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Nova itinera percorsi del diritto nel XXI secolo Anno II - N° 2 - Settembre 2012 L’EDITORIALE UNA rIVoLUZIoNe DeLLe reGoLe ACCADE OGGI CrISTIANeSImo è ANChe LIbero merCATo PER NON DIMENTICARE LA GIUSTIZIA DI UN PAPA

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la rivoluzione delle regole

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Novaitinera

percorsi del dirittonel XXI secolo

Anno II - N° 2 - Settembre 2012

L’EDITORIALE

UNA rIVoLUZIoNe

DeLLe reGoLe

ACCADE OGGI

CrISTIANeSImo è

ANChe LIbero

merCATo

PER NON DIMENTICARE

LA GIUSTIZIA

DI UN PAPA

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Sommario

L’EDITORIALE

UNA RIVOLUZIONE DELLE REGOLE 5di STEFANO AMORE

ACCADE OGGI

CRIstIANEsImO è ANChE LIbERO mERCAtO 7di PIETRO DI MUCCIO DE QUATTRO

PER NON DIMENTICARE

LA GIUstIZIA DI UN PAPA 11di MARIA GEMMA PINTO

ACTA NOTARILIA

LA COsCIENZA DI UN CONsIGLIERE 15di ANTONIO CAPUTO

ASSISTENZA SANITARIA IN ITALIA: QUALE FUTURO?

PROsPEttIVE DEL FAsI 17di STEFANO CUZZILLA

CRONACHE DELLA MAGISTRATURA

UNA PRONUNCIA DELLA CORtE DI CAssAZIONEChE DEstA PERPLEssItÀ 21di Roberta Barberini

AVVOCATURA PER L’AVVENIRE

PUbbLICItÀ E PROFEssIONE FORENsE 29

di Andrea Giordano

Quadrimestrale di legislazione,giurisprudenza, dottrinae attualità giuridicaAnno II - N° 2 - Settembre 2012Autorizzazione del Tribunaledi Roma nr. 445del 23 novembre 2010

DIRETTORE RESPONSABILE:Stefano Amore

VICE DIRETTORI:Paolo LiberatiLuigi Viola

DIRETTORE EDITORIALE:Cynthia Orlandi

COMITATO DI REDAZIONE:Giuseppe BiancoCarlo CarboneCristian CarusoLauretta CasadeiUmberto CerasoliPietro ChiofaloMaria Antonietta CrocittoFrancesco De ClementiMario De IorisPietro De LeoVito Antonio De PalmaAndrea GiordanoMassimiliano LucchesiLaura MorselliSandra MoselliEmanuela PorruGianluigi PratolaEnzo ProiettiFrancesca RosetiLucia SpiritoFederico Tomassini

SEGRETERIA DI REDAZIONE:Antonio Torroni

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE

LA RAGIONEVOLE DURAtA NELLA GIURIsPRUDENZA 33di GIULIO GAROFALO

TEORIA E PRATICA DEL PROCESSO

IL tENtAtIVO DI CONCILIAZIONE NEL PROCEssODEL LAVORO 41di FABIO MASSIMO GALLO

LA mANCAtA PARtECIPAZIONE sENZA GIUstIFICAtO mOtIVOAL PROCEDImENtO DI mEDIAZIONE 45di GAETANO ANACLERIO E ANNABELLA CAZZOLLA

DIRITTO E AMBIENTE

AmbIENtE E FEDERALIsmO 63di GIORGIO CORRADO

ORDINAMENTO ED ETICA DELLO SPORT

REsPONsAbILItÀ OGGEttIVA E ORDINAmENtO sPORtIVO 69di ENZO PROIETTI

L’ANGOLO DELLE RIFORME

LA PREVIDENZA COmPLEmENtARE PER IL PUbbLICOImPIEGO NON CONtRAttUALIZZAtO 79

di FRANCESCO VALLACQUA

DIRITTO E ECONOMIA

LA sPEsA AmbIENtALE 91

di BERARDINO ABBRUZZESE

COMITATO SCIENTIFICO:

Mario AscheriProfessore Ordinario di Storia

del Diritto Medievale e Moderno

Paola BalducciAvvocato, Professore Associato di DirittoProcessuale Penale

Giovanni BiancoProfessore di Dottrina dello Stato e Diritto Pubblico

Guido CalviDocente di Filosofia del Diritto, Componente del C.S.M.

Giuseppe CelesteNotaio, Componente Consiglio Nazionale Notariato

Bona Ciaccia Professore Ordinario di Diritto Processuale Civile

Fiorella D’AngeliProfessore Ordinario di Diritto Civile

Rosario De LucaPresidente della Fondazione Studidei Consulenti del Lavoro

Giuseppe de RosaConsigliere della Corte dei Conti

Angela Del VecchioProfessore Ordinariodi Diritto dell’Unione Europea

Pasquale d’Innella CapanoAmministratore di Telpress Italia S.p.A.

Fabio Massimo GalloPresidente Sez. Lav. Corte di Appello di Roma

Antonio LaudatiProcuratore della Repubblica del Tribunale di Bari

Giuseppina LeoGiudice del Tribunale del Lavoro di Roma

Filiberto PalumboAvvocato, Componente del C.S.M.

Angelo Alessandro SammarcoAvvocato, Professore Universitario

Piero SandulliProfessore di Diritto Processuale civile

Giuseppe ValentinoAvvocato

Antonio VallebonaProfessore Ordinario di Diritto del Lavoro

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Sommario

GIURISPRUDENZA COMMENTATA

EsCLUsIONE DALLA GARA E tERmINE DI ImPUGNAZIONE 95

di MARZIA PETRELLI

DOVE PENDE LA BILANCIA

LA DIFFERENtE EtÀ PENsIONAbILE tRA UOmINI E DONNENEL PUbbLICO ImPIEGO 103di PAOLO LIBERATI E TINA MENELAO

COmItAtO D’ONORE:

marina CalderonePresidente del Comitato Unitariodelle Professioni

Lauretta CasadeiPresidente di Federnotai

Giuseppe ChiaravallotiVice Presidente dell’Autorità Garanteper la Protezione dei Dati Personali

Adolfo de RienziPresidente dell’Accademia

del Notariato

Ignazio LeottaNotaio in Varese

Alberto sarrasottosegretario alle Riforme

della Regione Calabria

Francesco schittulliPresidente della Provincia di bari

Giuseppe scopellitiPresidente della Regione Calabria

Nova ItineraQuadrimestraleSpedizione in abbonamento postale

Casa editrice Nuova Scienza S.R.L.,Via S.Tommaso d’Aquino, 4700136 RomaCod. Fisc. / P.I. 11072071001

Stampa: Stamperia Lampo - RomaFinito di stampare nel mese di dicembre 2012

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Eugene Delacroix, La liberta ̀ che guida il popolo

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Una rivoluzione delle regole

Stefano AmoreMagistrato, Presidente di Proposta per l’Italia

Cosa è una rivoluzione? Potremmo definirla, semplificando molto, la

distruzione di un sistema di potere accompa-gnata dall’instaurazione di un potere nuovo.

tradizionalmente, i due processi sono pres-soché simultanei o, comunque, tra di essi noncorre un ampio lasso di tempo. ma quanto ma-nifestatosi alla fine del ventesimo secolo e inquesto primo scorcio del ventunesimo eviden-zia, in realtà, un modello di rivoluzione profon-damente diverso da quello a cui eravamoabituati.

Gli assetti politico-economici europei impe-discono ormai sommovimenti armati, gli assaltialla bastiglia sono divenuti impossibili e qual-cuno potrebbe, anzi, credere che l’epoca dellerivoluzioni, per l’Europa, si sia chiusa definiti-vamente.

ma non è così. Le rivoluzioni continuano adesserci, ma hanno caratteri diversi rispetto alpassato.

La loro violenza si esprime, oggi, soprattuttosotto il profilo economico, mentre i cambia-menti socio-politici correlati si producono, in-vece, gradualmente, in modo meno manifesto.

In Italia, in realtà, si aspira da tempo ad unarivoluzione: una rivoluzione soprattutto cultu-rale e delle regole, reclamata dalla gente co-mune, dai giovani che non trovano lavoro, datutti coloro che soffrono le conseguenze del de-grado morale ed economico del nostro paese.

A volere il cambiamento, a ben vedere, sonotutti coloro che conoscono e scontano quotidia-namente l’inefficienza dell’apparato pubblico.

I professionisti, gli imprenditori, chi svolgeun’attività produttiva e percepisce, quotidia-namente, il danno prodotto da regole sbagliateo male applicate, dalla lunghezza dei procedi-menti, dalla difficoltà di un dialogo utile con lepubbliche amministrazioni.

Questa conclamata farraginosità dell’ordi-namento e la scarsa trasparenza delle proce-dure non rappresenta, però, l’unico male cheaffligge l’amministrazione.

Costituisce, invece, il sintomo (e il presup-posto culturale) di una affezione ancora piùgrave e diffusa che si chiama corruzione, con-cussione, frode, malversazione, abuso.

ma come mai ci accorgiamo solo ora di que-sti mali, certamente antichi considerata la lorocapillarità?

Il motivo di questa improvvisa scoperta delmalaffare che pervade la nostra società ce lopuò bene spiegare una riflessione di John Ken-neth Galbraith, il grande economista ameri-cano, contenuta nel suo libro dedicato allagrande crisi del 1929, The Great Crash.

Galbraith notava che ogni boom economico,ogni momento di prosperità e di sviluppo, in-crementa in modo vertiginoso il ritmo dellemalversazioni e la diffusione della corruzione,rendendoli, però, anche fenomeni di scarso ri-

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lievo sociale a fronte del generalizzato e mas-sivo aumento della ricchezza.

solo la recessione e la crisi portano alloscoperto il malaffare, rendendolo intollera-bile per la gente al punto che il semplice ma-neggio del denaro giunge, in questi periodi,ad essere considerato fraudolento sino aprova contraria. I tesorieri, non solo quellidei partiti, vengono guardati con sospetto ea credere nella loro probità non rimane pra-ticamente nessuno.

Quanto sta accadendo oggi in Italia nondeve, quindi, sorprendere e rappresenta, anzi,l’esatta replica di quanto già avvenuto neglistati Uniti durante la grande crisi del 1929.

A sorprenderci dovrebbe essere, invece, lacircostanza che, sino ad ora, è mancata unachiara consapevolezza di questo fenomeno,nonostante fosse sotto gli occhi di tutti.

Insomma, senza la crisi non avremmo,probabilmente, mai saputo nulla dei sUV,delle cene a base di ostriche e champagne,degli immobili acquisiti per fini personali edei divertimenti di vario tipo, tutti finanziaticon denaro pubblico, di cui ci ha narrato lastampa negli ultimi mesi.

Quanto si sta verificando dovrebbe farci,però, anche comprendere la complessità delrapporto che corre tra l’economia e i sistemipolitici e ricordare quanto è stato sostenuto,qualche tempo fa, in modo icastico, ma pro-babilmente cogliendo nel segno, da Arthurschlesinger, secondo cui: “la democrazia habisogno del libero mercato, ma il mercatonon ha bisogno della democrazia”.

Riflettiamoci un attimo. Effettivamente la mappa della ricchezza

nel mondo evidenzia, sempre di più, questaasimmetria. Cresce a dismisura non la ric-chezza delle democrazie occidentali, maquella di paesi in cui il sistema democratico

è fortemente limitato o attuato in modo par-ziale.

E tra il 2025 ed il 2030 l’Europa produrrà,secondo le previsioni degli organismi econo-mici, solo il 15 % del PIL mondiale.

su questi dati bisognerebbe interrogarsimolto seriamente e chiedersi se il declinoeconomico del nostro continente non segneràanche la fine di un certo tipo di democrazia,mettendo a rischio i diritti e le libertà conqui-state negli ultimi due secoli.

Possiamo accettare passivamente tuttociò? Io credo di no.

La rivoluzione delle regole che (quasi)tutti auspicano in Italia è, in realtà, fonda-mentale soprattutto nell’ottica della strenuadifesa di alcuni valori assoluti, di alcune li-bertà dell’individuo e di quella idea di comu-nità che ne dovrebbe essere la sintesi e la piùalta espressione.

Certamente, l’elenco delle riforme che an-drebbero realizzate nel nostro paese è lun-ghissimo,ma l’aspetto fondamentale su cuidobbiamo riflettere è rappresentato soprat-tutto dalla prospettiva che andrebbe data aquesti interventi.

Aldo moro, nel 1947, scriveva sulla rivista“studium”: “Dovremmo sentire la necessitàdi dare alla democrazia un completo e con-creto contenuto di operante solidarietà, men-tre troppo spesso limitiamo le nostre cure ela nostra fiducia soltanto alle fredde e rigidelinee di una democrazia puramente politica.”

Questo contenuto di operante solidarietàdeve poter continuare a rappresentare il no-stro punto di mira.

Almeno se non vogliamo abiurare il no-stro migliore passato e cancellare, forse persempre, i nostri più fondamentali diritti.

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Cristianesimo è anche libero mercato

Pietro Di Muccio de QuattroDocente Universitario di Diritto Parlamentare, Direttore emerito del Senato

1 - Narra san bernardino da siena che “ungiorno, mentre san Francesco sta va attraver-sando una città, si fece avanti un indemoniatoche gli chiese: ‘Qual è il peggior peccato almondo?’. san Francesco rispose che il peg-giore era l’omicidio. ma il demonio risposeche esiste un peccato ancora peggiore del-l’omicidio. san Francesco gli or dinò allora: ‘Innome di Dio, dimmi qual è questo peccatopeggiore dell’omicidio!’. E il diavolo risposeche ave re beni che appartengono a qualcun al -tro è un peccato peggiore dell’omicidio, poi-ché è il peccato che fa andare all’inferno piùpersone di qualsiasi al tro”. Nondimeno, moltisecoli dopo quest’episodio, ai giorni nostri lateolo gia della liberazione, conferendo ri -spettabilità religiosa alla variante ispanoame-ricana del bolscevismo sovieti co, ma conl’aggravante di riproporre candidamente unesperimento fallito nel sangue, nell’abominio,nella mise ria, nell’oppressione, prospetta “lapro prietà sociale dei mezzi di produzione”come la condizione indispensabile dell’av-vento pagano di “un uomo nuovo e una so-cietà nuova”. Questi pseudoteo logi nonistigano soltanto a commette re un “peccatopeggiore dell’omicidio”, trascinando all’in-ferno terreno ed ultraterreno milioni di adepti.ma sov vertono la più antica, consolidata, tra -dizionale, ortodossa dottrina cattolica delbene e della giustizia.

2 - Due scolasti ci spagnoli del ‘500 formu-larono alcu ne tra le più acute ed inoppugna-

bili conclusioni morali sulla proprietà pri vata.Domingo de banez, un domeni cano, sostenneche il principio della legge naturale fai agli altriciò che vor resti fosse fatto a te è perfettamentecoerente con il comandamento non ru bare, chenon avrebbe senso se la pro prietà fosse co-mune. Luis de molina, un gesuita, affermò cheil precetto non rubare implica che la divisionedei beni non travisa la legge naturale. La scola -stica spagnola si appoggiava e svilup pava ilpensiero del “Dottore della Chiesa” per eccel-lenza, san tommaso d’Aquino, che, anchesulla scia aristo telica, aveva scritto già nel ‘200che la proprietà privata è necessaria alla vitaumana per tre ragioni: “Primo, perché ognunosi preoccupa più della cura di qualcosa che siadi sua sola responsabi lità piuttosto che di ciòche è posseduto in comune o da molti, poichéin questo caso ognuno evita il lavoro e lasciala responsabilità a qualcun altro, cosa che suc-cede quando troppi sono coinvolti (e sembrala descrizione del comuni smo o delle ammini-strazioni burocrati che! n.d.r.). secondo, perchéle attività degli uomini vengono organizzatein modo più efficiente se ogni persona ha lesue responsabilità a cui adempiere; ci sarebbeil caos se tutti si occupassero di tutto. terzo,perché gli uomini vivo no in maggior pacequando ognuno è contento delle sue cose. Ve-diamo che spesso scoppiano dispute tra uo-mini che possiedono cose in comune”. santommaso riecheggia i giureconsulti ro maniper i quali la proprietà comune è madre di

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risse, come sanno da sempre tutti i condòminidel mondo.

3 - ma la difesa della proprietà privata èsolo uno, anche se fondamentale, dei contri-buti della tardoscolastica o scola stica spa-gnola, al pensiero economico. L’intentoprincipale degli scolastici consisteva nell’ana-lizzare l’azione umana dal punto di vista etico.Anche se nessun giudizio etico può invalidareuna legge economica, l’etica esercita una di-retta influenza sull’economia. Qui sta il cuorepulsante delle argo mentazioni e delle ricerche(talvolta au tentiche scoperte) del libro di Ale-jan dro Antonio Chafuen, Cristiani per la libertà.Le radici cattoliche dell’economia di mercato, Edi-zioni Liberilibri, macerata, 1999, introduzionedi Dario Antiseri e prologo di michael Novak.L’opera, piccola ma densa di contenuti, dottadi citazioni, stimolante per gli spunti originali,straordinariamente attuale e dirompen te nelnostro contesto culturale e politi co, è la primaversione italiana dell’edizione statunitense del

1986. L’autore, nato a buenos Aires nel 1954, èstato studente e professore nell’Università cat-tolica argentina. membro della Mont PèlerinSociety, è presidente del la Atlas Economic Rese-arch Founda tion. Colpisce il motto del libro:“Totus Tuus - Sancta Maria, Mater Dei”, lo stessodel pontefice Giovanni Paolo II. Proprietà,contratto, giustizia, diritto, tassazione, spesapubblica, moneta, commercio, valore, prezzo,salari, pro fitti, interesse, banca, natura e formedi governo, sono le parole chiave dell’impo-nente apparato di pensiero della tar -doscolastica, che affonda le radici nell’Anticoe Nuovo testamento e nei Pa dri della Chiesa,da un lato; nei filosofi greci, specialmente Ari-stotele, e nei giuristi romani, dall’altro. santomma so d’Aquino (1226-1274) chiude il pe -riodo di maggiore fulgore. ma, dopo di lui, lascolastica spagnola, specialmen te la famosascuola di salamanca, con tinuò ad averegrande importanza e si irradiò in Portogallo,Francia, Paesi bassi, Italia, Germania, America

Pablo Picasso, Gatto che mangia un uccello

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latina e Gran bretagna, dove nutrì la culturadei grandi scozzesi del ‘700: hutche son, Fer-guson, Adam smith. Gli scola stici medievalifurono i principali pen satori del tempo. Comeha scritto Cha fuen, “le loro analisi e conclu-sioni for marono il pensiero cattolico in modocosì convincente che continuano ad es sere unabase fondamentale della dot trina cattolicacontemporanea”. I Dotti di salamanca eranouomini di religio ne: domenicani, francescani,agostinia ni e, dopo la fondazione dellaCompa gnia di Gesù nel 1540, gesuiti. Furonoquesti uomini di chiesa, dunque, non miscre-denti illuministi, a gettare le fondamenta delliberalismo classico e dell’economia di mer-cato, i cui princi pi venivano dichiarati giustisulla base di motivi etici e pratici, cioè per-ché“in accordo con i valori riconosciuti, i fatti noti,la ragione umana, la fede cristiana”. Inoltre, se-condo Chafuen, “proteggere la proprietà pri-vata, pro muovere gli affari e incoraggiare ilcommercio, ridurre le spese superflue del go-verno e le tasse, e una politica di moneta sta-bile erano tutti elementi ri volti a migliorare lacondizione dei la voratori”. è sorprendenteconstatare che mentre oggi i movimenti d’ispi-razione liberale continuano a sostenere glistessi principi ed una politica eco nomica coe-rente con essi, finendo per ciò con l’essere eti-chettati spregiativa mente di destra, certimovimenti d’ispirazione cattolica, secolari edeccle siali, contrastano gli uni e l’altra, giu -dicandoli quanto meno poco cristiani, e si la-sciano affascinare dalle tesi sta taliste edilliberali della sinistra prete samente “sociale”,che li avversa con ogni mezzo. “molto primadi Calvino - ha scritto Friedrich von hayeknella ‘società libera’ (1969) e ‘Legge, legisla-zione e libertà’ (1986) - le città commerciali ita-liane ed olandesi avevano messo in pratica, egli scola stici spagnoli avevano codificato, leregole che resero possibile la moderna econo-mia di mercato”. hayek cita lo storico h. m.

Robertson, che in un libro del 1933 rimastopurtroppo in letargo Aspects of the Rise of Eco-nomic Individualism, ha affermato: “I gesuiti fa-vorirono lo spirito imprenditoriale, la libertàdi speculare e l’espansione del commer ciocome utilità sociale. Non sarebbe difficile af-fermare che la religione che favorì lo spiritodel capitalismo fu il gesuitismo e non il calvi-nismo”. ha yek ha commentato a riguardo:“Que sto libro ha fatto giustizia una volta pertutte del mito weberiano (il corsivo è nostro,n.d.r.) della fonte protestante dell’etica capita-lista. Egli dimostra che, se mai vi è stata in-fluenza religio sa, furono molto più i gesuitiche non i calvinisti che favorirono il sorgeredel lo “spirito capitalista ”. tale osserva zione,tanto inconsueta tra le opinioni correntiquanto suffragata dai fatti sto rici, è avvaloratadall’autorità di Lord Acton che nella sua Storiadella libertà considera san tommaso come ilprimo whig. Ed è noto che la dottrina whig, me-glio: old whig, costituisce la più completa, coe-rente, genuina formula zione del liberalismoclassico. Le con clusioni di questi formidabilipensatori e di molti altri contemporanei mi-nori contraddicono la tesi di R. h. tawney, ci-tato da hayek, che in The Religion and the Riseof Capitalism del 1934 ardì affermare che dasan tommaso deriva la teoria del valore-la-voro e dunque “Karl marx è l’ultimo degli sco-lastici” (sic!). All’opposto, Chafuen dimostra,testi alla ma no, che la teoria tardo scolasticadel va lore e del prezzo formò il pensiero eco-nomico successivo e che gli scola stici spagnoli,Grozio, Pufendorf, i fi siocrati francesi, lascuola scozzese, gli economisti austriaci sonocollegati dallo stesso filo logico. Il paradossodel valore di san bernardino da siena (“Di so-lito l’acqua, dov’è abbondante, costa poco. mapuò succedere che su una montagna o in qual-siasi altro luo go l’acqua sia scarsa. Può bensucce dere che l’acqua sia valutata più dell’oroperché in quel posto l’oro è più ab bondante

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dell’acqua”) collima perfetta mente con la teo-ria dei prezzi formula ta secoli dopo da Adamsmith (“Il prezzo di mercato delle merci di-pende da queste tre cause: primo, la do-manda o il bisogno della merce; secondo,l’abbondanza o la scarsità in propor zione albisogno; terzo, la ricchezza o la povertà di chila richiede”). La teoria del valore-lavoro, car-dine del marxi smo, non solo è pseudoscien-tifica, ma pure antitetica alla spiegazionesogget tivista e marginalista che ha definitiva-mente chiarito i presupposti dell’economia dimercato.

4 - Quasi anticipando addirittura gli odier -ni libertariani alla Rothbard, gli scola sticispagnoli hanno affermato che “le leggi essen-ziali sono quelle che proteg gono la proprietàprivata” ed hanno posto “la libertà come pa-rametro di tutti i giudizi etici”. Nonostantetutte le differenze con i successivi pensatoridichiaratamente liberali, circa le regole chegovernano i giudizi etici, “gli sco lastici crede-vano che la libertà fosse un elemento essenzialenell’etica cri stiana”. ma gli uni e gli altri con-cor dano che proprietà privata e sistema digoverno sono interdipendenti. Ancora: gliuni e gli altri combattono con forza “i moltiche vorrebbero ampliare il po tere del go-verno, aumentarlo oltre i li miti della ragionee della legge”. G1i scolastici individuano esmascherano con lucidità socratica, come fa-ranno poi nel XX secolo i mises, i Friedman,gli hayek, il paradosso del dirigismo: “Nel ten-tativo di usare la forza per in coraggiare lafunzione sociale della proprietà, il governo larende impossi bile. In una società simile, lagente lot ta per ottenere i favori della leggepiut tosto che per soddisfare il consumato re.La lotta per il potere, i conflitti per sonali, icontrasti fra gruppi d’interesse prendonocosì, nel mercato, il posto della cooperazionepacifica”.

5 - In conclusione, Alejandro Chafuen rag-giunge lo scopo di “promuovere il riconosci-mento dell’interdipendenza fra cristianesimoe libertà, e suscitare la consapevolezza che ilnostro falli mento nella battaglia per preser-vare la nostra libertà è un crimine, la cui pu-nizione è la schiavitù”. Egli ricorda op-portunamente: “E’ normale incon trare autoricattolici che si oppongono alla libertà econo-mica. molti credono che il libero mercato siaincompatibi le con il cristianesimo. Altri con-divi dono l’idea che un sistema economi co li-bero non potrà mai raggiungere scopi‘desiderabili’. Altri ancora lo rifiutano in baseall’autorità dei preti o dei moralisti nei qualioccasional mente s’imbattono nella vita quoti -diana”. Il libro è perciò rivolto tanto alle per-sone, cattoliche e no, che re putano ilcristianesimo incompatibile con il libero mer-cato, quanto ai se guaci del liberalismo clas-sico, che collegano inscindibilmente la libertàeconomica alla libertà umana. In un certosenso lo studio della scolastica riconcilia ilaici liberali con la reli giosità ed i credenti inCristo con la società libera. Religione e libertàso no rami della stessa pianta. Fede e ra gione,anche per chi le stima incom patibili, possonocrescere insieme senza ostacolarsi, anzi gio-vandosi l’una dell’altra. se Dio ha creato lanatura, deve aver creato anche la “li bertà deiliberali” perché si fonda sul la natura umana.Fedeli di Cristo e fedeli della libertà, ammae-strati dalla saggezza degli scolastici, hanno,in parte, e che parte, la stessa missione: pre-servare il mondo da chi vuole re primere e li-mitare la proprietà specie quando marciasotto gli stendardi del la giustizia e della mo-rale tra lo stri dore dei conflitti di classe. Que-sto li bro costringe a rivedere idee da trop potempo per errore accettate.

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Roma, 14 giugno 1846, Giovanni mariamastai Ferretti entra in conclave, l’ultimo riu-nitosi al Quirinale. Due giorni dopo vieneeletto papa, con il nome di Pio IX. sarà l’iniziodi un lungo e controverso pontificato che du-rerà fino al 1878, secondo per durata solo aquello di san Pietro. Passerà alla storia comeil Papa che proclamò il dogma dell’Immaco-lata concezione e, aprendo il Concilio VaticanoPrimo, quello dell’infallibilità papale; il Papadell’enciclica Quanta cura contenente il sillabo,uno dei più gravi attacchi al pensiero laico emoderno; il Papa che fino all’ultimo non sirassegnò alla perdita del potere temporale or-dinando il non expedit ai fedeli.

ma sarà ricordato anche, e ci riferiamo aiprimi anni di governo, come il Papa “libe-rale”, colui che concesse l’amnistia ai detenuti,rimettendo in libertà decine di cospiratori inpiena crisi dello stato, che nominò segretariodi stato il cardinale Pasquale Gizzi, congrande pubblica soddisfazione, perché rite-nuto “amico delle riforme”, che emanòl’editto sulla stampa, atto che diede a Romail suo primo quotidiano e che fece sì che anchenel resto dello stato pontificio si diffondesseronuovi giornali.

ma allora chi era in realtà Pio IX? Fu dav-vero quel sovrano illuminato costretto a tra-sformarsi, sotto le spinte esterne, in un bieco

conservatore, pur di salvare quello stato pen-sato come apoditticamente perfetto e non bi-sognoso di alcuna revisione di sorta?

La risposta a questo interrogativo parte dauna distinzione primaria: il sovrano e il Pon-tefice, un corpo e due anime, come è stato de-finito. tutti conoscono il Pontefice, ma chi erail sovrano? sovrano è colui che detiene il po-tere, ma il potere si identifica con la giustizia,perché l’amministrazione della giustizia dasempre costituisce la funzione essenziale, per-fino la ragion d’essere del potere costituito,perché è il valore primario sul quale si fondauna società civile, e ciò che gli associati pre-tendono sia tutelato dall’autorità politica.

se si guarda al sistema giudiziario dellostato pontificio, così come appariva nel XIXsecolo, ci si rende conto di come esso fosseuno dei più complessi e arretrati tra quellidegli stati italiani preunitari. Con il tempo lemagistrature e i tribunali avevano infatti so-vrapposto le proprie competenze le une allealtre e la rete di autorità giudiziarie era cosìintricata da poter esser definita un veroe proprio “groviglio giurisdizionale”. Conse-guenze di questo stato di cose erano, ovvia-mente, confusione, mancanza di garanzie eincertezza del diritto.

Con Pio IX parte un’opera di risistema-zione delle strutture giudiziarie e costituzio-

La giustizia di un Papa

Maria Gemma PintoDottore di Ricerca in Storia del Diritto

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nali spesso sottovalutata, perché non del tuttocompiuta, ma che non trova precedenti “mo-derni” nello stato pontificio. tutto ciò è resopossibile dalla realtà vivacissima che fa dasfondo alla Roma di metà Ottocento, dove ope-rano un gran numero di giuristi, avvocati, filo-sofi e scrittori, tutti desiderosi di innovareradicalmente le fondamenta dell’apparato giu-risdizionale dello stato pontificio, protagonistidi un dibattito giuridico dal quale traspare ilfervore per i mutamenti culturali e politici cheinteressano, in quello stesso periodo, la mag-gior parte degli stati italiani.

Così, nel 1846 viene subito nominata laCommissione per la revisione dei codici, chedarà vita, in breve tempo, ad un Regolamentoorganico sull’ordine giudiziario, che riunisce esemplifica i Regolamenti gregoriani in materiacivile e penale; nel gennaio del 1847 con l’ema-nazione delle nuove norme in materia di“punitiva giustizia”, inizia la riduzione dei tri-bunali romani, con la concentrazione del tribu-nale del Campidoglio e di quello dell’Uditoratodella Camera nell’unico tribunale del Governo;sempre nel giugno del 1847, i capi dei dicasteripiù importanti vengono riuniti in un Consigliodei ministri e nasce il ministero di Grazia e Giu-stizia, affidato all’Uditore della Camera, checessa però da ogni funzione giurisdizionale,sancendo così per la prima volta, anche nellostato pontificio, la distinzione tra funzioni ese-cutive e giudiziarie.

sempre nel 1847 nasce la Consulta di stato,quel “piccolo parlamentino” composto da ven-tiquattro consultori nominati dal sovrano suterne di candidati scelti dai consigli provinciali,che aveva il compito di “coadiuvare alla pub-blica amministrazione” e che volle dare un se-gnale di forte rinnovamento nell’attivitàamministrativa cercando di scrutare a fondonei bilanci, nell’ordinamento di Comuni e Pro-vince e dando vita a quell’organo che di lì a

poco sarebbe divenuto il suo successore: il Con-siglio di stato.

Quest’ultimo, appunto, sarebbe divenutol’organismo incaricato di redigere i progetti dilegge e i regolamenti di pubblica amministra-zione, di fornire pareri in particolari materie edi occuparsi del contenzioso amministrativo.Le sue funzioni erano “costituzionalizzate”, inquanto previste dallo statuto del 1848, la cartaottriata che Pio IX concesse ai suoi sudditi sul-l’esempio degli altri stati italiani.

In realtà molti altri progetti di riforma al si-stema giudiziario si stavano mettendo a puntoin quel periodo e sembra quasi impossibile che,solo alcuni mesi prima della fuga del Papa aGaeta, una Commissione, nominata dallostesso Pontefice e composta soprattutto da laici,stesse predisponendo un progetto di regola-mento organico che prevedeva l’introduzionein quell’ordinamento giuridico di un tribunaledi Cassazione, del Pubblico ministero, dellaGiuria, del principio del contraddittorio e l’abo-lizione di ogni giurisdizione eccezionale.

Concetti e istituti che, sulla scia dell’espe-rienza rivoluzionaria francese, si stavano dif-fondendo in molti paesi europei, ma che, senzadubbio, assumevano un significato diverso eulteriore nell’ordinamento dello stato pontifi-cio. Non vi fu, però, come sappiamo, il tempoper realizzare concretamente queste innova-zioni.

Il fervore di Pio IX per il rinnovamento am-ministrativo dello stato non coincise, infatti,con una azione politica altrettanto incisiva e,ben presto, gli eventi precipitarono: assassinatoPellegrino Rossi, il Pontefice si rifugiò a Gaetae da lì assistette alla proclamazione della Re-pubblica Romana.

Con la Restaurazione altre Commissioni fu-rono nominate, altre riforme furono avviate, ealtri moderati occuparono cariche di rilievo nelgoverno.P

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ma l’immobilismo del Papa, stretto nellamorsa del “non possiamo, non dobbiamo, nonvogliamo” e di quell’intimo sentimento di do-vere di difesa dello stato della Chiesa, segna-rono per sempre la fine di un sogno dimodernità che avrebbe potuto andare ben oltrei confini dello stato pontificio.

bIbLIOGRAFIA

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Pontificio in età moderna, Roma-bari, 2007.GhIsALbERtI A.m., Nuove ricerche sugli inizi del pontifi-cato di Pio IX e sulla Consulta di Stato, Roma, 1939.LODOLINI A., Il Parlamentino liberale della Consulta di Statopontificia (1847), in «Atti del XXXI congresso di storia delrisorgimento italiano: mantova, 21-25 settembre 1952»,Roma, 1956mARtINA G., Pio IX (1846-1850), Roma, 1974.mOmbELLI CAstRACANE m., La codificazione civile nelloStato pontificio II: dal progetto del 1846 ai lavori del 1859-63,Ed. sc. It., 1988.mONsAGRAtI G., Pio IX, Le riforme del 1847 negli Statiitaliani, Atti del Convegno di studi Firenze 20-21- marzo1998, Lo Stato della Chiesa e l’avvio delle riforme, in «Rasse-gna storica toscana», Firenze, 1999.mONtI A., Pio IX nel Risorgimento italiano, bari, 1928PRODI P., Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: lamonarchia papale nella prima età moderna, bologna, 2006.sANtONCINI G., Il groviglio giurisdizionale, bologna,1994.

Pio IX passa tra la folla dopo la sua elezione

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Albrecht Durer, Ritratto di Erasmo da Rotterdam

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La coscienza di un Consigliere

Antonio CaputoConsigliere per l'Emilia Romagna della Cassa Nazionale del Notariato

L’articolo 8 della spending review (legge135/2012) stabilisce che le Casse di previ-denza debbano diminuire i consumi inter-medi del 5% nel 2012 e del 10% dall’annoprossimo. Fin qui nulla quaestio. ma i ri-sparmi provenienti da queste operazioni de-vono essere versati alla tesoreria di stato. LeCasse, tuttavia, contestano questo obbligopoiché sono soggetti di natura privata.

Recentemente, ulteriore e grave pregiudi-zio all’autonomia degli Enti è stata apportatodall’art. 5, comma 7, del Decreto Legge 2marzo 2012 n. 16, recante “Disposizioni ur-genti in materia di semplificazioni tributarie,di efficientamento e potenziamento delle pro-cedure di accertamento, convertito con modi-ficazioni dalla legge 16 aprile 2012 n. 44”.

Detta norma ha riformulato la definizionedi amministrazioni pubbliche contenutanell’art. 1, comma 2, della Legge 31 dicembre2009 n. 196 (“Legge di contabilità e finanzapubblica”), estendendola a tutti gli organismirientranti nel conto economico consolidatodella PA ed individuati con comunicato Istatdel 30 settembre 2011 e, quindi, anche alleCasse in quanto comprese in tale elenco. taleintervento appare, in realtà, palesemente il-legittimo per violazione di diverse disposi-zioni costituzionali (articoli 2, 3, 24 e 38 dellaCostituzione) ed altresì del Diritto Comuni-tario, per contrasto con alcune direttive, ol-treché per la lesione del principio dell’affida-mento nella certezza del diritto.

In particolare, la norma dell’art. 7 comma5, nell’assoggettare le Casse previdenziali deiliberi professionisti (Enti di Diritto Privato)allo stesso regime giuridico previsto per glienti di diritto pubblico, sembra non rispet-tare il parametro della ragionevolezza, nelquale si sostanzia - secondo la Giurispru-denza Costituzionale - il principio di ugua-glianza di cui all’art. 3.

Affiora, così, il dubbio sulla recente presadi posizione della Cassa Nazionale del No-tariato e, quindi, sulla scelta coraggiosa-mente preannunciata dal Presidente Pedraz-zoli.

La si può leggere, da un lato, come unospiacevole rifiuto e, dall’altro, come unaponderata e sofferta scelta di difesa, ormai,improcrastinabile, delle prerogative dellaCassa.

In questa stessa prospettiva e per megliocomprendere questa decisione è forse oppor-tuno interrogarsi su quale sia il compito cuideve adempiere un Consigliere nell’eserciziodelle sue funzioni.

Certamente non si tratta di un compitomeramente ragionieristico, per cui sarebbeauspicabile un “governo di tecnici” piuttostoche di notai, rappresentanti di una categoriache si aspetta una adeguata e forte azione tu-tela del suo Ente previdenziale.

Un ente che, nel suo secolo di vita, haprovveduto alla “cassa integrazione” autofi-nanziata e a tanti altri aspetti di welfare

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senza mai avanzare richieste allo stato, anzisurrogandosi nelle sue incombenze. A chi èdeputato a far applicare le regole ripugna, evi-dentemente, ogni forma di disobbedienza allalegge, ma in questo caso la problematica ap-pare estremamente complessa ed è proprio ilrispetto dell’ordinamento e dei suoi principi aorientare verso soluzioni diverse da quellache, altrimenti, concreterebbe una vera e pro-pria forzatura interpretativa.

Vi è, infatti, da considerare che la normasembra diretta esclusivamente alle pubblicheamministrazioni e che il richiamo all’elencoIstAt era stato vittoriosamente contestato in-nanzi al tAR.

D’altronde, i riferimenti ai costi da tagliarea cui fa riferimento la normativa in questione-sono dettati specificamente per le pubblicheamministrazioni e male si attagliano, quindi,a qualsiasi risparmio di spesa, come quello de-rivante dalla revisione delle competenze spet-tanti al personale assunto in regime priva-tistico.

Al cultore del diritto ripugna la confusionenella ratio, l’equivoco sul nomen (imposta,tassa, esproprio forzoso?), la sanzione in as-senza di una reale infrazione. Il tutto,peraltro,nei confronti di un Ente non profit che svolgeuna rilevante funzione sociale.

Per salvaguardare la Cassa, in modo effet-tivo, è quindi necessaria un’azione di fermaopposizione ai continui tentativi di ”espro-priazione” che mirano a colpirla. Il compito diun Consigliere inizia appunto da qui, dalla di-fesa di questa istituzione dello stato che di-sturba i poteri forti ed è oggetto, ormai damolti anni, di gelosie e invidie.

Le decisioni, ogni giurista ne ha consape-volezza, debbono essere prese soprattutto concoscienza. Occorre, quindi, al di là della letteradella norma e della considerazione degli ef-fetti mediatici e degli aspetti nozionistici, for-nire una risposta ferma e chiara che metta fineal progressivo depauperamento dell’autono-mia di una entità parte integrante di un si-stema “notaio” su cui pesano incompiutepicconate e facili strali di una demagogia be-cera e fuorviante. In un contesto del genere laquestione che si deve porre un Consiglierenon è più soltanto giuridica, quanto morale e,in ultima analisi, politica.

Provengo da un territorio già facente partedello stato pontificio e non posso non ricor-dare che anche un Papa, di fronte ad un or-dine palesemente ingiusto, dovette difendersicon un’affermazione che sembra attagliarsiperfettamente anche al nostro caso: “non dob-biamo, non possiamo, non vogliamo”.

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Prevenzione, sostegno al reddito in casodi involontaria disoccupazione, supporto allaricerca scientifica per la cura delle patologiepiù sottovalutate. ma anche velocità nei rim-borsi delle prestazioni, gratuità delle princi-pali azioni di screening, e una rete di oltre2.200 strutture convenzionate in forma direttain tutta Italia. Questi sono i punti di forzadel Fasi, il Fondo di categoria dei dirigentiindustriali. Il nostro ente di categoria, che datrentacinque anni orienta la propria azioneverso il benessere della classe dirigente diquesto Paese, oggi abbraccia uno spettro sem-pre più ampio di tutele all’interno di un cir-cuito bilaterale di relazione delineato da Con-findustria e Federmanager.

Di fronte al dato demografico di una po-polazione che invecchia, di fronte all’evi-denza di cure mediche sempre più costose edi un sistema sanitario nazionale seriamentecompromesso, la stessa funzione integrativache di natura spetta ai Fondi di assistenzaporta il Fasi ad assolvere un ruolo imprescin-dibile per la salute della collettività aziendalee, negli anni, a rispondere alle richieste di ol-tre 310mila assistiti Fasi, inclusi il coniuge e ifigli.

Per affrontare tali istanze, ci siamo resipromotori di un patto intergenerazionalestraordinario per il settore industriale: i ma-nager in attività si affiancano ai dirigenti inpensione e, grazie alla portata complemen-tare del FasiOpen, abbiamo aperto le nostretutele anche ad altre categorie di lavoratori.

Prendersi carico della salute di tutti è

l’espressione più alta concepita dai modellidi welfare aziendale e ci ha permesso di es-sere annoverati tra i Fondi sanitari integratividi categoria più grandi d’Europa.

sappiamo inoltre che il pagamento delleprestazioni sanitarie da parte dei cittadiniavviene ancora in larga parte “out of pocket”,con il ricorso al privato. Poiché siamo con-vinti che il circuito pubblico e privato sia vi-ziato da molte inefficienze, riteniamo essen-ziale assolvere il compito di “terzo pagante”;l’intermediazione economica del Fasi, infatti,ha dimostrato che è possibile recuperare unafetta di spesa privata sommersa, che sfuggealle statistiche e che duplica, per le presta-zioni garantite, quella pubblica. Non solo.Abbiamo anche comprovato che è possibileorganizzare le risorse e incanalarle per unaprotezione più ampia possibile e di qualità.

Negli ultimi anni abbiamo avviato impor-tanti programmi di potenziamento della no-stra struttura. sono aumentate a oltre 2.200le strutture sanitarie convenzionate in formadiretta e, per la prima volta nella sua storia,il Fasi ha compreso le Residenze sanitarie as-sistenziali (RsA) notoriamente dedicate allepersone anziane, non autosufficienti o privedel necessario supporto domiciliare. La sot-toscrizione di accordi specifici con i centri dicura consente notevoli risparmi di spesa: acarico degli iscritti rimane un minor costo eper gli assistiti la somma rimborsata in formadiretta è progressivamente maggiore rispettoai casi di prestazioni eseguite in forma indi-retta. Ed è immediatamente apprezzabile

Prospettive del FASI

Stefano CuzzillaPresidente del FASI

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quanto l’utilizzo degli accordi di convenzioneeserciti un’azione calmierante dei costi delleprestazioni, rispondendo proprio alla già ac-cennata esigenza di recuperare la spesa pri-vata sommersa e di farlo senza penalizza-zioni in qualità del servizio.

Questo è il motivo per cui è stato possibilededicare l’anno 2012 alla prevenzione. Oltreogni slogan, per il Fondo di assistenza sani-taria integrativa dei dirigenti industriali, in-tercettare i sintomi di patologie importantiprima che sia troppo tardi significa ottenereun grande risultato in termini di salvaguardiadella salute dei cittadini come in termini diinvestimento per la diffusione di una positivacultura costruita sul valore di una più altaqualità della vita.

Attivare un circuito virtuoso, innanzitutto,ma anche rendere accessibile il diritto allasalute. Come è stato per l’8 marzo 2012,giorno in cui abbiamo attivato due azioni perla profilassi del cancro alla cervice uterina e

per la prevenzione del cancro alla tiroide.tutti i pacchetti di prevenzione sono a com-pleto carico del Fasi e possono essere eseguitiproprio nelle strutture convenzionate ade-renti al progetto.

Nel 2011 sono state erogate complessiva-mente 260 milioni di euro di prestazioni sa-nitarie. ma al Fasi esiste un forte impegnoanche con la Gestione separata di sostegnoal Reddito (GsR-Fasi), che nasce nel 2006 pervolontà delle Parti sociali, in favore dei diri-genti che perdono il posto di lavoro e checon difficoltà crescenti cercano una ricollo-cazione professionalmente adeguata.

La combinazione di queste realtà di sup-porto sociale e categoriale che trovano nelnostro Fondo una sintesi innovativa ha datovita a quello che mi piace definire il “sistemaFasi”. Nell’ottica di un percorso di welfarecategoriale che, dalla previdenza all’assi-stenza, possa cingere tutti i grandi temi cheimpattano sulla classe dirigente del futuro.

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Francisco Goya, Il sonno della ragione produce mostri

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1. Introduzione

Il tentativo di trovare una giustificazione alpermanere nel nostro ordinamento dell’ art.270 c.p., e di distinguerlo dall’art. 270 bis c.p,ha condotto ad una pronuncia che desta nonpoche perplessità, anche in relazione alle sueimplicazioni sull’art. 270 bis: per la Cassazionenon basta, ad integrare la norma, che l’asso-ciazione si proponga atti di violenza a finalitàeversiva, ma occorre che tali atti abbiano “mo-dalità terroristiche”. A loro volta, gli attiavrebbero modalità terroristiche quando illoro obiettivo è casuale, esclusi, pertanto, gli“obiettivi di elezione”.

sulla base di questa interpretazione si è sta-bilito che le nuove brigate rosse-partito comu-nista politico militare (Pcpm), ritenuteresponsabili di aver incendiato la sede mila-nese di Forza Italia (2003) e padovana di ForzaNuova (2006), nonché di aver progettato il fe-rimento del manager della breda Vito schi-rone, un agguato al giuslavorista e senatorePd Pietro Ichino, e un attentato alla sede delquotidiano Libero, prima di essere fermate nel2007, non sono un’associazione con finalità diterrorismo e di eversione (art. 270 bis c.p.),bensì un’associazione sovversiva (art. 270 c.p.)che con la lotta armata intendeva perseguireesclusivamente obiettivi “di elezione” per ot-

tenere un effetto paradigmatico e innescaremeccanismi di emulazione. L’associazione è,invece, terroristica, quando è rivolta a colpireindiscriminatamente la popolazione per susci-tare terrore, panico e insicurezza.

Progettare un attentato alla sede di ungrande quotidiano nazionale e un agguato mi-rato a ferire o uccidere una persona assuntaquale rappresentante del capitalismo, secondoquesta nuova giurisprudenza non è terrori-smo. Il terrorismo, per la Cassazione, non èuna finalità ma un metodo. sul punto, la s.C.ammette di discostarsi dalla legge penale, inun passo che compendia la decisione: “Il ter-rorismo, invero, anche se qualificato come finalità(art. 270 bis, 280) o come scopo (art. 289 bis) nelcodice penale, non costituisce, in genere, un obiet-tivo in sé, ma, ovviamente, funge da strumento dipressione, da metodo di lotta, da modus operandiparticolarmente efferato [...]”.

2. I principi affermati

La Corte prende le mosse dalla Decisionequadro sul terrorismo e dall’art. 270 sexies, es’interroga sul rapporto tra l’art. 270 e l’art.270 bis rilevando, a tal fine, che entrambi pu-niscono associazioni dirette alla sovversione oeversione violenta dello stato. In ambo i casi

Una pronuncia della Corte di Cassazione

che desta perplessità

Roberta BarberiniSostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma

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è la violenza, cioè “l’utilizzo di un metodo nondemocratico” che fa “scivolare l’eversione nelcampo del penalmente rilevante”. La differenzatra le due fattispecie è individuata nel fattoche nella previsione dell’art. 270 il fine ever-sivo è perseguito dall’associazione attraversoatti di violenza “generica”; nell’art. 270 bis at-traverso atti di violenza “terroristica”, sicché laseconda norma è speciale rispetto alla prima.

L’espressione “finalità di terrorismo” è, perla Cassazione, da intendersi come equivalentea “metodo terroristico”. Il terrorismo “costitui-sce un mezzo o più correttamente una strategia,che si caratterizza per l’uso indiscriminato e poli-direzionale della violenza”. sarebbe, questa,“l’unica interpretazione che possa giustificare ilpermanere nell’ordinamento dell’art. 270 c.p., dopol’introduzione dell’art. 270 bis”.

3. Osservazioni generali

La pronuncia ha implicazioni sia sui rap-porti fra gli artt. 270 e 270 bis - la cui unica dif-ferenza, ove l’associazione si proponga il finedi eversione, consisterebbe nella natura dellaviolenza programmata, generica o terroristica(nella riportata accezione) - sia sugli elementicostitutivi dei due reati, ed in particolare del-l’art. 270 bis: non basta, ad integrare la norma,che l’associazione si proponga atti di violenzaa finalità eversiva, ma occorre che tali atti ab-biano modalità terroristiche, vale a dire ab-biano obiettivi casuali. Pertanto, l’art. 270 bisnon ha la finalità di eversione come autonomoed autosufficiente elemento costitutivo; nel-l’art. 270, invece, è la finalità di terrorismo anon essere elemento costitutivo.

La sentenza ha l’indubbio pregio di avereofferto una soluzione razionale ad una que-stione – quella del rapporto fra gli artt. 270 e270 bis – che si presentava come la quadraturadel cerchio. Deve inoltre darsi atto del fatto

che la definizione di terrorismo proposta cor-risponde all’immagine che segna il terrorismonel pensiero collettivo: i terroristi ricercanol’attenzione del pubblico attraverso lo shock,l’orrore e la paura; gli obiettivi sono aggreditiin modo da inibire l’autodifesa, e spesso nonsono selezionati, sono casuali.

La tesi, tuttavia, non convince. Essa, inol-tre, si presta ad indebite trasposizioni: esiste ilrischio, in effetti, che d’ora innanzi la finalitàdi terrorismo venga ritenuta, anche ai finidella competenza della DDA, per tutti gli attidi violenza che colpiscono la popolazione inmodo non selettivo.

I principi affermati andranno, quindi, va-gliati in tutte le loro implicazioni e confrontaticon la struttura del reato terroristico in gene-rale, e dei due reati associativi in particolare,ma anche – bisognerà pur dirlo – con la letteradella legge: stupisce, invero, la leggerezza conla quale la Corte riconosce di discostarsi, inmateria penale, dal dato testuale delle normeche essa si appresta ad applicare.

4. I precedenti normativi e giurisprudenziali:

a) gli artt. 270 e 270 bis c.p.

L’art 270 bis è stato analizzato in tutti i suoiaspetti dalla dottrina e dalla giurisprudenza,a partire dai cd. anni di piombo.

Dai meditati principi che si sono stratificatinegli anni, la s.C., questa volta, si discosta net-tamente.

Quando, nel 1979, fu introdotto l’art. 270bis - che allora faceva riferimento al solo finedi eversione dell’ordine democratico - la giu-risprudenza ne individuò il discrimen conl’art. 270, nella forma: specifica per l’art. 270,e generica nel caso dell’art. 270 bis. Ciò, natu-ralmente, con riferimento alla versionedell’art. 270 allora vigente, che definiva asso-ciazioni sovversive quelle miranti a stabilire

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violentemente la dittatura di una classe so-ciale, o a sopprimerla, e quelle dirette a sov-vertire con la violenza gli ordinamentieconomici e sociali costituiti nello stato o asopprimere ogni ordinamento politico e giu-ridico della società. Nel 2001 furono intro-dotte importanti innovazioni nell’art. 270 bis,la più rilevante delle quali, ai fini di questostudio, fu l’introduzione nel corpo dellanorma, del riferimento alla “finalità di terro-rismo” accanto a quella, preesistente, di ever-sione dell’ordine democratico.

Quando, nel 2006, il legislatore intervennesull’art. 270, l’occasione sarebbe stata preziosaper espungere la norma dal sistema. Ci si li-mitò, invece, ad eliminare le fattispecie stori-camente compromesse, come il riferimentoalla dittatura o alla soppressione di una classesociale, e furono, invece, mantenuti con iden-tica formulazione i due scopi più propria-mente “sovversivi”.

Il nuovo delitto di associazione sovversivanon risolveva affatto, pertanto, i problematicirapporti con l’art. 270 bis; al contrario, la rimo-dulazione degli scopi associativi rendeva an-cora più evidente la sovrapposizione tra ledue norme.

Il rapporto tra i due articoli si era, oltre-tutto, complicato ulteriormente dopo l’intro-duzione, nel 2005, dell’art. 270 sexies, cheaveva riempito di contenuti il riferimento alla“finalità di terrorismo” contenuto, a partiredal 2001, nell’art. 270 bis.

La norma in questa parte riproduceva pe-dissequamente, come è noto, il testo della De-cisione quadro sul terrorismo del 2002. Conriferimento, in particolare, ai rapporti conl’art. 270, l’art. 270 sexies acuì la difficoltà di in-dividuare l’elemento discriminante: invero, ladefinizione della finalità più propriamenteeversiva offerta dalla nuova norma (quella di“destabilizzare o distruggere le strutture poli-tiche fondamentali, costituzionali, economi-

che e sociali di un Paese o di un’organizza-zione internazionale”), ancor più si sovrap-pose a quella contenuta nell’art. 270.

b) la finalità di terrorismo o di eversione

Il nostro ordinamento individua la finalitàdi terrorismo o di eversione come elementocostitutivo di alcuni reati, e come circostanzaaggravante di tutti.

In alcuni casi la legge fa riferimento allasola finalità di terrorismo: ciò avviene negliartt. 270 quater (Arruolamento con finalità diterrorismo anche internazionale), 270 quin-quies (Addestramento ad attività con finalitàdi terrorismo anche internazionale) e 280 bis(Atto di terrorismo con ordigni micidiali oesplosivi). Nei reati ex artt. 270 bis e 280 (At-tentato per finalità terroristiche o di ever-sione), invece, si fa riferimento ad entrambe lefinalità, così come nell’aggravante della fina-lità di terrorismo o di eversione.

benchè la distinzione concettuale tra la fi-nalità di terrorismo e quella di eversionedell’ordinamento costituzionale sia tradizio-nale nella giurisprudenza e dottrina italiane,già a partire dal 2002 la giurisprudenza avevadovuto prendere atto dei riverberi della ado-zione della Decisione quadro sulla definizionedi finalità di terrorismo, ed in particolare delfatto che essa era stata ricondotta dallo stru-mento a nozione unitaria, benché distinta intre species, due propriamente terroristiche eduna eversiva.

ma la vera svolta si ebbe quando la Deci-sione quadro fu riversata pedissequamentenell’art. 270 sexies, e la nozione penalmente ri-levante di finalità terroristica ne risultò corri-spondentemente modificata. L’appiattimentosulla norma europea fu cieco, con le inevita-bili, negative conseguenze: per il legislatoreeuropeo, infatti, la finalità di eversione era untutt’uno con quella più propriamente terrori-stica, e ciò contrastava con la risalente tradi-

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zione giuridica italiana che, invece, teneva bendistinta, anche nella formulazione di alcunireati, la finalità di eversione da quella terrori-stica. In questo modo, invece, entrambe fu-rono accomunate sotto la rubrica “Condottecon finalità di terrorismo”, e la finalità di ever-sione divenne una species del genus terrorismo.Il tutto si riversò sul preesistente art. 270 bis esulle altre norme che facevano espresso riferi-mento sia alla finalità di terrorismo che aquella di eversione, il cui titolo e contenuto,divennero, anche a prescindere da ogni altraconsiderazione, intrinsecamente incoerenti(perché la finalità di eversione ne risultò ri-chiamata sia direttamente, che, per quantodetto, indirettamente).

L’oramai compiuta definizione della fina-lità più propriamente terroristica, come quelladi “intimidire la popolazione o costringere ipoteri pubblici o un’organizzazione interna-zionale a compiere o ad astenersi dal compiereun qualsiasi atto” comportò il superamentodell’ interpretazione che la giurisprudenzaaveva, in precedenza, offerto, dell’espressione“finalità di terrorismo” contenuta nella leggepenale italiana. Da quel momento la Cassa-zione fece esclusivo riferimento alla letteradell’art. 270 sexies nell’individuazione del re-quisito.

si noti che la finalità terroristica non ve-niva, nell’interpretazione giurisprudenziale,associata necessariamente ad azioni violente:le sezioni Unite avevano, infatti, modo di af-fermare, con riferimento all’aggravante speci-fica, che la finalità di terrorismo puòqualificare qualsiasi condotta illecita ed è anziconfigurabile – come riaffermato recente-mente - anche con riferimento ad azioni dimo-strative e non necessariamente cruente, poichél’aggravante attiene al “profilo teleologico del-l’azione” e non al “metodo adottato nella con-dotta”.

5. Analisi:

a) il terrorismo come modalità della condotta

L’affermazione secondo la quale la finalitàterroristica, ad onta del dato letterale, sarebbeun elemento strutturale dell’atto di violenza,non appare conciliabile con quanto da giuri-sprudenza e dottrina è stato, come visto, affer-mato in relazione alla struttura del reatoterroristico. Emerge da trentennale elabora-zione giurisprudenziale e dottrinale che è lafinalità a qualificare il reato terroristico e che,pertanto, qualunque condotta illecita diventaterroristica sol che essa sia strumentalmenterivolta a perseguire i fini di terrorismo edeversione e sia, inoltre, idonea a raggiungerelo scopo.

In precedenza non si era mai “sovrapposto econfuso il piano metodologico della condotta ever-siva con il profilo teleologico della stessa”.Le s.U.,d’altra parte, erano state chiare nello stabilireche la finalità di terrorismo “non può dissociarsidalla specifica finalità perseguita dall’autore delreato” e quindi “non inerisce alla struttura delreato, che in sé non esprime il pericolo dell’ever-sione, né un’ontologica propensione a suscitare ter-rore”. Per le s.U. non esistevano, pertanto,condotte ontologicamente o strutturalmenteterroristiche.

La distinzione tra atto e finalità è, d’al-tronde, chiara sia nelle norme penali interne,compreso l’art. 270 sexies, sia negli strumentiinternazionali, a cominciare dalla Decisionequadro e dalla Convenzione contro il finanzia-mento del terrorismo. D’altra parte, se la fina-lità di terrorismo si può accompagnare anchead atti non violenti - come è pacifico nel casodell’aggravante - essa non è collegabile, con-cettualmente, alla natura della violenza e nonpuò, quindi, essere considerata una modalitàdell’atto violento.

Vi è, comunque, il dato letterale: tutte le

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norme in materia di terrorismo lo qualificanocome finalità. se si considera che la Corte haespressamente affermato di volersi disco-stare dal dato testuale, e che la sentenza dicondanna per il reato ex art. 270 bis è stata an-nullata proprio in forza di tale, libera inter-pretazione dell’espressione “finalità diterrorismo” contenuta nella legge, sembrainevitabile esprimere qualche perplessitàcirca il rispetto, da parte della Corte, del prin-cipio di legalità.

b) gli obiettivi casuali e di elezione

se già non è condivisibile, per quanto si èdetto, la tesi che qualifica il terrorismo comeuna modalità della condotta, tantomeno puòconcordarsi sul fatto che tale modalità consi-sta, tipicamente, nel colpire in modo casualela popolazione; in altre parole, che ciò che ca-ratterizza la condotta terroristica sia l’obiet-tivo: casuale e non di elezione.

In effetti, se è vero che il terrorista fre-quentemente utilizza la tattica di colpire lapopolazione con attacchi indiscriminati, èanche vero che la violenza contro obiettivisimbolici è, storicamente, strategia altrettantoutilizzata.

Per converso, la violenza indiscriminata èutilizzata anche da criminali diversi dai ter-roristi: da serial killer, da fanatici che sparanosulla folla o nelle scuole, da gente che per di-vertimento lancia massi dai cavalcavia sullemacchine che passano di sotto ecc. Non sem-bra possa affermarsi, pertanto, che la vio-lenza con obiettivo casuale sia tipica delterrorista.

Ciò che, piuttosto, caratterizza la condottaterroristica è il suo carattere politico in sensolato, il fatto, cioè, di essere rivolta contro lostato: se non vi è l’obiettivo di colpire lostato, non vi è terrorismo, anche se la popo-lazione è terrorizzata. Il terrorista è colui che

esercita, nei confronti dello stato, una minac-cia qualificata in un determinato momentostorico. La modalità è indifferente, purché lacondotta sia idonea. Un attacco indiscrimi-nato contro la popolazione (ad esempio unabomba collocata in luogo molto frequentato,come un mercato) è, generalmente, idoneo aperseguire il fine eversivo di un singolo o diun gruppo; non sembra, tuttavia, che tale ca-ratteristica possa essere, come vorrebbe laCorte, negata in via di principio all’attaccoalla sede di un quotidiano o di un partito, oal più subordinata – probatio diabolica – allaprova che l’agente accettava, o si accingevaad accettare, il rischio di vittime collaterali.

La tesi in base alla quale non vi è terrori-smo se l’obiettivo è di elezione, se applicata– come sembra inevitabile – a reati diversi daquelli associativi, conduce, d’altra parte, allaparadossale conseguenza di escludere dallanozione tutti quei reati che, pur essendo de-finiti dalla legge come terroristici, e tali con-siderati nella coscienza collettiva, sono,tuttavia, ontologicamente rivolti controobiettivi di elezione: l’attentato alla vita diuna persona (art. 280 c.p.), il danneggia-mento di cose mobili o immobili altrui conesplosivi (280 bis); il sequestro di persona(289 bis) sarebbero cancellati, applicandoquesta tesi.

ma considerazioni analoghe valgonoanche con riferimento ai reati associativi: seè vero che l’aggressione a vittime di elezioneintegra, secondo questo insegnamento, ilreato ex art. 270 ove l’associazione abbia fi-nalità di eversione, la tesi lascia, invece, prividi disciplina i casi in cui l’associazione per-segua, con le stesse modalità, non la finalitàdi eversione, bensì una finalità propriamenteterroristica, quali quelle indicate nell’art. 270sexies: “intimidire la popolazione o costrin-gere i poteri pubblici a compiere o ad aste-

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nersi dal compiere un qualsiasi atto”. Ciò adesempio avverrà nel caso, molto frequente, incui il gruppo chieda il rilascio di prigionieri,in cambio della liberazione di un personaggiodi rilievo (indubbio obiettivo di elezione): èquanto avvenne quando le vecchie bR rapi-rono Aldo moro. In casi di questo tipo la vio-lenza non sarebbe, secondo l’accezione dellaCorte, “terroristica” e quindi l’organizzazioneche si proponesse atti di tal genere non viole-rebbe l’art. 270 bis. E tuttavia, neppure l’art.270 sarebbe violato, perché la norma non con-templa la finalità di terrorismo come elementocostitutivo.

Deve concludersi, per tutto quanto è statodetto, che qualunque atto di violenza, e non

solo quelli a vittima indiscriminata, valga adintegrare l’art. 270 bis. Anche qui va richia-mato il dato letterale, che appare ineludibileversandosi in materia penale: la norma non in-troduce distinzioni circa l’obiettivo degli atti;qualunque atto di violenza, contro chiunqueo qualunque cosa diretto, integra l’art. 270 bis,sempre che la sua finalità sia terroristica oeversiva. L’interpretazione della Corte con-duce a restringere arbitrariamente il campo diapplicazione della norma.

In ogni caso, dopo l’introduzione dell’art.270 sexies, non appaiono più consentite libereinterpretazioni delle nozioni di condotta e difinalità terroristica. La definizione formulatadal legislatore è più estesa di quella sulla base

Antonio Canova, Allegoria della Giustizia

Francisco Goya, I disastri della guerra

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della quale doveva operare l’interpreteprima della modifica ed a maggior ragionenon si possono, ora, introdurre distinzioni –come quella sulla qualità della vittima – ine-sistenti nell’art. 270 sexies. Inoltre, ogni rife-rimento, nell’interpretazione della nozione diterrorismo, al panico o al terrore della popo-lazione ed altre caratteristiche considerate es-senziali dalla Corte, è stato superatodall’oramai compiuta definizione della fina-lità più propriamente terroristica, comequella di “intimidire la popolazione o co-stringere i poteri pubblici o un’organizza-zione internazionale a compiere o adastenersi dal compiere un qualsiasi atto” con-tenuta nell’art. 270 sexies..

c) il rapporto tra gli artt. 270 e 270 bis

si possono trarre, da quanto si è detto, leconclusioni in merito ai rapporti tra i reati di“Associazioni sovversive” (art. 270) e di “As-sociazioni con finalità di terrorismo anche in-ternazionale e di eversione dell’ordinedemocratico” (art. 270 bis).

Come si è visto, l’attenzione di chi cercavadi individuare il discrimen tra le due normesi era sempre, in precedenza, concentratasulla sola finalità di sovversione/eversione,individuata giustamente come unico puntodi interferenza fra le due disposizioni, equindi di criticità: nel solo art. 270 bis infatti,la finalità terroristica è, a partire dal 2001,uno degli elementi costitutivi del reato.

Ci si sarebbe aspettati che, una voltaesclusa, nel caso concreto, la finalità terrori-stica dell’associazione, l’argomento terrori-smo fosse espunto, logicamente, dall’inda-gine diretta ad individuare quale norma ap-plicare nel caso concreto. La Corte avrebbedovuto risolvere la questione concentrandosi- come sempre in precedenza - sul solo ele-mento della finalità eversiva, che invece nellaspecie risultava provato.

Invece, il s.C. ha fondato sulla nozione diterrorismo, e non su quella di eversione, ilcriterio discretivo tra i due articoli, traendonele note conclusioni: nell’art. 270 la violenza ègenerica, nell’art. 270 bis è terroristica, nellapiù volte richiamata accezione. Per il resto,sia il fine eversivo che gli atti di violenzasono elementi comuni ai due reati. se un’as-sociazione ha provata finalità eversiva e sipropone di compiere atti di violenza non ri-volti a colpire la popolazione in modo ca-suale, il reato integrato è l’art. 270.

Quanto detto in precedenza esauriscegran parte del commento sul punto. Quibasti aggiungere un’osservazione: l’espres-sione “violenza generica”, che la Corte rife-risce all’art. 270, si direbbe, a prima vista,molto ampia, visto che nell’ottica delle sen-tenza essa ricomprende, per esclusione, tuttele forme di violenza diverse da quella terro-ristica. Poiché, tuttavia, per la Cassazione laviolenza terroristica è solo quella rivolta con-tro obiettivi casuali, a ben vedere l’espres-sione “violenza generica” ha, qui, il signi-ficato di “violenza rivolta contro obiettivi dielezione”: in effetti, l’obiettivo di un atto diviolenza – che si tratti di un essere umano odi una cosa – può essere solo o casuale o dielezione. Tertium non datur.

Deve concludersi che, per la s.C., l’unicoelemento che distingue i due delitti è che l’as-sociazione eversivo/terroristica ha obiettivicasuali, e quella sovversiva ha obiettivi dielezione. Anche a prescindere dalla conside-razione, già esposta, che l’interpretazione la-scia privi di disciplina i casi in cui l’as-sociazione persegua, attraverso l’attacco aobiettivi di elezione, non la finalità di ever-sione, bensì una finalità propriamente terro-ristica (perché né l’art. 270 bis, né l’art. 270potrebbero trovare applicazione), è facile os-servare che nelle due norme e nel sistemanon vi è alcun appiglio nella direzione indi-

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cata dalla sentenza.tanto premesso, è difficile dire, per chi non

concordi con la soluzione adottata dalla Corte,se le norme abbiano conservato uno spazio diautonomia, diverso da quello qui proposto, esu quale base. Per quanti sforzi interpretativisi facciano, il rapporto tra gli artt. 270 e 270 bissi presenta come la quadratura del cerchio: ledue norme hanno analoga struttura, sono nul-l’altro che associazioni per delinquere con-traddistinte dalla particolare tipologia deireati per il cui compimento vengono formate.

Il ritenere, come fa la Cassazione, che il le-gislatore abbia mantenuto l’art. 270 nel nostroordinamento, perché consapevole, anchedopo l’introduzione dell’art. 270 sexies, deglispazi di autonomia che la norma conservava,significa, forse, tributargli troppo onore.

Piuttosto, è forse giunto il momento diporre nuovamente in dubbio, a distanza dianni, la legittimità costituzionale degli artt.270 e 270 bis, sul rilievo che ambedue le normeparrebbero consentire sanzioni plurime dellastessa condotta, ovvero su quello della irragio-nevolezza della maggior pena comminata dal-l’art. 270 bis, se confrontata con quella dell’art.270. Ambo le questioni come è noto, furonodichiarate infondate dalla Cassazione, masulla base di testi normativi differenti. Inve-stire della questione la Corte costituzionale

potrebbe contribuire a chiarire i punti lasciatiirrisolti da questa sentenza.

NOte

1 sez.V, n. 12252 del 23.2.2012.2 Decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il ter-rorismo 2002/475/GAI. 3 è cronaca recente, che l’aggravante della finalità terro-ristica sarebbe stata contestata con riferimento all’atten-tato alla scuola di brindisi, sulla sola base del criteriodella casualità dell’obiettivo, ed in assenza di elementiche conducano a ritenere che l’attentato abbia finalitàpolitica. 4 Con l’art. 3 del D.L. 15 /12/ 1979, n. 625. Il testo intro-dotto dal DL del ’79 era il seguente: “Chiunque pro-muove, costituisce, organizza o dirige associazioni chesi propongono il compimento di atti di violenza con finidi eversione dell’ordine democratico è punito con la re-clusione da sette a quindici anni. Chiunque partecipa atali associazioni è punito con la reclusione da quattro adotto anni”. 5 Con l’art. 2 della L. 24/2/2006 n. 85.6 Art. 15, comma 1 del D.L. 27 luglio 2005, n. 144, conver-tito, con modificazioni, nella L. 31 luglio 2005, n. 155.7 Art. 1 D.L.15 dicembre 1979, n. 625, convertito in L. 6febbraio 1980, n. 15. 8 s. U., n. 2110 del 23/11/1995, Rv 203770. 9 sez I n. 8069 del 11/2/2010, RV 246122. 10 s. U., n. 2110/1995 cit. 11 Questione dichiarata manifestamente infondata dasez. 1 n. 6952 /1987,cit. 12 Dichiarata manifestamente infondata da sez. 1,27/10/1988, in Questa Rivista, cit.

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Pubblicità e professione forense sembre-rebbero appartenere ad universi inconciliabili.

Eppure, l’articolo 4 del D.P.R. n. 137 del2012 ammette la pubblicità “informativa”,avente ad oggetto “l’attività delle professioniregolamentate, le specializzazioni, i titoli posse-duti attinenti alla professione, la struttura dellostudio professionale e i compensi richiesti per leprestazioni”.

Il ‘via libera’ ad “ogni mezzo” di pubblicitàtrova, pertanto, un ridimensionamento natu-rale nella finalità, esclusivamente informa-tiva, della stessa e nella sua rispondenza averità e correttezza. Il secondo comma delmenzionato disposto aggiunge, inoltre, chela pubblicità non può essere equivoca, ingan-nevole o denigratoria né violare l’obbligo delsegreto professionale.

Chiara è, pertanto, l’intenzione del legisla-tore di assoggettare la pubblicità dei profes-sionisti ad un doppio ordine di limiti, quellidiscendenti dalla disciplina della concor-renza e quelli, connaturali alle professioni“regolamentate”, che scaturiscono dai fonda-mentali doveri deontologici.

Per individuare il primo ordine di limiti,è necessario guardare al d.lgs. n. 206 del 2005e al d.lgs. n. 145 del 2007, entrambi richiamatidal terzo comma dell’articolo 4 D.P.R. n.137/2012.

In particolare, il d.lgs. n. 145 del 2007, po-nendosi nella prospettiva dei rapporti tra im-prenditori, delinea una disciplina compiutadella pubblicità ingannevole e comparativa.Dopo aver stabilito che la pubblicità deve es-sere palese, veritiera e corretta (art. 1, c. 2d.lgs. cit.), definisce ingannevole qualsiasipubblicità idonea a indurre in errore i sog-getti cui è rivolta e, così, a pregiudicare il lorocomportamento economico o a ledere unconcorrente (art. 2, c. 1, lett. b) d.lgs. cit.) ecomparativa quella che, esplicitamente o im-plicitamente, identifica un concorrente o ibeni o servizi da quest’ultimo offerti (art. 2,c. 1, lett. b) d.lgs. cit.). Fermo restando il di-vieto della pubblicità ingannevole, che rien-tra appieno tra gli atti di concorrenza sleale,la pubblicità comparativa, la cui liceità era,in passato, controversa, viene, a determinatecondizioni, ammessa. stando, infatti, all’arti-colo 4 del d.lgs. n. 145/2007, la comparazioneè lecita se si fonda su dati veri e oggettiva-mente verificabili, non ingenera confusionesul mercato, non denigra o arreca discreditoal concorrente, né procura all’autore dellapubblicità un indebito vantaggio discen-dente dall’altrui notorietà.

Del d.lgs. n. 206 del 2005 rilevano gli arti-coli 18-27, che disciplinano le pratiche com-merciali scorrette nei confronti dei consu-

Pubblicità e professione forense

Andrea GiordanoAvvocato del Foro di Roma, Dottore di Ricerca in Diritto Processuale Civile

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matori. se, infatti, la disciplina della concor-renza rientra nello statuto generale dell’im-prenditore e tutela, solo indirettamente, gliutenti, il codice del consumo, come integratodal d.lgs. 2 agosto 2007, n. 146, preceduto dald.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 e già dal Codicedi autodisciplina pubblicitaria, li tutela in viadiretta. La salvaguardia dell’interesse dei con-sumatori passa, anzitutto, attraverso l’indivi-duazione delle pratiche commerciali scorrette,ossia contrarie a diligenza professionale (art.20 cod. cons.), ingannevoli, idonee ad indurrein errore il consumatore medio, facendogli as-sumere decisioni commerciali che altrimentinon avrebbe preso (art. 21 cod. cons.), e ag-gressive, idonee a limitare, mediante molestieo altri mezzi coercitivi, la libertà di scelta o dicomportamento del consumatore medio,anche in questo caso inducendolo ad assu-mere decisioni commerciali diverse da quelleche avrebbe preso (art. 24 cod. cons.). All’elen-cazione delle pratiche segue l’armamentariodei rimedi: l’Autorità garante della concor-renza e del mercato, d’ufficio o su istanza diogni interessato, inibisce la continuazionedelle pratiche commerciali scorrette, compresigli atti di pubblicità non veritiera, e ne eliminagli effetti, disponendo l’applicazione di signi-ficative sanzioni amministrative pecuniarie(art. 27 cod. cons.).

Non può, pertanto, dirsi illimitata la facoltàdell’avvocato di pubblicizzare la propria at-tività: pur non potendosi in toto assimilare lalibera professione all’intrapresa di un’attivitàeconomica, uno strumento, come quello pub-blicitario, tipico di quest’ultima è, in ogni caso,soggetto ai limiti imposti dalla libertà di ini-ziativa economica e dall’interesse dei consu-matori. Dalla necessità di salvaguardare ilmeccanismo concorrenziale discende il di-vieto della pubblicità ingannevole; quanto allapubblicità comparativa, la stessa, lecita alle ri-chiamate condizioni, non può comunque con-

trastare con il Codice Deontologico, special-mente con l’art. 17, di cui si dirà infra. L’impre-scindibile esigenza di tutelare gli utenti osta,inoltre, alle informazioni contrarie a diligenzaprofessionale, o tali da indurre in errore ilcliente medio o da coartare la sua libertà discelta.

Il quadro va integrato alla luce dei principideontologici su cui si fonda lo statuto delleprofessioni regolamentate e, nella specie, diquella forense.

Il secondo comma dell’art. 4 D.P.R. n.137/2012 fa riferimento al divieto, contenutonell’art. 17, c. 3, del Codice Deontologico fo-rense, di informazioni pubblicitarie concer-nenti notizie riservate o coperte dal segretoprofessionale. tuttavia, quanto dispone l’arti-colo in commento non esaurisce il contenutodegli articoli 17 e 17- bis del Codice Deontolo-gico, né si sovrappone ai principi generali con-tenuti negli articoli 5 e seguenti del medesimoCodice.

Come è noto, la liberalizzazione dell’infor-mazione pubblicitaria, un tempo ritenuta con-forme a criteri mercantili antitetici al prestigiodella professione forense, ha avuto sì pienoavallo all’indomani della nota sentenza dellaCorte suprema Federale, Bates c. State Bar ofArizona (27 giugno 1977, in Foro it., 1978, V,273), ma a condizione che non si scalfissero idoveri di probità, dignità, decoro, lealtà, cor-rettezza e segretezza che dovevano, e devono,in ogni caso, informare il contegno dell’avvo-cato.

In particolare, come recita l’articolo 17, l’av-vocato può dare informazioni sulla propria at-tività professionale, purché forma e contenutodelle notizie rispondano a criteri di traspa-renza e veridicità e siano coerenti con la fina-lità di tutela dell’affidamento dei terzi. Leinformazioni devono, in ogni caso, essere cor-rette e fedeli a verità. Essendo tenuto al se-greto professionale, l’avvocato non può mai

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divulgare notizie riservate o coperte dal se-greto professionale né può, per la stessa ra-gione, rivelare al pubblico il nome dei propriclienti, ancorché questi vi consentano. Formae modalità dell’informazione devono rispet-tare dignità e decoro della professione; non èconsentita la pubblicità ingannevole, elogia-tiva o comparativa.

Il successivo articolo 17- bis scende neldettaglio dei contenuti, distinguendo tra datiobbligatori e facoltativi. Ove si intenda infor-mare in merito all’attività professionale, è ob-bligatorio indicare la denominazione dellostudio, i nominativi dei professionisti che locompongono, il Consiglio dell’Ordine pressoil quale è iscritto ciascuno dei componenti, lasede principale di esercizio, le eventuali sedisecondarie, i recapiti, compreso il sito web, seattivato, il titolo professionale che consentaall’avvocato straniero l’esercizio in Italia, oall’avvocato italiano l’esercizio all’estero.Dati facoltativi sono, invece, i titoli accade-mici, i diplomi di specializzazione conseguitipresso gli istituti universitari, l’abilitazione aesercitare avanti alle giurisdizioni superiori,i settori di esercizio dell’attività professio-nale, le lingue conosciute, il logo dello studioe l’eventuale certificazione di qualità di que-st’ultimo. Pur risultando ancora facoltativa,deve, tuttavia, ritenersi obbligatoria, a frontedell’articolo 5 D.P.R. n. 137/2012, l’indica-zione degli estremi della polizza assicurativaper la responsabilità professionale. All’elencovanno aggiunti i dati, contenuti nell’articolo4, e, in particolare, attinenti alla strutturadello studio e ai compensi professionali.

C’è da chiedersi se, a fronte del tenoredegli articoli 17 e 17- bis del Codice Deonto-logico, residui ancora spazio per informa-zioni altre da quelle testualmente previste.

Ove, infatti, stante l’elencazione ex art. 17-bis, si ritenesse vietato tutto ciò che non èespressamente consentito, anche la portata

applicativa dell’art. 4 D.P.R. n. 137/2012 neuscirebbe compressa.

se, de jure condendo, potrebbe apparire op-portuno il transito dall’enunciazione anali-tica di cui all’art. 17- bis Cod. Deontologicoad un’enunciazione generica delle informa-zioni pubblicitarie, mutuando l’attuale for-mulazione delle Model Rules of ProfessionalConduct statunitensi (v. la Rule 7.1, per laquale “A lawyer shall not make a false or mislea-ding communication about the lawyer or the la-wyer’s services […]”), è innegabile che lepeculiarità di una libera professione – maidel tutto riducibile all’attività di impresa – ri-chiedano un adeguamento della disciplinaconcernente la pubblicità commerciale. Nonbasta che la pubblicità sia palese, veritiera ecorretta o, comunque, conforme a quantoprescritto dai decreti legislativi 145 del 2007e 206 del 2005, ma è necessario che la finalitàdella diffusione di notizie sia esclusivamenteinformativa e che venga, in ogni caso, preser-vato il segreto professionale, dovendosi vie-tare non solo la diffusione dei dati con-cernenti le singole controversie, ma anche deiclienti che abbiano conferito mandato. Nono-stante nulla dica, sul punto, l’articolo 4 delD.P.R. n. 137 del 2012, va revocata in dubbiol’ammissibilità della pubblicità elogiativa odella stessa pubblicità comparativa, ancorchérispettosa delle condizioni poste dal d.lgs. n.145 del 2007. Pur nel silenzio dell’articolo 4,è altrettanto importante che la pubblicità siaadeguata al rilievo della professione svolta,mai oltrepassando i limiti imposti da dignitàe decoro.

se un coordinamento tra la novella del2012, la normativa sulla pubblicità commer-ciale e i principi deontologici avrebbe aiu-tato, anche per comprendere che valoreabbia, in jure condito, la distinzione tra datiobbligatori e facoltativi ex art. 17- bis del Cod.Deontologico e come si collochino, in siffatto

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elenco, le ulteriori informazioni contemplatedall’art. 4, c. 1, D.P.R. n. 137 del 2012, restal’impossibilità di modellare la, pur legittima,sponsorizzazione del sé professionale sulla ré-clame di un qualsiasi prodotto, per lo più fun-gibile con molti altri, e, in ogni caso, astratto

dalle circostanze concrete e dalla complessitàcangiante dei rapporti interpersonali. Cosifi-care la prestazione d’opera, appiattendola auna merce qualunque, svilirebbe, insieme adignità, probità e decoro, la stessa identitàdella professione forense.

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Oggetto di uno specifico obbligo per il le-gislatore ordinario che tale valore deve “as-sicurare” ad “ogni” processo, il principiodella ragionevole durata si presta ad incideresull’organizzazione tecnica delle proceduree sul funzionamento della macchina giudi-ziaria. spetta all’organo legislativo dare alprocesso un assetto strutturale idoneo ad as-sicurare la maggiore dinamicità possibile alsuo incedere e fornire alla giustizia le risorseed i mezzi appropriati per garantire una «ra-gionevole intensità di lavoro di tutti gli ad-detti al settore»1.

La ragionevole durata, però, si rivolgeanche alla Corte costituzionale, la qualedovrà applicarla e concretizzarla ogniqual-volta verrà invocata come norma-parametroin sede di sindacato incidentale di costituzio-nalità delle leggi2. La disposizione che preve-desse «tempi lunghi, inutili passaggi di attida un organo all’altro, formalità superflue enon giustificate da esigenze repressive né dagaranzie difensive»3, da questo punto divista, sarebbe condannata alla declaratoria diincostituzionalità.

è punto, tuttavia, controverso se il princi-pio in questione, travalicando i confini anzi-detti4, possa dimostrarsi capace di esprimereuna forza assai più penetrante di quella finora riconosciutagli, al punto da porsi qualefaro dell’interpretazione giurisprudenziale

della disciplina ordinaria. La risoluzione ditale nodo passa anche, com’è ovvio, daun’analisi sulla stessa opportunità di asse-gnare un tale compito alla ragionevole du-rata e, in definitiva, sul ruolo che allafunzione giurisprudenziale stessa si vogliaattribuire.

sviluppando la visione “programmatica”del principio in questione5, si è portati a ri-tenere che la giurisprudenza abbia, sulpunto, angusti spazi di manovra interpreta-tiva. Ne discende come corollario che, difronte ad una norma in patente contrastocon il principio di ragionevole durata, algiudice spetti soltanto il compito di rimet-tere la questione alla Corte costituzionale,essendogli precluso in radice qualsiasi po-tere “creativo” o “abrogativo”. tale scena-rio, oltretutto, sembra confermato dal tenoreletterale dell’art. 111 Cost. che, nel rivolgersial solo legislatore, tende ad escludere l’in-tromissione di altri organi nella delicataopera di attuazione del principio.

Non a questa impostazione, invece, ac-cede la giurisprudenza ordinaria che, in os-sequio alla sua funzione esegetica deglienunciati normativi, tende ad attribuire si-gnificati ad enti cui conviene un’attribuzionedi significato6, e che proprio sull’argomentodel rango costituzionale della ragionevoledurata fa leva per proporre nuove letture

La ragionevole durata nella giurisprudenza

Giulio GarofaloDottore in Giurisprudenza, Cultore di Diritto Processuale Penale

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delle disposizioni codicistiche.Ne fornisce un significativo esempio la spe-

ciale attenzione che la giurisprudenza riservaal tema della nullità degli atti processuali, inparticolare delle nullità assolute; un’accura-tezza che può trovare la sua ragion d’esserenella capacità di tale istituto di produrre laconseguenza più nefasta per ogni sorta di pro-cedere: la regressione.

A dire il vero, il problema non è nuovo7, matrae rinnovata linfa dalla positivizzazione delprincipio di ragionevole durata che, secondoi più, ha donato cittadinanza costituzionaleanche al principio di economia processuale,quantomeno nella sua componente “interna”8.Ciò significa che, nell’ambito di ciascun pro-cesso, deve attuarsi un risparmio di energie erisorse, nell’esercizio delle attività delle partie del giudice, che miri all’economia di tempie di spese. In tema di “atti”, quanto appena so-stenuto si traduce nella ricerca degli strumentigiuridici idonei a scongiurare gli effetti demo-litori delle nullità, che la giurisprudenza indi-vidua nei moduli di conservazione dell’attonullo, forse perché «lo studio del tema dellesanatorie getta luce sul fenomeno del proce-dimento in quanto tale, poiché l’esistenza dimeccanismi interni al processo, volti all’elimi-nazione della rilevanza dei singoli vizi, raf-forza e rischiara il concetto di serialità degliatti cronologicamente e funzionalmente colle-gati verso un medesimo fine»9.

A tal proposito, le sezioni Unite della Cas-sazione10 hanno, di recente, stabilito che, intema di notificazione della citazione dell’im-putato, la nullità assoluta ed insanabile, pre-vista dall’art. 179 c.p.p., ricorra soltanto nelcaso di notificazione omessa oppure nella cir-costanza in cui, eseguita la notificazione se-condo schemi irrituali, risulti inidonea alla suafunzione conoscitiva. La nullità medesima,stando alla Corte, non ricorre, invece, se vi siastata solo la violazione delle regole sulle mo-

dalità di esecuzione, alla quale consegue l’ap-plicabilità della sanatoria prevista dall’art. 184c.p.p. In particolare, la decisione ha affermatoche la notificazione della citazione dell’impu-tato effettuata presso il domicilio reale nellemani di persona convivente – anziché pressoil domicilio eletto – non integri necessaria-mente l’omissione della notificazione, ma dialuogo ad una nullità di ordine generale aisensi dell’art. 178 lett c) c.p.p.; perciò soggettaalla sanatoria speciale di cui all’art. 184comma 1, alle sanatorie generali di cui all’art.183, alle regole di deducibilità di cui all’art.182, nonché ai termini di rilevabilità previstidall’art. 180 c.p.p. Ciò, però, alla condizioneche non appaia in astratto, o risulti in con-creto, inidonea a determinare la conoscenzaeffettiva dell’atto da parte del destinatario:solo in questo caso, a detta delle sezioni Unite,sarebbe integrata la nullità assoluta ed insana-bile di cui all’art. 179 comma 1 c.p.p., rileva-bile in ogni stato e grado del giudizio.

La pronuncia tiene a specificare che, nelcaso in cui la notificazione in forma diversa daquella prescritta non abbia conseguito loscopo di portare l’atto a conoscenza dell’im-putato, questi, se vuole far valere la nullità as-soluta, non può limitarsi a denunciarel’inosservanza della norma processuale madeve anche rappresentare al giudice di nonaver avuto conoscenza dell’atto, avvalorandola sua affermazione con elementi che la ren-dano credibile11.

La decisione, nelle sue linee generali, ap-pare animata dall’intento di contenere gli ef-fetti “formalistici” – e non “formali” – dellesanzioni processuali, onde evitare che la de-duzione e la rilevazione di nullità non stretta-mente riconducibili al paradigma dell’art. 179comma 1 c.p.p. possano determinare, senzaragione, «un prolungamento della vicendagiudiziale, in contrasto con l’art. 111 comma 2Cost»12. Eppure, la sentenza citata desta più di

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una perplessità laddove introduce un’ineditacausa di sanatoria per “raggiungimento delloscopo” che, non prevista espressamente dallalegge né sufficientemente desumibile dal si-stema degli atti processuali penali, risulta incontrasto con il principio di tassatività previ-sto dall’art. 177 c.p.p. senza tacere che nonpuò considerarsi raggiunto lo “scopo” del-l’atto di citazione a giudizio per il solo fattoche l’imputato sia comparso; dato, semmai,sintomatico solo del fatto che la parte ha co-nosciuto, in qualsiasi modo, gli estremi validialla sua presenza fisica in giudizio: luogo,giorno e ora dell’udienza. Eppure, in confor-mità alla sua funzione di instaurare valida-mente il contraddittorio, la vocatio in iudiciumingloba una serie di requisiti che non possonodesumersi raggiunti dalla sola presenza fisicadell’imputato e l’assenza dei quali viene san-zionata da diverse forme di invalidità. In-somma, nel giudizio di identità o diequipollenza fra la situazione di fatto astrat-tamente prevista dal legislatore e quella inconcreto conseguente all’atto imperfetto nonè sufficiente, per poter affermare che lo scoposia stato raggiunto, prendere atto del mero ve-rificarsi del “fatto materiale” cui l’atto teleolo-gicamente tendeva, giacché risulta altresìnecessario accertare che quel “fatto” sia ve-nuto ad esistenza nel rispetto dei requisiti ditempo e di spazio che la norma espressamenteo implicitamente tipizza. solo in quel casopotrà dirsi conseguito, sotto ogni profilo, lostesso risultato pratico che l’atto perfettoavrebbe realizzato. Per ritenersi sanata, cioè,ad ogni effetto la nullità della citazione a giu-dizio, con riguardo ai requisiti che afferisconoalla vocatio in iudicium, non è sufficiente pro-vare la piena conoscenza dell’atto da partedell’imputato, bensì che tale conoscenza siaavvenuta in tempo utile affinché questi po-tesse usufruire del termine legale minimo per

predisporre efficacemente la propria difesa.Un altro esempio delle remore giurispru-

denziali alla regressione del procedimento èfornito da una recente sentenza della Cassa-zione13, chiamata ad esprimersi sull’indivi-duazione del termine ultimo per la deduzionedi una nullità derivante dall’omessa notifica-zione del decreto di citazione a giudizio came-rale d’appello ad uno dei due difensoridell’imputato, quando l’udienza si sia svoltain assenza dello stesso imputato e del codifen-sore regolarmente citati.

Ebbene, la sentenza “scibè” ritiene che sif-fatta nullità debba essere sollevata dal difen-sore, comunque comparso, a norma dell’art.182 comma 2 c.p.p., quindi prima del compi-mento dell’atto oppure, ove ciò non sia possi-bile, immediatamente dopo. se, invece, nél’imputato né il codifensore compaiano, an-corché regolarmente citati, la nullità deve es-sere dedotta prima della deliberazione dellasentenza dello stesso grado, sulla scorta delfatto che il vizio in parola sia da considerarsiverificato prima del giudizio. se nulla vengaeccepito in quel frangente, la nullità dovrebbe,ad avviso della Corte, ritenersi sanata, conconseguente impossibilità di rilevazione offi-ciosa da parte del giudice nei più ampi terminiprevisti dall’art. 180 c.p.p., ossia entro la deli-berazione della sentenza del grado successivo.

Eppure, come segnalato da parte della dot-trina14, gli oneri di eccezione della parte pre-sente al compimento dell’atto, in tema dinullità generali a regime intermedio, si atteg-giano solo ad oneri “imperfetti”, in quanto ini-donei al formarsi di una sanatoria così potenteda annullare l’intervento officioso del giudice,che resta, conseguentemente, investito di unautonomo potere di rilevazione della nullitànei termini di cui all’art. 180 c.p.p. secondo al-cuni, la preclusione alla deducibilità di parte,se proprio si voglia sostenere che dia luogo a

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sanatoria, determinerebbe, al più, una sanato-ria «soggettivamente relativa, valevole per laparte e non anche per il giudice»15.

si registrano, inoltre, perplessità in ordinealla stessa affermazione che la nullità della no-tificazione ad uno dei due difensori del de-creto di giudizio camerale d’appello debbaconsiderarsi avvenuta prima del giudizio e,più precisamente, negli “atti preliminari” allostesso16. Portando coerentemente a termineuna tesi siffatta, dovrebbe sostenersi che lanullità che qui interessa sia da rilevarsi entrola deliberazione della sentenza che definisceil grado, a norma dell’art. 180 c.p.p., consa-crando, quindi, una lettura estensiva di talenorma, che, da par suo, individua solo nellasentenza «di primo grado» lo sbarramento alladeduzione e alla rilevazione delle nullità in-tervenute prima del giudizio. Le sezioniUnite, perciò, leggono il riferimento al giudiziocome se fosse operato con riguardo ad ognigrado di merito, ammettendo implicitamenteche sia possibile, al fine di individuare i ter-mini entro cui dedurre le nullità, dare rile-vanza alla fase degli atti preliminari algiudizio d’appello per trarne la conseguenzache i vizi consumati in quella sede non pos-sano dedursi nei più ampi termini della deli-berazione della sentenza di grado successivo.In definitiva, l’invalidità dell’atto non po-trebbe rilevarsi nel giudizio di Cassazione,bensì prima della deliberazione della sentenzadi appello.

Dinanzi a tale ragionare, è forte il dissensodi quanti sostengono che le nullità incorse nel“predibattimento” d’appello possano esserededotte fino alla decisione del grado se-guente17; nonché di quanti, non distinguendo,all’interno delle nullità verificatesi nel giudi-zio di secondo grado, fra quelle attinenti allafase “predibattimentale” e quelle proprie delgiudizio in senso stretto, individuano per en-trambe il medesimo limite preclusivo nella

sentenza di Cassazione18. Ove fosse rilevatoun vizio in quella fase, dunque, non vi sareb-bero alternative alla regressione del procedi-mento allo stato o al grado in cui è statocompiuto l’atto nullo, a norma dell’art. 185comma 3 c.p.p.

Risulta evidente, allora, la preoccupazioneche muove la pronuncia citata a verificare imargini di compatibilità del principio di ra-gionevole durata al caso di specie. Proprio inmotivazione è agevole individuare i passaggiargomentativi intesi alla salvaguardia dellaspeditezza del procedimento: è opinione dellaCorte che «un’interpretazione che consentaalla difesa di riservare l’eccezione di nullità algrado successivo sarebbe lesiva dell’interessecostituzionalmente protetto alla ragionevoledurata del processo».

Il proposito conservativo, tuttavia, pur ani-mato dal lodevole intento di evitare indebiteregressioni, sembra aver prodotto distorsioni- più che valorizzazioni - del sistema della nul-lità, proprio in punto di rapporto tra diritto didifesa e ragionevole durata. Un connubio ri-badito recentemente dalla Corte costituzio-nale19 che ha posto un argine all’utilizzoindiscriminato del principio di ragionevoledurata in funzione di bilanciamento con lealtre garanzie dell’art. 111 Cost., nella convin-zione che un processo carente di solide basigarantistiche sia, a prescindere dalla sua du-rata, non giusto.

L’impianto codicistico, rivalutato in chiavecostituzionale, sembra pertanto saper discer-nere fra diversi tipi di regressione. Di frontealla violazione del diritto di difesa, la retroces-sione del procedimento allo stato o al grado incui è stato compiuto l’atto nullo – secondoquanto stabilisce l’art. 185 comma 3 c.p.p – sa-rebbe prezzo “ragionevole” da pagare, nono-stante la dilazione dei tempi processuali. Ladurata di un processo che non rispettasse, in-vece, le garanzie difensive sarebbe da consi-

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derarsi, allorché più ridotta, una durata irra-gionevole.

solo attraverso una modifica legislativadell’intero sistema degli atti processuali po-trebbe, allora, darsi rilievo ad una sanatoriadell’atto “claudicante” incentrata sul rag-giungimento dello scopo a cui questo era de-stinato. Una figura, invero, già previstadall’art. 183 lett. b) c.p.p. – ed opportuna-mente costruita in maniera assai più specificarispetto alla previsione del raggiungimentodello scopo tout court20 - ma la cui estensionealle nullità assolute sembra irrimediabil-mente preclusa dall’inciso «salvo che sia diver-samente stabilito», giusta la previsione diinsanabilità che a queste specie di invaliditàl’art. 179 c.p.p. riconosce.

è in chiave de jure condendo, allora, che po-trebbe darsi opportuno risalto all’«intimo co-appartenersi di atto e procedimento, di scopo

dell’atto e scopo del procedimento, di formadell’atto e di forma del procedimento»21,nella valorizzazione del fondamentale prin-cipio che è alla base della teoria generaledell’atto processuale: il principio di strumen-talità delle forme22, il quale, nell’accezionepiù consapevole, vuol dire che le forme sonoimposte non in quanto fini a se stesse, ma infunzione del perseguimento di un certo risul-tato, onde il risultato conseguito in concretorimane fermo anche quando la forma non siastata rispettata23 e tenuto presente che il ri-sultato cui tende l’atto, il giusto processo, èsempre intimamente connesso con il risultatocui tende il processo: la giusta decisione.

In definitiva, allora, può dirsi che, nono-stante il carattere “programmatico” delprincipio di ragionevole durata, la giu-risprudenza assume un ruolo importante perla sua concretizzazione e specificazione. D’al-

Michelangelo Merisi da Caravaggio, L'incredulita ̀ di S. Tommaso

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tronde il diritto “vigente” (o, meglio, “vi-vente”) non è generato da soli atti di “posi-zione”, ma anche da processi di“positivizzazione”, per cui nessuno – nean-che il legislatore - può illudersi di produrreinteramente il diritto. Quello dell’interventogiurisprudenziale sul tema sembra essere,piuttosto, un problema di “metodo”, in cuil’esigenza di celerità tende a prevalere sullestesse garanzie dell’imputato. I giudici, in so-stanza, nell’opera ermeneutica ben possono,in caso di lacune normative, produrre letturecostituzionalmente orientate della disciplinaordinaria, ma non sono legittimati a farlo ser-vendosi del solo argomento della ragione-vole durata, dimenticando che questoprincipio fondamentale non può leggersi senon in funzione “servente” rispetto agli altrivalori del giusto processo24. Non sembra, in-somma, che la giurisprudenza ordinariapossa farsi carico di risolvere da sola, trava-licando la sua stessa funzione, il problemaforse più critico dell’intero processo italiano:la lentezza del sistema giudiziario.

NOte

1 Così, m. CECChEttI, Giusto processo (diritto costituzio-nale), in Enc. dir., Aggiornamento, V, 611.2 Come confermato da Corte cost., 10 febbraio 2006, n.50, in Corr. giur., 2006, 497.3 In questi termini, nonostante l’infelice richiamo alle“esigenze repressive”, P. FERRUA, Il giusto processo, bo-logna, 2007, 78. Nello stesso senso, N. tROCKER, Il valorecostituzionale del «giusto processo», in Il nuovo articolo 111della Costituzione e il giusto processo civile (Atti del con-vegno dell’Elba, 9-10 giugno 2000) a cura di m.G. Ci-vinini e C.m. Verardi, milano, 2001, 48.4 A cui bisogna aggiungere anche la caratteristica, pro-pria della ragionevole durata, di manifestarsi quale cri-terio di bilanciamento di altri valori costituzionalirelativi alla giurisdizione. si rinvia, in proposito, alleriflessioni di G. VIGNERA, Il giusto processo regolato dallalegge, in Giusto processo e riti speciali, di A. bodrito, F.

Fiorentin, A. marcheselli e G. Vignera, milano, 2009,53.5 Com’è noto, infatti, le norme “programmatiche” dif-feriscono da quelle “precettive” per la loro efficacia in-diretta. Per questa distinzione si rinvia al celebrecontributo di V. CRIsAFULLI, Le norme «programmatiche»in Costituzione, in Studi di diritto costituzionale in memoriadi Luigi Rossi, milano, 1952, 61. In particolare, sostienela natura programmatica del principio in parola, L.P.COmOGLIO, Etica e tecnica del “giusto processo”, torino,2004, 87.6 secondo l’esatto significato da attribuire all’opera di“interpretare”. sul tema, si rinvia a E. bEttI, Teoria ge-nerale dell’interpretazione, milano, 1955, 1; nonché a G.tARELLO, L’interpretazione della legge, in Trattato di dirittocivile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. messineo,continuato da L. mengoni, vol. I, t. 2, milano, 1980, 1.7 G. LOZZI, Sui tentativi giurisprudenziali di ampliare lepossibilità di sanatoria delle nullità assolute, in Riv. it. dir.e proc. pen., 1961, 897.8 è la stessa etimologia del termine a caratterizzarne icontenuti: esso deriva dal greco oikonomía, che indical’amministrazione oculata, parsimoniosa ed espertadella cosa privata o pubblica. si veda la principale mo-nografia sul tema di L.P. COmOGLIO, Il principio di eco-nomia processuale, I, Padova, 1980, 8.9 In questi termini, R. POLI, Sulla sanabilità dei vizi degliatti processuali, in Riv. dir. proc., 1995, 473. sul tema, siveda, per tutti, G. CONsO, Il concetto e le specie di invali-dità, milano, 1955, 73, secondo cui, in particolare, pro-prio la considerazione del grado di insanabilità – piùtecnicamente, la considerazione del modo di profilarsidei rapporti tra l’atto imperfetto e gli effetti del corri-spondente atto perfetto – consente, in alcuni casi, forsepiù marcatamente di altri criteri, di differenziare traloro le varie specie di invalidità.10 Cass., sez. Un., 27 ottobre 2004, n. 119, Palumbo, inDir. pen. proc., 2005, 715, con nota di A. mACRILLò, Nul-lità derivante dalla mancata citazione dell’imputato pressoil domicilio eletto. sulla stessa sentenza si vedano anchele riflessioni critiche di A. DIDDI, Davvero sanabile per“raggiungimento dello scopo” la nullità per irregolare noti-ficazione della citazione?, in Dir. pen. proc., 2006, 1150.11 successivamente, le sezioni Unite della Cassazionesono andate oltre, asserendo che «l’adozione di un mo-dello di notificazione diverso da quello dovuto deter-mina una nullità a regime intermedio, salvo chel’imputato dimostri di non aver avuto effettiva cono-scenza dell’atto». Così, Cass., sez. Un., 18 dicembre2006, Clemenzi, in Cass. pen., 2007, 2545, con nota di A.DIDDI, Sanatoria per raggiungimento dello scopo: un’altraapplicazione in tema di nullità delle notificazioni eseguite

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presso un domicilio diverso da quello validamente dichiarato.Con riferimento alle modalità di notificazione contem-plate all’art. 157 comma 8 bis c.p.p., che, nei confrontidell’imputato non detenuto e ove sia stato nominatoun difensore di fiducia, impone di eseguire la notifica-zione di tutti gli atti processuali successivi al primopresso il legale, salvo che quest’ultimo non dichiari im-mediatamente all’autorità procedente di non accettarela notificazione, il giudice di legittimità, nel circoscri-vere l’ambito di operatività della norma alle ipotesi diassenza di una dichiarazione o elezione di un domicilioper le notificazioni da parte dell’imputato ha, altresì,affermato che «l’eventuale nullità derivante dalla no-tificazione effettuata ai sensi dell’art. 157 comma 8 biscod. proc. pen., per casi diversi da quelli previsti, nonconfigura una nullità assoluta ed insanabile per omessavocatio in ius, bensì una nullità di ordine generale e aregime intermedio per inosservanza delle norme sullanotificazione, che deve ritenersi sanata quando risultiprovato che l’errore non abbia impedito all’imputatodi conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il dirittodi difesa; essa rimane comunque senza effetto se non èdedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sana-toria speciale di cui all’art. 184 comma primo, alle sa-natorie generali di cui all’art. 183 e alle regole dideducibilità di cui all’art. 182 cod. proc. pen., oltre cheai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 dello stessocodice»: così, Cass., sez. Un., 27 marzo 2008, micciullo,in Guida dir., 2008, 25, con nota di s. LORUssO, Una nul-lità a regime intermedio sanabile con l’effettiva conoscenza.Quasi contemporaneamente, la Corte costituzionale hadichiarato infondata la questione di legittimità costitu-zionale, sollevata in riferimento all’art. 111 comma 3, e24 Cost., dell’art. 157 comma 8 bis c.p.p., puntualiz-zando che «la norma censurata si ispira all’esigenza dibilanciare il diritto di difesa degli imputati e la spedi-tezza del processo, semplificando le modalità delle no-tifiche e contrastando eventuali comportamenti dilatorie ostruzionistici». si veda Corte cost., sent. n. 136 del2008, in www.cortecostituzionale.it.12 Così, Cass., sez. Un., 27 ottobre 2004, n. 119, Palumbo,cit., 720.13 Cass., sez. Un., 27 gennaio 2011, n. 22242, scibè, inCass. pen., 2011, 3729, con osservazioni di G. sANtALU-CIA.14 Ci si riferisce a G. DEAN, Gli atti, in AA. VV., Procedurapenale, torino, 2010, 217; G. mARAbOttO, Nullità nel pro-cesso penale, in Dig. disc. pen., vol. VIII, torino, 1994, 268;t. RAFARACI, Nullità (diritto processuale penale), in Enc.dir., Aggiornamento, vol. II, milano, 1998, 597; G.P.VOENA, Atti, in Compendio di procedura penale, a cura diG. Conso, V. Grevi e m. bargis, Padova, 2012, 269. si

vedano, in senso contrario, le opinioni di A.A. DALIA –R. NORmANDO, Nullità degli atti processuali, in Enc. giur.,vol. XXI, Roma, 1999, 31; nonché di C. tAORmINA, Di-ritto processuale penale, torino, 1995, 418.15 Così, G. sANtALUCIA, op. cit., 3738.16 tesi, però, già sostenuta da Cass., sez. II, 26 novem-bre 2010, n. 44363, D’Aria, in C.E.D. Cass., n. 249184;Cass., sez. VI, 23 febbraio 2010, n. 10607, Pepa, inC.E.D. Cass., n. 246542; Cass., sez. II, 30 giugno 2009, n.37507, Volpe, in C.E.D. Cass., n. 244887. si veda, però,il diverso avviso di Cass., sez. VI, 17 marzo 2008, n.12520, Cavaliere, in C.E.D. Cass., n. 239676, secondo cui«l’omissione dell’avviso ad uno dei due difensori del-l’imputato della data fissata per l’udienza […] dà luogoad una nullità a regime intermedio, deducibile fino alladeliberazione della sentenza nel grado successivo».17 Ci si riferisce a F. CORDERO, Codice di procedura penalecommentato, torino, 1992, 214.18 In proposito, O. DOmINIONI, Nullità, in Commentariodel nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodioe O. Dominioni, vol. II, milano, 1989, 284. è interes-sante notare come anche la dottrina che valorizza l’au-tonomia strutturale della fase degli atti preliminari aldibattimento fa riferimento soltanto al primo grado dimerito, com’è agevole desumere dal richiamo, per av-valorare l’autonomia di struttura, alla possibilità chesia emessa sentenza predibattimentale di prosciogli-mento, a norma dell’art. 469 c.p.p. Nel senso anzidetto,V. CAVALLARI, Commento all’art. 180 c.p.p., in Commenta-rio al nuovo codice di procedura penale, a cura di m. Chia-vario, vol. II, torino, 1990, 330.19 Corte cost., sent. n. 317 del 2009, in www.cortecostitu-zionale.it.20 “La nullità è sanata se la parte si è avvalsa della fa-coltà al cui esercizio l’atto nullo è preordinato” è unaformulazione invidiata anche dalla dottrina proces-sualcivilistica, che si trova a fronteggiare l’eccessiva in-determinatezza della formula dell’art. 156 comma 3c.p.c. Per questi rilievi, si veda R. POLI, Sulla sanabilitàdei vizi degli atti processuali, cit., 497.21 Così, R. POLI, op. cit., 473.22 Così definito da E.t. LIEbmAN, Manuale di diritto pro-cessuale civile, I, milano, 1984, 206.23 si veda R. ORIANI, Nullità degli atti processuali – I) Di-ritto processuale civile, in Enc. giur., XXI, 1990, 6.24 Ex multis, parla di «carattere sussidiario» della ragio-nevole durata, rispetto ai primari valori di funzione co-gnitiva, imparzialità e diritto di difesa, P. FERRUA, Ilgiusto processo, cit., 61.

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Premessa

Punto di partenza per questa breve rifles-sione è la considerazione che il legislatore hasempre guardato con particolare prudenzaalle soluzioni conciliative delle controversiedi lavoro, consapevole della condizione di-seguale tra le parti ed attento a tutelare laparte normalmente più debole, il lavoratore.

L’art. 2113, 1, c.c. nel testo sostituito dal-l’art. 6 della legge 11.8.1973 n. 533, sanciscel’invalidità delle rinunzie e transazioni chehanno per oggetto diritti inderogabili delprestatore di lavoro derivanti dalla legge odai contratti collettivi concernenti i rapportidi cui all’art. 409 del c.p.c. prevedendo però,all’ultimo comma, la non applicabilità diquesta previsione alla conciliazione interve-nuta ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 c.p.c.

Il Legislatore dunque ha fatto salva, findall’inizio, la possibilità di conciliare e tran-sigere validamente nelle sedi idonee ad assi-curare al lavoratore adeguata tutela.

Il tentativo di conciliazione preventiva:

l’evoluzione dell’art. 410 c.p.c.

Venticinque anni dopo, nell’intento di-chiarato di ridurre il contenzioso nelle mate-rie previste dall’art. 409 c.p.c., il Legislatoredel 1998, con l’art. 19, comma 8, del D. L.vo

29.10.1998 n. 387, modificava il testo dell’art.410 c.p.c. rendendo obbligatorio e non più fa-coltativo il tentativo di conciliazione qualecondizione di procedibilità della domanda,ed aggiungendo l’art. 410 bis.

L’innovazione, come sappiamo, non hadato risultati rilevanti, risolvendosi spesso inuna mera perdita di tempo, senza effettive ri-cadute positive sul carico del contenzioso.

La norma presentava, poi, una serie diproblemi pratici, ad esempio in presenza didomanda riconvenzionale, o di una pluralitàdi capi di domanda nel ricorso ex art. 414, al-cuni dei quali non avevano costituito oggettodi tentativo di conciliazione.

La giurisprudenza ha prevalentemente ri-dimensionato tali questioni, privilegiando latrattazione nel merito, e la Corte di Cassa-zione ha rigidamente delimitato i terminidella rilevabilità d’ufficio (sent. 19.7.2004 n.13394), affermando che ove l’improcedibilità,ancorché segnalata, non venga rilevata dalgiudice entro la prima udienza di discus-sione, l’azione giudiziaria prosegue in osse-quio al principio di speditezza di cui agliartt. 24 e 111, comma 2, della Costituzione.

A tredici anni dalla modifica del 1998,l’art. 410 è stato radicalmente modificato dal-l’art. 31, comma 1, della legge 4.11.2010 n.183, che – per la parte che qui interessa – hanuovamente reso facoltativo il tentativo diconciliazione, riscrivendone integralmente il

Il tentativo di conciliazionenel processo del lavoro

Fabio Massimo GalloPresidente di Sezione Lavoro presso la Corte di Appello di Roma

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procedimento, mentre l’art. 410 bis è statoabrogato dall’art. 31, comma 16, della stessalegge.

2) Il tentativo di conciliazione giudiziale

I) L’art. 420 c.p.c.A differenza del processo ordinario, nel

processo del lavoro – sin dalla legge n. 533 del1973 - è obbligatorio il tentativo di concilia-zione, come pure è prevista la presenza perso-nale delle parti, la cui mancata comparizionesenza giustificato motivo costituisce compor-tamento valutabile dal giudice ai fini della de-cisione.

Il tentativo di conciliazione svolto dal giu-dice (già dal pretore) ha sempre avuto unapercentuale di esiti favorevoli nettamente su-periore a quella del tentativo preventivo, e ciòper una serie di fattori quali la maggiore dosedi affidamento oggettivamente derivantedalla sede giudiziale, l’assistenza dei difen-sori, l’attività del magistrato.

Peraltro la suprema Corte, in termini asso-lutamente condivisibili, ha fornito una chiarainterpretazione dell’art. 420, affermando: “Nelrito del lavoro l’espletamento del libero inter-rogatorio delle parti e del tentativo di conci-liazione, pur essendo obbligatorio, non èprevisto a pena di nullità, restando affidato alpotere discrezionale del giudice di merito divalutare, anche in relazione agli assunti delleparti, se tale espletamento si configuri di qual-che potenziale utilità, o sotto ,il profilo delbuon esito del tentativo o al fine di acquisireelementi di convincimento per la decisione; neconsegue che l’omissione di uno di tali adem-pimenti da parte del giudice non incide sullavalidità dello svolgimento del rapporto pro-cessuale, restando ininfluente – e di conse-guenza non denunciabile in sede di legittimità

– la mancata considerazione dell’omissionestessa, ove lamentata in sede d’appello, daparte del giudice del gravame” (Cass.18.8.2004 n. 16141).

Personalmente, poiché ciascuno si avvaleprima di tutto della propria esperienza, devodire che fin dalla mia funzione di pretore dellavoro ho consapevolmente invertito l’ordinedelle attività previste dall’art. 420 c.p.c. ove silegge “…il giudice interroga liberamente leparti e tenta la conciliazione della lite.”

ho infatti ritenuto, sulla base dell’espe-rienza diretta, che lo svolgimento dell’interro-gatorio libero delle parti prima del tentativodi conciliazione provoca sovente un irrigidi-mento delle parti stesse sulle proprie posi-zioni, una accentuazione del senso di sfida chein qualche modo la controversia rappresenta,un inasprimento dello stato emotivo ed in de-finitiva una minore propensione a qualsivo-glia soluzione bonaria.

Pertanto, ho preferito rinunciare inizial-mente a quell’approfondimento delle vicendeprocessuali a cui è finalizzato l’interrogatoriolibero, per privilegiare la ricerca di una com-posizione non contenziosa della controversia,procedendo subito dopo – in caso di mancatoaccordo – all’interrogatorio libero delle parti.

In questa fase infatti entrano in scena lasensibilità e l’accortezza del magistrato, ilquale non deve dare assolutamente l’impres-sione di voler intimidire le parti o di avere giàuna ipotesi precostituita, me deve rappresen-tare a ciascuna delle parti i rischi di causa,l’oggettivo disagio di qualunque sentenza cheè pur sempre soggetta a gravame, e le diffi-coltà – in caso di accoglimento della domanda– di procedere al recupero coattivo del credito.

tutto questo, senza fare del terrorismo psi-cologico nei confronti di una o dell’altra parte,ma al massimo ricordando “astrattamente” suchi ricade l’onere della prova di questa o

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quella delle voci di domanda, ad es. sul lavo-ratore l’onere della prova del lavoro straor-dinario, sul datore di lavoro l’onere dellaprova della giusta causa o giustificato motivodel licenziamento.

Risulta anche molto opportuno far capirealle parti che dimostrare disponibilità versouna soluzione conciliativa non significa dareprova di debolezza o di scarsa fiducia nelleproprie ragioni, e non equivale ad una resanei confronti dell’avversario, ma rappresentaesclusivamente una prova di realismo nellaricerca di una soluzione rapida, pratica e con-cordata, anche perché, come ci ricorda unabattuta assai diffusa nell’ambiente forense,qualsiasi conciliazione è meglio della mi-gliore sentenza.

E in questa fase è più che mai rilevante edelicato il ruolo dei difensori, i quali nonhanno forse il dovere di indurre il proprio as-sistito ad accettare una soluzione conciliativaquale che sia, ma hanno certamente il com-pito di smussare, essi che sono tecnici del di-ritto, gli irrigidimenti di natura emotiva o diprincipio, e di sostenere gli sforzi svolti dalmagistrato ai fini conciliativi perché questa èpoi la volontà del Legislatore, non solo nel-l’interesse generale del contenzioso che si al-leggerisce per effetto di ogni conciliazione,ma nell’interesse stesso delle parti, che rea-lizzano un punto d’equilibrio di loro comunescelta, guadagnando enormemente in ter-mini di certezza, rapidità e serenità nei rap-porti umani.

Vero è, e a volte il magistrato farebbe benead evidenziarlo alle parti nel corso del-l’udienza, che il ruolo del difensore è permolti aspetti più delicato di quello del giudi-cante, perché la parte – così come può, in ipo-tesi, ritenere che il giudicante non abbiavoglia di svolgere l’istruttoria, decidere lacausa e scrivere la sentenza, o che, peggio, sia

intimamente allineato con l’avversario – puòanche, e forse con maggiore frequenza, ipo-tizzare che il proprio difensore abbia fretta dichiudere, non sia sufficientemente combat-tivo, o addirittura si sia accordato sottobancocon il collega di controparte; per questo, ilmagistrato deve essere ben chiaro nell’illu-strare alle parti l’ottimo servizio che il difen-sore rende loro nel momento in cui favorisce,e non ostacola, una soluzione bonaria, che vanell’interesse esclusivo delle parti stesse e ri-sponde del resto all’intento del Legislatore.

II) Le modifiche apportate con l’art. 321,comma4, della legge 183 del 2010.

La buona prova fornita dalla conciliazionegiudiziale in decenni di esercizio, ha indottoil Legislatore del 2010 a potenziare tale isti-tuto, modificando l’art. 420 c.p.c. – per laparte che qui ne occupa – nei seguenti ter-mini: “il giudice interroga liberamente leparti presenti, tenta la conciliazione della litee formula alle parti una proposta transattiva.La mancata comparizione personale delleparti, o il rifiuto della proposta transattivadel giudice, senza giustificato motivo, costi-tuiscono comportamento valutabile dal giu-dice ai fini del giudizio.”

Così, mentre da una parte il Legislatore haavvertito la necessità di ricondurre il tenta-tivo preventivo di conciliazione nell’alveodella facoltatività, dall’altra ha mostrato diriporre grande fiducia nel tentativo di conci-liazione giudiziale.

si tratta di un intervento dalle conse-guenze molto impegnative per il magistrato,al quale viene affidato il delicato e pericolosocompito di formulare addirittura una propo-sta transattiva, dal cui rifiuto egli stesso puòricavare elementi valutabili ai fini del giudi-zio.

tutte le cautele e gli accorgimenti sopra

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elencati vanno quindi esaltati, perché il giudi-cante si espone in prima persona, e può anchemettere in difficoltà le parti che sanno che illoro rifiuto ingiustificato può costituire ele-mento valutabile da parte del giudice stesso.

se il nuovo sistema scaturito dal testo cosìinnovato riveste certamente un peso maggioreai fini della soluzione conciliativa, e quindipuò avere maggiori effetti deflattivi sul nu-mero delle pendenze, comporta però indub-biamente maggiori rischi per il giudicante e,di riflesso, anche per i difensori, il cui ruoloparimenti diviene ancora più delicato ed im-pegnativo.

A maggior ragione, quindi, nel nuovo con-testo così delineato il giudice dovrà fare ri-corso a tutta la sua prudenza e capacità, pernon vanificare l’intento deflattivo voluto dalLegislatore senza al contempo limitare in con-creto il diritto di accesso alla giurisdizione esenza mettere a repentaglio il proprio fonda-mentale ruolo di giudice terzo.

Nella pratica, i segnali che provengonodagli Uffici di primo grado del Distretto diRoma finora sono comunque positivi, sulpiano dei risultati in termini numerici e, si-nora, senza notizie di particolari problemi,prova questa dell’elevata qualità dell’ impe-gno profuso dai giudici, e dell’altrettantobuona risposta da parte del Foro.

Non resta che auspicare che tale quadrocomplessivamente positivo perduri e, se pos-sibile, migliori ulteriormente, a beneficio ditutto il contenzioso del lavoro.

III) Il tentativo di conciliazione di cui all’art. 1,commi 38- 41, della legge 28.6.2012 n. 92.

Non si può concludere questa breve disa-mina senza ricordare che la c.d. Riforma For-

nero, approvata il 28 giugno 2012, tra tante in-novazioni e modifiche sostanziali e proces-suali concernenti il diritto del lavoro, haintrodotto per i soli licenziamenti per giustifi-cato motivo oggettivo intimati da datori di la-voro aventi i requisiti dimensionali di cuiall’art. 18, comma 8, L. 300 del 1970, unanuova procedura di conciliazione preventivada svolgersi dinanzi alla Direzione territorialedel lavoro.

La nostalgia del “vecchio” art. 410 sembraalla base di tale istituto, che in realtà pare piùun preavviso di licenziamento che un vero eproprio tentativo di conciliazione.

Infatti l’esperimento del tentativo di conci-liazione in questione non costituisce una con-dizione di procedibilità della domandagiudiziaria, come avveniva nel vigore dell’art.410 c.p.c. ante riforma del 2010, ma una verae propria condizione di efficacia del licenzia-mento stesso, così assumendo quasi il valoredi una fase della procedura di licenziamento.

Volendo ricercare un elemento comune trai vari tentativi di conciliazione preventiva, ri-mane forse l’intento di prevenire il ricorso allasoluzione giudiziaria, a vantaggio delle partie della mole del contenzioso.

L’esperienza dimostrerà la fondatezza, onon, di tali aspirazioni.

A meno che, nel frattempo, il legislatorenon intervenga con nuove modifiche di carat-tere sostanziale e processuale; il che franca-mente, per quanto disagevole, non sarebbepoi molto sorprendente, viste le continueoscillazioni in materia di mercato del lavoro e,più in generale, di diritto processuale civile acui gli operatori del diritto sono ormai abi-tuati.

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scopo del presente studio è quello di for-nire alcuni chiarimenti in sede di interpreta-zione ed applicazione dell’art. 8, quintocomma, del decreto legislativo n. 28 del4.03.2010 (d’ora in avanti “Decreto”).

tale disposizione costituisce uno deipunti di interferenza del procedimento dimediazione con il susseguente (o conte-stuale) processo civile, dal momento checomportamenti o situazioni che si verificanoad opera delle parti chiamate in mediazionepossono assumere rilievo nel processo, in de-roga al generale principio di inutilizzabilitàdelle dichiarazioni rese al mediatore o delleinformazioni da questo acquisite posto dal-l’art. 10, primo comma, del Decreto.

La norma

L’art. 8, quinto comma, del Decreto reci-tava in origine: “Dalla mancata partecipazionesenza giustificato motivo al procedimento di me-diazione il giudice può desumere argomenti diprova nel successivo giudizio ai sensi dell’art.116, secondo comma, del codice di procedura ci-vile”.

In seguito l’art. 1, comma 1, della L.14.09.2011 n. 148 (di conversione, con modifi-che, del D.L. 13.08.2011 n. 138), ha inserito, altermine del comma in esame, il seguente ul-

teriore periodo: “Il giudice condanna la parte co-stituita che, nei casi previsti dall’art. 5, non ha par-tecipato al procedimento senza giustificato motivo,al versamento all’entrata del bilancio dello Stato diuna somma di importo corrispondente al contri-buto unificato dovuto per il giudizio”.

sicché con decorrenza dalla data di en-trata in vigore della legge di conversione(17.09.2011, giorno successivo a quello dellasua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) lalegge ha previsto una ulteriore conseguenzaalla mancata ingiustificata partecipazione,vale a dire l’irrogazione di una sanzione a ca-rico della parte che abbia posto in atto talecomportamento, pari per entità al contributounificato di iscrizione a ruolo stabilito per ilsingolo grado dal testo Unico delle spese digiustizia (art. 13 del D.P.R. n. 115/2002)1.

La disposizione sembra concorrere allafunzione deflattiva del contenzioso e ad evi-tare intese fraudolente tra le parti, miranti anon far comparire la parte invitata andandoin giudizio con la minimizzazione dei costidella procedura mediaconciliativa2.

La legge delega e l’antecedente Comunitario

Il Decreto, come recita la sua stessa ru-brica, è stato emanato in attuazione dell’art.60 della L. 18.06.2009 n. 69 (“Disposizioni per Te

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La mancata partecipazione senza giustificatomotivo al procedimento di mediazione

Gaetano Anaclerio e Annabella CazzollaMediatori per Aequitas ADR

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lo sviluppo economico, la semplificazione, la com-petitività nonché in materia di processo civile”).

Il menzionato art. 60 delegava il Governoad emanare, entro sei mesi dall’entrata in vi-gore della legge, uno o più decreti legislativiin materia di mediazione e di conciliazione inambito civile e commerciale, secondo i prin-cipi ed i criteri direttivi enunciati dal terzocomma. La disamina della norma citata per-mette di escludere che le conseguenzederivanti dalla mancata ingiustificata compa-rizione – come previste e regolate dall’art. 8del Decreto – siano una diretta emanazionedei suddetti principi e criteri direttivi, dal mo-mento che in alcuna parte del terzo commadell’art. 60 se ne fa menzione.

tuttavia, dal momento che la legge-delegaimponeva l’adozione dei regolamenti “nel ri-spetto ed in coerenza con la normativa comunita-ria” (art. 60, secondo comma), occorreverificare se la direttiva comunitaria ispira-trice della disciplina della mediaconciliazione(2008/52/CE del 21.05.2008) non contenga

quantomeno in nuce la legittimazione/giusti-ficazione della disposizione di cui all’art. 8,quinto comma.

In effetti, il XIV Considerando della Diret-tiva, così come il suo art. 5, secondo comma,lasciano salva ed impregiudicata (id est la re-putano conforme o quanto meno non incontrasto con la normativa europea) la legisla-zione nazionale nella parte in cui rende il ri-corso alla mediazione obbligatorio ovvero loassoggetta ad incentivi o sanzioni3.

La facoltà del Giudice di trarre argomentidi prova dalla mancata, ingiustificata compa-rizione in mediazione della parte invitatadeve dunque essere letta come una sanzionelato sensu? A nostro avviso siffatta conclusioneè senz’altro valida se si guarda all’innova-zione introdotta dalla L. n. 148/2011 (cioè lacondanna al pagamento di una somma pari alcontributo di iscrizione a ruolo), mentre laprevisione originaria dell’art. 8, quintocomma, del Decreto va piuttosto ritenutacome applicazione specifica del generale prin-Te

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Pieter Bruegel il Vecchio, La giustizia

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cipio posto dall’art. 116, secondo comma, delCodice di rito.

è ben vero che la disposizione testé richia-mata assume come riferimento il comporta-mento delle parti “nel processo”, sicché sipotrebbe obiettare che la mediazione – per-lomeno quella esperita ante causam – offraall’esame del Giudice dei comportamentipre-processuali, in quanto tali insuscettibilidi valutazione ai sensi dell’art. 116. tuttaviala giurisprudenza di legittimità, in sede diesegesi del secondo comma dell’articolo ci-tato, ha ritenuto in modo sostanzialmenteuniforme che argomenti di prova possano es-sere desunti, oltre che dal generico contegnoprocessuale delle parti, anche da quello ex-traprocessuale4.

è di un certo interesse, ai fini che ci occu-pano, esaminare la procedura conciliativa checostituisce nel nostro ordinamento l’antece-dente storico più vicino alla media-concilia-zione, vale a dire quella introdotta nel ritosocietario dall’art. 40 del D. Lgs. 17.01.2003n. 5.

Il quinto comma di tale disposizione (poiabrogata dall’art. 23, primo comma, del De-creto) disponeva che il Giudice valutasse,nell’eventuale successivo giudizio, non solole posizioni assunte dalle parti ma anche lamancata comparizione di una di esse nellaprocedura conciliativa, ai fini della deci-sione sulle spese processuali (ivi inclusa lacondanna per responsabilità aggravata aisensi dell’art. 96 c.p.c.). merita di essere sot-tolineato come la norma non parlasse affattodi una “ingiustificata” omessa comparizione,lasciando così intendere che la semplice as-senza doveva essere oggetto di considera-zione da parte del magistrato5.

La relazione governativa al Decreto

Poiché il procedimento esegetico di unanorma non può prescindere dalla ricostru-zione, per quanto possibile, dell’intenzionedel legislatore, ai fini della nostra indaginepuò essere utile esaminare la relazione go-vernativa che accompagnava lo schema delDecreto6: tuttavia questa, nella parte che si ri-ferisce all’art. 8, non contiene la benché mi-nima indicazione sulle ragioni che hannodeterminato l’introduzione del quintocomma; né quindi è possibile trarre da essautili riferimenti per comprendere la portataapplicativa della disposizione medesima. Vi-ceversa nella relazione illustrativa al D. Lgs.n. 5/20037 si specifica – a commento dell’art.40, quinto comma – che altro è il divieto diostensione al giudice adito delle dichiara-zioni rese dalle parti nella procedura conci-liativa in conseguenza del fallimento deltentativo di conciliazione, altro è “il potere divalutazione delle definitiva presa di posizionedella parte davanti al conciliatore (o della sua

eventuale assenza al cospetto di quello), dacui il giudice può derivare un parametro ulterioreper la distribuzione del carico delle spese proces-suali, magari in deroga alla regola fondamentaledella soccombenza”.

Dunque il principio ispiratore della dispo-sizione testé richiamata appare essere quellodi consentire al Giudice una distribuzionedel carico delle spese processuali in derogaal criterio della soccombenza di cui all’art. 91,primo comma, c.p.c., nel senso di potere egli,in una certa misura, escludere la parte vitto-riosa dalla ripetizione di tali spese, ovverocondannarla alla rifusione di quelle soste-nute dall’altra, in considerazione del conte-gno osservato nel procedimento di conci-liazione8. Perciò, volendo risalire all’idea cheinforma il suddetto parametro, si può affer- Te

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mare che quanto più appaia probabile l’evita-bilità del contenzioso attraverso un percorsoconciliativo, tanto più il magistrato potrà ac-crescere il carico delle spese sulla parte checon il proprio contegno lo abbia impedito.

Poiché l’art. 40, quinto comma, del D. Lgs.n. 5/2003 è stato abrogato dall’art. 23, primocomma, del Decreto, con l’avvertenza che “irinvii operati dalla legge a tali articoli [38, 39 e 40]si intendono riferiti alle corrispondenti disposi-zioni” del Decreto, possiamo ragionevolmenteargomentare che la ratio ispiratrice della di-sposizione in esame si sia in qualche modotrasfusa in quella dell’art. 8, quinto comma,del Decreto. tenendo però bene a mente che ilpredetto art. 8 non contiene alcun riferimentoalla statuizione sulle spese di lite, esplicandola sua efficacia a monte di tale statuizione,nella fase di attribuzione delle ragioni e deitorti cui il giudice perviene attraverso la valu-tazione delle risultanze istruttorie. In altri ter-mini, l’assenza ingiustificata della parte nellafase di mediazione può divenire argomento diprova utile a formare il convincimento delGiudice sulla fondatezza nel merito della do-manda, ma non appare in grado di incidereimmediatamente sulla statuizione relativa allespese.

Analogie e differenze con altri istituti

Per comprendere meglio la portata dellanorma in esame, può essere utile tentare unacomparazione con altri istituti del diritto pro-cessuale civile nei quali ad un contegno dellaparte riconducibile al concetto di assenza o dimancata presenza si ricolleghino effetti di unqualche tipo.

Va preliminarmente osservato che la con-tumacia di una parte nel giudizio non integraprova di colpevolezza, o per meglio dire lascelta di una parte di non costituirsi non as-

sume alcun significato probatorio in favoredella domanda avversaria né comporta dero-ghe al principio dell’onere della prova9.

Diverso il caso della parte la quale non sipresenti a rendere l’interrogatorio deferitolein assenza di un giustificato motivo (qui è evi-dente l’identità lessicale con l’espressione ado-perata nell’art. 8, quinto comma, del Decreto):l’art. 232, primo comma, c.p.c., stabilisce in-fatti che il Giudice “valutato ogni altro elementodi prova, può ritenere come ammessi i fatti dedottinell’interrogatorio”.

Pur ritenendosi necessario che il Giudicefornisca adeguata motivazione al proprio di-screzionale apprezzamento, in senso positivoo negativo, sulla mancata o ricusata rispostadella parte interrogata (Cass. Civ., sez. I,19.03.2009, n. 6697), vi è contrasto in dottrinasul significato da attribuire al termine “ammis-sione”: le posizioni oscillano dall’affermazionedi un’efficacia probatoria piena, propria dellaconfessione10 a quella di prova liberamente va-lutabile, a seguito e per effetto di un’indaginecritica sugli altri elementi probatori acquisiti11.

Quanto al legittimo impedimento a compa-rire, vi si possono ricondurre – a titolo esempli-ficativo – il vizio di notifica dell’ordinanza diammissione del mezzo istruttorio, la malattiagrave (anche di un congiunto) o la mancanzadi mezzi di trasporto; non lo è il rinvio d’ufficiodell’udienza originariamente fissata per l’inter-rogatorio (Cass. Civ., sez. III, 1.09.1997, n. 8340),incombendo in tal caso alla parte l’onere di ri-presentarsi alla nuova udienza.

se volessimo tracciare una linea di para-gone con l’ipotesi delineata dall’art. 8, quintocomma, del Decreto, non potremmo fare ameno di notare che l’art. 232 c.p.c. si riferiscealla mancata presenza della parte ad una sin-gola udienza – quella fissata per l’espleta-mento dell’interrogatorio – mentre l’art. 8 delDecreto parla di “mancata partecipazione” alprocedimento di mediazione.Te

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Ci si chiede se con questo si debba inten-dere un’assenza protratta, che si prolunghi osia suscettibile di prolungarsi oltre la primasessione del procedimento: in effetti, non viè alcun obbligo per il mediatore, constatatal’assenza della parte regolarmente invitataalla prima sessione, di fissare un nuovo in-contro. La carenza di formalità di alcun tipo– chiaramente affermata dall’art. 8, secondocomma, del Decreto – non impone alla parteinvitata in mediazione, che non intenda pre-sentarsi, di spiegare le ragioni della propriaassenza, né per converso al mediatore di rin-viare la prima sessione ipotizzando un impe-dimento non dichiarato. Quindi, in teoria, lamediazione potrebbe essere dichiaratachiusa per mancata partecipazione dellaparte invitata già alla prima sessione, sicchéla supposta differenza di ordine temporalecon l’ipotesi dell’art. 232 c.p.c. verrebbemeno. sembra dunque a chi scrive che l’usodella parola “partecipazione” si giustifichi solocon l’intento di sottolineare diversità di na-tura e finalità dell’istituto della mediazionerispetto al processo: mentre in questo la partecitata concorre (di necessità) alla costruzionedel materiale probatorio, su cui il Giudiceeserciterà la propria pubblica funzione di di-stribuzione delle ragioni e dei torti, nellaprima è chiamata a fornire il proprio ap-porto, su base volontaristica, per una ricom-posizione del rapporto compromesso dalcontenzioso in essere.

Nell’ambito del rito del lavoro l’art. 411c.p.c. (nella formulazione attualmente vi-gente12) stabilisce che, in caso di mancato ac-cordo, la commissione di conciliazione debbaformulare una proposta “per la bonaria defini-zione della controversia”: della mancata accet-tazione della proposta “senza adeguatamotivazione il giudice tiene conto in sede di giu-dizio”.

Ciò che rileva, in questo caso, non è la

semplice assenza della parte nel procedi-mento di conciliazione (che ha natura facol-tativa ex art. 410 c.p.c.) quanto piuttosto lamancata accettazione della proposta non sor-retta da una plausibile motivazione: in effettise la parte invitata non dichiara di voler ac-cettare la procedura di conciliazione, questanon ha luogo e ciascuno dei soggetti coin-volti nel contenzioso è libero di adire l’Auto-rità Giudiziaria (art. 410 cit., settimo comma).

solo in caso di adesione alla procedura,dal mancato accordo scaturisce la formula-zione di una proposta rispetto alla quale leparti sono tenute a prendere posizione, mo-tivando congruamente il proprio rifiuto.

Appare evidente, perciò, che siamo qui inpresenza di una fattispecie diversa da quelladi cui all’art. 8, quinto comma, del Decreto:tra l’altro l’efficacia – nel processo – di unverbale di mancata conciliazione che con-tenga un rifiuto immotivato, o non adegua-tamente motivato, viene espressa in terminipiuttosto vaghi (“il giudice tiene conto in sededi giudizio”), che non permettono di com-prendere se essa riguardi la formazione delconvincimento ovvero la statuizione sullespese13.

Altra ipotesi degna di nota è quella indi-viduata dall’art. 663 c.p.c., nel quadro delladisciplina del procedimento sommario perconvalida di sfratto, il cui primo comma pre-vede che il Giudice pronuncia ordinanza diconvalida della licenza o dello sfratto se ilconvenuto non comparisce all’udienza cui èstato citato, salvo che non risulti o appaiaprobabile che egli non abbia avuto cono-scenza della citazione o non sia potuto com-parire per caso fortuito o forza maggiore (nelqual caso il magistrato ordina che sia rinno-vata la citazione medesima). Al di fuori ditale caso, l’assenza del convenuto/condut-tore produce quale conseguenza la forma-zione di un titolo esecutivo che abilita Te

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l’attore/locatore ad ottenere il rilascio forzosodell’immobile14.

I presupposti per il rinnovo della citazionesono gli stessi in presenza dei quali l’art. 668,primo comma, c.p.c. abilita il conduttore aspiegare opposizione dopo la convalida: se in-fatti l’ordinanza di convalida è stata pronun-ciata in sua assenza, egli può opporvisiprovando di non avere avuto tempestiva co-noscenza dell’intimazione per irregolaritàdella notificazione, per caso fortuito o perforza maggiore, ovvero – pur avendone avutoregolare conoscenza – di non essere potutocomparire per caso fortuito o per forza mag-giore. Appare dunque chiaro che le sole ra-gioni alla cui stregua l’assenza dell’intimatopossa dirsi giustificata sono: 1) qualunque ir-regolarità della notifica, ancorché non siacausa di nullità, purché si traduca nella man-cata conoscenza dell’atto di intimazione (Cass.Civ., sez. III, 3.02.1995, n. 1327); 2) l’esistenzadel caso fortuito (insorgenza di un evento nonevitabile con la normale diligenza e, dunque,non imputabile a titolo di dolo o colpa all’in-timato) ovvero della forza maggiore (fatto na-turale o umano irresistibile, cui non possa cioèopporsi una diversa determinazione volitiva)che si pongano quale causa della mancata co-noscenza dell’atto di intimazione o della man-cata comparizione.

è evidente quindi come il legislatoreabbia inteso - in tale fattispecie - circoscri-vere espressis verbis l’ambito delle cause digiustificazione dell’assenza; tuttavia è pari-menti chiaro come tale parametro non possaessere applicato all’assenza prevista dall’art.8 del Decreto, poiché non si è in presenza diun’altrettanto univoca determinazione chechiarisca e specifichi il contenuto dell’espres-sione “senza giustificato motivo”. tuttavia, dalmomento che il più comprende il meno, laricorrenza del caso fortuito o della forzamaggiore potrà senz’altro far ritenere ingiu-

stificata la mancata partecipazione dellaparte invitata in mediazione15. Così, solo a ti-tolo esemplificativo e sulla scorta dell’elabo-razione giurisprudenziale sul punto,potrebbero costituire cause di giustifica-zione: la temporanea situazione di incapa-cità di intendere e di volere in cui versi laparte invitata (Pret. Roma, 24.04.1985); laprecaria assenza dell’invitato, allontanatosidalla propria residenza o dal proprio domi-cilio per le ferie estive o per il viaggio dinozze, in assenza di elementi oggettivi chefacessero prevedere la ricezione dell’invitoin mediazione (Cass. Civ., sez. III, 13.07.1983,n. 4794); l’improvviso ed imprevedibile ma-lore dell’invitato, quando questo abbia na-tura ed effetti tali da impedirne lacomparizione (Cass. Civ., sez. III, 23.04.2008,n. 10594); l’impossibilità di guadagnare fisi-camente la sede della mediazione a motivodi un eccezionale ingorgo del traffico (LAZ-ZARO – PREDEN – VARRONE, Il procedi-mento per convalida di sfratto, milano, 1978,302).

All’infuori dei casi esposti, la mancata par-tecipazione della parte invitata al procedi-mento di mediazione dovrà essere oggetto diattenta valutazione.

Una prima questione è quella relativa alsoggetto legittimato ad esprimere tale valuta-zione: in altri termini, potrà il mediatore qua-lificare come “ingiustificata” l’omessa parte-cipazione della parte invitata e, soprattutto,potrà siffatta qualificazione produrre effetti diqualche tipo nel processo?

A nostro avviso la risposta non può che es-sere negativa. Non il mediatore, bensì il Giu-dice è il solo ed unico soggetto che abbia ilpotere di dedurre l’assenza di giustificati mo-tivi, riguardo alla mancata partecipazione allamediazione, e tanto per ragioni di ordine lo-gico e sistematico16. Anzitutto, nel primo pe-riodo del quinto comma dell’art. 8 delTe

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Decreto, è il Giudice il soggetto (non sologrammaticale) della proposizione ed è a luiche la norma conferisce, univocamente, il po-tere di trarre argomenti di prova dalla man-cata ingiustificata comparizione della parteinvitata. In altre parole nell’iter progressivoin cui si concretizza il percorso logico-giuri-dico che conduce il magistrato ad affermareragioni e torti, l’omessa partecipazione allamediazione senza un giustificato motivo di-viene presupposto ulteriore – alla streguadella norma in esame – dal quale far scaturirevalutazioni (anche solo probabilistiche) in-torno alla prova dei fatti su cui si controverte.se il Giudice dovesse attenersi all’esistenzadi tale presupposto come già riscontrata edaffermata in modo indiscutibile da altro sog-getto (il mediatore) al di fuori del processo,non solo sarebbe immotivatamente privatodel proprio potere/dovere di accertare unfatto potenzialmente rilevante per il processostesso (assenza ingiustificata dell’invitato inmediazione), ma risulterebbe anche com-presso (in assenza di qualsiasi deroga legale)il generale potere valutativo a lui ricono-sciuto dall’art. 116, secondo comma, c.p.c.

Ulteriore argomento a sostegno di quantoqui sostenuto si può desumere dall’art. 11,quarto comma, del Decreto: in esso è preci-sato che nel verbale di mancato accordo con-ciliativo il mediatore “dà atto della mancatapartecipazione di una delle parti al procedimentodi mediazione”.

Il fatto che il Legislatore non abbia quifatto seguire all’espressione “mancata parteci-pazione” le parole “senza giustificato motivo”(così come nel precedente art. 8) sta appuntoad indicare – ad avviso di chi scrive – che èinibita al mediatore qualsiasi valutazione sulpunto, dovendo egli solo registrare il fattooggettivo della mancata partecipazione e leragioni eventualmente addotte dall’assente asostegno di tale mancata partecipazione17.

Abbiamo già ricordato come il procedi-mento di mediazione non sia soggetto a for-malità: di conseguenza, se la parte invitatanon intende aderire al procedimento non ècerto obbligata a dichiararlo al mediatore in-caricato ovvero al proponente. Ciò non dimeno si può configurare in capo ad essa unonere di comunicazione, dal momento che –diversamente – il mediatore sarà autorizzatoa scrivere nel verbale di mancato accordo chela parte invitata non ha partecipato al proce-dimento senza giustificare in alcun modo lapropria assenza: è agevolmente comprensi-bile che un’assenza non giustificata tout courtè qualcosa di più che un’assenza sorretta daun motivo, ancorché inadeguato o incon-gruo, e ricade per certo nella previsione dicui all’art. 8 del Decreto.

Altro discorso è se la parte che non abbiapartecipato né comunicato le ragioni dellapropria assenza possa poi, nel susseguentegiudizio, provare al Giudice con ogni mezzoche la propria mancata partecipazione eradovuta ad una valida motivazione e superarecosì la dichiarazione di assenza non giustifi-cata contenuta nel verbale di mancato ac-cordo: sembra a chi scrive che al quesitodebba essere data risposta affermativa, nonsolo in ossequio al principio della disponibi-lità delle prove cui è informato il processo ci-vile ma anche perché sostenere il contrarioequivarrebbe ad attribuire al verbale nega-tivo una valenza di prova legale sul puntoche non appare condivisibile18.

Ulteriore questione che si è posta sulpiano concreto è il rifiuto di partecipare allamediazione fondato sull’assunto della rite-nuta fondatezza delle proprie ragioni ovverosulla irredimibile litigiosità delle parti.

benché non manchino in dottrina autore-voli opinioni che ritengano giustificato il ri-fiuto di aderire alla mediazione sulla scortadella palese infondatezza dell’avversa do- Te

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manda19, le pronunce giurisprudenziali sulpunto – che sempre più numerose vengonoemesse negli ultimi tempi – sembrano avallarela tesi contraria. Ricorderemo in questa sede,senza pretesa di essere esaustivi, l’ordinanzadel tribunale di termini Imerese del9.05.201220: in presenza di un rifiuto di parteconvenuta motivato dall’essere, nelle more,iniziato il giudizio e da una “acclarata ed ata-vica litigiosità” delle parti, il tribunale ha rite-nuto ingiustificate le ragioni addottecondannandola al pagamento della sanzione– pari all’importo del contributo unificato –prevista dal novellato quinto comma dell’art.8 del Decreto.

Due sono i passaggi meritevoli di atten-zione nella motivazione del provvedimento:il primo è l’assoluta irrilevanza della litigiosità(e – aggiungeremmo noi – dell’esistenza stessadi un contenzioso) essendo il procedimento dimediazione “precipuamente volto ad attenuare lalitigiosità, tentando una composizione della lite ba-sata su categorie concettuali del tutto differenti ri-spetto a quelle invocate in giudizio e cheprescindono dalla attribuzione di torti e di ragioni,mirando al perseguimento di un armonico contem-peramento dei contrapposti interessi delle parti”;il secondo è che la sanzione pecuniaria di cuiinnanzi prescinde del tutto dall’esito del giu-dizio, potendo perciò essere comminata anchein corso di causa e comunque in un momentotemporalmente antecedente rispetto alla pro-nuncia che definisce il giudizio (v. supra, nota1)21.

Ragionando sulla falsariga del tribunale ditermini Imerese, non sarebbe errato neppureritenere ingiustificato il rifiuto di aderire allamediazione, quando sia motivato dalla asse-rita fondatezza delle proprie ragioni: sottesa atale (presunta) giustificazione è infatti l’erro-nea persuasione che il procedimento di me-diazione debba avere il proprio esito neces-sario in un’intesa di tipo transattivo, in cui cia-

scuna delle parti concedendo qualcosa all’al-tra – secondo il dettato dell’art. 1965, primocomma, c.c. – rinunzia in parte al proprio di-ritto. sembra quindi di poter dire che – allastregua di tale visione – la parte invitata inmediazione sia autorizzata a rifiutare l’ade-sione alla procedura se questa possa compor-tare una deminutio del suo buon diritto, qualesarebbe per certo riconosciuto in sede conten-ziosa.

Questa impostazione in verità non con-vince: a parte la possibile indulgenza con cuiuna parte è talora portata a valutare la bontàdelle proprie ragioni, resta il fatto che la me-diazione – in quanto attenta agli interessi piùche alle posizioni delle parti – produce (o è ingrado di produrre) soluzioni innovative cheprescindono dalla mera spartizione della tortao, per essere più chiari, dalle reciproche con-cessioni proprie del meccanismo transattivo.suo compito è trovare un nuovo equilibrio alrapporto tra le parti, in vista della sua proficuaprosecuzione: così può essere utile, talora, nongià dividere l’arancia a metà, ma assegnare aduna parte la buccia ed all’altra il frutto22.

In una parola, rifiutarsi di partecipare allamediazione solo perché ci si attende di esserevittoriosi nel successivo giudizio è ingiustifi-cato ed inopportuno, dal momento che la me-diazione non ha né l’ambizione né la pretesadi scimmiottare il processo.

tale orientamento è confortato anche dauna recentissima sentenza del tribunale diRoma – sezione Distaccata di Ostia del5.07.201223, in cui – dinanzi ad una sentenzanon definitiva che avviava contestualmente leparti ad una mediazione cd. “delegata” – unadelle parti (una compagnia assicurativa) rifiu-tava di partecipare alla mediazione addu-cendo l’erroneità manifesta della sentenza e lapropria intenzione di impugnarla. Orbenenella pronuncia di cui innanzi il rifiuto è statoconsiderato ingiustificato alla stregua delle se-Te

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guenti, illuminanti considerazioni: “Traslandotale ragionamento in generale si potrebbe infattiaffermare che ogni qual volta la controparte ri-tenga erronea la tesi della parte che l’ha convocatain mediazione (in questo caso la censura riguardala sentenza del giudice), e pertanto inutile la suapartecipazione all’esperimento di mediazione, siavalidamente dispensata dal comparirvi. L’espo-nente non si avvede che in tal modo sussisterebbesempre un giustificato motivo di non compari-zione, se è vero com’è vero che se la contropartecondividesse la tesi del suo avversario (o, come inquesto caso, le ragioni della sentenza non defini-tiva emessa a suo carico) la lite non potrebbe nep-pure insorgere e se insorta verrebbe subito meno.La ragione d’essere della mediazione si

fonda proprio sulla esistenza di un contrasto

di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti,

di interpretazioni etc. che il mediatore

esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvi-

cinamento delle posizioni delle parti fino al

raggiungimento di un accordo amichevole”.sembra dunque di poter concludere, al

termine di questa rapida disamina (aventeper sua stessa natura la caratteristica di un“work in progress”), che la preliminare affer-mazione della fondatezza delle proprie ra-gioni (effettuata peraltro dalla stessa parteche quelle ragioni sostiene) non possa costi-tuire giustificato motivo di non adesione allamediazione. ma altre soluzioni sono possi-bili, come potrà dare conto la susseguenteparte del presente scritto, che getta unosguardo ravvicinato al sistema britannico. Te

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Il rifiuto della mediazione nel Regno Unito

Al fine di indagare sul significato di “giu-stificati motivi”, quasi tabula rasa nel nostroPaese, è opportuno, a nostro avviso, soffer-marsi sull’ordinamento vigente nel RegnoUnito, ovvero nel sistema europeo in cui èmaggiormente consolidata la tradizione dellamediazione, quale metodo alternativo di riso-luzione delle controversie. si è infatti andatanegli anni affinando la tecnica utilizzata dalleCourts inglesi per la individuazione della ra-gionevolezza delle motivazioni addotte dallaparte che rifiuta di aderire alla mediazione, in-dividuando dunque le circostanze in presenzadelle quali la parte invitata verrebbe legitti-mata a non aderire al procedimento di media-zione, senza subire conseguenze sanzionatoriein termini di costi. I giudici, sia in UK chenegli UsA, invitano le parti a considerare inmaniera seria l’opportunità della mediazioneprima che il caso giunga nelle aule di tribu-nale, perché al rifiuto di mediare si ricolleganosanzioni delle quali le parti sono edotte: ven-gono infatti addossati tutti o parte dei costiprocessuali alla parte che – pur se risultata vit-toriosa – aveva rifiutato l’invito della contro-parte a mediare senza addurre un giustificatomotivo. Ed è proprio sull’analisi del giustifi-cato motivo che può legittimare la parte a nonaderire alla mediazione in UK che incen-triamo la nostra breve trattazione, anche allaluce delle recenti sentenze che hanno fatto tor-nare alla ribalta l’argomento nel Regno Unito,per fornire un contributo di riflessione aglioperatori del diritto nazionali chiamati ad in-terpretare una norma che si pone come sostan-zialmente nuova, per quanto abbiamo innanziriferito, nel nostro ordinamento.

Riferimenti legislativi

Le conseguenze che possono essere subitedalla parte che rifiuta di mediare sono da rin-tracciare nella regola generale stabilita nell’art.44 del codice di procedura civile inglese inti-tolato “General Rules about costs” (Regole gene-rali circa i costi) ed in particolare nel 44.324

“Court’s discretion and circumstances to betaken into account when exercising its discre-tion as to costs” (Discrezionalità del tribunalee circostanze da considerare quando vieneesercitata la discrezionalità in relazione aicosti) che attribuisce potere discrezionale alGiudice nel determinare la condanna allespese: seppur individuando come regola ge-nerale quella secondo cui le spese debbano se-guire la soccombenza (art. 44.3, n. 2 a), dettaregola viene temperata da una serie di fattoriche il Giudice deve tenere in considerazionequando determina la condanna de qua: e tra idiversi fattori vi è appunto il comportamentodelle parti, considerato anche prima del giu-dizio (e la condanna può riguardare anchecosti che hanno preceduto la fase giudiziale).

La definizione delle controversie tramite laprocedura di mediazione è fortemente soste-nuta sia a) dai Giudici sin dall’aprile 1999(ossia dall’entrata in vigore del nuovo codiceprocessuale civile25, ove si rintraccia ancheuna norma che pone a carico del giudice undovere di incoraggiare la definizione tramitela mediazione ove reputato opportuno) ed in-fatti, in virtù del potere discrezionale nella de-terminazione delle spese, essi possono nonsolo non condannare la parte soccombente arifondere le spese di giudizio (attuando unaspecie di compensazione delle spese), ma incasi estremi condannare la parte vittoriosa alpagamento delle spese della parte soccom-bente, qualora la prima abbia appunto rifiu-tato senza giustificato motivo l’invito amediare26, b) che dal Governo: a tal ultimo ri-Te

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guardo si segnala l’avvio lo scorso 2 aprile diun progetto pilota promosso dal ministerodella Giustizia che prevede l’obbligatorietà –tranne in casi eccezionali in cui il Giudicenon ne ravvisi l’opportunità – della media-zione in Appello (secondo uno schema giàintrodotto nel 2004 che prevedeva però lascelta a caso delle cause da portare in media-zione) per le controversie in materia di con-tratti o di risarcimento del danno derivanteda lesioni personali che abbiano un valore in-feriore a 100.000 sterline27. si segnala, ancora,che la recente riforma del Codice di Proce-dura Civile inglese, entrata in vigore il 1° ot-tobre 2012, ha istituito, tra i numerosiinterventi, un sistema di ricorso automaticoalla mediazione per le controversie di valoreinferiore alle 5.000 £, ove le parti abbiano en-trambe espresso la volontà di ricorrervi nelquestionario loro sottoposto prima di intra-prendere il giudizio (trattasi di una speri-mentazione che avrà una durata di sei mesie terminerà dunque a marzo 2013)28. secondorecenti statistiche, l’80%-90% delle media-zioni in UK si conclude con un accordo giàal primo incontro, in pochi casi si impiegapiù tempo, dunque il risparmio in termini ditempi e costi (ivi compresi i costi psicologici)che invece un conflitto perdurante comporta,sono evidenti29. Infatti statistiche governativeparlano di una riduzione nel 2011 del 9%della proposizione di domande giudiziarie ecalcola che la mediazione abbatte di ¾ lamedia delle spese e del tempo impiegato perla trattazione della controversia tramite i ca-nali della giustizia ordinaria.

Dunque diventa centrale comprendere icasi in cui la parte che rifiuta di mediarepossa farlo senza incorrere nel rischio di ve-dersi accollati tutti i costi del giudizio (com-presi come abbiamo detto anche i costisostenuti dalla parte soccombente), e lo fac-ciamo partendo da due sentenze – che si

sono poste nello stesso solco – rese in materiadai Giudici inglesi. Questi ultimi infattihanno individuato, con sufficiente chiarezza,le considerazioni che deve il Giudice (e leparti diremmo noi) operare per valutare se laparte ha legittimamente non aderito all’in-vito a mediare.

Caso Swain Mason v. Mills&Reeve del-

l’aprile 2012 - Nel caso Swain Mason v.Mills&Reeve30 avente ad oggetto il risarci-mento del danno derivante dal negligenzaprofessionale azionato da alcuni vecchiclienti nei confronti di uno studio legale, que-st’ultimo è risultato vittorioso in primogrado, ma la rifusione dei costi ha seguitosolo in parte la soccombenza: questa infatti èavvenuta solo per il 50% di quelli sostenutidalla parte vittoriosa, atteso che il Giudice diprimo grado ha ritenuto di non applicare intoto il criterio generale, avvalendosi del sue-sposto potere discrezionale, avendo ritenutoingiustificato il motivo addotto dallo studiolegale che aveva rifiutato – in maniera nettae reiteratamente – la proposta di una defini-zione conciliativa. E a questo punto occorreinterrogarsi su quali basi il Giudice abbiafatto le sue considerazioni.

Halsey v Milton Keynes General NHS

Trust del 2004 - A tal riguardo, prima di en-trare nell’analisi di queste ultime, è basilareconoscere la sentenza della Corte d’Appelloresa nel caso Halsey v Milton Keynes GeneralNHS Trust del 200431 che si staglia, nel pano-rama delle sentenze rese in materia, comequella che, per prima, ha stilato una vera epropria check-list composta da sei punti aiquali rifarsi quando occorre valutare (nonsolo da parte del Giudice, ma anche dalleparti, in maniera preventiva e strategica) laragionevolezza del rifiuto a mediare ed ap-plicare conseguentemente la determinazionedei costi secondo quella discrezionalità chela legge gli attribuisce32. La Corte d’Appello Te

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nel caso halsey infatti individuò i fattori inbase ai quali il rifiuto a mediare può essere ri-tenuto ragionevole: a) la natura della contro-versia (ad esempio quelle in materia diinterpretazione di leggi che sono di ardua con-ciliazione); b) il merito della controversia(quando una parte ritiene di avere in toto ra-gione, ritiene dunque di avere uno “strongcase”, potrebbe rifiutare di aderire alla media-zione, ma la maggior parte di casi non hannouna così netta definizione e dunque diventamolto rischioso il rifiuto); c) la misura in cuialtri rimedi di definizione alternativa dellecontroversie siano stati esperiti (questo puntosi potrebbe ascrivere nel più ampio punto diseguito trattato, la ragionevole prospettiva disuccesso); d) i costi della mediazione irragio-nevolmente alti; e) il ritardo pregiudizievolenel ricorrere alla giustizia ordinaria; f) la ra-gionevole prospettiva di successo della me-diazione (il relativo onore della prova ricadesulla parte che ha proposto la mediazione, poirisultata soccombente in giudizio). semprenella medesima sentenza veniva anche sta-tuito che, nel caso in cui sia stato il tribunalead “invitare” le parti a tentare la composi-zione della controversia in mediazione33 e unadi esse abbia rifiutato, questa circostanza co-stituisce, da sola, un valido motivo per appli-care la sanzione, in termini di costi, neiconfronti della parte poi risultata vittoriosa34.

Il Giudice di prime cure del caso Swain v.Mills Reeve ha ritenuto irragionevole il rifiutoa mediare per diversi ordini di motivi: le partise fossero entrate in mediazione avrebberomeglio compreso i reciproci punti di forza e didebolezza; la mediazione avrebbe evitato queidanni (collaterali) di reputazione che fanno se-guito alla pubblicità di un caso giudiziariosulla responsabilità professionale; la media-zione aveva una reale possibilità di successo,la prospettiva di un esito favorevole della me-diazione non era così irrealistica da determi-

nare un rifiuto netto ad ogni livello da partedel convenuto anche solo a considerare l’ipo-tesi della mediazione; la forte convinzionecirca la mancanza di fondamento della pretesaattorea (che non ha neanche fatto prendere alconvenuto in considerazione la possibilità dimediare) ha determinato, secondo il Giudice,un’irragionevole posizione del convenuto35.

A seguito della prefata pronuncia, mentrela parte soccombente ha proposto appello nelmerito, la parte risultata vittoriosa ha ritenutodi chiedere, con appello incidentale, la riformadel capitolo “spese di giudizio” proprio addu-cendo che il proprio rifiuto a mediare nonfosse irragionevole. E i giudici d’appello di-scostandosi dal giudizio formulato sulle spesedal giudice di prime cure (caso davvero raro,atteso che il potere di determinazione dellespese è discrezionale e come tale, solitamente,non riformabile) hanno ritenuto che, nel casodi specie, il rifiuto a mediare del convenutonon fosse ingiustificato. In sostanza rifacen-dosi al caso Halsey v Milton Keynes GeneralNHS Trust e ripercorrendo la check list in basealla quale il Giudice dovrebbe decidere circala ragionevolezza o meno del rifiuto a me-diare, i Giudici d’appello hanno analizzato leragioni del Giudice di prime cure ed hanno insostanza sostenuto: che non v’era prospettivadi successo della mediazione in quanto le po-sizioni delle parti erano distanti “100 miglia”(100 miles apart) e ciò era emerso dall’importodella proposta conciliativa fatta dall’attore36

(750,000 sterline) che il convenuto aveva rifiu-tato, rendendo noto che al massimo potevaprendere in considerazione l’idea che ognunosi facesse carico delle proprie spese sino a quelmomento, senza che si desse dunque corsoall’imminente giudizio; e ancora, che noncomprendevano la valutazione dei “danni col-laterali di reputazione” connessi alla mancatamediazione, come elemento da prendere inconsiderazione, quando, a volte, di contro,Te

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sono proprio le definizioni conciliative inmateria che possono determinarli, e che in-vece la parte citata in un giudizio che haavuto diffusione mediatica vorrebbe conclu-derlo per informare l’opinione pubblica.

La circostanza, infine, che il convenuto, ri-tenendo debole e senza speranze la domandadell’attore, avesse mantenuto ferma e inalte-rata la posizione di non aderire a risoluzionialternative della controversia, durante tuttoil periodo in cui la vicenda si è sviluppata,non poteva determinare sic et simpliciter la ir-ragionevolezza del rifiuto.

Per i motivi innanzi illustrati, la Corted’appello ha ritenuto che il diniego oppostonon fosse irragionevole e, non potendo leparti essere obbligate a mediare, come sta-tuito peraltro nel famoso caso Halsey v MiltonKeynes General NHS Trust [2004], ha rideter-minato la refusione dei costi in favore dellaparte vittoriosa (stabilendo il 60% e non il50% come in primo grado, di fatto non at-tuando uno stravolgimento del primo prov-vedimento, ma certamente prendendoposizione sulle motivazioni rese dal Giudicedi prime cure).

PGF II SA v. OMVS company del gennaio

2012 - ma in un altro recente caso resoquest’anno (PGF II SA v. OMVS37 company) ilrifiuto a mediare è stato considerato ingiusti-ficato proprio sulla base delle regole stabilitenel famoso caso Halsey v. Milton Keynes Gene-ral NHS Trust, in quanto, in una causa perdanni derivanti da violazione di accordi circala riparazione di immobili concessi in loca-zione, il giudice ha stabilito che il rifiuto amediare opposto dal convenuto era irragio-nevole in quanto si trattava di un caso conuna buona prospettiva di definizione in me-diazione, anche alla luce dell’assistenza of-ferta da avvocati di esperienza; che ilcomportamento della parte che aveva propo-sto la mediazione (il convenuto), tenuto in

altri casi di mediazione avvenuti anni addie-tro sempre tra le parti in questione, non po-teva assurgere a giustificato motivo perl’altra parte a non aderire all’invito alla me-diazione; che la motivazione addotta daparte attrice secondo la quale il rifiuto eragiustificato poiché nel momento in cui la me-diazione veniva richiesta non era a disposi-zione delle parti tutta la documentazionetecnica, è risultata al Giudice infondata e nonsufficiente ad integrare il ragionevole motivoper non tentare la mediazione, atteso chemolte controversie, anche più complesse,sono risolte molto prima che tutto il mate-riale per il processo sia pronto; che durantela mediazione molte informazioni vengonoassunte (senza pregiudizio per l’eventualegiudizio successivo, secondo il principio sta-bilito dal “without prejudice privilege”38); e an-cora che la ratio che sottende alla decisioneHalsey v. Milton Keynes General NHS Trust è ilrisparmio dei costi offerto dalla mediazionee ciò si raggiunge solo se le parti sono dispo-ste a cercare un compromesso anche senzaavere una visione completa della posizionealtrui, come invece accade naturalmentequando si è in giudizio39. E in ogni fase dellacontroversia, prima e durante il giudizio, diforte supporto dovrebbe essere la condottadegli avvocati che offrono assistenza alleparti: in quest’ultima sentenza infatti vieneaffermato che “coloro che esercitano le profes-sioni legali adesso dovrebbero in maniera sistema-tica considerare assieme ai loro clienti se lacontroversia rientra tra quelle adatte ad esseremediate”.

ma vi è anche un altro aspetto interes-sante per meglio comprendere fino a chepunto si possa estendere l’ambito di applica-bilità del potere discrezionale: il Giudice havalutato negativamente il comportamentodella parte invitata in mediazione che ha ri-tenuto di ignorare gli inviti alla mediazione Te

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formulati da controparte e di non addurre pertempo le proprie ragioni per la mancata ade-sione, in quanto la mancata risposta implicauna manifestazione di non adesione, ed ognigiustificazione che si offre in un momento suc-cessivo a quello in cui si sarebbe dovuta ren-dere (in risposta ad una richiesta dimediazione) non risulterà mai agli occhi delGiudice convincente quanto quella data pertempo.

Da una breve disamina, certo non esaustivama aggiornata ai casi più recenti della giuri-sprudenza inglese, si possono rinvenire ottimispunti per cominciare a delineare quello chepotrebbe divenire, ben presto, l’orientamento(o gli orientamenti) dei Giudici italiani chia-mati a valutare la mancata adesione in assenzadi giustificati motivi come comportamentosanzionabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., river-berandone dunque le conseguenze sulla ripar-tizione delle spese, come il D. Lgs. n. 28/2010consente.

NOtE

1 merita di essere ancora ricordato che l’art. 12, primocomma, lett. b) del D.L. 22.12.2011 n. 212 aveva dispostol’anticipazione del momento di irrogazione della san-zione di cui sopra alla prima udienza, invece che allapronuncia della sentenza: “all’articolo 8, comma 5, [delDecreto] al secondo periodo sono anteposte le seguenti parole:<<Con ordinanza non impugnabile pronunciata d’ufficio allaprima udienza di comparizione delle parti, ovvero all’udienzasuccessiva di cui all’articolo 5, comma 1,>>”. tuttavia la di-sposizione è poi stata soppressa dalla legge di conver-sione 17.02.2012 n. 10, pubblicata il 20 febbraiosuccessivo: e poiché le modifiche apportate dalla leggedi conversione hanno efficacia dal giorno successivo aquello della loro pubblicazione ne deriva che la disposi-zione anticipatoria introdotta dal decreto legge 212 – en-trato in vigore il 23.12.2011 – è stata efficace per circa duemesi (23.12.2011 – 21.02.2012), nel corso dei quali le con-troversie giunte dinanzi al Giudice per la prima udienza,in esito all’esperimento infruttuoso della mediazione permancata ingiustificata comparizione della parte invitata,

avrebbero potuto teoricamente vedere l’immediata ap-plicazione della sanzione di cui trattasi. Va peraltro dettoche, nonostante la caducazione della disposizione che lopermetteva, il tribunale di termini Imerese – con ordi-nanza del 9.05.2012 – ha stauito l’irrogabilità della san-zione in via immediata, poiché la relativa condanna(obbligatoria in virtù del tenore della norma) prescindedel tutto dall’esito del giudizio, sicché la pronuncia san-zionatoria può intervenire anche in un momento tempo-ralmente antecedente rispetto al provvedimento chedefinisce il giudizio.2 V. mILIZIA, Nessuna multa per il contumace che non ri-sponde all’invito alla mediazione, commento a ordinanzadel trib. di Palermo, sez. Dist. di bagheria, del13.06.2012, in Diritto e giustizia, Giuffré, 17.07.2012.3 Considerando XIV della Direttiva: “La presente direttivadovrebbe inoltre fare salva la legislazione nazionale che rendeil ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad in-centivi o sanzioni purché tale legislazione non impedisca alleparti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudizia-rio”; art. 5, comma 2, della Direttiva: “La presente direttivalascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ri-corso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivio sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giu-diziario, purché la legislazione non impedisca alle parti di eser-citare il diritto di accesso al sistema giudiziario”.4 V. Cass. Civ., sez. III, 26.06.2007, n. 14748; sez. III,10.10.2003, n. 15181; sez. III, 24.01.2003, n. 1112; sez. Lav.,19.12.2001, n. 16020; sez. II, 4.04.2000, n. 4085; sez. Lav.,10.06.1998, n. 5784; sez. III, 1.04.1995, n. 3822; sez. Lav.,14.09.1993, n. 9514; sez. III, 5.06.1991, n. 6344; sez. Lav.,25.06.1985, n. 3800; sez. III, 6.02.1982, n. 696. In sensocontrario v. però Cass. Civ., sez. VI, 5.12.2011, n. 26088nonché Cass. Civ., sez. III, 22.06.2001, n. 8596, la qualeultima – con riguardo al comportamento osservato di-nanzi all’Ispettorato dell’Agricoltura in sede di tentativodi conciliazione ex art. 46 della L. n. 203/1982 – ha pre-cisato che “Il <<contegno delle parti>> dal quale, ai sensidell’art. 116, comma 2, c.p.c., il giudice è abilitato a trarre ele-menti indiziari di giudizio, è solo quello tenuto nel corso delprocesso, rimanendo, pertanto, ininfluente, ai predetti effetti,il comportamento tenuto dinanzi al competente ispettoratoagrario in sede di tentativo di conciliazione ex art. 46 l. n. 203del 1982, previsto come onere a carico di chi intenda proporrein giudizio una domanda relativa a controversia agraria”.5 si noti l’uso del modo indicativo nell’espressione “Lamancata comparizione di una delle parti e le posizioni assuntedinanzi al conciliatore sono valutate dal giudice …”. Ov-viamente quale dovesse essere il tenore di tale valuta-zione era lasciato alla discrezionalità del magistrato.6 Reperibile on line all’indirizzo URL: http://www.adr-concilmed.it/home/art1/0/10002/10226/Relazione-il-Te

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lustrativa—-schema-di-decreto-legislativo-28-10-09.html.7 Consultabile on line all’indirizzo URL: http://www.tut tocamere . i t/ f i l es/dirsoc/RDs_RE-LAZIONE_Procedimenti.pdf.8 Un’attenuazione della rigida applicazione del princi-pio della soccombenza (intesa volta a volta in dottrinacome deroga o specificazione del medesimo) si rin-viene altresì nel primo comma dell’art. 92 c.p.c., checonsente al Giudice: a) di escludere la parte vittoriosadalla ripetizione delle spese superflue, cioè non neces-sarie o addirittura non opportune ai fini del correttosvolgimento del processo, come pure di quelle ecces-sive, cioè le spese che – ancorché necessarie – si presen-tino sproporzionate in termini di tempo o di denarorispetto al fine perseguito (PAJARDI, La responsabilitàper le spese e per i danni nel processo, milano, 1959, 11); b)di gravare la parte, pur vittoriosa, della condanna alrimborso delle spese processuali anche non ripetibilicausate alla controparte dalla violazione del dovere dilealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. (Cass. Civ., sez.Lav., 6.03.1996, n. 1743). Appare però difficile pensareche l’applicazione dell’art. 92, primo comma, possacomportare la completa obliterazione del criterio dellasoccombenza, nel senso di escludere la parte vittoriosadalla ripetizione in toto delle spese sostenute (non po-tendo queste essere tutte eccessive o superflue).9 V. Cass. Civ., sez. III, 29.03.2007, n. 7739; sez. III,12.07.2006, n. 15777; sez. III, 11.07.2003, n. 10948; sez.Lav., 9.12.1994, n. 10554; sez. Lav., 7.12.1984, n. 6462. Enel merito trib. bari, sez. Lav., 10.11.2011; trib. milano,sez. V, 8.02.2006, n. 1475.10 V. ANDRIOLI, Confessione (dir. proc. civ.), voce del No-vissimo Digesto Italiano, IV, torino, 1959, 14.11 V. FERRI, Interrogatorio (dir. proc. civ.), voce dell’Enci-clopedia Giuridica, XVII, Roma, 1989, 9.12 L’articolo è stato integralmente sostituito dall’art. 31,terzo comma, della L. 4.11.2010 n. 183.13 si ricorderà che l’art. 412, quarto comma, c.p.c., neltesto vigente anteriormente alla menzionata L. n.183/2010, stabiliva invece espressamente un rapportodi interferenza tra le risultanze del verbale di mancataconciliazione e la statuizione sulle spese del successivogiudizio.14 V. Cass. Civ., sez. III, 17.07.2008, n. 19695: “L’ordi-nanza di convalida di sfratto è un provvedimento di tutelagiurisdizionale irrevocabile che ha valore di cosa giudicatasostanziale per la risoluzione del rapporto di locazione e perla condanna al rilascio”.15 Allo stesso modo, pur in assenza di una procedimen-talizzazione delle modalità di comunicazione all’invi-tato della domanda di mediazione e della data del

primo incontro, l’assenza dovrà essere considerata giu-stificata tutte le volte in cui l’organismo abbia adope-rato un mezzo non idoneo ad assicurarne la ricezione,violando il parametro di cui all’art. 8, primo comma,del Decreto.16 Così anche L. bOGGIO, Mediazione e difesa, milano,2011, 74 ssg.17 Queste ultime dovranno essere riportate nel verbalenegativo – in deroga, si ribadisce, al divieto di utilizza-bilità di cui all’art. 10, primo comma, del Decreto -onde consentire legittimamente al Giudice, una voltaritualmente acquisito al processo tale documento, diesperire in ordine ad esso le valutazioni di cui all’art.8, quinto comma.18 Ed invero, ove pure volesse considerarsi il verbale dimancato accordo munito dell’efficacia probatoria pro-pria del processo verbale redatto da un pubblico uffi-ciale, ai sensi dell’art. 2700 c.c., le ragioni (nondichiarate) della mancata partecipazione di una parte,non rientrando nel novero delle dichiarazioni rese alcospetto del pubblico ufficiale né degli atti compiutialla sua presenza, sarebbero evidentemente sottratte atale efficacia probatoria.19 V. ancora L. bOGGIO, Op. loc. cit.20 V. mILIZIA, In arrivo una multa pari al contributo uni-ficato per il convenuto che non partecipa alla mediazione ob-bligatoria, nota a commento dell’ordinanza del trib. ditermini Imerese del 9.05.2012, in Diritto e Giustizia,Giuffré, 26.06.2012.21 Così pure trib. Palermo, sez. Dist. bagheria, ord.13.06.2012, già citata in nota 2: con la precisazione chequalora il motivo addotto dalla parte non comparsa inmediazione abbisogni di essere provato a mezzo di do-cumenti o prove orali, prima della irrogazione dellasanzione si dovrà attendere la scadenza del termine perle richieste istruttorie di cui all’art. 183, ultimo comma,c.p.c. o il completamento della fase istruttoria (in ognicaso la mancata conversione in legge del decreto n.212/2011 non osta a che la condanna di cui trattasi,estranea al regime delle spese di lite, possa essere pro-nunciata prima della sentenza, atteso che tale mancataconversione va intesa solo come “non necessaria prede-terminazione del momento dell’iter processuale in cui il giu-dice deve effettuare il sindacato in questione e deve procederead irrogare la sanzione se non ritiene giustificata la mancatacomparizione”); ancora la medesima sezione Distaccatadi bagheria, cui va evidentemente il merito di stare cre-ando un “filone” giurisprudenziale sul tema, con ordi-nanza del 20.07.2012 ha confermato integralmente taliprincipi, negando che l’età avanzata della parte invi-tata possa costituire giustificato motivo di non ade-sione, se la sede deputata allo svolgimento della Te

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mediazione non è lontana dal suo luogo di residenza epotendo comunque delegare altri a partecipare, previoconferimento di procura.22 V. FIshER – URY - PAttON, L’arte del negoziato, Cor-baccio, milano, 2005, 89.23 V. tANtALO, La mancata comparizione della compagniadi assicurazione attesta il perseguimento di intenti dilatori,10.07.2012, nota a commento della sentenza citata, inmondo ADR, all’indirizzo: http://www.mondoadr.it/cms/sentenze/la -mancata -compar iz ione- in -mediazione-della-parte-convenuta-in-presenza-di-importanti-elementi-quali-la-sentenza-non-definitiva-attesta-il-perseguimento-di-intenti-dilatori.html. La sen-tenza di apprezza anche per una puntuale ricostruzionedell’efficacia degli “argomenti di prova” di cui all’art. 116,secondo comma, c.p.c.24 44.3Court’s discretion and circumstances to be taken into accountwhen exercising its discretion as to costs(1) The court has discretion as to –(a) whether costs are payable by one party to another;(b) the amount of those costs; and(c) when they are to be paid.(2) If the court decides to make an order about costs –(a) the general rule is that the unsuccessful party will be or-dered to pay the costs of the successful party; but(b) the court may make a different order.(3) The general rule does not apply to the following procee-dings –(a) proceedings in the Court of Appeal on an application orappeal made in connection with proceedings in the Family Di-vision; or(b) proceedings in the Court of Appeal from a judgment, di-rection, decision or order given or made in probate proceedingsor family proceedings.(4) In deciding what order (if any) to make about costs, the courtmust have regard to all the circumstances, including –(a) the conduct of all the parties;(b) whether a party has succeeded on part of his case, even ifhe has not been wholly successful; and(c) any payment into court or admissible offer to settle madeby a party which is drawn to the court’s attention, and whichis not an offer to which costs consequences under Part 36apply.(5) The conduct of the parties includes –(a) conduct before, as well as during, the proceedings and inparticular the extent to which the parties followed the PracticeDirection (Pre-Action Conduct) or any relevant pre-actionprotocol;(b) whether it was reasonable for a party to raise, pursue orcontest a particular allegation or issue;(c) the manner in which a party has pursued or defended his

case or a particular allegation or issue; and(d) whether a claimant who has succeeded in his claim, inwhole or in part, exaggerated his claim.(6) The orders which the court may make under this rule in-clude an order that a party must pay –(a) a proportion of another party’s costs;(b) a stated amount in respect of another party’s costs;(c) costs from or until a certain date only;(d) costs incurred before proceedings have begun;(e) costs relating to particular steps taken in the proceedings;(f) costs relating only to a distinct part of the proceedings; and(g) interest on costs from or until a certain date, including adate before judgment.(7) Where the court would otherwise consider making an orderunder paragraph (6)(f), it must instead, if practicable, makean order under paragraph (6)(a) or (c).(8) Where the court has ordered a party to pay costs, it mayorder an amount to be paid on account before the costs are as-sessed.(9) Where a party entitled to costs is also liable to pay coststhe court may assess the costs which that party is liable to payand either –(a) set off the amount assessed against the amount the partyis entitled to be paid and direct him to pay any balance; or(b) delay the issue of a certificate for the costs to which the partyis entitled until he has paid the amount which he is liable to pay.25 Civil Procedure Rules (CPR) 1.4 requires court to activelymanage cases and states: ‘encouraging the parties to use analternative dispute resolution procedure if the court considersthat appropriate, and facilitating the use of such procedure.’26 tutti i giudici inglesi stanno attualmente partecipandoad un corso in materia di mediazione (tenuto dal CEDRThe Centre for effective dispute resolution, organismo noprofit inglese che si occupa di mediazione), in modo cheacquisiscano maggiori conoscenze in tale ambito. 27 Cfr. http://www.judiciary.gov.uk/media/media-re-leases/2012/news-release-mediation-pilot-court-of-appeal. 28 CPR – Civil Procedure Rules - Practise Direction 51H“Mediation Service Pilot Scheme” -. Vengono escluse dalsistema sperimentale le controversie vertenti sulle se-guenti materie: infortunistica stradale, danni da lesionipersonali e i danni relativi allo stato degli immobili. 29 Cfr articolo in Lexology “Navigating the adjudica-

tion process”Fenwick Elliott solicitors Lisa KingstonUnited Kingdom - April 26 2012 http://www.lexol-ogy.com/library/detail.aspx?g=18d98cbd-dd15-4725-92c2-3e9f65c631af.30 mason & Ors v mills & Reeve (A Firm) [2012] EWCACiv 498 (23 April 2012) all’indirizzo URL:http://www.bailii.org/ew/cases/EWCA/Civ/2012/498.html.Te

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6131 halsey v milton Keynes General Nhs trust [2004]EWCA Civ 576 (11 may 2004) all’indirizzo URL:http://www.bailii.org/ew/cases/EWCA/Civ/2004/576.html.32Un’altra precedente sentenza – significativa ma co-munque ampliata e dunque superata da Halsey v Mil-ton Keynes General NHS Trust – è hurst v Leeming[2001] EWhC 1051, resa nel 2002, ove non venne pena-lizzata la parte che si rifiutò di mediare, poiché il giu-dice aderendo alle tesi svolte da quest’ultima, ritenneche davvero fosse irrealistica una definizione della con-troversia in mediazione. 33 sebbene nel caso halsey non si trattasse di media-zione delegata (Court-ordered mediation), ma di propostedi mediazione intercorse tra le parti, la Corte ha decisoanche di esprimersi su questo punto.34 “Can you refuse to mediate? Wedlake bell Jeremy Le-derman United Kingdom July 13 2012” in Lexologyhttp://www.lexology.com/r.ashx?l=7h0LAER.35 “Court of Appeal defends successful party’s refusal to me-diate” herbert smith LLP (Alexander Oddy and AnitaPhillips) United Kingdom April 30 2012 in Lexologyhttp://www.lexology.com/r.ashx?l=7h0LAN236 Part 36 Offer : è una proposta conciliativa che una

parte può fare all’altra, prevista dal codice di proce-dura civile inglese, proponibile anche poco prima cheinizi il giudizio, come è avvenuto nel caso che stiamotrattando. 37 high court of justice queen’s bench division technol-ogy and construction court - Case: PGF II sA v. OmVs-27-01.2012 - URL: http://www.bailii.org/ew/cases/EWhC/tCC/2012/83.html 38 trattasi di un principio di common law relativo allariservatezza ed inutilizzabilità delle informazioni as-sunte in mediazione in un eventuale e successivo giu-dizio (ma il principio non è assoluto e vale a secondadella natura delle informazioni acquisite). In ogni casola clausola può essere posta in questi termini “withoutprejudice save as to the costs” e dunque al Giudice è con-sentito visionare le istanze di mediazione propostedalle singole parti quando deve determinare i costi, allafine del giudizio. 39 “Penalties for failing to mediate” Dorsey & WhitneyLLP Nicholas burkill, tim maloney, John Lurie, simonWhitehead, matthew blower and Peter tannion, UnitedKingdom June 25 2012 in Lexology  http://www.lexol-ogy.com/r.ashx?l=7h0LAPR

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Premessa

I recenti scandalosi fatti di cronaca hannomesso in evidenza lo sperpero di denaropubblico da parte delle Regioni, la cui effi-cienza amministrativa era già in forte crisi,basti pensare ai buchi mostruosi nei bilancidella sanità, nonostante i crescenti trasferi-menti di risorse, passati, negli ultimi diecianni, da 74 miliardi di euro agli attuali 108,secondo i dati forniti dalla Ragioneria Gene-rale dello stato.

Il modello di decentramento legislativo edamministrativo, definito dal legislatore na-zionale agli albori degli anni ’70, ha avutonegli ultimi 14 anni, sotto la spinta politicadel federalismo, un crescente impulso, a cuiha fatto riscontro la irresponsabilità dellaspesa pubblica, sottratta ad ogni forma di ef-fettivo controllo.

Con l’istituzione dell’IRAP e delle addi-zionali regionali e comunali IRPEF, a partiredal 1998, le entrate fiscali per le Regioni sonoprogressivamente aumentate, passando da43 miliardi di euro ai 78 miliardi di euro del2010.

segue poi il decreto legislativo n 56 del 18febbraio 2000, “Disposizioni in materia di fe-deralismo fiscale”, in base al quale alle Re-gioni spetta la compartecipazione all’Iva, fissatainizialmente pari al 25,7 % del gettito com-

plessivo introitato dallo stato; nel 2012 talecompartecipazione è stata di 57,5 miliardi dieuro.

Nel 2001, con la legge costituzionale n 3,viene promulgata la riforma del titolo Vdella Costituzione, trasferendo ulteriori fun-zioni e competenze alle Regioni a statuto or-dinario; questa operazione non è peròrisultata economicamente conveniente per ilcittadino contribuente. Infatti, mentre non siè determinata una diminuzione del fabbiso-gno di spesa a livello centrale, è salito a di-smisura quello regionale, a cui ha fattoriscontro, in parallelo, un drastico aumentatodella pressione fiscale, con le nuove tasse re-gionali.

Alcuni dati, tratti da Il Sole 24 Ore del 28 e29 settembre 2012, rendono molto chiaroquanto è avvenuto e spiegano anche la crisiin atto.

Dal 2001 a 2010 la spesa corrente regio-nale, ossia quella per il mero funzionamentodell’ente regione, è lievitata da 107,6 miliardidi euro ad oltre 150 miliardi, con un incre-mento che supera il 40%, ed un aumento delprelievo fiscale regionale di oltre il 50%.

Le drastiche misure economiche e fiscalidel Governo monti per mettere ordine aiconti pubblici ed abbattere il pauroso debitonazionale, accumulatosi nel corso degli ul-timi 20 anni, e le più recenti misure della D

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Ambiente e federalismo

Giorgio CorradoDocente di Legislazione Forestale e Ambientale presso l’Università della Tuscia

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spending review rischiano d’essere vanificate,se l’organizzazione complessiva delle strut-ture pubbliche di gestione restano invariatenella sostanza a quelle attuali.

è dunque necessario ripensare nel pro-fondo ed in fretta la politica federalista ed i li-velli di gestione politica ed amministrativa.

Quando il costituente del 1948 disegnò l’or-ganizzazione dello stato, prevedendo Co-muni, Province e Regioni, quali entiintermedi, l’Unione Europea non esisteva edil contesto socio economico era profonda-mente diverso dall’attuale: eravamo appenausciti dalla guerra, c’erano ancora i dazi do-ganali e le comunicazioni viaggiavano con iltelegrafo. Oggi l’isolamento delle vallate èstato ampiamente superato, siamo nell’econo-mia globalizzata, è l’epoca di internet.

L’organizzazione dello stato va riformu-lata, per via costituzionale, per dare miglioriservizi al cittadino e per farlo sentire più par-tecipe e vicino alle decisioni politiche, maanche per ridurre il gravame complessivo fi-scale, che ostacola qualsivoglia politica di svi-luppo e comprime i consumi.

senza ledere i diritti inalienabili propri diun sistema democratico, il sistema attuale didecentramento amministrativo necessita d’es-sere rivisto alla luce della modernità del 21°se-colo, avendo ben presente il problema delcontenimento del debito pubblico, per inci-dere soprattutto nella spesa corrente utilizzatadai diversi livelli di rappresentanza politica edi gestione della cosa pubblica.

Con la realizzazione dell’Unione Europeae della moneta unica, da perfezionare ulterior-mente, con una vera banca centrale d’emis-sione, per arrivare il prima possibile agli statiUniti d’Europa, c’è stata già una devoluzionedi competenze in senso verticale, onde i sin-goli stati nazionali sono diventati, essi stessi,un primo livello di decentramento legislativoed amministrativo.

E tanto più forte è la necessità di rafforzarea livello europeo gli Organismi comunitari,Commissione e Parlamento, per pervenire adun autorevole, democratico esecutivo comu-nitario, tanto più i nostri attuali enti intermediterritoriali, Regioni e Province, vanno ripen-sati e rimodulati.

In altri termini, da bruxelles a Roma, ilprimo livello politico decentrato è, già oggi, lostato italiano, a cui seguono gli altri organismiterritoriali.

In questa nuova scala amministrativa leRegioni e le Province, come sin ora definite,paiono del tutto superate e superflue, con unasovraesposizione di spesa ed una frammenta-zione di funzioni, competenze e responsabi-lità.

Il cittadino si identifica tutt’ora nel suocampanile, nel sindaco: ed è un bene mante-nere tale riferimento territoriale. Certo, per ge-stire i servizi essenziali di piccoli municipi,non possono che esserci le Unioni di Comuni,come già previsto dal nostro ordinamento, darafforzare ed incentivare, in una logica di ra-zionalità della spesa.

sull’abolizione delle Province ed aggiungodelle Comunità montane, quali soggetti ge-stionali di politiche locali e settoriali, si è svi-luppato, al di là dei diretti interessati, unampio schieramento favorevole. La soluzioneal momento, di una parziale riduzione delleprime con l’accorpamento di quelle che nonraggiungono i parametri prefissati di popola-zione e di territorio, pare del tutto insuffi-ciente e non risolutiva in prospettiva deiproblemi posti sul tappeto.

Gli attuali enti regionali necessitano an-ch’essi di una profonda rivisitazione nel nu-mero, nel funzionamento, nelle competenze,per arrivare a nuove aggregazioni ammini-strative di macroregioni, come autorevoli studihanno da tempo ipotizzato.

Le macroregioni dovrebbero avere funzioniDir

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legislative subordinate e funzioni ammini-strative indirette: le prime di adeguamentodelle norme comunitarie e nazionali ai loroterritori allargati; le seconde da gestire attra-verso gli stessi uffici decentrati dei ministerie quelli dei Comuni.

In questa innovativa prospettazione unruolo nuovo, tutto da riordinare, spetta inparticolare alle strutture operative dellostato: dalle Prefetture agli uffici periferici mi-nisteriali, deve esserci una pubblica ammini-strazione aperta al cambiamento, autonoma,funzionale agli obiettivi indicati sia dallostato che dalle macroregioni.

La riforma del titolo V della Costituzione

e la gestione dell’ambiente

Con la riforma del titolo V della Costitu-zione, fatta con la legge costituzionale del 18ottobre 2001, n.3, all’art.117, si elencano lematerie di esclusiva competenza legislativadello stato e quelle di legislazione concor-rente stato e Regioni; per tutte le materie nonespressamente riservate alla legislazione sta-tale, insiste la potestà legislativa, esclusiva,delle Regioni.

Rispetto alla precedente formulazionedell’art. 117, nel mentre si amplia notevol-mente il ventaglio delle competenze di parteregionale, si immettono elementi di fram-mentazione e di sovrapposizione, come nelcomplesso settore della salvaguardia del-l’ambiente.

Con la legge di riforma, fatto positivo, iltermine ambiente entra esplicitamente nellanostra Carta e nel riformulato art.117, allostato spetta di legiferare in modo esclusivosulla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e deibeni culturali, mentre stato e Regioni concor-rono legislativamente al governo del territorio

e alla valorizzazione dei beni culturali e ambien-tali.

I distinguo tra competenze legislative at-tribuite in via esclusiva allo stato e quelle dinatura concorrente, in materia di ambiente,territorio e beni culturali, nel concreto, nonsono così de plano scontati, tanto che la CorteCostituzionale è dovuta intervenire per chia-rire che le Regioni possono legiferare in temadi tutela ambientale solo per fissare standarddi tutela in peius, ossia più rigidi e severi, ri-spetto ai limiti fissati dal legislatore a livellonazionale.

specificatamente alla materia forestale,questa dovrebbe essere di esclusiva spet-tanza regionale, in quanto non espressa-mente riservata alla legislazione dello stato.

ma resta difficile estrapolare i boschi e lesue complementari funzioni, protettive eproduttive, di interesse pubblico e di benefi-cio privato, dal concetto di tutela dell’am-biente!

E la conflittualità istituzionale così si am-plia.

Il D.Lg.vo n. 227 del 2001 nel mentre defi-nisce le caratteristiche giuridiche del benebosco, lascia poi libertà alle Regioni di legi-ferare nel merito per quanto di specifica com-petenza.

sulla dualità delle diverse definizioni dibosco tra norma statale e norme regionalisono sorti non pochi problemi.

secondo la Cassazione Penale (sentenzasez. III n.1874 del 23.1.2007), le Regioni, dopola modifica dell’art.117 della Costituzione del2001, possono dare diverse definizioni dibosco in relazione agli aspetti produttivi egestionali del bosco, ma “non hanno più ti-tolo per definire il concetto di bosco al finedella tutela paesaggistica neppure relativa-mente al territorio di loro appartenenza. Inaltri termini, dopo l’entrata in vigore dellalegge costituzionale 18.10.2001, n.3, che ha D

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modificato la ripartizione delle competenzeregionali tra stato e Regioni, la definizionedella nozione di bosco ai fini della tutela pae-saggistica spetta solo allo stato…mentre spet-terà alle Regioni stabilire eventualmente undiverso concetto di bosco per i terreni di loroappartenenza, solo per fini diversi, attinentiper esempio allo sviluppo dell’agricoltura edelle foreste, alla lotta contro gli incendi bo-schivi, alla gestione dell’arboricoltura dalegno”.

La legge del 27 dicembre 2006, n. 296 (leggefinanziaria 2007) ha previsto la realizzazionedi un Programma quadro per il settore fore-stale (PQsF) con l’obiettivo di favorire la ge-stione sostenibile del bosco e la suavalorizzazione attraverso la multifunzionalitàdel sistema foresta.

Il Programma quadro viene elaborato dalministero delle politiche agricole alimentari eforestali e dal ministero dell’ambiente, in ade-renza alla politica forestale dell’UE e sullabase della programmazione regionale del set-tore, secondo le indicazioni contenute nell’ art.3 della legge 227/2001, per poi essere propo-sto alle Regioni.

Ne consegue che al momento la program-mazione forestale sia articola su due momentipolitici complementari e paritetici: l’uno dicompetenza dello stato, l’altro delle Regioni.

Il primo momento fa riferimento, come hariconosciuto la Corte Costituzionale, con sen-tenza 105 del 2008, all’aspetto ambientale delbosco, ritenuto un bene giuridico di valoreprimario ed assoluto, rientrante nella tutelaambientale, di esclusivo esercizio statale.

Il secondo livello, di competenza regionale,deve riferirsi “alla sola funzione economica eproduttiva…(che) può essere esercitata sol-tanto nel rispetto della sostenibilità degli eco-sistemi forestali”.

sul punto P. maddalena rimarca:”…la tu-tela ambientale, come ha puntualmente precisato

la Corte Costituzionale, ha un valore “primario”,tale da prevalere sulle altre competenze e funzioni,ed “assoluto”, cioè sciolto da limiti competen-ziali…”

La gestione dei boschi e dell’ambiente

è di tutta evidenza come il settore forestalesia da rivedere nel profondo, riscoprendo unaunicità di comportamenti e di interventi che ilsistema del decentramento amministrativo hareso negli anni ingovernabile.

Le più recenti indicazioni della Corte Co-stituzionale separano, come detto, in modonetto, le competenze dello stato sul bosco,quale elemento naturale del sistema ambien-tale, da quelle regionali, inerenti gli aspettimeramente produttivi, equiparati a qualun-que altra produzione agricola.

Per dare contezza dell’urgenza dell’assettonormativo da riformare, è sufficiente pensaread alcuni specifici capitoli del settore in que-stione. Nella lotta agli incendi boschivi simantengono contestualmente apparati di spe-gnimento aereo regionali che si sommano aquelli dello stato, del centro unificato dellaProtezione Civile (COAU), con una moltipli-cazione di spesa inversamente proporzionaleagli interventi e all’efficacia degli stessi.

Ancora oggi manchiamo di una “Carta fo-restale nazionale”, che non è, né può essere lasola e semplice ricomposizione delle carte re-gionali forestali, realizzate in modo forte-mente differenziato, per metodologia e scala,onde siamo fermi alla vecchia “carta forestaledella milizia” degli anni ’30!

La gestione delle foreste demaniali trasfe-rite alle Regioni, 450.000 ettari circa, è stataframmentata tra Comunità montane, Pro-vince, Aziende regionali, con risultati diversi-ficati sul territorio e non sempre lusinghieri,D

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tanto da arrivare, per alcune di esse, sin’an-che alla abolizione del divieto venatorio, giàprevisto dalla legge nazionale.

Il vincolo idrogeologico, i rimboschimentie la tutela economica dei boschi, competenzetrasferite dal Corpo Forestale dello stato alleRegioni nel 1972, e da queste sub delegate inmodo estremamente variegato ad altri entiterritoriali, Comunità montane, Comuni,Province, hanno perso negli anni quel valoredi salvaguardia preventiva, che era garantitodalla fase istruttoria e nei progetti fatti o ap-provati, con specifica competenza, dal CorpoForestale dello stato.

Così le ultime sistemazioni idraulico fore-stali a difesa dei territori montani sono so-stanzialmente rimaste quelle finanziate erealizzate sino ai primi anni ’70, con la leggedella montagna del 1952 e la legge 1102 del1971.

Poi, nonostante gli ingenti finanziamentidi parte pubblica, ammontanti, secondo unastima di Nomisma, a 5 miliardi di euro, nelsolo periodo 1975- 1988, i fenomeni di disse-sto in montagna non sono rallentati.

All’interno della cornice politica e norma-tiva ricordata, sono ora in molti ed in tanti a

ripensare ad una diversa organizzazionedello stato, riconducendo allo stesso compe-tenze già trasferite alle Regioni.

sino all’istituzione delle Regioni, al CorpoForestale dello stato erano stati attribuiti, conla legge 804 del 1948, tra gli altri, anche icompiti relativi ai rimboschimenti, alle siste-mazioni idraulico forestali, alla tutela tecnicaed economica dei boschi, alla gestione delleforeste demaniali e al loro ampliamento e lastessa amministrazione continuava a gestire,con ottimi risultati, il Parco Nazionale delCirceo e quello della Calabria.

Oggi, nel quadro di una rivisitazione dellecompetenze statali e di una diversa organiz-zazione del sistema politico ed amministra-tivo, sarebbe auspicabile disegnare deigoverni macroregionali, con l’abolizionedelle Province e lo scioglimento delle Comu-nità montane; le foreste, intrinseche al con-cetto di ambiente e di salvaguardia delterritorio, dovrebbero ritornare, quale ne-mesi storica, ad essere affidate alla legisla-zione unitaria dello stato e alla gestioneamministrativa, attenta ed oculata, del C.F.s.

sicuramente si risparmierebbero cospicuerisorse pubbliche, con risultati migliori.

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L’istituto della “responsabilità ogget-tiva” configura la situazione particolare perla quale un soggetto può essere responsabiledi un illecito, anche se questo non deriva di-rettamente da un suo comportamento e nonè riconducibile a dolo o colpa del soggettomedesimo; ciò costituisce una deroga alprincipio generale della responsabilità che,invece, esige l’esistenza di un preciso nessodi causalità tra il comportamento dell’indivi-duo e l’illecito stesso.

Varie sono le problematiche affrontate indottrina ed in giurisprudenza in ordine allainterpretazione ed attuazione di tale formadi responsabilità nei vari settori del diritto.

Il recente filone del calcio-scommesse (lu-glio 2011) ha riacceso i riflettori sul modo au-tomatico di applicare la “responsabilitàoggettiva” in campo sportivo, laddove iClub vengono penalizzati tout court per lecondotte illecite dei propri tesserati, senzapraticamente avere alcuna possibilità di di-fesa.

L’argomento, quindi, verrà trattato nellesue linee generali, data la sua vastità e com-plessità, dal punto di vista della giustiziasportiva del giuoco calcio, simbolo dello

sport nazionale.se nel diritto comune i vari interventi giu-

risprudenziali hanno sempre più contenutol’ambito di applicazione di tale forma di re-sponsabilità, criticata per la sua discutibilemeccanicità, nel settore calcistico se n’è vo-luta consolidare la posizione di cardine indi-scutibile, sia pure con alcune attenuazioni,quasi come baluardo (insieme al “vincolo digiustizia sportiva”) di un efficace sistema digiustizia federale.

Costantemente, per tale giustizia la re-sponsabilità oggettiva va applicata nel sensoche il Club deve essere sempre sanzionato,con esclusione di una sua possibile esimente,ogni volta che un proprio tesserato abbiaposto in essere infrazioni regolamentari.

Ciò anche quando il tesserato sia colpitoda procedimenti penali, dai quali la giustiziafederale ritiene di trarre condotte rilevantisul piano sportivo.

Le sanzioni a carico della società, in casodi c.d. “illeciti sportivi” da parte del tesse-rato, possono arrivare, anche con l’aggiuntadi ammende, fino all’applicazione di puntidi penalizzazione in classifica, alla retroces-sione o alla esclusione dal campionato, peral-tro in base a particolari meccanismi perquantificare, sommare e rendere più afflit-

Responsabilità oggettiva eordinamento sportivo

Enzo ProiettiAvvocato del Foro di Roma, Esperto di Diritto Sportivo

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tiva la pena. Come effetto incongruo, nei casi di illeciti

da parte di più tesserati, può capitare che lasocietà venga incolpata di un numero di in-frazioni superiore (quale sommatoria) aquello addossato a ciascun responsabile.

Inoltre, può anche avvenire che se il tesse-rato decide di “patteggiare” (secondo l’istitutomutuato dal diritto penale) per ottenere la ri-duzione della sanzione, a seconda dei casi, diuno o due terzi (ex artt. 23 e 24 C.G.s.), tale ri-duzione non si riverbera anche a favore dellasocietà la quale, invece, continua a dover ri-spondere delle incolpazioni piene attribuite alsuo tesserato; cosicchè, paradossalmente,colui che è il vero colpevole riesce ad usciredal procedimento disciplinare con un penamolto più lieve, mentre la società che è estra-nea ed impotente rispetto ai fatti, si trova co-munque a dover subire le conseguenze gravie intere di quella condotta.

Di contro, dal momento che la posizione

del dipendente infedele viene espunta dalprocedimento per via del patteggiamento,quegli illeciti allo stesso inizialmente attribuitie ribaltati in via automatica sulla società, es-sendo venuti meno ovvero non valutabili ap-punto per intervenuto patteggiamento (inquanto non verificati), dovrebbero corrispon-dentemente essere esclusi, a titolo di respon-sabilità oggettiva, a carico della stessasocietà.

La normativa e l’impostazione attuativa in

ambito sportivo: problematiche interpreta-

tive e di coordinamento con il diritto statuale

La normativa di riferimento è il Codice diGiustizia sportiva della F.i.g.c. il quale pre-vede; all’art. 1 che “le società, i dirigenti, gliatleti, i tecnici, gli ufficiali di gara e ogni altro sog-getto che svolge attività di carattere agonistico, tec-

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Palazzo Spada, Cortile d'onore

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nico (..…) sono tenuti all’osservanza delle normee degli atti federali e devono comportarsi secondoi principi di lealtà correttezza e probità in ognirapporto comunque riferibile all’attività spor-tiva”; all’art. 4, co. 2, che “Le società rispondonooggettivamente, ai fini disciplinari, dell’operatodei dirigenti, dei tesserati e dei soggetti di cui al-l’art. 1, comma 5”; all’art. 7, co. 4, che “il fattova punito, a seconda della gravità, con le sanzionidi cui alle lettere (….) dell’ art 18, comma 1”.

sulla base di tali norme, il sistema di in-terpretazione e di applicazione della respon-sabilità oggettiva attuato in ambito sportivo,oltre ad essere gravemente pregiudizievoleper le società cui è preclusa di ogni difesa,nonostante si tratti di condotte di terzi, ri-sulta alquanto sommario ed ingiusto, nonchénon conforme alla normativa statuale e nonrispondente neanche alle finalità di quella fe-derale.

si assiste, in verità, ad un evanescente esconfinato principio di responsabilità ogget-tiva, indiscusso in sede sportiva ma semprepiù criticato, per i suoi effetti alterati, anc henegli ambienti di settore, laddove, qualun-que sia la condotta posta in essere da untesserato, ne deve rispondere senz’altro lasocietà.

Un primo rilievo, sebbene si riconoscal’esigenza di celerità e compiutezza del-l’azione disciplinare sportiva, è che, come neicasi del calcio-scommesse che hanno evi-denza penale (trattandosi di “combine” peralterare le partite di campionato e ottenereguadagni illeciti su scommesse dall’esito pre-determinato), i procedimenti disciplinari edi capi d’incolpazione in ambito sportivo nonvengono basati su prove risultanti all’esitodi un compiuto processo penale, ma sugli attid’ indagine della Procura della Repubblicache, in quanto tali, sono limitati ed opinabilie non possono assurgere a dignità di prova,proprio perché non passati al vaglio del di-

battimento e non ancora esaminati e decisidal Giudice.

In effetti, gli atti d’indagine penale sononotoriamente parziali e con vocazione accu-satoria, tant’è che spesso gli elementi acqui-siti dal Pubblico ministero si rilevano nelcorso del processo diversi o in contrasto conle dichiarazioni e con le prove in sede di di-battimento, ovvero differentemente interpre-tati nella decisione finale del Giudice.

Cosicchè, può sorgere un contrasto inam-missibile con la giustizia dello stato inquanto, per la responsabilità oggettiva spor-tiva, una società potrebbe essere subito pe-nalizzata con punti in classifica e conmodifica irreversibile e dannosa della pro-pria posizione in campionato, a causa deicomportamenti di un proprio tesserato con-siderati illeciti in sede d’indagine penale epoi, invece, alla fine dell’indagine medesimao del processo valutati diversamente.

Emblematico è il caso della sentenzadell’8.11.2011 del tribunale Penale di Napoliche, nel condannare l’ex direttore generaledella Juventus (insieme ad altri imputati), harespinto la richiesta di risarcimento dannipresentata da altri Club a titolo di responsa-bilità oggettiva ex art. 2049 c.c. contro lastessa Juventus (che invece in sede sportivaa suo tempo era stata penalizzata per lostesso titolo per il calcio-scommesse del2006), dichiarando la società estranea ai fattiaddebitati al proprio ex direttore generale.

Allora, se da un parte il Giudice dellostato statuisce che la responsabilità ogget-tiva vada disapplicata in mancanza dei pre-supposti di legge e che, al riguardo, leposizioni del dipendente e delle società sonoautonome e valutabili in modo separato, dal-l’altra non è accettabile che il Giudice spor-tivo operi indipendentemente da taliprincipi, attribuendo alla società acritica-mente le responsabilità personale del proprio

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tesserato; in altri termini, è inammissibile cheun Club che venga dichiarato “innocente” aseguito di un processo dello stato rispetto afatti di un proprio dipendente, si veda in ognicaso penalizzato per quegli stessi fatti dal Giu-dice sportivo.

Altro dato è che da un corretto coordina-mento degli artt. 2 e 4, co.2 del C.G.s. si ricavache la responsabilità oggettiva è riferita speci-ficatamente (ed ovviamente) all’illecito spor-tivo; ciò significa che l’illecito (del dirigente,del tesserato o degli atri soggetti indicati dallanorma) deve riguardare “l’attività sportiva”, invirtù del rapporto contrattuale che lega so-cietà e tesserato, di modo che la società mede-sima abbia anche la possibilità di indirizzare,controllare e prevenire i comportamenti delproprio dipendente.

La responsabilità oggettiva di specie, cioè,presuppone che l’illecito avvenga nell’ambitodell’attività sportiva o, meglio, che si tratti diuna condotta che sia contenuta negli arginidella natura del rapporto sportivo sorto con lasocietà e che la stessa avrebbe potuto evitare.

L’istituto, insomma, trova il suo fonda-mento nell’esigenza di rendere pregnante l’ef-fettivo impegno delle società nell’attività diprevenzione nella commissione di fatti checompromettano l’ordine sportivo o la regola-rità nello svolgimento delle gare, nonchéopera da stimolo al massimo rispetto dellenorme federali da parte delle persone chesvolgono attività rilevanti per l’ordinamentosportivo.

Anche la disciplina civilistica dimostra cheelemento qualificante per la sussistenza dellaresponsabilità oggettiva è che il fatto derivi di-rettamente dal tipo di mansione ricoperto daldipendente e che il datore possa esercitare ilpotere-dovere di sorveglianza; sintomatica èla fattispecie contemplata dall’art. 2049 C.C.- Responsabilità dei padroni e dei committenti –che, come evidenziato dalla suprema Corte,

individua un’ ipotesi di responsabilità ogget-tiva dei padroni e committenti per i fatti com-messi dai propri domestici e dipendenti solonell’esercizio delle incombenze e delle fun-zioni a cui sono adibiti, ed a cui corrispondaun potere di direzione e sorveglianza da partedel datore di lavoro.

In altri termini, nel concetto di responsabi-lità oggettiva sportiva non può farsi rientrarequalunque comportamento censurabile, maesclusivamente quello che sia riconducibileagli elementi del rapporto di lavoro sportivotra società e dipendente ed alle incombenzecui quell’ultimo è adibito, sulle quali solo lasocietà ha il potere di vigilanza (ad esempio,il comportamento da osservare in campo daparte del calciatore, nel rispetto delle regoledel gioco e nel rapporto con l’arbitro o con gliavversari).

sulla base di tale impostazione le società, afortiori, non potrebbero essere chiamate a ri-spondere di condotte di altra natura e, soprat-tutto, di quelle a rilevanza penale chetravalicano oltremisura l’ambito sportivo e glielementi sopra individuati.

Ciò nondimeno, l’uso indiscriminato del-l’istituto in esame, ha condotto gli organi di giu-stizia sportiva federali a penalizzazione in ognicaso le società anche nei casi, come quelli ri-guardanti il calcio-scommesse, ove ai calciatorisono stati contestati “delitti in associazione per de-linquere (art. 416 C.P.) con vincolo associativo di ca-rattere stabile tra tre o più persone, realizzato alloscopo di commettere una serie indeterminata di de-litti mediante la predisposizione dei mezzi occorrenti(…) con stabile disponibilità di ciascuno dei partecipi(…) con consapevolezza di ciascuno di far parte delsodalizio (…), su tutto il territorio nazionale e concontatti di natura internazionale”.

Di contro, appare evidente che gli illeciti inquestione hanno precipua rilevanza penale, sipongono al di sopra e all’esterno dell’ambitoe del rapporto di lavoro sportivo, sono fuori

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da ogni possibile previsione e controllo daparte della società.

Non si tratta della violazione di regola-menti federali ma della violazione da parte diun’organizzazione illecita di precetti penaliche pone la questione in termini di gravità edilliceità su di un piano distinto e superiore, dicui devono rispondere esclusivamente a titolopersonale i colpevoli posto che, come è noto,la responsabilità penale è solo personale (art.27, co. 1, della Costituzione), principio intesonella duplice accezione di divieto di respon-sabilità per fatto altrui e come responsabilitàper fatto proprio.

Pertanto, tale responsabilità penale, inquanto precipuamente personale, non può es-sere fatta ricadere sulla società che è estraneaalla volontà delittuosa del reo, è avulsa dalrapporto di lavoro sportivo con la società edè incontrollabile da parte della stessa societàdatrice di lavoro; la società, in effetti, non hanessun mezzo per prevenire ed evitare inizia-tive delittuose del genere, né ha strumenti diindagine adeguati e sicuri e la sfera psicolo-gica del reo sfugge ad ogni possibile controllo.

Il fatto, poi, che gli illeciti penali abbianoriguardato le alterazioni delle competizionisportive, non deve indurre nell’errore di ri-portare il tutto nell’ambito del sistema spor-tivo; si tratta, invero, di organizzazionedelittuosa i cui componenti hanno semplice-mente deciso di delinquere nell’ambiente chepiù conoscevano, cioè quello delle partite dicalcio, ma la loro condotta non ha niente a chevedere con il rapporto di diritto sportivo conla società.

Giuridicamente, l’elemento qualificante edassorbente è la partecipazione al sodalizio de-linquenziale che solo accidentalmente agiscenel settore sportivo, ma che sicuramente èestraneo ed indipendente dal rapporto con lasocietà di appartenenza.

è chiaro che nella condotta criminale si

possono individuare anche comportamenticensurabili di altro tipo e minori (rispetto al-l’intereresse punitivo dello stato) quali quellomorale, etico, familiare ed, appunto, quellosportivo, ma è il reato che va punito e nellasede competente.

tuttavia, se si vuole estrapolare dal reatoanche comportamenti sanzionabili sul pianosportivo, questi non possono che valutarsi inmodo strettamente personale, alla streguadella condotta penale da cui derivano e leconseguenze non possono riverberarsi anchesulla società perché, si ribadisce, quell’illecitosportivo desunto non riguarda affatto il rap-porto con la società nedesima.

Pertanto, i fatti di rilevanza penale deb-bono portare all’esclusione alla radice ogniipotesi di responsabilità oggettiva della so-cietà perché mancano i presupposti di dirittoe perché, altrimenti, l’istituto verrebbe trasfor-mato in una illegittima forma di responsabilità“per fatto altrui” ed una sorta di richiesta im-possibile nei confronti della società, lasciatainerme esposta alle conseguenze negativedelle iniziative delittuose che un proprio tes-serato decida di assumere.

Invero, trattandosi di comportamenti delit-tuosi, pure in forma associativa e professio-nale, la società non può rispondere dialcunchè perché, se ovviamente è giustificatanon potendo prevenire la commissione di unreato da parte di un proprio tesserato, a mag-gior ragione non può evitare l’illecito sportivoche da quel reato deriva.

Altra considerazione sulla responsabilitàoggettiva applicata in modo non corretto inambito sportivo è che, difformemente dalloscopo dell’istituto in genere e delle norme fe-derali in particolare, non viene utilizzata pereliminare o reintegrare il pregiudizio deri-vante da quel comportamento del propriotesserato, ma come una duplicazione dell’in-frazione a carico della società, come se an- O

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ch’essa lo avesse commesso direttamente.ma l’elemento eziologico dell’istituto è

quello di eliminare l’eventuale nocumento chederivi dall’evento a carico di quel soggetto cheabbia un rapporto qualificato con l’agente re-sponsabile e non di chiamare a risponderetale soggetto (società) della stessa infrazionedel colpevole (il genitore risponde dei danniprocurati dal minore ma non della stessa con-dotta); in questo modo la responsabilità ogget-tiva viene trasformata in una chiamata incorreità, tanto più quando i fatti hanno rile-vanza penale.

Va aggiunto che, se la corretta applicazionedella responsabilità oggettiva è la funzione ri-paratoria del danno causato, a maggior ra-gione deve essere esclusa nei casi in cui lasocietà sia soggetto passivo dell’illecito deltesserato e cioè tutte le volte in cui le “com-bine” siano state fatte contro il Club, cercandodi alterare il risultato in suo danno

(negli atti del procedimento si legge, adesempio, che all’inizio della partita due calcia-tori si davano la mano e quello era il segnodell’accordo e che la partita doveva finire conun certo risultato).

La società in tali casi risulta parte offesa,avendo già subito danni dalla vicenda sottovari aspetti e non è giuridicamente ipotizza-bile che la stessa debba rispondere anche delleazioni di suoi tesserati che hanno operato con-tro di lei; si duplicano così ingiustamente glieffetti negativi delle azioni del colpevole chesi ripercuotono sull’intera compagine societa-ria, sugli altri calciatori, sullo staff tecnico, suitifosi e su altri ancora. sintomatica la do-manda rivolta sul tema, in quel periodo nelcorso del congresso Uefa ad Instabul dal Capodello stato turco Erdogan: “Si può condannaretutti i tifosi di un Club, si può condannare unacittà in seguito ai comportamenti di una sola per-sona?, cui il Presidente dell’Uefa michel Platinirispondeva: “forse bisogna avviare una rifles-

sione su questo argomento”.sul piano giuridico, dunque, posto che è

un assurdo rispondere di danni a se stessi, nederiva un curioso sillogismo che ribalta ilsenso dell’istituto e cioè che una società vienepenalizzata per aver subito danni a causa diilleciti contro di essa commessi da un propriotesserato.

Oltretutto è irragionevole che proprio allasocietà - che dovrebbe recuperare lo svantag-gio in campionato causato da quelle “com-bine” che le hanno impedito di vincere lerelative partite e l’ hanno sfavorita in classifica- vengano applicati ulteriori punti di pena-lizzazione, con il risultato che gli effetti nega-tivi di quel danno sono elevati all’ennesima acarico della società ed il senso della respon-sabilità oggettiva sconvolto.

Dirimente sul punto appare il pacificoorientamento della Corte suprema di Cassa-zione che ha più volte affermato che la re-sponsabilità oggettiva del datore di lavoro peri fatti posti in essere dal proprio dipendente,può essere riconosciuta soltanto nei casi in cuiil dipendente abbia posto in essere comporta-menti finalizzati al conseguimento degli obi-ettivi istituzionali della propria azienda, manon certo quando lo stesso abbia, invece,posto in essere comportamenti contrari a taleinteresse in quanto, in questi casi, l’impresaviene lesa (e non avvantaggiata) dal compor-tamento illegittimo del proprio dipendente enon può, pertanto, esserne responsabile (Cas-sazione civile sez. III, 12 marzo 2008, n. 6632;Cassazione civile sez. III, 17 dicembre 2007, n.26527; Cassazione civile sez. III, 04 giugno2007, n. 12939).

In questa ottica, la responsabilità oggettivacosì concepita, contrariamente a quanto silegge in molte decisioni sportive, non ri-sponde affatto “all’esigenza di assicurare il paci-fico e regolare svolgimento dell’attività sportiva”,ma anzi viene ad incidere in maniera inade-

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guata e senza giustificazione proprio sullosvolgimento della competizione sportiva, al-terando il campionato per colpe di altri e pe-nalizzando il Club che è parte lesa e non puòfar nulla per difendersi; sanzionando indi-stintamente anche il soggetto passivo dell’il-lecito in nome di un generico ordine violato,non si tutela evidentemente alcun interessegenerale ma si creano solo ulteriori ed ingiu-ste sperequazioni a carico di chi è stato giàdanneggiato, andando anche ad interferiresulle posizioni in campionato che, invece,dovrebbero rimane intangibili e solo dipen-denti dal risultato agonistico del campo.

Oltretutto, non si comprende quale sa-rebbe la ratio di una tale impostazione se nonquella del clamore mediatico, perché certa-mente non rappresenta un deterrente nè unrecupero per il tesserato infedele il quale, seha deciso di delinquere in danno della pro-pria squadra, figuriamoci se può essere dis-suaso o voglia astenersi perchè preoccupatodelle sorte che toccherà alla squadra in con-seguenza delle sue azioni; né ha qualcheobiettivo nei confronti della società che nonpuò leggere nella mente delittuosa del tesse-rato e che, quindi, non può far nulla per evi-tare quella condotta, trattandosi di iniziativeillecite che rientrano nella sfera di privata au-tonomia del colpevole, sulle quali la societànon alcuna possibilità di controllo e di inter-vento.

Vero paradosso è che, secondo le previ-sioni federali, nel caso in cui le alterazione digara vengano fatte a vantaggio della società(ancorché da “persone estranee”) si applica lac.d. “responsabilità presunta” (art. 4, co.5,del C.G.s.) che offre alla società interessatala possibilità di dare la prova di non averpartecipato e di non essere a conoscenzadella “combine” e, quindi, di potere esclu-dere la sua responsabilità; mentre con la re-

sponsabilità oggettiva, dove non ricorre ilvantaggio ma anzi vi è un danno, la societàdeve subire gli effetti della condotta illecitadel tesserato, del quale è in balia senza po-tere opporre alcuna giustificazione o esi-mente.

In tema, significativa per la sua eloquenzain ordine alla disapplicazione della respon-sabilità oggettiva nei casi in cui difettano i re-quisiti di legge è la sentenza del t.A.R. diCatania del 13.4.2007 n° 679/2007 (con cuisono sati annullati i provvedimenti sanzio-natori della F.i.g.c. nei confronti del CataniaCalcio), che in modo profondo affronta laproblematica in esame e si pone come im-portante decisione della Giustizia statale, pe-raltro in linea con la sentenza del TribunalAdministratif di Parigi del 16.3.2007, sulmodo di applicare i principi giuridici in am-bito sportivo: (…) giustamente si sottolinea, poi,l’evidente contrasto tra i provvedimenti impu-gnati e gli inderogabili principi dell’ordina-mento, consacrati in apposite norme di rangocostituzionale (art. 2 e 27, comma 1, della Costi-tuzione) o di legge ordinaria (artt.1 e 134, ultimocomma, T.U.L.P.S.), palesandosi, in particolare,il principio della responsabilità oggettiva, speciealla luce della rigida applicazione che ne vienepraticata, come contrario ai principi dell’ordina-mento giuridico vigente. (…)Qualunque sia lateoria preferita in ordine alla pluralità degli ordi-namenti giuridici,resta fermo che l’ordinamentosportivo, per funzionare normalmente, deve go-dere di un notevole grado di autonomia. Tuttaviaquest’ultima, per quanto ampia e tutelata, nonpuò mai superare determinati confini, che sono iconfini stessi dettati dall’ordinamento giuridicodello Stato.(…) Inoltre, è fondamentale rilevareche, nel caso di specie, mancano alcuni requisitiintegranti l’ipotesi della responsabilità oggettiva,quale delineata da dottrina e giurisprudenza; edinvero, tra la condotta e l’evento dannoso deve es-

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sere rinvenibile un nesso di causalità materiale benindividuato e, inoltre, l’agente deve avere volonta-riamente tenuto un condotta che di per sé costitui-sce illecito, in ossequio al noto principio “qui in reillecita versatur tenetur etiam pro casu”.(…)In so-stanza, i ricorrenti sono stati colpiti dalla sanzionenon perché abbiano fatto o non abbiano fatto alcun-ché, ma solo in quanto appartenenti ad una cate-goria generale ed astratta. Quindi, ben puòaffermarsi che, nel caso di specie, non si sono ap-plicate delle pesanti sanzioni per una caso di re-sponsabilità oggettiva, bensì per una forma diresponsabilità “per fatto altrui”.

Conclusioni

La responsabilità oggettiva come appli-cata in sede sportiva è ormai vexata quaestiocui è necessario trovare al più presto soluzioniadeguate, attesi gli effetti pesanti che com-porta per i Club e le crescenti critiche prove-nienti anche dai settori istituzionali: da unaparte viene presentata come un totem, dall’al-tra gli stessi giudici sportivi, pur confermandol’intangibilità dell’istituto, hanno cercato negliultimi anni di mitigarne le conseguenze, soste-nendo concetti di gradualità e proporzionalitàdella sanzione.

Per ragioni di brevità, si deve rinviare adaltro spazio la disamina di tali decisioni spor-tive nelle quali, tuttavia permangono l’auto-maticità della responsabilità in questione, lamancanza di una vera proporzionalità dellasanzione in relazione al caso concreto e le pro-blematiche di legittimità e di coordinamentocon i principi di diritto comune.

siamo ancora lontani da quell’auspicatoprocesso evolutivo che consenta di applicarela responsabilità oggettiva solo in presenzadei reali presupposti di diritto, in modo con-cretamente graduale e proporzionale alla fat-

tispecie e consentendo alla società di essereesonerata quando abbia subito un danno, odia la prova della sua estraneità, ovvero dellanon prevedibilità della condotta del suo tesse-rato.

tale cambiamento è necessario ed urgenteperché il diritto sportivo non è più, come nelpassato, quasi “esoterico”, ma é diventatosempre più presente ed importante anchenella vita sociale tale da poter determinare, seapplicato male, effetti devastanti sulla vita diun Club e sui risultati delle competizioni spor-tive.

Pur nel rispetto della sua indipendenza edella finalità di garantire il pacifico svolgi-mento dell’attività sportiva, l’ autonomiadell’ordinamento sportivo, tante volte richia-mata e sottolineata anche nelle decisioni fede-rali, va intesa come autodeterminazione divalutazione e come possibilità di avviare unprocedimento indipendentemente da altri set-tori dell’ordinamento, ma non va confusa conuna esasperata autarchia e con l’affrancazionedai principi del diritto comune; tale autono-mia presuppone sempre un armonizzazionedella propria normazione - pena, in difetto, lasua illegittimità - con quella dell’ordinamentostatuale e ciò anche sotto l’aspetto delle ge-rarchia delle fonti, dal momento che quellafederale rimane, pur sempre, una normativaregolamentare.

In realtà, le problematiche sulla responsa-bilità oggettiva hanno rilanciato l’esigenza dapiù parti sentita di nuove riflessioni sulla giu-stizia sportiva in genere, dato che la sua te-nuta e credibilità, allo stesso modo di quellastatale, passano necessariamente per l’appli-cazione di un diritto conforme e congruoanche in termini di giustizia sostanziale e nonattraverso una forma di vessazione nei con-fronti delle società, così come oramai è avver-tita, in vari ambienti, la responsabilità inesame.

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è necessario che in ambito sportivo, so-prattutto su argomenti così rilevanti, sismetta di procedere per postulati o verità in-discutibili, non essendo questo il modo perdimostrare la presenza e l’ efficienza di qual-siasi tipo di giustizia, ma sia ristabilita l’os-servanza dei principi di diritto comune inbase all’interpretazione dei casi concreti; riat-tribuendo così la giusta discrezionalità aigiudici sportivi ed evitando che i procedi-menti disciplinari sulla responsabilità ogget-tiva risultino qualcosa di surreale, una sortadi atmosfera kafkiana, dove stabilmenteviene mortificato ogni tipo di argomenta-zione e di difesa.

Insomma, per effettuare un cambio dirotta ed innovare una materia così dibattutae contestata è indispensabile, conforme-mente a quanto in parte già fatto con ri-guardo all’altro grande tema del “vincolo digiustizia sportiva”, liberare il principio dellaresponsabilità oggettiva da impostazioniprestabilite e scollegate dai riferimenti fat-tuali e giuridici.

si tratta, in sostanza, di arrivare a disap-plicare l’istituto perlomeno nei casi in cuivenga acclarata l’ estraneità ai fatti della so-

cietà e l’impossibilità di prevenirli, ove so-prattutto derivino da reati e, comunque, diattuare una vera graduazione e proporziona-lità della sanzione, considerata nel suo mi-nimo simbolico dell’ ammenda, dovendosiattribuire alla società, in tale ipotesi, una re-sponsabilità solo residuale rispetto alla con-dotta del vero colpevole.

La responsabilità oggettiva, infatti, comefino ad oggi concepita, è anche fuorvianteperché, attraverso la eclatante penalizza-zione dei Club, tende ad oscurare il puntonodale della vicenda e della lotta contro l’al-terazione delle partite e cioè che l’unico re-sponsabile è il calciatore infedele, il qualesolo dovrebbe essere sanzionato pesante-mente ed al quale, invece, vengono addirit-tura concesse forme punitive agevolate.

In tale direzione va condivisa una recenteproposta di legge (del deputato maurizioPaniz) per inasprire le pene previste a caricodei calciatori, equiparando la frode sportivaalla truffa aggravata, fino alla confisca deiloro beni, reale strumento dissuasivo ed af-flittivo; questa sì che appare una iniziativaconcreta di giustizia.

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1. Dipendenti pubblici privatizzati,

non privatizzati e tFR.

La distinzione tra soggetti privatizzati enon è rilevante poiché ai non privatizzati nonsi applica il capo I titolo II libro V del cc., equindi l’art. 2120 ivi contenuto. Non trova,quindi, immediata applicazione la disciplinadel trattamento di fine rapporto (tFR). Comeprecisato dall’INPDAP l’art. 2 – comma 6 –della legge 335/95 ha demandato alla contrat-tazione collettiva nazionale, nell’ambito deisingoli comparti, la definizione delle modalitàd’attuazione delle disposizioni relative al tFRdei pubblici dipendenti “con riferimento aiconseguenti adeguamenti della struttura retri-butiva e contributiva del personale interes-sato”.

Laddove, pertanto, lo stato giuridico e iltrattamento economico di particolari categoriedi personale rimangano per legge disciplinatidai rispettivi ordinamenti e non già dalla con-trattazione collettiva nazionale, le disposizionidi cui al DPCm 20/12/99 e successive modi-fiche non troveranno possibilità di applica-zione fino a quando tali ordinamenti non neprevederanno l’estensione anche a dette cate-gorie di dipendenti1.

2. Cenni sulle forme di previdenza

complementare

Le forme di previdenza complementaresono strumenti volti ad erogare “più elevati li-velli di copertura previdenziale” rispetto aquelli offerti dal sistema pubblico (Cfr. Art. 1D.Lgs. 124/93, art. 1, D.Lgs. 252/05). sonostrumenti ad adesione volontaria (art. 3,comma 4, D.Lgs. n. 124/93, art. 1, c. 2 D.Lgs.252/05) e il cui meccanismo di funzionamentosi basa sulla capitalizzazione (art. 7, comma 5,D.Lgs. 124/93 e art. 3, comma 1, lett e), D.m.n. 211/97). I finanziamenti (contributi a caricodel lavoratore e del datore di lavoro, quote ditFR) confluiscono in un conto individuale evengono investiti nei mercati finanziari pre-valentemente per il tramite dei gestori profes-sionali a ciò abilitati scelti dal fondo. talemeccanismo è volto all’ottenimento di unmontante derivante dalle risorse investite edai relativi investimenti. Il montante verrà,poi, utilizzato per l’erogazione delle presta-zioni previdenziali, secondo le regole dettatedalla disciplina di riferimento.

Ciò che rende le forme di previdenza com-plementare diverse da altri strumenti finan-ziari tradizionali (per esempio, i fondi comuni

La previdenza complementare peril pubblico impiego non contrattualizzato

Francesco VallacquaDocente di Economia e gestione delle assicurazioni vita e dei fondi pensione presso l’Università L. Bocconi

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di investimento) è l’esistenza di una serie dinorme di controllo e criteri e limiti di investi-menti, specifici e stringenti, tesi al raggiungi-mento dello scopo previdenziale cui essitendono.

Nell’ambito della previdenza complemen-tare, è possibile identificare sia le forme col-lettive (fondi pensione chiusi, fondi pensioneaperti ad adesione collettiva), che si rivol-gono ad un collettivo omogeneo di destina-tari definiti sulla base di appositi criteri (es.:lavoratori di una stessa impresa, lavoratoricui si applica uno stesso tipo di contratto, la-voratori di uno stesso comparto, ecc.), sia leforme individuali c.d. FIP (adesione indivi-duale ad un fondo aperto, sottoscrizione diun piano individuale di previdenza attuatotramite contratti di assicurazione sulla vitac.d. PIP), le quali si basano invece sull’ade-sione del singolo soggetto, considerato inquanto tale, che volontariamente ed indipen-dentemente da disposizioni varie (previstead esempio dalla contrattazione collettiva)aderisce a strumenti previdenziali messi a di-sposizione sul mercato da appositi operatori(banche, assicurazioni, società di intermedia-zione mobiliare, società di gestione del ri-sparmio) per far fronte alle sue esigenzepensionistiche.

Le fasi, in cui si articola il funzionamentodi una forma di previdenza complementare,sono tre.

La fase di adesione e di raccolta delle ri-sorse finanziarie. In questa fase, il soggettoaderisce volontariamente alla forma attra-verso la sottoscrizione del modulo di ade-sione, con contestuale accensione di unconto individuale a suo nome. Ciò deve av-venire dopo la previa lettura dell’appositadocumentazione e, in particolare, del rego-lamento/statuto e della nota informativa.Attraverso di questi, il soggetto prende atto

delle caratteristiche della forma (modalità dicontribuzione, frequenza dei versamenti,modalità d’investimento, costi ecc.) ed effet-tua le relative scelte (quanto contribuire,come ripartire le sue risorse tra le linee di in-vestimenti offerte ecc.). Circa le modalità dicontribuzione le fonti di finanziamento dellaprevidenza complementare sono riconduci-bili ai seguenti elementi:

– contributi versati dal lavoratore;– contributi versati dal datore di lavoro;– tFR. La fase di accumulo (gestione finanziaria

delle risorse). In tale fase le risorse, accanto-nate in conti individuali, sono investite neimercati finanziari e generano rendimenti sullabase delle politiche di investimento definitedalla forma di previdenza.

La fase di erogazione. In tale fase, le formedi previdenza complementare erogano agliaderenti, che ne hanno maturato il diritto, unarendita (prestazione erogata con una determi-nata periodicità) o un capitale o un mix di ren-dita e capitale in relazione al montante da essimaturato.

La legislazione della previdenza comple-mentare tende a privilegiare l’erogazione diuna rendita in luogo di un capitale, ritenen-dosi la prima maggiormente attinente alle esi-genze previdenziali dei soggetti. è da notare,inoltre, come il diritto alle prestazioni è colle-gato ai requisiti, anagrafici e contributivi, delregime previdenziale obbligatorio.

3. L’estensione del tFR ai dipendenti

pubblici contrattualizzati

La L. 335/1995 ha disposto che il tFR fosseesteso gradualmente anche ai dipendenti pub-blici, i quali potevano, sino all’approvazione

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di questa legge, avvalersi solo di istituti di-versi (per esempio, l’indennità di buonauscita o di premio di servizio, il trattamentodi quiescenza per i dipendenti del parastatoe per gli enti di ricerca ecc.) sinteticamente ri-conducibili al cosiddetto tFs (trattamento difine servizio).

Per i dipendenti pubblici ai quali si ap-plica la privatizzazione del relativo rapporto(di cui al d.lgs. 165/2001), il tFR:

- sotto il profilo economico costituiscefonte primaria di finanziamento della previ-denza complementare;

- sotto il profilo giuridico consente di in-dividuare le varie categorie di lavoratori in-teressati e le modalità di accesso allaprevidenza complementare. Ne costituisce,quindi, fonte di regolamentazione ai finidell’accesso.

Il perché dell’estensione del tFR anche alpubblico impiego si può ricondurre, sia allanecessità di trovare idonee risorse per il fi-nanziamento della previdenza complemen-tare, rendendone il meno costoso possibilel’avvio, sia all’esigenza di completare il pro-cesso di armonizzazione tra pubblico e pri-vato, sia perché il tFs mal si prestava afinanziare la previdenza complementarenella misura in cui le prestazioni da esso rap-presentate sono calcolate prendendo a riferi-mento le ultime retribuzioni.

Quindi, se si fosse usato il tFs sarebbestato possibile conoscere l’effettivo ammon-tare da destinare alla previdenza comple-mentare solo alla cessazione dal servizio, conla conseguente impossibilita di effettuareprelievi di risorse da versare ai fondi pen-sione, senza compromettere la gestione deglienti previdenziali (cfr. INPDAP-CIV, Rap-porto sulla previdenza complementare delpubblico impiego, 2003).

4. Le peculiarità rispetto all’art. 2120

del Codice civile

L’estensione del tFR anche ai dipendentipubblici è avvenuta attraverso un complessoiter normativo.

Il modello delineato dal Codice civile perla disciplina del trattamento di fine rapportodei dipendenti del settore privato non trovauna trasposizione automatica ai dipendentidel settore pubblico. La quota da accanto-nare è il 6,91 per cento della retribuzioneannua base di riferimento, così come per idipendenti privati (art. 4, comma 3, accordoquadro del 29 luglio 1999; art. 1, comma 6del d.p.c.m. del 20 dicembre 1999), ma, tut-tavia, non si applicano le disposizioni sulFondo di garanzia per il trattamento di finerapporto data la natura solvibile del datoredi lavoro.

Nell’accantonamento annuale non sa-ranno computate le quote destinate ai fondipensione (art. 1, comma 6, d.p.c.m.). Ancheper i dipendenti pubblici spetta una rivalu-tazione (75 per cento dell’inflazione più l’1,5per cento in misura fissa), ma questa vienecalcolata dall’ex gestione INPDAP pressol’Inps (d’ora in poi definita solo INPDAP)che gestisce virtualmente il tFR2.

Altra differenziazione é quella che ri-guarda la retribuzione utile ai fini del tFR.Infatti, (in base a quanto previsto dall’art. 4dell’accordo quadro del 29 luglio 1999 richia-mato dall’art. 1, comma 6 del d.p.c.m. del 20dicembre 1999) il tFR per i dipendenti pub-blici si applica sulle seguenti voci:

- intero stipendio tabellare;- l’intera indennità integrativa speciale;- la retribuzione individuale di anzianità;- la tredicesima mensilità;- altri emolumenti considerati utili ai fini

del calcolo del tFs ai sensi della precedentenormativa (per esempio, retribuzione dei di-

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rigenti, assegno ad personam ecc.)Ulteriori voci retributive potranno essere,

però, introdotte dalla contrattazione collet-tiva se viene contestualmente prevista la co-pertura finanziaria del complessivo onere.

Circa le anticipazioni da tFR (acquistoprima casa, spese sanitarie ecc.) l’art. 8comma 3 dell’accordo quadro nazionale inmateria di trattamento di fine rapporto e diprevidenza complementare per i dipendentipubblici del 29 luglio 1999 ha stabilito che leprevisioni di cui all’art. 2120 del Codice ci-vile non sono direttamente applicabili aipubblici dipendenti, ma si rinvia alla con-trattazione di comparto la realizzazionedell’armonizzazione tra pubblico e privatoin materia di anticipazione e sempre nel ri-spetto degli equilibri di bilancio della fi-nanza pubblica.

Infine, si ricorda che (in base a quantoprevisto dall’art. 1, comma 6 del d.p.c.m.) iltFR é accantonato figurativamente in unconto virtuale gestito dall’INPDAP3 pressol’Inps (o un diverso ente per i soggetti noniscritti all’INPDAP) e liquidato al lavoratorealla cessazione dal servizio.

In termini di obblighi contributivi, è pre-visto che (art. 1, comma 7 d.p.c.m.20 dicem-bre 1999) le amministrazioni pubblichecontinuino a versare in misura invariata,anche per il personale che abbia optato peril tFR o al quale si applica automaticamentela disciplina del tFR, la contribuzione stabi-lita per il finanziamento delle indennità difine servizio.

In particolare, il contributo previdenzialea favore dell’INPDAP da parte delle ammi-nistrazioni pubbliche resta fissato per il per-sonale dello stato nella misura del 9,60 percento dell’attuale base contributiva per l’in-dennità di buonuscita di cui al D.P.R.1032/1973 e nella misura del 6,10 per centodell’attuale base contributiva di riferimento

prevista dall’art. 11 della L. 8 marzo 1968, n.152, per il personale degli enti locali.

Il diritto al pagamento del TFR sorge alla ri-soluzione del contratto di lavoro, purché il di-pendente non ne abbia sottoscritto un altro(sia a tempo determinato sia a tempo indeter-minato), decorrente dal giorno immediata-mente successivo alla scadenza del primo conun ente obbligato a iscrivere i propri dipen-denti all’INPDAP ai fini tFs o tFR. In tal caso,l’iscritto avrà diritto al pagamento al verifi-carsi della prima interruzione di almeno ungiorno tra un contratto e l’altro ovvero all’attodella definitiva cessazione dal servizio (cfr.Circ. INPDAP 30/02). Infatti, l’art. 5 dell’Ac-cordo quadro nazionale del 1999 stabilisce chela liquidazione del tFR sarà effettuata dall’IN-PDAP al momento della cessazione dal servi-zio e questo è ribadito anche nel d.p.c.m. 20dicembre 1999 (art. 1, comma 6). Pertanto, incaso di risoluzione del rapporto di lavoro eriassunzione presso lo stesso o altro enteiscritto all’INPDAP potrà procedersi alla liqui-dazione del tFR solo se tra primo e secondoservizio ci sia soluzione di continuità (cfr. IN-PDAP Circ. 11/01).

5. La gestione virtuale del tFR

dei dipendenti pubblici

La peculiarità del tFR dei dipendenti pub-blici consiste nel fatto che esso è gestito vir-tualmente. La virtualità deriva dal fatto chenonostante il meccanismo di passaggio altFR, l’INPDAP (o il diverso ente per i soggettinon iscritti a essa) riscuote i contributi ederoga le prestazioni ai suoi iscritti con un si-stema a ripartizione, derivandone che i con-tributi versati dalle amministrazioni sonousati per fronteggiare le uscite correnti pertFs. Posto che il sistema rimane a ripartizione,

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resta fermo a carico delle amministrazioni ilcontributo previdenziale a favore dell’IN-PDAP del 9,60 per cento e del 6,10 per centocalcolato sulla base contributiva di riferimento(art. 1, comma 7, d.p.c.m. del 20 dicembre1999).

Le quote di tFR, sia quelle usate per la li-quidazione (cioè non affluite a previdenzacomplementare) che quelle usate per il finan-ziamento della previdenza complementare ela quota dell’1,5 per cento, ex art 59, comma56, legge 449/1997, sono trattate come accre-diti figurativi (cioè senza la creazione di alcunfondo monetario costituito da risorse effettive)e liquidate (previa applicazione del tasso direndimento) alla cessazione della attività la-vorativa (art. 1, commi 6 e 8, e art. 2, commi 5e 6, d.p.c.m. 20 dicembre 1999). Le sommesono conferite al netto dell’imposta sui rendi-menti.

Per effetto degli accantonamenti virtualivengono, quindi, a determinarsi dei conti vir-tuali che si trasformano in effettivi solo allacessazione del rapporto, quando l’INPDAP, oil diverso ente, determinerà e trasferirà al la-voratore (nel caso del tFR) o al fondo (nel casodi previdenza complementare) il montantematurato, pur non essendo di fatto mai stateaccantonate risorse reali a tali scopi. Nel casodi previdenza complementare, il fondo pen-sione liquiderà al singolo iscritto una presta-zione complessiva, costituita dalle sommericevute dall’INPDAP e dal montante matu-rato presso il fondo stesso a seguito degli ac-cantonamenti di risorse effettive.

Per meglio comprendere il motivo che haportato ad adottare il meccanismo della vir-tualità per i fondi pensione dei dipendentipubblici, si può dire che se le quote di tFR fos-sero accantonate realmente (cioè a spese deldatore) in conti individuali, verrebbero menole risorse per il finanziamento corrente deltFs.

6. La diversità di disciplina della

previdenza complementare per il pubblico

rispetto al settore privato

Il d.lgs. 252/2005 prevede un percorso dif-ferenziato per i dipendenti pubblici. Infatti, ilcomma 6 dell’art. 23 stabilisce che: Fino al-l’emanazione del decreto legislativo di attua-zione dell’art. 1, comma 2, lettera p, della legge23 agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pub-bliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applicaesclusivamente e integralmente la previgentenormativa.

Ne deriva che, come osservato dalla notadivulgativa INPDAP del 1° febbraio 20064,fino alla emanazione della suddetta norma-tiva restano fermi, quantomeno per i dipen-denti pubblici che aderiscono a un fondonegoziale, il d.lgs. 124/1993 e la disciplina fi-scale contenuta nel decreto 124/1993, neld.lgs. 47/2000 e nel testo unico delle impostesui redditi, nonché tutte le norme particolarivalevoli per i dipendenti pubblici. In sostanza,quindi, per i dipendenti pubblici il testo di ri-ferimento per la previdenza complementarecontinua a essere il d.lgs. 124/1993.

Implicazione importante di tale disposi-zione e che il meccanismo dello smobilizzo deltFR (trattamento di fine rapporto) medianteil meccanismo del silenzio assenso (previstoper i dipendenti privati) non si applica attual-mente ai dipendenti pubblici. Per la applica-zione del d.lgs. 252/05 occorreranno soluzioniparticolari che, come specificato dai criteri didelega di cui alla L. 243/2004 (qualora ricon-fermati), oltre che dei principi valevoli per lageneralità dei lavoratori dipendenti (da appli-carsi con le necessarie armonizzazioni) ten-gano conto:

- delle specificità dei singoli settori;- dell’interesse pubblico connesso all’orga-

nizzazione del lavoro;

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- dell’esigenza di efficienza dell’apparatoamministrativo pubblico.

In ogni caso, essendo scaduti i termini perl’esercizio di tale delega, occorrerà un inter-vento normativo che affronti nuovamente ilproblema e che modifichi o confermi i principie i criteri direttivi.

In realtà, se si guarda al sistema normativocosì come delineatosi dopo il d.lgs. 252/2005(anche per effetto degli interventi da partedella Covip) ci si accorge che il d.lgs. 124/1993trova applicazione solo nel caso in cui il di-pendente pubblico aderisca a una forma diprevidenza collettiva.

Nell’ipotesi in cui, invece, aderisca ad unaforma di previdenza individuale di fatto adesso si applica il d.lgs. 252/2005 con l’ecce-zione del silenzio assenso e di tutte le normeche riguardano il tFR e il contributo del da-tore, che non è comunque dovuto.

A riprova di ciò è solo per i fondi negoziali(per esempio, Espero per il comparto scuola,che si è imposto di adottare un dupliceschema di statuto con distinzione delle regoleda applicare ai pubblici, d.lgs. 124/1993, e pri-vati, d.lgs. 252/2005).

Altra questione è se ciò sia l’interpretazioneautentica di quanto voluto dal legislatore, poi-ché a chi scrive sembra che sarebbe stato piùsemplice inserire nel d.lgs. 252/2005 il riferi-mento circa l’esplicita applicazione della di-sciplina del d.lgs. 124/1993 solo alle formecollettive e non alle forme individuali.

subito dopo l’emanazione del decreto, èstato osservato che, onde evitare disparità ditrattamento (in particolare ex art. 3 della Co-stituzione), l’esenzione dei dipendenti pub-blici dalla nuova disciplina si sarebbe potutainterpretare nel senso della non applicazionedelle sole nuove regole sul meccanismo del si-lenzio assenso inerente il tFR, essendo incom-patibili con le regole attualmente applicabili

ai dipendenti pubblici per i quali il tFR è vir-tuale. si è, a tal fine, osservato che se il legisla-tore avesse inteso lasciare invariato il quadronormativo per i dipendenti pubblici, avrebbedovuto escludere per i dipendenti pubblicil’abrogazione del d.lgs. 124/1993, il quale, in-vece, risulta totalmente abrogato dall’art. 21,comma 8 del d.lgs. 252/2005. Nel dubbio, leDirettive Covip del 28/06/2006 hanno confer-mato che le nuove norme di cui al d.lgs.252/2005 non trovano applicazione e, quindi,i fondi pensione presenti nei comparti pub-blici hanno continuato a riferirsi integral-mente al d.lgs. 124/19935.

Come osservato anche dalla Covip6 il per-manere di tali differenze nella disciplina tradipendenti del settore privato e dipendentidel settore pubblico, conseguente al non rea-lizzato esercizio della delega contenuta nellaLegge 243/2004, fa sì che permangano, ancheall’interno delle previsione statutarie, diversiregimi applicabili ai dipendenti pubblici e aquelli privati con riguardo in particolare aitrasferimenti, alle anticipazioni e ai riscatti. Ditali differenze devono necessariamente tenerconto gli statuti dei fondi interessati, i qualipresentano una struttura più complessa.

Diverso è anche il trattamento fiscale dellecontribuzioni che, nel caso dei dipendentipubblici, prevede l’applicazione di un doppiolimite (oltre al limite massimo di deducibilitàdal reddito complessivo dei contributi versatia previdenza complementare, fissato a5.164,67 euro, si applica il limite del doppiodella quota di tFR destinata a previdenzacomplementare). Infine, le prestazioni erogatericevono, nel caso dei dipendenti pubblici, undiverso e meno favorevole trattamento fiscale(in linea generale, a esse si applica il regimedella tassazione separata anche per la partematurata dal 1° gennaio 2007, in luogo del-l’imposta sostitutiva pari al 15 per cento, con

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possibilità di ulteriori riduzioni fino a unmassimo di 6 punti percentuali prevista perle prestazioni erogate ai lavoratori privati7).

La presenza di un doppio regime delleprestazioni e di un doppio regime fiscale,produce, inoltre, complessità nel funziona-mento sia sotto il profilo dell’operatività chein termini di onerosità.

7. L’istituzione di forme di previdenza

collettive per i dipendenti pubblici

non contrattualizzati

L’art. 3 del d.lgs. 252/2005 prevede che lafonte istitutiva delle forme di previdenzacomplementare di carattere collettivo, sono icontratti collettivi di comparto di cui al titoloIII del D.Lgs. n. 165/01. Lo stesso articoloprevede la possibilità di creare forme di pre-videnza complementare per i dipendentipubblici non privatizzati attraverso appositenorme nei rispettivi ordinamenti, ovvero inmancanza, attraverso accordi tra i dipendentistessi, promossi da loro associazioni8. tale ar-ticolo va coordinato sia con l’articolo 23, c. 6del d.lgs. 252/05 che con l’art. 26, comma 20,della L. 23 dicembre 1998, n. 448.

Circa il primo aspetto, il richiamo pre-sente nel suddetto comma alla disciplina pre-vigente del d.lgs. 124/93 riguarda i solidipendenti delle pubbliche amministrazionidi cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo2001, n. 165. Ne deriva che per i lavoratorinon contrattualizzati troverà applicazione ladisciplina del d.lgs. 252/05.

Per quanto concerne il secondo aspetto,l’art. 26, comma 20, della l. 23 dicembre 1998,n. 448, per il personale delle forze di poliziae delle forze armate ha riservato espressa-mente alle procedure di negoziazione e con-

certazione previste dal d.lgs.12 maggio 1995,n. 195, la disciplina del trattamento di finerapporto ai sensi dell’art. 2, commi 5 - 8, dellal. 335/1995… nonché l’istituzione di formepensionistiche complementari. si tratta di va-lutare, nel sistema della previdenza comple-mentare per le forze armate e di polizia qualisiano le opzioni tese a consentire l’attiva-zione di forme di previdenza complemen-tare. Infatti, la legge 23 dicembre 1998, n. 448art. 26, comma 20, ha rimosso, anche per leForze di polizia, gli ostacoli normativi all’at-tuazione della particolare disciplina, stabi-lendo che lo strumento attuativo per lacostituzione di forme previdenziali comple-mentari e per il passaggio a tFR del relativopersonale e costituito dalle pertinenti proce-dure di negoziazione e concertazione. La di-sposizione è completata anche con laprevisione di poter riaprire la concertazionequalora siano già scaduti i termini ordinari.Per il personale delle Forze di Polizia e delleForze Armate l’apertura ufficiale delle pro-cedure di concertazione previste al comma20 del citato art. 26 della legge 448/1998 perl’estensione del tFR e la previsione di fondipensione complementare al predetto perso-nale è intercorsa il 16 settembre 1999.

Nello specifico il DPR 16 marzo 1999, n.254 Recepimento dell’accordo sindacale perle Forze di polizia ad ordinamento civile edel provvedimento di concertazione delleForze di polizia ad ordinamento militare re-lativi al quadriennio normativo 1998-2001 edal biennio economico 1998-1999, nel titolo II,riguardante il personale non dirigente delleForze di Polizia ad ordinamento militare(Arma dei Carabinieri e Corpo della Guardiadi finanza), all’art.67 (tFR e previdenza com-plementare), comma 1, stabilisce che le pro-cedure di negoziazione e di concertazioneattivate, per la prima applicazione ai sensi

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dell’art. 26, comma 20, della L. 448/1998provvedono a definire:

a. la costituzione di uno o piu fondi nazio-nali pensione complementare per il perso-nale delle Forze Armate e delle Forze diPolizia ad ordinamento civile e militare, aisensi del d.lgs. 124/1993, della L. 335/1995,della L. 449/1997 e successive modificazionied integrazioni, anche verificando la possibi-lità di unificarlo con analoghi fondi istituitiai sensi delle normative richiamate per i la-voratori del pubblico impiego;

b. la misura percentuale della quota dicontribuzione a carico delle amministrazionie di quella dovuta dal lavoratore, nonché laretribuzione utile alla determinazione dellequote stesse;

c. le modalità di trasformazione della buo-nuscita in tFR, le voci retributive utili per gliaccantonamenti del tFR, nonché la quota ditFR da destinare a previdenza complemen-tare. Lo stesso art. 67, al comma 2, specificache destinatario dei fondi pensione, di cui alcomma 1, è il personale che liberamente ade-risce ai fondi stessi9.

Ad avviso di chi scrive, per il personale

delle forze armate e della polizia, che attual-mente rimane in regime di tFs, l’interpreta-zione del combinato disposto delle norme dicui sopra conduce a ritenere che: il vincoloper consentire l’attivazione di forme contrat-tuali solo dopo che, attraverso le particolariforme di concertazione e negoziazione previ-sti in questi settori si sarà provveduto adestendere il trattamento di fine rapporto10,sussista solo ove si voglia utilizzare tale fontedi finanziamento (il tFR) e quindi ci si trovidi fronte a fondi di natura negoziale. Cioè cisi trovi innanzi a fondi istituiti (ex art. 3, c. 2parte prima del d.lgs. 252/05) in base anorme previste nei rispettivi ordinamenti eche quindi, scaturiscono da procedure diconcertazione le quali definiscono: la quotapercentuale di contribuzione a carico delleamministrazioni e dei lavoratori, la retribu-zione utile per la definizione delle percen-tuali di contribuzione, le modalità di opzionedal tFs al tFR, la retribuzione utile ai fini deltFR, la quota di tFR destinabile ai fondi; talevincolo invece non dovrebbe sussistere nelcaso in cui (ex articolo 3, c. 2 seconda partedel d.lgs. 252/05) si voglia attivare una forma

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di previdenza complementare finanziata soloda contribuzioni diverse dal tFR.

Cioè nel caso di fondi istituiti sulla base diaccordi tra lavoratori promossi da loro asso-ciazioni, che non coinvolgono il datore di la-voro. In tal caso, infatti, tali fondi pur essendochiusi non avrebbero carattere negoziale.

8. L’adesione dei dipendenti pubblici ai FIP

(forme individuali di previdenza)

La sottoscrizione di forme individuali diprevidenza (c.d. FIP) si realizza tramite l’ade-sione individuale ad un fondo aperto, e/o lasottoscrizione di un piano individuale di pre-videnza attuato tramite contratti di assicura-zione sula vita c.d. PIP. tali forme a differenzadi quelle collettive si basano sull’adesione delsingolo soggetto, considerato in quanto tale,che volontariamente ed indipendentementeda disposizioni varie (previste ad esempiodalla contrattazione collettiva) aderisce a stru-menti previdenziali messi a disposizione sulmercato da appositi operatori (banche, assicu-razioni, società di intermediazione mobiliare,società di gestione del risparmio) per farfronte alle sue esigenze pensionistiche. Ri-spetto a tali forme si ricorda che in base alladisciplina attuale non è possibile far confluirené il tFR nè il tFs nè il contributo del datoredi lavoro eventualmente previsto dalla con-trattazione. saranno quindi alimentate solo dauna contribuzione a carico del lavoratorestesso11.

NOtE

1 Altro termine utilizzabile è quello di “contrattualiz-zati”, termine tratto da m. A. PUGLIEsE, La previdenzacomplementare nel settore del pubblico impiego: il quadro nor-mativo, in G. FERRARO (a cura di), La previdenza comple-

mentare nella riforma del Welfare, milano, 2000, p.817. Ve-dasi anche schiavo F.P., L’avvio della previdenza comple-mentare nel pubblico impiego: fra regole comuni e specificità,in Rivista INPDAP n. 4/99, p463.; Arcidiacono L.- Ca-rullo A.- Rizza G., Istituzioni di Diritto Pubblico, mon-duzzi Editore, bologna, 2001, p. 759. 2 Vedasi il coordinamento dell’art. 2, comma 5, dellalegge n. 335/95 con gli artt. 1,2,3, D.Lgs. n. 165/01, conl’art. 1, dell’Accordo quadro nazionale del 29/07/99, conla Circ. INPDAP n. 30/02 del 1.08.02 “trattamento difine rapporto”, con le informative INPDAP N. 11 del3.6.02 “trattamento di fine rapporto personale “ noncontrattualizzato” e N. 1 del 30.1.03. 02 “trattamento difine rapporto personale “ non contrattualizzato”3 Cfr. INPDAP, Rapporto annuale sullo stato sociale,2002, p. 423.4 si evidenzia, infatti, che per quanto concerne in parti-colare il personale delle forze di polizia e delle forze ar-mate, l’art. 26 – comma 20 – della legge 23/12/1998, n.448, ha riservato espressamente alle procedure di nego-ziazione e concertazione previste dal D.Lgs. 12/5/95, n.195, “ la disciplina del trattamento di fine rapporto aisensi dell’art. 2- commi da 5 a 8 – della legge 335/95…nonché l’istituzione di forme pensionistiche comple-mentari …”. In sintesi si ricorda che i dipendenti pubblici non con-trattualizzati sono essenzialmente: i magistrati ordinari,amministrativi e contabili; gli avvocati ed i procuratoridello stato; il personale militare e delle forze armate dipolizia; il personale della carriera diplomatica e prefet-tizia; i professori ed i ricercatori universitari, nonché idipendenti degli Enti che svolgono la loro attività nellematerie contemplate dall’art. 1 del D.Lgs del Capo prov-visorio dello stato 17/07/1947, n. 691, e dalle leggi n.281/85 e n. 287/90 (personale della borsa, Consob ecc.).Quale che sia la data di assunzione in servizio, anche idipendenti della Camera dei Deputati, del senato dellaRepubblica nonché quelli del segretariato Generale dellaPresidenza della Repubblica sono non contrattualizzati.Lo stato giuridico ed il trattamento economico di tali di-pendenti sono infatti per legge disciplinati dai rispettiviordinamenti e non già dalla contrattazione collettiva na-zionale.5 L’art. 21 (commi 1-9) del d.l. 201/2011 convertito inlegge 214/2011 prevede che in considerazione del pro-cesso di convergenza ed armonizzazione del sistemapensionistico attraverso l’applicazione del metodo con-tributivo, nonché al fine di migliorare l’efficienza e l’ef-ficacia dell’azione amministrativa nel settoreprevidenziale e assistenziale, l’INPDAP e l’ENPALssono soppressi dal 2012 e le relative funzioni sono attri-buite all’ INPs, che succede in tutti i rapporti attivi e pas-

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sivi degli Enti soppressi.6 Il trattamento di fine rapporto dei dipendenti deglienti pubblici non economici, degli enti di ricerca e spe-rimentazione e degli enti per il cui personale non è pre-vista l’iscrizione all’INPDAP resta a totale carico deglienti medesimi, ai quali è affidata la gestione di tali trat-tamenti (art. 1, comma 8 d.p.c.m. 20 dicembre 1999).

7 Cfr. INPDAP nota divulgativa dell’01/02/2006, Il de-creto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 “Disciplinadelle forme pensionistiche complementari”; prime in-formazioni sulle novità introdotte dal decreto e sui ri-flessi sulla previdenza complementare per i dipendentipubblici); si veda anche INPDAP-CIV, La previdenzacomplementare del pubblico impiego. Secondo rapporto,Franco Angeli 2007.8 Vedasi mefop, Direttive e schemi Covip. Commenti, Ver-sione preliminare del 22/05/2006, nota 1.9 Cfr. Covip, Relazione annuale per l’anno 201110 Per una sintesi del trattamento fiscale sia consentitorinviare a F.Vallacqua, la previdenza complementareper i lavoratori pubblici e privati, Egea 2012 pp.290-29111 Con riferimento ai soggetti non contrattualizzati èstato rilevato, che abbiamo una fonte innominata: nonsi individua cioè un particolare atto, suscettibile di darvita al fondo, ma si rinvia agli ordinamenti di questecategorie professionali nel presupposto che in quegliordinamenti vi sia una qualche indicazione al riguardo.Nell’ipotesi in cui ciò non si verifichi si rimanda adeventuali accordi fra i dipendenti, ma anche qui conformula molto generica si parla di associazioni- Così V.ROPPO, La Costituzione dei Fondi Pensione, in AA.VV., I

fondi di Previdenza e di Assistenza Complementare, Anto-logia a cura di G. Iudica, Padova, 1998.12 CFR. Comando generale della Guardia di Finanza-ufficio legislazione, Il trattamento pensionistico delpersonale militare,Roma, 199913 Cfr. INPDAP-CIV, La previdenza complementare delpubblico impiego, 201114 A tal proposito la nota operativa Inpdap n. 20/2005ha chiarito che l’adesione a un fondo pensione comple-mentare da parte del personale che, pur dipendendoda un ente privatizzato abbia mantenuto per legge iltFs a carico dell’INPDAP (per esempio, il personaledella Cassa depositi e prestiti) non comporta la trasfor-mazione di tale prestazione in tFR. Con nota operativan. 1/11 l’INPDAP ha chiarito che le istanze di opzioneper la trasformazione del trattamento di fine servizioin trattamento di fine rapporto conseguenti all’ade-sione a forme individuali di previdenza complemen-tare da parte di dipendenti pubblici con le quali èmanifestata la volontà di esercitare l’opzione per il pas-saggio dal tFs al tFR non sono produttive di effetti.Ciò perché in base alla normativa vigente tale opzionenon può essere esercitata e il tFR non può essere de-voluto a una forma pensionistica individuale ma soloalle forme pensionistiche complementari istituite dallacontrattazione collettiva. Conseguentemente, l’eserci-zio dell’opzione della trasformazione del tFs in tFR(funzionale alla destinazione del tFR a previdenzacomplementare) è possibile solo contestualmente al-l’adesione a un fondo pensione negoziale e non a unaforma pensionistica individuale.

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Nell’attuale contesto di recessione che stavivendo l’economia mondiale la priorità è laripresa della crescita.

Le Azioni poste in essere per la crescitaeconomica provocano Effetti in termini diconsumo e/o deterioramento dello stock dirisorse naturali.

Nel 2012 ricorre il ventennale del primoprogramma operativo dello sviluppo soste-nibile proposto durante al Conferenza di Riosui cambiamenti climatici.

Per questo modello di sviluppo la crescitaeconomica, in termini di incremento del PIL,può avvenire nel rispetto dei limiti posti alconsumo delle risorse naturali per consen-tirne la fruizione anche da parte delle gene-razioni future.

Per la comprensione dell’impatto cheAzioni ed Effetti provocano sull’ambiente èstata avvertita l’esigenza di introdurre degliindicatori in grado di stimare gli scostamentirispetto al modello di sviluppo di riferi-mento.

tra questi, in estrema sintesi, si richiama“l’impronta ecologica” che stima la superfi-cie del Pianeta biologicamente produttiva ne-cessaria per rigenerare le risorse consumatedalla popolazione ed assorbirne i rifiuti pro-dotti, oppure il “Genuine Progress Indicator(GPI)”, che si pone come obiettivo la misura-zione dello sviluppo di una Nazione nonsolo in termini economici (PIL) ma anche in

termini di qualità della vita.Più di recente in Italia, per un’iniziativa

del Cnel e dell’Istat, si sta sviluppando ilprogetto per misurare il benessere equo e so-stenibile (bEs), che in analogia al citato “GDI,si colloca nell’ambito delle iniziative interna-zionali che mirano al superamento del PILquale unico misuratore della “ricchezza” diuna Nazione.

Dunque benessere non solo economico insenso tradizionale, ovvero come reddito procapite, ma benessere anche sociale e ambien-tale.

Oltre agli indicatori, si sono sviluppatiprocessi di contabilità ambientale finalizzatia rilevare, in termini di contabilità “satellite”,il costo della tutela dell’ambiente nell’ambitodei bilanci.

In ambito comunitario si fa riferimento alleclassificazioni del sistema sERIEE (systèmeEuropéen de Rassemblement de l’InformationEconomique sur l’Environnement), definito insede Eurostat e basato su schemi e definizionicoerenti con le classificazioni economiche efunzionali adottate nei regolamenti comunitariin materia di contabilità nazionale.

Le spese per la “protezione dell’ambiente”e le spese per “l’uso e la gestione delle risorsenaturali” direttamente effettuate a beneficiodella collettività sono le due tipologie indivi-duate per classificare la spesa ambientale nelsistema europeo; le prime fanno riferimento D

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La spesa ambientale

Berardino AbbruzzeseDirigente del Corpo forestale dello Stato

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alle spese per le attività e le azioni finalizzatealla prevenzione, alla riduzione e all’elimina-zione dell’inquinamento e del degrado am-bientale (rifiuti, scarichi, emissioni, perditadella biodiversità, erosione del suolo, ecc.); leseconde, che integrano le precedenti, sono in-vece dirette all’uso e gestione delle risorse equindi anche alla loro tutela da fenomeni didepauperamento ed esaurimento (energia,acque, flora e fauna, risorse forestali, ecc.).

In armonia con gli schemi contabili e le mo-dalità di rappresentazione comunitarie è statoinserito tra i documenti del bilancio nazionalestatale la rilevazione della spesa con finalitàambientali.

Già dal 2000 il ministero dell’economia edelle finanze (mEF) elabora un documento al-legato al disegno di legge di bilancio conte-nente informazioni in merito alle risorsefinanziarie che lo stato destina annualmentea questa spesa.

Dal 2008 al predetto documento si ag-giunge un ulteriore elaborato allegato al Ren-diconto generale dello stato che illustra lerisultanze della gestione delle risorse finanzia-rie destinate alla tutela dell’ambiente.

Con la riforma della contabilità e finanzapubblica del 2009 di cui alla legge 31 dicembre2009, n.196, l’ecorendiconto entra a far parteper espressa disposizione normativa nei do-cumenti del bilancio statale.

L’art.36, comma 6 della citata legge196/2009, introduce l’obbligo di rendicontarele spese ambientali nell’ambito del Rendi-conto generale dello stato, attraverso la rap-presentazione delle risultanze delle speseriguardanti attività di tutela, conservazione,ripristino e utilizzo sostenibile delle risorse edel patrimonio naturale.

L’introduzione di tale disposizione coin-cide con la pressoché concomitante riformadella struttura del bilancio dello stato per mis-sioni e Programmi che pone in evidenza

l’aspetto funzionale della spesa (“perché sispende”).

Il bilancio di previsione dello stato dal-l’anno 2009 è infatti strutturato per missioni eProgrammi con l’obiettivo di evidenziare lefunzioni principali dello stato e gli obiettiviperseguiti con la spesa pubblica in modo daconsentire un’immediata lettura di quante ri-sorse statali sono destinate, ad esempio, alladifesa, alla sicurezza pubblica, alle infrastrut-ture, ai trasporti, all’ambiente, ecc.

Nel 2011 è stato prodotto il primo ecoren-diconto dello stato in armonia con la citatalegge 196/2009 riferito all’anno 2010.

sebbene la Legge 196/2009 preveda l’illu-strazione delle spese a finalità ambientale soloa consuntivo, il mEF continua ad elaborare laprevisione delle spese ambientali (ecobilancio)rappresentandole nell’ambito del Disegno diLegge di bilancio secondo gli stessi schemiadottati per l’ecorendiconto.

Dai dati pubblicati dal mEF per l’anno2010, si rileva che la spesa statale per l’am-biente è ammontata a 8,3 mld di euro, pariall’1,5% della spesa complessiva del bilanciostatale, al netto della componente relativa agliinteressi passivi, ai redditi da capitale e dalrimborso delle passività finanziarie.

Le voci “protezione dell’aria e del clima” ela “protezione e risanamento del suolo, delleacque del sottosuolo e di superficie” assor-bono quasi la metà della spesa ambientale.

Relativamente ai ministeri, i contributi piùsignificativi afferiscono il ministero dell’eco-nomia e delle finanze (mEF) ed il ministerodell’ambiente e della tutela del territorio e delmare (mAttm), rispettivamente per il 33% e32% della spesa complessiva.

Circa un quinto della spesa è stanziato dalministero delle politiche agricole alimentari eforestali (16%) (mPAAF), per effetto principal-mente del contributo del Corpo forestale dellostato.D

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La missione “sviluppo sostenibile e tuteladel territorio e dell’ambiente“, con il suo34%, concentra la quota maggiore di spesaambientale.

Relativamente alla previsione di spesa perl’anno 2012 (Ecobilancio 2012) le risorse stan-ziate per la spesa ambientale ammontano a1,9 mld di euro pari allo 0,41% della spesacomplessiva.

I dati riferiti al successivo triennio sono infase di rielaborazione per effetto delle mano-vre finanziarie intervenute ed in corso (inparticolare il D.L. 95/2012, convertito nellaLegge 135/2012 - cosiddetto “spending re-view”).

si precisa che i dati dell’Ecobilancio nonsono correlabili con i dati dell’Ecorendicontoin quanto questi ultimi scontano le variazioniintervenute nel corso della gestione (nel 2010gli stanziamenti definitivi sono stati 1,6 volte

superiore a quelli iniziali) e sono compren-sivi della sensibile quota dei cosiddetti resi-dui passivi provenienti dai precedentiesercizi (nel 2010 la metà delle risorse per laspesa ambientale è provenuta dai residui).

Osservando il dato per ministeri, ilmAttm ed il mPAAF rappresentano in-sieme oltre la metà del totale degli stanzia-menti iniziali.

Il maggiore contributo è dovuto alla mis-sione ”sviluppo sostenibile e tutela del terri-torio e dell’ambiente”, cui contribuisconooltre al mAttm, ed in parte anche il mEF,anche il mPAAF.

In attesa della pubblicazione dell’Ecoren-diconto 2011 e dell’Ecobilancio 2013-2015, siauspica che possano definirsi sistemi conta-bili più articolati ed esaustivi, che rilevino erappresentino in un unico documento l’in-tera spesa pubblica destinata all’ambiente. D

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Albrecht Durer, Melancolia

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Contratti della P.A. - Gara - Provvedimento

di esclusione - termine d’impugnazione -

Decorrenza - Nel caso di presenza del rap-

presentante dell’impresa interessata alle

operazioni di gara - Ove sia munito di ap-

posita delega - Dalla data di adozione di re-

dazione del relativo verbale - Ricorso

giurisdizionale proposto oltre detto ter-

mine - Irricevibilità.

Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 4593

del 22 agosto 2012

(Massima)

Se l’impresa assiste, tramite un proprio rap-presentante munito di apposito mandato, alla se-duta in cui vengono adottate determinazioni inordine all’esclusione della sua offerta, è in tale se-duta che l’impresa acquisisce la piena conoscenzadel provvedimento ed è dalla data della stessa se-duta che decorre il termine per impugnare il me-desimo provvedimento; la presenza di unrappresentante della ditta partecipante alla garadi appalto, infatti, non comporta ex se la piena co-noscenza dell’atto di esclusione ai fini della decor-renza del termine per l’impugnazione soloqualora il rappresentante stesso non sia munitodi apposito mandato o non rivesta una specificacarica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui laconoscenza avuta dal medesimo sia riferibile allasocietà concorrente.

È irricevibile il ricorso proposto avverso gliatti di una gara di appalto di forniture, che siastato proposto oltre il termine decadenziale decor-rente dalla piena conoscenza del provvedimentodi esclusione, nel caso in cui: a) in una seduta, ilresponsabile del procedimento abbia formalmenteverbalizzato che non era ammessa al proseguodella gara l’offerta pervenuta da parte di unaditta, in quanto la strumentazione offerta nonpossedeva due dei principali requisiti minimi ri-chiesti; b) al momento di tale verbalizzazione, laditta interessata era presente alle operazioni digara a mezzo di un proprio rappresentante, mu-nito di apposita delega; in tal caso, infatti, ancor-ché l’atto di esclusione non definisca interamenteil procedimento, è immediatamente lesivo per ilsoggetto escluso e, per quanto lo concerne, rap-presenta l’atto conclusivo del procedimentostesso.

torna alla ribalta con la sentenza del Con-siglio di stato qui commentata il problema,ripetutamente affrontato dalla giurispru-denza1, della decorrenza del termine di im-pugnazione dell’atto di esclusione da unagara d’appalto.

I giudici di Palazzo spada hanno rifor-mato la sentenza del tar Piemonte n. 195 del9 febbraio 2011, che aveva parzialmente ac-colto il ricorso proposto dalla Roche Diagno-stics s.p.A. avverso l’esclusione - permancanza dei requisiti richiesti dal capito-

esclusione dalla gara e terminedi impugnazione

Marzia PetrelliDottore di Ricerca in Diritto Amministrativo

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lato speciale di gara - da una procedura nego-ziata per la fornitura di un sistema automaticoper immunocolorazione, indetta dalla AsL diAsti, cui la ricorrente era stata invitata a par-tecipare, unitamente ad altre società, tra cui lamenarini Diagnostics s.r.l.

La Roche Diagnostics s.p.A. ha impugnatoin data 26 marzo 2011 i verbali della proce-dura di cui sopra, nonché l’aggiudicazione2

provvisoria in favore della menarini, chie-dendo, altresì, che fosse dichiarato inefficace3

il contratto eventualmente stipulato e il risar-cimento del danno4.

Come anticipato, il tar Piemonte ha par-zialmente accolto il ricorso proposto dallaRoche Diagnostics s.p.A., rigettando sia la do-manda di declaratoria di inefficacia del con-tratto, sia la domanda risarcitoria. Avverso lapredetta sentenza, ha proposto appello la me-narini Diagnostic s.r.l. che ha sollevato diversecensure, tra cui l’omessa pronuncia sull’ecce-zione pregiudiziale di rito, già avanzata inprimo grado, riguardante la tardività del ri-corso.

Infatti, secondo l’appellante il termine perimpugnare il ricorso sarebbe decorso dal mo-mento in cui la società Roche ha avuto cono-scenza dell’esclusione, ovvero nella sedutapubblica del 12 gennaio 2011, cui era presenteil rappresentante della stessa munito di appo-sita procura5. Essendo stato il ricorso notifi-cato solo in data 26 marzo 2011, ben oltre,quindi, il termine di 30 giorni fissato dalla nor-mativa vigente per l’impugnazione dell’esclu-sione dalle gare d’appalto6 - spirato l’11febbraio 2011 - lo stesso risulterebbe all’evi-denza tardivo.

Il Consiglio di stato, ritenendo fondata lacensura riguardante la tardività del ricorsoche l’appellante, soccombente in primo grado,aveva già inutiliter eccepito di fronte al giudicedi prime cure e rilevata la non configurabilitàdell’errore scusabile7, ha accolto l’appello pro-

nunciandosi sia sulla natura del provvedi-mento di esclusione, sia sulla decorrenza deltermine d’impugnazione. In particolare, i giu-dici di Palazzo spada dopo aver chiarito chel’atto di esclusione, benché non definisca inte-ramente il procedimento, è immediatamentelesivo per il soggetto escluso e per quanto loriguarda rappresenta l’atto conclusivo delprocedimento stesso, hanno affermato che,sebbene il termine di impugnazione del prov-vedimento di esclusione decorra normal-mente dalla ricezione della comunicazione dicui all’art. 79 del D. Lgs. n. 163/06, nel caso incui il rappresentante della ditta partecipante,munito di apposita delega ne abbia piena co-noscenza prima di detta data (ad esempio,come nel caso di specie, nel corso della sedutapubblica di apertura delle buste contenentil’offerta economica), il dies a quo per il com-puto del termine, deve farsi risalire a dettomomento. A proposito dell’art. 79 del D. Lgs.163/06 (come modificato dall’art. 2, co. 1, delD.lgs. 20 marzo 2010 n. 53), e al mancato inol-tro della comunicazione ivi prevista, la sen-tenza in rassegna ha richiamato lagiurisprudenza del Consiglio di stato cheaveva già chiarito che detta norma rispondeall’esigenza di garantire piena conoscenza ecertezza della data di conoscenza degli atti digara, segnatamente esclusioni e aggiudica-zioni; tuttavia, da un lato non prevede leforme di comunicazioni come “esclusive” o“tassative” e, dall’altro lato, non incide sulleregole processuali generali del processo am-ministrativo in tema di decorrenza dei terminidi impugnazione dalla data di notificazione,comunicazione o comunque piena conoscenzadell’atto. Ne deriva che lo stesso art. 79 del D.Lgs. n. 163/2006 lascia in vita la possibilitàche, ai fini in parola, la piena conoscenzadell’atto sia acquisita con altre forme, ovvia-mente con onere di prova a carico di chi ecce-pisce l’avvenuta piena conoscenza con forme

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diverse da quelle tipiche prescritte8.Così argomentando, i giudici di Palazzo

spada recuperano la tesi della giurisprudenzapiù risalente, consolidatasi fin dalla secondametà degli anni Novanta del secolo scorso, se-condo cui solo uno specifico mandato o unaspecifica carica costituiscono elementi idoneia qualificare la conoscenza come “rilevante”ai fini impugnatori9. Ciò significa che la par-tecipazione dei legali rappresentanti delle so-cietà concorrenti alla seduta in cui è avvenutal’esclusione vale quale dies a quo, al fine del de-corso dei trenta giorni per la proposizione delricorso al giudice amministrativo.

In tal modo, viene consacrato un principio“sostanzialistico” secondo cui, in materia digare d’appalto, quando l’impresa assiste, tra-mite rappresentante provvisto di specifica de-lega, alla seduta in cui vengono adottatedeterminazioni in ordine all’esclusione dellasua offerta, il termine d’impugnazione de-corre da quel momento, non già da quellodella comunicazione del provvedimento le-sivo10. In altri termini, ciò che rileva ai finidella decorrenza del termine di impugna-zione, è che si raggiunga in concreto lo scopo

cui tende la comunicazione di cui all’art. 79del D. Lgs. 163/2006, ovvero l’effettiva cono-scenza del provvedimento lesivo, indipenden-temente dal mezzo utilizzato per portare l’attoa conoscenza dell’interessato e delle circo-stanze in cui questa conoscenza si perfe-ziona11, nonché l’imputazione con assolutacertezza di detta conoscenza alla società par-tecipante, condizione che può dirsi soddisfattasolo quando colui che la rappresenta possiedeuna legittimazione in tal senso. Dalla prece-dente considerazione si evince, a contrario, chela presenza di un rappresentante della dittapartecipante alla gara di appalto alla seduta incui viene decisa l’esclusione non comporta exse la piena conoscenza del relativo atto, deter-minante ai fini della decorrenza del termine diimpugnazione, solo qualora il rappresentantestesso non sia munito di apposito mandato onon rivesta una specifica carica sociale, ossianon ricorrano i casi in cui la conoscenza avutadal medesimo sia riferibile alla società concor-rente12.

Viene in tal modo riconosciuta, con ri-guardo alla conoscenza dei provvedimentiamministrativi in materia di appalti13, un’in-

Wassily Kandinsky, Giallo, rosso e blu

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discussa prevalenza agli aspetti sostanziali ri-spetto a quelli formali. In effetti, sia che si ade-risca all’orientamento più restrittivo checonsidera rilevante ai fini impugnatori esclu-sivamente la conoscenza del rappresentantemunito di procura, sia che si condivida la tesimeno restrittiva che attribuisce rilevanzaanche alla conoscenza del rappresentantesprovvisto di mandato, è evidente che assumepiena rilevanza giuridica ai fini della decor-renza dei termini per la proposizione del ri-corso al giudice amministrativo la presenzadei rappresentanti in sede di gara.

tale orientamento è in piena sintonia conla ratio sottesa alla normativa vigente in ma-teria di appalti che prevede per le relative con-troversie un binario privilegiato14, diretto adassicurare non solo una tutela processuale ce-lere ed effettiva, ma anche a conferire certezzaai rapporti giuridici che si instaurano a se-guito della conclusione del procedimento diaggiudicazione15. In tale ottica di snellimentoe di speditezza del processo in materia di ap-palti, va inquadrata l’abbreviazione di tutti itermini vigenti, ivi compreso quello per laproposizione del ricorso (e dei motivi ag-giunti) che è espressamente fissato in trentagiorni (art. 120, comma 5, C.P.A.) e in tale pro-spettiva va letta la pronuncia in rassegna. IlConsiglio di stato, infatti, con la presente sen-tenza ha inteso garantire e proteggere quel rito“super accelerato”16 che contraddistingue igiudizi in materia d’appalti, scoraggiando itentativi di avvalersi di una dilazione del ter-mine di impugnativa da parte delle societàescluse, che sempre più fanno leva sull’omis-sione delle formalità di cui al menzionato art.79 del D. Lgs. n. 163/2006, al contrario consi-derata irrilevante per le ragioni che prece-dono. Pertanto, la sentenza in questione,superando inutili formalismi connessi alla co-municazione degli atti amministrativi - che

frequentemente si traduce in un ingiustificatoaggravamento del procedimento -, sancisce ladoverosa impugnazione dell’esclusione entroil termine di legge che decorre dal momentoin cui la società ne viene a conoscenza, senzache ciò comporti una lesione del proprio di-ritto di difesa. Infatti, considerato che l’azioneimpugnatoria è sempre legata al contenuto so-stanziale del provvedimento censurato,quando una società è esclusa da una gara essaviene a conoscenza degli elementi essenzialiposti alla base di questa decisione, compresal’eventuale lesività, e dunque possiede tutti imezzi per attivare immediatamente la tuteladei propri interessi, fermo restando la possi-bilità di proporre motivi aggiunti qualora,solo successivamente, venga a conoscenza diulteriori atti della procedura parimenti lesivi.

NOtE

* Questa breve nota a sentenza è dedicata a nonno An-nunzio e a nonna Antonella, recentemente scomparsi,che anche da lassù guidano i miei passi.1 In senso analogo alla sentenza in commento, si è pro-nunciato il t.A.R. sicilia-Catania, sez. II, 3 agosto 2012,n. 2004, in www.lexitalia.it. sull’argomento, si vedaanche la giurisprudenza più risalente: Cons. stato, sez.IV, 10 luglio 1999, n. 1217; Cons. st., sez. V, 27 settembre2004, n. 6319; Cons. st., sez. V, 2 ottobre 2006, n. 5728;Cons. st., sez. V, 9 giugno 2008, n. 2883.2 V. CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività am-ministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2, 2003,p. 218 e ss. il quale sottolinea l’intercambiabilità tra mo-dulo privatistico e modulo pubblicistico nell’eserciziodell’azione amministrativa facendo riferimento allasvolta giurisprudenziale che ha portato alla qualifica-zione come atti amministrativi, e non più come negozi,degli atti di aggiudicazione degli appalti. G. GRECO, Icontratti della pubblica amministrazione tra diritto pubblicoe diritto privato, milano, 1986.3 Per diversi anni si è discusso dell’incidenza dei vizi delprocedimento ad evidenza pubblica sul contratto stipu-lato con l’aggiudicatario. sulla questione della naturagiuridica dell’invalidità derivata che colpisce il contratto

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di aggiudicazione in caso di annullamento dell’aggiu-dicazione, si sono registrati quattro distinti orienta-menti. Da un lato, vi era chi affermava chel’annullamento dell’aggiudicazione per violazionedelle procedure di evidenza pubblica ricadesse nelloschema tipico dell’annullabilità relativa ex art. 1441 c.c.(v.d. per tutti, m. s. GIANNINI, Diritto amministrativo,II, milano, 1993, p. 847 e ss.); dall’altro, si è parlato dinullità del vincolo negoziale e della conseguente sog-gezione dello stesso al regime contemplato dagli artt.1421 ss. c.c. (in tal senso, V. CERULLI IRELLI, L’annul-lamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto, in Giorn.dir. amm., n. 11, 2002, p. 1195 e ss., che qualifica comeimperative le norme sull’evidenza pubblica); altri so-stenevano l’inefficacia del contratto (P. CARPENtIERI,Annullamento dell’aggiudicazione e contratto, in Giorn. dir.amm., n. 1, 2004, p. 22 e ss.), altri ancora propendevanoper la caducazione automatica del contratto a frontedella caducazione degli atti della procedura di evi-denza pubblica (s. FANtINI, Gli effetti sul contrattodell’annullamento dell’aggiudicazione. Profili di effettivitàdella tutela giurisdizionale, in Urb. e App., n. 7, 2003, p.751). Ognuna delle diverse teorie citate recava con sédelle evidenti conseguenze circa il giudice competentea pronunciarsi sul punto, per cui si affermava ora lagiurisdizione del giudice amministrativo, ora quelladel giudice ordinario. solo di recente la Corte di Cas-sazione (ss.UU., sent. 28 dicembre 2007, n. 27169, sent.21 luglio 2009, n. 16911, 23 aprile 2008, n. 10443) e ilConsiglio di stato (Adunanza Plenaria, 30 luglio 2008,n. 9) sembravano finalmente giunti alla stessa conclu-sione, affermando la giurisdizione del giudice ordina-rio sulla base della comune constatazione chel’aggiudicazione rappresenta il limite di operativitàdella giurisdizione esclusiva del giudice amministra-tivo. si riconosceva, pertanto, la giurisdizione del giu-dice ordinario per le controversie relative alla sorte delcontratto essendo le stesse attratte nella sfera del dirittocomune.Questa impostazione è stata, tuttavia, superata con l’in-troduzione del codice del processo amministrativo (art.133, comma 1, lett. e), n. 1, cui rinvia l’art. 244, comma1 del D. Lgs. n. 163/06 (come modificato dall’art. 7 delD. Lgs. n. 53/2010 e sostituito dall’art. 3, comma 19,dell’Allegato 4 al D. Lgs. n. 104/2010), secondo cui ilgiudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva sulladichiarazione di efficacia del contratto a seguito del-l’annullamento dell’aggiudicazione. Non sono man-cate le prime applicazioni di tale novella normativaanche da parte del Consiglio di stato che, con la sen-tenza n. 854/2011 ha evidenziato le novità introdottedalla direttiva 2007/66/CE, recepita dal D. Lgs. n.

53/10 e ha affermato che, in difetto di norme transito-rie, tale normativa è immediatamente applicabile aigiudizi in corso. Di conseguenza, anche se il giudice diprimo grado non si è pronunciato, per difetto di giuri-sdizione, sulla domanda volta ad ottenere la declara-toria di inefficacia del contratto, è ben possibile unintervento nel merito della questione da parte del giu-dice di secondo grado. Dunque, il giudice che annullal’aggiudicazione può privare di effetti il contratto, fa-cendovi subentrare il ricorrente, purché vi sia una va-lutazione positiva in tal senso. G. FERRARI,L’annullamento del provvedimento di aggiudicazione del-l’appalto pubblico e la sorte del contratto già stipulato nelladisciplina dettata dal nuovo c.p.a., su http://appaltiecon-tratti.uniroma2.it.4 Per un inquadramento generale del tema, m. LIPARI,L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contrattotra nullità, annullabilità ed inefficacia: la giurisdizione esclu-siva amministrativa e la reintegrazione in forma specifica,in Diritto e formazione, 2002, p. 245 ss. R. mAsERA, Lareintegrazione in forma specifica nel processo amministra-tivo, in Dir. proc. amm., n. 1, 2003, p. 236 e ss.5 Dal punto di vista civilistico, la procura è il negoziounilaterale mediante il quale un soggetto conferisce adun altro il potere di rappresentarlo. tale istituto si in-quadra nell’ambito dei negozi autorizzativi, qualifican-dosi come l’autorizzazione ad agire in nomedell’autorizzante. sul tema, v.d. C. m. bIANCA, Il con-tratto, milano, 2000, p. 83 e ss.; L. bIGLIAZZI GERI,Procura (diritto privato), in Enc. dir., XXXVI, p. 995; V. DELORENZI, Procura, in Dig. discipline privatistiche, to-rino, 2002, p. 327.6 Il comma 5 dell’art. 120 del D. Lgs. 104/2010, come mo-dificato dall’art. 1, comma 1, lett. hh) da 1) a 3), D.Lgs.15 novembre 2011, n. 195, stabilisce quanto segue: “Perl’impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso,principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso attidiversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel ter-mine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e peri motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cuiall’ articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163,o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autono-mamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all’articolo 66,comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dallaconoscenza dell’atto. Per il ricorso incidentale la decorrenzadel termine è disciplinata dall’articolo 42”. La previsione deltermine di trenta giorni per la proposizione del ricorsoera già contenuta nell’art. 44 della L. n. 88/2009 (delegaper l’attuazione della direttiva ricorsi) e nasce dalla ne-cessità di far scadere il termine per la proposizione delricorso prima della scadenza della prima sospensionedella stipula del contratto, fissata dall’art. 11, comma 10, G

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Henry Matisse, Ritratto di Lydia Delectorskaya

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del D. Lgs. n. 163/2006 in trentacinque giorni dall’inviodell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di ag-giudicazione definitiva. Deve precisarsi che prima del D.Lgs. n. 195/2011 il ricorso incidentale non era annoveratodal Codice del Processo Amministrativo tra gli atti pro-cessuali a cui si applica il termine di trenta giorni: proba-bilmente il mancato richiamo al ricorso incidentale eradovuto a una mera svista nella redazione della versionefinale del Codice del Processo Amministrativo. In talsenso, R. DE NICtOLIs, Il recepimento della direttiva ricorsinel codice appalti e nel nuovo codice del processo amministra-tivo, in www.giustizia-amministrativa.it il quale ha osser-vato che un’interpretazione storica e sistematica avrebbedovuto - come poi è stato - far intendere la parola “ri-corso” contenuta nell’art. 120, c. 5, C.P.A., come genuscomprensivo sia del ricorso principale che di quello inci-dentale.7 V.d. Cons. st., sez. V, 31 gennaio 2007, n. 400, che purcollocandosi in quel filone giurisprudenziale secondocui, ai fini del decorso del termine d‘impugnazione, ri-leva la presenza del rappresentante dell’impresa, sia omeno provvisto di una procura “ad hoc” (cfr. nota n. 9),ha salvato la ricevibilità del ricorso (e, dunque, respintol’eccezione di tardività), applicando l’istituto del c.d. “er-rore scusabile”. trattasi di uno strumento «di generalis-sima applicazione nel sistema della giustizia amministrativa,...volto a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale. Lasua applicazione presuppone una situazione normativa obiet-tivamente non conoscibile o confusa, comportante un’obiettivaincertezza, in ragione della difficoltà d’interpretazione di unanorma, della particolare complessità di una fattispecie con-creta, dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali o di com-portamento equivoco dell’Amministrazione, ipotesi tuttequeste idonee ad ingenerare convincimenti non esatti, soprat-tutto nell’osservanza di norme di rito».8 Cfr., in tal senso, Cons. st., sez. VI, 13 dicembre 2011, n.6531, in www.lexitalia.it.9 L’orientamento giurisprudenziale meno recente si fon-dava sulla distinzione tra rappresentanza attiva e rap-presentanza passiva: mentre la prima, in virtù di unmandato “ad hoc”, abilita il rappresentante a rendere di-chiarazioni a verbale nell’interesse dell’impresa ricono-scendogli, altresì, il potere di acquisire la “conoscenzarilevante” (ai fini impugnatori) di ogni determinazioneamministrativa assunta, la seconda non opera in talsenso e, pertanto, il rappresentante diviene destinatariodi una conoscenza i cui effetti non ricadono direttamentenella sfera giuridica dell’impresa rappresentata. taleorientamento è stato demolito dalla giurisprudenza am-ministrativa a partire dal 2000 (v.d. t.A.R. basilicata,sent. 7 ottobre 2000, n. 579; Cons. st., sez. V, 3 aprile 2001n. 1998) che, affermata la duplice natura, attiva e passiva,

del potere rappresentativo, ha evidenziato come, in temadi contratti della pubblica amministrazione, ai fini deldecorso del termine d‘impugnazione, rileva la presenzadel rappresentante dell’impresa, sia o meno provvisto diuna procura “ad hoc”. Infatti, il rappresentante dell’im-presa, proprio perché incaricato di partecipare alle pro-cedure di gara, è necessariamente munito di poteri dirappresentanza che si riferiscono non soltanto alle di-chiarazioni da rendere, ma anche agli stati soggettivi ri-levanti, ivi compresa, quindi, la conoscenza degli attiemanati nella seduta di gara. Per un approfondimentodell’istituto della rappresentanza sotto il profilo civili-stico, v.d. G. VIsINtINI, Rappresentanza, in Comm. Scia-loja-Branca, a cura di F. Galgano, Art. 1372-1405, 1993; U.NAtOLI, La rappresentanza, milano, 1977; F. bONELLI,Studi in tema di rappresentanza e di responsabilità dell’im-prenditore, milano, 1978.10 In senso contrario, si sono espressi sia il Consiglio distato, sez. VI, n. 1332/2004, sia il t.A.R. toscana, sez. II,n. 132/2007, i quali hanno statuito che la presenza dellegale rappresentante della società non determina la de-correnza del termine di impugnazione, che si verificasolo con la comunicazione del verbale di gara, atto en-doprocedimentale; a tutela delle imprese partecipanti eper evitare il rischio di una diversa decorrenza del ter-mine impugnatorio, occorre, infatti, prendere atto dellanecessità di privilegiare la comunicazione formale delverbale alla società esclusa, rispetto ad altre forme di co-noscenza dell’atto, quale quella derivante dalla presenzadel rappresentante in sede di gara.11 Cfr., tra le più recenti, Cons. st., sez. VI, 13 dicembre2011 n. 6531, in www.giustizia-amministrativa.it; t.A.R.sardegna, sez. I, 4 novembre 2011 n. 1058, in www.gius-tizia-amministrativa.it.12 V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, to-rino 2001, p. 635 ss.; F. CARINGELLA, Corso di diritto am-ministrativo, tomo II, milano, 2001; F. tRImARChIbANFI, I rapporti contrattuali della pubblica amministra-zione in Dir. pubbl., 1998, 35; G. GRECO, Accordi e contrattidella pubblica amministrazione tra suggestioni interpretativee necessità di sistema, in Dir. amm., 2002, p. 413.13 Il processo amministrativo in materia di appalti, primaassoggettato al rito speciale di cui all’art. 23-bis della L.tAR (n. 1034/1971), ha subito diversi interventi di ri-forma nel 2010, avviati per dare attuazione alla Direttiva2007/66/CE dell’11 dicembre 2007 (c.d. Direttiva ricorsi,che ha modificato le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEEdel Consiglio) e culminati con l’entrata in vigore del Co-dice del Processo Amministrativo. In estrema sintesi, laDirettiva citata ha previsto: a) l’obbligo per le stazioniappaltanti di rispettare un congruo termine sospensivo(c.d. stand-still) tra l’aggiudicazione e la stipulazione del

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contratto. Gli stati membri devono, altresì, prevedereun ulteriore effetto sospensivo intercorrente tra la pro-posizione del ricorso giurisdizionale e la pronunciacautelare o di merito; b) alcune fattispecie tipiche, qualiad esempio il mancato rispetto dei principi concorren-ziali o del termine sospensivo per la stipula del con-tratto, da cui deriva obbligatoriamente l’integraleprivazione di effetti del contratto eventualmente stipu-lato, salve alcune tassative ipotesi che conducono al-l’applicazione di sanzioni alternative; c) l’attribuzioneal diritto nazionale della definizione delle conseguenzegiuridiche sostanziali connesse alla privazione (obbli-gatoria) degli effetti del contratto; d) la possibilità pergli stati membri di annullare la decisione illegittima afronte di una richiesta di risarcimento del danno. Lac.d. Direttiva ricorsi è stata attuata col D. Lgs. 20 marzo2010, n. 53 che può essere così riassunto: 1) la comuni-cazione dell’avvenuta aggiudicazione di una gara diappalto deve essere inviata tempestivamente a tutte leimprese in gara e deve essere motivata. Da tale comu-nicazione decorre un primo termine sospensivo di 35giorni fino alla cui scadenza non può essere stipulatoil contratto. tale termine sospensivo è prorogato ex legein caso di proposizione di ricorso contenente domandacautelare; 2) prima di proporre ricorso, le imprese sonotenute ad inviare un’informativa in cui si preannuncial’intenzione di proporre ricorso giurisdizionale alla sta-zione appaltante che, entro 15 giorni, può provvederein via di autotutela; 3) i termini del processo ammini-strativo in materia di appalti sono decisamente piùstringenti rispetto a quelli previsti dall’art. 23 – bis L.tAR (ad esempio, 30 giorni per la notifica del ricorsoprincipale e incidentale, nonché per i motivi aggiunti;

10 giorni per il deposito del ricorso principale, del ri-corso incidentale, dei motivi aggiunti e dell’appello av-verso l’ordinanza cautelare). Il Consiglio dei ministri,in sede di approvazione preliminare del Codice delProcesso Amministrativo, ha inserito le norme proces-suali in materia di appalti, apportando qualche modi-fica rispetto a quelle contenute nel D. Lgs. n. 53/2010.Ulteriori modifiche sono state apportate dopo i pareridelle Commissioni parlamentari. tale stratificazione dimodifiche ha comportato l’applicazione di termini di-versi a seconda che l’atto processuale sia stato com-piuto prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. 53/2010,o tra la data di entrata in vigore di tale decreto (27aprile 2010) e quella di entrata in vigore del Codice delProcesso Amministrativo (16 settembre 2010), oppuredopo l’entrata in vigore del Codice del Processo Am-ministrativo. Per un approfondimento del tema, v.d. R.ChIEPPA, Il codice del processo amministrativo, milano2010, pp. 562 e ss.14 G. mORbIDELLI, Il procedimento amministrativo, inDiritto amministrativo (a cura di L. mazzarolli, G. Pe-ricu, A. Romano, F. A. Roversi monaco, F. G. scoca),bologna, 1988, p. 1187; A. sANDULLI, Il procedimento,in Trattato di diritto amministrativo (a cura di Cassese),parte generale, II, milano, 2000 p., 927; m.s. GIAN-NINI, Diritto amministrativo, milano, 1970, p. 461 e ss.15 Come precisato anche dal Consiglio di stato, sez. III,sent. n. 1428 del 14 marzo 2012: “Nel giudizio ammini-strativo l’art. 120 del CPA prevede, per l’impugnazione deiprovvedimenti concernenti le procedure di affidamento dipubblici lavori, termini brevi per la loro definizione, ispiratial principio generale dell’accelerazione di quel contenzioso edelle esigenze di certezze del settore”.

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1. La Sentenza della Corte di Giustizia

C-46/07

La Corte di Giustizia della Comunità eu-ropea con la sentenza del 13 novembre 2008,causa C-46/071 ha condannato l’Italia poiché”mantenendo in vigore una normativa in forzadella quale i dipendenti pubblici hanno diritto apercepire la pensione di vecchiaia ad un’età di-versa, a seconda che siano uomini o donne, la Re-pubblica italiana è venuta meno agli obblighi dicui all’art. 141 del Trattato CE”.

si tratta della delicata questione dell’etàpensionabile di vecchiaia, con requisiti ana-grafici diversi per uomini e donne che violail principio di parità di trattamento.

La vicenda è iniziata nel novembre del2004, quando la Commissione ha attivato unricorso per inadempimento contro il nostropaese per presunta violazione dell’art. 141del trattato CE da parte del combinato di-sposto dell’art. 5 del D.lgs. 503/1992 e del-l’art. 2, comma 21, L. 335/1995, ai sensi delquale l’età pensionabile per i dipendentipubblici di sesso femminile era fissata a 60anni, mentre per quelli di sesso maschile a 65anni.

Gli argomenti addotti dalle autorità ita-liane per giustificare il diverso regime pen-sionistico non sono stati sufficienti a bloccarela procedura di infrazione il cui esito è ap-parso subito chiaro.

La Corte di Giustizia ha accolto quantosostenuto dalla Commissione europea riper-correndo il seguente iter argomentativo.

1) Il diritto antidiscriminatorio costitui-sce uno dei settori più complessi del dirittocomunitario. Nel caso oggetto di analisi as-sume rilievo il divieto di discriminazione di

genere, dettato dall’art. 141 del trattato CE edalla Direttiva 79/7/CEE.

L’art. 141 trattato CE, infatti, vieta le di-scriminazioni in materia di retribuzione tralavoratori e lavoratrici. La retribuzione, aisensi del medesimo articolo, “comprende tuttii vantaggi, in contanti o in natura, attuali o fu-turi, purché siano pagati, sia pure indirettamentedal datore di lavoro al lavoratore in ragione del-l’impiego di quest’ultimo, in forza di un contrattodi lavoro, di disposizioni di legge ovvero a titolovolontario” (sent. 4 giugno 1992, causa C-360/90, Bőtel). Vengono assoggettati, quindi,a tale normativa tutti gli emolumenti corri-

sposti dal datore di lavoro in virtù di normedi legge ed in ragione dell’esistenza di rap-porti di lavoro subordinato che hanno loscopo di garantire una fonte di reddito per illavoratore (sent. 30 marzo 2004, causa C-147/02, Alabaster), comprese le pensioni con-nesse al rapporto di lavoro tra il lavoratore el’ex datore di lavoro (sent. 29 novembre 2001,causa C-366/99, Griesmar).

La Corte ha definito le prestazioni erogateattraverso il sistema pensionistico gestito

La differente età pensionabile tra uominie donne nel pubblico impiego

Paolo Liberati, Avvocato del Foro di RomaTina Menelao, Avvocato, Funzionario I.N.P.S.

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El Greco, Ritratto del Cardinale de Guevara

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dall’Inpdap come retribuzioni mediante il cri-

terio dell’impiego (sent. 5 settembre 1994,causa C-7/93, Beune, punto43; sent. 29 no-vembre 2001, causa C-366/99, Griesmar, punto28; sent. 12 settembre 2002, causa C-351,Niemi, punto 44), con la conseguente applica-zione dei principi di cui all’art. 141 del trattatoCE.

2) La Corte ha ritenuto che il sistema pre-videnziale dei pubblici dipendenti non sia unregime legale di primo pilastro2, ma un re-gime “professionale discriminatorio”, riguar-dante solo una specifica categoria dilavoratori, al quale non si applica la Direttiva79/7/CEE, ma l’art. 141 del trattato CE.

La procedura di infrazione non riguarda gliiscritti INPs poiché il regime previdenzialeamministrato da questo Istituto è consideratodalla giurisprudenza comunitaria quale re-gime “legale” conforme ai principi comuni-tari. I regimi legali rientrano, infatti,nell’ambito di applicabilità della Direttiva79/7/CEE, relativa all’attuazione del princi-pio di parità di trattamento tra gli uomini e ledonne in materia di sicurezza sociale, che al-l’art. 7 consente di diversificare la fissazionedel limite di età per la concessione della pen-sione di vecchiaia dal principio di parità ditrattamento tra i due sessi. Il regime gestitodall’INPDAP, invece, secondo la Commis-sione e la Corte di Giustizia, è un regime “pro-fessionale” con conseguente applicazionedella Direttiva 86/378/CEE (modificata dallaDirettiva 96/97/CEE) e dell’art. 141 trattatoCE.

3) La Corte ha, quindi, considerato il re-

gime pensionistico dei dipendenti pubblici

come un regime che riguarda solo una parti-

colare categoria di lavoratori ed ha conside-rato le pensioni quali retribuzioni daassoggettare alla disciplina della parità di trat-tamento di cui all’art. 141 trattato CE.

Il trattamento pensionistico erogato dal-

l’Inpdap è calcolato sulla base dell’anzianitàdi servizio, dello stipendio percepito e deicontributi versati3.

La stesa Corte, inoltre, ha dedotto che lapensione è direttamene proporzionale aglianni di servizio prestato ed il suo importoviene calcolato sulla base dell’ultima retribu-zione. Da tali osservazioni deriva la conclu-sione per la quale le pensioni Inpdap vannoconsiderate come retribuzioni per cui l’anti-cipo dell’età pensionabile per le lavoratriciproprio perché comporta un assegno di im-porto più basso viola l’art. 141 trattato CE chedispone una parità di trattamento per i duegeneri. La previsione di soglie di pensiona-mento con età diverse non può essere annove-rata tra “i vantaggi specifici, diretti ad evitare ocompensare svantaggi nelle carriere professionali,al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uo-mini e donne nella vita professionale” (punto 57).

Con tale interpretazione i giudici dellaCorte hanno determinato la contrazionedella sfera d’applicazione della Direttiva79/7/CEE, che attua la parità di trattamentotra uomini e donne nei “regimi legali che assi-curano una protezione contro i rischi di malattia,invalidità, vecchiaia, infortunio sul lavoro, malat-tia professionale e disoccupazione”(art.3). Vadetto, inoltre, che l’orientamento dei giudicicomunitari mira a circoscrivere l’ambito dellederoghe previste dalla Direttiva 79/7/CEE,non ammesse, invece, dall’art. 141 CE. In par-ticolare la Direttiva 79/7/CEE impedisce“qualsiasi discriminazione direttamente o indiret-tamente fondata sul sesso” (art. 4) e lascia aglistati membri la facoltà di escludere dal campodi applicazione della stessa direttiva alcuniaspetti previdenziali tra i quali “ la fissazionedei limiti di età per la concessione della pensione divecchiaia e di fine lavoro” e “i vantaggi accordatiin materia di assicurazione di vecchiaia alle per-sone che hanno provveduto all’educazione dei figli”(art. 7).

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4) La Corte ha, infine, respinto le afferma-zioni dello stato italiano secondo il quale “lafissazione, ai fini del pensionamento, di una con-dizione di età diversa a seconda del sesso, non ètale da compensare gli svantaggi ai quali sonoesposte le carriere dei dipendenti pubblici di sessofemminile aiutando queste donne nella loro vitaprofessionale e ponendo rimedio ai problemi cheesse possono incontrare durante la loro carrieraprofessionale” (punto 58).

La Corte di Giustizia, tuttavia, nel soste-nere che il pensionamento di vecchiaia anti-cipato per le lavoratrici del pubblico impiegoviola il principio di parità di trattamento dicui all’art. 141 del trattato CE non ha consi-derato la reale portata degli interventi legi-

slativi, in materia, posti in essere dallo statoitaliano.

A seguito del processo di armonizzazionedei regimi previdenziali iniziato con la legge421 del 1992 e proseguito con la legge n. 335del 1995, i trattamenti pensionistici dei di-pendenti pubblici assunti dopo l’entrata invigore di tali riforme vengono equiparati aquelli dei dipendenti privati4. si è precisato,inoltre, che alle forme di previdenza sostitu-tive ed esclusive dell’assicurazione generaleobbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed isuperstiti dei lavoratori dipendenti si appli-cano gli stessi limiti di età per il pensiona-mento di vecchiaia previsti per quest’ultima(art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 503 del 1992).

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L’art. 1 del D.Lgs. n. 503 del 1992 ha disposto,per il periodo tra il 1° gennaio 1994 e il 31 di-cembre 1999, un graduale innalzamento dei li-miti di età pensionabile per uomini e donne(tra 61 e 64 per gli uomini e 56 e 59 per ledonne) per arrivare alla disciplina, decorrenteal 1° gennaio 2000, che prevede il limite di 65anni di età per gli uomini e 60 per le donne.Infine, la legge 335 del 1995 (art. 1, comma 20)ha salvaguardato il diritto per le lavoratriciiscritte alle forme esclusive dell’assicurazionegenerale obbligatoria per l’invalidità, la vec-chiaia ed i superstiti di conseguire il tratta-mento per il pensionamento di vecchiaia alcompimento del sessantesimo anno di età (art.2, comma 21, legge 335 del 1995).

La possibilità di anticipare l’età pensiona-bile per le donne è, quindi, un vantaggio ac-cordato per compensare le difficoltà di variogenere cui la donna va incontro e questo nonè compatibile con il diritto comunitario chepromuove l’uguaglianza tra i lavoratori.

A proposito del principio di parità, laCorte Costituzionale, con la sentenza 256 del2002, ha affermato che, “i precetti costituzionalidi cui agli artt. 3 e 37, comma 1, non consentonodi regolare l’età lavorativa della donna in mododifforme da quello previsto per gli uomini”. Per-tanto, alle lavoratrici è riconosciuto il dirittoa conseguire il pensionamento al sessante-simo anno di età “onde poter soddisfare le esi-genze peculiari”, ma è assicurata la possibilitàdi optare per la prosecuzione della propriaattività lavorativa fino allo stesso limite di etàprevisto per gli uomini. Questa scelta legi-slativa, secondo la Corte Costituzionale, “noncontrasta con il fondamentale principio di parità,il quale non esclude speciali profili, dettati dallastessa posizione della lavoratrice, che meritanouna particolare regolamentazione “ (Corte Cost.sent. n. 498 del 1988).

L’INPDAP, nella sua relazione difensiva, hasostenuto che i limiti di età, fissati per gli uo-

mini e per le donne nel regime pensionisticodei dipendenti pubblici, sono uguali a quellistabiliti per i lavoratori iscritti all’INPs in virtùdel processo di armonizzazione posto in es-sere negli anni ’90.

Inoltre, lo stesso ente al fine di porre in ri-salto la natura “legale” del regime pensioni-stico pubblico ha sottolineato il principio aisensi del quale le prestazioni conferite dall’IN-PDAP non costituiscono il corrispettivo deicontributi versati.

Quanto affermato dall’INPDAP non haportato alcun effetto positivo per lo stato ita-liano e la Corte di Giustizia ha concluso affer-mando che il regime pubblicistico è un regime“professionale”.

Parte della dottrina5, nel commentare la sen-tenza C-46/07, ha posto l’accento sul termine“professionale” utilizzato dalla Corte per defi-nire il regime pensionistico dei pubblici dipen-denti italiani. La stessa dottrina ha richiamato ilRegolamento CEE n. 1606/1998 che ha dispostol’estensione del Regolamento n. 1408/1971, intema di totalizzazione contributiva, anche ai re-gimi speciali per i dipendenti pubblici. La man-cata adozione da parte della Corte di Giustiziadel temine “speciale” a vantaggio di quello“professionale” avrebbe favorito, quindi, l’inse-rimento della materia nell’ambito di applica-zione dell’art. 141 CE con parziale soppressionedella Direttiva n. 79/7/CEE.

si osserva, tuttavia, come i principi di cuiall’art. 141 del trattato CE, che prevedono“trattamenti retributivi, ovvero corrispettivi del-l’attività lavorativa del soggetto, sia di sesso ma-schile che di sesso femminile” non possonotrovare applicazione per i trattamenti previ-denziali che si differenziano da quelli retribu-tivi. La pensione, infatti, quale prestazioneobbligatoria di sicurezza sociale non può es-sere equiparata alla retribuzione.

si sostiene6, tuttavia, che la pensione possaessere assimilata alla retribuzione se viene

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Paul Cezanne, L’avvocato

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considerata quale reddito che il lavoratorepredispone per il periodo in cui sarà collo-cato in quiescenza mediante un sistema diaccantonamento contributivo.

2. L’efficacia orizzontale dell’art. 141

del trattato Ce

L’art. 141 del trattato CE ha efficacia oriz-zontale per cui il giudice nazionale è tenuto adisapplicare la normativa nazionale ad essocontraria, “senza dover attendere la previa rimo-zione da parte del legislatore nazionale e ad appli-care ai componenti del gruppo sfavorito lo stessoregime che è riservato ai membri dell’altro grupposfavorito lo stesso regime che è riservato ai membridell’atro gruppo” (sent. 7 settembre 2006, causaC-81/05, Cordero Alonso, punto 46). In caso didiscriminazione, infatti, “i membri del grupposfavorito, uomini o donne, hanno il diritto di esseresottoposti allo stesso regime degli altri beneficiari”che, “in mancanza di esatta attuazione (art.141) resta il solo sistema di riferimento valido”(sent. 13 dicembre 1989, causa C-102/88, Ru-zius, punto 20). Pertanto, di fronte all’impu-gnazione del provvedimento di diniego deldiritto a conseguire la prestazione previden-ziale, da parte della categoria dei lavoratorisvantaggiati, i giudici nazionali sarebbero te-nuti a disapplicare la norma che prevedeun’età di pensionamento più elevato per i la-voratori e ad accordare loro il diritto a conse-guire il trattamento pensionistico alcompimento del sessantesimo anno di età.

3. La Commissione di studio sulla

parificazione dell’età pensionabile

Con decreto del ministero della PubblicaAmministrazione e l’Innovazione del 10 feb-braio 2009 è stata istituita una Commissione

di studio sulla parificazione dell’età pensio-

nabile. Dai lavori della Commissione èemersa l’urgenza di provvedere ad un ade-

guamento della normativa perché la Com-missione potrebbe avviare la procedura diinadempimento ai sensi dell’art. 228 del trat-tato, con conseguente condanna dell’Italia alpagamento di penali. Inoltre, come ha osser-vato la stessa Corte di Giustizia, il giudicenazionale sarebbe tenuto a disapplicare qual-siasi disposizione discriminatori senza atten-dere l’abrogazione da parte del legislatore7.

4. La Legge 3 agosto 2009, n. 102

Il legislatore nazionale ha ottemperatoalla decisione alla sentenza n. C-46/07 con laL. n. 102/2009 di conversione del D.L. 1 lu-glio 2009, n. 78, che ha innalzato i requisitianagrafici per le lavoratrici del pubblico im-piego.

L’art. 22 ter della stessa legge introduce adecorrere dal 1° gennaio 2010, per le lavora-tici iscritte alle forme esclusive dell’assicura-zione generale obbligatoria per l’invaliditàla vecchiaia ed i superstiti, nuovi requisitianagrafici per l’accesso al trattamento pen-sionistico di vecchiaia, nonché quello previ-sto dall’art. 1, comma 6, lettera b) della L. n.243/2004. Queste disposizione vanno coor-dinate con la L. 335/95, individuando perl’anno 2010 il requisito anagrafico di anni 61per l maturazione del diritto al trattamentopensionistico i vecchiaia che viene incre-mento di un anno a decorrere dal 1° gennaio2012 e di un ulteriore anno per ogni bienniosuccessivo, fino l raggiungimento dei 65anni.

Restano invariate, per espressa disposi-zione di legge, gli ordinamenti che preve-dono requisiti anagrafici più elevati (donnemagistrato, docenti universitari). D

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tale disposizione prevede una deroga,sulla base della quale le lavoratrici che ab-biano maturato, entro il 31 dicembre 2009, i re-quisiti di età e di anzianità contributiva,conseguono il diritto a pensione secondo laprevigente normativa e possono chiedere, al-l’ente di appartenenza, la certificazione del di-ritto acquisito, già previsto dalla L. n.243/2004.

Viene introdotta, inoltre, una finestre “mo-bile”, legata all’aspettativa di vita che, a par-tire dal 2015, darà vita ad un allungamentodell’età che supererà anche i 65 anni.

5. L’adeguamento della legislazione italiana

ai principi fissati dall’Unione europea

Il legislatore italiano, a seguito delle pres-sioni dell’Unione Europea, ha introdotto leprime rilevanti novità in materia pensionisticamediante l’art. 12, comma 1 del D.Lgs.78/2010. tale decreto ha disposto l’eleva-mento dei requisiti anagrafici, la modificadegli scaglioni con l’introduzione della c.d. fi-nestra mobile, in base alla quale il trattamentopensionistico viene conseguito dopo 12 per ilavoratori dipendenti e 18 mesi per i lavora-tori autonomi a partire dalla maturazione deldiritto.

L’art. 18 del D.L. n. 98 del 6 luglio 2011,convertito nella legge n. 111 del 15 luglio 2001,ha modificato la disciplina riguardante l’ele-vamento dei requisiti anagrafici disponendol’anticipo al 1° gennaio del primo adegua-mento dei trattamenti pensionistici.

Il Decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011,convertito nella legge 148 del 14 settembre2011, ha disposto l’anticipazione, a partire dal2016, dell’innalzamento dell’età pensionabiledelle donne lavoratrici del settore privato.

Con la legge di stabilità n. 183 del 13 agosto2011 è stato modificato il requisito anagrafico

per cui per l’accesso alla pensione di vecchiaiacon la previsione di un’età anagrafica non in-feriore a 67 anni.

Dal 1° gennaio 2012 sono cambiate le re-gole per andare in pensione. L’art. 21 del D.L.201/2011 (c.d. decreto “salva Italia”), conver-tito nella Legge 214 del 22 dicembre 2011, sonostate poste le fondamenta per dare avvio aduna riforma complessiva del sistema pensio-nistico. Infine, con la legge 14 del 24 febbraio2012, che ha convertito il D.L. 216 del 29 di-cembre 2011 (c.d. “Decreto milleproroghe”),sono state apportate alcune modifiche ed in-tegrazioni al decreto “salva Italia”.

tutte le norme in materia di pensioni sonoimprontate ai principi di sostenibilità finan-ziaria, flessibilità, semplificazione, traspa-renza, al fine di garantire la massima equitàintergenerazionale8.

Gli elementi di innovazione sono rappre-sentati da:

- l’introduzione del metodo contributivopro rata quale criterio di calcolo delle pen-sioni;

- la previsione di un percorso che porteràall’equiparazione delle regole pensionisticheper uomini e donne;

- l’eliminazione delle posizioni di privile-gio;

- la presenza di clausole derogative soloper le fasce più deboli;

- la flessibilità nell’età di pensionamentoche consente al lavoratore la possibilità di an-tipare o posticipare la data di uscita dl lavoro;

- la semplificazione e la trasparenza deimeccanismi di funzionamento del sistema conl’abolizione delle finestre e di altri dispositiviche non rientrano nel metodo contributivo9.

Per i dipendenti pubblici cha hanno matu-rato i requisiti entro il 2011, il quadro norma-tivo di riferimento é ancora rappresentatodalla legge n. 243 del 28/08/2004, come mo-dificata dalla Legge n. 247 del 24/12/2007 cheD

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ha riformato il previgente sistema. Il D.L. n.78 del 01/07/2009, convertito in legge dal-l’art. 1, comma 1, Legge n. 102 del03/08/2009 ed il D.L. n. 78 del 31/05/2010,convertito in legge dall’art. 1, legge n. 122 del30/07/2010, sono intervenuti a modificarealcuni aspetti tra i quali la decorrenza, l’ag-ganciamento dei requisiti alla speranza divita, l’innalzamento dei requisiti per la pen-sione di vecchiaia delle lavoratrici del pub-blico impiego.

6. Considerazioni conclusive

In linea con quanto si legge nella sentenzan. C-46/07, si sostiene che fissare un’età chevaria a seconda del sesso per la concessionedi un trattamento pensionistico è in contrastocon la normativa comunitaria, nonché con iprincipi dettati dalla legislazione dello statoitaliano in materia di pari opportunità10.

La fissazione di differenti limiti di età nonpuò neppure trovare giustificazione nell’art.141 del trattato CE che consente agli statimembri di mantenere misure vantaggiose di-rette a compensare gli svantaggi esistentinelle carriere professionali al fine di assicu-rare una piena uguaglianza tra uomini edonne.

Gli stati membri dovrebbero, invece, invirtù del principio di non discriminazione dicui all’art. 141 trattato CE contribuire ad eli-minare le differenze di carriera che storica-mente hanno caratterizzato il lavoro delledonne nel pubblico impiego.

NOtE

1 Nello stesso senso: Corte di Giustizia 17 maggio 1990,C -262/88, Baber; Corte di Giustizia 6 ottobre 1993, C-109/91. Ten Oeve. 2 Il I pilastro è costituito dal sistema pensionistico ob-

bligatorio di base; il II pilastro dalla previdenza com-plementare; il III dalle forme di previdenza individualidi natura privatistica.3 m. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Giappichelli,torino, 2010, pag. 519. 4 A. brambilla, Capire i fondi pensione, Il sole 24 Ore,Norme e tributi, 2007, pag. 209 e segg.; F. Vallacqua, Laprevidenza complementare per i dipendenti pubblici e privai,Egea milano, 2008, pagg. 7 e segg.;5 P. sandulli, Età pensionabile e parità donna uomo per ipubblici dipendenti: la Corte di giustizia fra omissioni e ri-denominazioni, in Riv. Dir. sicurezza sociale, 2009, pagg.97 e segg.6 F. Pammoli, N. C. salerno, Corte di giustizia, pensio-namento delle donne, riforma del welfare, in Riv. Dir.sicurezza sociale, 2009, pag. 2009, pag. 146 e segg. 7 Ordinanza 16 gennaio 2008, cause riunite da C-128/07a C-131/07, riguardante l’aliquota agevolata sul tFRper la pensione anticipata a 50 anni per le donne e 55per gli uomini: “23. Così, nei casi di discriminazioni in-compatibili con il diritto comunitario, finché non sianoadottate misure volte a ripristinare la parità di tratta-mento, l’osservanza del principio di uguaglianza puòessere garantita solo mediante la concessione alle per-sone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessivantaggi di cui beneficiano le persone della categoriaprivilegiata. In tale ipotesi, il giudice nazionale è tenutoa disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discri-minatoria, senza doverne chiedere o attendere la previarimozione da parte del legislatore, e deve applicare aicomponenti del gruppo sfavorito lo stesso regime cheviene riservato alle persone dell’altra categoria (sen-tenze 28 settembre 1994, causa C-408/92, Avdel sy-stems, Racc. pag,  I-4435, punti 16 e 17; 12 dicembre2002, causa C-442/00, Rodriguez Caballero,Racc.  pag.  I-11915, punti  42 e 43; 7  settembre 2006,causa C-81/05, Cordero Alonso, Racc.  pag.  I-7569,punti 45 e 46, nonché Jonkman e a., cit., punto 39).24. Di conseguenza occorre risolvere la prima, la se-conda e la quarta questione pregiudiziale nel senso che,a seguito della citata sentenza Vergani, da cui risultal’incompatibilità di una normativa nazionale con il di-ritto comunitario, è compito delle autorità dello statomembro interessato adottare i provvedimenti generalio particolari idonei a garantire il rispetto del diritto co-munitario sul loro territorio, mentre le dette autoritàmantengono un potere discrezionale quanto alle mi-sure da adottare affinché il diritto nazionale sia ade-guato al diritto comunitario e affinché sia data pienaattuazione ai diritti che sono attribuiti ai singoli da que-st’ultimo. Qualora sia stata accertata una discrimina-zione incompatibile con il diritto comunitario, finché D

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non siano adottate misure volte a ripristinare la paritàdi trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disappli-care qualsiasi disposizione discriminatoria, senza do-verne chiedere o attendere la previa rimozione da partedel legislatore, e deve applicare ai componenti della ca-tegoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato allepersone dell’altra categoria”.8 Ci si chiede se i giovani, i più colpiti dalle riforme, con-tinueranno a sostenere il “patto intergenerazionale”,quale elemento fondante di un sistema a ripartizione. A proposito è opportuno ricordare quanto affermato nelcorso dei lavori della “Commissione Castellino”, incari-cata nel 1994 dal Governo dell’epoca di formulare pro-poste per la riforma del sistema previdenziale. taleCommissione, affrontando il “peso” economico del wel-fare sull’intera economia il passo così proseguiva: “Oltreche in termini puramente economici questa situazione potràcreare anche gravi problemi sociali. Infatti, in assenza di op-portuni correttivi, ma soprattutto di un forte sviluppo deifondi pensione, si potrà profilare uno “scontro generazionale”di sconvolgente gravità: perché mai un giovane che oggi iniziaa lavorare dovrebbe pagare un contributo sociale altissimoavendo la quasi certezza che quando verrà il suo turno il si-stema previdenziale potrà al massimo pagargli una pensionedimezzata rispetto alle attuali e comunque sottodimensionatarispetto ai contributi versati? Se questo sentimento sfociassein un rifiuto generalizzato il nostro sistema previdenziale ba-

sato sul criterio della ripartizione, crollerebbe di colpo permancanza di entrate contributive e già oggi, alla luce del-l’enorme invecchiamento della popolazione, si avvertono leprime avvisaglie di rottura di questo “patto intergenerazio-nale”. Per il nostro Paese, ed in generale per tutti i sistemi acapitalismo maturo è stato come risvegliarsi da un sogno e sco-prire che la realtà dello “stato sociale” è ben diversa; si è spesomolto, forse male e comunque troppo, scaricando sulle giovanigenerazioni un enorme debito previdenziale.”A tal proposito, sono state proposte varie soluzioni, “siain Italia che all’estero, svariate proposte di soluzione, tra cuil’abolizione del sistema pensionistico pubblico con una gra-duale sostituzione con un sistema privato a capitalizzazione,decantandone tutte le positività in termini di minori contri-buti e maggiori prestazioni derivanti da un migliore rendi-mento degli asset investiti”, in A. brambilla, s. Leoni, “Unnuovo Welfare per i giovani. Prima passi verso il riequilibriotra previdenza pubblica di base e complementare,” www.iti-nerariprevidenziali.it 9 Il sistema di calcolo contributivo è un sistema di calcolodella pensione che si basa su tutti i contributi versati du-rante l’intera vita assicurativa. Il sistema di calcolo retri-butivo, invece, si basa sulle retribuzioni percepite negliultimi anni di vita lavorativa. 10 t. menelao, Le pari opportunità nell’ottica di gestione delleperformance, in Il Nuovo diritto amministrativo, Roma,2012, pagg. 140 e segg.

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