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NOTE E DISCUSSIONI LA FINE DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR NELLE MEMORIE DI BRÜNING A pochi mesi di distanza dalla morte dell’ex cancelliere del Reich Heinrich Briining, avvenuta nella seconda patria statunitense il 30 marzo 1970, la let- teratura sulla repubblica di Weimar ha visto finalmente esaudito il voto degli storici che invano per oltre due decenni auspicarono che l’ex cancelliere si desidesse a rompere il silenzio e a prendere la parola per rievocare la sua esperienza al governo della Germania in una delle fasi decisive del declino della democrazia weimariana e della svolta verso l’ascesa del nazionalsocialismo. Nella ricca memorialistica di esponenti della vita politica weimariana apparsa grosso modo negli ultimi trent’anni (tra gli altri: O. Braun, Curtius, Gessler, Groener, Loebe, Luther, Noske, Papen, Radbruch, Schacht, Severing, Stampfer) mancava ancora la voce di Briining, che si riteneva potesse contribuire a chiarire alcuni degli aspetti più oscuri della crisi degli anni trenta e soprattutto a far luce su alcuni tratti ambivalenti se non proprio enigmatici della figura del cancelliere cattolico, la personalità dominante degli anni del governo presi- denziale e delle Notverordnungen oltreché ultimo presidente della Zentrums- partei prima dello scioglimento nel luglio del 1933. Veramente, che Briining avesse conservato rigoroso silenzio era esatto solo in parte; infatti già nel 1947, in una sua celebre, lunga lettera al direttore della conservatrice Deutsche Rundschau, Rudolf Pechel, Briining ebbe a prendere posizione intorno ad alcuni degli eventi di maggior rilievo nei quali si era tro- vato coinvolto: in particolare sui suoi rapporti con il presidente Hindenburg e sulla questione del voto dei pieni poteri a Hitler, del quale fu egli stesso corresponsabile, donde l’elemento largamente giustificazionista di quelle prime « rivelazioni » di Briining. Giustificano adesso le postume memorie (Heinrich Briining, Memoiren 1918-1934, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1970, pp. 721) l’attesa che intorno ad esse era stata creata nel mondo politico e giorna- listico, oltre che tra gli studiosi? Per rispondere correttamente a questo interrogativo è necessario ricordare anche come questa attesa fosse legata in fondo a una sorta di mito creato intorno alla persona di Briining, certo una delle personalità più discusse nella storiografia weimariana: una personalità la quale, per essere stata al centro degli eventi degli anni 1930-32 e perciò gravata dal peso di responsabilità strettamente legate alla sua opera, ha attirato su di sé valutazioni assai con- trastanti, ma tutte senza mezzi termini, da quelle apertamente e francamente apologetiche dei suoi ammiratori (che sono poi gli ammiratori e i fautori di una concezione dello « stato forte ») a quelle altrettanto apertamente polemiche e svalutative dei suoi critici e avversari. Tra i suoi apologeti si possono ricordare i giudizi dello storico Werner Conze (l’ascesa al cancellierato di Briining si

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NO TE E D ISC U SSIO N I

LA FIN E DELLA REPUBBLICA D I W EIM AR NELLE M EM ORIE D I BRÜNING

A pochi mesi di distanza dalla morte dell’ex cancelliere del Reich Heinrich Briining, avvenuta nella seconda patria statunitense il 30 marzo 1970, la let­teratura sulla repubblica di Weimar ha visto finalmente esaudito il voto degli storici che invano per oltre due decenni auspicarono che l’ex cancelliere si desidesse a rompere il silenzio e a prendere la parola per rievocare la sua esperienza al governo della Germania in una delle fasi decisive del declino della democrazia weimariana e della svolta verso l ’ascesa del nazionalsocialismo. Nella ricca memorialistica di esponenti della vita politica weimariana apparsa grosso modo negli ultimi tren t’anni (tra gli altri: O. Braun, Curtius, Gessler, Groener, Loebe, Luther, Noske, Papen, Radbruch, Schacht, Severing, Stampfer) mancava ancora la voce di Briining, che si riteneva potesse contribuire a chiarire alcuni degli aspetti più oscuri della crisi degli anni trenta e soprattutto a far luce su alcuni tratti ambivalenti se non proprio enigmatici della figura del cancelliere cattolico, la personalità dominante degli anni del governo presi­denziale e delle Notverordnungen oltreché ultimo presidente della Zentrums- partei prima dello scioglimento nel luglio del 1933.

Veramente, che Briining avesse conservato rigoroso silenzio era esatto solo in parte; infatti già nel 1947, in una sua celebre, lunga lettera al direttore della conservatrice Deutsche Rundschau, Rudolf Pechel, Briining ebbe a prendere posizione intorno ad alcuni degli eventi di maggior rilievo nei quali si era tro­vato coinvolto: in particolare sui suoi rapporti con il presidente Hindenburg e sulla questione del voto dei pieni poteri a H itler, del quale fu egli stesso corresponsabile, donde l’elemento largamente giustificazionista di quelle prime « rivelazioni » di Briining. Giustificano adesso le postume memorie (Heinrich Briining, Memoiren 1918-1934, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1970, pp. 721) l ’attesa che intorno ad esse era stata creata nel mondo politico e giorna­listico, oltre che tra gli studiosi?

Per rispondere correttamente a questo interrogativo è necessario ricordare anche come questa attesa fosse legata in fondo a una sorta di mito creato intorno alla persona di Briining, certo una delle personalità più discusse nella storiografia weimariana: una personalità la quale, per essere stata al centro degli eventi degli anni 1930-32 e perciò gravata dal peso di responsabilità strettam ente legate alla sua opera, ha attirato su di sé valutazioni assai con­trastanti, ma tu tte senza mezzi termini, da quelle apertamente e francamente apologetiche dei suoi ammiratori (che sono poi gli ammiratori e i fautori di una concezione dello « stato forte ») a quelle altrettanto apertamente polemiche e svalutative dei suoi critici e avversari. Tra i suoi apologeti si possono ricordare i giudizi dello storico W erner Conze (l’ascesa al cancellierato di Briining si

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può paragonare per la sua importanza all’ingresso di Stresemann nel governo nell’agosto del 1933: « Allora si trattava di salvare il Reich in extremis. O ra si imponeva il compito di pilotare il Reich fuori dall’incombente crisi dell’econo­mia e dello stato [...] . Il ritiro di Briining segnò la fine della repubblica di Weimar »: detto, evidentemente, in un senso diverso da quello nel quale lo intendiamo n o i)1 e l ’ammirativa recente biografia dedicatagli dal Treviranus, che di Briining fu fedele collaboratore così come si sarebbe fatto successiva­mente leale custode della sua fam a1 2, influenzando fortemente l’ancor più recente e modesto profilo biografico del L ohe3.

Se si prescinde dal giudizio totalmente negativo che sull’operato di Briining formulò sin da anni lontani Arthur Rosenberg, il primo grande storico della repubblica di Weimar 4, gli storici della più giovane generazione sono perloppiù orientati in senso fortemente critico nei confronti del cancellierato Briining: fu per primo K. D. Bracher a richiamare l’attenzione sugli effetti deleteri, nel senso del deterioramento definitivo delle istituzioni democratiche, che ebbe la prassi di governo presidenziale e autoritaria instaurata da Briining nel predi­sporre il crollo di W eimar e l’avvento del nazism o5. La pubblicazione delle memorie di Briining ha riacceso la disputa e confermato la contrapposizione dei giudizi: il Bracher ha ribadito che le memorie confermano come « il ruolo politico di Briining vada giudicato in maniera molto più critica di quanto non avvenga nella letteratura divulgativa e nella storiografia conservatrice sino agli scritti in onore di Briining del 1967 » 6. E tra gli stessi storici cattolici sembra prevalere una valutazione fortemente critica, non solo tra gli uomini formatisi nell’ultimo dopoguerra, come Rudolf M orsey7 o Otmar Freiherr von

1 Ci riferiamo sia all’opera del Conze, Die Zeit Wilhelms II. und die Weimarer Republik, Tübingen, 1964 (pp. 229 sgg.) sia a più recenti saggi dello stesso A. (e all’intervento nella discussione in Die Zeit citata alla nota 6). Da notare tra l’altro come le recenti memorie di Briining smentiscano in pieno lo zelo apologetico del Conze, soprattutto laddove egli arriva ad affermare recisamente che Briining « durante il suo cancellierato non perseguì neppure piani di modifica della Costituzione » (op. cit., p. 231): affermazione che può essere formalmente corretta ma che sul piano storico-politico è smentita dal fatto che Briining sfruttò gli strumenti che la Costitu­zione di Weimar gli offriva per conseguire una effettiva modifica del regime politico e istituzionale che era il vero obiettivo politico del suo operare, come si preciserà nel testo.2 G ottfried Reinhold Treviranus, Das Ende von Weimar. Heinrich Briining und seine Zeit, Düsseldorf-Wien, 1968; dello stesso Treviranus v. anche l’intervento nel numero citato di Die Zeit, comparso due mesi prima della morte dell’ex colla­boratore di Brüning.3 E ilert Lohe, Heinrich Briining. Offizier-Staatsmann-Gelehrter, Gottingen, 1969.4 Cfr. Arthur Rosenberg, Storia della repubblica tedesca, ed. it. Roma, 1945, in particolare pp. 251-52 (l’ed. originale è del 1935).3 Karl D ietrich Bracher, Die Auflòsung der Weimarer Republik, Stuttgart- Düsseldorf, 1955.6 Nella risposta alla discussione su Briining promossa dal settimanale Die Zeit, 9 aprile 1971, p. 17, il Bracher allude evidentemente alla Festschrift pubblicata in onore di Brüning nel 1967 a cura di A. Hermens e Th. Schieder con il titolo Staat, Wirtschaft und Politik in der Weimarer Republik.1 Del quale si veda l’ampia recensione alle memorie di Brüning nella Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5 novembre 1970, p. 19.

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Aretin 8, ma anche da studiosi di una generazione più vecchia come il Deuer- lein 9, quali che poi siano le diversità dell’angolatura e della sostanza dei punti di vista. Oggi la figura di Brüning, la cui valutazione oscilla dunque tra l’apologià di chi ha visto in lui il « salvatore » della repubblica di W eimar e della nazione e il giudizio di chi all’estremo opposto lo considera il battistrada del nazismo, come appunto il Rosenberg già citato o Io storico tedesco-orientale R uge10 11, quale collocazione nuova riceve dalla pubblicazione delle memorie?

Qualcuno ha voluto definire queste memorie addirittura « esplosive » (dynamitgeladen) 11 con riferimento all’accentuazione dei tratti autoritari e conservatori del disegno politico di Brüning che esse mettono in piena evidenza. Ma una simile definizione è certamente esagerata ed eccessiva: si direbbe che, con lo stupore che lascia trapelare, essa si può comprendere solo alla luce di quella certa mitologia costruita intorno alla figura di Brüning, che alla sua qualità di esponente del sindacalismo cattolico westfalo accoppiò uno stile e una mentalità di perfetto funzionario prussiano. I l che non vuol dire che queste memorie non contengano elementi di novità e di reale interesse non soltanto da un punto di vista conoscitivo. La prima sorpresa che esse suscitano consiste nel tono assai relativamente giustificazionistico, assai meno pronunciato rispetto alla già citata lettera alla Deutsche Rundschau del 1947: la ragione di questo fatto risiede certamente nella data di composizione delle memorie, le quali risalgono nel complesso agli anni 1934-35, con qualche posteriore inte­grazione, come appare evidente da talune allusioni a fatti e a valutazioni di più recente epoca. L ’origine delle memorie in epoca così vicina all’esperienza di governo di Brüning contribuisce a dare loro un accento di grande immedia­tezza, al punto che è stato scritto trattarsi delle memorie « di più spietata sincerità » apparse intorno a questo periodo 12, ed anche a privarle di troppo pesanti elementi di autodifesa, quasi che Brüning stesso non si fosse reso ancora esattamente conto delle dimensioni della frattura creata dal nazional­socialismo rispetto alla repubblica di Weimar e delle responsabilità che egli stesso ebbe nell’agevolargli l ’ascesa al potere e la neutralizzazione dei mecca­nismi di difesa della repubblica. Se qualcosa di nuovo emerge dalle memorie di Brüning è appunto il fatto che le sue responsabilità per lo svilimento della democrazia weimariana e per l’avvento del nazismo in Germania risultano, se possibile, ulteriormente aggravate ed esaltate rispetto a quanto già sapevamo ed era di dominio pubblico prima ancora della loro pubblicazione.

Una seconda caratteristica che emerge dalle memorie non è che il riflesso nello scrittore dei limiti dell’uomo politico Brüning: la massima secondo la quale « dopo aver subito duri colpi del destino i popoli inclinano nei momenti critici a spiegare fallimenti e delusioni per mezzo di intrighi » (p. 13), in realtà più che essere largita dall’alto di una saggezza maturata con la vecchiaia

8 Recensione alle memorie nella Süddeutsche Zeitung, 9-10 gennaio 1971, p. 86.9 Cfr. l’intervento di Ernst Deuerlein nel numero cit. di Die Zeit.10 W olfgang Ruge, Deutschland von 1917 bis 1933, Berlin, 1967 (« Lehrbuch der deutschen Geschichte »), pp. 363 sgg.11 Come fa appunto F. A. Krummacher nella recensione pubblicata nella Frank­furter Rundschau, 19 dicembre 1970, p. VI.12 Recensione cit. di F. A. Krummacher.

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risulta perfettamente congeniale alla mentalità e alla metodologia dell’uomo politico e del memorialista, legato ad una impostazione tipicamente empirica dei problemi e ad una concezione limitata, personalistica (e perciò stesso ine­vitabilmente portata all’intrigo) della vita politica, senza orizzonti di lunga durata né prospettive ideali. La conferma di questa valutazione ci è offerta dallo stesso Briining nell’atto stesso nel quale presenta le sue memorie: « Forse questa pubblicazione può contribuire a mostrare ad una generazione più gio­vane con quanta scarsa « programmazione » si verificano eventi politici decisivi, come coincidenze casuali, amicizie e contrasti personali nonché eventi non prevedibili determinano il corso della storia assai più fortemente di sottili disposizioni costituzionali e di regolamenti parlamentari, di teorie economiche e finanziarie, di dottrine partitiche e di costruzioni di filosofia della storia » (p. 12). Dove emergono chiaramente lo scetticismo (al limite del cinismo) con il quale Briining trattò uomini e partiti, il suo disprezzo per il rigore ideolo­gico, in fondo lo scarso rispetto per le stesse forme istituzionali e costituzionali che infatti egli fu il primo a erodere e a svuotare dall’interno. I gesti di « realismo » che Briining compì, e lo stesso « realismo » che egli nel dopo­guerra ultimo volle suggerire ai governanti di Bonn, il più delle volte si rivelarono nulTaltro che piccole furbizie, mosse tattiche ispirate da riserve mentali tipiche di un’impostazione politica sostanzialmente nazionalista e pa­triottarda.

Queste memorie non costituiscono una vera e propria autobiografia di Brùning: il fatto stesso che abbraccino l ’attività politica di Briining a partire dal 1918 le amputa di tu tta la parte relativa alla formazione culturale, tecnica e politica del futuro cancelliere, una parte non priva di importanza soprattutto sotto il profilo dell’ambiente politico e religioso della W estfalia, nonché della tradizione politica e amministrativa del cattolicesimo della Germania occiden­tale che una impronta così profonda dovevano incidere nella personalità di Briining. Per tu tta questa parte della biografia di Briining una serie di notizie indispensabili vanno ricercate nel libro già citato di Treviranus. Ma non si tratta di una autobiografia in senso stretto anche per una seconda e più sostan­ziale ragione: il libro segue momento per momento le tappe dell’attività di Briining; costruito su appunti di diario tenuto giorno per giorno, come conferma la testimonianza dello stesso ex cancelliere nel Vorwort, esso tende più alla ricostruzione di dettaglio degli eventi della vita politica ed economica e dei loro retroscena che alla narrazione di ampio respiro. Una conferma questa, sul piano della stesura memorialistica, della tendenza dell’A. di rifuggire da discorsi di prospettiva per ancorarsi costantemente ad obiettivi immediati e circoscritti, tangibili, realizzabili a scadenza ravvicinata. In questo quadro il tono secco, la mancanza di retorica di Briining, l’essenzialità nella narrazione dei fatti sono certo un pregio, forse anche un segno dell’autenticità delle im­pressioni e delle reazioni dello scrittore; ma viene anche il sospetto che sotto questa asciuttezza di linguaggio e di giudizi si celi la sostanziale aridità del protagonista, la straordinaria povertà psicologica del suo comportamento, la estraneità a sentimenti e a un modo di prospettarsi le cose che non fossero quelli meramenti dettati dal calcolo politico nel senso più abusato e tradizionale del termine.

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L’opera si articola in quattro sezioni che corrispondono alla partizione cronologica preannunciata dal titolo: I - Politische Erfahrungen; I I - Als Kanzler in der W irtschaftskrise; I I I - Als Kanzler in der Vertrauenskrise; IV - Auflosung des Rechtsstaates.

La prima sezione (pp. 15-142) nonostante la sua apparente stringatezza è di fondamentale interesse per spiegare il passaggio alla politica militante del­l ’ufficiale della prima guerra mondiale: le risonanze dell’esperienza bellica sono largamente rievocate, un ’esperienza che incise profondamente sulla personalità di Brüning e fu almeno in parte all’origine del legame intimo, anche se in fondo mai confidenziale e mai sino in fondo di reciproca fiducia, che si stabilì tra lui e il vecchio maresciallo Hindenburg, circondato da un mito del quale lo stesso Brüning doveva farsi largamento corifeo. Dalla guerra al dopoguerra: emerge in questa fase, in misura relativamente inedita, l ’impostazione rigida­mente conservatrice (e non di rado apertamente reazionaria) di Brüning soldato della controrivoluzione, tra gli artefici della repressione antispartachista, un Brüning che per ironia della sorte diventa anche presidente di un Soldatenrat-, un episodio che conferma il ruolo moderato, se non addirittura controrivolu­zionario, che svolsero nella rivoluzione di novembre in Germania i consigli dei soldati, come è stato riconosciuto dagli studi più recenti. E ’ un aspetto questo dell’attività e della posizione politica di Brüning sul quale torneremo più innanzi. Si precisano successivamente le altre tappe dell’ingresso di Brüning nella vita politica: l ’ingresso nel ministero prussiano degli affari sociali, un posto che bene si adattava alla formazione politica e tecnica dell’esponente cattolico seguace di una scuola sociale che aveva largamente fatto propri gli insegnamenti della filantropia statalista del regime bismarckiano; la posizione di primo piano, al fianco di Adam Stegerwald, nel gruppo dirigente del Deutscher Gewerkschaftsbund, il sindacato cattolico che egli contribuì a orien­tare in senso specificamente antimarxista, e la collaborazione al quotidiano dello stesso « Der Deutsche »; infine, l ’ingresso al Reichstag in rappresentanza di un collegio delle provincie orientali, quello di Breslavia, nel 1924, seguito poco dopo dall’elezione anche al Landtag prussiano. Brüning divenne in breve l’espo­nente parlamentare più autorevole della frazione del Zentrum al Reichstag e il coordinatore tra il gruppo del Centro nel parlamento del Reich e quello della dieta prussiana, una funzione che alla luce dei suoi orientamenti per la riforma del Reich e per l’accentramento dei poteri e delle direttive acquistava una posizione strategica.

Brüning assunse il cancellierato il 30 marzo 1930, dopo lo sfasciamento definitivo dell’ultima edizione della « coalizione di W eimar ». La seconda sezione del libro (pp. 143-414), quella relativamente più ampia, tratta con ricchezza di dettagli la preistoria della sua nomina a capo di un gabinetto poggiante sulla fiducia del presidente del Reich piuttosto che sul consenso delle forze parlamentari. È questa la sezione nella quale sono enunciati sia i piani di riforma delle istituzioni divisati da Brüning sia i criteri rigidamente deflazio­nistici da lui adottati per fronteggiare la crisi economica. Nonostante l’atten­zione dedicata agli sviluppi della crisi sul piano internazionale prevale netta­mente l’impressione che l’ottica di Brüning fosse fondamentalmente legata, nella determinazione delle misure concrete e nella previsione degli sviluppi,

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all’orizzonte tedesco in senso stretto. Al centro di tu tti i contatti internazionali di Briining era l’estinzione delle riparazioni, come parte del superamento del trattato di Versailles; di qui l’importanza attribuita al piano Young e succes­sivamente alla moratoria Hoover e ai contatti internazionali con il governo britannico e soprattutto con i governanti francesi per ottenere l’annullamento degli oneri del trattato di pace. Ma non è questo l’aspetto più originale della politica di Briining: agendo in tal modo, in fondo, egli non faceva che conti­nuare la politica di revisione così tenacemente portata avanti da Stresemann; probabilmente qualsiasi altro uomo politico della borghesia tedesca si fosse trovato al potere in quel torno di tempo avrebbe agito analogamente.

Più sorprendente è in queste memorie trovare la conferma dell’assoluta fiducia di Briining nell’unico espediente della politica deflazionistica, della riduzione di salari e stipendi e della riduzione contemporanea dei prezzi, per contenere e risolvere la crisi interna. Il feticismo per la Sanierung che già ci era noto attraverso altre testimonianze dell’azione politica di Briining 13, trova una impressionante conferma nelle memorie, convalidando uno dei tratti caratteri­stici della concezione politica di Briining: ossia l’illusione di potere scindere il momento tecnico dal momento più tipicamente politico; tu tta l’azione politica del cancelliere sembra tesa ad affermare l’autorità di determinati strumenti e meccanismi di politica economica e finanziaria prescindendo completamente dalle forze politiche e dagli interessi economici e sociali, quasi che bastasse un esecutivo forte a realizzare obiettivi che incidevano profondamente sul tessuto sociale del paese. In tal modo fra l’altro venivano in evidenza gli stessi limiti del presunto interclassismo di Briining e della tradizione cattolica della quale era portavoce, che in realtà con la sua polemica rivolta unicamente e sistematicamente contro la sinistra rivelava pesantemente il suo risvolto clas­sista. Ripetutamente Briining registra l’opposizione e l’ostruzionismo di am­bienti economici, di settori importanti della grande industria, delle banche, non esclusa la stessa Reichsbank, alla sua politica; Thyssen e Hugenberg, Schacht e gli agrari delle provincie orientali sono ripetutamente apostrofati in modo aspro e con tono di delusione: ma l’accento è sempre moralistico, personale, l ’individuazione di centri di potere, se non di un intero sistema, che erano i veri profittatori della situazione e i veri speculatori e fomentatori delle ten­denze inflazionistiche rimane in superficie, resta un fatto sigolarmente margi­nale nel quadro che egli presenta. E ancora più sorprendente appare lo scarso peso che egli attribuisce alla crisi dilagante della disoccupazione, quasi fosse un fatto scontato che sulla miseria delle classi lavoratrici si dovesse ricomporre la funzionalità del sistema: una circostanza della quale dovette trarre conferma dall’acquiescienza e dalla « disciplina » dei sindacati dei lavoratori, come avremo ancora occasione di sottolineare.

Ma anche su un altro versante delle forze economiche e sociali il racconto di Briining risulta piuttosto deludente: se è vero che tra le forze che minarono il suo tentativo di risanamento politico-economico vi furono gli agrari delle

13 Principalmente dalla raccolta H e in r ic h B rüning , Reden und Aufsdtze eines deutschen Staatsmanns, Herausgegeben von Wilhelm Vernekohl unter Mitwirkung von Rudolf Morsey, Münster, 1968.

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provincie orientali — lo afferma la storiografia 14 e lo confermava di recente lo stesso Treviranus che come ministro nel gabinetto Briining ebbe ad occuparsene direttamente 15 — i dettagli che egli riferisce sulle vicende della Osthilfe ap­paiono del tutto secondari, comunque non quali ci si sarebbe potuto aspettare dalle memorie di un Briining. Dall’andamento spesso cronachistico del racconto emerge già il triangolo delle forze, anche se spesso compaiono piuttosto delle persone, tra le quali veramente si gioca la partita: i rapporti con Hindenburg e dietro di lui suo figlio Oskar e la « camarilla »; i rapporti con Schleicher e dietro di lui la Reichswehr; i rapporti con H itler e la forza ascendente del nazionalsocialismo, questi ultimi tra gli aspetti nuovi più significativi di queste memorie.

La rottura con Hindenburg, il gioco dietro le quinte di Schleicher e l’in­transigenza di H itler di fronte alle profferte di inserimento condizionato in un fronte governativo delle destre sono i veri protagonisti della terza sezione delle memorie (pp. 415-604). Il 30 maggio 1932 Briining dava definitivamente le dimissioni al termine della lunga e diuturna altalena nei suoi rapporti con Hindenburg e con le forze che premevano su di lui dall’estrema destra, tedesco­nazionali, agrari, nazionalsocialisti, esponenti militari. In questa fase di dissolu­zione della repubblica di Weimar le vecchie forze parlamentari praticamente non compaiono più: la passività della socialdemocrazia, che Briining nella sua mentalità conservatrice tende a spacciare per patriottismo, l’inconsistenza del partito del Centro sono i segni di una profonda disgregazione politica, i sintomi dell’impotenza assoluta. È singolare la cecità di Briining di fronte a questo sgretolamento delle forze che erano state alla base della vecchia piattaforma weimariana; ma la realtà è che per realizzare il suo disegno politico di allarga­mento del fronte delle destre, compreso il nazionalsocialismo, egli aveva bisogno dell’acquiescienza delle vecchie forze parlamentari: nondimeno il suo errore fu di non capire che sotto l’apparente acquiescenza della socialdemocrazia e dello stesso Centro non si esprimevano elementi di forza a sostegno della sua operazione politica ma si celava la definitiva lacerazione politica e sociale del paese; l’immobilizzazione della socialdemocrazia e del Centro significava la paralisi e la spoliticizzazione delle masse dei lavoratori, significava la paralisi dei meccanismi di difesa e di esistenza della democrazia, per carente e difettoso che ne fosse il funzionamento.

Briining non si accorse della misura in cui la prassi di governo autoritario da lui inaugurata contribuì a scardinare i partiti e le istituzioni weimariani. Lo stupore con il quale egli mostra di valutare la possività con la quale il governo socialdemocratico prussiano di Braun e Severing avrebbe ceduto al colpo di Stato di von Papen (pp. 618-19), rinunciando fra l’altro a fare appello alla resistenza delle masse, è veramente uno dei momenti più contraddittori delle sue memorie, che costituiscono un po’ il testamento politico di uno specialista della politica di vertice, di un uomo di Stato antidemocratico per eccellenza, di un epigono dell’arte di governo ottocentesca, ispirata a un orrore

14 Cfr. per tutti B runo B u c h ta . Die Junker und die Weimarer Republik, Berlin, 1959, in particolare al cap. VI.15 G. R. T r ev ir a n u s , op. cit., alle pp. 195-99 e 312-13.

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per le masse quale poteva derivare insieme dalla lezione bismarckiana e dalla polemica antiegualitaria cattolica. Infatti, in quale altro modo, se non facendo appello alle masse, si sarebbe potuto difendere il governo prussiano? La narra­zione degli intrighi di Schleicher o delle pause di pensiero del maresciallo Hindenburg è sempre ricca di particolari inediti, ma francamente la dimensione politica della tragedia weimariana scade al livello di una disputa in famiglia, e non proprio di una delle migliori famiglie. Lo scontro politico all’interno dello stesso fronte delle destre viene generalmente personalizzato, la valutazione dei programmi politici praticamente respinta al margine, il senso politico delle alternative personali largamente obliterato. L’unica battaglia politica di un certo peso che affiora in questa fase è l’impegno di Briining per la rielezione di Hindenburg, vicenda istruttiva ed illuminante ancora una volta così della inflessibile decisione dei nazionalsocialisti di farsi largo senza nulla concedere agli avversari o anche soltanto ai potenziali fiancheggiatori come della impotente rassegnazione ormai della socialdemocrazia.

La quarta sezione delle memorie (pp. 605-679) comprende in rapida descri­zione gli eventi dalla creazione del gabinetto Papen, al breve tentativo mini­steriale dello stesso Schleicher, al 30 gennaio 1933 e all’insediamento al potere dei nazisti. In questa parte, che si conclude con l’espatrio in Olanda nel maggio del 1934 di Briining, che avrebbe fatto temporaneamente ritorno in Germania solo nel 1948, le pagine più interessanti sono quelle che Briining dedica agli sviluppi all’interno del Zentrum dopo l’avvento nazista. Assai fragile appare il tentativo di riorganizzazione interna del partito cattolico, cui avrebbe dovuto mirare la presidenza affidata ora allo stesso Briining. Il fatto è che neppure dopo il 30 gennaio 1933 Briining e i suoi collaboratori realizzarono quale cesura l’avvento di H itler si apprestava ad operare nel corso politico del Reich: la persistente speranza di Briining che H itler rispettasse lo « stato di diritto » è di una disarmante ingenuità; il modo in cui il partito del Centro e gli ele­menti moderati della destra parlamentare si lasciarono raggirare da Hitler, al quale importava unicamente estorcere loro il voto dei pieni poteri, dimostra soltanto che essi erano ormai pienamente prigionieri del gioco di vertice nel quale i vari Briining avevano costretto la vita politica, un gioco di do ut des a tu per tu con H itler nel quale il Zentrum o i tedesco-nazionali dissenzienti da Hugenberg non disponevano più di alcun potere contrattuale né di possi­bilità di condizionamento dello strapotere nazista.

Il racconto di come il Zentrum si piegò a votare lo Ermdchtigungsgesetz che doveva servire a H itler per l ’instaurazione definitiva della dittatura è nelle memorie di Briining molto più sincero e meno mistificato, nell’implicata confessione di impotenza, di quanto non appaia nella lettera alla « Deutsche Rundschau » scritta in epoca posteriore alla stesura delle memorie 16, nel 1947, quando Briining si era probabilmente reso conto delle responsabilità che si erano assunti coloro che avevano accordato i pieni poteri a H itler, per cui aveva sentito il bisogno di attenuare e sdrammatizzare il significato di quel­l’evento affermando che non il voto del 23 marzo 1933 aveva consentito la

16 II testo della lettera è stato ristampato di recente nel voi. cit. Reden und Aufsatze eines deutschen Staatsmanns, pp. 223-69.

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legalizzazione del regime di arbitrio di H itler ma già l ’ordinanza del 28 febbraio che aveva tratto pretesto dall’incendio del Reichstag: senza la revoca di quel­l ’ordinanza, affermò Briining nel 1947, il fatto di votare contro i pieni poteri non avrebbe in nulla modificato la situazione. Ma sfuggiva a Briining, quand’an­che fosse esatta la sua valutazione sul piano formale, che ben diverso signi­ficato politico doveva avere il fatto di dare a H itler il consenso dei voti del Zentrum: se votare contro i pieni poteri non avrebbe modificato la situazione, votare a favore significava fornire a H itler la legittimazione politica, quel largo consenso politico del quale egli aveva bisogno per presentarsi come l ’espressione della più larga unità popolare e nazionale. La conclusione che si deve trarre da questo supremo gesto di rinuncia del Zentrum e personalmente di Briining appare ben diversa da quella che ci viene presentata dall’ex can­celliere e dai suoi apologeti: quel gesto fu la suprema conferma della sfiducia che Briining nutriva nelle istituzioni democratiche, fu la riprova che egli era deciso a operare per la trasformazione autoritaria dello stato anche a costo di correre il rischio della dittatura nazista. Il suo tentativo di vincolare H itler all’uso limitato e condizionato dei pieni poteri non poggiava su alcuna base reale ed era al limite una contraddizione in termini: l ’unico modo di frenare in qualche misura lo strapotere nazista era di isolare moralmente e politica- mente la NSDAP; lo avvertirono in extremis, e neppure in modo totale, i socialdemocratici, ma non lo compresero Briining e compagni i quali avevano già operato una scelta discriminante, di principio e di classe a favore della destra, per cui ben altre motivazioni sarebbero state necessarie per ritrovare la forza di opporsi ai pieni poteri pretesi da H itler che non il richiamo allo « Stato di diritto », la cui manomissione era già stata inaugurata da Briining. La coscienza che Briining ebbe di talune incresciose conseguenze dell’avvento nazista anche nei rapporti tra lo stato e la chiesa — per esempio a proposito del progettato Concordato con la chiesa cattolica (pp. 670-72) nei cui confronti avanza critiche severe, che richiamano le pressioni dell’allora segretario di Stato Pacelli in favore dell’accostamento del Zentrum ai nazisti in precedenza ricordate dallo stesso Briining (cfr. alle pp. 358-60) — non diminuisce il peso delle sue responsabilità nell’avere contribuito a valorizzare la forza politica dei nazisti e nell’averne patrocinato la responsabilizzazione a livello governativo.

Non ci soffermeremo sui numerosi dettagli' e sui numerosi giudizi intorno a personalità e circostanze dell’epoca di cui sono piene queste memorie. Ci pare più interessante invece sottolineare l ’aspetto che esse mettono in rilievo in misura sinora insospettata, ossia quanto fosse profondamente ancorata in Briining l’idea della trasformazione autoritaria dello Stato tedesco e con quanta coerenza egli perseguì tale obiettivo, operando quella scelta di principio a destra che ci da oggi la chiave definitiva per interpretare il corso della sua politica.

Il quadro che ne risulta porta alla conclusione, già sottolineata del resto da altri critici delle memorie di Briining, che la democrazia weimariana difficil­mente avrebbe potuto essere salvata dallo stadio di disfacimento nel quale era precipitata all’inizio degli anni trenta; ma certo uno degli ultimi che poteva salvarla era Briining, lo stesso Briining che criticherà aspramente le pessime qualità personali e gli intrighi di Schleicher ma che nella sostanza non perse­guiva obiettivi politici diversi da quelli del generale politicante.

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Sotto questo profilo interessante non è soltanto ricostruire il disegno politico che ispirò la sua azione di governo, la sua collaborazione con Hindenburg, ma anche ripercorrere da un momento più lontano il suo itinerario politico e ricordare la valutazione che egli di volta in volta dà di determinate forze politiche e sociali. Essenziale è a nostro avviso prendere le mosse dalla rivolu­zione di novembre e dalla tenacia con la quale Briining proclamò la sua ostilità nei suoi confronti.

Il 25 febbraio 1932 Briining si trovò a doversi difendere al Reichstag contro l ’attacco concentrico delle destre, tedesco-nazionali e nazionalsocialisti, che identificavano in lui uno dei sostenitori del sistema weimariano. In quella occasione Briining non mancò di vantare le sue benemerenze nella lotta contro la rivoluzione del 1918. « Signori — apostrofò Briining i suoi contraddittori — non azzardatevi a porre un qualche collegamento tra me e il 9 novembre! [...] Dov’ero io il 9 novembre? [...] il 9 novembre ero tra la truppa che costituiva la punta avanzata del gruppo W interfeldt nell’opera di repressione della rivo­luzione [ . . , ] » 17. Non si trattava di una trovata retorica o demagogica di Briining. A leggere le sue memorie ci si rende pienamente conto come quel­l ’esperienza, null’altro del resto che un prolungamento dell’esperienza combat­tentistica, del fronte della guerra mondiale, abbia durevolmente (e si direbbe visceralmente) inciso sulla personalità di Briining: nessun segno di solidarietà non soltanto con la rivoluzione di novembre, ma neppure con le moderate trasformazioni istituzionali nelle quali essa sfociò. Per lui la rivoluzione di novembre si identificò solo nella minaccia di boslcevizzazione della Germania, nel pericolo comunista. Gli avversari politici sono trattati con la diffamazione: « i rivoluzionari, ad eccezione di alcuni capi fanatici, erano codardi super­compensati » (p. 31): uno stile quasi analogo a quello dei nazisti. Non mera­viglia perciò che lo stesso Briining potesse constatare di essere « uno dei pochi che avrebbe potuto a buon diritto opporsi alla rozza agitazione della NSDAP contro i ’criminali di novembre’ » (p. 34), sino a sottolineare con vero e proprio compiacimento la sua milizia controrivoluzionaria (p. 529).

Questo atteggiamento non definisce soltanto una presa di posizione nei confronti della rivoluzione di novembre, esso segna profondamente l’atteggia­mento politico complessivo di Briining: condiziona il giudizio nei confronti di altre forze politiche, e in special modo della socialdemocrazia; coinvolge la valutazione complessiva degli esiti della sconfitta del 1918 e del crollo dell’impero guglielmino. Sotto il primo punto di vista appare chiaro che il giudizio positivo della socialdemocrazia è condizionato alla misura in cui fosse possibile utilizzarne e strumentalizzarne la funzione controrivoluzionaria. Ripe­tutamente si trova l’elogio dei Ebert e Wels (« gli unici uomini, che vedessero chiaro il pericolo che la Germania fosse sommersa dal bolscevismo e che avrebbero impegnato la loro vita per eliminare questo pericolo », p. 32), di Noske (« Senza la stretta collaborazione tra Ebert, Noske e i giovani ufficiali di SM non sarebbe stato possibile dominare la rivoluzione », p. 49), della socialdemocrazia maggioritaria (p. 53) o dell’ex cancelliere Hermann Miiller « uomo sollecito solo al bene della patria » (p. 260). Più ambigui appaiono

17 Reden und Aufsàtze..., cit., p. 116.

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i numerosi cenni di stima nei confronti di Hilferding, dei quali purtroppo non è possibile controllare l’attendibilità.

La socialdemocrazia che piace a Briining è la socialdemocrazia svilita di ogni combattività, priva di carica classista, garante della controrivoluzione, alla quale peraltro egli non risparmia una sprezzante ironia. La decapitazione del movimento operaio tedesco è l’unica condizione che lo rende accettabile a Briining: « Il proletariato organizzato, del quale Lenin aveva bisogno per instaurare la sua dittatura, diventò in Germania l’arma più valida per condurre la lotta contro il bolscevismo » (p. 56). Quando Briining si accinge a costituire il suo gabinetto la SPD condiziona il suo appoggio all’esclusione di determinate personalità: ma non è una condizione seria, tanto è vero che di 11 a poco cade anche quest’unica riserva (pp. 166-67). I socialdemocratici con i quali ha a che fare Briining sono per sua fortuna sempre più ragionevoli: tale è il caso del governo Braun in Prussia (pp. 208 sgg.); tale ancora si rivela la posizione dei socialdemocratici nella vicenda della rielezione di Hindenburg: l’appello patriottico è l’arma di cui si serve Briining (pp. 501-502); come se già non bastasse questo tipo di pressione, Briining si impegna successivamente ad otte­nere l ’adesione dalla SPD alla presentazione della candidatura di Hindenburg ad opera di un comitato di personalità non caratterizzate partiticamente e a chiarire ai capi della SPD « la necessità di ingoiare anche questo » (p. 510): un’espressione estremamente significativa del concetto che egli aveva del partito socialdemocratico; ma di cedimento in cedimento, Briining può osare ancora un altro passo sino a nutrire la speranza che la SPD possa « tollerare la desi­gnazione del presidente della Repubblica ad opera di un comitato orientato a destra » (p. 514). La socialdemocrazia come copertura a sinistra di una politica di destra era l’unica funzione che Briining era disposto a riconoscere alla SPD.

Ugualmente, e in senso analogo, degni di riflessione sono i commenti che Briining, lui stesso proveniente dai sindacati cattolici, dedica al movimento sindacale. Anzitutto perché conferma la concezione che del sindacato egli ebbe e la funzione di garante della « pace sociale », come si direbbe oggi, che egli gli attribuiva; in secondo luogo perché conferma come quella concezione tro­vasse purtroppo rispondenza nel sindacato del periodo weimariano, che costi­tuiva il perfetto pendant sul piano del movimento operaio del partito socialde­mocratico: privo di mordente, svuotato di contenuti classisti, elemento di inte­grazione e non di antagonismo rispetto alla società capitalistica. Briining non poteva non apprezzare i vantaggi di una simile impostazione nel quadro della sua politica deflazionistica, della quale con la sua passività il sindacato finì per farsi l ’indispensabile strumento. Nel commentare la quarta Notverordnung dell’8 dicembre 1931, che comportò tra l ’altro una nuova riduzione salariale del 10 per cento, Briining scrive: « ... bisognava ottenere il consenso dei sindacati alla riduzione salariale. Ci si riuscì. In un anno i salari erano stati decurtati in media del 20-25 per cento, senza che scoppiasse un solo sciopero, ad ecce­zione dello sciopero selvaggio dell’industria metallurgica berlinese. Visti nel complesso, nel corso di quest’anno i capi sindacali hanno dimostrato un senso di responsabilità per la patria quale non fu dimostrato neppure una volta dai dirigenti di altre unioni professionali » (p. 480). Questi e altri elogi furono meritati: se non avesse incontrato l’acquiescienza dei sindacati Briining non

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avrebbe potuto procedere sulla via della deflazione né avrebbe potuto illudersi di risolvere per quella via la grave crisi tedesca. Ma egli non si rese conto quanto egli stesso con la sua politica avesse contribuito a spezzare definitiva­mente la spina dorsale al movimento operaio. Quando egli dinanzi all’avvento nazista considera « quasi inconcepibile il crollo dei sindacati » e aggiunge « Dopo il fallimento di Schleicher non hanno fatto neppure il tentativo di uno scio­pero generale » (p. 675) dimentica evidentemente che questa era fra l’altro la conseguenza della politica di integrazione e della tattica di oltranzismo legali­tario che avevano caratterizzato da lunga data anche il sindacato vicino alla socialdemocrazia e che erano state ulteriormente accentuate dopo l’odiata rivo­luzione di novembre del 1918. Dimentica soprattutto che in questa mancanza di reattività di fronte all’ascesa al potere del nazismo si esprimevano le conse­guenze estreme di quella separazione dalla politica, di quel rifiuto di fare politica e del riflusso puro e semplice nel corporativismo e nella tutela di interessi settoriali, che egli stesso aveva auspicato, proprio quando aveva deplo­rato la tendenza del sindacato a farsi sempre più coinvolgere nelle vicende politiche (p. 241).

Già queste considerazioni sarebbero sufficienti a definire il volto conser­vatore della politica di Briining. Le sue memorie hanno avuto tuttavia il pregio di contribuire a sciogliere quel margine di incertezza che ancora sussisteva in­torno alla valutazione della sua personalità; la stessa apparente ambiguità dei suoi rapporti con Hindenburg acquista ora una logica e una coerenza che prima erano insospettabili. Le tendenze autoritarie genericamente attribuite a Briining acquistano ora contorni precisi: non di semplici tendenze si trattava ma di un deciso proposito. L’ipotesi che Briining potesse essere considerato l ’artefice sfortunato del tentativo di salvare la repubblica di Weimar svanisce decisamente dinanzi all’unica, vera ma capitale rivelazione di queste memorie: non per ripristinare la funzionalità delle istituzioni repubblicane lavorava Briining ma puramente e semplicemente per preparare la restaurazione monar­chica, nel più ampio significato di regime oligarchico alieno dal predominio degli strumenti democratici di governo (i partiti innanzitutto) indissociabili da un moderno e democratico regime di massa.

Quali prospettive di realizzare questo disegno si presentassero a Briining non è chiaro: ma che egli lavorasse per questa ipotesi è ora da lui esplicita­mente affermato, per cui se ne può concludere che, incapace di realizzare l ’alternativa monarchica, Briining operò comunque nel senso di svuotare ulte­riormente quel che rimaneva delle istituzioni e dello spirito repubblicano nella Germania di Weimar. Il legame di Briining con Hindenburg non va visto perciò soltanto sotto il profilo dell’etica militare alla quale Briining si sentì sempre così fortemente vincolato; né soltanto come espressione del rispetto di una tradizione e di un mito militari e guerrieri che dopo la sconfitta del 1918 rappresentavano pur sempre anche per molti conservatori che avevano aderito alla repubblica il punto di riferimento di un passato certo più carico di glorie del presente. In Hindenburg, e chiaramente anche nelle forze che lo circonda­vano, Briining vedeva l’elemento di continuità con il passato, l’anello che avrebbe potuto consentire la restaurazione della monarchia sol che fosse riuscito a sopravvivere alla parentesi repubblicana. A differenza di altri uomini del

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Centro, a cominciare da Konrad Adenauer, che aderirono alla repubblica non per vocazione né per convinzione ma semplicemente perché, con elementare realismo politico, ne valutarono l’irreversibilità, Briining mantenne sempre nei suoi confronti una forte riserva mentale: si capisce in questa prospettiva la costante ricerca di alleanze a destra del cancelliere Briining, anche se egli non disperava di ottenere per la realizzazione del suo obiettivo di restaurazione monarchica lo stesso consenso della socialdemocrazia.

Briining in sostanza condivideva l’idea di Schleicher e di altri esponenti della destra politica e militare che la parentesi weimariana, che sembrava essere giunta al suo estremo esaurimento con la fine del governo di grande coalizione di Hermann Miiller, non poteva non sfociare nel ritorno alla monar­chia, attraverso una fase di graduali riforme interne. In questo quadro sembrava necessario evitare di cozzare direttamente contro la socialdemocrazia, che doveva essere semmai acquisita all’operazione, e sembrava altresì possibile, almeno in determinate condizioni quali potevano essere determinate da circostanze parti­colarmente favorevoli a un clima di esaltazione patriottica (per es. il ritiro dei presidi alleati dai territori occupati parallelamente alla cancellazione delle riparazioni), la nomina a cancelliere di un generale, come era nei voti di Schleicher. Se Schleicher poteva sembrare più precipitoso, Briining era tanto più accorto: non di affrettare comunque il ritorno della monarchia si trattava, ma piuttosto di sfruttare intanto la possibilità di indurre, nell’euforia patriottica, la socialdemocrazia « quanto meno a tollerare una situazione come quella ungherese » (p. 146), vale a dire una reggenza, che risolvesse almeno i termini istituzionali del problema se non anche quelli dinastici.

La scadenza che per Briining si poneva come fondamentale era la morte di Hindenburg; che cosa sarebbe accaduto alla morte del presidente del Reich? Per questo si trattava intanto di gettare le basi di un graduale superamento del predominio dei partiti, con l ’appoggio di Hindenburg. È probabile, come egli afferma, che Briining non abbia mai pensato di servirsi del famoso art. 48 •della Costituzione di Weimar per procedere a vere e proprie trasformazioni della Costituzione (che del resto neppure dal punto di vista strettamente for­male sarebbero state possibili per quella via): certo è però che il ricorso alla prassi del governo presidenziale consentito dall’art. 48 doveva servire a creare le premesse politiche e psicologiche favorevoli per arrivare infine anche alla trasformazione formale delle istituzioni. Nel costituire il suo gabinetto Briining non pensava certo di prescindere dall’appoggio della maggioranza del Reichstag: quella maggioranza gli era anzi necessaria e indispensabile, ma si trattava « al tempo stesso di infrangere l’influenza delle frazioni sulla sua composizione e sulle sue deliberazioni » (p. 163). Il rafforzamento dell’esecutivo era pertanto il primo obiettivo da raggiungere.

Le affermazioni di Brùning in favore della restaurazione monarchica sono assolutamente esplicite. « Io mi considerai sempre quale fiduciario del presi­dente del Reich\ era mia intenzione conservarlo come capo dello Stato con l ’obiettivo di agevolare alla sua morte la reintroduzione pacifica della monarchia. Questo fu il perno di tu tta la mia politica » (p. 378, le sottolineature sono di Briining). In questa prospettiva è chiaro che l’impegno con il quale Briining si battè per la rielezione di Hindenburg alla presidenza del Reich doveva servire

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per prendere tempo e meglio scandire i tempi della operazione restauratrice.. Nell’autunno del 1931, dopo il rimpasto del gabinetto impostogli non da ultimo dallo stesso Hindenburg e risoltosi con un ulteriore e più accentuato sposta­mento a destra, Brüning incominciò a porre in termini ravvicinati il problema della monarchia: egli riferì al maresciallo Hindenburg di avere spinto lo schie­ramento politico al punto che « la restaurazione della monarchia avanzava nel­l’area delle possibilità » (p. 453). Se dissenso vi era con Hindenburg a questo proposito era di natura personale; Hindenburg si sentiva « fiduciario del Kaiser » e basta e quindi per lui la restaurazione monarchica significava semplicemente il ritorno di Guglielmo I I , la restaurazione del Kaiser. Se quindi la restaura­zione della monarchia subì una battuta d ’arresto non fu certo per causa di Brüning ma per l’insipienza politica del vecchio maresciallo, che non aveva capito neppure che se voleva salvare l ’istituzione doveva sacrificare almeno il deposto imperatore. In questo Hindenburg era certo più estremista di Brüning, che era costretto a constatare che « per lui (per Hindenburg) una monarchia secondo il modello inglese, che poggiasse sul sostegno della classe lavoratrice, non era assolutamente una vera monarchia» (p. 454). Alla fine del 1931, alla vigilia della rielezione di Hindenburg, Brüning riteneva di trovarsi a questo punto: « Nella politica interna ero arrivato al punto da potere realizzare per l’estate [del 1932] la reintroduzione per via legale della monarchia, in una forma soddisfacente per l ’interno e tale da costituire verso l’esterno la premessa per un accomodamento relativamente alla restaurazione degli Hohenzollern. A norma di tu tte le mie esperienze e conversazioni, il pericolo era nella possibilità che tutto ciò fosse distrutto bruscamente da una specie di putsch monarchico, destinato a distruggere per decenni l’ideale monarchico » (p. 456).

Il problema della monarchia diventò veramente il problema politico cen­trale se Brüning potè illudersi che la monarchia avrebbe rappresentato nei confronti del nazionalsocialismo una alternativa per quale anche il proletariato potesse avvertire che valesse la pena di battersi. Siamo quasi nel grottesco, eppure in un colloquio capitale con il generale Schleicher, non più tardi del 2 maggio 1932, Brüning si espresse in questi termini: « Per me la reintrodu­zione della monarchia non è una questione sentimentale, ma esclusivamente questione di ragione. Il comandante supremo della Reichswehr deve possedere una uniforme e una vetrina di decorazioni, altrimenti il soldato semplice non guarderà mai con rispetto al suo comandante supremo. Sotto questa uniforme deve celare un po’ di ragione e molta lealtà e fedeltà. In tal caso è presente a sufficienza tutto ciò che è necessario per condurre stabilmente in alto il popolo e lo Stato. Le masse dei lavoratori organizzati devono desiderare la monarchia nella lotta contro la dittatura nazista. Allora essa sarà assicurata duraturamente » (p. 579).

L ’ideale di Brüning non era soltanto il ritorno alla monarchia, era il ritorno a Bismarck: uno Stato forte, un potere al di sopra dei partiti, interventi empirici e competenza tecnica. Questo spiega fra l ’altro di fronte alla costante- svalutazione dei partiti l’enorme peso che Brüning sempre attribuì viceversa al corpo dei funzionari, alla burocrazia, all’esercito, come fonte non solo di potere ma anche di disciplina, di quell’etica militare fatta di ordine, di disciplina e di gerarchia soprattutto che egli avrebbe voluto trasferire anche nella vita:

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politica. In questo quadro e in questa prospettiva le memorie di Briining confermano che gli interventi miranti a rafforzare il potere esecutivo di fronte al parlamento, tipici della sua gestione di governo, non erano espedienti tran­sitori per fronteggiare una situazione eccezionale, ma erano manifestazioni destinate ad anticipare nei fatti la trasformazione istituzionale. Non parla infatti lo stesso Briining di « ritorno alle migliori tradizioni dell’amministra­zione prussiana di cento anni fa »?

I l giudizio che se ne può trarre nei confronti di Briining può apparire a prima vista troppo severo, nel senso che sarebbe eccessivo, e storicamente sbagliato, rigettare unicamente su di lui le responsabilità della fine di Weimar: in fondo, se la repubblica finì in preda al nazismo e se lo stesso Briining potè governare come governò si dovette al fatto che le istituzioni e le forze demo­cratiche erano ormai già paralizzate. Il fatto stesso che all’inizio degli anni trenta le sorti della repubblica fossero affidate a due personalità, il presidente della repubblica e il cancelliere del Reich, che si sentivano intimamente legati più alla tradizione monarchica che alla repubblica e che anzi operavano attiva­mente per la restaurazione monarchica, offre la riprova della disgregazione della quale era ormai preda lo Stato weimariano. Ma ora in misura molto più precisa di quanto non si sospettasse già prima risulta evidente che Brùning operava consapevolmente e deliberatamente per una soluzione auto­ritaria della crisi politica ed economica della Germania. La sua ammirazione per Mussolini non è casuale: non è casuale che egli sia uno dei pochi statisti europei che riesce ad apprezzare la saggezza politica del capo del fascismo, che si lasci incantare dalle sirene di Mussolini e di Grandi, che cerchi di minimizzare se non addirittura di smentire le affinità tra fascismo e nazional­socialismo (pp. 358-360). E non è neppure casuale che quando deve designare un suo successore Brùning faccia il nome di Goerdeler (p. 568), un nome che ormai è un programma per chiunque conosca le vicende della fronda interna nazista e del tentativo di colpo di Stato del 20 luglio 1944. Né è casuale infine la predilezione di Brùning per organismi corporativi che mi­rassero insieme a scavalcare le funzioni parlamentari e a inserire nella direzione politica esponenti dell’ambiente economico, generalmente legati alla destra tedesco-nazionale, che non potevano essere certo paladini della democrazia weimariana (alludiamo in particolare alle vicende del Wirtschaftsbeirat voluto da Brùning, alle pp. 456 sgg.).

Certo, sull’esperienza weimariana posero definitivamente una pietra i nazisti, ma ora è chiaro che la democrazia weimariana non si sarebbe salvata neppure se si fosse consolidato l’esperimento Brùning. Brùning non mirò con­sapevolmente a consegnare la repubblica al nazionalsocialismo ma commise l ’errore fondamentale di tendere tenacemente a rafforzare il fronte delle destre mediante l ’inserimento dei nazionalsocialisti, sottolineando in pratica la loro indispensabilità per una piattaforma politica della coalizione di destra. Se il gioco di Brùning di addomesticare i nazisti, di renderli regierungsfàhig come direbbero i tedeschi in un contesto nel quale non fossero essi la forza dirigente, la forza motrice, che era lo stesso disegno politico di Schleicher, non andò in porto fu proprio per il fatto che Brùning,. come del resto Schleicher, Papen e lo stesso Hugenberg, si limitarono a valutare ciò che del

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nazismo era assimilabile alle istanze della destra tradizionale in odio soprattutto alle sinistre o meglio a ciò che restava delle sinistre (ma la stessa KPD viene sistematicamente sottovalutata da Briining o presa in considerazione solo nella misura in cui i suoi presunti « complotti » possono servire a giustificare le alleanze a destra), che non meritavano certamente l ’impegnativo appellativo di « forze marxiste » con le quali cerca di diffamarle Briining. Briining e gli altri esponenti della destra conservatrice non videro cioè i caratteri e il potenziale eversivo nei confronti della stessa destra tradizionale di cui era portatore il nazionalsocialismo. E i loro errori e la loro debolezza non poterono non alimentare e vieppiù rafforzare l’intransigenza e la pretesa di monopolio del potere della NSDAP. M utatis mutandis la posizione e la politica di Briining risulta assai più vicina a quella di un Dollfuss (con una minore accentuazione confessionale) che a quella di qualsiasi altro esponente della repubblica di Weimar. Può darsi che Briining non abbia inteso consapevolmente spianare la strada al nazismo ma tutto sta confermare che il Eiihrerstaat trovò in Briining il suo primo interprete e artefice, per cui anche sotto questo profilo i nazisti camminarono su un terreno che era già stato largamente dissodato a loro favore.

In conclusione, mi pare che un risultato emerga chiaro dalle memorie di Briining, e su questo appunto va messo l’accento al di là della valutazione dell’infinità di dettagli e di giudizi intorno a fatti e figure della congiuntura politica nella quale si trovò coinvolto il loro autore: Briining non poteva offrire la via d ’uscita dalla crisi della democrazia weimariana; egli anzi contribuì a soffocarne le possibilità di sopravvivenza costringendola nel di­lemma tra la soluzione autoritaria (irrealistica nel suo ritorno agli schemi bismarckiani) e la restaurazione monarchica da una parte e l’avvento del nazionalsocialismo dall’altra. In entrambi i casi era la fine della repubblica democratica e certo ben scarsa attenuante a favore di Briining fornisce la considerazione che una dittatura di destra nella quale i nazionalsocialisti fossero solo una delle componenti e non la forza egemone sarebbe stata meno oppressiva e meno radicalmente totalitaria della dittatura nazista. Ciò, a pre­scindere da ogni altra valutazione , se non altro perché l’alleanza con i nazisti doveva fatalmente emarginare i fiancheggiatori di fronte al maggiore dinamismo della NSDAP e alla sua maggiore abilità propagandistica e alla forza di pene- trazione della sua demagogia sociale e nazionalistica. La riprova ultima del ricatto che la destra tradizionale e gli stessi partiti dell’ala moderata weima­riana avrebbero subito ad opera del nazionalsocialismo una volta che si fossero posti sostanzialmente al di fuori della prospettiva e del serio proposito di salvare la repubblica e la Costituzione del 1919, che per essi era pur sempre frutto dell’odiata ancorché sconfitta rivoluzione di novembre, è fornita dal comportamento tenuto dal Zentrum nella questione del voto dei pieni poteri a H itler sfociata in un suicidio politico senza precedenti. E il fatto che Briining non respingesse a priori l’ipotesi e l’estrema aberrazione di entrare nel gabinetto H itler, come ci viene attestato da un autorevole testimone 18, non ne

18 Nella recensione citata alla nota 8 il von Aretin, il quale ebbe nel 1956 visione del manoscritto di Briining, riferisce che in quella stesura Briining ricordava un pro-

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diminuisce certo le responsabilità. Ma in definitiva, almeno una cosa va detta a suo favore: di fronte a tanti libri di memorie puramente giustificazionistiche e autoapologetiche eccone finalmente uno che contribuisce a infrangere senza possibilità di riserve il mito del suo autore e protagonista, a sciogliere l ’enigma di Brüning che d ’ora in poi sarà veramente arduo continuare a spacciare per il « salvatore della repubblica ». E questa è forse, non da ultimo, la ragione vera per la quale Brüning non volle che le memorie fossero pubblicate lui vivo ma soltanto dopo la sua morte.

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getto di Schleicher per la partecipazione di entrambi — Schleicher al dicastero della Reichswehr e Brüning a quello dell’economia — al gabinetto Hitler, aggiungendo: « Secondo il passo ora cancellato, l’atteggiamento di Brüning fu di benevola attesa ». Ricordiamo la testimonianza del von Aretin, oltre che per H suo intrinseco interesse, come significativo indizio dei tagli che sono stati indubbiamente apportati al mano­scritto originale.

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Terzo MondoRivista trimestrale di studi, ricerche e documentazioni sui paesi afro-asiatici e latino-americani diretto da UMBERTO MELOTTI numero doppio speciale

U m berto M e l o t t i, M arx e il terzo m ondo.Per un nuovo schema della concezione marxiana dello sviluppo storico.Il pensiero di Marx sull’India, sulla Cina e sulla Russia — sui problemi e sulle prospettive dei paesi in via di sviluppo — sulla rivoluzione anticoloniale e sulla solidarietà militante del proletariato dei paesi industriali avanzati con le forze rivoluzionarie del­l’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, in un vo­lume che è anche un importante contributo teorico alla concezione marxista dello sviluppo storico. Critica delle tradizionali impostazioni unilineari (so­cialdemocratiche, staliniane, etc.), bilineari (Plecha- nov, Wittfogel, etc.) e neo-unilineari (Godelier, Chesneaux, Suret-Canale, Varga, Thorner, etc.) e sviluppo delle prime intuizioni multilineari (Hobs- bawn, Rodinson, Garaudy, etc.). Un nuovo schema multilineare alternativo: la comunità primitiva ele sue diverse forme di dissoluzione; comunità asia­tica, slava, greco-romana, germanica, etc.; la società schiavistica antica e la società feudale; il modo asiatico di produzione, origini e sviluppi del capi­talismo; origini e sviluppi del collettivismo burocra­tico; lo sviluppo del sottosviluppo e le prospettive della rivoluzione socialista nel Terzo Mondo e nelle società industriali avanzate.Questo speciale numero doppio di circa 200 pagine: L. 1.800. Abbonamento per il 1972: L. 3.800 (ordi­nario); L. 10.000 (sostenitore).