatto con la crisi – e qui lo scarto dal resto del mondo diventa un handicap – non riusciamo ora a riprenderci tempestivamente dal trauma della crisi.

Veniamo da dieci anni di lenta crescita; abbiamo accumulato uno squilibrio crescente tra efficienza aziendale e deficienze della pub-blica amministrazione; siamo ral-lentati da una sorta di sproporzione tra la capacità di produrre, di una parte delle nostre imprese, e la de-ficienza dei fattori che dovrebbero garantire la produttività dell’intero sistema: infrastrutture condivise, processi di innovazione tecnologi-ca e diffusione della conoscenza. La crescente disarticolazione del si-stema economico, come strumento di alimentazione della crescita, ha anche attenuato la capacità di coo-perare tra le parti del sistema ed ha

indebolito, di conseguenza, l’effica-cia delle politiche che dovrebbe es-sere realizzata grazie alla coesione dell’azione collettiva. La caduta dei livelli di cooperazione e di coesione sociale ha compromesso la produt-tività di sistema per l’intera econo-mia italiana ed è venuta meno una leva decisiva per la produttività di ognuna delle entità che partecipa-no al sistema.

Questo impianto diagnostico, sulla frammentazione e gli attriti che penalizzano l’economia del pae-se, si poteva leggere chiaramente anche nella “considerazioni finali” presentate, come di consueto, dal Governatore della banca centrale, Mario Draghi nell’ultima settimana di maggio.

Combinando i dati anticipati dalla Svimez e l’impianto analitico proposto da Draghi, si può trovare una chiave di lettura adeguata per capire quale sia la relazione tra la dinamica economica meridionale e quella della Campania. I numeri dei record regionali negativi della Cam-pania per il 2008 sono molto pre-occupanti: il più basso reddito pro capite tra le regioni italiane (16.746 euro all’anno, contro i 17.970 della media meridionale, i 26.276 euro della media nazionale ed i 30.680 del centronord); una caduta del pil di quasi tre punti percentuali contro la media meridionale che flette solo in una dimensione pari ad un –1,1%, allineandosi alla media italiana e del centronord che restano nell’intor-no di un punto negativo di pil; un tasso medio annuale di crescita del pil, negli ultimi dieci anni, inferiore a quello del Mezzogiorno (0,4% in Campania e 0,6% nel Mezzogiorno) mentre la media italiana (0,9%) e quella del centronord (1%) appaio-no mediocri ma prossime o superio-ri all’unità. Peggio della Campania, in questo ultimo indicatore della media annua dell’ultimo decennio, fanno solo Abruzzo e Basilicata. In altre parole, la Campania rappre-

LA DELuDENtE DINAMICA

ECONOMICA DELLA CAMpANIA

Massimo Lo Cicero

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senta buona parte del problema, irrisolto, della crescita meridionale. È naturale, se si considera che la re-gione ospita larga parte della popo-lazione del Mezzogiorno continen-tale e che, nel periodo 2000/2007, per il quale disponiamo di una serie storica omogenea di dati Istat sulla dimensione del prodotto interno lordo delle regioni italiane, il pil della Campania è stabilmente pari al 6,4% di quello italiano mentre quello del Mezzogiorno è, altrettan-to stabilmente, pari al 24% di quello italiano. Un quarto della ricchezza prodotta nel Mezzogiorno viene prodotta in Campania.

Ma in Campania, mediamente, risiede un decimo della popolazio-ne italiana mentre, nel mezzogior-no, la dimensione della popolazio-ne si adegua a circa un terzo del totale nazionale. Lo squilibrio tra demografia ed economia, tra popo-lazione e ricchezza prodotta, che si legge in tutto il Mezzogiorno, nella nostra regione è più profondo per la dimensione assai più larga del-la popolazione rispetto al reddito rispetto alla medesima proporzio-ne calcolata per l’intero Mezzo-giorno. La eccessiva, rispetto alla capacità di produrre, dimensione demografica genera anche l’odiosa ferita di una elevata disoccupazio-

ne strutturale: che è solo la natura-le conseguenza di una politica che non riesce a chiudere il divario di produttività, tra la regione ed il re-sto del paese.

Un fallimento che trova, a sua volta, origine nella incapacità di ot-tenere risultati positivi nella creazio-ne di infrastrutture e nella dilatazio-ne della base industriale ed eco-nomica, sia nel numero che nella dimensione delle imprese esistenti.

Segnaliamo anche un ultimo dato singolare: il mediocre tasso di crescita nel decennio (0,4%) è lo stesso che si legge nel caso del Pie-monte. Piemonte e Campania han-no la medesima struttura industria-le (automotive, aerospazio, vino, cultura e ricerca, turismo) mentre la medesima banca, il gruppo In-tesa, si presenta con una posizio-ne dominante sul mercato regiona-le ma, ovviamente, esistono anche grandi differenze tra le due regioni: nel peso demografico, che per noi è troppo; nella cultura industriale diffusa e nella base produttiva ma-teriale, che a noi mancano.

Ma dovremmo riflettere in futu-ro su come gestire questo minimo comune denominatore integrando le relazioni imprenditoriali tra le due economie che, fondate su grandi imprese e filiere integrate di sub-

fornitori governate da quelle stesse grandi imprese, dovrebbero adot-tare modelli confederali di politica economica e non chiudersi nella trappola dello sviluppo endogeno, fondato su sistemi di piccole e me-die imprese, integrate tra loro nella mera dimensione locale.

“Ogni paese affronta la crisi con le sue forze, le sue debolezze, la sua storia. La risposta alla crisi è anche nazionale: i suoi effetti saranno per noi italiani più o meno gravi a se-conda delle scelte che noi stessi fa-remo. Negli ultimi venti anni la no-stra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte. Dob-biamo essere capaci di levare la te-sta dalle angustie di oggi per vedere più lontano.

Una risposta incisiva all’emer-genza è possibile solo se accompa-gnata da comportamenti e da rifor-me che rialzino la crescita dal basso sentiero degli ultimi decenni” scri-ve Mario Draghi nell’ultima pagina delle sue considerazioni relative alla dinamica dell’economia Italiana nel 2008. Il medesimo approccio possia-mo usare per formulare un giudizio sull’economia della nostra regione e sulla politica economica necessaria per ritrovare la crescita e, così facen-do, la capacità di produrre le risorse necessarie per chiudere i problemi, superare gli ostacoli e fare rimargina-re le ferite che la disoccupazione e la povertà lasciano nel corpo socia-le come nel regime di legalità della nostra economia. Dovremmo, in-somma, seguire il consiglio di Mario Draghi: smettere di lamentarci delle angustie di oggi e guardare lontano, allargando il nostro orizzonte di ri-ferimento.

Ma, contemporaneamente, do-vremmo anche scegliere la strada di comportamenti nuovi e diversi, ca-paci di rialzare la crescita dal basso sentiero che abbiamo percorso negli ultimi decenni.

Dieci anni deludenti e le origini remote della delusione

Il tratto più evidente, lo abbia-mo già detto, dell’ultimo decennio, il primo del ventunesimo secolo, in Campania è la modestia del tas-so di crescita nominale annuo del prodotto interno lordo. Ma questo profilo stagnante della crescita di lungo periodo non è un carattere regionale ed originale dell’economia campana: l’Italia ed il Mezzogiorno sono convergenti in questa modesta modalità della crescita. Le cause di questa mancata crescita sono mol-te ed abbastanza note. Nonostante questa consapevolezza è molto te-nue l’impegno, sul piano nazionale come su quello regionale, per pro-gettare e realizzare politiche capaci di aggredire e ribaltare lo stato delle cose. Fattori depressivi della crescita sono il dualismo tra nord e sud del paese, la inefficienza operativa della pubblica amministrazione e gli attriti che questa inefficienza produce nel-le dinamiche sociali e nella produtti-vità media del paese, la rigidità de-gli impianti contrattuali sul mercato del lavoro e la carenza di capitale fisso sociale, le grandi infrastruttu-re tangibili ed intangibili necessarie come scheletro della capacità di produrre da parte delle imprese. La fragilità finanziaria del settore pub-blico, l’eccesso di debito, invece, è un problema che complica la ricerca delle soluzioni, una causa ulteriore di debolezza, ma non è certa la de-terminante principale della mancata crescita. La finanza, pubblica o pri-vata che sia, riflette e supporta, am-plificandola quando funziona bene, la crescita reale ma sono le risorse materiali, impianti, infrastrutture e capacità di lavoro, che alimentano la crescita reale.

[ I numeri dei record regionali negativi della Campania per il 2008 sono molto preoccu-panti: il più basso reddito pro capite tra le re-gioni italiane (16.746 euro all’anno, contro i 17.970 della media meridionale, i 26.276 euro della media nazionale ed i 30.680 del centro-nord); una caduta del pil di quasi tre punti per-centuali contro la media meridionale che flette solo in una dimensione pari ad un – 1,1 %, alli-neandosi alla media italiana e del centronord che restano nell’intorno di un punto negativo di pil; un tasso medio annuale di crescita del pil, negli ultimi dieci anni, inferiore a quello del Mezzogiorno (0,4% in Campania e 0,6% nel Mezzogiorno) mentre la media italiana (0,9%) e quella del centronord (1%) appaiono medio-cri ma prossime o superiori all’unità. ]

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9La finanza, comunque, non è suf-

ficiente per garantire la crescita ma è certamente necessaria: senza finanza non si avvia né si consolida lo svilup-po economico.

Senza finanza non si può soste-nere la sfida di investire per creare le condizioni per la crescita. Non può, d’altra parte esserci credito senza de-bito: sono solo le due facce della sfida contro il futuro incerto.

Di conseguenza, non può esistere crescita, in Italia o nel Mezzogiorno, senza un ritorno ad una espansione del credito bancario e della spesa pub-blica per finanziare nuove infrastruttu-re. Deriva dalla convergenza verso un regime di lenta crescita, e di mancato incremento della produttività di siste-ma, l’affanno dell’Italia settentriona-le a reggere il progressivo ed intenso processo di rivalutazione, dell’euro sul dollaro, nel decennio considera-to. Deriva da questa circostanza an-che la mancata chiusura del divario, ancorché parziale, tra economia set-tentrionale e Mezzogiorno. Deriva da questa circostanza, infine, la nascita di una grande contraddizione interna alla Campania: il conflitto oggettivo tra un’area metropolitana, Napoli, poten-zialmente la terza grande città italiana, e la parte rimanente della regione. Ma anche una sorta di contrapposizione soggettiva che oppone Napoli, la sua pessima reputazione ed i suoi proble-mi irrisolti, alla reputazione comples-siva del Mezzogiorno.

Veniamo ora ad un giudizio di merito sulle dinamiche economiche di lungo periodo. La politica economi-ca per il Mezzogiorno viene rimossa dall’agenda nazionale nel 1992: una grande crisi di stabilità finanziaria im-pone le ragioni del risanamento rispet-to a quelle della crescita.

Dalla maximanovra del Governo Amato, e per tutta la successiva sta-gione, aperta con “tangentopoli” ed approdata alla nascita della seconda repubblica, le politiche per il sud pas-sano in secondo piano.

Una tenue ripresa dell’attenzio-

ne verso la crescita meridionale vie-ne proposta da Ciampi nella seconda metà degli anni novanta con la ipote-si di una nuova programmazione che si sviluppi a partire dalla diffusione di forme di coesione sociale nelle co-munità locali.

I primi esperimenti in questa ma-teria di sviluppo locale danno qual-che risultato tra il 1998 ed il 2001 ma, subito dopo, quando viene co-struita, su queste basi, una “grande macchina” per l’utilizzo dei fondi europei (Agenda 2000), il contributo alla crescita economica del Mezzo-giorno, paradossalmente, si attenua notevolmente.

Agenda 2000, nella opinione di chi ha diretto con passione la sua rea-lizzazione, Fabrizio Barca, si è scon-trata con una economia frenata e gli attriti, di cui abbiamo già detto, hanno assorbito la spinta verso lo sviluppo deprimendo il tasso medio di cresci-ta del paese.

I tassi nominali di crescita, per la Campania e per il Mezzogiorno, si muovono in stretta sintonia. Sono più alti nel 2001 ma si riducono nel 2002 e precipitano nel 2003 sotto il 3% an-nuo. Sono tassi nominali e, dunque, depurati dall’inflazione, sono prossi-mi allo zero.

L’Italia e l’Italia del nord ovest non sono troppo distanti ma restano sem-pre sotto la soglia del 4% nominale annuo. La dinamica dei numeri indici mostra che il Sud e la Campania domi-nano solo di poco, e con la medesima pendenza, la crescita italiana: tendono a flettere nel 2006 e nel 2007 verso il basso. Le ultime rivelazioni conferma-no questa flessione che, dunque, era tendenza ancor prima della crisi mon-diale. Questa flessione precede la crisi del 2008 e ne amplifica, come vedia-mo oggi, le sue conseguenze.

Dato che quelle conseguenze insistono su una economia progres-sivamente debole e stressata. Resta da chiedersi quale sia stato il tratto interno, la configurazione endogena dell’economia campana negli anni che

ci separano dal 2000. La struttura in-terna dell’economia è molto stabile.

L’economia della Campania genera, con una certa regolarità il 6,4% del prodotto interno lordo ma i suoi consumi complessivi, pub-blici e privati, rappresentano l’8% del totale nazionale dei consumi. La popolazione della Campania, infine si adegua al 10% del totale nazionale. Il mercato del lavoro ci offre una ulteriore dimensione dello squilibrio strutturale che deriva dal-la combinazione di un eccesso de-mografico e di un deficit di capacità produttiva. La Campania presenta una dimensione del 16%, rispetto al totale nazionale, della presenza di disoccupati ed una dimensione quasi dell’8% per la presenza di oc-cupati. La recessione del 2008 sta

deteriorando ulteriormente questa asimmetria già pericolosa.

Si osservi, combinando le quo-te del mercato del lavoro con quelle della capacità di produzione, come emergano squilibri inquietanti:

una quota di occupati superiore a • quella del pil, con la conseguenza di una ridotta produttività media rispet-to ai valori nazionali della stessa;una quota di disoccupati molto su-• periore a quella della popolazione, che rappresenta un chiaro segna-le di ipotrofia imprenditoriale e dell’assenza di un adeguato schele-tro produttivo nella regione;una quota dei consumi allineata • a quella degli occupati, in quan-to questi ultimi sono capaci di ge-nerare la spesa grazie al reddito conseguito;

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10una quota degli investimenti che, • contabilmente, essendo la somma di consumi ed investimenti corri-spondente a quelle delle risorse prodotte e di quelle importate, fi-nisce per avere un valore economi-co paria quello delle importazioni nette delle regione.

Ne emerge il quadro di una economia dipendente da quella na-zionale per poter alimentare il pro-prio flusso reale di investimenti ma, ovviamente e simmetricamente, di una pentola bucata che trasferisce all’esterno, con la propria domanda di consumi ed investimenti, una buona parte dei fondi conferiti finanziaria-mente alle imprese, agli enti pubblici ed alle persone che godono di sus-

sidi sul reddito. Una economia che rimarrà incapace di crescere se non sarà capace di espandere la propria armatura produttiva e la propria pro-duttività di sistema, fino diventare un economia esportatrice netta, utiliz-zando meglio e diversamente i fondi finanziari che le vengono trasferiti, dal Governo italiano direttamente ed, indirettamente, attraverso la Commis-sione Europea.

Alla ricerca della crescita perduta

Seguendo una tradizione ormai consolidata, la banca centrale ha re-

datto un dossier sull’economia della Campania nel 2008 e lo ha presen-tato a Napoli con la partecipazione del suo Direttore Generale, Fabrizio Saccomanni.

Nella sua diagnosi la mancata crescita della campania negli ultimi dieci anni sconta tre fattori regressi-vi: il fatto che “nel decennio che si avvia a concludersi, quel recupero dell’economia meridionale di cui gli anni novanta ci avevano offerto qualche confortante evidenza si è fermato” sostituito da “una crescita inferiore a quella, già insoddisfacen-te, del resto del Paese”; la oggettiva evidenza che “le politiche per lo svi-luppo regionale hanno in parte man-cato gli obiettivi: la spesa effettiva è stata a volte inferiore a quella pre-ventivata; gli aiuti alle imprese sono stati spesso inefficaci o distorsivi” e che “soprattutto, si è fatto poco per cambiare quegli aspetti del contesto socio-economico e istituzionale che più rilevano per lo sviluppo, come la legalità, l’istruzione, il concetto stesso di servizio pubblico”. Infine, e questa è la terza causa della sta-gnazione, “anche il disegno delle politiche nazionali ha inciso negati-vamente. Vi è ampia evidenza che l’effetto di molte norme nazionali sia differenziato sul territorio: l’efficacia è mediamente minore nel Mezzo-giorno. Al Sud si ritrovano, esacerba-te, molte grandi questioni nazionali. Ad esempio, il potenziamento delle infrastrutture fisiche è ostacolato al Sud, più ancora che nel resto d’Ita-lia, da maggiori carenze di program-mazione e progettazione, oltre che dalla pervasiva presenza di attività criminali”.

Insomma, la politica economica della Campania ha dato il suo con-tributo negativo ma anche le politi-che nazionali non ci hanno aiutato e la crescita stessa dell’Italia è stata inadeguata. Se cresce il Sud cresce l’Italia ma se cresce l’Italia anche il Sud, forse, cresce meglio e con una spinta esogena importante. Appare

evidente come la scelta di una cre-scita endogena e locale, nel contesto nazionale di una economia che sta-va ferma ed era avara di investimen-ti verso la sua parte sottoutilizzata, non fosse assolutamente la priorità da coltivare, come è stato fatto, in-vece, dal Governo regionale.

Negli anni novanta la Campania aveva accumulato un gap ulteriore di ordine qualitativo: molte grandi or-ganizzazioni imprenditoriali, econo-miche e finanziarie, erano state ridi-mensionate nelle dimensioni e nella propria capacità di Governo: una sorta di crisi, assolutamente perni-ciosa, della grande dimensione nel Governo dell’economia che lascia-va disarmata, ed ancora più fragile di quanto non sia per natura e per tradizioni operative, la organizza-zione delle Regione: che rimaneva il solo residuo presidio disponibile per articolare una politica economi-ca locale ma anche coordinata con le filiere nazionali che percorrono il tessuto economico. In questo conte-sto la diagnosi della banca centrale dice esplicitamente che “il forte peg-gioramento del tono congiunturale si innesta all’interno di un ciclo eco-nomico già negativo per la regione. Il PIL della Campania, dopo essere aumentato a ritmi superiori alla me-dia nazionale tra il 1997 e il 2002, nel successivo quinquennio ha mo-strato infatti la più bassa crescita tra le regioni italiane. In rapporto alla popolazione, la variazione cumulata del prodotto tra il 2007 e il 2002 è stata negativa (-1,0 per cento, contro il +2,3 per cento delle altre regioni meridionali ed un +0,9 per cento del Centro Nord)…

Nello stesso periodo, le regioni in ritardo di sviluppo di alcuni paesi europei caratterizzati da significati-ve situazioni di dualismo territoriale, come la Spagna o la Germania, sono cresciute a ritmi elevati e non inferiori alle rispettive medie nazionali”. Non solo la Campania si presenta peggio dell’Italia, in termini di tasso di cre-

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11scita, ma anche peggio dell’Europa. Siamo in una spirale viziosa dove una storia bacata conduce ad un presente nel quale l’effetto slavina è evidente. Come descrive bene il documento della banca centrale.

“Nel 2008 il valore aggiunto prodotto negli stabilimenti industriali della regione è diminuito del 4,8 per cento a prezzi costanti… Secondo l’Indagine sulle imprese industriali della Banca d’Italia lo scorso anno (il 2008) il fatturato delle aziende cam-pane con almeno 20 addetti è calato del 2,5 per cento a prezzi costanti. Il negativo andamento ha riguardato la quasi totalità delle classi dimen-sionali e dei settori di attività, con l’eccezione del comparto alimenta-re e delle imprese del relativo indot-to, dove il fatturato ha continuato a crescere sebbene a ritmi rallentati. In base alle valutazioni delle im-prese, l’effetto della crisi si dovreb-be manifestare con intensità ancora maggiore nel 2009: le stime fornite prefigurano un calo del fatturato, per l’anno in corso, pari al 3,5 per cento a prezzi costanti…

Il 60 per cento delle imprese ritiene inoltre che la negativa fase congiunturale non si esaurirà entro il 2009. I principali canali di manifesta-zione della crisi sono stati il calo degli ordinativi e le difficoltà di pagamento dei clienti, con oltre i tre quarti degli intervistati che giudicano “forte” o “molto forte” l’impatto di tali variabili sull’azienda. La principale iniziativa, adottata o prevista dalle imprese per far fronte alla crisi, ha in larga mag-gioranza riguardato il contenimento dei margini di profitto e dei costi: solo una quota minoritaria del cam-pione (15 per cento circa) ha indica-to quale strategia primaria di reazio-ne la diversificazione dei mercati di sbocco o il miglioramento qualitativo dei prodotti; circa l’8 per cento delle imprese prevede una riduzione della scala produttiva … nell’ultimo trime-stre del 2008 e nel primo del 2009, il grado di utilizzo degli impianti è

stato inferiore al 65 per cento (tav. a6), quasi 3 punti in meno rispetto al minimo storico rilevato nel primo trimestre del 1992. L’ulteriore cresci-ta dei margini inutilizzati di capacità produttiva e l’incertezza sulla durata della fase recessiva hanno influito sul-la spesa per investimenti che, in base alle indicazioni fornite dalle imprese con sede in regione, è rimasta pres-soché invariata rispetto al 2007, risul-tando di circa il 9 per cento inferiore rispetto a quanto programmato a ini-zio anno dalle stesse aziende. Queste ultime prevedono una sensibile ridu-zione dei programmi di investimento per il 2009”.

Queste sono solo poche frasi del documento, offerto dalla Banca d’Italia sull’economia della Campa-nia, che si può, comunque, leggere at http://www.bancaditalia.it/pub-blicazioni/econo/ecore/note/2008/campania/Campania_2008.pdf.

Sulla diagnosi esiste, quindi, una larga convergenza.

Si può pensare ad una terapia per venirne fuori?

Non servono medici pietosi e pannicelli caldi. Si deve lavorare con intensità e con intelligenza; si deve ricercare il supporto delle grandi imprese private nazionali ed inter-nazionali per ridare spessore e tono allo scheletro industriale.

Sarebbe necessario at tirare grandi strutture di servizio e di pro-duzione nella Regione. Allargare la base industriale delle filiere esisten-ti; coinvolgere organizzazioni per lo sviluppo della cooperazione in-ternazionale, nei Balcani e nel Nor-dafrica. Attirare agenzie di governo ed organizzazioni finanziarie capa-ci di valutare e supportare i progetti infrastrutturali.

Lavorare con il gruppo Intesa per ampliare la operatività e le capaci-tà di intervento del Banco di Napoli nella prospettiva, di medio periodo, che la banca possa essere quotata di nuovo e possa vedere l’impegno diretto di attori imprenditoriali e di

famiglie meridionali nel suo capi-tale. Infine, bisognerebbe chiude-re la stagione del completamento dei progetti finanziati dal terzo ci-clo (2000/2006) dei fondi europei e proporre impieghi intelligenti per gli oltre dieci miliardi di euro disponi-bili per l’ultimo ciclo delle politiche europee: quello dedicato ad investi-menti che dovranno essere certificati e collaudati entro il 2015, due anni dopo il 2013: anno in cui termina, appunto, l’ultima stagione possibile di supporto finanziario europeo.

Si tratta di una missione dalle ridotte possibilità di successo: con-siderato il limitato tempo disponi-bile, la congiuntura recessiva che si manifesterà almeno fino a tutto

il 2010 e la incombente prospetti-va delle elezioni per il rinnovo dei consigli regionali. Una combinazio-ne di eventi, quella che abbiamo appena descritto, ostili oggettiva-mente alla predisposizione ed alla gestione di una manovra di politica economica che abbia un respiro di lungo periodo.

Una scommessa in questa di-rezione richiederebbe una larga e grande condivisione delle poche grandi scelte da realizzare ed una efficace gestione della loro realiz-zazione. Poche acrobazie elettora-li e molta intelligenza operativa. È l’unica, improbabile ma necessaria, opzione per ritrovare davvero la cre-scita nei prossimi dieci anni.

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oun voto più omogeneo delle grandi città?Napoli col voto del 6 e 7 giu-

gno 2009 sembra aver perso una delle particolarità che nel passa-to l’ha fortemente caratterizzata rispetto alle altre grandi città e al resto del Paese.

Tante volte dal dopoguerra ad oggi le urne del Capoluogo cam-pano hanno amplificato i risulta-ti nazionali. Nel 2008 Il Popolo della Libertà a Napoli aumenta di 9 punti percentuali rispetto ai voti di FI e di An del 2006, men-tre livello nazionale la crescita è di soli 1,34 punti. Nel 2006 L’Uli-vo nella Città partenopea realiz-za una crescita di 3,66 punti, nel resto del Paese ha un incremento di appena 0,18. Nella stessa con-sultazione Forza Italia a Napoli perde 8,62 punti percentuali, in Italia 5,71.

Nella consultazione del 6 e 7 giugno 2009 non è stato così. Fatta eccezione per il PDL che mostra una perdita maggiore di 2 punti percentuali rispetto a quella subita a livello nazionale, le va-riazioni conseguite dalle diverse liste sono sostanzialmente della stessa entità di quelle riportate nelle altre aree d’Italia.

Le elezioni europee hanno at-tenuato o fatto venir meno anche un’altra particolarità del compor-tamento elettorale dei napoletani: la spiccata tripolarità del voto con un forte “voto di destra”. Il 41,1% conquistato a Napoli dal PDL nel 2009 non è molto distante dai valori che il partito guidato da Berlusconi presenta in alcune al-tre grandi città. Alle europee del 2004 il contenimento del Polo di destra è ancora più evidente, sommando il dato di FI e di AN si

arrivava a 29,18 punti percentuali, un dato inferiore a quello italiano (32,4%) e a quello di gran parte delle altre grandi città. Ma anche il singolo valore napoletano di AN (12,89%) del 2004 non si di-scosta molto da quello nazionale (11,56%) e da quello dei maggiori comuni del Paese.

Il voto europeo ci conse-gna quindi una Napoli in parte mutata, dentro un processo di omogeneizzazione (stiamo sem-pre parlando dei comportamenti elettorali) con le altre grandi cit-tà italiane.

Sono venute anche meno molte delle modalità del passato di espressione del voto, la ‘geo-grafia elettorale’ della città nelle sue diverse zone e quartieri..

Nella Napoli del dopoguerra erano visibili una città di destra nella parte interna, una città di centro nella periferia occidentale dove era forte la presenza conta-dina, ed una città di sinistra nei quartieri orientali dove prevale-va la componente operaia (Prof. Guido D’Agostino). La forte ca-pacità di orientare il voto delle tre città era frutto, ma soprattutto indicatore, di un tessuto sociale ricco, dell’esistenza di comuni-tà, grandi e piccole. Comunità che potevano essere costituite da grandi nuclei familiari, da mem-bri di comunità parrocchiali, da-gli abitanti di un caseggiato, di un vicolo, di una strada, di un rione, dagli iscritti a sezioni di partito, dai componenti di polisportive, di associazioni operaie, e da tante altre entità collettive dove erano notevoli i legami tra i componen-ti, i rapporti di solidarietà e il sen-

so di appartenenza. I legami tra i componenti di queste comunità permettevano anche di orientare fortemente il voto. È questo che per anni ha reso possibile mar-care in modo netto il comporta-mento politico – elettorale delle diverse aree della città. Per lungo tempo in queste zone, in queste città nella città, il peso del voto di destra o di sinistra poteva au-mentare o diminuire ma rimaneva comunque preponderante. Oggi non è più così, le città del dopo-guerra, di destra, di centro e di sinistra, ricche di rapporti, di le-gami, di momenti di aggregazioni non esistono quasi più. Ne deriva che non esistono quasi più aree, o quartieri ad esclusivo appan-naggio di un determinato tipo di voto. L’unico quartiere dove dal dopoguerra ad oggi è prevalso sempre lo stesso orientamento politico, quello di sinistra, è San Giovanni a Teduccio. È venuta meno la capacità di orientamento al voto delle città di un tempo, un segnale che gran parte del tessuto sociale su cui quelle città si fon-davano non esiste più. Man mano che Napoli diventava meno ricca di relazioni sociali, di vita associa-tiva, di momenti di aggregazione, in grado di orientare il voto, si ri-ducevano le differenze elettorali tra i diversi quartieri della città. Questo perché le modalità del passato di indicazione al voto, di conquista dei consensi, sono state in parte soppiantate da altre che hanno la particolarità di essere le stesse nell’intera Penisola.

Grandi città dunque meno ricche da un punto di vista sociale ma più omogenee, più simili tra

loro per quanto riguarda l’espres-sione del voto.

Il tipo di consultazione elet-torale il 6 e 7 giugno ha mostra-to quelle particolarità che già in precedenza avevano caratteriz-zato le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Il dibattito-si è incentrato su temi di politica nazionale con una conseguente scarsa attenzione per i temi e per le questioni legate al processo di unificazione europea.

Il Non voto, inteso come som-ma degli astenuti, delle schede bianche e delle schede nulle, ha confermato una maggiore inten-sità rispetto ad altri tipi di con-sultazioni elettorali. E ancora una volta le elezioni europee hanno costituito l’occasione per misura-re il consenso delle formazioni po-litiche nazionali. Sono proprio questi elementi, tipici delle elezioni europee, che fanno considerare, ad alcuni stu-diosi, (a mio avviso erroneamente) questo tipo di consultazione elezioni secondarie.

Responsabile Servizio Statistiche del Co-mune di NapoliLe tavole sono state redatte con il contri-buto di Giuseppe Laganà. I dati sono stati tratti dal sito del Ministero dell’Interno.

Vincenzo Mauriello

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GrAndi CoMuni non VoTo ConfronTo

Europee Camera Europee2009-2008 2009-2004

2009 2008 2004

Torino 38,6 - 35,2 - 3,4

Milano 36,7 20,8 34,2 15,9 2,6

Genova 42,6 25,9 33,8 16,7 8,8

Bologna 24,7 - 20,8 - 3,9

Firenze 27,3 18,1 26,0 9,2 1,3

Roma 44,8 22,0 34,9 22,8 9,9

Napoli 50,5 34,4 45,6 16,1 4,9

Bari 33,5 - 34,9 - -1,4

Palermo 59,4 - 48,8 - 10,6

Catania 58,3 - 47,1 - 11,2

italia 37,8 - 33,3 - 4,5

CoMuni CAPoLuoGo dELLA CAMPAniA

Napoli 50,5 34,4 45,6 16,1 4,9

Salerno 37,0 - 34,9 - 2,1

Caserta 46,4 26,7 36,6 19,8 9,9

Benevento 44,5 - 40,6 - 3,8

Avellino 25,3 - 31,2 - -5,9

Campania 42,1 - 39,9 - 2,2

Italia Meridionale 43,0 - 39,7 - 3,2

italia 37,8 - 33,3 - 4,5

GrAndi CoLLEGi – ELEzioni EuroPEE

I Italia – Nord Occidentale 31,6 - 29,8 - 1,8

II Italia – Nord Orientale 30,7 - 27,6 - 3,1

III Italia – Centrale 34,9 - 29,9 - 5,0

IV Italia – Meridionale 43,0 - 39,7 - 3,2

V Italia – Insulare 56,9 - 44,0 - 12,9

italia 37,8 - 33,5 - 4,3

NON vOtOIL V

OTO

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Una delle particolarità delle con sul tazione elettorali per il rinno-vo del parlamento europeo è rap-presentata dalla scarsa partecipa-zione al voto, da un alto valore del Non Voto, inteso come somma de-gli astenuti, delle schede bianche e delle schede nulle. Questo fenome-

no, che nel corso degli anni ha as-sunto dimensioni sempre maggiori, in occasione delle elezioni europee manifesta aumenti più consistenti ri-spetto a quelli prodotti dagli altri tipi di tornate elettorali. Alle elezioni del 6 e 7 giugno il Non Voto a livello na-zionale ha raggiunto il 37,8% e nel

IV Collegio, quello relativo all’Italia Meridionale, riguarda ormai il 43% degli aventi diritto al voto.

A Napoli, dove questo fenome-no ha sempre manifestato una inten-sità decisamente superiore a quella nazionale e a quella dei grandi co-muni del centro nord, alle elezioni

di giugno più della metà (50,5%) degli iscritti nelle liste elettorali non hanno manifestato nessuna indica-zione di voto.

Nel 2009 il Non Voto nel-la Città partenopea sopravanza il dato nazionale di 12,7 punti per-centuali.

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17 IL VOTOd

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GrAndi CoMuni iL PoPoLo dELLA LibErTà fi e An ConfronTo

Europee Camera Europee2009-2008 2009-2004

2009 2008 2004

Torino 28,8 31,6 27,3 -2,8 1,5Milano 37,2 36,9 37,4 0,3 -0,2Genova 29,6 32,0 26,4 -2,4 3,2Bologna 27,1 27,1 29,6 0,0 -2,4Firenze 30,2 29,4 28,0 0,7 2,2Roma 38,6 39,4 33,0 -0,8 5,6Napoli 41,1 45,4 29,2 -4,4 11,9Bari 44,6 47,6 39,3 -3,0 5,3Palermo 35,1 46,8 34,4 -11,8 0,7Catania 35,2 50,7 40,5 -15,5 -5,2italia 35,3 37,4 32,4 -2,1 2,8

CoMuni CAPoLuoGo dELLA CAMPAniA

Napoli 41,1 45,4 29,2 -4,4 11,9Salerno 39,0 45,5 33,6 -6,5 5,4Caserta 43,3 46,4 36,6 -3,2 6,7Benevento 47,4 46,1 28,5 1,3 19,0Avellino 33,1 34,1 33,3 -1,0 -0,2Campania 43,5 49,1 32,6 -5,6 10,9Italia Meridionale 41,9 45,5 33,0 -3,6 8,9italia 35,3 37,4 32,4 -2,1 2,8

GrAndi CoLLEGi – ELEzioni EuroPEE

I Italia – Nord Occidentale 33,4 34,0 32,1 -0,6 1,3II Italia – Nord Orientale 28,1 28,1 30,6 0,0 -2,5III Italia – Centrale 37,4 37,8 32,6 -0,4 4,8IV Italia – Meridionale 41,9 45,5 33,0 -3,6 8,9V Italia – Insulare 36,5 45,6 35,4 -9,1 1,1italia 35,3 37,4 32,4 -2,1 2,8

pDLIL pOpOLO DELLA LIBERtà a livello nazionale perde 2,13 pun-ti percentuali rispetto alle politiche del 2008 e ne guadagna 2,83 se consideriamo le precedenti euro-pee, quando si presentava diviso tra Forza Italia e Alleanza Nazionale.

Il IV Collegio, quello relativo all’Italia Meridionale, è l’ambito territoriale dove il PDL realizzando il massimo incremento rispetto al

2004 (+8,9%) conquista qua-si il 42% dei voti validi (41,91%), un livello di consensi superiore a quello raggiunto negli altri 4 collegi in cui è articolato il territorio nazionale.

Ed è proprio nel collegio che comprende le regioni del sud che per opposto il Partito Democrati-co subisce la maggiore flessione (- 6,8%).

Il Popolo della Libertà nella città

di Napoli presenta variazioni delle stesso segno ma decisamente più intense di quelle registrate a li-vello nazionale. Rispetto alle poli-tiche dello scorso anno perde 4,39 punti percentuali, una flessione qua-si doppia di quella riportata nel re-sto del Paese.

Se invece il confronto è con le consultazioni del Palamento Euro-peo del 2004, realizza un aumento

di suffragi (+11,89) che non trova ri-scontro in nessuna delle altre gran-di città; una crescita 4 volte quella realizzata nell’intera penisola. Con i risultati elettorali del 6 e 7 giugno 2009 il PDL si conferma o diventa il primo partito in tutti e 5 i grandi collegi delle elezioni europee, in Campania, in tutti i comuni capo-luoghi della regione e in 6 dei 10 grandi comuni considerati.

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IL VOTO

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GrAndi CoMuni PArTiTo dEMoCrATiCouniTi

nELL’uLiVo ConfronTo

Europee Camera Europee2009-2008 2009-2004

2009 2008 2004Torino 30,1 39,4 35,8 -9,3 -5,7Milano 25,1 33,7 29,8 -8,5 -4,7Genova 35,8 43,1 47,1 -7,3 -11,3Bologna 40,4 49,7 46,5 -9,4 -6,1Firenze 39,4 48,7 42,2 -9,3 -2,7Roma 31,6 41,0 36,3 -9,4 -4,7Napoli 27,3 35,0 36,8 -7,7 -9,5Bari 23,6 31,1 26,9 -7,5 -3,3Palermo 20,8 25,4 30,0 -4,6 -9,2Catania 19,3 21,2 29,3 -1,9 -10,0italia 26,1 33,2 31,1 -7,0 -5,0

CoMuni CAPoLuoGo dELLA CAMPAniA

Napoli 27,3 35,0 36,8 -7,7 -9,5Salerno 28,8 36,7 41,3 -7,9 -12,5Caserta 27,0 30,8 27,1 -3,8 -0,2Benevento 25,4 32,9 24,0 -7,5 1,4Avellino 28,9 35,9 31,9 -7,1 -3,0Campania 23,4 29,2 31,3 -5,8 -7,9Italia Meridionale 23,0 30,7 29,8 -7,7 -6,8italia 26,1 33,2 31,1 -7,0 -5,0

GrAndi CoLLEGi – ELEzioni EuroPEE

I Italia – Nord Occidentale 23,0 30,1 28,3 -7,1 -5,2II Italia – Nord Orientale 28,0 34,3 33,4 -6,3 -5,4III Italia – Centrale 32,4 41,2 35,8 -8,8 -3,5IV Italia – Meridionale 23,0 30,7 29,8 -7,7 -6,8V Italia – Insulare 25,0 28,2 27,3 -3,2 -2,3italia 26,1 33,2 31,1 -7,0 -5,0

IL pARtItO DEMOCRAtICO perde a livello nazionale 7 punti per-centuali rispetto alle politiche del 2008 e 5 rispetto alle precedenti euro-pee (Uniti nell’Ulivo). Nel IV Collegio che comprende le regioni del sud la perdita rispetto al 2004 è di 6,8 punti percentuali, la più alta flessione tra i cinque grandi collegi in cui è artico-lato il territorio nazionale. Si accentua pertanto il divario tra il valore nazio-nale del PD e quello relativo all’Italia

Meridionale, lo scostamento tra i due valori passa da 1,3 del 2004 a 3,1 del 2009. Il PD a Na-poli, come nelle altre grandi città del Centro Nord, presenta un valore su-periore a quello nazionale in tutte e tre le consultazioni considerate. Nel Capoluogo campano il Partito Demo-cratico rispetto alle politiche del 2008 subisce una perdita di consensi (-7,7%) sostanzialmente analoga a quella re-gistrata a livello nazionale (-7%). Se

invece i risultati del 7 giugno si confrontano con le europee

del 2004 la perdita del PD a Napoli è quasi il doppio (-9,5%) di quella re-gistrata nell’intera Penisola (-5%) ed è tra le più alte tra quelle subite da questo partito nei maggiori comuni italiani. L’andamento del PD nella Cit-tà partenopea è lo stesso che questo partito mostra nel complesso della regione Campania : una fortissima emorragia di consensi rispetto alle

precedenti europee e un altrettanto netto calo relativamente alle politiche del 2008. Nel 2004 Uniti nell’Ulivo era il primo partito della Città e go-deva di un vantaggio rispetto al PDL di 7,66 punti percentuali. Dal 2008 la situazione si è ribaltata, è il Parti-to Democratico in netto svantaggio rispetto al PDL, è al di sotto della principale formazione avversaria di 10,45 punti percentuali nel 2008 e di 13,71 nel 2009.

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RifoNDazioNeComuNiSta

Sinistra Europea,Comunisti Italiani

SiNiStRae LibeRtà

La LiSta di PiETro iTALiA dEi VALori è l’in-discussa vincitrice , insieme alla Lega Nord, delle elezioni del 6 e 7 giugno 2009. In più, a differenza di quello guidato da Bossi, mostra una crescita di suffragi generalizzata, aumenta consensi nell’inte-ra Penisola. A livello nazionale realizza un aumen-to di 3,6 punti percentuali rispetto alle politiche del 2008 e di 5,9 rispetto alle precedenti europee. Nel IV Collegio, che comprende le regioni del Sud, Italia dei Valori conquista il massimo dei consensi, il 10% dei voti validi, un dato maggiore di quello nazionale (8%) e decisamente superiore a quello degli altri 4 grandi collegi. Il valore napoletano di IDV, per le tre consultazioni considerate, è sem-pre superiore a quello nazionale ed è uno dei più alti tra le grandi città considerate.

La LEGA nord, con Italia dei Valori, è l’effettiva vincitrice delle elezioni del 6 e 7 giugno. Con il 10,2% dei consensi si conferma terzo partito no-nostante le adesioni le arrivino solo da alcune aree del Paese. La Lega è cresciuta di 1,9 punti percen-tuali se ci riferiamo alle politiche del 2008, se in-vece consideriamo le europee del 2004, con un aumento di oltre 5 punti percentuali, ha raddop-piato il suo peso elettorale. Il partito guidato da Umberto Bossi alle elezioni di giugno anche nel centro Italia ha conquistato un livello di suffragi

significativo, dallo 0,6% del 2004 è passato al 3% del 2009. A Napoli e nel sud della Penisola il nu-mero di voti alla Lega rimane trascurabile.

L’unionE di CEnTro con i risultati delle elezioni del 6 e 7 giugno 2009 conferma sostanzialmente la propria forza elettorale. A livello nazionale mostra un aumento di consensi dello 0,9 % rispetto alle politiche del 2008 e dello 0,6% rispetto alle pre-cedenti europee del 2004. Conquista i maggiori suffragi nella IV Circoscrizione – Italia Meridiona-le (8,5%) e nella V Circoscrizione – Italia Insulare (10,4%). Il dato dell’UDC, fatta eccezione per Pa-lermo, si distribuisce tra i grandi comuni senza par-ticolari differenze. A Napoli questo partito, come in quasi tutti i maggiori centri del Paese, si attesta su valori inferiori di quelli nazionali. Tuttavia dal 2004 al 2009 il dato napoletano dell’UDC si è av-vicinato a quello del resto del Paese, nel 2009 il divario si è ridotto a 1,4 punti percentuali.

Confrontando i voti che il 6 e 7 Giugno sono stati conquistati complessivamente dalle due liste del-la sinistra “radicale” con quelli avuti dalla Sinistra

Arcobaleno nel 2008, si rileva un aumento gene-ralizzato nell’intero Paese.A livello nazionale raddoppia la sua consistenza elettorale passando dal 3,1% dello scorso anno al 6,5 % del 2009. Questo recupero comunque non è sufficiente a ritornare ai livelli dell’europee del 2004, quando la somma dei consensi di Rifon-dazione, dei Comunisti Italiani e dei Verdi era di 10,94 punti percentuali. Il voto alla sinistra “radi-cale” nelle elezioni del 2009 mostra il suo massi-mo valore (9,2%) proprio nella IV Circoscrizione, che comprende l’Italia Meridionale. A Napoli il valore (9,5%) di questo voto è, tra le grandi città, inferiore solo a quello di Bari. Anche il recupero (+6%) realizzato nel 2009 nella Città partenopea rispetto alle politiche del 2008 è, tra i maggiori comuni, uno dei più consistenti.

Il PArTiTo rAdiCALE con i risultati delle ele-zioni del 6 e 7 giugno 2009 per il rinnovo del Parlamento Europeo presenta quasi lo stesso li-vello di consensi del 2004, con un trascurabi-le aumento di 0,2 punti percentuali. È proprio nella IV Circoscrizione (Italia meridionale) che questa formazione politica presenta il suo più basso valore (1,6%). Il dato dei radicali a Napoli (2,2%) è sostanzialmente analogo a quello delle altre grandi città del Sud ma decisamente al di-sotto di quello relativo ai maggiori comuni del Centro Nord.

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23Gli eredi di grandi culture po-

litiche annaspano, senza una bus-sola. Ma che significa essere “ere-de” di una cultura politica, legata intimamente a rapporti di forza e congiunture storico-strategiche? Non si rischia di ricevere solo de-biti e obbligazioni-spazzatura? O c’è da salvare principi e quali? Pe-raltro non è difficile osservare che c’è un rapporto fra l’incapacità di analizzare l’avversario all’altezza della sua vera consistenza, e quel vuoto d’idee che fa chiedere a tan-ti dove sia da ricercare quell’ara-ba fenice che si chiama Pd, quel mondo svuotato che si chiama si-nistra italiana.

Il Mezzogiorno scompare dall’agenda politica

La prima spia da accendere per rispondere alle domande indicate può essere il mutamento dell’agen-da politica italiana, a partire da molto tempo, da quegli anni novan-ta così decisivi, e clamorosamente confermato dal voto di aprile. In questo mutamento, va privilegiata anzitutto la scomparsa della que-stione meridionale dal tavolo della discussione strategica. È dagli anni ottanta, se si vuole, che il tema va-cillava, come ancora mostrano le inquietudini – anche concettuali e storiche – presenti in esperimenti pur importanti, da «Meridiana» al «pensiero meridiano» che irruppe negli anni novanta, esperimenti di novità fra loro diverse, ma sinto-maticamente incapaci di creare cultura politica. Il fatto nuovo è stato che, al suo posto, prima in forme più scomposte ed eversive, poi sempre più nette e istituziona-li, è emersa la «questione setten-trionale».

Non è difficile motivare la scel-ta che provo ora a sviluppare. Se l’assunto è fondato, a scomparire è il tessuto strategico della sinistra ita-

liana e un passaggio decisivo su cui si è costruita la stessa storia repub-blicana nel suo insieme. È la Lega che pose per prima quello che ho chiamato rovesciamento dell’agen-da, confermando così di costituire il vero e originario punto di rottura del sistema italiano: oggi incomin-cia a raccogliere i risultati del suo ormai lungo lavoro. Le modalità con le quali quel problema fu nominato e rappresentato, le mitologie rozze entro le quali visse per anni (e tal-volta ancora vive, ma ora solo mar-ginalmente, con miti ritornanti che non sono più, però, il nucleo duro di una identità) ne individuarono subito un tratto di clamorosa rot-tura, di aspra affermazione di una discontinuità.

Che cosa significò «questione settentrionale»

Significò, all’origine, secessione; divisione dell’Italia in due; insop-portabilità, dunque, per il Nord, del peso del Mezzogiorno, improdut-tivo, preda dell’illegalità criminale,

parassita e succhiatore delle risor-se del Nord; e poi, collegamento diretto del Nord con i processi di globalizzazione, con le regioni ric-che d’Europa; rigetto del problema della formazione di una coscienza nazionale e dello stesso problema del «dualismo italiano», ovvero di un tema (del tema dominante) intorno al quale si era formata la coscienza storico-politica non solo della si-nistra ma della stessa democrazia repubblicana. Mi capita spesso di ricordare uno splendido scritto di Ugo La Malfa che, criticando l’in-titolazione di un testo di legge che definiva il Mezzogiorno «zona de-pressa», ne esaltava il carattere di fonte primigenia della civiltà euro-pea, e muovendo da lì argomentava la necessità della sua rinascita. Da quindici anni, la Lega batte, all’op-posto, sul tasto di un Mezzogiorno da negare, rimodulandolo e «civiliz-zandolo», trovando oppositori ora soltanto ironici ora deboli e com-piacenti, sempre più subalterni, e sicuramente incapaci di una risposta che rovesci il rovesciamento. Peral-tro, così intesa, la questione setten-

trionale sta creando anche un senti-mento di massa, mostrandosi tutt’al-tro che inventata a tavolino, ed è un diffuso sentimento di ostilità verso tutto ciò vuol «entrare» nel Nord dall’esterno, siano insegnanti, impie-gati ecc. creando lo spazio di una secessione di fatto nei sentimenti e nelle relazioni umane.

Ironici, dicevo, gli oppositori so-prattutto a sinistra, e in tanti espo-nenti della cultura meridionalista: come si poteva immaginare che la rozzissima Lega, che derideva il tricolore e urlava improperi contro Roma ladrona, potesse smantellare il lavorio costante, raffinato, di sto-rici, politici, economisti, sociologi, dedicato a una elaborazione della coscienza nazionale, dell’Italia na-zione, largamente legato all’idea di un’unità che nascesse proprio dal superamento di quel dualismo e dal-la sua assunzione dentro una visione unitaria dello Stato?

La LegaLa verità era però molto sem-

plice: la Lega si era collocata dal punto di vista della realtà delle cose, si era fatta, all’inizio, tutt’uno con questa, dando coscienza uni-taria a forze disperse, malconten-te ma rassegnate, d’improvviso riflesse e rappresentate in quel grido di protesta, in quella sol-levazione primitiva che segnò la prima grande discontinuità dopo quella di Tangentopoli che aveva azzerato la forma politica del vec-chio sistema ma non aveva intac-cato – almeno così sembrava – la sostanza storica di quelle analisi fondamentali. […]

Forza ItaliaNel frattempo, e in parallelo, era

nata Forza Italia, e anch’essa aveva capito che nel Nord le si spalanca-va una prateria: per dirla nobilmen-te, il Nord conteneva un’altra lettura possibile della coscienza nazionale e dell’Italia politica.

MEZZOGIORNOALLO SBANDO

Dove si è persa la sinistra?

Stralci dal volumedi Biagio de Giovanni

“A destra tutta” Marsilio Editore

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24Forza Italia si collocava nel vuo-

to creato da Mani pulite e raccoglie-va quell’elettorato moderato che era rimasto senza rappresentanza, e che vi aderiva al di là delle sue componenti originarie, scomparse dalla scena, ma che incominciava-no ad affollare (anche con persona-lità importanti, cosa assai sintoma-tica) il nuovo scenario. Forza Italia fu il prodotto di una diagnosi intel-ligente sul carattere generale del-la crisi italiana e sulla possibilità di una risposta che non ripercorresse strade dove si sarebbero incontrate vecchie radici.

Forza Italia incontrò, invece, la Lega, e il reciproco approccio non è stato di quelli facili, dovendosi met-tere insieme il populismo originario di Forza Italia con il territorialismo duro della Lega, un tema che forse ancora adesso costituisce una con-traddizione irrisolta, anche se punti di tangenza fra quelle due rappre-sentazioni della politica ci sono, e sembrano funzionare nell’alleanza di governo. […]

La «rivoluzione» dei sindaci

Sul tema Mezzogiorno bisogna insistere ancora per la sua evidente centralità e per ragioni che ci condu-cono più vicini all’attualità. Il percor-so a zig-zag della Lega è connesso, da un lato, all’eccessività ritornante del suo discorso che talvolta rischia-va la marginalità, dall’altro all’aprirsi, proprio agli inizi degli anni novanta, in una fase critica del meridionalismo classico, di una stagione di speranze, soprattutto per il Sud, che sembrò spezzare l’immobilismo e rimise al centro il tema della sua moderniz-zazione. La speranza si è chiamata «rivoluzione» dei sindaci, e si dise-gnò, nel Mezzogiorno, come un im-pressionante vantaggio per il centro-sinistra – in controtendenza rispetto al trend nazionale – che possedeva lì un insediamento politico-intellet-tuale ancora di tutto rispetto. Fu un

momento che contribuì a spostare progressivamente la fluida transizio-ne italiana verso sinistra, perché il fenomeno «sindaci» superò anche i confini del Mezzogiorno. Non pochi immaginarono di aver trovato un al-tro criterio di rappresentazione del-la democrazia meridionale, nel qua-dro riconosciuto di un declino dello Stato-nazione e della fine dei grandi partiti-clientele di governo.

E ci fu chi – ricordo, fra i molti, Isaia Sales, ma pezzi interi della cul-tura postcomunista si lanciarono con voracità ideologica su quella che ap-pariva la via di uscita da una crisi pro-fonda – sembrò sostenere una sorta di nuova funzione salvifica di questa ipotetica rivoluzione, come se si fos-se ritrovata una chiave generale per interpretare addirittura la storia poli-tica dell’Italia dal punto di vista della rinascita meridionale: si immaginava che la rivoluzione dei sindaci avreb-be aiutato a liberarsi dal vecchio e corrotto sistema dei partiti e avrebbe segnato finalmente l’irruzione di una nuova politica. Fu, in qualche modo, l’ultima impressione – imprevista, e perciò tanto più sorprendente – di un ritorno del Mezzogiorno al centro della scena politica, con notevoli ef-fetti riduttivi del discorso secessioni-sta, anche perché, nella fluidità della transizione, il centrosinistra conobbe vittorie generali, pure se queste si tradussero velocemente in sconfit-te. Furono appunto vittorie illusorie e contrastate: la prima legislatura di centrosinistra, inaugurata da Prodi, ebbe tre presidenti del consiglio e un quarto come candidato premier, poi sconfitto. Del secondo governo Prodi è meglio tacere, secondo il ce-lebre avvertimento finale di Ludwig Wittgenstein.

La Napoli di Antonio Bassolino

Nel Mezzogiorno, la rivoluzio-ne dei sindaci fu impersonata, in modo evidente ed egemonico, da Antonio Bassolino, sindaco della

città partenopea in una stagione eccezionale che sembrò rimettere Napoli (e quindi il Mezzogiorno) al centro dell’Italia, e oltre: da «Der Spiegel» al «Times» titolavano su Napoli, gioiello splendente di un nuovo Mezzogiorno orgoglioso di sé. Protagonista, dunque, Bassoli-no, di una clamorosa prima legisla-tura come sindaco e autore di scrit-ti di sicuro effetto, fra gli altri di un volumetto intitolato La repubblica delle città, dove si sosteneva che proprio dalle città sarebbe ripar-tita la risposta alle contraddizio-ni del Mezzogiorno e addirittura alla rifondazione etico-politica dell’Italia. Furono gli anni in cui furoreggiava la curiosa immagine del «sindaco d’Italia». In questo quadro, la sinistra assunse in pie-no l’idea di federalismo – lanciata nel frattempo dalla Lega nell’agone politico – anche se con improba-bili accentuazioni delle esperienze comunali. Qualcuno (Renzo Imbe-ni, ricordo, un amico scomparso) sostenne addirittura, con malce-lato «senno del poi», che essa era il vero dna del comunismo all’ita-liana. Si sperava, così, di svuota-re il carattere, giudicato eversivo, della proposta della Lega, facen-do propria la parola-chiave che la connotava, mutandone l’aspetto dirompente, e di rovesciare così il tavolo, reimpadronendosi di quel Nord (e soprattutto Nord-Est) che era diventato la base di forza del-la stessa Lega. Agendo così, con la parola d’ordine «siamo tutti fe-deralisti», il centrosinistra italia-no, dunque, immaginava di avere delle carte da giocare; accettava di collocarsi in un altro orizzonte storico-istituzionale per lavorare dall’interno a una sua normaliz-zazione, battendo sul carattere so-lidale di un federalismo possibile per reimmettere da un altro lato il tema meridionale e quello dell’uni-tà dello Stato.

Fallisce, nel Sud, la rivoluzione dei sindaci

Non si avvertì – questo mi pare certo – che quel mutamento d’oriz-zonte segnava una caduta di ege-monia non solo su quella che ho chiamato l’agenda politica, ma sullo stesso orizzonte dell’Italia repubbli-cana, che coinvolgeva in un certo senso sia il Pci sia la Dc, anche se gli eredi di quest’ultima potevano con qualche ragione rivendicare la vecchia simpatia cattolica per il principio «federale» di sussidiarie-tà, ma in gioco non era un princi-pio, quanto un intero equilibrio di forze. Siccome, nel frattempo, il pensiero meridionalista era fermo, consapevole della caduta di vecchie categorie di comprensione e abba-stanza sulla difensiva per costruir-ne altre, probabilmente non c’era altra via da percorrere, ma presto essa si mostrò assai debole. Intanto, per la ragione che è difficile sosti-tuirsi agli inventori di una idea che si traduceva in prospettiva politica fortemente ancorata a una nuova forza propulsiva del Nord, ma so-prattutto per un altro motivo che ci riporta all’esperienza dei sindaci e, in essa, alla centralità della vicenda Bassolino. In fondo, la possibilità di impadronirsi del federalismo, met-tendo gli accenti dove si pensava che andassero messi, era legata al successo dell’esperienza meridiona-le dei sindaci e soprattutto di quella napoletana, diventata simbolo per tutte le altre, di là perfino dalle di-verse collocazioni politiche.

Se per davvero questa esperien-za avesse dato quello che promet-teva, e cioè di rimettere in campo il Mezzogiorno in una nuova alleanza di rinnovamento fra comuni, regio-ni e Stato, la partita si sarebbe ria-perta per davvero. E la partita forse si poteva giocare, se si pensa ai gi-ganteschi flussi finanziari di origine soprattutto europea che sono cala-ti sul Mezzogiorno negli anni di cui

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25stiamo parlando, e al nuovo potere carismatico dei sindaci, liberi, come sarà per lungo tempo, dall’impac-cio delle clientele partitiche. Si fa tanta retorica sul rapporto Mezzo-giorno-Europa, ma chi continua a farla (parlando di importanti radi-ci spirituali che nessuno, ben s’in-tende, sottovaluta) non tiene conto che quel rapporto c’è già stato, nel-la concretezza dei fondi europei, e che proprio lì esso è generalmen-te fallito, per l’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali, per le clamorose carenze culturali che le distinguono, per lo sfacelo morale e politico in cui esse stanno gettando zone consistenti della realtà meri-dionale: Abruzzo, Campania, Mo-lise, Calabria, Sicilia.

Il centrosinistra meridiona-le oggi è costretto, dunque, a fare i conti con il fallimento di quella esperienza. Il problema non è quel-lo di un bilancio dettagliato, certa-mente composto da luci e ombre, che dovrebbe guardare alle diverse città, ai diversi settori di ciascuna; ma quello dell’esperienza politica complessiva che, annunciata all’ini-zio con grida e trombe salvifiche, è sicuramente fallita. Nulla si è mosso, nel divario Nord-Sud, che si è anzi accentuato; il potere dei sindaci si è trasformato, soprattutto a Napoli cui per le ragioni indicate mi sono prima riferito, in potere persona-le, non più sorretto, avrebbe detto Max Weber, da una fede. Bassolino è stato un lea der politico di note-vole qualità (prima o dopo si dovrà fare la storia di questa esperienza, un vero capitolo di scienza politica applicata), ma il compito rinnova-tore che si era dato, con sostanzio-se ambizioni nazionali, è fallito. Le emergenze, a Napoli e in Campa-nia, sono diventate vita normale. Quasi nessuno dei progetti di tra-sformazione è stato realizzato. Alla fine della Napoli industriale, non si è sostituito nessun nuovo prin-cipio; il crimine organizzato è en-trato nel sistema della vita comune

e l’economia criminale sembra or-mai superare quella legale, con la mortificazione di una sinistra che ha sempre posto in quel problema uno dei veri discrimini; i canali della partecipazione democratica appaio-no scomparsi o fortemente ridotti; il dibattito pubblico non dà veri segni di vita; gli intellettuali hanno tradi-to la loro funzione, presi nei lacci e nei comodi di un sistema pervasivo; i partiti, staccati dalla politica, sono diventati clientele; il potere politico è diventato sistema di potere, dando corpo, si può dire, a quella maledi-zione della politica nel suo incontro con il potere – pure questo di we-beriana memoria – che non voglio affatto criticare moralisticamente, ma che sembra aver rotto gli argini entro i quali si pensa che quell’in-contro, pur necessario, debba esser contenuto.

Non intendo caricare sulle spal-le di Bassolino (spalle larghe, sicu-ramente) le ragioni del fallimento storico delle classi dirigenti meridio-nali, che viene da stagioni lontane, da insufficienze radicate nel tessuto di quella società, da trasformazioni profonde di contesto storico, in una vicenda lunga e complicata che an-drebbe ripercorsa da questo punto di vista. Ma quella dei sindaci, e an-zitutto la sua, è stata l’ultima espe-rienza che poteva rovesciare il roto-lio critico di un incancrenito duali-smo. E non lo ha rovesciato, anzi ne ha confermato la tendenza.

Si chiude una rappresentazione della storia d’Italia

Voglio dire qualcosa di più, che spiega meglio le conseguenze della caduta verticale di quella rivoluzio-ne annunciata: la sinistra meridiona-le, e più ampiamente il centrosinistra meridionale, ha fallito, nell’insieme, il proprio compito, giocandosi quel-lo che era stato un suo ruolo stori-co, sempre o quasi preservato nella

sua identità essenziale. In un libret-to agile e veloce come questo vuol essere, non v’è possibilità di dimo-strazione storica. Non è necessario ricordare Gramsci o Sereni o Amen-dola o lo stesso Togliatti, come non v’è bisogno di citare il riformismo cattolico di Vanoni e Saraceno, o il meridionalismo liberal-democratico da Dorso a La Malfa a Compagna a Galasso, per sostenere che la rap-presentazione della storia d’Italia, su cui faceva perno l’azione politi-ca dei democratici italiani, delle più diverse origini culturali e politiche, era fondata su un principio di uni-tà dell’Italia che si voleva costruire a partire dal Mezzogiorno. È da lì che prendeva la sua forza, e pure una parte assai consistente delle sue classi dirigenti. Si può dire che, in questo orizzonte, giocasse ancora un ruolo preminente la dimensione nazionale della cultura meridionale e la sua capacità espansiva. Non si sosteneva, naturalmente, la secon-daria importanza del Nord rispetto al Mezzogiorno, ma la vera unità dell’Italia sarebbe nata dal supe-ramento del dualismo, e la storia d’Italia era vista in questo intreccio; anche se, naturalmente, le diverse culture cui appartenevano gli uomi-ni che ho ricordato, avevano diver-se visioni e apprestavano differenti soluzioni. La discussione era anche accanita e conflittuale (basti pensare a Nord e Sud e a Cronache meridio-nali e al contrasto permanente che le divise, per rimanere all’interno del-la cultura laica), ma si pensava allo stesso oggetto, anche se culture as-sai diverse si sfidavano per diverse visioni politiche.

La parola «secessione» non era mai comparsa nel pensiero meri-dionalista, e il federalismo non era certo un tema dominante (anche se andrebbero ricordati, in controten-denza, almeno Luigi Sturzo e Gaeta-no Salvemini), ma la classe dirigen-te italiana si era formata sulla sfida al dualismo italiano, senza che mai qualcuno immaginasse il Mezzo-

giorno come un peso di cui liberarsi, da cui distaccarsi. Ecco perché in-sisto tanto su questo problema, fin forse a forzare qualche passaggio e a dare eccessiva importanza a qual-che altro. Il fallimento della sinistra e dei democratici meridionali, in una fase storica nella quale mutavano le dominanti della questione italiana, ha creato le condizioni per l’insor-gere della «questione settentriona-le» nelle forme che si sono date, e perché questa si mangiasse l’altra, quella meridionale.

Anche qui voglio essere ben chiaro: non intendo sostenere che la questione settentrionale sia sta-ta, come dire, «inventata» sull’ab-brivo di un fallimento. Sarebbe tesi ingenua e manifestamente infonda-ta. Ma essa ha sicuramente preso corpo su quel fallimento che la ha, per così dire, legittimata, l’ha im-posta all’attenzione generale, le ha dato un linguaggio, delle forze reali su cui camminare, l’ha individuata come un altro punto di vista sulla storia italiana. Non inventata, dun-que, e anzi insorta su mutamenti profondi dello scenario nazionale e mondiale, sulla crisi degli Stati na-zionali, sull’internazionalizzazio-ne dell’economia, sull’irrompere del Nord-Est come nuova chiave di lettura dello sviluppo produttivo italiano. Ma i dati obiettivi non fan-no mai storia da soli. Le egemonie non si costruiscono mai per il solo affluire di dati economici e sociali. Esse hanno bisogno di forze atti-ve, soggetti che entrano in campo, culture, per quanto si voglia primi-tive, ma capaci di mettere insieme persone e gruppi altrimenti disper-si, senza direzione. Anche qui, non è necessario ricordare Gramsci per comprendere questo.

Ora, è proprio ciò che è av-venuto, e prima la Lega poi Forza Italia – in una simbiosi conflittuale ma straordinariamente feconda, in grado di costruire gli elementi di un blocco storico – hanno potuto rovesciare l’agenda politica; han-

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26no saputo colmare, per rimane-re al problema che ho sollevato, un vuoto che drammaticamente si era aperto nelle file dei gruppi politico-intellettuali meridionali al di là della tenuta elettorale. Anzi, il fatto di aver potuto conservare il governo di molte regioni – vittoria peraltro destinata a un fallimento strategico – ha alimentato l’illu-sione di poter nascondere i segni di una crisi profonda che atteneva all’apice stesso della sua capacità egemonica.

Intanto il Nord, ormai insoffe-rente alla sola parola «Mezzogior-no», si svuotava di centrosinistra, come Massimo Cacciari andava prevedendo e spiegando da anni. Tutto ciò era annuncio di una dop-pia sconfitta che incominciava a orientare in una certa direzione il senso della transizione: svuota-mento politico-elettorale del Nord, scomparsa dei meridionali dal tes-suto nazionale della classe dirigen-te politica, e blocco strategico del pensiero meridionalista, che era sta-to una chiave di lettura della storia italiana e un orientamento decisivo delle sue classi dirigenti. Che cosa ci vuole di più per proclamare che ci troviamo in presenza di una svol-ta periodizzante che oggi sembra sostanzialmente consolidata? E che ne comprende tante altre, di non minor peso?

Una nuova visione della storia d’Italia

Qui c’è un aspetto assai impor-tante da considerare: in questa con-giuntura emerge una visione della storia d’Italia, che in vari modi, an-che contraddittori e rozzi, ha finito con il far da guida all’azione politi-ca. Ma come? Possiamo considera-re Berlusconi-legge ad personam e Lega parolaia e xenofoba capaci di una «visione» della storia d’Italia? Capaci, nientemeno, di mettere in discussione ricerche e posizioni che hanno dato vita a una egemo-

nia pressoché cinquantennale in grado di vincolare l’intero sistema della Prima repubblica? Su questo non ho dubbi, anche se quella «vi-sione» non ci giunge nelle forme cui siamo abituati, nelle riflessioni di una ricerca che cresce su se stessa, nelle aggregazioni che si costruiva-no attraverso un dibattito moleco-lare e diffuso che allargava a strati la coscienza politica, stabilizzando così l’egemonia. La cosa avviene in tutt’altra forma, pur essa segno dei tempi (anche se, attenzione, il centrodestra comincia a produrre «cultura»), e la simbiosi Lega-Forza Italia, con An di conserva, ha co-perto fronti diversi che poi sono riusciti a trovare, talvolta a fatica, sintesi. Naturalmente, alla base, c’è il mutamento degli scenari del mon-do senza dei quali non ci sarebbe Lega che tenga. Ma una forza politi-ca può diventare decisiva quando si mette in sintonia con quegli scenari, ne intuisce la portata, legge e vede cose che altri non vedono, e questa è cultura politica in vivo. […]

Dalla secessione al federalismo

L’idea di secessione che entrò in campo fu il primo vero punto di rottura, oggetto piuttosto di vignette satiriche e di strali ironici o sdegnati, anche perché si accompagnava a un primitivismo culturale che sembra-va uscire dai bassifondi della storia italiana, e per il quale la Lega ha si-curamente pagato, in più di un mo-mento, un prezzo salato. In realtà da quei bassifondi stava sortendo molto di più, stava germinando l’idea fe-derale, quell’idea che da allora non sarebbe più uscita dal dibattito poli-tico, con – da destra a sinistra: ecco il senso dell’egemonia! – la parola d’ordine «tutti federalisti», che mi è sempre apparsa improvvisata, se non addirittura, in certe forzature, ridicola. Voglio dire subito: qualun-que sarà il destino effettivo di questo orizzonte, il suo ingresso nel lessico

politico ne ha mutato definitivamen-te la scena. E a cascata, tutto un im-maginario politico ha incominciato a mutare.

E c’era più di una ragione per-ché l’orizzonte di un federalismo possibile non uscisse dalla discus-sione.

Da un lato, il federalismo nobi-litava la secessione, ne addolciva i tratti, la mostrava più nel suo aspetto di motto militante che nel suo pre-sentarsi come effettiva prospettiva prescelta. E infatti puntualmente il mutamento è avvenuto, e oggi si parla di federalismo fiscale anche come possibile risposta in positivo ai problemi del Mezzogiorno: mol-ti economisti autorevoli, da Mariano D’Antonio a Nicola Rossi a Michele Salvati, parlano questo linguaggio e la Lega federalista sembra addirittu-ra diventare paladina di un rinnova-mento possibile (l’unico, si incomin-cia a dire) del Mezzogiorno: quante cose può significare l’egemonia!

Dall’altro, la crisi della cornice dello Stato-nazione, in una fase in cui la globalizzazione era irrom-pente (la questione dello Stato ave-va costituito il punto di forza del meridionalismo democratico) di-minuiva l’aspettativa che il duali-smo italiano potesse esser risolto in quella cornice, e metteva in mora la diade centralismo-statalismo, dan-do vita a una visione federale che assai poco ha a che dividere con il vecchio principio delle autonomie pure spesso presente nel pensiero meridionalista. Non dimentichia-mo che l’etimologia di federalismo è da ricercarsi nella parola foedus, patto, e che dunque con essa si in-tendeva dire che andava rinnovato il patto repubblicano che era vissu-to per cinquantanni, e che per fare questo (avvertiva Gianfranco Miglio) non era nemmeno necessario stra-volgere la Costituzione che lascia-va aperta, o almeno socchiusa, la porta per nuove forme di sistema istituzionale. Peraltro, la raffazzo-nata modifica del capo v della Co-

stituzione, messa frettolosamente in campo dal centrosinistra sempre in questo suo gioco di rimessa, e con intenti velleitari di svuotamento dell’avversario, era la controprova che la nuova destra italiana dettava l’agenda politica.

Ecco in che senso dicevo che la Lega si era posta dal punto di vi-sta della realtà, mostrando quanto sia difficile giudicare lo spessore di una cultura politica dalla forma del suo linguaggio. Anche se andreb-be ricordato che alle spalle della Lega c’era l’opera, lo accennavo or ora, di Gianfranco Miglio, ope-ra che, essendo fuori dal circuito egemonico, era stata presa piutto-sto come un intelligente tic intellet-tuale – degno delle ironie di Piero Chiambretti – che come la base di una proposta che si sarebbe dimo-strata vincente.

Fronti che si chiudono, altri che si aprono

Berlusconi tendeva a diventare un simbolo politico unificante (con lui è enormemente aumentato il valore simbolico della politica), ma con lui non passava semplicemen-te il volto accattivante della televi-sione commerciale, o la persona interessata solo ai propri conti, in tutti i sensi, personali, ma un’idea della politica che incrinava più di ogni altra le vecchie continuità e si aggregava, in seconda battuta, alla rottura costituita dalla Lega, anche se c’è, fra loro, qualcosa di sotter-raneamente conflittuale che potrà riesplodere in futuro.

In questa visione si confermava, insieme a tante altre cose, una let-tura subordinata del Mezzogiorno, pure se il populismo berlusconiano riusciva, in parte almeno, a organiz-zare questa subordinazione come protesta in chiave antiburocratica e anticentralistica. È stata la forza delle cose che ha permesso a questa ope-razione di non essere fallimentare e anzi di affermarsi progressivamente

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27come una dimensione nuova della politica nazionale.

Val la pena di ribadire qualche elemento e di svilupparne qual-che altro: il fallimento politico della questione meridionale; la crisi del-la cornice dello Stato-nazione che metteva in secondo piano il tema dell’unità della coscienza naziona-le; la possibilità di giocare ambigua-mente sul federalismo, visto come panacea di tutti i mali, da un certo momento perfino di quelli meridio-nali, con una progressiva accentua-zione di questo aspetto del proble-ma fino alla conquista dell’egemo-nia sul tema del federalismo fiscale, orizzonte di principio da cui difficil-mente si uscirà più (salvo la variabi-le indipendente della crisi scoppiata nel frattempo, che può sicuramente allungarne i tempi) e che alla fine di-venta assordante e vincente. E infine la crisi verticale della cultura meri-dionalista, la vera cultura naziona-le della sinistra democratica – che siede su un Mezzogiorno in parte almeno in regressione – e il cui fal-limento sta soprattutto nel suo carat-tere di riflessione separata, che non è stata in grado, in modo particolare dagli anni ottanta, di influenzare la formazione di una classe dirigente all’altezza dei problemi che assedia-no quelle società.

Ma una cultura politica che non contribuisce alla formazione di una classe dirigente lascia comprendere il suo carattere separato e declinan-te, e per quante analisi fondate o im-maginose fornisca, si mostra come una cultura sconfitta. Un altro tassel-lo della caduta di un sistema egemo-nico. Quest’ultima potrebbe appari-re un po’ una forzatura: la crisi del vecchio sistema non può esser certo poggiata tutta sulle spalle del meri-dionalismo fallito (anche se ho pro-vato ad argomentare le ragioni della sua centralità), e i motivi sono certo da ritrovare nella caduta del sistema Dc-Pci (il «fallimento» dell’Italia), ma in quel punto si è concentrata larga-mente la potenza della crisi, esso ha

costituito il precipitato chimico at-traverso il quale tutte le crepe sono venute alla luce. […]

L’occasione del federalismo

Per il centrosinistra si tratta di avere la forza di incrinare queste strutture consolidate e immettersi in un orizzonte diverso. L’occasio-ne del federalismo potrebbe costi-tuire esempio virtuoso, giacché lì sembra essersi instaurato un con-fronto, cosa comprensibile per il fatto che il tema coinvolge molti poteri (statali, regionali e comuna-li) e quindi obbliga a prese di po-sizione che dovrebbero liberarsi dai lessici consueti e dalla rappre-sentazione statica dei rapporti di potere e perfino dall’immobilismo costituzionale. L’astensione scelta dal Pd nel voto sul federalismo fi-scale può forse costituire una novità importante, implica l’accettazione del nuovo orizzonte e lo sforzo di spiegarne le ragioni non in chiave anti-Sud, che sarà tema portante dei prossimi tempi. Si apre, per l’oppo-sizione, un vero e grande terreno di confronto. Se il Sud, come molti di-cono, sta per essere abbandonato al suo destino dal centrodestra (af-fermazione che può rappresentare una sorta di stimolo strategico per l’opposizione), un compito storico della sinistra può essere quello di impedire questo risultato senza ri-collocarsi nel vecchio e fallimentare sistema, qualcosa che potrebbe so-migliare alla quadratura del cerchio se non si potesse cogliere proprio il federalismo come occasione. Oggi, senza di esso, il destino del Sud è segnato: dal vecchio centralismo non può nascere più nulla.

Ma non è solo la questione del Sud a essere influenzata dall’ipo-tesi federale. È lo stesso assetto costituzionale che va rimesso in discussione, se federalismo im-plicherà anche, per tutto ciò che continuerà a rappresentare l’unità

dello Stato, un più forte livello de-cisionale del governo, una rilegit-timazione dell’unità dello Stato in qualunque chiave essa avvenga. L’universo simbolico della Costitu-zione viene rimesso in discussio-ne, e Berlusconi lo fa a modo suo, in maniera brutale, inconsapevole seguace di Carl Schmitt qual è, gio-cando strumentalmente sullo stato d’eccezione. Il malinconico caso Englaro insegni, dove Berlusconi, con l’intelligenza sensitiva che lo distingue, ha riaperto il problema della Costituzione muovendo dal drammatico rapporto politica-vita, Berlusconi biopolitico. La sinistra risponde manifestando con Oscar Luigi Scalfaro! Ogni commento è superfluo. […]

Il fatto che il federalismo sia nell’agenda originaria della Lega, e sia l’elemento che ha ribaltato la questione italiana, per dirla nel modo più semplice, dalla questio-ne meridionale alla questione set-tentrionale, mette il centrodestra di fronte alla sua massima responsabi-lità. Si tratta di cambiare la forma dello Stato e dare una risposta nuo-va non solo al dualismo italiano, ma al sistema di governo dell’intero pa-ese: è su questo che si misurerà tut-to o quasi tutto. Cambiare la forma dello Stato, ribadisco, significa af-frontare il tema della Costituzione, entrare nell’immobilismo di quel mondo simbolico, di una sinistra, oggi «custode» della Costituzione, che però a suo tempo cambiò ben nove articoli con pochi voti di mag-gioranza. Non si discute qui che la Costituzione possegga in se stes-sa inossidabili valori fondativi, che nella sua sostanza resti una bella legge fondamentale della Repub-blica e che il sovietismo invocato da Berlusconi sia una baggianata politica. Ma proprio valori fonda-tivi aperti sono capaci di rinnova-mento, e che di rinnovamento il nostro sistema di decisione politica abbia bisogno non mi pare dubbio, e come sarebbe possibile non por-

tarlo avanti in un sistema federale? E che il valore della libertà (ripren-dendo la formulazione che voleva Ugo La Malfa nei lavori della Co-stituente) possa essere affermato all’art.1 insieme a quello del lavo-ro, anche questo non è un tabù. E che l’assemblearismo parlamentare, che matura nel combinato-disposto di tanti articoli della seconda par-te, non sia il modo migliore per ri-spondere alla necessità della deci-sione urgente, anche questo dovrà introdurre un dibattito serio. Ma il vecchio sistema risponde no, e il nuovo in formazione usa spesso la clava strumentale dell’emergenza; il rischio è l’eliminazione reciproca delle forze in campo.

Se un progetto di riforma, però, fallirà, tornerà in campo un’altra vi-sione dell’Italia, tutto il «vecchio» si affaticherà per tornare in cam-po. Lo sguardo puntato sul Nord sta cambiando molti punti di vista, sulla sicurezza, sull’immigrazione, sull’integrazione, sulle forme di possibili nuove alleanze sociali, ma il punto sintetico di questo nuovo sguardo, il federalismo, riporta il problema italiano pressoché alla sua origine. Allora, nel momento della creazione dello Stato unitario, il federalismo giocò un ruolo mini-mo e trascurabile, e non per caso, a parte Gioberti, la voce politica più autorevole ma isolata proveni-va dalla Milano di Carlo Cattaneo, dai progetti di Marco Minghetti e da qualche neo-guelfo napoleta-no alla Enrico Cenni. Poco altro, allora. Ma oggi è a questo punto originario che deve tornare il con-fronto culturale e politico. Il federa-lismo non è solo attribuzione delle risorse, seguendo scorciatoie infi-ne divisioniste, ma comporta una precisa riforma delle istituzioni, e di quelle parlamentari soprattut-to, che affermino un nuovo livello di ricomposizione dell’Italia. Chi riuscirà a scavare fino a questo punto nella gestione dell’agenda politica?

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28Una nuova immagine dell’Italia

All’orizzonte, dunque, c’è la volontà di costruire una nuova im-magine dell’Italia, e quasi un modo di ripensare la sua unità, una vo-lontà ora brutale ora più elabora-ta, ora più efficace ora meramente parolaia, di mettere in discussione consolidati tabù: sul Mezzogiorno, sulla Costituzione, sul peso di di-versi valori simbolici, sul lavoro e sul mercato del lavoro, sul nesso lavoro-impresa, sulla sicurezza, sul significato e la portata della legge, tutte cose che si trovano di fron-te idee consolidate e corporazioni di idee, oggi messe in discussione per vie composite e che muovo-no su fronti diversi. L’egemonia si muove nel corpo della società. La via prescelta segue a una diagnosi insieme vera e problematica, che tocca la crisi della vecchia unità statale, del vecchio stile consocia-tivo, e degli equilibri anche mentali dovuti ad esso, nella cui cornice i fenomeni sembrano rimbalzare en-tropicamente su se stessi. Diagnosi vera, per ragioni talmente rilevan-ti e analizzate da potersi dare qui per conosciute, ma diagnosi an-che problematica, se si pensa che quella crisi della statualità implica un tramonto-non-tramonto, una persistenza nella dissolvenza, nel-la cui dialettica si potrebbe inserire un’opposizione intelligente.

Questa veloce osservazione è utile per comprendere la portata del problema che abbiamo davan-ti, e che il centrodestra italiano ha aperto politicamente anche nel sen-so comune degli italiani.

Non si tratta, dunque, soltanto di un problema di redistribuzione delle risorse, o di trasferimento di competenze, ma tutta la questione aperta dalla crisi degli anni novanta contiene in sé un ridisegno del dua-lismo italiano e dell’Italia, una pro-fonda trasformazione della cultura nazionale e forse delle modalità di

stare insieme degli italiani. Per met-ter l’accento su quel tema Nord-Sud che dall’inizio mi è parso dirimen-te, e che è elemento decisivo di un nuovo senso comune, bisogna dire che c’è un Nord che vuole separare il suo destino dal Mezzogiorno, che non vuole nemmeno sentir più no-minare quella parola, e sembra ave-re il coltello dalla parte del manico, non solo per i mutamenti oggettivi che ho richiamato, ma, come ho ar-gomentato all’inizio, per una straor-dinaria responsabilità delle classi dirigenti soprattutto della sinistra meridionale e del loro clamoroso fallimento. Non è neanche neces-sario che si realizzi per intero il fe-deralismo, come la crisi lascia intra-vedere, almeno per quanto riguarda le scansioni possibili. Ormai la scis-sione è in corso, e fa parte, insieme a tanti altri, dei tratti più aspri del nuovo sistema egemonico, al qua-le si vanno adeguando anche pezzi della sinistra, cercando di salvare il salvabile. E tuttavia l’arte del gover-no dovrà guardarsi dall’incoraggiare troppo questa posizione, e su que-sto giocherà fortemente la dialetti-ca interna alla maggioranza. Le pru-denze di un Tremonti, pure, credo, convintamente «nordista», ne sono una riprova.

In effetti, c’è un Nord (che oggi incomincia a trovare espressione politica in parti del Pdl, e perfino nella Lega che «concede» qualco-sa, sentendosi non lontana dalla possibilità di vincere) che magari pensa ai danni irreversibili di una scissione troppo pesante e dichia-rata, ma che comunque non è di-sposto a tornare alla vecchia Italia. I due «Nord» sono in realtà mesco-lati, come è normale che sia per una questione carica di effetti diversi, in parte imprevedibili, legati non solo al terreno dell’economia, e dunque c’è una partita politicamente aper-ta, pure nell’agenda politica decisa e voluta dal centrodestra. C’è spa-zio per elevare il tono del dibattito politico-culturale italiano.

La rappresentazione di un nuovo Mezzogiorno

C’è spazio per la rappresenta-zione di un nuovo Mezzogiorno, dentro l’ipotesi di un federalismo realizzato, che implicherà comun-que una necessaria responsabiliz-zazione delle classi dirigenti me-ridionali, obbligate a misurarsi su uno scenario imprevisto. Un Mez-zogiorno capace di contribuire, con le sue risorse, la sua storia, l’intel-ligenza disseminata a piene mani nelle nuove generazioni, alla storia e allo sviluppo dell’Italia, imponen-do la sua presenza, riducendo la sua lontananza dal cuore della sto-ria dello sviluppo, diminuendo il ri-schio di quella «scissione silenziosa» dell’Italia che non è solo responsabi-lità del centrodestra, come qualcu-no a sinistra dice (Alfredo Reichlin, ripetutamente), ma è anche il frutto del fallimento delle politiche e delle culture politiche che sono state nel passato egemoni.

Sono esse le responsabili prime di questa effettiva scrisciante scissio-ne. Grande responsabilità, che ha condizionato il destino del Mezzo-giorno, è stata l’incapacità, a parti-re soprattutto dagli anni settanta, di selezionare la spesa pubblica (che da Fanfani a Saraceno a Vanoni a La Malfa era stata il fulcro dell’in-tervento meridionalista), secondo modalità in grado di mettere in moto quelle energie autonome che avreb-bero dovuto ridurre strutturalmente il divario. Al di là di opportune e necessarie periodizzazioni, questa strategia è nell’insieme fallita, sot-to l’incalzare di una spesa pubblica sempre più dissennata e clientela-re che ha fatto espandere il debito pubblico italiano e posto una con-dizione non secondaria della crisi italiana. E si sono fatte avanti cultu-re che finivano con il teorizzare che il Mezzogiorno sarebbe stato più se stesso quanto meno fosse corso ad adeguarsi ai caratteri di una compiu-ta modernizzazione, e avesse cele-

brato i propri ritmi, le proprie lentez-ze, la propria dimensione separata letta quasi in chiave di aristocratica differenza: un errore di visione, se-gno di un declino politico.

Ora proviamo a immaginare che il federalismo, nel mettere in campo un nuovo meccanismo di allocazione delle risorse, dia anche una scossa alla sensibilità di classi dirigenti rese passive e subordinate ai loro stessi sistemi di potere. Im-maginiamo che diventi obbligata una discontinuità, come avvenne per il bilancio nazionale sotto i colpi dell’Europa dell’euro. Immaginiamo che, sotto i colpi di queste necessità, qualcosa muti nello stesso costume politico. Se ciò avvenisse, e so di star disegnando un quadro da «sogno americano», si potrebbe giungere a «immaginare» (non mi allontano da questo verbo, calcando sul suo significato di narrazione fantastica) che il Mezzogiorno rinasca dalla sua negazione, che, messo di fronte alla sua stessa sopravvivenza, scatti quel senso estremo di autoconservazio-ne che aiuta anche tanti individui a mutar vita per rispondere alle disgra-zie personali. In tal caso, il Mezzo-giorno dovrebbe la sua possibile ri-nascita nientemeno che alla Lega e al centrodestra italiano. Quando si dice: l’astuzia della ragione, o i mi-steriosi disegni della provvidenza. Ma non lavoriamo di fantasia. Per ora le cose sono abbastanza diverse e anche nel centrodestra coesistono differenti sensibilità. […]

Ricollocarsi nella storia d’Italia

Ricollocarsi in una visione della storia d’Italia, ridefinendo una fun-zione nazionale. Rileggere l’Italia, e concretamente ripartire da dove quella visione si è incrinata. Dovrà avere il primato una rilettura del dualismo italiano, se è lì che la ca-duta di egemonia è stata più netta e più politica, il primo segno pre-monitore di una crisi. È la questio-

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29ne dell’unità d’Italia, e di come farla ritornare nel pensiero e nell’azione politica, avendo compreso che la forma che ha preso l’attuale pri-mato della questione settentrionale costituisce un effettivo mutamento del punto di vista sulla storia italia-na e il macroscopico sintomo di un fallimento storico-culturale del pensiero e dell’azione di forze es-senziali che hanno animato la Pri-ma repubblica. Ma sapendo pure che nella nuova visione c’è un vi-zio profondo, la messa fra parente-si della storia del Mezzogiorno, del contributo della sua intelligenza e delle sue tradizioni alla fisionomia dell’Italia.

Se questo è vero, non sarà il ritorno di vecchie formule meri-dionaliste a reimpostare la partita, perfino per quelle zone in cui le analisi che le sorreggono possa-no risultare ben fondate e dunque comunque utili (ma quanto ripeti-tive!). E su questo mi pare di aver scritto abbastanza.

Il centrosinistra entri fino in fondo nel quadro del federalismo, lo faccia proprio reinterpretan-do le linee di scorrimento che si sono aperte nel dibattito pubbli-co e parlamentare. Che cosa può significare questo, politicamente? Che la Costituzione non è mito intoccabile, ma che essa fa parte di un spirito di riforma che corag-giosamente deve affrontare i suoi nodi irrisolti, e ci si troverà a batta-gliare con il «prometeismo» spesso brutale e pericoloso di Berlusconi (pericoloso, soprattutto perché sti-mola, per contraccolpo, l’immo-bilismo) che pensa forse a una re-pubblica presidenziale di cui egli, naturalmente, sia presidente. Che il Sud non è più semplicemente e direttamente questione dello Sta-to nel senso di questione di spe-sa pubblica, come si è detto per quasi un secolo, e come dicevano all’unisono Dc e Pci – sia pure, ov-viamente, declinando in forma di-versa quella centralità, e alla fine

trovando il compromesso nel pa-sticcio consociativo – ma implica anzitutto una reinterpretazione del suo territorio, delle sue capacità di relazione con l’esterno, delle sue fisionomie produttive, culturali, professionali, delle sue presenze umane, dei suoi caratteri storico-antropologici, del carattere delle sue classi dirigenti e delle sue or-ganizzazioni politiche, dei tratti nazionali della sua cultura, delle sue istituzioni. Qui c’è un nuovo senso di responsabilità delle clas-si dirigenti, che deve nascere per impedire che quel territorio, risco-perto nella sua autonomia, diventi preda dell’illegalità e del crimine organizzato. È ruvida l’afferma-zione, ma lo stato del Mezzogior-no la impone. Qui c’è anche un pensiero originario da riscoprire, compreso quello che dette vita ai primi interventi, dopo il viaggio dolente di De Gasperi fra i sassi di Matera.

Questa centralità del territo-rio è un principio portante, ricorda da tempo un sociologo intelligente come Aldo Bonomi. Si tratta di ve-dere come lo si interpreta, e il cen-trosinistra di questi anni ha teso a inglobarlo in un sistema bloccato e assistito, debole nelle autonomie, forte nelle dipendenze.

Il territorio reinterpretato

La sinistra oggi si trova di fron-te a una interpretazione del terri-torio, soprattutto da parte della Lega, assai forte e aggregante, ma insieme costruita, almeno in parte, sulla chiusura e sulla paura, sulla secessione culturale. È un punto di vista oggi prevalente, segno di una egemonia costruita negli anni, cui aderisce un largo sentimento di massa, che nasce anche sulla durezza dei processi identitari in corso, sull’insofferenza per un’im-migrazione che crea insicurezza; ma forse sarà possibile prima o

dopo spostarne gli accenti senza cadere in stupidi «buonismi», in indifferenziati e improbabili coa-cervi culturali. Perché nella costi-tuzione mentale della sinistra in generale ci sono, insieme, sistemi di potere e retorica dell’accoglien-za, sistemi di potere affaristico-as-sistenziali e stucchevoli cedimenti al buon cuore. La mancata costi-tuzione di un rapporto serio con il territorio sull’onda della centra-lità di uno Stato che quella stes-sa parte politica ha contribuito a mettere in ginocchio, ha fatto del centrosinistra soprattutto meri-dionale un mero apparato di po-tere non più sorretto da una fede, che ha inglobato la società – una società senza partiti, salvo quelli personali – e incoraggiato, al di là di tutte le sue finalità dichiarate e anche realmente desiderate, altri «sistemi», a cominciare da quello camorristico, per citare una real-tà sempre più forte in una regione dove la sinistra regna da quindici anni. Se non fai passare la mo-neta buona, sarà quella cattiva a vincere, e il pervasivo potere campano – una delle ragioni che ha reso impronunciabile la paro-la Sud – ha fatto di tutto perché la cattiva moneta stabilisse il suo potere pervasivo.

Il famoso «Pd virtuale» (che significa una cosa molto sempli-ce: oggi esso non esiste) dovrebbe costruirsi nel territorio, imitando un principio ispiratore della Lega e spostandolo verso altri lidi, defi-nendo lì le sue necessarie alleanze, muovendosi verso forme di ragio-nata inclusione per la costruzione di un popolo differenziato ma dia-logante, di aperta proposta rifor-mista soprattutto nelle aree dove le disuguaglianze sociali stanno diventando drammatiche, le pau-re bloccano la progettualità, alle classi riflessive e alle minoranze attive manca l’aria per respirare. Il partito virtuale dovrebbe ridefinirsi come partito federale (interessan-

ti le direzioni indicate da Cacciari, Chiamparino), cercando di rispon-dere a un problema di grande dif-ficoltà: come creare un’entità fe-derale senza che essa cada preda dei potentati istituzionali locali, dei «cacicchi», per intenderci. Il dilem-ma, insomma, è complesso: da un lato, l’entità federale è l’unica spe-ranza per un effettivo rinnovamen-to delle classi dirigenti, intorpidite e incrostate nei sistemi di comando e di consenso centralizzati, dall’altro rischia la riduzione a partito per-sonale del governatore di turno. Il caso della Campania insegni. Non so se sto proponendo la quadratura del cerchio, ma so che questi sono i termini del problema da affrontare e che per fortuna non spetta a un libro risolvere. Dal territorio, si do-vrà anche reincontrare lo Stato, di cui si dovrà tornare a sancire l’auc-toritas, a celebrare il senso unitario, ma la forza proverrà da quel luogo riscoperto, organizzato, ripensato, riformato, al Nord in concorrenza con la Lega, al Sud in concorrenza con il se stesso vecchio, in modo che uno specchio ideale non riflet-ta più la vecchia immagine deca-duta e improponibile. Il territorio può essere veramente reincontra-to se si posseggono, oltretutto, gli strumenti culturali, tecnici perché quell’incontro si possa realizzare. Le classi dirigenti di sinistra questi strumenti non li posseggono, e se li devono costruire, altrimenti la poli-tica sarà sempre politica politicante e retorica, sistema di potere senza luci, chiacchiere disgreganti e non costruzione di strategie effettive che oggi implicano relazioni, co-noscenza dei problemi e delle ri-sorse strategiche e insomma della proiezione possibile di un territo-rio determinato. Il Sud, da questo punto di vista, è quasi un deser-to, ma i suoi territori sono carichi di vita. E insisto sul Sud, perché lì c’è ancora una chiave decisiva per affrontare i problemi della storia d’Italia. […]

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piero CraveriLA DIffERENZA StA NELLE CLASSI DIRIGENtI

Commenti al volume di Biagio de Giovanni

Penso anch’io che il federalismo fiscale possa innescare un processo insieme forzoso e virtuoso nella ge-stione degli enti locali del Mezzo-giorno. A mali estremi estremi rime-di. Il parallelo che Biagio fa con gli effetti del trattato di Maastricht sul disastro della finanza pubblica na-zionale è pertinente. Il federalismo fiscale introduce un vincolo, che potremmo anche definire “esterno”, vincolo nazionale sul particolarismo locale del Mezzogiorno.

Ma, per continuare il confronto, il vincolo di Maastricht è alla base della stagnazione attuale italiana, che non a caso data dal I Governo Amato del 1992. Come poteva essere diversamente? Il nostro “modello di sviluppo” (chiamiamolo ironicamen-te così), fin dalla fine degli anni ’60, era basato sulla svalutazione della moneta, nel susseguirsi di brevi ci-cli di stabilità del cambio, con cui si abbassava il debito e il monte sala-ri e si dava fiato alle imprese. A ciò, negli anni ’70 si aggiunse la crescita costante del debito pubblico. Con Maastricht siamo entrati nel model-lo tedesco, che privilegia la stabilità dei prezzi in primo luogo attraverso la politica monetaria e quella di bi-lancio. La nostra economia ha perso il suo acceleratore costante e deve sostituirlo con altre politiche di go-verno e d’impresa.

Mentre tardano politiche neces-

sarie di liberalizzazione da parte dei governi nazionali, la trasformazione del sistema delle imprese nel Centro-Nord è venuto maturando con po-litiche territoriali di decentramento delle strutture d’impresa, in siner-gia con le strutture pubbliche dei servizi, compresa la ricerca, in cui gli enti locali hanno svolto un’atti-vità di raccordo ed anche di regia importante.

Il gap, di nuovo crescente, tra Nord e Sud è oggi in primo luogo dovuto alla considerevole differen-za delle sue classi dirigenti. Il tema centrale della territorialità si declina negativamente nel Mezzogiorno, ri-ferendosi prevalentemente alla tradi-zionale intelaiatura clientelare e pa-rassitaria e non molto ad altro.

Ha ancora ragione Biagio quan-do dice che questa catastrofe, anche di natura antropologica, nasce dal fallimento della politica di intervento straordinario della prima Repubblica, in cui si sovvertì l’originaria imposta-zione, che come lui dice era stata dei Fanfani, Saraceno, Vanoni e La Mal-fa. Due sono i punti da indagare. Uno è il noto fallimento delle politiche di industrializzazione dalla prima metà degli anni ’60. Su questo non man-cano analisi, ma un lavoro di sintesi sarebbe necessario. L’altro momento cruciale è stato l’introduzione delle Regioni che non a fatto che dilatare in modo perverso il rapporto tra fi-

nanza pubblica e sistema clientela-re e parassitario, fino a far collassa-re, negli anni ’90, il sistema stesso dell’intervento straordinario.

La riforma interna degli enti lo-cali con le loro putrefatte burocra-zie, sarebbe un primo necessario passo. Resta comunque il problema dell’intervento straordinario. Il Mez-zogiorno ha delle necessità prima-rie per reinnescare un processo di sviluppo, che attengono a delle ele-mentari opere infrastrutturali, ad un rinnovo degli strumenti di governo del mercato di lavoro, ad iniziative di sostegno alle attività produttive, nella progettazione dei prodotti e nel sostegno della loro allocazione sul mercato.

Non credo ci siano più i ter-mini per formulare una propo-sta meridionalistica, ma ci sono le esigenze e i problemi del Mezzogiorno su cui bisogne-rebbe discutere. Colpisce a riguardo il vuoto di idee e progetti che le Regioni meridionali esprimono, tutte chiuse nel loro gu-scio, mancando grandi progetti regionali e in-terregionali riguardo a ferrovie, strade, porti, grandi centri di compostaggio e di distribuzione delle merci agri-cole, interventi idro-geologici etc. C’è solo il ponte di Mes-sina, che in sé non è un’idea da buttar via ma anche la metafora del nulla di idee del vecchio e nuovo me-

ridionalismo. Anche il Nord ha ca-renza di opere infrastrutturali indi-spensabili. Sarà necessa-rio contrattare grandi interventi nazionali, mettendo in opera forti sinergie locali. Riusciranno i nostri amici a fare questo salto di qualità politica?

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L’instant book di Biagio de Gio-vanni (“A destra tutta: dove si è persa la sinistra?”, per i tipi di Marsilio), as-somma in sé tre elementi che lo ren-dono estremamente prezioso ed ap-petibile. Innanzitutto, quello dell’in-dubbia attualità, che – pur con occhi attenti, rivolti al passato, e speranzosi, miranti al futuro – ci offre un’analisi particolarmente articolata e comple-ta della nostra condizione politica in questo niente affatto incoraggian-te presente. A seguire, la civile e re-sponsabile partecipazione di Biagio de Giovanni alle non liete vicende del nostro Paese. Ma, soprattutto, il terzo elemento di gran lunga più im-portante: la sua onestà di studioso e, al tempo stesso, di osservatore più che partecipante agli eventi descritti ed alle loro implicazioni.

Per restare nella similitudine marinara da lui adottata, mi è venu-to più che spontaneo auspicare che la nostra fragile imbarcazione possa ben presto trovare un timoniere lea-le, coraggioso, esperto, competente, disinteressato che sia indotto a pren-dere la barra del timone per il verso giusto sì da poter sfidare i flutti più che tempestosi, colpevoli della nostra sofferta navigazione. Un timoniere che ci manca da tempo, ma che pur intuiamo sia più che presente nella nostra marineria politica: anche se sarà, purtroppo, impossibile valersi di capacitò analoghe a quelle esistenti

al momento del varo della nostra Re-pubblica democratica.

Tra i tanti interessanti punti esa-minati in quelle pagine, vorrei sof-fermarmi soprattutto su tre, che mi appaiono come essenziali e, in un certo senso, tra loro strettamente collegati.

Innanzitutto, le condizioni che hanno reso possibile il verificarsi del fenomeno Berlusconi. Indubbiamen-te, le degenerazioni del sistema po-litico, che hanno dato origine a tan-gentopoli ed alla conseguente sua dissoluzione per via giudiziaria, han-no avuta la loro devastante influenza; ma, secondo me, non è stato solo ciò a determinare il terremoto i cui sinto-mi venivano registrati dai sismografi più sensibili già da tempo.

Vi ha concorso anche, e non cer-to in misura trascurabile, il progres-sivo aggravarsi della crisi interna allo stesso sistema, che, a sua volta, può farsi risalire a tre ben distinte cause: (a) il non essere stato del tutto capace e pronto a cogliere in tempo le giuste sollecitazioni che gli furono mosse dai movimenti di rivendicazioni del cosiddetto ’68; (b) l’acuirsi del ter-rorismo tra gli anni ’70 ed ’80; (c) la forzatura di realizzare il cosiddetto compromesso storico, tra comunisti e cattolici, cercando di escluderne, implicitamente ma anche esplicita-mente, quei contributi socialisti, li-berali e repubblicani che pur erano

stati essenziali durante l’esperienza ‘azionista’.

Condizioni, queste, che, come si è dovuto constatare in seguito, han-no profondamente indebolito quel terreno di coltura che avrebbe do-vuto continuare ad alimentare ed a consolidare il sistema politico sorto dalla Resistenza e, come tale, esplici-tato nella stessa nostra Carta Costitu-zionale. Con la logica del poi, credo non si possa escludere del tutto che sia stata proprio questa ambiguità a favorire il determinarsi del berlusco-nismo e, ancor più. il progressivo ag-gregarsi ad esso di politici provenienti dall’esperienza repubblicana (per tut-ti, lo stesso Giorgio La Malfa), sociali-sta (per tutti, il lombardiano Cicchit-to, incorso anche nell’incidente della P2) e comunista (l’ex Sindaco toscano Bondi) per non ricordare i tanti ex-de-mocristiani provenienti dalle diverse correnti di quel Partito, confluiti di-rettamente nel movimento-azienda di Forza Italia o aggregativisi attra-verso altre sigle e formazioni vaganti nell’area del centro-destra.

Posta in discussione la natura stessa di quello che dovrebbe essere un Partito moderno ed alterandone così le sue attribuzioni funzionali non si poteva determinare altro se non l’at-tuale deprecabile condizione, che ha inficiato anche quanto ancora cerca-va di sopravvivere del vecchio siste-ma. A loro volta, i malaugurati inter-venti correttivi (più peggiorativi che non migliorativi), operati sulle leggi elettorali, e, soprattutto, la sostanziale degenerazione della elezione diretta dei vertici delle istituzioni locali han-no finito con il farci ottenere effetti diametralmente opposti a quelli au-spicati e necessari. Fino a giungere, oggi, ad una più accentuata frammen-tazione delle forze politiche (in parti-colare nel centro-sinistra, ma non ne è esente nemmeno la parte opposta)

che non può non disorientare lo stes-so elettorato, determinando un pro-gressivo allontanamento da quella re-ale ed attiva partecipazione popolare che, a parole, tutti auspicano.

Tutto ciò fa sì che quella che, fisiologicamente, poteva pur essere considerata come una fase transito-ria – atta a facilitare una moderniz-zazione reale del nostro quadro po-litico e, ancor più, una crescente ef-ficacia ed efficienza delle istituzioni ai vari livelli di competenza – è du-rata troppo più del previsto. Ciò de-terminerà anche che essa, altrettanto inavvertitamente, dovrà dissolversi in quanto non sostenuta da una solida e moderna concezione politica non più solo prigioniera di interessi priva-ti o, comunque, del tutto particolari laddove, invece, cresce sempre più la necessità di visioni responsabili a medio e lungo termine.

Era fin troppo evidente che, in un quadro così deludente, ci si ponesse responsabilmente anche il problema dei rapporti tra Nord e Sud nel nostro Paese. Da ciò, un interessante capitolo dedicato da de Giovanni alla questione settentrionale (pp.21-40), che non può non essere apprezzato in tutte le sue valenze ed implicazioni. E, soprattutto, per l’effetto ottenuto – sostituendo alla fin troppo spesso abusata espressione della ‘questione meridionale’ quella di una ‘questione settentrionale’ – di ricordarci che, oggi, tutti gli italiani, volendolo o meno e, in particolare, noi meridionali dobbiamo prendere atto del reale stato dei fatti: non solo non siamo stati capaci, in un secolo e mezzo, di sanare la frattura tra le due componenti fondamentali del nostro territorio nazionale, ma, anzi, abbiamo ottenuto che attorno al malcontento dei settentrionali si riuscisse a dar vita ad un movimento politico che, finora, non è stato opportunamente valutato in tutte le sue implicazioni.

Gilberto. A. Marselliè tROppO fACILE DARE LA COLpA AL NORD

Commenti al volume di Biagio de Giovanni

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32Per troppi nostri connazionali del

Nord, l’oscuro e spesso asfissiante ed autolesionista eccesso di centralismo statale, con l’aggravante di una pre-valente presenza di meridionali nella burocrazia statale e nelle forze addet-te all’ordine pubblico, da una parte, e la non sempre oculata e proficua utilizzazione dei fondi finanziari de-stinati al Mezzogiorno, dall’altra, non potevano non alimentare una tale contrapposizione.

Come non ricordare che, in oc-casione dei flussi migratorî che, ne-gli anni ’50-’60, indussero circa tre milioni di meridionali (su una com-plessiva emigrazione di quattro mi-lioni di abitanti, pari al 14,7 % della popolazione delle nostre regioni) a trasferirsi al Nord tanto che a Milano ed a Torino comparvero cartelli quali “Non si affitta a meridionali”? Come continuare ad ignorare che spesso, e specie negli ultimi anni, l’intervento straordinario dello Stato nel Mezzo-giorno non fu affatto integrativo ed aggiuntivo, ma si ridusse, invece, ad essere meramente sostitutivo di quel-li ordinario? Come dimenticare che, nel corso di un convegno indetto a Torino dalla Fondazione Luigi Einaudi (aprile 1967) appunto sul tema ‘Nord e Sud’, ai meridionalisti (Compagna, Galasso, Graziani, Novacco e Ros-si-Doria) che chiedevano immedia-ti investimenti al Sud da parte delle industrie settentrionali – tra tutte, in particolare, la Fiat – per cercare di frenare o, quanto meno, regolarizza-re questi flussi migratorî, fu risposto che lo sviluppo economico non pote-va perdere l’occasione offerta in quel momento dal mercato, che richiede-va soprattutto più automobili?

Troppo spesso la cultura, la po-litica e perfino l’opinione pubblica più avvertita si dimenticano che gran parte dei nostri attuali problemi – e, quindi, anche l’aggravarsi delle ten-sioni interne – vanno imputati al fat-to che l’ineludibile modernizzazione del nostro Paese non è stata affatto

reale ed effettiva, ma piuttosto tra-dita se non, addirittura, del tutto ap-parente. Apparente, in quei casi nei quali sono stati assunti acriticamen-te modelli e sistemi di valori assunti dall’esterno, che avrebbero potuto esesre validi solo in presenza di condizioni niente affatto presenti tra noi. Tradita, quando, come trop-po spesso è accaduto, non si sono apprestati gli strumenti (finanziari, economici, tecnici, culturali e so-ciali) indispensabili per conseguire gli obiettivi prescelti. Veramente re-ale, invece, sarebbe stata se, tenuto conto delle concrete situazioni di partenza, si fosse stati in grado di rispettare l’indispensabile collega-mento tra obiettivi, strumenti e va-lori: in breve, l’adozione di un’ideo-logia in grado di far convergere tutti gli sforzi – pubblici e privati, collet-tivi ed individuali – verso il perse-guimento di un modello di società futura ben preciso, esattamente de-lineato in tutte le sue componenti ed articolazioni, ivi compresa l’og-gettiva e realistica individuazione di tutti gli ostacoli da superare.

Tutto ciò è mancato e, in ag-giunta, l’attuazione dell’ordinamen-ti regionale (1970) ha ulteriormente evidenziata una nostra grave caren-za. Nel secondo dopoguerra e dopo la caduta del regime fascista, non siamo riusciti a formare quei famo-si “cento uomini di acciaio” ai quali Guido Dorso affidava la responsabi-lità di offrire al Mezzogiorno l’indi-spensabile classe politica e dirigente che avrebbe dovuto guidarlo verso una reale integrazione nello Stato italiano. Sempre più essenziali nella nostra realtà che, è bene ricordare, non si è potuta valere della preziosa esperienza dei Comuni medioevali del Nord e Centro Italia e nella qua-le, come ricordava Carlo Cattaneo, le città sono state costruite ed arric-chite con i capitali prodotti dal siste-ma feudale delle campagna laddove, invece, nel Nord erano stati i redditi

urbani a contribuire allo sviluppo di quell’agricoltura.

Eppure dobbiamo dare atto ai veri meridionalisti – dell’Ottocento e della prima metà del Novecento- di essere stati in grado di additare al Paese la strada che si sarebbe dovuta percorrere. Come dimenticare il ruo-lo svolto dalla Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno), dall’ANIMI (Associazione Naziona-le per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia), dal “Gruppo dei Meridiona-listi Pugliesi” (coordinato da Vittore Fiore), dal gruppo Rossi-Doria pres-so la Facoltà di Agraria dell’Univer-sità Federico II di Napoli (con sede a Portici), dal gruppo dei cattolici di “Terza generazione” (Baldo Scassel-lati) e, non ultime, dalle riviste “Nord e Sud” (di Compagna) e “Cronache meridionali” (Alicata, Chiaromonte, De Martino e Napolitano)? E come ignorare che, anche grazie all’inter-vento dell’olivettiano “Movimento di Comunità”, molti di noi, negli anni ’50 e ’60, ci siamo impegnati perché anche nel Mezzogiorno si potesse tendere – come storicamente più diffuso nel nostro Centro-Nord – ad una reale interazione tra il model-lo ‘comunitario’ e quello ‘societario’ (proprio della dicotomia tönnesiana della ‘Gemeinschaft-Gesellschaft’)? Proprio perché fortemente convinti di questa necessità, ci siamo sempre opposti alla falsa contrapposizione tra ‘società civile’ e ‘società politica’: infatti, la prima non sempre è civile e la seconda non altrettanto agisce sempre nell’interesse della “πολισ”. Al loro posto, ci piace piuttosto di ragionare di una ‘società dei cittadi-ni’ che non può non interagire con la ‘società delle istituzioni’, ognuna titolare dei propri diritti e doveri che ne stabiliscono implicitamente i re-ciproci ruoli. Sì che il cittadino possa essere realmente tale e mai suddito e che le istituzioni lavorino nell’interes-se della collettività: presente e, ancor più, di quella futura.

La crisi degli anni ’70. la chiu-sura della “Cassa per il Mezzogior-no” (1984), un sostanziale progres-sivo disimpegno dei veri meridiona-listi e, non meno, il fiorire di troppo estemporanee interpretazioni del problema meridionale, segnando una sostanziale discontinuità rispetto alla tradizione, hanno contraddistinto l’at-tuale stato di crisi che sarebbe troppo facile attribuire solo all’azione “nor-distica”, svolta dalla Lega lombardo-veneta ed ancor più ai mutati sistemi elettorali dei Sindaci, dei Presidenti delle Amministrazioni provinciali e delle Giunte regionali.

L’aspetto più allarmante, come ho già detto, è da ritenersi proprio l’oggettiva carenza di personale po-litico nella gestione di una società meridionale divenuta sempre più complessa, tanto più se aggravata dall’incontestabile presenza di orga-nizzazioni criminali sempre più ca-pillarmente diffuse e mimetizzatesi e dalla totale assenza di un concreto e realizzabile disegno politico, capace di scuotere.

Per rifarmi al sottotitolo del bel-lissimo libro di de Giovanni, mi vie-ne da dire che la ‘sinistra’ si è persa quando non è stata più capace di leggere la realtà, di individuare le soluzioni (specie se dure e costose) da proporre ai cittadini, di promuo-vere la formazione di una dirigenza responsabile e disinteressata, che sappia vedere un futuro possibile e, soprattutto, credervi fermamente in una dimensione comunitaria, in cui la comunicazione corretta e la par-tecipazione effettiva siano degli im-perativi per tutti.

Per affrontare un simile mare alquanto impegnativo occorre, evi-dentemente, un timoniere esperto e coraggioso che possa valersi di un equipaggio decentrato all’altez-za delle sfide che non possiamo più oltre evitare.

Tertium non datur!

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Biagio de Giovanni non ha atte-so lo scandalo campano dei rifiuti e nemmeno l’approvazione del cosid-detto federalismo fiscale, per analiz-zare con fredda passione lo stato di quasi totale latitanza del centro-si-nistra ed in particolare della sinistra estrema nell’era dell’alleanza tra Ber-lusconi a Bossi, più l’ambigua appen-dice di Fini. Con questo libro, che a buon diritto la Fondazione Mezzo-giorno Europa sponsorizza, l’illustre docente napoletano ha messo a fuo-co, con estrema chiarezza al tempo stesso con profondità, le ragioni e le caratteristiche di una crisi che non ha l’eguale in alcuno dei grandi pae-si dell’Unione Europea, nonostante l’enorme contributo di impegno civi-le e di cultura politica che comunisti e riformisti hanno assicurato all’Italia nel corso del Novecento.

A mio sommesso parere, prim’an-cora di essere politica, la crisi di cui stiamo parlando è stata culturale. È mancato completamente ai vertici dei due schieramenti riformatori, a partire dal crollo del sistema sovieti-co e dall’offensiva giustizialista delle Procure italiane contro i partiti pro-tagonisti della prima Repubblica, il dirigente o il gruppo direttivo capa-ce di intuire la portata e il significato della mutazione globale che ha tra-sformato in tutto il pianeta il modo di produrre, di comunicare, di tra-sferirsi, di organizzare gli scambi fi-

nanziari economici e culturali; e che, in particolare in Italia, ha distrutto il tessuto istituzionale e politico del-la democrazia riconquistata con la Resistenza.

La Democrazia Cristiana e il par-tito Socialista si sono dissolti sotto i colpi dell’inchiesta di Mani Pulite; il partito Comunista, risparmiato mi-racolosamente persino da indagini serie sui finanziamenti sovietici o casalinghi, ha rinunciato a definir-si criticamente ammettendo le sue compromissioni con l’obbedienza stalinista ma vantando (come avreb-be potuto) i suoi meriti per l’inestima-bile battaglia sociale e democratica combattuta nel Paese e per l’esem-plare gestione del potere locale nelle regioni “rosse”.

Il gruppo dei dirigenti usciti dal-la file della Federazione giovanile ha preferito, invece, seppellire il passato sotto una serie imbarazzante di cam-biamenti nominali del partito per at-testarsi su una presunta certezza di superiorità morale che in termini po-litici è servita soltanto ad esonerarli da una considerazione seria e og-gettiva dei nuovi avversari: da Ber-lusconi e il suo populismo al seces-sionismo, poi annacquato, della Lega. Come osserva de Giovanni, soltanto D’Alema ha tentato un dialogo con la Lega (battezzandola addirittura come “una costola della sinistra”), nell’illu-sione di ripetere la diabolica manovra

con cui Togliatti aveva emarginato l’UQ di Giannino, ma tutti sappiamo che la storia di un dramma si ripete troppo spesso come farsa.

Ben altro spessore hanno le os-servazioni del professore napoletano. Con implacabile schiettezza, egli so-stiene che con Berlusconi e soprattut-to con la Lega, il Mezzogiorno scom-pare dall’agenda politica, e, con essa si dissolve il “tessuto strategico” della sinistra, mentre essa bada a mettere in risalto la rozzezza formale della politica leghista, senza rendersi con-to che Bossi e il suo ispiratore, Miglio si sono collocati sul piano della “real-tà delle cose” .

Negli anni Novanta, insomma, era cominciata una nuova egemonia nella quale il partito di Berlusconi assorbiva le ragioni dell’elettorato moderato di colore democristiano e a sinistra, os-serva de Giovanni, si è “stupidamen-te” snobbata anche l’adesione a Forza Italia di “molti quadri politici vocati al riformismo”, vecchi e giovani sociali-sti esasperati dall’annientamento della “leadership” di Craxi.

Ma forse l’intuizione più genia-le dello studioso napoletano è quel-

la che chiama in causa la cosiddetta “rivoluzione dei sindaci”, sull’onda della quale non solo in Campania ma in diverse altre regioni del Sud a metà degli anni Novanta il centro-sinistra sembrò aver ritrovato vigore e consistenza politica, tanto più che ebbe a disposizione un flusso co-stante ed ingente di fondi europei. Ma il suo “mero apparato di potere, non più sorretto da una fede”, cioè da un’ideologia penetrante, realisti-ca, egemone, ha impedito al centro-sinistra di Bassolino e compagni dì interpretare i bisogni autentici del territorio, il nuovo senso delle sue relazioni esterne, le sue “fisionomie” produttive culturali e di vertice politi-co, l’esigenza di trasformarsi davvero in un partito federalista.

Molto altro si potrebbe dire di questo libro, soprattutto per i sugge-rimenti che de Giovanni offre al Par-tito Democratico per imporsi come la punta di lancia dell’opposizione al centro-destra ma forse la sintesi per-fetta della critica espressa sul libro, in una frase beffarda: “La sinistra parla in latino, la destra in volgare”. Peri-colosissimo snobismo.

Antonio GhirelliuNA CRISI INNANZItuttO CuLtuRALE

Commenti al volume di Biagio de Giovanni

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35Martin Sattler è pro-

fessore nella Fachhochschule di Mannheim dove insegna scienza politica, diritto pubblico e sto-ria costituzionale. Da circa quat-tro anni conduce le attività della “Scuola di Heidelberg” dell’Istitu-to Italiano per gli Studi Filosofici. Con lui affrontiamo, per gran-di linee, alcuni dei temi di mag-gior rilievo per l’Unione Europea.

Quali sono le politiche e gli stru-menti messi in campo per sensibi-lizzare maggiormente verso un eu-ropeismo sempre più diffuso?

Credo che sia importante insiste-re con momenti di confronto, con-gressi, eventi attraverso i quali dare la possibilità a cittadini di paesi diffe-renti di discutere insieme e creare un livello di comprensione dei problemi dell’Europa, che sono i problemi che tutti affrontiamo a partire dal dopo guerra. Congressi come quello che l’Istituto Italiano per gli Studi Filoso-fici sta svolgendo al quale io posso partecipare. Le ferite tra le Nazioni sono gravi e sono storicamente lì, bi-sogna essere consapevoli di queste ferite, ma è anche necessario parti-re da esse ed imboccare una dire-zione positiva verso l’integrazione Europea.

Come procede il percorso del Trat-tato di Lisbona?

Mancano solo le adesioni dell’Ir-landa, della Polonia, e della Repubbli-ca Ceca, tutti gli altri 27 Stati membri dell’Unione Europea hanno già dato l’approvazione. Nel caso in cui fal-lisse si potrebbe anche andare avanti con il Trattato di Nizza, perché questo

è il trattato secondo il quale si attua l’integrazione europea.

Come reagisce l’Europa nel suo in-sieme alla crisi globale?

La crisi globale è una crisi finan-ziaria, e adesso diventa anche una crisi economica, la reazione avviene attra-verso i programmi diversificati dei 27 membri dell’UE, ma se si fa il conto, l’addizione di questi programmi rap-presenta uno sforzo grande ed impor-

tante messo in atto dagli Stati membri. Al fondo si vede una crisi culturale. Il nazionalismo e il principio della sovra-nità dello stato non valgono più.

Quindi bisogna lavorare su un co-ordinamento delle politiche na-zionali.

Si, il coordinamento è necessario, ma questi grandi programmi finanzia-ri devono funzionare sul livello con-creto e locale.

Parlando di politiche di integrazio-ne, cosa si dovrà ancora fare per ga-rantire un equilibrio tra i diritti e i doveri di ospiti ed ospitanti?

L’integrazione ad esempio di ma-nodopera che si muove all’interno dell’Europa, è una questione che le società sono obbligate ad affrontare, ed i risultati sembrano essere molto positivi. Ci sono problemi da risolve-re, penso ad esempio ai paesi dell’est, ma la prospettiva è molto positiva perché l’integrazione funziona mol-to bene specie in tempi di pace e di relativa prosperità economica.

in questo contesto come procede l’avanzamento delle politiche per i diritti sociali?

Questo è un proble-ma dell’Europa, è infatti la grande sfida per l’inte-grazione europea, perché l’Europa non è un’Europa sociale, ma economica,

legale: naturalmente l’armonizzazio-ne delle leggi è molto importante, ma lo stato sociale è rimasto fuori dall’in-tegrazione. Certamente il livello dello spazio sociale è tanto diverso da Stato a Stato, ad esempio in Portogallo, in Bulgaria non si arriva a standard ugua-li, e questo è il problema da affrontare per arrivare ad adeguate armonizza-zioni. Ci vuole tempo, la Costituzione Europea cresce gradualmente.

una sua opinione sul rapporto tra l’Europa e il Mediterraneo in que-sta nuova fase caratterizzata dalla proposta dell’unione per il Medi-terraneo.

L’Unione per il Mediterraneo è un’idea francese, venne ostaco-lata dall’insieme del Consiglio dei Ministri degli Esteri europei che volevano farne una cosa comune, condivisa, e così la nascita di que-sta iniziativa è stata un po’ ambi-gua. Credo che la comunità del Mar Mediterraneo sia molto importante nei processi che vedono coinvolti gli stati arabi ed Israele. L’Europa ha anche una responsabilità nella ricerca di un equilibrio nel Medio Oriente, che forse potrà realizzar-si anche attraverso un ruolo più

specifico della Turchia grazie al suo vasto patrimonio di cultura e tradizioni.

Cosa può dirci a proposito del volume del bilancio finanziario dell’unione Europea?

Il Bilancio dell’Europa è mini-mo. Il Presidente Barroso ammini-stra un bilancio uguale a quello dei Paesi Bassi per 27 nazioni. Questo bilancio è necessario per fornire i programmi di 27 Stati. La finanzia-ria europea è scandalosa: è il 5% dei bilanci pubblici che sono in vi-gore in Europa. Questo è il fallimen-to del Piano Delors che proponeva l’aumento delle finanze così come proposto dal documento di Alexan-der Hamilton, fondatore dell’unione americana. La nozione di unione che abbiamo, rispetto a quella di confederazione, deve voler signi-ficare che l’unione deve avere una finanziaria sostanziale e sicuramen-te non quella del 5% della spesa pubblica.

Cosa si sta mettendo in atto per ade-guare il volume del bilancio?

Gli Stati membri sono rimasti an-corati al concetto della propria sovra-nità e della propria politica finanzia-ria frammentata e questo mi sembra l’ostacolo pragmatico più grande da superare per una integrazione più profonda dell’Europa.

Intervista a martin sattler

CONfRONtO CON I CIttADINISuI pROBLEMI DELL’EuROpAottavia beneduce

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N. 3 – Anno X – Maggio/giugno 2009

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