Demand è lecito Answer è cortesia - Maschietto Editore · Michele Morrocchi, Sara Nocentini,...
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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
237 304
4 novembre 2017
Maschietto Editore
Demand è lecitoAnswer è cortesia
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, 1969
La prima
Questa era una
zona residenziale
periferica, abitata
da una classe media
mista. Mi ricordo
che si incontravano
sia famiglie bianche
che famiglie di
afroamericani e
latinos. Si trattava
evidentemente
di famiglie che
avevano raggiunto
un grado
di inserimento più
che soddisfacente
nelle gerarchie
in cui da sempre
si divide la società
statunitense. Notai
subito con piacere
che il clima era
decisamente rilassato
e che i giovani
interagivano senza
manifestare alcun
segnio di disagio per
questa coabitazione.
Sono stati momenti
piacevoli anche
per me. Sembrava
di essere in un’oasi
di pace e di relax
in mezzo ad una
megalopoli molto
frenetica e sempre di
corsa!
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
237 304
4 novembre 2017
In questo numeroLettere da un architetto a un sacerdote
a cura di Cristina Donati
Parole aeree
a cura di Archivio Carlo Palli
Sete di libertà
di Alessandro Michelucci
Per S.Giorgio! Da Giotto a Foggini
di M. Cristina François
Un certo sguardo su Firenze
di Susanna Cressati
Attraverso il finestrino
di Danilo Cecchi
La verità sulla Catalogna
di Olimpio Musso
Non è il cielo a essere azzurro, è l’azzurro a essere cielo
di Claudio Cosma
Mappe di percezione: San Francisco
di Andrea Ponsi
Una mostra, tre Annunciazioni
di Roberto Barzanti
Ernaux, la memoria attrezzista di scena
di Elisa Zuri
Leggere sull’acqua
di Simone Zanuccoli
Superare la linea gialla
di Giacomo Aloigi
La guerra raccontata con verità e poesia
di Paolo Marini
e Valentino Moradei Gabbrielli, Mariangela Arnavas, Gianni Pozzi... Illustrazioni di Massimo Cavezzali, Lido Contemori
Grazie a Dio
Le Sorelle MarxSempre più in alto
I Cugini Engels
Menestrina riscaldata
Lo Zio di Trotzky
Riunione di famiglia
44 NOVEMBRE 2017
“Spero proprio di venire un giorno coi ra-
gazzi a vedere con lei la chiesa dell’Auto-
strada”: così, Don Milani conclude una sua
lettera a Giovanni Michelucci in segno di
stima per la sua architettura e di interesse
verso la sua declinazione ecclesiale.
Nel breve epistolario tra il sacerdote e l’ar-
chitetto si toccano temi ancora oggi al cen-
tro del dibattito culturale che spaziano dal-
la didattica, al significato di collaborazione
disciplinare.
Siamo nel novembre del 1967, Giovanni
Michelucci visita Barbiana invitato da Don
Milani per parlare ai suoi ‘figlioli’ del mondo
dell’architettura, dell’urbanistica, dell’arte.
Una lezione aperta, un dialogo tra un profes-
sionista ed un ecclesiastico per interrogarsi
sulla teoria e sull’etica delle discipline.
Non possiamo conoscere le domande che
Don Milani rivolse all’architetto ma possia-
mo desumere gli argomenti dall’epistolario
intercorso nei giorni che seguono l’incon-
tro-dibattito. L’impegno, la partecipazione,
l’insegnamento, l’utilità del proprio lavoro
sono al centro dell’interesse dei due uomi-
ni che da angolazioni diverse condividono
i propri pensieri ed esplorano la propria
anima.
Temi eterni, cari a Michelucci, che in più
occasioni, ha ribadito quanto il valore di
un’opera fosse da rintracciare nella sua
‘umana e poetica verità’, ma anche nell’effi-
cacia del suo rapporto con la società.
Rileggiamo quindi oggi questo epistolario
inedito per continuare a riflettere sul va-
lore della teoria ed, ancor di più, sull’etica
su cui fondare le Arti, espressione massima
della società che vogliamo costruire per le
generazioni future.
Nota: Si ringrazia quindi il Prof. Giancar-
lo Paba, presidente della Fondazione, per
avere concesso la pubblicazione di queste
lettere ed il Prof. Francesco Gurrieri per il
suo interesse a proporne la pubblicazione.
Caro Don Milani,
mi scusi la familiarità con la quale inizio
questa lettera, ma non saprei come comin-
ciarla diversamente, perché la visita che ho
fatto a Barbiana, ha lasciato in me un ricor-
do veramente caro. Dirò di più: quell’in-
contro mi è stato, mi è e mi sarà “utile”.
Di fronte ai suoi “figlioli” lei mi pose al-
cune domane alle quali risposi senza dire
nulla di interessante; perché l’architettura,
l’urbanistica e l’arte stessa in generale mi
interessano ormai ben poco, legate come
sono a speculazioni di ogni genere: teori-
che, cattedratiche, politiche.
Ma questo è un argomento che richiedereb-
be molto tempo per essere messo a fuoco,
ed io non voglio annoiarLa con una lettera
troppo lunga.
Ora voglio soltanto ringraziarLa per la
cordiale accoglienza fattami domenica, e
dirLe che ho letto e riletto la Sua lettera
ai Giudici (che è di una chiarezza e di un
impegno esemplari) e poi che ho riflettuto
molto sulla Sua attività di maestro la quale
se è fondamentale per la formazione dei ra-
gazzi che Le sono vicini, può tuttavia esse-
re utilissima anche per chi, come me, è già
tanto in là con l’età, da guardare in faccia la
morte da tre passi di distanza. Ecco perché
le ho parlato in principio di “utilità” all’in-
contro; ed anche per questo La ringrazio.
Le invio i miei saluti migliori,
suo
Michelucci
7 Novembre 1965
PS: Leggo di quel tale Morrison che da-
vanti al Pentagono si è dato fuoco, ed è
morto, per protestare contro la guerra nel
Vietnam.
Ecco un altro uomo che ha pagato di perso-
na – a suo modo – per il bene di Tutti.
******
Caro Architetto,
Siamo stati sommersi dalla posta e dalle
visite. E’ una gioia per me e per i ragazzi
scoprire tanto mondo sconosciuto che leg-
ge gli articoli di giornale e subito prende
la penna per scrivere che è d’accordo, che
a cura di Cristina Donati
Lettere da un architetto a un sacerdote
Foto di Carlo Chiari
54 NOVEMBRE 2017
Lettere da un architetto a un sacerdote
******
Caro Don Lorenzo,
quando ricevei il biglietto col quale mi invi-
tava a Barbiana per leggere la “lettera ad un
a professoressa” (che ho letto poi a Firenze)
mi rallegrai perché potevo così venire di
nuovo a trovarLa ed avere direttamente
Sue notizie; ma in pari tempo entrai - come
si dice - in agitazione al solo pensiero di do-
vere esprimere un parere su di una opera
della “scuola di Barbiana” e cioè, Sua.
Quanto ad un mio intervento diretto nel con-
testo dell’opera stessa mi pareva, come mi
sembra tuttora, inammissibile, considerata la
mia impreparazione in materia e la mia insuf-
ficienza culturale. Anzi, ora, dopo la lettura
delle “lettere” quella inammissibilità mi ap-
pare ancor più evidente perché non conosco
affatto la scuola d’obbligo, che ai miei tempi
non era nemmeno nella mente degli Dei, e
tanto meno conosco la magistrale.
Lei mi ha accennato, se ben ricordo, alla
eventualità di trattare l’argomento “colla-
è vicino, che ci vuol bene di lontano. Però
questa volta son stati troppi e la nostra or-
ganizzazione non ha retto all’urto. Siamo
già indietro di diversi giorni anche della
sola lettura della posta e di quella letta ce
n’è un monte di cui non ricordiamo più se
appartiene alle evase o alle non evase. Così
ci è successo di non sapere se le abbiamo già
detto quanto piacere ci ha fatto la sua visita
e il suo modo di lasciarsi confessare davanti
ai ragazzi adattandosi alla mia necessità di
maestro di far conoscere ai ragazzi più gen-
te possibile e più da dentro possibile.
Spero proprio di venire un giorno coi ra-
gazzi a vedere con lei la chiesa dell’Auto-
strada e se non me la sentissi di muovermi
perché non sto bene, spero proprio che lei
spiegherà la sua opera ai ragazzi anche se
io non ci sono.
Un saluto affettuoso da me e dai ragazzi,
suo
Lorenzo Milani
25 Novembre 1965
borazione”; ma la collaborazione che io cer-
co è molto diversa da quella che realizza la
scuola di Barbiana, che è fra persone che si
preparano ad insegnare. La mia è collabo-
razione con la popolazione, con gli operai
nel cantiere, con le persone più sprovve-
dute, con gli ‘ignoranti’, dai quali attingo
suggerimenti, proposte, critiche per poi
tradurre il tutto in un disegno o in una co-
struzione. Non è quindi la collaborazione
intesa nel senso di “équipe” professionale.
Io non so quindi cosa potrei dire in proposito.
Sebbene, come ho già detto, io non conosca
la scuola d’obbligo e la magistrale, penso
che quel che è detto nella “lettera ad una
professoressa” sia esatto, tanto più che ho
saputo recentemente di un Preside che ha
rimproverato duramente un insegnante di
aver bocciato un ragazzo che “non capiva”.
Ha detto il Preside: “la colpa è sua e non
del ragazzo; è lei che non capisce!”
La “lettera” tocca quindi un argomento im-
portante e già discusso nella scuola; come ne
tocca altri, relativi alla conoscenza di quel
che avviene giornalmente nel mondo, alla
politica, al doposcuola ecc; vi sono pagine
molto belle (bellissime quelle dei ragazzi
dall’estero), e vi è qualcosa su cui non con-
cordo e voglio dirlo a Lei con tutta libertà
perché la stimo un grande maestro cui io
stesso, così in là con gli anni, debbo molto:
non concordo sulle offese dirette alla profes-
soressa e ad altre persone perché, seguendo
la logica della lettera, se bisogna dedicare
ogni cura al ragazzo che ha difficoltà a ca-
pire, non mi rendo conto perché la stessa
cura non si debba dedicare alle persone ma-
ture di anni che non capiscono, cercando di
persuaderle, di “educarle”, sia pure con un
linguaggio duro, ma non offensivo. Mi sem-
bra inoltre che con le offese si stabiliscano
nell’opera due ‘piani qualitativi’ di linguag-
gio che possono coinvolgere il lettore.
Le stupende pagine di ‘esperienze pastora-
li’ e quelle della “lettera ai giudici” sono ef-
ficacissime per la loro critica incisiva e dura
verso gli uomini e la società bacata, e sono
di una serenità esemplare. Ed insegnano
tante cose importanti ad ogni uomo che sia
degno di questo nome.
Pubblicata originariamente su Toscana Oggi
64 NOVEMBRE 2017
Ma vi ricordate il nostro sindachino Dario
Nardella quando si mise a fare lo scherzetto
al suo collega di Venezia, Luigi Brugnarno,
urlandogli “Allah akbar”? Uuuuh, quante
polemiche! E lui ha subito gettato acqua sul
fuoco, dicendo che non intendeva offendere. E
certo, noi non avevamo dubbio alcuno. Ma il
problema è che Nardella non aveva la benché
minima idea di ciò che stava dicendo. Ma
a spiegarglielo ci avrebbe pensato Wajahat
Ali, editorialista del New York Times che
sull’autorevole quotidiano ha scritto un
articolo dal titolo “Rivoglio indietro Allahu
Akbar”. Wajahat spiega al nostro sindachino
che Allahu akbar in arabo significa “Dio è il
più grande” e che i musulmani, “una eccen-
trica tribù di oltre un miliardo di membri”
la pronunciano 5 volte al giorno nelle loro
preghiere e anche per esprimere gratitudine in
ogni situazione (come lui stesso ha confes-
sato di aver fatto in un gabinetto “dopo aver
perso una battaglia, ma infine aver vinto la
guerra contro un tremendo virus intestina-
le”). E tuttavia “il mondo continua a girare e
nessuno viene colto da aneurisma” e nessuno
di questo miliardo di individui fino a qual-
che anno fa avrebbe mai esclamato “Allahu
akbar” prima di aver commesso una strage.
Purtroppo ultimamente un piccolo nume-
ro dei componenti di questa tribù compie
omicidi terribili gridando questa frase, a New
York, a Charlottesville, a Barcellona. Così, una
comune benigna frase usata quotidianamen-
te da milioni di musulmani durante le loro
preghiere, oggi è compresa come un codice per
dire “è terrorismo”. E’ noto che il linguaggio
spesso è sequestrato e usato come un proiet-
tile da violenti estremisti. Alcune persone,
scrive Wajahat, urlano “Allahu akbar” e altri
intonano “identità”, “cultura”, “orgoglio bian-
co”. Come ha twittato Trump dopo l’attacco
terrorista, “chi vuole combattere il terrorismo
studi quello che il generale Pershing fece ai
terroristi arrestati: li ha sparati con pallottole
inzuppate nel sangue di maiale. Dopo di che
non ci fu più il terrore radicale islamico per
35 anni!”. Wajahat chiede di avere indietro il
significato vero di quel “Allahu akbar”, “Dio
è il più grande”. Lo stesso Dio in cui crede il
nostro sindaco. Anche se lui, forse, non lo sa.
L’ora delle decisioni irrevocabili si sta
avvicinando: elezioni politiche a primavera e,
dunque, le grandi manovre stanno iniziando
anche in Toscana. E in questi frangenti, non
c’è Nardella che tenga: il campione indiscus-
so di ogni elezione è uno solo e inimitabile,
Eugenio Giani. Il Presidente del Consiglio
Regionale ha consegnato la dichiarazione di
guerra agli ambasciatori di Saccardi e Nar-
della ed è salito sul suo Ansaldo S.V.A per
dare una dimostrazione di forza ai nemici del
popolo. E così sulla sua pagina Facebook ha
tuonato: In volo sulle #Apuane. La #Toscana
dall’alto, non ha segreti!
Eugenio è dappertutto e vi controlla, ovun-
que voi siate.
Combattenti di terra, di mare e dell’aria,
un’ora segnata dal destino batte nel cielo
della nostra patria, disse la buonanima e
con forme rinnovate, ribadisce oggi il buon
Eugenio. Sempre più in alto!
Sempre più in alto
Le SorelleMarx
I CuginiEngels
Dio è grande
disegno di Massimo CavezzaliSCavezzacollo
74 NOVEMBRE 2017
disegno di Lido Contemori
Lo Zio diTrotzky
Si dice, errando e alquanto ingenerosamente, che la
finanza sia diventato il campo privilegiato dell’ingan-
no, della prevalenza degli interessi privati e particola-
ri su quelli pubblici e generali, il terreno di conflitto
fra gli interessi. Niente di più ingiusto. Prendiamo
il caso della Banca Popolare di Vicenza, già nota in
Toscana per essersi mangiata insieme alla Cassa di
Risparmio di Prato, anche la meravigliosa collezione
di opere d’arte del Rinascimento pratese che il patron
Zonin si volle portar via insieme al pallone, in quanto
entrambi suoi! Ecco, la Banca era così corretta nel suo
agire che dopo aver ospitato come ispettore di control-
lo un funzionario della Banca d’Italia nel 2001, lo ha
impalmato direttore finanziario nel 2004. Il funziona-
rio Luca (nome proprio) Menestrina (cognome sempre
proprio) si era trovato così bene durante l’ ispezione
che ha deciso di rimanerci. Quando si dice una Mene-
strina riscaldata!
Piccola rubrica per i distratti che raccoglie
le migliori frasi di “Avanti”, il bestseller di
Matteo Renzi.
Già come spesso mi accade quando fisso un
bel calendario di inaugurazioni(esattamen-
te come avevo fatto a Firenze da sindaco
nel 2014), c’è un piccolo contrattempo: il
referendum è andato come è andato, e io mi
sono dimesso
Avanzidi Avanti
Menestrina riscaldata
didascalia di Aldo FrangioniNel miglioredei Lidipossibili
L’autosecessione di Carles Puigdemont i Casamajó
84 NOVEMBRE 2017
Paroleaeree
Tra le avanguardie storiche il futurismo ma-
nifestò una volontà di rottura più radicale nei
confronti delle tradizioni linguistiche, stilisti-
che e tematiche precedenti, muovendosi con
strategie d’urto estremamente provocatorie.
Non a caso al centro dell’ispirazione futurista
vi fu il nuovo ruolo che la macchina esercitava
nella società capitalistico-industriale all’inizio
del suo decollo mondiale di inizio Novecento,
analizzata a partire dal piano della percezione
visiva e linguistica e dai meccanismi mentali
che ne derivavano. Se la macchina fa vivere in
modo diverso allora fa vedere e anche sentire
in modo diverso e il mondo, di conseguenza,
non può sottrarsi né al progresso né alla mo-
dernità, ma è destinata ad analizzarla con lin-
guaggi e metodologie che superano il canone.
L’esaltazione della velocità e della macchina
si legarono indissolubilmente al mito del volo,
in una fascinazione estetica ed espressiva che
coinvolse in primis il linguaggio. Nel 1908
Filippo Tommaso Marinetti pubblicò la sua
prima esaltazione lirica in versi dedicata al
volo dal titolo “L’Aeroplano del Papa” e nel
1919 cominciò a collezionare vocaboli aviatori
pubblicandoli sulla rivista futurista «La testa
di ferro», mettendo in evidenza sia la visione
del volo nella sua forma individuale ed eroica
– basti pensare alle gloriose crociere atlanti-
che di Italo Balbo – sia il dinamismo, la velo-
cità dell’aeroplano, il sentimento spaziale e la
possibilità di mettere in gioco la propria vita.
Successivamente le scelte lessicali vennero
ampliate e poste al giudizio dell’artista-aviato-
re Fedele Azari. Nel 1929 l’editore milanese
Morreale pubblicò il “Primo dizionario aereo
italiano (futurista)”: un lavoro a quattro mani
mai più ristampato che univa l’abilità estetica
e comunicativa di Marinetti con le conoscen-
ze tecniche dell’aviazione di Azari; un lavoro
a quattro mani che venne apprezzato non solo
per lo sforzo analitico e “italico” ma anche per
la completezza semantica delle definizioni. Il
“Primo dizionario aereo italiano (futurista)” è
uno dei volumi più importanti a livello stori-
co-linguistico che il Futurismo ha tramandato
ed è anche quello più sconosciuto e difficil-
mente reperibile. La particolarità – apprezza-
bile già dalla soluzione grafica della copertina
– e la rarità del volume sono state riesumate da
Apice Libri che ha offerto al pubblico la prima
ristampa anastatica, dopo più di cinquant’anni
di oblio, con un eccellente ed esaustivo sag-
gio introduttivo di Stefania Stefanelli che ha
curato sapientemente anche l’intero volume,
rivalutando l’aspetto più colto e analitico del
Futurismo marinettiano. La ristampa anasta-
a cura di Archivio Carlo Palli
tica sarà presentata mercoledì 8 novembre al
Camec di La Spezia con gli interventi critici di
Stefania Stefanelli, Laura Monaldi e Alessio.
Inoltre verrà proiettato il video realizzato da
Fulvio Wetzl “Futurista sul Golfo” nel quale,
nel magnifico Palazzo delle Poste e dei Tele-
grafi della Spezia, di Angiolo Mazzoni, all’in-
terno della torre, tutta rivestita degli splendi-
di mosaici ceramici “Le comunicazioni”, di
Fillìa (Luigi Colombo) ed Enrico Prampolini,
capolavoro dell’arte futurista, l’attore Roberto
Alinghieri interpreta “L’aeropoema del Golfo
della Spezia” di Filippo Tommaso Marinetti,
che trova in questo contesto l’ambientazione
ideale per esprimere tutte le qualità poetiche
e musicali del testo. I mosaici, che circondano
la performance, con le loro migliaia di tessere
colorate, riecheggiano i rutilanti versi futuristi
e creano il giusto controcanto visivo, venendo
a loro volta valorizzati per affinità o per con-
trasto, e accompagnati dalle ispirate musiche
“aerospaziali” di Francesco Balilla Pratella.
94 NOVEMBRE 2017
fu scritto da Nnamdi Azikiwe, primo pre-
sidente della Nigeria. Emeka Ojukwu,
fondatore della repubblica biafrana, aveva
studiato a Oxford e amava profondamente
la musica classica europea. Fu infatti lui a
scegliere la sinfonia di Sibelius: la sua sim-
patia per la Finlandia derivava anche da un
altro episodio storico, la guerra russo-fin-
landese (1939-1940) che era finita con la
vittoria del paese scandinavo. Insomma, la
resistenza della Finlandia contro l’URSS
somigliava a quella del piccolo Biafra, che
combatteva contro la Nigeria e la potente
coalizione internazionale guidata da Gran
Bretagna e URSS. La scelta di Finlandia
non è stata casuale: il padre di Chi-Chi
Nwanoku, morto nel 2004, era un igbo
emigrato a Londra, originario della Nigeria
meridionale. La stessa regione che poi sa-
rebbe diventata famosa col nome di Biafra.
Il nome dell’orchestra, Chineke, indica la
massima divinità della religione igbo, tutto-
ra viva sebbene i missionari abbiano cerca-
to di soffocarla per imporre il cristianesimo.
L’altra composizione inclusa nel CD è la
Sinfonia n. 9 in mi minore Z nového světa,
meglio nota come Dal nuovo mondo, che
Antonín Dvořák compose a New York nel
1893, quando era direttore del New York
National Conservatory of Music.
Diretta da Kevin John Edusei, tedesco di
origini camerunesi, l’orchestra si dimostra
tecnicamente valida e affiatata, sebbene i
suoi membri suonino insieme da poco tem-
po. Non si tratta comunque di esordienti,
ma di strumentisti già affermati. La violi-
nista Melissa White, fondatrice dello Har-
lem Quartet, ha suonato con varie orche-
stre statunitensi; Eric Lamb, primo flauto,
ha inciso per le etichette più prestigiose;
l’oboista Khemi Shabazz è capace di spa-
ziare dal classico all’elettronica; Juan-Mi-
guel Hernandez, violista, ha collaborato
con Misha Dichter e Kim Kashkashian,
ma anche con jazzisti come Gary Burton e
Chick Corea.
Completano questo bel disco le note esau-
rienti e precise di Fin Conway.
Il 13 settembre 2015, alla celebre Queen
Elizabeth Hall di Londra, ha debuttato la
Chineke! Orchestra, composta da 62 ele-
menti di 31 nazionalità. Fin qui (quasi)
nulla di strano. Ma quella sul palco era la
prima filarmonica interamente composta
da musicisti di origine non europea, in pre-
valenza neri. Sul podio c’era Wayne Mar-
shall, inglese di origini africane, direttore
di prestigiose filarmoniche e autore di vari
dischi come pianista e organista.
La Chineke! Orchestra è stata fondata da
Chi-chi Nwanoku (in fondo a destra nella
foto), contrabbassista nata a Londra da pa-
dre nigeriano e madre irlandese. Attiva in
campo musicale da molti anni, insegna alla
Royal Academy of Music e ha al suo attivo
CD con brani di autori come Boccherini,
Rossini e Schubert. Nel 2015 ha curato
per la BBC la trasmissione radiofonica In
Search of the Black Mozart, dedicata a Jo-
seph Boulogne Chevalier de Saint-George
(1739–1799), violinista di origine africana
vissuto fra Parigi e Londra. Il progetto di
mettere insieme un’orchestra composta da
discendenti di immigrati extraeuropei era
quindi del tutto coerente con le sue origini
e con la sua sensibilità culturale. L’obietti-
vo era quello di incrinare un eurocentrismo
ancora ben radicato: “Sono molti i motivi
per i quali le persone come me, le persone
di colore, non riescono a sfondare e sono
rappresentate così scarsamente nelle disci-
pline artistiche. E so per certo che questo
non è dovuto alla mancanza di talento” ha
detto la musicista afroeuropea.
Recentemente la Chineke! Orchestra ha
pubblicato il primo CD (Signum Records,
2017), che contiene due celebri sinfonie
europee, entrambe dirette da Kevin John
Edusei. Una è Finlandia, scritta da Jan
Sibelius nel 1899 per celebrare l’indipen-
denza del Granducato di Finlandia dalla
Russia zarista. Molti non sanno che sulle
sue note fu costruito Land of the Rising
Sun, l’inno del Biafra, protagonista della
lunga guerra civile che insanguinò la Ni-
geria dal 1967 al 1970. Il testo dell’inno
di Alessandro Michelucci
Sete di libertàMusicaMaestro
104 NOVEMBRE 2017
“Alla fine la miglior cosa è fare come il melo,
che non discute certo con altri la propria spe-
cie di mele, e continua a generarla come meglio
può”. Sta forse in questa riflessione, riportata
dal nipote Folco Terzani nel bel filmato dispo-
nibile sul sito a lui dedicato, che Hans-Joachim
Staude rivela la ragione del riserbo silenzioso
che caratterizzò tutta la sua vita di uomo e di
artista. Al pittore di origine tedesca (ma nato
ad Haiti nel 1904) che soggiornò e lavorò a
Firenze per gran parte della sua vita il Gabi-
netto Vieusseux ha dedicato un interessante
incontro (complice la presentazione del volume
“Hans Joachim Staude (1904-1973) Un pitto-
re europeo in Italia”, a cura di Francesco Poli,
Elena Pontiggia, Jacopo Staude, Centro Di)
che ha contribuito non poco a far uscire l’artista
dal cono d’ombra a cui sembra destinato. Dopo
la mostra retrospettiva del 2015 alla Fondazio-
ne Giorgio Cini di Venezia, dopo il convegno a
cui parteciparono specialisti tedeschi e italiani
(e alle cui relazioni fanno riferimento gli scritti
del libro), e dopo la precedente esposizione a
Palazzo Pitti (1996) il Gabinetto Vieusseux ha
dunque rilanciato il tema della pittura italiana
tra le due guerre da una angolatura poco fre-
quentata, ma non per questo di secondo piano.
Ha narrato il figlio Jacopo: “Mio padre mi
raccontò di cosa accadde un giorno, mentre
stava dipingendo in strada una veduta di via
dei Serragli. Sentì che, mentre lavorava, una
persona si era fermata alle sue spalle, in si-
lenzio. Si obbligò a continuare il lavoro. Dopo
qualche minuto la donna riprese a camminare,
con in mano le borse della spesa, e disse ad alta
voce superandolo: “Eh, saper vedere il mondo
così...!”. Commento di cui Staude si rallegrò
molto. Questo aneddoto può costituire una
chiave per capire, insieme al suo amore per una
“certa” Firenze, uno dei cardini della poetica
che cercò di spiegare in una lettera del 1967:
“Il soggetto, dunque – scriveva il pittore - è un
pretesto e come tale non è essenziale. Storie di
santi, cesti di cavoli, vedute di periferie indu-
striali, di monti, di bottiglie, scene di fucilazio-
ni: tutto quello che si vede (e quello che si im-
magina) può diventare per il pittore pretesto di
un quadro….basta che il visto diventi ‘visione’,
che succeda insomma il miracolo della trasfi-
gurazione da ‘mondo’ (visto o immaginato) in
‘pittura’.” “In pittura – ribadiva - quel che c’è di
di Susanna Cressati
Un certo sguardo su Firenzepiù bello è il guardare, che il guardare ci con-
duce in più grande profondità dell’escogitare”.
Questo sforzo Staude lo dedica alla città che
aveva esercitato su di lui un richiamo irresisti-
bile, una Firenze – ha detto Carlo Sisi al Vieus-
seux - “definita nei suoi colori come un affresco
ed ora trasformata in sinopia, una città fatta per
altri”. E’ molto immerso nella vita cittadina,
quindi, quella popolare di alcuni suoi modelli
ma anche quella colta che frequenta assidua-
mente, il circolo di Adol von Hildebrand, Egi-
sto Paolo Fabbri e Charles Alexander Loeser,
famosi collezionisti di Paul Cézanne, a Villa I
Tatti Bernard Berenson e Micky Mariano. Fe-
lice Carena all’Accademia di Belle Arti.
Fuori dagli “ismi”, dai movimenti, dalle avan-
guardie, Staude lavora, discreto “come il melo”,
alla sua poetica della forma e del colore, colti-
vando i suoi talenti nella pittura e nella musica
(fu ottimo pianista), diventa maestro di tanti
giovani. Uno di questi, Lorenzo Milani (arriva-
to nel suo studio per interessamento di Giorgio
Pasquali) gli imputerà perfino la responsabilità
della scelta dirompente di farsi prete: «È tutta
colpa tua – gli disse un giorno il giovane Milani
–. Perché tu mi hai parlato della necessità di
cercare sempre l’essenziale, di eliminare i det-
tagli e di semplificare, di vedere le cose come
un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A
me non bastava fare tutto questo su un pezzo
di carta. Non mi bastava cercare questi rappor-
ti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita
e le persone del mondo. E ho preso un’altra
strada».
In una Firenze contraddittoria, come ha ri-
cordato Susanna Ragionieri, “aperta all’Euro-
pa eppure gelosamente provinciale” Staude
pittore si propone di “non lasciarsi andare, di
non cedere all’effetto e al sentimento. Resta a
Firenze, anche se molto isolato, perché impara
un certo modo di vedere il mondo. Un modo
impassibile e a-sentimentale, di una impassibi-
lità sublime che si rifà a Piero della Francesca.
Questa era, per lui, la modernità: misurare,
osservare senza prevaricazione ciò che ci sta
intorno. Questa è la sua sfida”.
Staude torna alla figura umana – ha spiegato
Elena Pontiggia – quella figura che era sta-
ta spezzata, divisa, ridotta a manichino dalle
avanguardie, metafisica, dadaismo, espressio-
nismo. Usa il colore come un tubetto di dina-
mite, con sicurezza e cautela, non dopo averlo
ribassato in toni malinconici, ombrosi, velluta-
ti. Fu pittore italiano e nello stesso tempo euro-
peo. “Ma l’Italia – si è lamentata Pontiggia – è
matrigna nei confronti dei suoi artisti, che qui
non hanno alle spalle le gioiose macchine da
guerra che sostengono i loro colleghi in Fran-
cia, in Germania, negli Stati Uniti”.
114 NOVEMBRE 2017
va fuori straniero .
Il brigante Buriga
osserva la scena
dal profondo del bosco.”
Oppure Firenze si mostra nella conta affanna-
ta di una bambina:
“Conta le persone in fila
in Piazza Duomo,
corre avanti e indietro.
La musica del violino
la insegue”.
O ancora sono le nuove presenze nella città
che entrano nella poesia:
“Amin, in fila dietro di me, compila
un modulo, in mano trenta euro
da spedire. Questa sera mia moglie,
al villaggio, accenderà il fuoco”.
Anche l’ironia percorre sottile la raccolta di
Mosi, a cominciare dalla prima poesia, dove la
nipote dice che il nonno fa il lavoro di poeta:
“Avrà pazienza, la poesia,
se la credono presente
in un centro per anziani”
e anche in Messaggi d’amore:
“La rete mi vuole bene
mi abbraccia di messaggi
si preoccupa della salute,
del mio futuro.”
Incontriamo poi, sempre espresso con limpida
semplicità, il dolore della solitudine politica di
tutta una generazione:
“ Avanzo nel buio
del labirinto, inciampo
batto la testa nelle pareti.
Brucia l’angoscia
L’eratoterapia di MosiIn questa stagione così dolce e mite, questa
piccola raccolta di poesie di Roberto Mosi può
essere una perfetta compagna di viaggio. Si
tratta di un percorso breve ma intenso e molto
vario; la leggerezza del tono oscilla tra il gioco e
la solennità, con una fiamma limpida e sempre
accesa. Il titolo, Eratoterapia, si ispira al nome
della Musa della poesia amorosa e la chiave di
lettura di tutta la raccolta sono a mio avviso
proprio i versi di “Terapia”:
“Nella notte mi sveglio
il sonno sparisce
vola via lontano.
La poesia prende il posto
dei sogni,compongo
in versi suoni e silenzi”.
Grazie alla sua buona Musa, che pure richiede
“un conto da saldare “, Mosi si libera dalle an-
gosce dell’insonnia notturna attraverso la luce
dei versi e dentro questa luce appare, a più
riprese, Firenze, con varie modalità: talora in
contrappunto con Neruda
“E quando in Palazzo Vecchio,
bello come un’agave di pietra,
salii i gradini consunti
usci’ a ricevermi un operaio
capo della città .
Ieri,
sessanta anni fa,
il sindaco della città.”;
talora con il canto patriottico, come nella poe-
sia intitolata “Il sentiero Garibaldi”:
“Va fuori d’Italia,
va fuori che è l’ora,
di Mariangela Arnavas
della solitudine.”
e il richiamo alla storia dell’uomo, che coincide
con quella purtroppo ininterrotta, della schia-
vitu’, così nella poesia Populonia:
“Un sepolcro
emerso dalla sabbia,
mostra lo scheletro
di uno schiavo,
una catena al piede.
Dalle ombre emerge
la storia dell’uomo.”
Sono tempi in cui la poesia non ha molti lettori
ma la raccolta di Mosi, con la sua leggerezza e
il suo armonioso equilibrio potrebbe essere un
buon inizio di percorso anche per altre, future
esplorazioni.
Graphic designer, Andrea Rauch sabato 4 no-
vembre espone le sue opere al Circolo La Mon-
tanina, Via di Montebeni, 5 (Fiesole) . Rauch ha
disegnato e progettato immagini, tra gli altri, per
movimenti politici e d’opinione quali Greenpea-
ce, Unicef, Mouvement pour la paix, Amnesty
International. Sua la progettazione dei simboli
dei movimenti politici ‘L’Ulivo’ e la ‘Margheri-
ta’.Manifesti di Andrea Rauch fanno parte delle
collezioni del Museum of Modern Art di New
York e del Musée de la Publicité del Louvre di
Parigi. Nel 1993 la rivista giapponese ‘Idea’ lo ha
inserito tra i ‘100 World Top Graphic Designers’.
Presente nell’edizione 1994 del “Who’s who in
graphic design”. Tra il 1994 e il 2001 ha insegna-
to ‘Graphic Design’ presso il Corso di laurea in
Scienze della Comunicazione dell’Università di
Siena. Ha tenuto corsi di grafica e conferenze a
Milano, Venezia, Dublino, Parigi, Madrid, Bar-
cellona, Rio de Janeiro, San Paolo, Guadalajara,
Tokio. Nel 1998 e 2003 ha pubblicato “Design
& Identity” e “Dis-continuo” (Nuages), due va-
ste ricognizioni del suo lavoro di grafico. Una sua
raccolta di manifesti politici, dal titolo “Il sonno
della ragione…” è stata presentata, tra il 2002 e il
2003, a Siena, Firenze e Barcellona.
40 manifesti di Andrea Rauch alla Montanina
124 NOVEMBRE 2017
L’americana Candace Plummer Gaudiani
(nata nel 1945 a Boston) sceglie di esprimersi
con la fotografia, ma piuttosto che “fotografa”,
preferisce definirsi “artista visiva” o “artista
visuale”. Sia i fotografi che gli artisti visivi (o
visuali) utilizzano la fotocamera, ma fra le due
attività esistono delle differenze sostanziali, dif-
ferenze che non è sempre facile definire. Nel
caso dei fotografi, ad esempio, la loro produzio-
ne è costituita da immagini, o serie di immagini,
che sono il risultato di processi complessi che,
partendo da un tema, da un’idea, da un’intui-
zione, o da una disposizione d’animo, attraverso
una serie di operazioni tecniche e/o culturali e
di scelte (punto di vista, formato, lunghezza fo-
cale, angolo di ripresa, chiusura del diaframma,
sensibilità, momento dello scatto, etc.) ed una
successiva elaborazione in fase di stampa, por-
tano ad un risultato che è di per sé compiuto e
significante. Le immagini dei fotografi, se riu-
scite, hanno un valore visivo che diventa auto-
nomo perfino rispetto alle intenzioni ed al pro-
cesso di realizzazione. Gli artisti visivi invece,
pur partendo anch’essi da un’idea, più o meno
buona, più o meno originale, la trasformano at-
traverso la fotografia in una serie di immagini le
quali, di per sé, hanno un valore visivo scarso o
nullo, se non vengono messe in relazione all’i-
dea di partenza. In fotografia quello che conta è
il valore dell’immagine realizzata, nell’arte visi-
va quello che conta è invece solo il valore dell’i-
dea di base, che trascende la fase della realiz-
zazione, per concretizzarsi molto spesso nella
ripetitività e nella serialità. Nel caso di Canda-
ce Gaudiani, che all’età di dodici anni aveva già
attraversato in treno o in auto i quarantotto stati
degli USA, rimanendo profondamente colpita
da questa esperienza, e che ripete nel corso di
tre anni gli stessi percorsi, questa volta fotogra-
fando il mondo che passa attraverso la cornice
verticale del finestrino, il valore dell’opera va
cercato nell’idea stessa del viaggio. Allo stesso
modo in cui Franco Vaccari registra nel 1972
il viaggio di 700km da Modena a Graz fotogra-
fando in maniera seriale ed automatica il retro
dei numerosi camion incontrati e sorpassati in
autostrada, Candace Gaudiani fotografa, in
maniera altrettanto seriale ed automatica, i di-
versi paesaggi che scorrono dietro al vetro del
finestrino, registrando le tracce, spesso mosse
e confuse, di campi ed edifici, fiumi e villaggi,
deserti e montagne, laghi e ponti, alberi e tralic-
ci metallici. La serie delle immagini in bianco
e nero viene poi raccolta nel 2007 nell’ope-
ra “Forty Eight States”, esposta in numerose
gallerie. Le singole immagini non raccontano
in realtà niente dei viaggi, non parlano delle
persone incontrate, non descrivono i luoghi
Attraverso il finestrinodi Danilo Cecchi
attraversati, e spesso non ne permettono nep-
pure il riconoscimento. Sono solo tracce vaghe
ed idealizzate di un passaggio troppo rapido, di
un’esperienza convulsa e frenetica, che qualcu-
no ha voluto paragonare al Kerouac di “On the
Road”. L’opera non consiste infatti nelle nume-
rose immagini, ripetitive nel taglio e nell’esecu-
zione, ma consiste nell’idea e nell’esperienza
del viaggio stesso, di cui le immagini rimango-
no come unica testimonianza, tangibile quanto
ambigua. La fortuna critica dell’opera di Can-
dace Gaudiani la convince a ripetere l’opera-
zione con una nuova serie di viaggi, registrati
con le stesse identiche modalità e con lo stesso
identico tipo di inquadratura, ma con l’impiego
questa volta della pellicola a colori, ed alter-
nando il treno all’aereo. Nel 2009 viene pre-
sentata la sintesi di questa nuova performance
artistica, “Forty Eight States II”, a cui seguono
altre iniziative del genere, come “Frontier Sta-
tes”, ancora in bianco e nero, ed infine “West”,
dove i finestrini sono più larghi, le riprese sono
effettuate a colori ed in orizzontale, e dove i pa-
esaggi raffigurati sono decisamente più nitidi e
leggibili. Simbolo del rinnovarsi delle idee nella
continuità dell’ispirazione originale, ma anche
di un nuovo e più comodo modo di viaggiare, e
forse, di fotografare.
134 NOVEMBRE 2017
ta dei franchisti fu definita durante
il periodo bellico “Grande Crociata
salvatrice della Spagna” e i suoi capi
erano “gloriosi eroi”. L’occupazione
della Catalogna viene completata
il dieci febbraio 1939. Il 28 dello
stesso mese Manuel Azafia si dimet-
te da Presidente della Repubblica.
La lingua catalana venne relegata.
All’uso ufficiale venne riammes-
sa solo nel 1983, otto anni dopo la
morte del Caudillo. L’indipendenza
dello stato catalano era stata persa
l’11 settembre 1714 con la caduta di
Barcellona, dopo un assedio di quat-
tordici mesi, durante la guerra di
Successione Spagnola. La festa na-
zionale (Diada) cade l’11 settembre,
giorno della perdita dell’autonomia,
caso unico di commemorazione da
parte degli sconfitti. La patria catala-
na risorgerà. Quindi il popolo catala-
no non deve perdere la speranza nel
suo risorgimento e deve lottare con
tutti i mezzi, che sono soprattutto il
culto della sua storia , dei suoi valori
e l’uso della sua antica lingua.
Gli uominid’acqua
di Olimpio Musso
Il ventisei gennaio 1939 le truppe di Franco
occupano Barcellona. Il giorno seguente Eliseo
Alvarez Arenas, Generale di Brigata dell’E-
sercito Spagnolo, Sottosegretario all’Ordine
Pubblico del Governo Nazionale, Capo dei
Servizi di Occupazione di Barcellona, pubblica
un bando col quale rende noto ai barcellonesi:
“Il trionfo delle armi del Caudillo Franco ha
appena concesso l’immenso beneficio della li-
berazione e l’altissimo onore agli uomini e alle
terre di questa regione laboriosa e feconda di
incorporarsi in modo pieno, definitivo e irrevo-
cabile alla grandezza della Patria”. Dopo aver
assicurato che non verrà esercitato alcun diritto
di conquista e che saranno puniti solo “i colpe-
voli della grande tragedia spagnola e i criminali
responsabili di delitti comuni”, proclama che
il nuovo regime si inaugura con il grande giu-
bilo della madre che recupera i suoi figli per-
duti”. E prosegue: “State sicuri, catalani, che il
vostro linguaggio nell’uso privato e famigliare
non verrà perseguitato”. Il catalano, la lingua
millenaria di Raimondo Lullo, veniva ridotto
a dialetto. Don Eliseo Alvarez Arenas spera
in nome della Spagna tutta “ che la Catalogna,
nella grande opera di ricostruzione nazionale,
apporterà unitamente al suo sforzo e alla sua
ricchezza al pari del suo senso economico, il
suo patriottismo rinverdito e fecondato dal san-
gue versato in questa Crociata”. La guerra san-
“Uomini d’acqua” è un progetto fotografico che
ha come soggetto la Sardegna e il suo rapporto
con l’acqua; Una relazione che ha certamente
una dimensione “naturale” – data dall’azione
dell’acqua (come di altri fattori ambientali) sul
territorio, che in modi e misure differenti ne
viene “plasmato” – ma che rivela sempre una
valenza antropica, poiché è il lavoro dell’uomo
che attribuisce senso al territorio: lavoro che
non è necessariamente solo materiale, ma senza
dubbio è sempre simbolico. E’ proprio per que-
sta ragione che - come è stato acutamente osser-
vato - il territorio “è simultaneamente principio
di senso per coloro che l’abitano e principio di
intelligibilità per colui che l’osserva” .
Le opere sono esposte all’’ex-Convento del
Carmelo in Viale Umberto 11 – Sassari fino
al 19 novembre.
La verità sulla Catalogna
144 NOVEMBRE 2017
La mostra dedicata a Ambrogio Lorenzetti
che s’è aperta in Siena al Santa Maria della
Scala, visitabile fino al 21 gennaio dell’anno
prossimo, è una di quelle, ormai rare, desti-
nate a fare epoca. È il culmine di un lavoro
avviato nel 2015 con l’iniziativa Dentro il
restauro e finalizzato ad una più approfondita
conoscenza dell’attività dell’artista e ad una
più adeguata conservazione delle sue opere.
Dopo questa esposizione – una cinquantina
di pezzi al Santa Maria, ma altri capolavori da
scoprire in situ, principalmente nella basilica
di San Francesco, e a Sant’Agostino – Ambro-
gio, fratello minore di Pietro, come lui falciato
dalla peste del 1348, non sarà più soltanto,
stando alla vulgata, l’autore del ciclo sul Buo-
no e Cattivo Governo in Palazzo Pubblico, ma
un artista davvero innovatore, dotato di un
coraggio sperimentale capace di stupefacenti
invenzioni. Già Lorenzo Ghiberti aveva colto
la sua febbrile vena descrittiva e la tendenza
a rappresentare naturalisticamente fenomeni
e paesaggi come nessun altro contemporaneo.
Purtroppo gran parte della sua produzione si è
deteriorata o è andata dispersa o sopravvive in
frammenti da ricomporre come in un puzzle
dai consistenti vuoti. E questa tensione di ri-
cerca, ben percepibile, è una delle ragioni del
fascino di una mostra necessaria, come spiega-
no e nel ponderoso catalogo i curatori Roberto
Bartalini, Alessandro Bagnoli e Max Seidel.
In sequenza si sgrana, grazie ai prestiti ottenu-
ti, pressoché l’intera opera su tavola di Ambro-
gio. Mancano testi per i quali è stato giudicato
impraticabile un pur temporaneo trasferimen-
to: l’assenza più notevole è la Purificazione
della Vergine, restata prigioniera degli Uffizi.
Mi soffermo di sfuggita su un capitolo tra i più
intriganti dell’itinerario costruito: quello degli
affreschi e dei relativi disegni in forma di si-
nopia della cappella di San Galgano a Monte-
siepi, mirabilmente affrancati dai canoni della
consolidata iconografia. Grazie alla stacco
operato degli affreschi e allo studio delle fasi
preparatorie si riesce a seguire il processo che
si concluse con un’Annunciazione che aveva
generato non pochi problemi. L’Arcangelo e
Maria sono separati da una monofora forte-
mente strombata. La grandi ali del bel Gabrie-
le calato d’improvviso a movimentare la quiete
domestica si dispiegano come quelle di una gi-
gantesca farfalla. Dalla finestra entra un fascio
di luce che innesta nella pittura un elemento
naturale, collegando immaginario figurativo
e mutevole realtà atmosferica. La giovane è
tramortita da un’apparizione abbagliante e da
un messaggio indecifrabile. Il disegno-sinopia,
ben diversa. Ma resta il fatto di questa potente
idea iniziale, trasmessa da un «ductus energi-
co e insistito», che comprova alla sorgente la
passione per il disegno di Ambrogio e la sua
spregiudicata vena creativa. A proposito di
committenza: i lavori hanno portato in super-
ficie anche la sagoma fantomatica del finanzia-
tore del ciclo, Ristoro da Selvatella, “procura-
tore” dell’abbazia di San Galgano. Che se ne
stava in ginocchio, orante e compito, dietro il
fulgente Arcangelo. Insomma l’affresco di-
venta una storia e la critica d’arte assomiglia a
quella critica degli scartafacci che fu sciocca-
mente schernita in una memorabile polemica
nell’ambito della filologia letteraria.
Scrutando a lungo i dettagli di questa An-
nunciazione vien da riflettere sulla fortuna
del soggetto, davvero un topos alto del sacro
cristiano. Di ritorno dalla visita della mostra
parigina dedicata a David Hockney, anche
lui innovatore straordinario, mi vien fatto
di comparare il travaglio dell’Annunciata di
Montesiepi con la stupenda reinterpretazione
che Hockney dà della famosissima versione
offerta dal beato Angelico. L’artista inglese se
ne innamorò – ha confessato – a undici anni,
imbattendosi in una riproduzione affissa su un
muro di Bradford. E ora l’ha proposta a “pro-
spettiva rovesciata”, secondo le teorie di Pavel
Aleksandrovič Florenski, in un’impaginazione
che la ribalta: «Vede – fa osservare – che ho
tagliato gli angoli? L’ho fatto proprio per allar-
gare la prospettiva, per farla diventare assoluta
e universale, più moderna. E non limitata, per
quanto perfetta, alla maniera di Brunelleschi
e di Leon Battista Alberti». In un bozzetto
per una vetrata, custodito a Milano nel museo
di San Fedele, Mario Sironi aveva abbozzato
(1950) una prima idea accostando astratta-
mente (à la Rothko) due grumi di colore: la
massa candida dell’Arcangelo e il manto blu
notte della giovinetta palestinese ignara della
tempesta che la stava investendo. Anche per
lui l’obiettivo da perseguire era sottrarre un
evento infinitamente misterioso, e drammati-
co, ai moduli di una rappresentazione che lo
sistemasse nell’ordine di un fatto comprensi-
bile.
di Roberto Barzanti
Una mostra, tre Annunciazioni
ora evidente nella sua convulsa drammaticità,
è in sintonia con una diffusa narrazione popo-
lare, registrata, ad esempio, nel diario di viag-
gio vergato a metà Trecento da fra’ Niccolò di
Poggibonsi, che riferisce di aver sostato con
devozione di pellegrino davanti alla «colonna
che abbracciò santa Maria per la paura». Una
tale scena dispiacque probabilmente alla com-
mittenza e la forma definitivamente scelta è
154 NOVEMBRE 2017
Questo lavoro è una edizione d’arte realiz-
zata in trenta esemplari numerati e firmati
da uno a trenta.
Sono dunque trenta fotografie uguali come
sono uguali le tirature stampate da un unico
negativo.
Ad onor del vero lo studio fotografico al
quale si era rivolta l’artista, dopo aver rice-
vuto le indicazioni su come procedere, ha
telefonato all’artista dicendogli che doveva
esserci un errore in quanto nel negativo ri-
cevuto non c’era nessuna immagine, ma solo
un colore.
Inutile commentare sul modo di vedere ed
intendere delle maestranze preposte alla
realizzazione meccanica di un lavoro d’arte
contemporanea, ma vale sempre la pena di
riflettere su quel limite ambiguo nel quale si
di Claudio Cosmacolloca la contemporaneità e il voluto mime-
tismo dell’opera d’arte.
Una grande parte dell’umanità ha difficoltà
ha considerare arte moltissimi manufatti re-
alizzati a partire dalle avanguardie storiche
ed è questa rassegnazione al non voler ca-
pire il perché di questa impasse che segna
l’impenetrabile accesso alla setta dell’arte
contemporanea
L’osservatore di un’opera è sempre solo di-
nanzi a questa e la deve capire sempre da
solo.
Se procedessi ad installare le trenta fotogra-
fie in uno spazio d’arte, in una progressione
lineare, otterrei circa nove metri di immagi-
ni.
Un linea d’orizzonte monocromatica a divi-
dere la parete come un nastro di cielo o di
mare, con una sensazione d’infinito.
L’artista si chiama Erique LaCorbeille ed
è una giovane piemontese che lavora con
le moderne tecnologie, realizzando video e
installazioni.
Proprio da un video è derivata la serie di
immutabili immagini di un cielo terso ed
immobile.
Del video è protagonista un coniglio dalle
lunghissime orecchie turchesi, interpretato
da una performer, le cui orecchie realizzate
da strisce di stoffa, solcano il cielo, confon-
dendosi con questo, seguendo l’andamento
del vento.
Le foto imprigionano il cielo che per sua
natura non esiste essendo solo parte dell’at-
mosfera.
La frase che serve da titolo a questa descri-
zione l’ho presa da un recente libro di uno
scrittore traduttore che si chiama Marco
Rossari, che per altro racconta la vita di
un artista. Nel libro la frase è usata in tono
ironico nel confronti dell’arte e allo stesso
modo anche io la uso.
Non è il cielo a essere azzurro,
è l’azzurro a essere cielo
164 NOVEMBRE 2017
sembrare lontano, primo fra tutti Robert Map-
plethorpe. Ecco, questo di Papi pare svolgersi
tutto fra due polarità: la forma recuperata e
raggelata di Mapplethorpe e lo spazio della tela
indagato da Paolini con le diagonali lì tracciate.
Il lavoro di Papi è un lavoro maniacale e ossessi-
vo. Così come in tutti gli altri suoi motivi, anche
in questi fiori sembra ripartire da un ipotetico
grado zero della pittura. Li cataloga dipingen-
doli o disegnandoli - ortensie, ciclamini, gera-
ni, lillà, giaggioli - con l’occhio di chi li osserva
per la prima volta; se ne percepisce lo stupore,
reso in una pittura che è rappresentazione pia-
na e sorprendente al tempo stesso, quotidiana
e semplice ma deflagrante al tempo stesso.
Si indaga la forma di questi fiori riscoperti, il
modo di disporsi, di rapportarsi con vaso o con
l’ambiente, così come si indaga lo spazio della
tela che appunto sul retro accoglie altre forme
astratte, collages o altro, in rapporto con quella
forma che sta sul davanti e con l’oggetto tela
che contiene entrambi e che è il medium della
pittura. E’ un lavoro di estrema gradevolezza,
immediato e accattivante: costruito però non
su una qualche immediatezza impressionista
ma sulle stesse fondamenta concettuali e con-
cettuose di tutto suo lavoro: analitico, cataloga-
torio, immersivo.
Fiori privati allo spazio Sensus è una bella mo-
stra di Andrea Papi, una ventina di dipinti dal
2007 a questo nostro 2017, tante tele di piccole
dimensioni, tutte rigorosamente quadrate, ap-
poggiate su mensole e esposte ora frontalmente
( com’è ovvio ), ora a mostrare il retro ( meno
ovvio ), dipinto anch’esso o spartito tramite col-
lage in forme geometriche. Su un tavolo, appog-
giati e consultabili ( con guanti bianchi ) ci sono
i blocchi da disegno con su una serie che pare
infinita di rappresentazioni di fiori, quasi un
diario, una catalogazione maniacale di quel che
capita sotto lo sguardo; in due vani attigui due
video con quegli stessi disegni. Nel mezzo del-
lo spazio, infine, una piccola foresta di piante,
vere stavolta, che costringe a un percorso ma
che soprattutto costringe a rapportare questo
vero floreale con i suoi riferimenti: pittorici ap-
punto, grafici o video.
Sensus, che è lo spazio di un collezionista,
Claudio Cosma, aperto fin dal 2012 e offerto
a tante proposte, si riconferma anche stavolta
uno dei pochi se non pochissimi luoghi privati
per l’arte contemporanea in una città che per
decenni ha avuto solo questi a rappresentarla.
Ancora negli anni ’80 erano infatti le sole gal-
lerie – tante - a garantire una qualche circola-
zione di idee e in molti lamentavamo l’assenza
di un qualche intervento pubblico. Poi tutto
cambiò, le gallerie sparirono l’una dopo l’altra
e ora i richiami delle varie strutture, dal Museo
‘900 al Museo Marino Marini, dalle Murate
a Palazzo Strozzi al Pecci, sono talmente tanti
che chi era abituato a quel poco di altri anni si
smarrisce persino.
Andrea Papi viene da questa storia, già nell’87,
poco più che trentenne, presentava, sempre in
uno spazio di Cosma, EAS, una mostra, allora
di Nudi. Già, perché lui si è sempre mosso ma
indagando situazioni che poi diventavano cicli
pittorici. Per molto tempo queste situazioni
sono state quelle legate all’identità, dai Ritratti
agli Studi sul maschile, connessi sempre agli
spazi, a quelli abitati, a quelli storici vuoi della
Cappella dei Combattenti a Pelago nel 1990, o
di Palazzo Caccini a Firenze, casa, studio e luo-
go espositivo insieme. Fino – e siamo a noi, ai
luoghi naturali del parco delle foreste Casenti-
nesi e di San Godenzo e agli itinerari artistico/
ambientali.
Questi fiori, Fiori privati come specifica il tito-
lo, sono un altro filone di ricerca, ai margini ma
non certo marginale. Una serie nata un po’ per
caso ( un vaso di roselline regalo di un altro arti-
sta, Roberto Cerbai ) ma soprattutto per l’atten-
zione verso un genere pittorico costantemente
presente, anche in autori il cui lavoro potrebbe
di Gianni Pozzi
I fiori privati di Papi
174 NOVEMBRE 2017
di Giacomo AloigiCe lo aveva anticipato qualche mese fa ed
è stato di parola. Antonio Aiazzi è uscito
con il suo primo disco solista, “Linea gial-
la”, per la Contempo Records. E ci aveva
pure avvertito che si sarebbe trattato di
un’opera molto particolare, qualcosa di as-
solutamente nuovo. Anche in questo caso
Antonio non esagerava. “Linea gialla” è
un lavoro ambizioso e per questo rischioso
(e sono sempre meno i musicisti che rischia-
no), perché oltrepassa un confine delicato,
lanciando un’autentica sfida all’ascoltatore.
Nelle otto tracce dell’album si sovverte la
dinamica autore-fruitore, perché si chiede al
secondo di passare dal classico ascolto passi-
vo a cui è abituato, a un ascolto attivo. A un
approccio distratto questo potrebbe risulta-
re un disco di ambient-music. Ma non è così.
Dalla musica “d’ambiente” si trasmigra alla
musica “dell’ambiente”, una dimensione
nella quale vi è quasi la necessità d’intera-
gire con l’ascolto, di compenetrarlo e in un
certo senso di confondersi con esso, in una
specie di tridimensionalità che fin ora è sta-
ta “istituzionalmente” preclusa all’ascolto
musicale. Fin ora c’era l’artista da una parte
con il suo ruolo e dall’altra l’ascoltatore con
il suo. Con “Linea gialla” chi si limitasse alla
tradizionale situazione del mero recepimen-
to delle sonorità si perderebbe forse addirit-
tura il senso del disco. Per realizzare il quale
Aiazzi si è mosso per la sua città, per le stra-
de e le piazze di Firenze e ha registrato con
lo smartphone i suoni, i dialoghi, i rumori,
i jingle. Ha registrato la vita quotidiana, in
poche parole. E da lì è partito per il suo viag-
gio compositivo, mescolando il suono reale
e il suono virtuale e mediando tra musica e
urbanità, tra melodia e percezione dell’in-
torno. Nei crediti dell’album sono scrupo-
losamente riportate le fonti e le specificità
dei frame catturati, dalla tramvia (che dà il
tiolo anche a uno dei brani) alle conversa-
zioni dei turisti, dal dissuasore antipiccio-
ni di Santa Maria Novella ai tamburi dei
Musici del calcio storico fiorentino. E’ una
sfida difficile quella che ha scelto Antonio,
una sfida che contempla un discorso cul-
turale oltre che semplicemente sonoro. Mi
riferisco a una diversa cultura dell’ascolto,
che necessita di una disponibilità e duttilità
mentale tutt’altro che banale. Il disco è stato
presentato alla stampa nella storica cantina
di via De’Bardi, dove Aiazzi creò con gli al-
tri compagni il mito dei Litfiba. Ma quan-
to lontananza, non solo temporale, si sente
in “Linea Gialla” da quei giorni. Antonio
Superare la linea giallaè andato molto più in là, molto più avanti,
in questo ripercorrendo un po’ il percorso
fatto da Gianni Maroccolo, seppure natu-
ralmente lungo traiettorie molto diverse.
Sabato 28 ottobre al Teatro Alfieri, Aiazzi
ha regalato un assaggio (tre brani) del disco,
aprendo il concerto di Andrea Chimenti,
altro vecchio amico, che si esibiva nel reper-
torio di cover di David Bowie (bravissimo e
soprattutto credibilissimo, detto per inciso).
Ad applaudirlo c’erano naturalmente an-
che Ghigo, Piero e Gianni. All’inizio del
2018 “Linea Gialla” dovrebbe diventare
uno spettacolo multimediale da proporre
dal vivo. Siamo certi che ancora una volta
Antonio saprà sorprendere e chi ha voglia
di pretendere qualcosa di più dalla musica
contemporanea, non potrà mancare.
184 NOVEMBRE 2017
Alla Chiesa di ‘S.Giorgio alla Costa e allo
Spirito Santo’ manca una guida aggiornata
che le si riferisca. A tal fine ho tentato una
ricostruzione del posizionamento delle ope-
re pittoriche e scultoree all’interno di questo
edificio sacro servendomi delle schede con-
servate presso l’Archivio Fotografico degli
Uffizi [schedario n.1368, a.1990] di cui ri-
porto qui le informazioni essenziali (soggetto
dipinto, autore e data). Anticipo, però, quan-
to alle sculture genericamente definite nelle
schede come “Virtù”, che a mio parere esse
rientrano in un programma iconografico coe-
rente, riferibile allo Spirito Santo: in ognuna
di queste sculture si può infatti individua-
re uno dei “sette doni dello Spirito di Dio”.
Prima di iniziare a descrivere l’interno set-
tecentesco di G.B. Foggini, vorrei precisare
che della Chiesa precedente restano poche
tracce e solo all’esterno. Delle tre Chiese che
sorgevano prossime l’una all’altra in questo
punto della Costa (S.Giorgio, S.Mamilia-
no e S.Sigismondo), la più importante era
quella di S.Giorgio. Ne intravediamo il por-
tale tamponato dall’attuale “porta di fianco”
che si apre sulla strada. La dedicazione allo
Spirito Santo fu aggiunta al Monastero di
S.Giorgio già esistente, nel 1520, sotto Papa
Leone X. L’edificio romanico risulta Parroc-
chia almeno fin dal 1270. Il suo interno era
una piccola aula che fu allungata in direzio-
ne EST-OVEST per arrivare alla
forma della Chiesa settecentesca
(Busignani e Bencini, “Le Chiese
di Firenze”, I vol. 1974, p.192).
Niente di questo primitivo passato
affiora oggi all’interno della Chie-
sa. Seguiamo ora la piantina qui
pubblicata. ACCESSO: A Porta
principale. 1 Compasso affrescato
al centro del piccolo soffitto sotto-
stante il corpo del Coro, raffigura
l’“Apoteosi di S. Giorgio”, di A.
Gherardini (1705-1708 ca.). 2
Soffitto a stucchi (1705 ca.). PA-
RETE SUD: 4a T. Redi, “San
Benedetto resuscita un fanciullo”
(1705). 4b Altare sottostante in
marmi policromi (1705 ca.). 5a
Puttino con filattere nel quale si
legge “infunde Amor cordibus”,
stucco e gesso (1705 ca.). Il putti-
no è sospeso nel sott’arco di destra.
5b Al di sopra: “Noli me tangere”,
olio su tela, XVI sec., di ignoto. B
Ancora al di sopra: Coretto per
l’Organo - costruito dall’organaro
O. Zeffirini (ante 1572) - oggi conservato nel
Coretto delle Monache in S. Felicita. 6 Al di
sopra della colonna: “Il Dono dell’Intelletto”,
stucco e gesso (1705 ca.). 7 Segue: “S. Cecilia
suona con gli Angeli”, olio su tela, XVIII sec.
di ignoto. 8a Sotto: D. Cresti/Crespi detto il
Passignano, “San Giovanni Gualberto”, olio
su tela, XVI-XVII sec. 8b Altare sottostante
in marmi policromi (1705 ca.). 9 Sopra la
colonna: “Il Dono della Fortezza”, stucco e
gesso (1705 ca.). C Coretto per la Badessa.
10 Accesso alla Sagrestia (all’interno ban-
cone parietale e arredi lignei). 11 Sopra la
porta di Sagrestia: “Cristo e la Samaritana”,
olio su tela, XVI sec., di ignoto. PARETE
EST: D Accesso per Cappellina del SS.mo
Sacramento, Clausura e Capitolo. 12a Altare
maggiore in marmi policromi (1705 ca.). 12b
G.B. Foggini, Ciborio in alabastro (1705). 13
Giotto, “Madonna in trono col Bambino e
due Angeli” (tavola centinata, 1290 ca.). L’o-
pera non è in situ (cfr. “Cultura commestibi-
le” 238). 14 Al di sopra: “David e Golia” olio
su tela di ignoto (XVIII sec.). 15 Al di sopra
della colonna, a sinistra di chi guarda “David
e Golia”: “Il Dono del Consiglio o della Pru-
denza”, stucco e gesso (1705 ca.). 16a A. D.
Gabbiani, “La discesa dello Spirito Santo”,
olio su tela ovata per l’altar maggiore (1702-
1710). 16b Intorno al dipinto del Gabbiani:
nuvolari e angeli in stucco bianco e dorato
(1705 ca.). 17 A sinistra, guardando l’altare,
sulla colonna: “Il Dono della Pietà” (?), stucco
e gesso (1705 ca.). 18 A sinistra della colon-
na, in alto: “Giuditta”, olio su tela di ignoto
(XVIII sec.). 19 Al di sotto della “Giuditta”:
“Cristo crucifero”, tela centinata di ignoto
(XVI sec.). E Porta di accesso in altri ambien-
ti, che esce sulla Costa. PARETE NORD:
20 In alto: “Ritorno del figliol prodigo”, olio
su tela di ignoto (XVI sec.). F Accesso a uno
stanzino per deposito arredi sacri. G In alto:
finestrone che guarda sulla Costa. 21 So-
pra la colonna: “Il Dono del Timor di Dio”,
stucco e gesso (1705 ca.). 22a A. Gherardini,
“Deposizione dalla Croce” (1705 ca.). 22b
Altare sottostante in marmi policromi (1705
ca.). 23 Al di sopra della colonna: “Il Dono
della Sapienza”, stucco e gesso (1705 ca.). H
In alto: finestrone che guarda sulla Costa. I
Porta d’accesso laterale che immette sulla
Costa. 24: In alto, dopo il finestrone: “Cristo
cammina sulle acque”, olio su tela di ignoto
(XVI sec.). 25a Al di sopra dell’altare: J. Vi-
gnali, “Madonna con S. Caterina e S. Do-
menico”, olio su tela (XVII sec.). 25b Altare
in marmi policromi (1705 ca.). NAVATA:
26 Balaustra in marmi policromi che divide
il presbiterio dall’aula (1705 ca.).
SOFFITTO DELLA NAVATA:
29 Soffitto ligneo intarsiato a lacu-
nari dorati (1705 ca.). CORO DI
FONDO DELLE MONACHE:
30 Parete est: affresco raffiguran-
te il “Golgota con il Drago di S.
Giorgio”; la Croce lignea è oggi as-
sente. 27 Sotto l’affaccio del Coro
di fondo: “La Misericordia Divi-
na dispensa i Doni dello Spirito
Santo”, stucco e gesso (1705 ca.).
28 Al di sotto di questa scultura,
un cartiglio in gesso datato 1705.
Per quanto riguarda le opere d’arte
presenti ancora nell’ex-Monastero
di S.Giorgio (cfr “Cultura comme-
stibile” 236), non mi sarà possibile
realizzare una ricerca parallela a
questa in quanto le schede foto-
grafiche del Monastero non sono
reperibili. Segnaliamo, però, che
gli Uffici preposti alla Tutela do-
vrebbero essere in possesso di un
Inventario, come pure delle sche-
de di Conservazione.
di M. Cristina François Per S.Giorgio! Da Giotto a Foggini
194 NOVEMBRE 2017
In continuità con i racconti su Firenze ap-
parsi su alcuni recenti numeri di Cultura
Commestibile, iniziamo la pubblicazione di
una nuova serie di brevi narrazioni di An-
drea Ponsi che vedono come protagonista
San Francisco, la città che per bellezza, tra-
dizione letteraria e spirito innovativo è en-
trata a far parte dell’immaginario collettivo
di varie generazioni.
Andrea Ponsi ha vissuto a San Francisco
per dieci anni durante gli anni ’80. Vi tor-
na regolarmente per lavorare a progetti di
architettura o come docente in università
californiane. Durante uno dei suoi ultimi
viaggi ha prodotto queste annotazioni di tipo
diaristico in cui architetture, luoghi urbani e
la vita che vi si conduce sono descritti ricor-
rendo a memorie personali e introspezioni di
tipo percettivo.
Come il precedente libro su Firenze , anche
questi racconti sono stati pubblicati ne-
gli Stati Uniti dalla University of Virginia
Press con il titolo San Francisco – a Map of
Perception (2015). Cultura Commestibile si
propone di ripubblicare a puntate in versio-
ne italiana l’intera raccolta affiancando ai
testi alcuni acquarelli dell’autore.
Arrivare Arrivare a San Francisco da nord attraverso
il Golden Gate Bridge,
i primi indiani.
da sud, lungo la costa o la baia, sulle fre-
eways,
i missionari e i campesinos dell’America
Latina.
da est attraverso il Bay Bridge,
i bianchi dall’Europa e dall’America.
da ovest, per mare o cielo ,
dalla Cina e dal Giappone.
NebbiaQuanti tipi di nebbia ci sono a San
Francisco? Quella rarefatta, quasi
trasparente che lascia vedere l’az-
zurro del cielo. O quella che, come
una grande coperta, si adagia sulle
isole e i rilievi trasformandoli in bianchi tu-
muli segreti. C’è quella che, una volta pas-
sato il setaccio del grande ponte, si sfilaccia
sulla baia per andare a sfiorare Alcatraz e
Angel Island, ancora sotto il sole. E quella
intensa e fredda che ci avvolge nelle cal-
me strade del Sunset o di Richmond, verso
Ocean Beach. Lì anche il giorno è una notte
bianca, umida e grigia.
Ci sono altre nebbie, decine di altri tipi, a
seconda del quartiere, delle ore del giorno,
della diversa posizione del sole: nebbia ta-
gliata da spade di luce, nebbia che si srotola
in vaporosi sbuffi, nebbia che sbianca i colo-
ri delle navi sulla baia o che si aggrappa alle
antenne di Twin Peaks come un cespuglio a
un cactus nel deserto.
San Francisco, città della nebbia: mutevole,
capricciosa, possente, dalle mille sfaccetta-
ture, dalle molteplici personalità.
MetàAdagiata sull’estremità di una penisola,
San Francisco è divisa in due parti: una
aperta sull’oceano , l’altra rivolta alla baia.
La linea di confine non è netta, ma cambia
leggermente con la stagione, con la direzio-
ne del vento o con l’ora del giorno. E’ una
divisione puramente metereologica dovuta
alla presenza o meno della nebbia. Ciò fa’ si
che molte delle scelte quotidiane o perma-
nenti di vita siano dettate da tale divisione:
mettersi o no un giaccone per uscire? Dove
andare a fare un pic–nic la domenica? In
quale quartiere affittare o comparare casa ?
Metà città vive nella nebbia dell’oceano,
metà brilla nel sole della baia.
Metà è grigia, scura come il verde cupo dei
suoi alberi,
metà è bianca di luce, azzurra come il mare.
Metà è umida, fredda, silenziosa,
metà è aperta, calda, luminosa.
Metà è la città invisibile, introversa e miste-
riosa.
metà è la città visibile, ampia e serena.
Il monumentoAlcune grandi città si identificano in un
monumento che sorpassa tutti gli altri per
superiorità fisica o come immagine sim-
bolica. Roma ha San Pietro, Parigi la Tour
Eiffel, New York l’Empire State Building.
San Francisco ha il Golden Gate Bridge.
Niente altro a San Francisco minaccia que-
sto dominio. Il Golden Gate Bridge è San
Francisco stessa, la sua porta sull’oceano, la
sua corona, la sua cattedrale rossa d’acciaio,
la sua perfetta immagine. Anch’essa, San
Francisco, è una città ponte, porta, catte-
drale che si scorge in lontananza, punto di
arrivo, faro di orientamento di coloro che
cercarono, cercano e forse cercheranno.
ProfiloUna città sul mare la cui bianchezza risplen-
de al massimo nella luce del pomeriggio. Poi
diventa d’oro quando l’edificio più alto e mas-
siccio, scanalato come un diamante, riverbe-
ra la luce del tramonto. Poi argentea, come
il cielo del crepuscolo che, verso l’oceano, è
di un rosso acceso come l’orizzonte di una
stampa giapponese. Quando scende la not-
te la città si accende di milioni di lanterne e
downtown si trasforma in un transat-
lantico dalle mille luci.
GabbianiGuardo i gabbiani che volano
sulla baia. Qualcuno si andrà
a posare accanto ai tavoli di Sam’s
Cafè, a Tiburon, sperando di strap-
pare qualche pezzetto di un granchio
già bollito. Altri sfrecciano radenti
l’acqua per andare ad incontrare i
compagni ad Alcatraz; altri ancora
volano alti verso i monti del Presidio o
di Twin Peaks. C’è anche chi sta fer-
mo, solitario, a contemplare il mondo
su un palo conficcato dentro l’acqua o
chi svolazza in gruppo sulla scia di una
nave verso Oakland.
Come i piccioni in una piazza urbana, così i
gabbiani fanno della baia la loro piazza: un
vasto spazio aperto, ricco di cibo e di occa-
sioni.
di Andrea Ponsi Mappe di percezioneSan Francisco
204 NOVEMBRE 2017
Quando si scopre un’affinità profonda, si
crede che sia unica, solo per noi. A meno
che non si tratti di una scrittrice straordina-
ria. Annie Ernaux, autrice francese pubbli-
cata da Gallimard e in Italia nelle raffinatis-
sime edizioni de L’Orma Editore, nel 2016
ha vinto il Premio Strega Europeo con Gli
Anni, nel 2017 ha raggiunto il successo in-
ternazionale con Memoria di ragazza, ma è
l’intera sua opera, autobiografica, a raggiun-
gere le viscere del lettore, prima ancora del
suo giudizio.
Protagonista dei suoi libri è la memoria. La
memoria dà una forma a chi siamo e non si
ferma mai, attraversa le generazioni, stabili-
sce un contatto tra i vivi e i morti, tra passa-
to e presente attraverso un racconto. Ma il
modo in cui raccontiamo i fatti li cambia, è
inevitabile. Gli uomini da sempre usano la
narrazione per esorcizzare il dolore e la pau-
ra o per celebrare le gioie. Le storie però fis-
sano i fatti in una visione parziale, spesso vi-
ziata da un vissuto doloroso o da un bisogno.
“La memoria fa resistenza”, dice la Ernaux,
“la memoria è una maniacale attrezzista di
scena”, contamina i fatti. Il lavoro che la
scrittrice fa sulla memoria è un’azione con-
tinua di pulizia, un esercizio di attenzione
lenta e di sospensione del vissuto per recu-
perare i soli fatti. La sua scrittura è asciutta,
rigorosa, non indulge agli abbellimenti lette-
rari. “Scrivere per disseppellire cose, magari
anche una soltanto, irriducibile a ogni sorta
di spiegazione, che provenga dal dispiega-
mento delle increspature della narrazione,
che possa aiutare a comprendere – a sop-
portare – ciò che facciamo” (Memoria di
ragazza). Lo stesso accade a chi legge i suoi
libri. Si inizia per seguire una storia e ci si
trova inchiodati a noi stessi, a guardare sotto
le parole della nostra vita, alle forme con cui
abbiamo contenuto e arginato i sentimenti.
Come se quello che viviamo fosse in gran
parte questione di parole, quelle che si dico-
no o che si fraintendono.
I suoi libri intrecciano esperienza individua-
le e storia collettiva. E’ facile riconoscersi
perché raccontano la quotidianità di una
donna contemporanea, il rapporto con i ge-
nitori e la loro emancipazione dal mondo
contadino ed operaio, la formazione nella
Francia del dopoguerra, la sessualità e la
complessità delle relazioni, il rapporto con
la scrittura. La nota che non ci fa muovere
dall’ascolto è l’onestà, la verità del racconto.
“Per riferire di una vita sottomessa alla ne-
cessità non ho il diritto di prendere il partito
dell’arte” (Il posto). Non c’è una vocazione
artistica che conduce romanticamente alla
scrittura nella Ernaux. Ci sono i segni di
un’infanzia dolorosa, l’esperienza del disa-
gio, la frustrazione, che diventano occasioni
per indagare, per portare alla luce, per aprire
alle possibilità di senso. La separazione da sé
stessi è una molla potente di scoperta, per-
ché nella crepa di quella separazione si na-
sconde il dolore come la possibilità di amare,
la negazione di cosa non ci corrisponde ed
il seme di una rinascita. “E’ la mancanza di
senso di ciò che si vive nel momento in cui
lo si vive che moltiplica le possibilità di scrit-
tura”. Comprendere le cose nella loro au-
tenticità serve a liberare i ricordi, a renderli
radici, non più ombre. A distinguere ciò che
si è sentito da quello che ci siamo raccontati.
Una citazione cara alla Ernaux appartiene
a Alexandre Dumas figlio: “L’unica felici-
tà reale è quella di cui ti accorgi mentre la
vivi”.
Da non perdere nella stagione 2017/2018
del Teatro Cantiere Florida di Firenze il
nuovo lavoro dell’attrice Daria Deflorian,
Memoria di ragazza, che porta in scena il
libro omonimo di Annie Ernaux.
di Elisa Zuri
Ernaux, la memoria attrezzista di scena
214 NOVEMBRE 2017
E’ senz’altro da considerarsi fuori luogo, parlare
di una mostra quando la stessa è terminata e non
più visitabile.
Non è però mai tardi, parlare di una collezione
d’arte come la “Collezione Salini”, esposta par-
zialmente nel Palazzo Pubblico di Siena durante
la scorsa estate, perché la stessa collezione ha
una sede permanente.
Non è fuori luogo parlare del suo proprietario,
l’architetto Simonpietro Salini, generoso colle-
zionista che con grande disponibilità ha voluto
aprirla se pur temporaneamente al pubblico.
Una rara occasione potremmo dire, quella della
mostra: “Siena dal ‘200 al ‘400 – La Collezione
Salini”, per vedere una serie di opere strepitose
esposte temporaneamente fuori dalla loro sede
abituale. Potremmo anche dire un’eccezionale
occasione per partecipare il piacere, la passione,
l’intelligenza di un uomo che è anche un collezio-
nista d’arte illuminato. La “Collezione Salini”,
che ha sede permanente nel Castello di Gallico,
è stata presentata per una fortunata coincidenza,
nei Magazzini del Sale della Repubblica Senese,
ed è grazie alla sensibilità e capacità professio-
nali dell’architetto Salini, che i visitatori hanno
potuto fruire e godere interamente delle sugge-
stioni emotive e della magnificenza delle opere
esposte, perché lo stesso proprietario, ha saputo
ricreare attraverso un attento e minuzioso quan-
to personale allestimento, quell’atmosfera di
simbiosi con l’architettura che la Collezione vive
normalmente nel Castello di Gallico.
Nel corso della visita, prendiamo sempre più
coscienza del fatto che non stiamo visitando un
museo e neppure un’esposizione temporanea,
tanto meno una collezione come recita il titolo
della mostra, ma condividendo un ambiente ac-
cogliente potremmo pensare di familiare quoti-
dianità, dove lo spazio architettonico è arredato
naturalmente in ragione delle esigenze e del
gusto del proprietario. Dove ogni opera d’arte e
oggetto di artigianato artistico si sposa con l’ar-
chitettura. Senza rispondere a quelle logiche
espositive comunemente adottate secondo cri-
teri scientifici che organizzano e presentano cro-
nologicamente, per soggetto, materiali, o luoghi
geografici gli oggetti, ma seguono potremmo dire
la bizzarria del proprietario o meglio la sua sensi-
bilità. Non si è voluto ufficializzare una musea-
lizzazione delle opere presentate, ma si è voluto
offrire ai visitatori un’esperienza di sapore fami-
liare come quella che offre la propria casa con gli
oggetti che lo arredano. Non un luogo da visita-
re, ma da vivere. Unico criterio adottato quello
naturale della spontaneità di chi dispone le pro-
prie cose all’interno della propria abitazione.
Salini, ha partecipato in prima persona tutto l’i-
ter che ha portato alla realizzazione dell’evento
come si segue una persona o meglio una comu-
nità alla quale ci sentiamo indissolubilmente
legati. Dalla scelta della sede per la mostra, uno
spazio molto difficile per le importanti proble-
matiche espositive che presenta, al messaggio
affidato al biglietto d’ingresso gratuito: “Biglietto
Ricordo”.
E’ proprio questa condizione inequivocabile di
disponibilità che ci accoglie e fa vivere la visita
come qualcosa di normale, di quotidiano, quasi
familiare, perché l’arte non deve essere esposta,
ma semplicemente presentata.
Tutto questo, per dire che non siamo di fronte ad
un collezionista inteso come appassionato racco-
glitore di materiali che rincorre il possesso della
figurina per completare la pagina dell’album,
ma di una persona che conosce la vera ragione
dell’arte, che è quella di condividere e accompa-
gnare la vita di ognuno nella propria quotidiani-
tà migliorandone la qualità.
Un recente studio scientifico ha evidenziato
che sei minuti di lettura possono risultare de-
cisivi per rallentare il battito cardiaco, rilassa-
re la tensione muscolare e migliorare l’umore.
Anche l’acqua, come è noto, con i suoi riflessi
e la musica del suo fluire, viene impiegata da
sempre in pratiche di rilassamento corporeo.
A Parigi l’unione di queste due esperienze sen-
soriali hanno prodotto un fenomeno culturale:
una barca-libreria ormeggiata al Quai de l’Oise,
ai margini del canale dell’Ourcq, poco lontano
dalla splendida Citè de la Musique. Una libre-
ria galleggiante che, in un universo insolito per
la frenetica Ville Lumière, fatto di corde e sar-
tie e il solo rumore dello sciabordio della Senna,
sembra pronta a affrontare in un viaggio senza
tempo con avventure di mare descritte nei tan-
ti libri, nuovi e usati, contenuti nella sua stiva.
L’iniziativa nasce nel 2010 da un’ insegnante e
traduttrice e il marito ex marinaio. I due acqui-
stano una delle tante péniche, le barche abita-
zioni, che sono ancorate agli argini della Senna
con l’obbiettivo di farne una libreria aperta al
pubblico. Dopo mille peripezie la libreria apre
il suo scrigno tutto incentrato sul mondo mari-
no, e così oggi, tra affascinanti mobili in legno,
navi in bottiglia, vecchie strumentazioni e map-
pe, in una luce filtrata dai classici oblò è possibi-
le trovare testi di famosi esploratori, romanzi di
avventura, storie di viaggi, manuali di naviga-
zione......Sono legati al mondo dell’acqua anche
gli incontri, gli workshop, le mostre e gli eventi
che animano l’interno e i ponti di questo barco-
ne verniciato in bianco e nero. Il luogo suggesti-
vo a un nome altrettanto suggestivo L’eau et les
reves (l’acqua e i sogni), lo stesso del titolo del
libro pubblicato nel 1942 del filosofo francese
Gaston Bachelard sulla psicanalisi delle acque.
Secondo quanto afferma Bachelard, le imma-
gini che scaturiscono dall’osservazione dell’ac-
qua sono prive di concretezza e provocano
emozioni lievi per la loro natura sfuggente. Ma
la loro incisività è maggiore di altre esperienze
sensoriali perché, tra riflessi e ombre, in una
specie di vapore intellettuale, attivano senti-
menti profondi che sfiorano il nostro essere
più intimo. Il libro si “tuffa” nelle profondità
del suo argomento fino a toccare il fondo degli
archetipi simbolici dell’acqua: da quella chiara
e brillante dove nascono immagini fuggitive a
quella profonda e scura dove si trovano miti e
fantasie.
La libreria Eau et les réves si trova al 3 Quai de
l’Oise (metro Crimea) ed è aperta da martedì a
domenica dalle ore 13 alle 19.
di Valentino Moradei Gabbrielli
Leggere sull’acqua
Simonpietro Salini, appassionato raccoglitore d’arte
di Simonetta Zanuccoli
224 NOVEMBRE 2017
Nel sito web del Comune di Fiesole, “In pri-
mo piano”, compaiono, nel mese di ottobre,
due bandi di gara con scadenza a novembre:
il primo per la redazione del Piano Operativo
Comunale e la revisione del Piano Struttura-
le vigente; il secondo per la “valorizzazione”
dell’Auditorium, in piazza del Mercato, a Fie-
sole, “per attività culturali e di spettacolo”.
I due bandi riguardano dunque questioni di
estrema rilevanza, anche se con differente
incidenza e caratterizzazione, per la loro fun-
zionalità riferita all’intero territorio comunale
ed al capoluogo: si tratta dell’adeguamento
dell’attuale assetto territoriale e paesaggistico
alle intervenute disposizioni in materia del
piano regionale; delle previsioni urbanistiche
comunali attuabili nel quinquennio; dell’effet-
tiva utilizzabilità e gestione dell’Auditorium
quale essenziale struttura culturale, nella
costruzione collaudata nel 2013 e mai finora
reso operativa. A fronte della formulazione
dei due bandi e delle procedure di gara con
essi attivate c’è da chiedersi se il contenuto e
la forma di quanto pubblicizzato corrisponda
e rappresenti adeguatamente la effettiva rile-
vanza delle problematiche fiesolane nella si-
tuazione attuale ed in prospettiva e rappresen-
ti gli obiettivi che si intendono effettivamente
perseguire nel tempo. Questo soprattutto nel
riferimento alla collocazione di Fiesole nel
contesto in divenire dell’area metropolitana
con particolare riguardo alla storia comunale
passata e recente ed in particolare alle risul-
tanze della pluriennale gestione territoriale
paesaggistica ed ambientale; alla caratterizza-
zione turistica fiesolana tramite una afferma-
ta e qualificata offerta ben distinta da quella
fiorentina; alla presenza di istituzioni culturali
molte delle quali di rilevanza internazionale,
quali l’Istituto Universitario Europeo, la Scuo-
la di Musica, l’Estate Fiesolana, le varie Fon-
dazioni ed Università americane ecc.
Se è legittimo attendersi dall’esito delle due
gare risposte pertinenti alle questioni da af-
frontare, c’è sopratutto da chiedersi se effet-
tivamente la sola formulazione dei bandi,
essenzialmente tecnica e burocratica, basti
a costituire orientamento esplicito, preciso e
vincolante verso risposte adeguate; se iniziati-
ve contestuali, di precisazione ed approfondi-
mento, siano state predisposte per il necessario
indirizzo su contenuti ed obiettivi da persegui-
re o potranno successivamente intervenire,
tramite occasioni di adeguata pubblicizzazio-
ne, consultazione e dibattito, nel corso del per-
fezionamento delle procedure ed al momento
delle elaborazioni finali.
di Antonello Nuzzo In gara per Fiesole
Dopo quasi venti anni dall’ultima esposizio-
ne monografica dedicata a Plinio Nomellini
(Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori - Fi-
renze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti,
1998), la scelta di proporre una nuova selezione
dei suoi dipinti è stata accompagnata dal desi-
derio di contestualizzare in questa mostra, per
la prima volta, l’opera dell’artista nel quadro del
suo tempo.
Il dialogo con i maestri del pittore (primo fra tut-
ti Fattori, poi Lega e Signorini) e con gli artisti
che ne hanno accompagnato il percorso forma-
tivo e la prima maturità intende offrire nuovi sti-
moli alla comprensione dell’opera di Nomellini,
dietro alla quale si cela ancora un universo ricco
di nuovi spunti di ricerca.
L’esposizione (fino al 5 novembre, catalogo Ma-
schietto editore) si apre con una sala dedicata al
confronto con il maestro Giovanni Fattori, con
il quale Nomellini avviò nel 1885 un alunnato
che sfocerà in una franca amicizia, testimoniata
dalle molteplici lettere, affettuose e sferzanti,
come quella celebre del 12 marzo 1891, che
sancirà la definitiva emancipazione degli allie-
vi dal maestro, il quale ammoniva il pittore ed
i suoi giovani compagni: “la Storia dell’Arte vi
registrerà come servi umilissimi di Pisarò [sic.],
Manet, ecc. e in ultimo del sig. Müller. Questa
è storia e qui cesso con dirmi vostro amico sem-
pre, maestro mai più! perché io sono coi vecchi
e non saprei più cosa insegnarvi”.
Nomellini ed il gruppo dei giovani allievi di Fat-
tori, in formazione a Firenze fra la metà degli
anni Ottanta ed i primi anni Novanta dell’Otto-
cento, erano soliti frequentare, sotto quella che
Raffaele Monti indicò come “la copertura ideo-
logica di Lega”, la Trattoria del Volturno, ragio-
nando di una loro “rivoluzione impressionista”.
In mostra due ritratti di ciociara eseguiti, rispet-
tivamente, da Pellizza e Nomellini nel 1888 in
una stessa seduta di posa, confermano il deside-
rio di confrontarsi dei due artisti, mentre una
sala è specificamente dedicata alla comunione
artistica avviata da Nomellini, Kienerk e Torchi
ad Albaro nell’estate del 1891, quando l’artista
livornese si abbandonò con sicurezza alla pen-
nellata divisa.
Il percorso espositivo prosegue seguendo crono-
logicamente l’opera dell’artista, evidenziando
l’importanza della tematica sociale, l’approdo
ad una percezione simbolista del paesaggio, il
rapporto speciale instaurato con Pascoli, lo stra-
ordinario momento creativo vissuto in Versilia
nel primo e secondo decennio del Novecento,
concludendosi in una sala che raccoglie alcuni
degli episodi più significativi della pittura di
Nomellini negli ultimi venti anni di attività.
di Nadia Marchioni
La pennellata divina di Nomellini
234 NOVEMBRE 2017
di studiare da vicino gli ef-
fetti del bombardamento
a tappeto voluto dal gene-
rale Clark. Il Generale è
diventato l’angelo ster-
minatore dell’Italia del
Sud, incline (...) a rea-
zioni violente e vendi-
cative come quella che
ha portato al sacrificio
di Altavilla, can-
cellata dalla faccia
della terra perché forse
nascondeva dei tedeschi. Qui a Battipa-
glia abbiamo avuto una Guernica italiana, una
città trasformata in pochi secondi in un cumulo
di macerie”.
E’ come se “Napoli ‘44”, non dall’alto di una
cattedra ma dal basso di una guerra vissuta in
prima persona, ammonisse il lettore dell’ine-
vitabile contro-canto dei fatti, che contraddice
gli esiti sottesi all’usuale maneggio della storia.
Nella quale responsabilità e colpe dovrebbero
accertarsi come in un processo e
dove gli uomini - i singoli, non già in-
tere nazioni -, meritano o demeritano
per ciò che omettono o commettono,
più che per le divise che indossano.
Terza qualità, in fine: un mirabile ri-
tratto di Napoli e della sua società, “il
più grande paese del mondo”, divisa a
sua volta in molti paesi più piccoli, i ri-
oni, che sono, in realtà, altrettante enormi
famiglie; con il suo onnipresente ‘teatro’,
in cui prospera il mercato nero e la legge
sopravvive “come un cadavere ambulante”;
un teatro che pullula di presunte spie, di
personaggi squallidi e ambigui, di consumati
mestieranti (tra cui gli ‘zii di Roma’ e le imman-
cabili ‘prefiche’) su uno sfondo di fame, di mise-
ria e di tantissime macerie.
“Napoli ‘44” mantiene, posso dire, più di quel
che promette: lo si compra per leggere un dia-
rio di guerra e vi si incontra inavvertitamente
qualcosa di più prezioso: uno scrittore di talen-
to e un uomo intellettualmente onesto.
di Paolo Marini
La guerra raccontata con verità e poesia“The Saturardy Review” ha sentenziato che
“Napoli ‘44”, di Norman Lewis, è “uno dei
dieci libri da salvare sulla seconda guerra mon-
diale”. Io, per me, posso soltanto affermarne al-
cune (rimarchevoli) qualità.
La prima appartiene alla narrazione: asciutta,
disincantata - a tratti cruda - e al contempo
schietta, vivace, capace di restituire l’indigna-
zione, l’ironia e perfino la poesia dell’Autore.
Lewis, ufficiale britannico assegnato alla “Field
Security Section”, aggregata alla Quinta Arma-
ta americana del generale Clark, all’indomani
dell’8 settembre 1943 prendeva parte allo
sbarco alleato a Paestum. Qui ha inizio il rac-
conto e qui è subito un passaggio di pregio: “Al
nostro sguardo si è offerta una scena di incanto
soprannaturale. A qualche centinaio di metri
si ergevano in fila, perfetti, i tre templi di Pae-
stum, superbi e splendenti di luce rosata negli
ultimi raggi del sole. E’ stata come un’illumina-
zione, una delle grandi esperienze della vita”.
Che instaura una efficacissima contrapposizio-
ne tra ciò che è effimero, transeunte (la stessa
guerra, con il suo baccano e le distruzioni) e ciò
che perdura: un simbolo potente.
La seconda qualità è tutta dell’uomo, la narra-
zione raccoglie i frutti della sua levatura intel-
lettuale e morale, nessun ossequio alla bandiera
servita in quanto tale: la coscienza, agile e libe-
ra, supera quelli che per i più sarebbero steccati
non valicabili, per aderire alla legge superiore
della ragione e della pietas. Si evince da non po-
che pagine, qui bastano alcuni esempi: quando
Lewis spiega che molti pazienti ricoverati all’o-
spedale americano di Paestum riferiscono che
alle unità combattenti gli ufficiali hanno ordi-
nato di uccidere i tedeschi che tentino di arren-
dersi, senonché “questi uomini sembrano mol-
to ingenui e infantili, ma cominciano a mettere
in dubbio che un ordine del genere sia morale.
Uno di loro, che si è arreso all’equipaggio di un
carro tedesco, è stato semplicemente disarmato,
poi lasciato andare non potendo essere preso a
bordo (...)”; poi c’è l’umana simpatia per il pan-
zergrenadier diciottenne, l’unico ferito tedesco
della corsia, che qualcuno vorrebbe strangola-
re e che “malgrado una brutta ferita è allegro
e contento, e sa quel poco d’inglese sufficiente
a esibire un inalterato senso dell’umorismo, si
sta facendo amici un po’ tutti e consolida rapi-
damente la sua posizione”; eppoi una autentica
‘bomba’: “A Battipaglia (...) ho avuto occasione
E’ sempre un’operazione temeraria, soprattutto
in àmbito accademico, individuare i “maestri”
di una disciplina. Ma Biagio Guccione, che ho
voluto come collaboratore nella redazione di
uno dei “piani strutturali” più delicati della To-
scana, “temerario” nell’affermare le sue convin-
zioni – anche contro consolidate opinioni – lo
è sempre stato. Così, col contributo del MIUR
e con i tipi di Edifir, è appena uscito questo
utile volume che “scheda” venti paesaggisti,
che ricordiamo subito: Jordi Bellmunt, Paolo
Bürgi, Fernando Caruncho, Gilles Clément,
Michel Corajoud, Michel Desvigne, Michael
Lancaster, João Ferreira Nunes, René Pechère,
Michael Van Gessel, Gilberto Oneto, Ippolito
Pizzetti, Marco Pozzoli; ed “interviste” a Gui-
do Ferrara, Annalisa Maniglio Calcagno, Paolo
Pejrone, Andreas O. Kipar, Paolo Villa, Franco
Zagari, Mariella Zoppi.
Nell’Introduzione al volume, Guccione ri-
corda che “fra le discipline poco praticate la
Paesaggistica è fra quelle emergenti nel pano-
rama professionale del nostro Paese e di tutta
Europa”. Ed ancora che occorre “ripensare alle
città partendo dagli spazi aperti per ‘ricucire’ le
periferie...”. L’autore non manca di ricordare,
dandone per scontata la conoscenza, i maestri
del secolo scorso, padri fondatori della discipli-
na, quali Pietro Porcinai, Roberto Burle Marx,
Geoffrey Jellicoe e Sylvia Crowe. Riassuntiva-
mente, si tratta di un interessante e sistematiz-
zante contributo, in un’area disciplinare bor-
derline, confinante con la cultura dei giardini
e dei parchi, nonché col restauro degli stessi.
Ma ciò rende ancor più attuale questo studio di
Guccione che va a collocarsi nell’àmbito della
letteratura del “verde”, meritoriamente accesa
diversi decenni or sono da Vittoria Calzolari
(Verde per la città, 1961), ripresa da Luigi Zan-
gheri con i suoi numerosi libri sui giardini stori-
ci e il mio Guasto e Restauro
di Francesco Gurrieri
Lisbona-Parque Tejo e Trancão (J. Nunes)
I maestri di paesaggistica