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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 240 307 27 novembre 2017 Io ero estremamente contrario alle Olimpiadi, ma non ero sicuro che i romani la pensassero come me. [...] Decisi di telefonare a Massimo, il mio meccanico, e gli chiesi di radunare un po’ di amici perché, gli dissi scherzando (ma neppure troppo), ‘dovevamo prendere una decisione politica’. Lui radunò una decina di persone: l’edicolante, il fruttivendolo del quartiere, un paio di parenti, un pensionato. Chiesi a Massimo se si trattava di persone di fiducia. Te poi fida’ disse lui. Così, quasi in modo solenne, domandai cosa ne pensassero delle Olimpiadi a Roma. Le loro rispo- ste furono molto aspre, e non posso riportare le parole esatte per evitare querele. A ogni modo uscii dall’officina, dal mio ‘soviet’ personale tra bulloni, pezzi di ricambio e olio, e mandai un messaggio a Virginia: ‘Sulle Olimpiadi nessuna esitazione, linea durissima. La stragrande maggioranza dei romani sta dalla nostra parte’. Alessandro Di Battista, Maschietto Editore Il soviet de’ noartri

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Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

240 307

27 novembre 2017

Io ero estremamente contrario alle Olimpiadi, ma non ero sicuro che i romani la pensassero come me. [...] Decisi di telefonare a Massimo, il mio meccanico, e gli

chiesi di radunare un po’ di amici perché, gli dissi scherzando (ma neppure troppo), ‘dovevamo prendere una decisione politica’. Lui radunò una decina di persone:

l’edicolante, il fruttivendolo del quartiere, un paio di parenti, un pensionato. Chiesi a Massimo se si trattava di persone di fiducia. Te poi fida’ disse lui. Così, quasi in

modo solenne, domandai cosa ne pensassero delle Olimpiadi a Roma. Le loro rispo-ste furono molto aspre, e non posso riportare le parole esatte per evitare querele. A

ogni modo uscii dall’officina, dal mio ‘soviet’ personale tra bulloni, pezzi di ricambio e olio, e mandai un messaggio a Virginia: ‘Sulle Olimpiadi nessuna esitazione, linea

durissima. La stragrande maggioranza dei romani sta dalla nostra parte’.Alessandro Di Battista,

Maschietto Editore

Il soviet de’ noartri

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dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagine

NY City, 1969

La prima

Ecco una bellissima

maternità nera!

Uscendo di corsa da

un negozio ho quasi

urtato questa giovane

madre con il suo

splendidi bambino.

Per fortuna allora i

tempi erano diversi

e nessuno pensava,

neppure da lontano,

a tutte le questioni di

privacy che ai giorni

nostri sono diventate

virali e, senza alcun

discernimento

ragionevole, rendono

praticamente quasi

impossibile registrare

situazioni come

questa, che una volta

erano considerate

belle e degne di

attenzione. E quindi,

come si dice ormai

sempre più spesso,

“si stava davvero

molto meglio quando

si stava peggio”!

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Direttore

Simone SilianiRedazione

Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti

Progetto Grafico

Emiliano Bacci

[email protected]

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www.culturacommestibile.com

www.facebook.com/cultura.commestibile

Editore

Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142

Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

240 307

27 novembre 2017

In questo numeroLa variabile idea di bellezza

di Francesco Gurrieri

L’editore che regala i libri

di Simone Siliani

Bonsai atlantico

di Alessandro Michelucci

La badessa, il conte, il pittore

di M. Cristina François

Il Tempio dell’Incerto

di Angela Rosi

Guido Rey, alpinista e pittorialista

di Danilo Cecchi

Il movimento radicale non è mai esistito

di John Stammer

Paesaggio rotante

di Claudio Cosma

Mappe di percezione: San Francisco

di Andrea Ponsi

La ragazza nella nebbia

di Mariangela Arnavas

La realtà messa in posa resta reale?

di Elisa Zuri

Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli

di Simone Zanuccoli

Passaggio in Mongolia/1

di Marco Zappa e Rossella Seniori

The square

di Francesco Cusa

e Cristina Pucci, Valentino Moradei Gabbrielli, Anna Lanzetta, Paola Grifoni... Illustrazioni di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

L’invito di Rosa Maria

Le Sorelle MarxL’invito di Rosa Maria

I Cugini Engels 

Abbastanza incensurato

Lo Zio di Trotzky

Riunione di famiglia

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Troppi luoghi comuni, tanti aforismi, non

poche ambiguità: è ciò che accompagna oggi

l’idea di bellezza, sempre più inseguita, sem-

pre più polisemica, troppe volte solo moto-

re di marketing. Più che l’abusata citazione

dostoevskijana ricordiamone quella data da

Thomas Mann, secondo cui “la bellezza ci

può trafiggere come un dolore”.

Sull’idea e la creazione della bellezza – ri-

cordiamolo – Vasari ci dà un primo saggio

nel Proemio alle “Vite”: “...di queste tre arti

eccellentissime Architettura, Scultura e Pit-

tura...comincerommi dunque dall’Architet-

tura, come della più universale e più neces-

saria e utile agli uomini, ed ora al servizio e

ornamento della quale sono l’altre due”.

Ciò viene da fonte insospettabile, da chi,

come Vasari, fu Architetto, Pittore e Sculto-

re. Ma qui non vogliamo riaprire la disputa

sulla primazia delle arti, anche se una verifi-

ca ad oggi potrebbe essere particolarmente

divertente. Ma certo, dovremmo mettere nel

conto almeno il cinema, la moda, i modi del-

la multimedialità e altro ancora.

Nella complessità e nell’entropia dei nostri

giorni, qualche decennio fa, un brillante stu-

dioso di origine svizzera, allievo di Wöefflin

e amico di Le Corbusier, Sigfried Giedion,

avvertiva un problema che è forse ancor oggi

di grande attualità: diceva che “il problema

odierno è di superare il nefasto abisso che si

determina tra un pensiero molto progredito

e una sensibilità arretrata, quale quella del

committente di qualunque categoria. Se si

riesce a superare questo dislivello potrà svi-

lupparsi naturalmente la ricerca di creatori

più capaci...”.

La verità è che il dibattito sulla bellezza è

stato congelato per molto tempo.

Sentite la perentorietà colpevole di questo

passaggio nella Storia della critica d’arte del

nostro Lionello Venturi: “Un altro concetto

che ha per molto tempo fuorviato l’esteti-

ca del suo compito di essere una filosofia

dell’arte, è stato quello di bellezza. Ed è uno

dei principali meriti dell’estetica di Bene-

detto Croce di aver escluso il concetto di

bello...”.

Come si vede una vera e propria teorizzazio-

ne per espungere dal lessico la “bellezza”.

Un modo per tentare di avvicinarsi al tema,

può esser quello di partire da un’affermazio-

ne “elastica” della bellezza, che non deve

scandalizzare: la bellezza è un concetto che

muta nel tempo e nello spazio. Il nostro è un

concetto proprio della cultura occidentale,

che ha radici nella classicità, che ha riferi-

menti con la filosofia e con l’estetica in par-

ticolare: quell’estetica di cui ci si riempie la

bocca, che si crede di conoscere, ma che in

realtà è solo un diffuso luogo comune. E do-

vremmo parlare anche di “cànone”, anch’es-

so variabile fra oriente e occidente; perché

in genere, troppo sommariamente, il giudi-

zio si esprime in termini di “bello” o “brut-

to”. Il cànone è importante perché è il metro

di paragone; è una chiave di lettura (estetica,

appunto) che ci avvicina e ci accomuna nel-

la lettura di un’opera d’arte. Comunemente,

lo vediamo applicato alla figura umana e in

quella femminile in particolare: non a caso –

ed è quasi ovvio - è supercitata la “Primave-

ra” botticelliana come paradigma della bel-

lezza. Ma anche l’estetica è una disciplina

che muta, oscilla e si eclissa nel tempo. Oggi

non è più studiata; così che desta meraviglia

un testo come quello di Sergio Givone inti-

tolato L’estetica del nulla. Uno studio e una

riflessione che hanno forse anticipato ciò

che oggi stiamo vivendo in ordine alla liqui-

dità e alla confusione del giudizio estetico:

non c’è più un cànone e, di conseguenza, va

bene tutto e il contrario di tutto.

Allora, cerchiamo di riflettere, per grandis-

sime linee, alcuni momenti salienti dell’idea

di bellezza nella nostra cultura occidentale.

Partendo dall’Atene di Pericle, dall’architet-

tura del Partenone e dalla scultura di Fidia.

Infatti, come potremmo prescindere dalle

mètope del Partenone o dalle meraviglio-

se fanciulle-cariatidi dell’Eretteo? Radici

queste che, assai più tarde e pur mediate

dalla classicità romana, ritroveremo in quel

di Francesco Gurrieri

La variabile idea di bellezza

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O della confusione degli opposti

per non condizionare i giovani allievi. E così

potremmo continuare fino ai nostri giorni,

passando anche attraverso la stagione del

Futurismo, che ribaltò l’idea di bellezza, ab-

bandonando la figura umana e cercandola

piuttosto in quella della “velocità”. Le figure

di Carrà, di Balla e di Boccioni hanno, in-

dubbiamente altro e diverso cànone, come,

personalissimo, se l’era costruito Amedeo

Modigliani. Il “cubismo” fece il resto. Poi,

faticosamente, attraverso numerose e dif-

ferenziate strade espressive siamo ai nostri

giorni, ove si è riaffacciato prepotente l’e-

sercizio della figura, dalla lirica silenziosa

di Hopper al brutale realismo di Freud. A

clima artistico dell’Umanesimo proprio qui

in Toscana, segnatamente in quel rapporto

scultura-architettura che fu proprio della

“bottega” di Donatello e Michelozzo, di cui

il Pergamo dell’angolata del Duomo di Prato

resta forse l’esempio più significativo.

Del resto, parlando di cànoni, si può pre-

scindere da trattatisti come Vitruvio o Leon

Battista Alberti, figure primarie nella fissa-

zione dei canoni (soprattutto gli “ordini”) in

architettura?

Ma veniamo ad un punto cruciale nella

storia dell’estetica: a quel momento magico

dell’umanesimo, all’acme, che con Lorenzo

il Magnifico vedeva compresenti il Ficino,

Pico della Mirandola e il Poliziano. Ma che

di lì a poco, con l’incendio spirituale e pia-

gnone del Savonarola, muterà improvvisa-

mente colpendo lo stesso Botticelli. Peraltro,

appena più tardi, ecco arrivare Michelange-

lo col suo David, con l’introduzione di un

cànone maschile che ha traversato i secoli.

Ma pensiamo poi alle figure femminili di

Rubens che sconvolgono antiteticamente le

antropometrie botticelliane.

Quando arriviamo a Winckelmann e a

Canova ( e siamo nel XVIII secolo) le cose

cambiano ancora: il primo guarderà esclu-

sivamente alla figura maschile, parametriz-

zandola (e facendone un cànone), il secondo

spostando di nuovo l’attenzione sulla figura

femminile; il paradosso è che al Canova

succederà un Lorenzo Bartolini che, provo-

catoriamente, vuol silenziare l’idea di càn-

one, portando a modello, in Accademia, un

gobbo! Una trasgressione programmatica

dimostrare come si stia vivendo quella che è

stata definita la “confusione degli opposti”,

digerendo tutto e il suo contrario, colpevol-

mente accettando una progressiva ideologia

dell’ignoranza, che rende tutti più uguali.

Come si vede, si torna alle “oscillazioni del

gusto” (di dorlesiana memoria); si torna al

“perimetro culturale” a cui si fa riferimento,

ci si riconduce al “cànone”, entrambi varia-

bili nel tempo e nello spazio. Del resto, cosa

direste se chiamati a giudicare fra l’Angelo

che sorride della Cattedrale di Reims e la

Venere di Samotracia del Louvre?

Questo testo è in parte apparso sulla

rivista “Testimonianze” , 510/2016

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L’equivoco non è destinato a sciogliersi,

anzi: in qualunque contesto lui si trovi,

dall’intimità di un dialogo a due con Ben

al confronto con il Presidente degli Stati

Uniti, passando per la partecipazione ad un

talk-show televisivo, le risposte di Chance,

sempre molto semplici e invariabilmente

riferite al mondo del giardinaggio, vengono

sempre scambiate per profonde metafore,

proprie di una persona dalla grande saggez-

za e illuminante filosofia.

Alla morte di Ben, eminenza grigia del

potere espresso dal presidente, quest’ulti-

mo pronuncia un discorso di commemora-

zione, mentre chi muove le fila del potere

e presenzia il funerale, all’ombra di un

famedio piramidale recante un occhio al

suo vertice, già si chiede nelle mani di chi

mettere il potere, in vista della scadenza del

mandato. L’attenzione dei grandi industria-

li finisce per indirizzarsi verso Chance, il

quale, in un finale surreale, si allontana dal-

la cerimonia, teneramente distratto dalla

natura intorno, e si avvia verso un laghetto,

che percorre a piedi come fosse solido, una

metafora forse della sua ingenua leggerez-

za mentale che gli permette di “camminare

sulle acque”; nel frattempo si ascoltano an-

cora in sottofondo parole di Ben citate nel

discorso funebre, che si concludono con la

frase: “La vita è uno stato mentale”.

Abbiamo chiesto un commento sull’intervi-

sta di Eike Schmidt, direttore delle Gallerie

degli Uffizi (pubblicata nello scorso numero

di Cultura Commestibile), ad Antonio Na-

tali, secondo il suo costume, non ha voluto

commentare; ma ci ha suggerito di riguar-

dare il film interpretato magistralmente da

Peter Sellers, “Oltre il giardino” del 1970.

Noi, per rinfrescare la memoria, ne diamo

qui di seguito la sinossi.

“Alla morte del padrone, Chance, un giar-

diniere sempliciotto e non più giovane, che

non è mai uscito dalla casa nella quale ha

lavorato per tutta la vita, si ritrova in mezzo

alla strada, con una valigia di vecchi abiti

di lusso e un disarmante candore. L’unico

collegamento col mondo esterno è stata nel

corso di tutti questi anni la sola televisione.

Vagando disorientato e senza meta per le

strade di una Washington sporca e maledu-

cata, ben diversa dal mondo che lui vede-

va rappresentato attraverso la TV, Chance

viene investito dall’auto della moglie di un

influentissimo personaggio. La donna, Eve

Rand, si preoccupa di soccorrere il malca-

pitato e lo porta nella sua villa per farlo cu-

rare. Durante il tragitto in automobile Eve

chiede all’uomo come si chiami, e la sua

risposta, resa poco chiara da un colpo di tos-

se, viene compresa nella versione originale

come Chauncey Gardiner, mentre nelle

intenzioni voleva essere “Chance il giardi-

niere” (Chance the gardener).

Chance si rimette presto dal piccolo inci-

dente ma poi si trattiene come ospite, vi-

sto che il vecchio e malato Ben, marito di

Eve, uomo d’affari e amico del Presidente

degli Stati Uniti, colpito dalla sua riserva-

tezza, lo tiene in grande considerazione,

e sua moglie addirittura se ne innamora.

Tutto ciò avviene all’insaputa di Chance e

in maniera del tutto fortuita, dato che quei

pochi concetti che lui esprime riguardano

il giardinaggio (unico argomento da lui co-

nosciuto) e l’unica cosa che gli interessa è

guardare la televisione. Ma in un mondo

che è portato a vedere ciò che vuole più che

ciò che è, Chance viene scambiato per un

saggio, sensibile e arguto osservatore. Solo

il medico di famiglia nutre dei sospetti sem-

pre più concreti circa la sua reale natura.

Quando qualcuno cerca di parlargli con

una metafora, una forma allegorica, oppure

un doppio senso, Chance interpreta alla let-

tera, rispondendo quindi in modo bizzarro.

Le risposte vengono interpretate come frut-

to del suo senso dell’umorismo.

a cura della redazione Il giardiniere Chancee la guida degli Uffizi

Il commentodi Antonio Nataliall’intervista a Eike Schmidt

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sorta di obbligo a comprare le quantità enormi

che di solito si vedono nella prima stanza del-

le grandi librerie di catena sistemate in grandi

pile di “novità”, che hanno una obsolescenza

di qualche settimana e poi vengono diretta-

mente mandate al macero.

Questo sottrae spazio invece ad una editoria di

qualità?

Sì, perché la piccola editoria non può permet-

tersi simili tirature.

Questa specificità di Maschietto editore sulle

immagini d’arte, fa giustizia del modo un po’

semplicistico con cui si è celebrato il funerale

del libro di carta, perché l’immagine resta un

punto di forza dell’edizione cartacea?

Io credo che questi riti siano piuttosto dei bal-

lon d’essai per stupire, indurre domanda di

altri prodotti. Certo, ci sarà sempre di più una

produzione digitale che consente anche certi

usi d’occasione come ai viaggi in cui diventa

difficile portarsi dei libri di carta, mentre con

un ebook reader è molto più facile. Ma io non

conosco persone che non abbiano libri in casa.

E’ un oggetto formidabile, affinatosi tecnolo-

gicamente nel corso del tempo, che ha delle

notevoli funzioni fascinatorie. Ricordo che al

primo anno di Università nella facoltà di giu-

risprudenza, durante la prima lezione di dirit-

to romano, il professore - che era un luminare

dall’aspetto molto severo - disse al pubblico:

“Il libro funziona sul principio del cardine”,

con l’intenzione di spiegarlo ad un pubblico

che riteneva, a torto o a ragione, poco esperto

dell’oggetto.

Tornando a questa esperienza di rete di dona-

zione di libri, come la volete definire?

Francamente non saprei. Abbiamo iniziato

invitando amici e conoscenti, presentandola

come una cosa gioiosa, che all’inizio è stata

presa anche con una certa diffidenza (“dove

sarà il trucco?”); ma poi è stata accolta con

entusiasmo. Perché noi lo sappiamo bene,

l’editore si affeziona ai propri libri, come se vi

avesse un rapporto parentale, e non di sempli-

ce produttore. Per cui li conserva, li trattiene,

aspetta occasioni che poi non arrivano, per

diffonderli e questo porta ad un accumulo.

A chi rivolgete l’invito a venire a prendere i

vostri libri?

Alle scuole, certamente, anche se è difficile

proprio per la quantità di passaggi burocratici

che donazioni verso queste istituzioni richie-

dono. Ma noi siamo riusciti, attraverso la col-

laborazione di alcuni insegnanti, a risolvere

questi problemi per allestire una piccola bi-

blioteca circolante. Ma, ci rivolgiamo a chiun-

que, liberi e singoli cittadini, associazioni, ecc.

Questo alleggerimento del magazzino ci aiu-

terà anche a concentrarci maggiormente sul

lavoro di promozione e valorizzazione anche

in senso commerciale dei libri che abbiamo e

che ci restano. Guardando a questo enorme

magazzino, è chiaro che senti il peso di un

problema, ma ti dà anche la dimensione di un

lavoro fatto di una certa qualità.

Vorrei che di questa esperienza si parlasse an-

che in forma letteraria, immaginativa e credo

che “Cultura Commestibile” potrebbe essere

il veicolo giusto per farlo: in questi movimenti

attorno ai libri c’è sempre qualcosa di lettera-

rio e, dunque, perché non favorire una raccol-

ta di storie. Anche con una rubrica, “Notizie

dal magazzino”. Il libro è sempre in crisi: fino

a qualche anno fa l’intero settore rimetteva

500 milioni l’anno, poi negli ultimi anni c’è

stata un’inversione di tendenza. Pensiamo al

proliferare dei saloni e le fiere del libro: io cre-

do che l’obiettivo finale sia quello di arrivare a

fare 12 grandi fiere del libro l’anno perché il

prodotto, come si dice, tira.

Un editore, il nostro Maschietto Editore,

affronta il problema comune a tutte queste

aziende, cioè la gestione dei magazzini (costo-

si e ingombranti), in forme nuove ma con cuo-

re antico; di chi non solo “produce merci” (li-

bri, in questo caso), ma “ama” il suo prodotto.

Invece di mandare al macero quintali di libri,

ha deciso di regalarli a chi vuole passare dalla

sede e ritirarli. Ma sta avvenendo un piccolo

fenomeno peculiare. Ascoltiamolo raccontato

dalla voce del titolare, Federico Maschietto.

Cosa succede? L’editore per sue esigenze in-

terne, diventa un distributore di libri, svuota

magazzini e si genera un fenomeno culturale?

Succede qualcosa che valorizza la memoria e

la storia di questa azienda. Non c’è un metro

certo per misurare il successo di un libro, ma

noi stiamo toccando con mano questo dato

attraverso l’afflusso di persone, le quali ven-

gono e sfogliano e scelgono questi libri che

regaliamo. Sono libri tornati in casa editrice

e che doniamo a istituzioni culturali, studio-

si, semplici lettori. Libri che si accumulano e

che creano una pesante zavorra dal punto di

vista del consumo di spazio e di costi di ge-

stione. Restano in casa editrice alcuni titoli

più recenti o che hanno una consolidata pre-

senza in libreria, e una parte di archivio in-

toccabile. Tutto il resto, cioè 25 anni di lavoro

con questo marchio, è a disposizione. Abbia-

mo registrato un grande interesse per questo

patrimonio. Partiamo sempre dall’argomento

artistico, perché da lì è iniziata la nostra espe-

rienza professionale. Abbiamo iniziato que-

sto “gioco” con il passa parola ed è cresciuto

a dismisura. Occorrono, ovviamente, delle

regole perché il libro è un prodotto tracciato e

quindi non si possono regalare o buttare libri

senza lasciarne un riscontro formale, per cui

chiediamo a chi viene a prendere i libri gra-

tuitamente di firmare una semplice ricevuta

per avvenuta donazione.

Di quanti volumi stiamo parlando?

Siamo fra i 400 e i 500 titoli pubblicati in 25

anni. Che comporta un magazzino pesante:

questa reductio ad unum serve un po’ anche a

razionalizzare e a riprendere il cammino. Ab-

biamo rinnovato il nostro contratto di distri-

buzione dei nostri libri con Messaggerie, che

è la più grande azienda italiana nel settore.

Quindi abbiamo ora un sistema di “magazzi-

no funzionale” che muove i libri che vengono

ordinati dalle librerie e rimanda indietro le

fantasmagoriche rese. Il libraio è un mercante

apparentemente libero che di fronte al rap-

presentante si pensa abbia piena ha libertà

di scelta, ma non con le major con cui ha una

di Simone Siliani L’editore che regala i libri

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Anche quest’anno, puntuale come il Natale

ma anche come la morte, si celebra l’enne-

sima Leopolda renziana nella nostra sfinita

– anche da queste cerimonie – cittadina.

Essendo delle autorità in materia, abbiamo

ricevuto dall’amica (lei ci chiama così, anche

se non ci abbiamo mai fatto un pasto insieme,

ma tant’è) senatrice Maria Rosa Di Giorgi,

l’invito a partecipare al tavolo leopoldino de-

dicato al Cinema e allo Spettacolo. Occasione

imperdibile, soprattutto per l’incipit dell’in-

vito della senatrice (e non certo perché questi

tavoli servano ad alcunché, come del resto

quelli dei “100 luoghi” di renziana memoria

a Firenze). Infatti la Rosa Maria ci notifica

che il Parlamento “ha varato due leggi, di

cui sono stata relatrice, attese da tantissimi

anni: la Legge che disciplina il Cinema e

l’audiovisivo e la Legge Spettacolo”. E fin qui

va bene, ma poi la senatrice esagera: “Queste

importanti riforme riconoscono, una volta per

tutte, i valori sociali, economici e culturali di

questi due settori strategici per lo sviluppo

del nostro Paese”. Ora, vorremmo suggerire

all’amica Rosa Maria di spararle anche meno

grosse. Intanto perché non è che prima di

queste leggi il settore non fosse regolamentato

da norme statali. Ma si sa, è lo stile renziano:

“prima di me il nulla, dopo di me il diluvio”.

Ma soprattutto vorremmo dire alla carissima

Rosa Maria che niente è per sempre, neppure i

diamanti; figuriamoci Renzi!

Lo Zio diTrotzky

In una emorragia di voti ormai piuttosto

generalizzata il segretario del PD Matteo Renzi

si è convinto che il successo del suo partito

alle prossime elezioni si giocherà nel confronto

verso le giovani generazioni. Ecco quindi che

Renzi si è circondato sul suo treno di una serie

di Millennials il cui unico criterio di scelta

pare essere la data di nascita e si è messo a

citare e affrontare temi da supergiovane, il

tutto sempre a favore di social. Lo troviamo

quindi su instagram a cantare Coez (imma-

giniamo cambiando il verso del ritornello del

suo maggior successo da “amami o faccio un

casino” in “votami o faccio un casino”) oppure

a immaginare come logo/slogan della nuova

Leopolda “L8” giocando sull’ottava edizione

(in un rimando tarantiniano forse involonta-

rio visto che i protagonisti dell’ottavo film di

Tarantino fanno quasi tutti una brutta fine) e

sul fatto che, letto, lo slogan suona come “lotto”.

Avesse la nostra tradizione il buon Renzi

potrebbe abbinare anche una colonna sonora al

suo slogan, quel “battan l’otto” canto socialista

di inizi novecento in cui si canta: “Verrà qui’

giorno della rivoluzione,/verrà qui’ giorno che

la dovrai pagare/ma verrà qui’ giorno della

rossa bandiera/infame società, dovrai pagare”.

Certo, direte, un canto del genere non pare

adatto al giovanilismo del lupetto di Rignano;

ma solo perché non avete ascoltato la versione

elettronica di les anarchistes.

Buon sangue non mente, mai. Ed è il caso

di Luigi Genovese, figlio d’arte, cioè di

Francantonio Genovese, un vero artista

della truffa. Il padre, da poco condannato a

11 anni di carcere per avere guidato un’as-

sociazione criminale che faceva la cresta a

fondi regionali per la formazione professio-

nale, può ben dirsi orgoglioso del pargolo

che, alla tenera età di 21 anni, dopo una

trionfale marcia elettorale in Sicilia a suon

di 18 mila preferenze, si è trovato indagato

per riciclaggio ed evasione fiscale. D’accor-

do, son reatucci, quasi da cavalierato del

lavoro in Italia, ma come cantava Francesco

De Gregori, Il ragazzo si farà, anche se ha

le spalle strette. Insomma,non è ancora mol-

to, ma è abbastanza. Concetto con il quale

il giovane Luigi ha una certa affinità, visto

che in una intervista a Repubblica del 27

settembre scorso ebbe a pronunciare la stori-

ca frase: “Sono anche abbastanza incensu-

rato”. Ma che vuol dire? E’ come dire,”come

stai?”, “eh non c’è male, sono abbastanza

incinta”. Poi nella stessa intervista il

ragazzo ha perfezionato il concetto: “questo

mondo i giovani li ha finora messi da parte

o utilizzati solo quando fa comodo. La mia

candidatura nasce anche per cambiare rot-

ta. L’unica verità è che si fa sempre grande

retorica attorno ai giovani. … Chiediamo

solo la possibilità di costruirci il futuro... io

ho avuto un’opportunità di scommettere su

me stesso. E ho sentito il dovere di farlo. E’

già un messaggio, o no? Non candidarmi

sarebbe stato irrispettoso nei confronti della

mia generazione, non della mia famiglia».

Per carità, non sia mai che ci perdiamo un

genio come questo. Lui ha scommesso e la

fortuna lo ha baciato in fronte. A parte il

piccolo dettaglio dell’inchiesta che, forse, lo

renderà abbastanza meno incensurato.

Votami o faccio un casino

Le SorelleMarx

I CuginiEngels

L’invito di Rosa Maria

Abbastanzaincesurato

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927 NOVEMBRE 2017

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

Nel miglioredei Lidipossibili

Al povero non donare un pesce educalo, invece, a pescare le lische

SCavezzacollo

disegno di Massimo Cavezzali

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1027 NOVEMBRE 2017

Il Tempio dell’Incerto

Archi-tè, venerdì10 novembre inaugurazio-

ne de“Il Tempio dell’Incerto”, operazione

artistica del Collettivo Superazione. L’i-

naugurazione del Tempio è preceduta da“-

Non so chi”performance di Santiago Bruni

e Tommaso Verde. A torso nudo e dotati di

frusta fatta con fili di cellulari e di auricolari

e in testa una corona di spini, spine elettri-

che, attraversano l’ingresso della biblioteca

di Architettura fino al Tempio dell’Incerto,

davanti ad esso distribuiscono pagine di

enigmistica con un richiamo fortemente

religioso. Hanno camminato fustigandosi

ed enunciando a voce alta i loro dubbi e

le loro incertezze. Il dubbio è umano, l’in-

certezza è nel nostro DNA. Tutti i nostri

dubbi e paure ci possono paralizzare ma

altrimenti possono essere la speranza che ci

apre a innumerevoli spiragli di possibilità. I

giovani artisti attraverso la loro performan-

ce ci hanno insinuato il dubbio sull’essere

digitale. Il Tempio dell’Incerto ha pavimen-

to in mattoni traballanti, camminandoci ci

sentiamo incerti, esitanti, qui il corpo e la

mente vivono nel timore sperimentando

la totale incertezza ma, restiamo in piedi e

procediamo verso l’altare. Un ologramma

del DNA è racchiuso in una raggiera simile

all’Ostensorio, è un richiamo a Cristo e al

ciclo continuo di nascita, morte e resurre-

zione. Cristo è colui che dubita ma ha fede

e segue il suo destino. Cristo ha ed è pas-

sione, Credo quindi dubito, dubito perché

Credo. Il dubbio viene mosso dall’interes-

se e dalla passione nella ricerca della veri-

tà la nostra personale e profonda verità, la

nostra essenza. L’incerto è dentro di noi in

ogni attimo della nostra vita e ci accompa-

gna nelle scelte, decidiamo nell’incertezza

e sempre dobbiamo dubitare solo così evi-

tiamo i preconcetti, le frasi fatte e soprat-

tutto l’omologazione. Solo il dubbio e l’in-

certezza ci permettono di cercare per avere

risposte creative, per trovare dentro di noi

quella forza che ci permette di vivere e non

di sopravvivere. Solo così l’incertezza su cui

poggiamo i piedi diventa una grande forza,

l’energia di coloro che non si fermano alla

prima risposta. E’ la forza di chi non crede

e non vive per l’apparenza ma per qualco-

sa di più profondo, la nostra verità iscritta

anch’essa nel DNA, perché ciascuno di noi

ha la sua unica verità. “La palla che lanciai

giocando nel parco non è ancora scesa al

suolo” ci introduce al Tempio, questa frase

di Dylan Thomas racchiude tutta la ricerca

di una vita, il continuo cammino dall’infan-

di Angela Rosi

zia in poi affinché la palla/percorso conti-

nui il volo/pensiero e per fare ciò dobbiamo

poggiare i piedi sull’Incerto. Nella sala del-

la biblioteca il video documento “Risposte

nascoste” perché, alle volte, le rispose sono

nascoste nei posti più impensabili.

Arch-tè Incontri Trasversali Biblioteca

Scienze Tecnologiche – Architettura Pa-

lazzo San Clemente Via Micheli 2 Firenze

fino al 24 novembre.

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1127 NOVEMBRE 2017

di un passato celtico: esiste una squadra di

calcio che si chiama Celta Vigo, mentre in

vari luoghi si trovano toponimi celtici. Lo

stesso nome Galizia richiama termini come

Galli e Galles. Il paesaggio, ricco di verde,

ricorda spesso quello scozzese e irlandese.

A queste caratteristiche geografiche si af-

fiancano quelle culturali: basta leggere la

bella antologia Cruceiros. Racconti dalla

Galizia magica (Edizioni Estemporanee,

2007) per ritrovare l’inconfondibile imma-

ginario celtico, ricco di atmosfere magiche

e misteriose.

In campo musicale, accanto a cantanti

come Carmen Penim e Uxía, spiccano nu-

merosi musicisti legati all’eredità celtica.

Anzitutto, il gruppo Milladoiro (nella foto),

attivo dagli anni Settanta. Ma anche Car-

los Núñez, Cristina Pato e Susana Seivane,

che suonano la gaita, la tipica cornamusa

galega. La comune eredità celtica è confer-

mata dai Chieftains, alfieri del folk irlande-

se, che hanno reso omaggio alla Galizia con

un intero CD (Santiago, 1996), mentre il

Festival interceltico di Lorient le ha dedica-

to l’edizione del 2009.

Stavolta non parliamo di musica. O per me-

glio dire, lo facciamo indirettamente, perché

ci addentriamo in una regione europea in

modo da creare un terreno, una conoscenza

di base che in futuro ci permetterà di parla-

re meglio della sua musica. La regione di cui

vogliamo parlare è la Galizia. Questa scelta

non è causale, ma è legata all’attualità. Nel-

le ultime settimane la cronaca ha dato am-

pio spazio alla Catalogna e ai suoi contrasti

politici con il potere centrale spagnolo. Il ri-

lievo mediatico del separatismo catalano ha

stimolato un’associazione d’idee con quello

basco, fenomeno comunque diverso perché

segnato dalla violenza terroristica. È rima-

sta in ombra, al contrario, la terza regione

autonoma spagnola (nacionalidad histori-

ca) abitata da una minoranza linguistica: la

Galizia. Una minoranza consistente (circa

3.000.000 di persone), ma molto meno tur-

bolenta di quelle suddette.

Questa regione nordoccidentale della Spa-

gna, grande come il Belgio, confina con il

Portogallo, al quale è legata da una stretta

affinità linguistica, dato che il galego è quasi

uguale al portoghese. Si tratta di un rappor-

to simile a quello che esiste fra olandese e

fiammingo. Il capoluogo, Santiago di Com-

postela, è la meta del celebre pellegrinag-

gio: secondo la tradizione cristiana, la città

custodisce le spoglie dell’apostolo Giacomo

il maggiore.

In questa regione sono nati scrittori e artisti

noti anche in Italia. Pensiamo alla cantante

Agustina del Carmen Otero Iglesia, meglio

nota come la Bella Otero; all’attore Fernan-

do Rey, interprete di molti film italiani e

americani; agli scrittori Alfredo Conde (Il

grifone, Editori Riuniti, 1989), Camilo José

Cela (Undici racconti sul calcio, Feltrinel-

li, 1990) e Manuel Rivas (I libri bruciano

male, Feltrinelli, 2009). Quest’ultimo sot-

tolinea che la Galizia non è una regione

mediterranea, ma atlantica: El bonsai atlan-

tico, come l’ha definita nel suo libro omomi-

mo (1989).

Il galego e lo spagnolo sono lingue neolatine,

ma questa terra conserva tracce importanti

di Alessandro Michelucci

Bonsai atlantico

MusicaMaestro

di Valentino Moradei GabbrielliLa cura con la quale il pannello esplicativo, po-

neva l’accento sulla verosimiglianza della stam-

pa fotografica all’opera pittorica, era tale che

l’osservatore finiva per essere preoccupato del

prossimo rientro della pala originale: “L’adora-

zione dei Magi” di Paolo Veronese conservata a

Vicenza nella Chiesa di Santa Corona. L’opera

è momentaneamente esposta alla National Gal-

lery di Londra, per una importante mostra.

L’esaltazione della tecnologia come autrice del-

la riproduzione non lasciava tanto immaginare

il livello qualitativo raggiunto a garanzia di un

risarcimento congruo e opportuno per chi si tro-

vava a visitare l’edificio monumentale, privato

se pur momentaneamente di un suo gioiello, ma

lasciava trasparire un tale compiacimento che

presagiva un diminuito interesse nei confronti

dell’opera e del suo autore che si lasciava inten-

dere anche sostituibile con eguale effetto emo-

zionale ed estetico dei visitatori.

L’insistere sulla matericità del colore e del sup-

porto, reso dall’immagine fotografica, non faceva

assolutamente rimpiangere l’assenza dell’origi-

nale, ma quasi ne esaltava la sua asetticità, la-

sciando immaginare una maggior resistenza al

tempo.

A mio avviso un intendere e un procedere in

linea con l’odierna filosofia conservativa delle

opere d’arte e dei monumenti, che troppo spes-

so sono negati alla collettività in ordine ad una

volontà di protezione e tutela, sostenuta e sup-

portata dalla tecnologia. Non più considerata e

considerabile un valentissimo strumento d’inda-

gine studio e conservazione, ma come potenziale

concorrente e sostituto dell’originale, vedi i tan-

tissimi esempi di disegni e stampe esposti in fac-

simile e non sempre dichiarati come tali in mo-

stre temporanee, collezioni permanenti e musei.

L’Opera e il suo doppio

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1227 NOVEMBRE 2017

Nella metà degli anni ‘60 dal ribollente

calderone della facoltà di Architettura

di Firenze escono giovani architetti che

iniziano un percorso di profondo ripensa-

mento, quasi una rifondazione, del modo

di essere architetto, della maniera di fare

architettura e dello stesso concetto di pro-

getto e di progettazione. Non un movimen-

to culturale e neppure una scuola. Anzi

una serie di piccoli e piccolissimi gruppi di

architetti che, spesso in modo isolato, speri-

mentano nuove idee e nuovi territori, intro-

ducendo il pop (il popolare) nella proget-

tazione, ma che non sedimentano queste

esperienze in una corrente o in un filone di

pensiero uniforme e univoco. Come scrive

Pino Brugellis in uno dei saggi introduttivi

al catalogo della mostra Utopie Radicali:

“Il Movimento Radicale non è mai esistito.

Sono esistiti piuttosto gli Archizoom, i Su-

perstudio, i 9999, gli Ufo, gli Zziggurat e i

solisti Remo Buti e Gianni Pettena.”

Anzi alcuni di loro rifiutano anche l’eti-

chetta di “radicali”, inventata da Germa-

no Celant. Scrive Cristiano Toraldo di

Francia:” i radicals è una definizione del

1973 che non ci piace per niente, tanto

che quando uscì il numero di Casabella

con tale definizione decidemmo la fine di

Superstudio”. Una galassia di architetti, e

di gruppi di architetti, che non si definisco-

no mai come un insieme ma come elemen-

ti separati. Ma che tutti insieme in modo

disordinato, certe volte contraddditorio e

spesso in competizione l’uno contro l’al-

tro, esprimono un’energia di rinnovamento

che è figlia sia del periodo storico sia della

ribellione verso la consolidata “nomencla-

tura” architettonica allora dominante. Un

agire in apparente contrasto anche con i

professori della facoltà di Architettura di

Firenze che annoverava fra gli altri Leo-

nardo Ricci, Leonardo Savioli, Leonardo

Benevolo, Umberto Eco, Giovanni Klaus

Koenig, Gillo Dorfles e Ludovico Quaro-

ni. Un contrasto apparente perchè alcuni

di essi hanno lasciato tracce importanti

nell’immaginazione creativa dei giovani

laureati. La mostra esprime bene questo

senso di confusione, di invenzione, di caos

creativo e provocatorio già dalla prima sala

dove sono esposte, al centro su un piccolo

basamento, le opere colorate e fantastiche

degli Archizoom e di Lapo Binazzi e del

Superstudio. Questa sensazione continua

poi anche nelle altre sale e in particola-

re nella sala dedicata agli Istogrammi di

Architettura del Superstudio e nella sala

dedicata al lavoro di Remo Buti con l’espo-

sizione della collezione Piatti di Architet-

tura. Una mostra che tenta con successo di

costruire un filo conduttore per il visitato-

re, con una suddivisione per argomenti e

per soggetti, e che restituisce alla fine una

piacevole sensazione di non avere capi-

to ancora tutto quello c’è da capire. Una

sorta di necessità di rivedere, ripassare,

ripensare una parte della storia dell’archi-

di John Stammer Il movimento radicalenon è mai esistito

tettura di quegli anni che in Italia, dopo le

esplosioni dei primi anni ‘70 con la par-

tecipazione alle Biennali di Venezia e la

mostra al MoMA di New York “ The new

Italian Landscape” del 1972, era tornata

nell’oblio. Non così fuori dall’Italia dove

le opere, i disegni e gli scritti dei gruppi

del movimento radicale hanno trovato lar-

ga eco e ospitalità in musei e centri studi

sull’architettura. A Firenze solo nel 2008,

grazie alla collaborazione con l’Assessora-

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1327 NOVEMBRE 2017

to all’Urbanistica, si svolge la prima mostra

sugli Archizoom nei sotterranei dell’Isti-

tuto degli Innocenti. Una mostra in gran

parte costruita all’estero, ed in particolare

dal EPFL (Ecole Polytechnique Federale

Lausanne), in collaborazione con l’Uni-

versità di Parma, in cui, per la prima volta,

furono esposti tutti i più importanti dise-

gni di quella No-Stop City che è diventata

uno dei capisaldi del dibattito architettoni-

co contemporaneo.

Oggi con questa mostra nei locali della

Strozzina aperta fino al 21 gennaio 2018

(ancora una volta in un sotterraneo di un

palazzo storico di Firenze) si completa un

ciclo di iniziative ( il Maxxi ha dedicato

una grande mostra nel 2016 al Superstu-

dio) che riportano all’attenzione nazionale

il lavoro di architetti che hanno contributo

a cambiare il modo di pensare e di fare ar-

chitettura e hanno anche rinnovato il desi-

gn italiano. Dalle opere esposte nella mo-

stra si può comprendere bene come dalle

suggestioni di quel periodo siano poi nate

opere di architettura contemporanea rea-

lizzate o progettate. Come Brunelleschi in-

venta la ritmica perfetta del loggiato degli

Innocenti avendo bene in mente gli archi a

tutto tondo disegnati nel paramento ester-

no del Battistero o nella facciata di San Mi-

niato a Monte, allo stesso modo come non

riconoscere nelle nuove porte del Museo

degli Innocenti progettate da Carlo Ter-

polilli reminescenze della discoteca Mach

2 del Superstudio? E come non mettere in

relazione la progettata ( e mai realizzata)

nuova stazione dell’Alta Velocità di Zevi/

Breschi (il cosidetto squalo) con il fotomon-

taggio Urban Belvedere degli Archizoom?

E infine come non vedere nelle strutture

di edilizia residenziale pubblica costruite

a Pistoia le idee espresse dagli Zziggurat

nella città lineare per Santa Croce. Idee e

suggestione determinate anche dalla asso-

luta variabilità della scala del disegno dove

il micro e il macro si intersecano e si con-

taminano.

Una mostra che segna un punto di non

ritorno nella costruzione della narrazione

storica su quello che non si può chiamare

“movimento radicale italiano/fiorentino”.

Perchè come dice Lapo Binazzi “quello

che, all’interno della mostra, meglio riesce

a rappresentare questo periodo è il video

nella prima sala dove le opere di tutti noi

sono cosi mischiate e interconnesse che

quasi non si distinguono le une dalle altre

e così nessuno di noi potrà mai dire che la

sua è migliore delle altre”.

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1427 NOVEMBRE 2017

Quella stagione della fotografia che attraversa

tutta la seconda metà dell’Ottocento ed i primi

del Novecento, definita come “pictorialism”, e

liquidata forse troppo in fretta come il dispe-

rato tentativo di elevare la fotografia e di farla

accettare come forma d’arte, semplicemente

imitando i generi artistici come il disegno e la

pittura, coinvolge tardivamente anche l’Italia.

Il “pittorialismo” italiano conta numerosi espo-

nenti di primo piano, come Luigi Cavadini,

Ludovico Pachò, Cesare Schiaparelli, Emilio

Sommariva ed altri, fino a Domenico Riccardo

Peretti-Griva, e trova la sua consacrazione nel-

la rivista “La fotografia artistica”, pubblicata a

Torino da Annibale Cominetti fra il 1904 ed

il 1917. Fra i “pittorialisti” italiani un posto di

rilievo viene occupato dal torinese Guido Rey

(1861-1935), un personaggio eclettico che ha

lasciato il segno del suo impegno come fotografo

dilettante di grande successo e notorietà. Erede

di una agiata famiglia di commercianti, impa-

rentato con il ministro Quintino Sella, marito

di sua zia Clotilde e fondatore del Club Alpino

Italiano, Guido Rey comincia a seguire lo zio

nelle sue ascensioni, appassionandosi a questa

attività, nonostante la tragica morte di uno dei

suoi fratelli durante una scalata, fino ad abban-

donare l’attività familiare per dedicarsi alla

montagna, con una predilezione speciale per

il Cervino. E per la fotografia, affiliandosi alla

neonata Società Fotografica Subalpina. Diver-

samente dal suo contemporaneo Vittorio Sella

(1859-1943), altro nipote di Quintino, che si

dedica esclusivamente e con ottimi risultati alla

fotografia di montagna, Guido Rey sceglie un

genere fotografico del tutto opposto, riservando

alla montagna il suo estro di scalatore, lettera-

to e narratore. Il tipo di fotografia praticato da

Guido Rey consiste nella più classica fra le ap-

plicazione del “pittorialismo”, la ricostruzione

e la riproduzione di scene in costume ispirate

alla pittura tradizionale ed alle ambientazioni

storiche. Ricostruite in maniera accurata e con

grande attenzione ai dettagli, in interni oppure

all’aperto, le scene fotografate da Guido Rey

non rappresentano in maniera ampollosa ed

esaltata i momenti particolari o determinanti

della storia, ma raccontano in maniera discre-

ta scenette, più o meno attendibili, della vita

quotidiana relativa all’epoca prescelta. Con le

sue opere Guido Rey si distingue in quelli che

all’epoca erano i grandi appuntamenti dei foto-

grafi italiani, l’Esposizione Mondiale di Mila-

no del 1894, la Prima Esposizione Nazionale

di Torino del 1898, la Seconda di Firenze del

1899, fino all’Esposizione Internazionale delle

Arti Decorative di Torino del 1902, all’interno

della quale viene allestito il padiglione dell’E-

Guido Rey, alpinista e pittorialista

di Danilo Cecchi

sposizione Internazionale di Fotografia Arti-

stica. I riconoscimenti che raccoglie in queste

manifestazioni lo pongono in una dimensione

sovranazionale, tanto che Guido Rey risulta

l’unico fotografo italiano presente in ambedue

gli Annuari “L’Epreuve Photographique” del

1904 e del 1905. Se le sue scenette in costu-

me secentesco ispirate alla pittura olandese e

quelle in costume settecentesco, realizzate con

grande attenzione alla illuminazione morbida

ed alla resa tonale, possono far sorridere e pos-

sono essere facilmente accusate di disimpegno

nei confronti della realtà sociale e di strizzare

l’occhio al cattivo gusto imperante, bisogna

riconoscere che all’interno della produzione

dell’epoca rappresentano forse il massimo ri-

sultato raggiungibile. Facendo un passo ancora

più indietro nel tempo, Guido Rey si diletta di

realizzare scene di ambiente greco o romano,

ambientando ed abbigliando i suoi modelli e le

sue modelle ispirandosi agli affreschi, ai mosai-

ci ed alla statuaria dell’epoca. Rimanendo sem-

pre in una dimensione leggermente poetica ed

irreale, senza scivolare nella descrizione diretta

ed esplicita delle nudità, come i suoi contem-

poranei Von Gloeden e Von Pluschow, che del

mondo greco e romano apprezzavano tutt’altri

valori estetici

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1527 NOVEMBRE 2017

a cura di Aldo FrangioniPer il progetto Out of the box. Arte - impresa

– territorio è stata presentata a Villa Pacchia-

ni a Santa Croce sull’Arno “Stille”, una mo-

stra di Ornaghi & Prestinari a cura di Ilaria

Mariotti. L’esposizione nasce da un percorso

di relazione tra gli artisti e il Consorzio Depu-

ratore di Santa Croce sull’Arno, nell’ambito

di un progetto più ampio, iniziato nel 2013,

fortemente sostenuto dal Comune di Santa

Croce sull’Arno e da Galleria Continua e

Associazione Arte Continua. Per la quarta

volta il progetto è stato premiato dal Bando

regionale Toscanaincontemporanea.

Tra i più interessanti rappresentanti della gio-

vane generazione di artisti italiani, Valentina

Ornaghi (1986) e Claudio Prestinari (1984).

La mostra presenta un gruppo di opere inedi-

te realizzate appositamente per il progetto e

in relazione al percorso di incontro e scambio

con il Consorzio Depuratore. Il tema dell’ac-

qua, della sua depurazione e re-immissione in

un circolo vitale, la sostenibilità delle azioni

nel mondo contemporaneo, l’idea di trasfor-

mazione, la vita degli oggetti e dei materiali,

l’identità dei nostri territori e la riflessione sui

processi di trasformazione in atto e ultimo ma

non meno importante, l’incontro con tecnolo-

gie avanzate di depurazione sono le tematiche

sulle quali Ornaghi & Prestinari riflettono in

“Stille” riflette su concetti associati all’idea

di economia circolare in relazione all’ecolo-

gia, sul processo circolare come l’utopia della

macchina a moto perpetuo. Dall’acqua e dal-

la sua bonifica vengono estratti materiali che

assumono la conformazione di polveri e grani

scuri. Il trattamento delle acque reflue si con-

figura, per gli artisti, come un costante movi-

mento di raffinazione all’interno di condotti e

acquai circolari. Un sistema che tiene conto

sia del benessere economico del territorio che

di quello fisico dei cittadini e dell’ambiente.

“Le opere realizzate per la mostra a Villa Pac-

chiani sono da intendere come un insieme di

suggestioni legate a movimento, circolarità,

aspetti estetici e caratteristiche fisiche, ma-

teriali incontrati durante il percorso”, chiosa

Ilaria Mariotti. Sculture che si configurano

come vasi e bacini: è il caso di Paolina, dove

la celebre opera di Antonio Canova (Paolina

Bonaparte come Venere vincitrice), viene rie-

laborata e realizzata in ceramica per diventa-

re una vasca per piante acquatiche. Materiali

fragili e domestici, come la ceramica vengono

messi a colloquio con il metallo (ferro, accia-

io), propri di una produzione industriale ma

egualmente figli di processi di lavorazione

dove il fuoco, la terra sono indispensabili. A

questi materiali si associano i “prodotti” del

L’arte e l’economiacircolare di Ornaghi & Prestinariciclo di lavorazione del Depuratore e degli al-

tri impianti industriali ad esso collegati e che

chiudono il ciclo di bonifica e inertizzazione

dei fanghi e dei materiali di risulta che vengo-

no poi reintrodotti nel sistema come materiali

per l’edilizia o si rinnovano nel circuito del

trattamento del pellame: l’acqua bonificata

utilizzata per la realizzazione degli acquerelli

che riproducono schemi di comportamen-

to dell’acqua quando incontra un ostacolo

e flussi. Oppure gli inerti che, scarti di un

processo di lavorazione, acquisiscono nuova

vita e si riconfigurano esteticamente nelle

sculture che incrociano motivi geometrici a

motivi floreali. Il movimento circolare e con-

tinuo, l’operosità delle macchine e degli uo-

mini sembra risuonare anche in quel “mocio”

fatto di ritagli di pelle appoggiato alla parete,

accanto al secchio, così come, utopicamente,

un’altra scultura fatta di tubi presente in mo-

stra, garantisce il ricircolo continuo del getto

d’acqua.

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1627 NOVEMBRE 2017

Film importante, opera monumentale che

affronta il tema del disagio della contempo-

raneità in una chiave che oseremmo defini-

re “sinfonica”.

Si comincia con una dichiarazione di in-

tenti: il direttore del museo (protagonista

assoluto di questa Odissea) pone un quesito

alla sua intervistatrice: “la sua borsetta, se

la esponessimo al museo, sarebbe conside-

rata opera d’arte?”. Con ciò Christian met-

te in chiaro la sua visione estetica dell’arte

“come insieme di pratiche d’uso”, rievocan-

do il famoso “giochetto” dello scolabottiglie

di Duchamp.

Si prosegue col maldestro tentativo di rimo-

zione di una statua equestre che finisce con

lo spezzarsi in più parti.

Eccola l’arte contemporanea che non par-

la più ai cuori pulsanti delle vite, che vive

nel paradosso settario degli specialisti, nella

desolazione degli spazi vuoti in cui lo sven-

turato visitatore non può neanche fare una

fotografia, e che muore nelle prigioni delle

conferenze autocelebrative, ove i colpi di

tosse, i cellulari che squillano, e le urla dei

pazienti affetti dalla sindrome di Tourette,

rappresentano l’unico genuino segno di

“verità espressiva”.

Eccola l’arte per collezionisti, secondo la

devastante critica alla critica, vera e propria

cancrena del nostro tempo, sostituto imba-

razzante di ogni fenomenologia d’artista.

Il tema dell’arte contemporanea è in realtà

la rampa di lancio dei missili che Östlund

sgancia per colpire l’opulenza delle élite di

potere, e il regista opera proprio a partire

dalla scissione in cui versa la contempora-

neità dell’arte per estendere tale nevrosi

alle storture della nostra società occidenta-

le, sempre più in mano alle élite sterili, alle

paradossali (in)competenze.

In questo senso è emblematico l’epilogo

della scena di sesso tra Richard e la sua in-

tervistatrice, in cui Il preservativo, il serba-

toio della deiezione, del contenuto occulto,

del rimosso, diventa tragicomico e grottesco

oggetto del contendere, trofeo occulto bra-

mato della Donna-Pattumiera (Anne tiene

in grembo il cestino), portato osceno della

plastificazione, dell’eros industriale. Que-

sto è un vero e proprio atto di interiorizza-

zione dell’economia libidica.

“The Square” è un film denso di simbolo-

gie, di infiniti rimandi, in cui echeggiano i

fantasmi di Bunuel, Sokurov, Kubrik, Vin-

terberg, è la mostra-manifesto di un’epoca:

tutto ciò che sta al di fuori di “The Squa-

gli, le bambine non vogliono più dipingere,

mentre le scimmie di casa sembrano avere

una vera passione per il disegno.

Oleg, la scimmia brutale, l’attore che irrom-

pe nel Reale prekantiano della cena di gala,

è follia privata di ogni umanità; dunque

occorre che egli stupri affinché possa scate-

narsi il delirio dell’Orda borghese, il sacrifi-

cio del Capro Espiatorio.

Così Richard, in questo suo viaggio iniziati-

co, è costretto a ricercare la via del perdono

nella spazzatura, a sperimentare nella con-

ferenza riparatoria con la stampa l’impossi-

bilità di una dialettica tra diritto alla libertà

di espressione e senso del limite, della cen-

sura.

Al museo, il sottofondo costante di rumori

di scavi, il rombo sonoro, in casa, i lamenti

del bambino che pretende delle sacrosante

scuse, sono segni dell’Osceno Vibrante, “la-

mella” di Lacan, organo parziale di Freud,

insistenza cieca e indistruttibile della “pul-

sione di morte”, dell’arcano organo privo di

corpo, della “Cosa”. Il mondo irrazionale

pressa e preme tutto intorno alla cornice

di “The Square”, fagocita i valori e le icone

del nostro mondo rigido, la Natura pressa

da ogni dove ed ha il volto dell’Altro.

Il gesto di Richard-padre, la volontà di chie-

dere perdono non può essere relegato alla

comodità di un video inviato dal telefoni-

no. Occorre agire, tentare, adoprarsi, e non

importa se poi alla fine ogni cosa sarà vana;

sarà laforza della generosità e della capaci-

tà di chiedere perdono la maiuetica per le

future generazioni. Lo sguardo delle bam-

bine nel sedile posteriore dell’auto rivela

l’infinito, incommensurabile patrimonio

dell’essere, la perla più preziosa che sfugge

ad ogni mercificazione, il senso distaccato

del futuro.

di Francesco Cusa

The squarere”, ovvero al quadrato di fiducia e amore

entro il quale tutto abbiamo gli stessi diritti

e doveri, è territorio dell’Altro, del barbaro,

dell’irrazionale.

In questo senso, forse, “The Square” è

Schengen, è la cinta muraria e virtuale di

valori ed egemonie condivise.

Ma per fortuna, i mucchi di ghiaia dell’ope-

ra dell’artista concettuale, vengono distrat-

tamente rimossi da un inserviente, e qui è lo

stesso Richard (evidentemente sulla strada

di una progressiva “redenzione”) a porre ri-

medio con un espediente (come non ripen-

sare allo straordinario Sordi di “Le Vacanze

Intelligenti”?).

Dunque è nei “tic” che Ostlund individua

un percorso di catarsi, in tutto ciò che “The

Square” non comprende e ingloba.

Il discorso attorno al sesso e all’eccitazione

del potere, il video della bambina mendi-

cante che esplode e la conseguente viralità,

il segno che il Media è in mano ai pubbli-

citari, alle marchette del marketing dei

cosiddetti “creativi”, sono peculiarità da

esorcizzare tramite gesti piccoli e grandi di

“volontà di potenza”, in un mondo dove i fi-

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1727 NOVEMBRE 2017

Mi è stato regalato questo curioso disco dipinto,

l’artista si chiama Gordon Faggetter ed è stato,

nel periodo d’oro del Piper, batterista di Patty

Pravo, quindi stupisce la classicità dello stile là

dove ci si aspetterebbe qualcosa di psichedeli-

co.

Penso si tratti, come per i militari, che appesa

la sciabola al chiodo, si dedicano alle rose del

giardino, di un desiderio di pace sopraggiunto

col tempo.

Gordon, nella sua carriera precedente, quella

di musicista, quindi sempre un artista, rappre-

sentava un modo di vivere assolutamente e in-

vidiabilmente libero, siamo alla fine degli anni

‘60.

Io in quegli anni frequentavo la Versilia ed al

Piper di Viareggio prima e poi alla Bussola e da

Oliviero Patty era di casa e faceva le sue serate

entusiasmanti con l’aria di una principessa più

francese che italiana, bella come Brigitte Bar-

dot e tutti noi ragazzini eravamo innamorati di

lei e della sua voce.

Mi ricordo da Oliviero, locale che non esiste

più da tempo, un’estate, per tutta l’estate era lì

tutte le sere, per la stagione immagino si dica, e

mi era presa la fissa e tutte le sere sono andato

a sentirla, c’era anche Gordon Faggetter che

in quel periodo oltre che batterista era anche

suo marito; alcune sere in mezzo alla settimana

c’era pochissima gente e lei mi aveva notato e

mi sorrideva e qualche volta si sedeva con me

e rimaneva esterrefatta che bevessi frullati di

pesca.

Aveva una infinità di bracciali d’argento che le

lasciavano degli anelli neri sulla pelle, cosa che

mi sembrava straordinaria.

Non divaghiamo. Quando ricevetti quel disco

era ospite in una casa vicino Firenze, in campa-

gna e teneva una lezione di pittura, per scherzo,

ad una altra invitata, disponeva di una tavolozza

ricchissima e di una quantità infinita di tubetti

e bottigline, aveva una tecnica antica, usava le

velature e stava per l’appunto dipingendo un

cielo, all’inglese come quello del vinile. Aveva

regalato una pila di dischi al nostro ospite, che

visto il mio interesse, mi disse di sceglierne uno

che è poi quello dell’immagine.

Una pittura atmosferica e di paesaggio che so-

pra ho definito inglese, ma ripensandoci ricor-

da quella francese di Claude Lorrain e Nicolas

Poussin, naturalmente senza esagerare.

Rimane il fatto che l’accostamento di una pit-

tura di paesaggio e di un disco a 33 giri è “bello

come l’incontro fortuito su di un tavolo anato-

mico di una macchina da cucire con un ombrel-

lo”, come ebbe a dire per altre questioni Isadore

Lucien Ducasse, in odore di surrealismo.

di Claudio Cosma Paesaggio rotante

Gordon FaggetterPatty Pravo Nicolas Poussin

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1827 NOVEMBRE 2017

ne, la dignità di chi esegue un compito come

può, la tenerezza di chi cerca di proteggere chi

ama, la normalità che assume forme di soprav-

vivenza e l’eccezionalità del disagio che rivela

tratti di bellezza disarmante.

C’è il bisogno di essere onesti per raccontare

delle storie. Ed è un bisogno benedetto, per-

ché quelle storie, all’uscita dalla mostra, si por-

tano a casa e non si è più come prima. Penso

che questa sia la grandezza del World Press

Photo: strappare alla realtà dei momenti di

vita più veri di molte delle percezioni distratte

quotidiane, che ci insegnino a riconoscere la

verità e a sentirla più forte.

Questa domanda, che cattura l’attenzione di

chiunque nel tempo di Instagram e del selfie

selvaggio, è stata al centro del dibattito che ha

portato gli organizzatori del più importante

premio internazionale di fotogiornalismo, il

World Press Photo, alla stesura di un nuovo

codice etico di partecipazione al concorso.

Il World Press Photo ogni anno porta le fo-

tografie vincitrici dalla sede di Amsterdam

in mostra in 40 paesi, all’attenzione di oltre

un milione di visitatori. Negli ultimi anni la

giuria si è interrogata sull’etica delle immagi-

ni proposte e sulle linee guida necessarie per

una riproduzione autentica della realtà. Una

fotografia necessariamente ne mostra solo una

visione parziale, che può essere modificata con

aggiunte, tagli o enfatizzazioni, se non in alcu-

ni casi addirittura riprodotta per uno scatto ad

effetto. E’ il caso del reportage vincitore dell’e-

dizione del 2015, per il quale il fotografo Gio-

vanni Troilo, con l’obiettivo di mostrare il lato

oscuro della cittadina di Charleroi in Belgio,

ha ricreato delle scene da fotografare, una cop-

pia di amanti in macchina, dei giochi erotici di

gruppo, una donna nuda in gabbia. Pena l’ira

del sindaco ed il ritiro del premio. Il codice eti-

co stilato nel 2016 dalla giuria del concorso è

ora chiaro: le foto non possono essere modifi-

cate e la realtà non può essere messa in posa.

Eppure, guardando le foto straordinarie dell’e-

dizione 2017, ospitate in questi giorni a Lucca,

sembra incredibile che i fotografi siano riusciti

a cogliere degli attimi tanto significativi in si-

tuazioni estreme di conflitto o nei passaggi più

determinanti della storia dell’ultimo anno: dai

cortei per la morte di Fidel Castro, all’assas-

sinio dell’ambasciatore russo in una galleria

d’arte ad Ankara per mano di un poliziotto

turco fuori servizio; dagli istanti di tensione

dei campioni olimpici durante le gare a me-

ravigliosi capolavori naturali; dagli esodi per

mare dei profughi siriani alle immagini stra-

zianti dell’assedio iracheno di Mosul, baluar-

do dell’Isis.

E’ difficile immaginare la presenza del foto-

grafo davanti a ciò a cui si assiste. Viene da

chiedersi come si possa restare lucidi di fronte

all’orrore e all’emozione, se a rendere possibile

la straordinarietà di questi scatti è l’ambizione

estrema per il risultato, la necessità della testi-

monianza o l’adrenalina per il prender parte a

momenti di vita pulsante.

Certo è che in queste foto di vita ce n’è tantissi-

ma. C’è la miseria della realtà, ci sono le atroci-

tà della guerra e ci sono i racconti dei civili che

vivono e muoiono per decisioni prese altrove.

C’è la gioia del gioco, la forza della condivisio-

di Elisa Zuri

La realtàmessa in posa resta reale?

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1927 NOVEMBRE 2017

Negli anni venti del ‘500 com’era la Chie-

sa di S.Felicita? Quale era la sua gestione

religioso-amministrativa? Quale il contesto

in cui Pontormo dipinse per il suo com-

mittente, il Conte Capponi, la decorazio-

ne della sua Cappella familiare? Delle tre

personalità citate nel titolo, quella che per

prima orientò la conduzione dei lavori del

pittore in S.Felicita fu la Madre Badessa il

cui ruolo decisionale era assoluto: “Era tale

dignità a vita fino dalla primitiva sua isti-

tuzione” [Ms.728 p.105]. Dall’anno 1124

“Era di pertinenza della Badessa la Parroc-

chia, e Cura delle Anime” sia di S.Felicita

che della “Chiesa manuale” di S. M. Mad-

dalena, l’elezione dei Sacerdoti e Cappel-

lani, nonché la loro istituzione e conferma

[p.106]. Inoltre tutti “gli atti riguardanti la

giurisdizione parrocchiale venivano eseguiti

in nome della Badessa” [p.108]. Dal 1480

competeva a lei l’elezione del “Priore e Go-

vernatore del Monastero […] come pure la

conferma ed istituzione dei Sacerdoti no-

minati dai rispettivi Patroni delle Cappelle

[il Conte Capponi, in questo caso]” [p.111].

Fino al 1573 spettò a lei anche la vestizione

delle nobili fanciulle che, in seguito, passerà

al Priore. Aveva pure “la cura degli Oblati”

dei quali gestiva le donazioni ricevute. Fra i

suoi doveri “fu l’amministrazione e conser-

vazione dei Beni del Monastero” [p.113],

ma non risulta che rendesse conto della pro-

pria amministrazione [p.115]. La Chiesa le

apparteneva tanto quanto il Monastero. Dal

suo volere dipendevano i lavori sia architet-

tonici che artistici: era in suo potere accet-

tare o respingere un’opera d’arte.

Ci chiediamo, a questo punto, se la

sua onnipotenza si estendesse all’i-

conografia, come era avvenuto in

S.Marco tra S.Antonino e l’Angeli-

co. La Badessa era la sola religiosa

autorizzata a lasciare la clausura

per entrare in contatto con uomi-

ni: il Padre confessore, il Predica-

tore, i Granduchi, i nobili Patroni,

il cerusico, la manovalanza della

Monastero (fattori e lavoratori in

genere) e della Chiesa (artisti, ope-

rai, sacristi, ostiari). Pontormo ebbe

a che fare con due Madri Badesse:

Suor Costanza di Piero Gualterotti,

eletta il 22 giugno 1521 e morta il

20 gennaio del 1527, e Suor Maria

di Antonio De’ Gondi che morì nel

1539 [pp.137-138]. Non citiamo

i nomi dei Priori perché dipende-

vano interamente dalla Badessa. Lo stesso

avveniva per il Conte Capponi il quale,

nonostante la sua funzione di Patrono della

propria Cappella e di committente, dipen-

deva anch’egli dalla potentissima Madre che

concedeva oppure negava le autorizzazioni.

Nelle Carte Gondi (Fondo Mannelli-Ga-

lilei-Riccardi nell’ASF, e nel Fondo della

Penns University - USA) sono ancora tutti

da indagare i documenti su Suor Maria, la

quale sembra fosse donna colta e studiosa

delle Sacre Scritture. Se prendiamo l’esem-

pio di variazione iconografica della “nube”

dipinta da Pontormo in alto a sinistra della

“Pietà di S.Felicita” - al posto della proget-

tata scala per deporre Cristo dalla Croce -

per quanto detto finora l’artista dové con-

cordare questo ripensamento con la Madre

Badessa [cfr. “Cultura Commestibile” 223 e

224]. Nel Nuovo Testamento (pericope di

Matteo 17, 5) la “nube” è presenza di Dio

Padre: “una nuvola luminosa li avvolse con

la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva:

Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale

mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. Nel Van-

gelo di Luca (1,35) l’“ombra” di Dio fa dire

all’Arcangelo Gabriele rivolto a Maria: “Lo

Spirito Santo scenderà su di te, su te sten-

derà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”.

Nel Vecchio Testamento la nube raffigura la

Dimora di Dio (la Shekinah) in seno al suo

popolo. Tornando al Pittore, al Conte e alla

Badessa, il contratto stipulato, mai reperi-

to, dovette sicuramente in origine trovarsi

nell’Archivio del Monastero, custodito in

una cassa murata del quartiere della Madre

Superiora, dove si conservavano tutte le car-

te. Il contesto in cui lavorò l’artista fu una

S.Felicita molto diversa dall’attuale: la sem-

plice facciata a capanna (come appare nella

Pianta del Buonsignori, 1584), preceduta da

un piccolo cimitero, immetteva in un’aula

assai più stretta di quella odierna, ma egual-

mente profonda; la scansione degli altari

laterali era irregolare, si affollavano altarini

ed immagini sacre anche sui pilastri; sparse

emergenze gotiche e rinascimentali si alter-

navano a monumenti funerari ingombranti

come quello dei Gabbrielli che in alto, nella

misura di tre braccia, adombrava la Cappel-

la Capponi; ovunque e accanto all’altare

di famiglia erano murati stemmi nobiliari

ed epigrafi; intere campiture ad affresco (v.

la Cappella Nerli accanto alla Capponi);

nel fianco sud della Chiesa cinque cappel-

le erano scandite da colonne binate (v. Ms.

720), fronteggiate da sei cappelle sul lato

opposto ritmate dai pilastroni gotici pog-

giati alla parete; in controfacciata - sopra

le Cappelle Capponi e Canigiani - stava il

‘Coro di fondo’ delle Monache; nel transetto

destro il Coro gotico o “Coro antico” dove,

non viste, le Corali cantavano dietro grate

“di legno, schife brutte [ch]e minacciavano

ruina” [Ms.720, c.176v.]. Gli alti e

stretti finestroni gotici del presbite-

rio (ancor oggi visibili dall’“Orto di

dietro”), e quelli della parete della

Chiesa a settentrione, non offriva-

no luce bastante; lumini, candele

e lampane oscillavano nella pe-

nombra. Dai chiusini marmorei

del pavimento filtravano odori di

morte, miasmi che cesseranno solo

con l’abolizione lorenese delle se-

polture in Chiesa. Qui, come per

un impossibile miracolo, Pontor-

mo, creò ai lati della nuova finestra

l’Annunciazione, opera luminosa e

travolgente di sacra poesia, dove lo

Spirito Santo prende corpo come

‘Vento di Dio’ (la Ruah) tra le ve-

sti rigonfie di luce dell’Arcangelo

e l’“Ombra” leggera disegnata dal

corpo della Vergine.

di M. Cristina François La badessa, il conte, il pittore

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2027 NOVEMBRE 2017

Beatnik Museum “The Russian may have their Sputnik, but we

have our beatniks here in North Beach”.

Herb Caen, il giornalista del San Francisco

Chronicle, dopo avere parlato con Bob Kauf-

mann che aveva appena finito di recitare le sue

poesie beat, accompagnandosi al suono del bon-

go, su Adler alley, proprio accanto a Citylight

Bookstore.”

Questo è quanto si afferma, per spiegare l’ori-

gine della parola, su un’ insegna all’entrata del

Beatnik Museum, uno strano connubio tra ne-

gozio, libreria e street museum, aperto alcuni

anni fa lungo Broadway, a North Beach.

Ero entrato con circospezione vedendo tutte

quelle T-shirt appese sul muro o i gadgets sul

bancone. Mi son detto: entro ed esco, dopo

un minuto, certamente con l’amaro in bocca.

Sono entrato. Dopo essermi aggirato tra foto e

locandine storiche, copie di manoscritti, cimeli

e memorie, mi son messo a guardare un film su

Kerouac. Nel video Allen Ginsberg recitava

i “Vagabondi del Dharma” (Dharma Bums).

Sono stato li’, come ipnotizzato, forse un’ora,

forse due, forse dieci ore, ascoltando quella

voce sublime leggere uno dei testi più poetici

mai scritti.

Citylights Bookshop &Publishers1. Mi avvicino al tempio (della letteratura): City

Lights Booksellers &Publishers. Sono ancora

oltre la strada. Il tempio è là, una casa orizzonta-

le, con una lunga vetrina nera e gialla, in disce-

sa su Columbus Avenue . Occorre attraversare

questo incrocio plurimo stando molto attenti :

“NO U-turn”, “freeway”, “Broadway”, “Stop”,

luci verdi, gialle, rosse. Mi trovo proprio sul cri-

nale di una collinetta, un sottile spartiacque tra

North Beach e Chinatown. E’ verde, passo.

Entro o guardo prima la vetrina? Penso: sarà

ancora lì, al piano di sopra, nel suo ufficio, Fer-

linghetti? I libri oltre il vetro dicono di Zen,

Ginsberg, Samuel Johnson, Jack Hirshman,

Zapata, Duke Ellington. Cento copertine di-

sposte su un piano di legno verticale creano un

vetrina-scudo, un vero muro di difesa contro la

volgarità che assedia dal di fuori.

2. Ho varcato la sacra soglia. La prima cosa che

ho notato, l’ho sentita. Una musichetta dolce,

un jazz che da’ sul blues. Mi sono subito seduto

su una sedia solitaria proprio in mezzo agli scaf-

fali, sostituiti con altri più nuovi, da quando ci

venivo nei lontani anni 80. Appeso alla parete

c’è il segnale con il nome in italiano di una stra-

da: “via (sic) Ferlinghetti”. Non so se c’è la stra-

da ma il cartello è lì già pronto. Proprio accanto

a Citylight c’è “Kerouac alley”, questo davvero.

Che fare? Guardare i libri o solo passeggiare

per le stanze e respirare l’ aria di queste carte

umane? Respirare.

Salgo al piano di sopra. Un cartello con una

freccia indica “Poetry-Beat generation”. Un al-

tro dice: “San Francisco Left Coast”; un altro

ancora “ Books not bombs”. Mi siedo e penso.

Se i libri fossero mattoni si potrebbe creare

un’architettura di bellezza, di libertà, idee, po-

esia. Ma i libri sono mattoni! Che ognuno usa

per costruire la propria identità, per erigere le

stanze della propria esistenza, per creare ponti,

porte, finestre. Certo non tutti i mattoni sono

buoni o resistenti, ma questa è un’altra storia.

Salgo nell’eremo. Mi sono seduto sulla “pol-

trona del poeta”, così recita il cartello lì vicino.

E’ una sedia a dondolo, proprio accanto a una

finestra (ma dove è Ferlinghetti?). Sulla sini-

stra ci sono gli scaffali con i libri; qui accanto,

alla mia destra, la finestra. Oltre i vetri, su un

muro di mattoni, vedo una scala antincendio

arrugginita, poi la skyline del downtown di San

Francisco a non più di mezzo miglio. Arrivano

i rumori della strada: sibili dell’autobus, voci

cinesi. Mi dondolo sulla “sedia del poeta”. Se

venisse Ferlinghetti, che farei? Un saluto? Una

domanda? O me ne starei lì, in silenzio, a legge-

re qualcosa? E’ un bel posto questa “sedia del

poeta”, con accanto la finestra, le voci della stra-

da, i libri qui vicino.

3. Lo scrittore Ferlinghetti ha creato Citylights,

il santuario della letteratura. L’architetto Wil-

liam Stout ha creato un santuario analogo: una

libreria dedicata all’architettura. I due luoghi

sono vicini, pochi isolati uno dall’altro. Sono

vicine le menti, le aspirazioni dei due artisti-li-

brai. Sono vicine le espressioni, le immagini, i

ritmi nascosti dentro i rispettivi libri delle due

librerie.

Come in uno specchio l’ architettura e la let-

teratura si guardano a vicenda riconoscendosi

per quanto differiscono e per quanto sono ana-

loghe. Sanno che per ambedue è importante

l’emozione, la struttura, la memoria del passato,

il coraggio del presente, la visione. Sanno che

ognuna cerca qualcosa che appartiene princi-

palmente all’altra: l’architettura del racconto, il

racconto dell’architettura.

4. Seduto sulla “sedia (a dondolo) del poeta” a

ogni oscillazione il corpo si ricarica di poesia,

come un piccolo orologio, un pupazzetto a mol-

la, le boccate d’ossigeno per un sommozzatore.

Una città può darci un’emozione, ispirare un

senso di poesia. Ma anche una semplice se-

dia sembra poterlo fare. Provare per credere.

Venite a San Francisco, entrate a Citylights

Bookstore, salite al piano sopra, sedetevi sulla

“sedia del poeta”. Cosa sentite? Cosa vi viene

indispensabile di dire? Cosa non dire? Provate,

basta solo dondolarsi, senza dir niente, senza

scrivere.

5. Mi sono riproposto di descrivere la città usan-

do solo le parole. Niente disegni o fotografie.

Ma cosa è la città? Sono i suoi spazi, infimi e

infiniti, unici e ripetuti mille volte. E’ il suo tem-

po, quello che dura un secondo e quello di cui

non si può dire la fine. E’ la sua memoria e la

memoria di chi la vive. Il passato e il momento

presente. La città sono i suoi odori, suoni, ru-

mori, i suoi divieti, i suoi peccati, i doveri, le op-

portunità. Essendo tutto questo e ancora di più,

ho cercato di selezionare alcuni punti di vista

da cui focalizzare lo sguardo: i confini restano

vaghi, ma alcune parole possono aiutare a de-

finirli: materia, sensazioni, spazio, architettura,

percorsi, memoria, relazioni, immaginazione.

6. Quando Ferlinghetti morirà sarà la fine della

Beat Generation. Dalla “sedia del poeta” vedo

una fotografia con la faccia sfacciata di Corso,

un’altra con Kerouac e Neal Cassidy. Penso a

Allen Ginsberg, a Gary Snyder, a Bob Kauf-

mann. Quando Lawrence Ferlinghetti morirà

San Francisco sarà un’altra città; basterà solo

un secondo, il secondo dell’ultimo respiro.

di Andrea Ponsi Mappe di percezioneSan Francisco

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2127 NOVEMBRE 2017

-“Confermo supremazia States” stop “ Loro

hanno 50 stelle e noi solo 5” stop “Almeno

20 stelle obbiettivo prossima legislatura” stop

“Anche Cina ha 5 stelle” stop “Preparare pro-

testa ufficiale da inviare ad ambasciatore cine-

se” stop” . Con questo sintetico telegramma il

nostro Giggino De Meio ha avvisato il direttivo

grillonzo che era arrivato a Washington, rapida

doccia, fredda, in topaia a 2 stelle, elargizione

del risparmio ottenuto ad agente CIA trave-

stito da clochard, rapida corsa verso la Casa

Bianca. Appena sceso dal taxi, meravigliato

dell’assenza di una adeguata accoglienza, il no-

stro Giggino si faceva quattro passi alla ricerca

del citofono e, non avendolo individuato, con

un inglese alla “totò”, chiedeva lumi ad un po-

lice man : - Noio search voulissimon luccare u’

tricck e tracck for hauses blak end white???- Il

marcantonio in divisa, preoccupato di avere a

che fare con uno squilibrato potenzialmente

pericoloso, dati i tempi, fa intervenire gli addet-

ti ai lavori che immediatamente trasferiscono a

forza il malcapitato Giggino allo Psychiatric

Hospital di Washington. Per fortuna un tem-

pestivo intervento del nostro ambasciatore

riesce a chiarire l’equivoco dopodiché il buon

De Meio, data la sua carica, viene ospitato di-

rettamente presso l’Ambasciata Italiana. Da

ottimo diplomatico e per non lasciar deluso un

probabile futuro Presidente del Consiglio, il

nostro ambasciatore, per organizzare uno strac-

cio di contatto formale, telefona a Mr.Conrad

Tribble, suo amico di antica data e procura

un appuntamento al nostro Giggino, non è il

massimo ma si dovrà accontentare.!! L’incon-

tro, durato più o meno una dozzina di minuti,

in gergo diplomatico è stato catalogato come

“franco e cordiale” il che vuol dire che il diplo-

matico americano non ha ben compreso con

chi avesse avuto l’onore di parlare. Con un po’

di delusione e tanto amaro in bocca, Giggino

de Meio si è portato ai giardinetti pubblici per

meglio meditare sull’accaduto. Mentre era as-

sorto fra i suoi pensieri, si è avvicinato un baldo

ragazzone di colore che, con un hamburger fra

le mani, ha così apostrofato il Giggino naziona-

le : - Ciao, te sei De Meio, ti ho riconosciuto,

tieni, ti offro questo hamburger , è molto buo-

no!! Sai io sei mesi fa sono sbarcato in Italia con

una di quelle navi che tu hai chiamato Taxi del

mare e che volevi fermare, adesso sono qui , la-

voro e mando soldi alla mia famiglia, salutami i

tuoi amici!! - . Averne di Alter Ego così!!!!!

In un arguto libriccino dal titolo ‘Contro l’Ur-

banistica’, l’antropologo della cultura Franco

La Cecla, così definisce la condizione attuale

della disciplina urbanistica, ‘C’è in questa ca-

duta di strumenti, in questa povertà intellet-

tuale, la fine di una disciplina che si è arroccata

dietro a un tecnicismo miope che non ha mai

voluto diventare una scienza umana.’ Pur non

aderendo al tono quasi liquidatorio di La Ce-

cla, è facilmente riscontrabile come oggi la sola

scienza dell’urbanistica, non sia più in grado di

promuovere pianificazioni generali, legate alle

spesso contraddittorie trasformazioni spaziali

delle città. Cosi come sembra mostrare tutta la

propria parzialità, quel processo introduttivo

di registrazione di idee e proposte, come evi-

denziato anche dall’ultima esperienza fiesola-

na, che spesso va trasformandosi in una sorta

di inadeguato quaderno di piccole e grandi

doglianze, che poco hanno a che fare con una

consapevole governance di copianificazione e

ambientalizzazione di istanze e interessi. Quin-

di in questo percorso di definizione del nuovo

Poc di Fiesole e della revisione del suo Piano

Strutturale, che ha visto la pubblicazione di

un bando per l’individuazione di specifiche fi-

gure professionali, l’illustre fantasma, il Godot

di turno, pare assumere proprio le sembianze

dell’attuale Amministrazione di Fiesole. Un

silenzio assordante, che manifesta l’assenza di

una puntuale comprensione e reinterpretazio-

ne creativa dell’attuale realtà storica della no-

stra Città, delegando questo lavoro di esegesi

critica e risemantizzazione degli spazi pubbli-

ci e privati, al solo momento burocratico della

prescrittività urbanistica e al rinnovo degli ade-

guamenti attuativi. Affiora così una voragine

progettuale rispetto ai molti temi irrisolti del

nostro territorio, penso all’area dell’ex ospedale

Sant’Antonino, alle previsioni non attuate e alla

riallocazione delle quantità di superficie previ-

ste, alla quasi forzosa conurbazione dei territori

limitrofi a Firenze, e dei relativi servizi da ri-

pensare alla luce di questo, pare, inarrestabile

processo, la cura del paesaggio che passa anche

dalla riattivazione delle molte convenzioni sti-

pulate con i privati, per la manutenzione delle

aree di loro pertinenza. Però quando si smarri-

sce la dimensione epistemologica dell’indagine

che si conduce, il rischio è quello di procedere

con una pianificazione separata, che tenga solo

conto delle possibili trasformazioni, più o meno

leggere, affidate alla contrattazione caso per

caso, venendo meno a quella coessenzialità che

permette di connettere le singole modificazioni

o conversioni, con il governo delle funzioni e

dei servizi nei singoli settori coinvolti. E que-

sta sfasatura concettuale sembra coinvolgere

anche il bando pubblicato per ‘la valorizza-

zione’ dell’Auditorium, peraltro quantomeno

un utile sondaggio per verificare il potenziale

interesse di soggetti privati, rischiando di tra-

sformarsi da strumento ricognitivo, in informe

contenuto per la gestione futura della struttura,

con un fraintendimento di fondo rispetto alle

politiche culturali da perseguire. Perché pur-

troppo anche questo passaggio, che evidenzia

anche notevoli storture nella compilazione

dello stesso bando, basti pensare alla durata

della possibile concessione o alla mancanza di

una cifra minima riferibile alla locazione, non

è stato calato all’interno di un’analisi più ampia

e approfondita su cosa oggi rappresenti Fiesole

nel panorama dell’offerta culturale regionale e

nazionale. Perché se il bando dovesse andare

deserto, oltre a riproporsi cogentemente il tema

della conclusione dei lavori, (come ricordava

anche nell’ultimo numero di Cultura Comme-

stibile l’ex Sindaco Pesci), potrebbero aprirsi

nuovi scenari gestionali, prevedendo assetti or-

ganizzativi alternativi, promuovendo per esem-

pio una gestione mista tra soggetti pubblici e

partner privati, ma per avviare una nuova fase

occorrono relazioni, strumenti amministrativi e

previsioni in grado di andare oltre l’immanente.

di Tommaso Rossi Fiesole aspetta Godot

di Sergio Favilli

Giggino in America

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2227 NOVEMBRE 2017

Per Baudelaire, quando piove, si confondo-

no con il cielo. Hanno molte forme, bomba-

ti o spioventi, armature brillanti o semplici

coperti opachi, e infinite sfumature che

sono variazioni intorno a un solo colore: il

grigio. Da quello chiaro dello zinco a quello

più scuro dell’ardesia e al grigio verdastro

del rame della Madeleine e dell’Opera.

Disseminati dai tanti comignoli, lucernari

e piccole finestre, sono stati ispirazione per

poeti, pittori, fotografi e registi. Sono il 70%

dei tetti di Parigi, hanno la tonalità dello

stile di vita dei suoi abitanti: freddo, distac-

cato ma avvolgente. Durante la trasforma-

zione della capitale francese, Haussmann

scelse, per ricoprire i tetti dei nuovi edifici

che presero il suo nome, piastre di zinco,

materiale economico, facile da tagliare e

installare che dava un cromatismo nuovo

alla città. Il materiale leggero poteva inoltre

essere montato su una struttura meno spes-

sa di quella tradizionale, permettendo così

di recuperare un maggiore spazio interno

per creare, proprio sotto i tetti, le chambre

de bonne, le stanze della servitù, oggi ambi-

tissimi monolocali dalla vista mozzafiato e

dall’atmosfera unica. Nell’arte, Les toits de

Paris è un quadro di Paul Cézanne dipinto

nel 1881 nel suo atelier al quinto piano di

un immobile di Montparnasse, nel cinema,

Sous les toits de Paris è il titolo di un film di

Renè Clair del 1930 e sui tetti di Parigi la

Duchessa negli Aristogatti portava a spasso

i suoi cuccioli, nell’opera, Puccini ambienta

la Boheme sotto uno di questi tetti nei cieli

bigi guardo fumar dai mille comignoli... e

nella letteratura, Ferdinand Céline in Mor-

te a credito scrive...il bel merletto delle ar-

desie, tutti i riflessi che prende, i colori che

si confondono l’un l’altro... i fumacchi che

giravoltano sui grandi baratri d’ombra...

Ma, forse, l’omaggio più bello a questa lan-

guida caratteristica di Parigi è quello di Bal-

zac: Seduto accanto alla finestra a respirar

l’aria e lasciando scorrere lo sguardo su un

paesaggio di tetti bruni e grigiastri...da pri-

ma quella vista mi apparve monotona ma vi

scoprii ben presto bellezze singolari; talvol-

ta la sera strisce di luce sfuggenti a imposte

mal chiuse sfumavano e animavano le nere

profondità di quell’ originale paesaggio.

Talvolta i pallidi riflessi dei lampadari pro-

iettavano dal basso bagliori giallastri attra-

verso la nebbia, ripetendo debolmente nel-

le strade le ondulazioni dei tetti raccostati,

oceano di onde irrigidite.

Per proteggere la monumentale bellezza

di questo formicaio di forme in una distesa

di grigi disordinati che paiono così vicini a

quel cielo che ha il loro stesso colore, Parigi

ha chiesto nel 2014 all’UNESCO l’ammis-

sione al Patrimonio dell’Umanità.

Intanto sul web si trovano siti che danno in-

formazioni su scale e passaggi segreti attra-

verso i quali è possibile accedere a una pas-

seggiata sui tetti alla ricerca di scorci inediti

e angoli sconosciuti di Parigi vista dall’alto.

Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli

di Simonetta Zanuccoli

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2327 NOVEMBRE 2017

E con gli oggetti di oggi Rossano vince l’Oscar

per la Bislaccheria! Grande cartellina cartona-

ta tutta rivestita, sulle copertine e nelle facce

interne, di brevi inserzioni pubblicitarie, at-

tribuirle una data non è facile, in una vignet-

ta che sembra invitarci “Al Fago unito. Caffè

squisito”, accanto al nome del disegnatore “To-

ris”, si legge 1933. Può essere direi. Leggere le

tante iscrizioni evidenzia come i vari negozi,

ristoranti ed attività, tutti assolutamente in Fi-

renze, siano per lo più scomparsi, resistono il

Teatro Verdi, la Buca San Giovanni, davanti

al Battistero, allora ristorante con Orchestra e

Dancing e “prezzi moderati”, oggi squallido

fast food con teglioni di pizze in mostra e l’Ar-

rotino di via della Vigna, unico che mantiene

una interessante esposizione di lame, coltelli

ed affini. Colpiscono però ancora di più il lin-

guaggio e il tipo di prestazioni che vi si propa-

gandano, ad esempio un Istituto di Radiologia

e Terapia Fisica elenca: Radioattività, Prodotti

e Acqua e Fanghi Radioattivi, Bagni di luce e

Acque Originali di Salsomaggiore per le ma-

lattie del Naso, della Gola e dei Bronchi.

Questi ultimi valida alternativa all’inflazio-

nato uso odierno di antibiotici che ne ha fiac-

cato l’efficacia e rinforzato batteri killer. Un

negozio, “primo premio per modelli igienici”,

offre “Busti-Reggiseni-Pancere. Apparire era

importante anche allora quindi, in assenza di

rassodanti infiltrazioni di silicone e chirurgi-

che asportazioni di antiestetici cuscinetti ed

adipe diffusa, ci si arrabattava a stringer vita e

pancia e tirar su le poppe. All’Istituto Del Pe-

rugia vendono e riparano “Strumenti musicali

ed accessori di ogni genere, Macchine Parlanti

ed Apparecchi Radio”. Il Signor Del Rigo, in

piena Piazza Santa Maria Novella, fabbrica

ghiacciaie...”Esclusione dello zinco che si os-

sida. Rivestimento interno in pietra artificiale

refrattaria lavabile”. In alto, nella copertina,

compare la pubblicità a “Il Brivido esteti-

co-sintetico-simpatico” .Trattasi di un famoso

giornaletto satirico fiorentino, fondato da Al-

berto Manetti nel 1925 e chiuso nel 1952. A

pag. 47 del Brivido del 19 nov. del 1939 esor-

dì, appena sedicenne, Benito Jacovitti, la sua

prima striscia aveva un lungo titolo in rima,

“in ogni stanza di ogni casamento/ la radio è

il gran discorso del momento”. La EIAR, RAI

dell’epoca, aveva indetto un concorso, premio

in quattrini sonanti, dedicato a chi era in rego-

la con l’abbonamento. In un palazzone spac-

cato, come una casa di bambola, si vedono gli

inquilini che discutono intorno a questo tema.

Jac, detto “lisca di pesce” per la stazza lunga e

sottile, divenne poi molto noto, chi non ricor-

di Cristina Pucci

Il Brivido

da i suoi fumetti strapieni di gente nasuta e i

salami che spuntano qua e là? o il DiarioVitt,

o CoccoBill, cowboy bevitore compulsivo di

Camomilla? Una romantica curiosità, dopo

appena sei ore dalla sua morte morì anche la

moglie, conosciuta alla scuola d’Arte di Firen-

ze 48 anni prima... Rossanino ha scovato due

rari Brividi, uno del ‘40 e uno del ‘43, alcu-

ne vignette non sono comprensibili, altre, in

quello del ‘43, alludono alla mancanza di cibo,

sapone o legna tipiche del tempo. Un fondo a

cura di tal Fiorenzino ci illumina sulla peren-

ne attitudine alla critica dei nostri concittadini

“ ci piace parecchio criticare e siccome nella

mia amata città c’è sempre qualcosa da dire

è parecchio difficile tener la lingua a posto...”

e giù a infamare il restauro del Battistero, “..

cornici di marmo nuovo verde ponsò ...”( in

realtà una tonalità di rosso) e “mestolate di ce-

mento a tappare i buchi”. Nella pagina dedi-

cata al “Giornale Tranviario Fiorentino” c’è il

delizioso racconto di una nevicata, il tram, per

permettere ai viaggiatori di goderne lo splen-

dore, si è bloccato! Nella vignetta annessa lo si

mostra munito di un bel paio di sci!!!!

Bizzarria deglioggetti

Dalla collezione di Rossano

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2427 NOVEMBRE 2017

parte cambiati dopo l’uscita dal dominio sovie-

tico e il nuovo nome non sempre è conosciuto.

La grande piazza principale che oggi la cartina

riporta come piazza Gengis Khan, è in realtà

conosciuta come Sukhbaatar (eroe mongolo

dei tempi della rivoluzione bolscevica).

Ci muoviamo in taxi. Quelli ufficiali sono po-

chi. Generalmente il portiere dell’albergo va

per strada e chiede agli automobilisti se qual-

cuno è disposto a portarti dove vuoi andare.

Velocemente si trova qualcuno che incrementa

così i propri guadagni. Una sorta di Uber popo-

lare ma senza organizzazione e controllo. Que-

sto modo di spostarsi, sconsigliato dalle guide

turistiche, può generare qualche avventura.

Come una sera quando, dopo aver mangiato

in un ristorante lontano dal centro, abbiamo

utilizzato questo mezzo per tornare all’albergo.

L’autista non si orientava per nulla sulla carta

che mostravamo, né il nome di Gengis Khan

lo aiutava. Incominciammo a girare a vuoto e

finimmo in un vicolo dove quasi non si riusciva

a passare. Ma viaggiare significa un po’ anche

affidarsi… Alla fine arrivammo alla piazza e

l’autista improvvisato era così dispiaciuto che

non avrebbe voluto essere pagato.

Pensavamo un paese chiuso, un ambiente

ostile. Invece i mongoli ci appaiono gentili e

ospitali. La persone che parlano o cercano di

parlare inglese sono più numerose di quelle

che avevamo incontrato in Siberia. Si ha l’im-

pressione di un paese che vuole aprirsi.

Avevamo deciso di completare una delle rot-

te della Transiberiana, la ferrovia che collega

Mosca a Vladivostok (o a Pechino con la va-

riante “transmongolica”). L’anno scorso, par-

tendo da Mosca, eravamo arrivati a Irkustk e al

lago Baikal. Quest’anno abbiamo preso il treno

a Irkutsk per raggiungere Pechino attraverso la

Mongolia.

Un viaggio è sempre un incontro fra cose im-

maginate (lette o raccontate da altri) e cose

viste direttamente. Sulla Mongolia, le cose

immaginate non erano molte. Poche immagini,

pochi racconti. Ci aspettavamo un paese gran-

de e selvaggio, isolato dal mondo e dalla storia.

La Mongolia è un paese immenso (grande 6

volte l’Italia) e pochissimo popolato: solo 3 mi-

lioni di abitanti. Quasi la metà abitano a Ulan

Bator, la capitale, nel nord del paese. La più

bassa concentrazione di persone al mondo

-recita Wikipedia. Un paese vuoto si potrebbe

dire, almeno di umani.

Dal treno ci appare come un’immensa prateria

ondulata solcata ogni tanto da fiumi e qualche

rilievo roccioso. La presenza dell’uomo è rara;

si vedono le loro tende mobili (le gher). In que-

ste immagini che potrebbero avere centinaia di

anni ogni tanto il progresso fa capolino: gli uo-

mini guidano le mandrie a cavallo di una moto,

oppure si vede un pannello foto voltaico vicino

alla tenda: serve a far funzionare la televisione

o a riscaldare l’acqua.

Arriviamo a Ulan Bator. Ci si accorge di avvi-

cinarsi alla città perché il terreno incomincia

a essere rinchiuso da grandi cancellate. Con

all’interno niente, o magari una tenda. Poi

iniziano costruzioni senza uno stile preciso.

Case apparentemente finite insieme a case in

costruzione e case in degrado. Qualche villa

“neoclassica”.

Non avevamo nessuna idea di questa città e

nessuna particolare aspettativa. Un po’ la te-

mevamo: la guida la descrive come la seconda

città più inquinata al mondo. Non per le fab-

briche (non moltissime) o il traffico urbano,

sicuramente caotico. La causa è il riscaldamen-

to e la povertà. L’inverno è rigido, molti gradi

sotto zero e il riscaldamento si basa sul carbone

bruciato in stufe familiari primitive. Fortuna-

tamente questo vale per l’inverno non per fine

agosto quando siamo passati noi, che, invece,

abbiamo trovato un clima gradevole e un’aria

respirabile. Nel centro della città edifici ultra-

moderni e rare vestigia del passato.

Muoversi dentro Ulan Bator è un po’complica-

to. Le cartine con alfabeto occidentale (e non

in cirillico-mongolo) in genere non vengono

capite anche perché i nomi delle strade sono in

di Marco Zappa e Rossella Seniori

PassaggioinMongolia

1

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2527 NOVEMBRE 2017

Sono definitivamente abbassate le saracinesche

della «Trattoria di’Sordo» in via Gioberti. Una

trattoria popolare aperta da decenni nel locale

che gestori e lavoratori hanno dovuto abbando-

nare a causa dello sfratto esecutivo che è stato

messo in atto. E’ una vicenda che non è passata

sotto silenzio. Ne hanno parlato i giornali citta-

dini e le radio. Lunedì, nella serata di chiusura,

il locale era pieno. I clienti volevano manife-

stare affetto e vicinanza. Non c’era tristezza. E

risaltava la dignità di chi svolgeva il suo compi-

to, cucinava e serviva ai tavoli come se quello

fosse un giorno come un altro. Non è stato un

addio. C’è voglia di ricominciare, da parte dei

lavoratori della Trattoria. Che vorrebbero ria-

prire presto, in un locale diverso, possibilmente

nella stessa zona in cui in cui si sono guadagna-

ti una meritata considerazione (con i loro piatti

semplici e buoni, sempre quelli: una garanzia) .

Quella della «Trattoria di’ Sordo» non era una

realtà in crisi. E’ un aspetto che i gestori hanno

teso a sottolineare: la chiusura si è resa inelut-

tabile non per scarso rendimento, ma (come ha

titolato efficacemente «La Nazione») a causa

degli affitti indigesti. Accanto al “Sordo”, da

mesi, per la stessa ragione, ha chiuso il vinaio

“Gottino”. Quest’angolo di via Gioberti dà il

senso della corrosione del tessuto della città,

che, mutando, si impoverisce. «Da 2200 €, che

pagavamo prima, a scadenza contratto, qualche

anno fa, i proprietari sono passati a chiederce-

ne 8000. Una cifra per noi insostenibile »,

dice Paolo Nepi, uno dei gestori. Poi le cose si

sono logorate e, al di là della ricostruzione de-

gli aspetti legali della questione, alla chiusura

dei battenti si è inevitabilmente dovuti arriva-

re. Ma l’esito della vicenda, che certamente

ha provocato grande amarezza (perché chiude

uno storico riferimento del quartiere e perché

cinque persone restano senza lavoro), non è

stato vissuto con rassegnazione. I lavoratori del

“Sordo”, come dicevamo, cercano un nuovo lo-

cale, in zona, per non sradicarsi dal quartiere.

Chi può, tenda le orecchie e passi voce per dar

loro una mano. E’ un «caso» specifico, quella

del «Sordo», ma anche fortemente emblema-

tico. A due passi da lì, in piazza Beccaria, ha

chiuso l’edicola, ha chiuso il Cinema «Astra»,

ha chiuso il frequentatissimo «Goal Bar». La

Piazza è popolata adesso solo da banche che

più sono impopolari più si diffondono come

funghi. Firenze si va privando delle sue realtà

artigianali più tipiche e popolari e si va riem-

piendo di attività uguali a quelle di ogni altra

città del mondo, che continuamente aprono e

velocemente chiudono. Non è un discorso solo

di carattere commerciale, ma anche di tipo cul-

turale e umano. Forse c’è qualcosa di profondo

da ripensare. Sarebbe importante poterne di-

scutere con gli amministratori e con il sindaco

della nostra città. E sarebbe bello (posso osare

un invito e formulare un auspicio?) parlarne

presto in una rinata «Trattoria di’ Sordo» da-

vanti a un piatto di pici e ad un buon bicchiere

di Chianti «gallo nero».

Situata dove oggi sorge Torre Annunziata, a cir-

ca 1 km. e mezzo da Pompei, Oplontis appare

in mezzo a uno spazio piuttosto sassoso, con un

imponente colonnato che, a prima vista, sem-

brerebbe l’ingresso principale della villa. Inve-

ce si tratta del dietro dell’edificio che dava sul

viridarium, ossia sul giardino, mentre l’ingres-

so principale s’affacciava sul lato mare, come

nelle altre ville della zona di epoca imperiale.

Sembra appartenuta a Poppea, seconda moglie

di Nerone, come ormai convengono quasi tutti

gli studiosi; o comunque alla sua famiglia che

aveva beni nel territorio. Fu seppellita, come

Pompei, dall’eruzione del Vesuvio e riscoperta,

casualmente, durante alcune canalizzazioni or-

dinate dai Borboni, e poi scavata a cominciare

dal 1839 sotto la direzione di Michele Rusca.

Ma gli scavi, condotti con criteri moderni, fu-

rono ripresi solo nel 1964. Secondo la testimo-

nianza di Plinio il Giovane, Oplontis fu seppel-

lita da una pioggia di cenere, lapilli e fango per

uno spessore di almeno 7 metri. Ci sono ancora

altri edifici da scavare, ma quello che importa è

che gli scavi già completati hanno portato alla

luce stupefacenti pitture murali e strutture ar-

chitettoniche che rappresentano l’esempio più

grandioso di villa suburbana in area vesuviana.

Le ville erano anche fattorie, oltre che residen-

ze padronali, con abitazioni per gli schiavi, o

liberti, agricoltori. Ma al momento dell’eru-

zione la villa era disabitata, forse in attesa di

ristrutturazione, come sembrerebbe dai mate-

riali edili ritrovati. Comunque, tutta la villa è

decoratissima. Nell’atrio, intorno al gran bassin

per la raccolta dell’acqua piovana, secondo la

tradizione delle case romane, le pareti sono illu-

strate con finte porte o finte finestre che si affac-

ciano su giardini, veri o dipinti, con scenografie

complesse. Nella sontuosa dimora di Oplontis

,tutte le decorazioni sono del secondo o terzo

stile pompeiano, per un periodo che oscilla da

l’80 a. C. al 65 circa d. C. . L’elemento predo-

minante del secondo stile pompeiano, perché

è da Pompei che si sono classificati gli stili, è

caratterizzato dalla riproduzione di strutture

architettoniche illusionistiche, dove lo spazio

sembra scandito da colonnati aldilà dei quali si

intravedono altri colonnati e paesaggi ideali. Il

terzo stile, che si afferma a cavallo dell’era cri-

stiana, è caratterizzato da una grande profusio-

ne di colori, con l’introduzione, nelle eleganti

architetture, di medaglioni, ghirlande e scene

di vita quotidiana, molto simili a quelle della

Villa dei Misteri di Pompei e di Boscoreale, tan-

to da ipotizzare, secondo alcuni studiosi, un’u-

nica scuola di pittura. Nella villa erano distinti

i vari locali secondo le funzioni; e dalla qualità

delle decorazioni sono evidenti quelli padrona-

li, che si allargano a destra e sinistra dell’atrium,

da quelli servili, come la cucina; o di comodo,

come le latrine, ecc. . Una parte evidentemente

importante riguarda la zona destinata alle ter-

me, decorate con soggetti mitologici. Uscendo

dalle terme ci s’immette in una zona destinata

a giardino, con fontana al centro e decorazioni

a soggetto floreale. Assai sofisticate sono le tec-

niche idrauliche nella cucina, come nelle latri-

ne, che permettevano la separazione di acque

e rifiuti. In tutti gli ambienti il richiamo alla

musica ,con strumenti dipinti, o al teatro, con

maschere decorative, nonché alle delizie della

natura, non erano certo inferiori ad una villa

‘schifanoia’ di epoca rinascimentale.

di Annamaria M.Piccinini

La villa sommersa di Poppea

di Severino Saccardi

Addio al Sordo

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2627 NOVEMBRE 2017

dei media, pronti a divorare qualunque preda

venga loro offerta in pasto e anche il senso di

oppressione della comunità chiusa ,controlla-

ta da una confraternita religiosa che, fuori dal

controllo delle gerarchie ecclesiastiche, sfiora i

tratti ossessivi della setta. Però la seconda par-

te del film si perde davvero nella nebbia, nel

senso che la narrazione filmica, a differenza di

quella scritta (il libro, pubblicato nel 2015, ha

venduto 3 milioni di copie nel mondo), è così

confusa che lascia incerti sullo scioglimento

finale la grande maggioranza degli spettatori,

come si vede anche dalle loro recensioni. E

non bastano per farne un film di tensione e

d’atmosfera le notevoli interpretazioni degli at-

tori protagonisti, perché i personaggi non sono

solo ambigui e giustamente combattuti tra il

bene e il male, mancano proprio di identità e di

definizione il che nel libro ha un peso minore

perché l’ingranaggio del giallo, a differenza che

nel film, risulta chiaro e perfettamente diabo-

lico. Siamo lontani anni luce da maestri come

Patricia Highsmith e Albert Hitchcock. Tut-

to sommato, meglio come romanzo che come

sceneggiatura, o forse è vero che il peccato più

sciocco è la vanità e bisognerebbe non preten-

dere di dominare diversi tipi di linguaggio per

non incorrere nell’improvvisazione.

“La ragazza nella nebbia” è un film di Dona-

to Carrisi, presentato al festival del cinema di

Roma 2017, tratto da un romanzo noir dello

stesso Donato Carrisi che nasce come sceneg-

giatura e che contiene tra le linee d’orizzonte

fondamentali una critica spietata al ruolo

giudicante dei media nelle vicende di crona-

ca criminale, il che già costituisce un indizio

su alcune contraddizioni tra linguaggi diversi

e tra linguaggio e metalinguaggio che hanno

un peso non indifferente nella struttura della

narrazione. Il cast di notevole rilievo, con Toni

Servillo e Alessio Boni eccellenti coprotagoni-

sti e un Jean Renau, perfettamente calato in un

ruolo apparentemente quieto e marginale, ol-

tre alla felice ambientazione in un isolato paese

di montagna, che ricorda non a caso nei diora-

ma esibiti i plastici di Cogne delle trasmissioni

di Vespa, contribuiscono ad una prima parte

del film caratterizzata da un buon ritmo ed un

interessante approccio alla vicenda. Il film si

apre sul colloquio dell’agente speciale Vogel,

Toni Servillo, reduce da un incidente d’auto

e con la camicia macchiata di sangue non suo

e lo psichiatra Flores; una magistrata attende

l’esito del colloquio per poter procedere all’ar-

resto dello stesso poliziotto Vogel. Una serie

di flashback che in parte si sovrappongono

rivelano che la vicenda parte dalla sparizione

di una ragazzina di sedici anni, ancora appa-

rentemente una bambina, con i capelli rossi e

le lentiggini che vive in una comunità chiusa

e dominata da una confraternita religiosa cat-

tolica di cui i genitori e lei stessa fanno parte;

della vicenda si è occupato appunto l’agente

speciale Vogel, più che investigatore uomo di

potere e soprattutto di spettacolo, interessato

prevalentemente a manovrare i media per la

propria carriera. La prima parte del film, fino

all’apparire del secondo protagonista e presun-

to colpevole, il professor Martini, Alessio Boni,

ha un buon ritmo e riesce a tenere ben desta

l’attenzione del pubblico, ottime le sovrap-

posizioni d’immagine dei paesaggi montani

e dei relativi diorama, calzante la descrizione

filmica della comunità chiusa e asfissiante at-

traversata da una religiosità ossessiva e dove il

denaro ha stabilito , con la scoperta di un giaci-

mento di fluorite, nuove gerarchie che hanno

sconvolto la stratificazione sociale precedente

fondata sulla vocazione montanara e turistica

della zona. Diverse le chiavi di lettura: “il pec-

cato più sciocco del diavolo è la vanità “ e poi

“ognuno di noi ha una crepa dentro”, “sono i

cattivi che fanno la storia” e , infine, “la prima

regola di ogni romanzo è copiare”; sicuramen-

te riuscita è la rappresentazione mefistofelica

di Mariangela Arnavas

La ragazza nella nebbia

Nell’ambito delle iniziative promosse in occa-

sione del decennale della scomparsa di Giu-

seppe Chiari, sabato 2 dicembre 2017, dalle

ore 11 alle 20 (con concerto conclusivo dalle

h 21 presso Frittelli Arte contemporanea), a

Firenze e Prato, avrà luogo la mostra “Penta-

Chiari - cinque gallerie d’arte celebrano si-

multaneamente l’opera di Giuseppe Chiari -”,

a cura di Bruno Corà. Le Galleria promotrici

dell’evento sono: Galleria Santo Ficara, Fi-

renze; Frittelli Arte contemporanea, Firenze;

Galleria Armanda Gori Arte, Prato; Galleria

Il Ponte, Firenze; Galleria Tornabuoni Arte,

Firenze.

Cinque gallerie d’arte celebrano Giuseppe Chiari

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2727 NOVEMBRE 2017

tà, altra cultura.

Firenze in questo momento ha bisogno di

altro, subisce un uso dissennato del suo

ambiente, provocato dal turismo di massa,

ma anche da alcune discutibili scelte politi-

co-amministrative estranee a qualsiasi indi-

rizzo culturale quale il non porre un limite

alla distribuzione alimentare nel centro sto-

rico, esempi significativi sono via de’ Neri,

Borgo Albizi e sulla stessa strada si stanno

orientando velocemente anche Borgo San

Frediano e via di S. Agostino; non avremmo

voluto che il negletto Oltrarno, assurgesse

ai titoli della cronaca per omologarsi al resto

delle vie del fast food. Altra scelta forse non

sufficientemente meditata visti i risultati è

stata quella di riempire di biciclette un am-

biente che dovrebbe essere goduto con len-

tezza per avere la percezione dello spazio

storico circostante.

Solo alcuni anni fa un problema di Firenze

erano le bancarelle degli ambulanti, ormai

acquisite all’immagine urbana, non se ne

parla quasi più; anni fa un problema era

sulla legittimità dell’autorizzare la giostra

in piazza della Repubblica una questione

che oggi, ma sinceramente anche allora, fa

sorridere.

Sconcerta l’Aventino culturale su cui si

è arroccata la città e i suoi più alti rappre-

sentanti, si sente la necessità di un dibattito

culturale sul destino di Firenze che coinvol-

ga anche l’organo cittadino territorialmen-

te preposto alla tutela e al turismo, ovvero

quella Soprintendenza che in anni in cui

non veniva considerata esclusivamente

come ostacolo ha contribuito e collaborato

per competenza alle scelte cittadine a volte

difficili, prima tra tutte la realizzazione del-

la tramvia.

I problemi di Firenze sono gli stessi di altre

città turistiche, ogni decisione anche in ap-

parenza la più semplice va meditata e ana-

lizzata nei possibili risultati, non si poteva

non essere consapevoli del punto in cui si

sarebbe arrivati aprendo dissennatamente

le strade ai dehors prima e al fast food in

generale poi, nel chiudere al traffico e pedo-

nalizzare alcuni luoghi: Oltrarno ne ha su-

bito pesantemente le conseguenze, la fuga

degli artigiani, l’apertura dei ristoranti, la

chiusura dei negozi di quartiere provocan-

do il completo stravolgimento della realtà

locale. Firenze ha quasi completamente

perso la sua identità, l’aumento del turismo,

l’impossibilità del cittadino di vivere la sua

città sta portando all’abbandono del centro

storico per lasciare spazio ad un turismo più

volte definito “mordi e fuggi” che identifica

la città con panini, bancarelle, borse taroc-

cate e i suoi feticci: Uffizi, Ponte Vecchio, il

David di Michelangelo.

È una deriva preoccupante dalla quale dif-

ficilmente si potrà tornare indietro.

La presentazione, lunedì 20 novembre,

del volume “Architettura Contemporanea

e Ambiente Storico” a cura di Francesco

Guerrieri, è stata occasione di alcune ri-

flessioni. Dopo la presentazione di Cristina

Donati ed alcuni perdibili interventi, Gur-

rieri ha riportato su più stimolanti e corretti

binari una illustrazione che avremmo volu-

to invitasse a una più ampia discussione, ma

purtroppo non era né il luogo né il momen-

to, anche se molti tra i presenti ne sentivano

l’esigenza.

Da tempo infatti a Firenze non si sente

parlare di architettura, né storica né con-

temporanea, ancora meno si sente parlare

di restauro, inteso come elaborazione pro-

gettuale e non come semplice conservazio-

ne dei materiali, disciplina questa ormai

lasciata in mano a restauratori che, seppur

eccellenti operatori, hanno il limite di con-

siderare la materia avulsa dal contesto ar-

chitettonico cui appartiene.

Sempre più lo studio, la ricerca, il dibattito

culturale sono considerati da molti perdita

di tempo. Le soluzioni sono ritenute valide

solamente se immediate.

Durante la presentazione Alessandro Gioli

ha evocato architetti di fama cui affidare in-

terventi in contesti storicizzati; Gurrieri da

parte sua ha invece ricordato positivamente

il “riempimento delle lacune” causate dalle

mine tedesche in via Por Santa Maria, via

Guicciardini e le vie vicine: i progettisti eb-

bero la capacità di ricompattare il tessuto

urbano e l’immagine storicizzata del conte-

sto, evitando inserimenti fuori scala o l’uso

di materiali diversi da quelli locali.

In tanti anni di esperienza al MiBACT mi

sono spesso trovata di fronte a proposte pro-

gettuali avanzate da notissimi architetti sia

italiani che stranieri e nessuno di loro è sta-

to in grado di capire la realtà storica con la

quale si trovava ad interagire. Un architet-

to, solo perché di fama, non è esperto nelle

diverse discipline e sovente non possiede la

capacità di valutare i suoi limiti e la consa-

pevolezza della diversità tra tipologie pro-

gettuali, in particolare l’approfondimento

necessario per avvicinarsi al restauro archi-

tettonico o, ancora più impegnativo, ad un

intervento di progettazione in un ambito

storicizzato.

Non si deve, ogni volta che si pensa a qual-

che intervento contemporaneo per Firenze,

fare il paragone con quello che viene realiz-

zato in altre città europee con altre storie,

altre tradizioni, altre dimensioni, altre real-

di Paola Grifoni

Il silenzio dell’architetto

Page 28: Numero 240 - Maschietto Editore · strade di una Washington sporca e maledu-cata, ben diversa dal mondo che lui vede-va rappresentato attraverso la TV, Chance viene investito dall’auto

2827 NOVEMBRE 2017

Rosa aveva sognato tutta la vita l’abito bian-

co. Aveva trent’anni e non era fidanzata. A

quei tempi, a quell’età si era già zitella. Spo-

sarsi voleva dire uscire di casa e diventare

indipendenti (anche se spesso non era così).

Voleva dire uscire dalle quattro mura dome-

stiche. Mentre china sull’orlo accarezzava

l’abito bianco che stava confezionando per

la sorella, sorrideva tra sé. Lieve la mano

scivolava tra le pieghe e gli occhi lucidi,

denunciavano il desiderio mal represso di

voler cucire anche per sé un abito nuziale.

In casa non poteva dedicarsi molto tempo.

La famiglia era numerosa e lei doveva ba-

dare ai fratelli. A

volte diceva che era

come se già si fosse

sposata perché do-

potutto una fami-

glia l’aveva cresciu-

ta (quattro fratelli

era un nucleo nu-

meroso). Man mano

poi la casa cominciò

a svuotarsi, ognu-

no cercava altrove

la propria strada

e si allontanava

per lavoro. E passava anche il tempo della

sua vita. Un giorno Rosa si recò a far visi-

ta a uno dei fratelli. Sul treno incontrò un

uomo che intrecciò subito un discorso. Era

timorosa per la poca esperienza di vita ma

quell’incontro fu per lei come l’aprirsi di un

orizzonte. L’uomo l’affascinò e un giorno si

presentò a casa sua con la promessa del ma-

trimonio. Rosa, dapprima timida e impac-

ciata, cambiò. Gli occhi le si illuminarono.

Sentì dentro di sé una grande gioia. Si sentì

donna. Era felice! E già pensava ai prepa-

rativi. Avrebbe confezionato anche per sè

l’abito da sposa a lungo sognato. L’uomo le

fece mille promesse…che l’avrebbe portata

lontano!. Si fece comprare abiti con questa

chimera. Ma alla sera del terzo giorno tutto

cambiò. Non più amore ma freddezza e fa-

stidio annullarono ogni speranza. La matti-

na, l’uomo ripartì in treno portandosi via gli

abiti nuovi per una destinazione sconosciu-

ta, segnando la fine di ogni promessa. Rosa

lo seguì sulla soglia ma nel commiato ebbe

solo una stretta di mano e non seppe più

nulla di lui.

La violenza era stata troppo forte. Per la pri-

ma volta Rosa aveva provato un sentimento,

ma era stata violentata in modo atroce con

l’annientamento di ogni speranza. Fu allo-

ra che cominciò a

morire. Piano, len-

tamente, senza un

lamento, senza che

trasparisse la sua

angoscia. Riprese a

lavorare ma i lun-

ghi silenzi erano

eloquenti. La casa

si era svuotata e lei

era sola col suo ri-

cordo. Incominciò

a non mangiare più

sufficientemente. Il

male si stava già impadronendo di lei. Era

ormai diventata l’ombra di sé stessa. La spi-

na nel cuore la lacerava più di una lama o

di un colpo di arma letale e gli occhi si spe-

gnevano lentamente. Ogni cura fu inutile.

La violenza subita l’aveva lacerata dentro

e ormai non si accorgeva nemmeno più di

avere un cuore. Il male diagnosticato fu

inesorabile come l’uomo che l’aveva illusa e

abbandonata per sempre. Morì in un giorno

caldo di giugno mentre il giardino profuma-

va di rose. Andò via col suo candore, la sua

innocenza e una parvenza d’amore, adorna-

ta di rose profumate come il suo nome.

La violenza non è solo una ferita da coltello

Storia di Rosa

di Anna Lanzetta

Page 29: Numero 240 - Maschietto Editore · strade di una Washington sporca e maledu-cata, ben diversa dal mondo che lui vede-va rappresentato attraverso la TV, Chance viene investito dall’auto

2927 NOVEMBRE 2017

di Carlo Cantini

Il Diverso FemminileNegli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per

reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione

realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a

questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.