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1 Seminario Non solo biografie II Parte (a cura di Katia Verdiani) Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’ inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”. Albert Einstein 1955 tratto da Il Mondo come lo vedo Io

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Seminario

Non solo biografie

II Parte

(a cura di Katia Verdiani)

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’ inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla”.

Albert Einstein 1955 tratto da Il Mondo come lo vedo Io

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Viviamo in un periodo di crisi … da circa due anni non sentiamo parlare di altro … crisi delle certezze, crisi dei valori, crisi della famiglia, nel lavoro, tra i giovani, nella cultura …

Ma forse è il momento di riflettere, proprio come ci spinge a fare questa frase di Einstein, perché ogni crisi porta con sé grandi cambiamenti nel pensiero e nella vita quotidiana. Proprio come è già avvenuto nei primi cinquant’anni del ‘900. Per questo oggi siamo a riflettere tutti insieme su questo tema, interrogandoci sui grandi cambiamenti che hanno avuto luogo nel periodo che intercorre tra il

1900 circa e la fine della seconda guerra mondiale, con la crisi economica del 1929, la crisi del Positivismo e l’avvento del Decadentismo e l’affermazione delle dittature in Europa. In particolare

la nostra attenzione si concentrerà sul rapporto tra gli intellettuali italiani ed il Fascismo e sui diversi atteggiamenti avuti da alcuni di loro nei confronti del regime stesso.

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La crisi del Positivismo e l’avvento del Decadentismo

Negli ultimi anni dell’ ‘800 il Positivismo dominante si intrecciò con una ben diversa sensibilità culturale, che metteva in dubbio il fatto che la scienza e la tecnica potessero dominare il mondo,

contrapponendo ad essa i concetti di “CRISI” e “DECADENZA”.

Man mano che si avvicinava la fine del secolo si tracciavano bilanci che mettevano in crisi il mito del progresso e le certezze della scienza e dell’oggettività. Il progresso della società appariva

largamente minacciato dai conflitti tra le classi e dagli antagonismi tre le nazioni.

Numerosi intellettuali iniziarono apertamente a parlare di

TRAMONTO, CREPUSCOLO, FINE DELLA SOCIETÀ.

Paradossalmente furono proprio nuove teorie scientifiche a minare la fiducia nel fatto che la scienza possa darci una descrizione ed una spiegazione univoca del mondo esterno, facendo crollare

le certezze del Positivismo.

1. Nel 1905 venne formulata per la prima volta da Albert Einstein la teoria della Relatività, poi ampliata nel 1916.

2. Nel 1927 Werner Heisenberg elabora il principio di indeterminazione.

Sul piano filosofico la perdita di fiducia nella capacità di descrivere il mondo esterno alimentò forme di pensiero che di solito sono definite come IRRAZIONALISMO.

Il filosofo che maggiormente rappresentava la crisi di fine 800 fu Friedrich Nietzsche.

Il suo pensiero non accetta più né verità certe, né valori morali; non c’è nulla di stabile e di oggettivo (RELATIVISMO) e l’uomo contemporaneo è il prodotto di un processo

inarrestabile di DECADENZA, incapace di produrre nuova storia.

L’espressione più nota del suo pensiero è “DIO è morto”, che rappresenta metaforicamente proprio la CRISI DELLE CERTEZZE.

Solo il SUPERUOMO, incarnazione della libertà e della volontà di potenza potrà sottrarsi alla decadenza e proporsi come rifondatore dell’umanità.

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Anche Sigmund Freud, fondando la PSICOANALISI h dato un contributo decisivo all’IRRAZIONALISMO, distruggendo l’unità dell’anima attraverso la “scoperta”

dell’INCONSCIO.

L’approccio freudiano conteneva tre novità sconvolgenti per l’epoca:

1. L’individuo è sempre teatro di conflitto tra diverse pulsioni.

2. Il confine tra salute e malattia mentale è molto più sfuggente di quanto comunemente si creda

3. La psiche umana va indagata non attraverso le manifestazioni coscienti, ma attraverso l’inconscio.

INSIEME a Karl Marx, Nietzsche e Freud saranno definiti i “MAESTRI DEL SOSPETTO” dal filosofo francese Paul Ricoeur.

Il difficile passaggio tra ‘800 e ‘900.

Le illusioni del Positivismo

- La capacità di scienza e tecnica di conoscere la realtà e modificarla a vantaggio dell’uomo

- L’inarrestabilità del progresso umano

- Il mito del nazionalismo e il primato della patria

- Una pace durevole nel continente europeo

- L’Europa dominatrice del mondo e la sua missione civilizzatrice

-Ci si culla nel benessere della Belle Époque

- I governi europei promuovono una politica nazionalista ed aggressiva:

- in Europa:

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- in Africa e Asia:

COLONIALISMO

La realtà

In Italia: - È difficile costruire uno stato davvero unitario

- Numerose sono le tensioni sociali

- È difficile dare risposta ai problemi emergenti come:

- Il pareggio del bilancio

- La questione romana

- La questione meridionale

- L’allargamento della partecipazione politica

In Europa: - Alleanze contrapposte ed aggressive:

TRIPLICE ALLEANZA: (nata nel 1882) Germania- Impero austroungarico- Italia

TRIPLICE INTESA: (nata nel 1907) Francia, Gran Bretagna, Russia

- Crisi economica:

GRANDE DEPRESSIONE (1875-1890)

ESITO FINALE:

PRIMA GUERRA MONDIALE (1914-1918)

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Il difficile dopoguerra e le sue conseguenze

Difficoltà politiche

- Cancellati gli imperi

multinazionali (austroungarico, ottomano, russo)

- Germania e Italia penalizzate dai trattati

di pace

Difficoltà economiche

- Distruzioni belliche ovunque, ingenti risarcimenti per i danni di guerra

- Crisi economica, inflazione

- “grande depressione” del 1929

Difficoltà sociali

- le masse vogliono contare di più

- scioperi, agitazioni sindacali

- eversioni da destra e da sinistra

CRISI DELLE SOCIETÀ LIBERALI

EMERGE L’AUTORITARISMO NEGLI STATI DOVE IL PARLAMENTARISMO È MENO RADICATO

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Fascismi in Italia, Portogallo, Grecia, Spagna

Nazismo in Germania

Stalinismo in Urss

In Europa i sistemi politici tradizionali incontrarono gravi difficoltà ad affrontare la crisi economica

e sociale del dopoguerra. Prendevano sempre più piede le organizzazioni sindacali ed i partiti dei

lavoratori che chiedevano nuovi spazi rappresentativi e decisionali, speranza di stabilire una società

più giusta. In Europa la maggioranza dei partiti erano socialisti di orientamento riformista, ma nel

dopoguerra in Francia, Germania ed Italia nacquero forti partiti comunisti, che, come i bolscevichi

in Russia si ponevano l’obiettivo di sovvertire le istituzioni liberali e borghesi. La scena politica,

inoltre vide emergere sul versante opposto anche movimenti di estrema destra, che si rifacevano

all’ideologia nazionalista già diffusa nell’anteguerra. Questi movimenti di destra organizzarono

vere e proprie squadre paramilitari, che sempre più spesso usarono la violenza contro le

organizzazioni della sinistra operaia. Per questo motivo cominciarono a raccogliere consensi anche

tra i ceti borghesi, spaesati di fronte alla crisi delle istituzioni liberali ed impauriti dalla prospettiva

della rivoluzione proletaria. In Germania la Repubblica di Weimar fu continuamente minata da

agitazioni di piazza che cercava nodi rovesciarla e da un’inflazione galoppante, che fece perdere

ogni valore economico al marco. In Italia la disoccupazione colpiva sia gli agricoltori che gli operai

del Nord e l’inflazione penalizzava anche i ceti medi e la piccola borghesia. Durante il biennio

rosso (1919-1920) furono occupate la fabbriche del Nord, mentre gli scioperi paralizzarono il lavoro

nelle campagne. La borghesia fu molto spaventata da questa situazione ed il fascismo seppe

sfruttare il varco aperto proprio da questa assenza d’ordine.

Regimi fascisti o parafascisti si instaurarono in Italia a partire dal 1922, dopo che Benito

Mussolini organizzò la marcia su Roma, in Germania dal 1933, in Portogallo dal 1926, in

Spagna dal 1939 dopo una lunga e sanguinosa guerra civile ed in diversi paesi dell’Europa

orientale, tra cui la Russia, dove Stalin prese il potere dal 1924. Il sistema democratico

resistette solo negli stati di più lunga tradizione democratica, come la Gran Bretagna e la

Francia.

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Tra il 1924 ed il 1926 il FASCISMO si trasformò in un regime TOTALITARIO. Nel 1924 sicari

fascisti rapirono ed uccisero il deputato socialista Giacomo Matteotti. Questo episodio inaudito e

gravissimo sembrò per un momento unire l’opposizione parlamentare contro Mussolini, ma la

reazione non fu abbastanza energica. Mussolini da questo momento procedette alla

FASCISTIZZAZIONE dello Stato dichiarando illegali tutti i partiti non fascisti, sciogliendo i

sindacati, proibendo il diritto allo sciopero ed imbavagliando la libertà di stampa. Nacque inoltre la

polizia segreta, che si occupò della repressione degli oppositori. Nel 1926 si rifugiarono all’estero

numerosi oppositori tra cui Don Luigi Sturzo, Filippo turati, Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli,

poi uccisi in Francia da agenti fascisti. In Italia rimanevano pochissimi oppositori che il regime non

osava toccare, come BENEDETTO CROCE, protetto dal suo enorme prestigio culturale.

Vediamo adesso quali sono le caratteristiche di un REGIME TOTALITARIO:

(tra tutte le dittature l’unico regime veramente totalitario sarà la Germania di Hitler)

I caratteri tipici dello stato totalitario possono essere riassunti in 5 punti fondamentali:

1. L’annullamento della dimensione privata della vita.

2. Il culto della personalità del capo supremo

3. L’uso massiccio della propaganda

4. La riduzione degli individui a “massa” e la loro mobilitazione costante

5. L’uso sistematico del terrore come strumento di governo

Il controllo del regime sulla società italiana si fece capillare anche attraverso la propaganda

(filmato: ATLANTIDE. La propaganda fascista, manovrare i giornali) a cui furono asserviti stampa,

radio e cinema. Nelle scuole si adottava il libro di testo unico e i professori dovevano giurare fedeltà

ai principi dello stato fascista. L’iscrizione al partito divenne obbligatoria per accedere a qualsiasi

carica pubblica. In questo clima molti intellettuali italiani aderirono al movimento fascista, anche se

non sempre la loro adesione fu dettata da una sincera condivisione degli ideali del regime, ma in

alcuni casi fu dovuta ad una scelta almeno in parte di comodo, un compromesso per poter

continuare a scrivere e lavorare. In pochi ebbero il coraggio di opporsi al regime, pagando tutte le

conseguenze a cui questa loro scelta li esponeva.

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A partire dal 1925 Mussolini intraprese un'opera di vasto cambiamento dello Stato liberale per trasformarlo in uno Stato fascista.

Gli intellettuali vennero chiamati a collaborare a tale cambiamento.

In particolare furono avviate tre iniziative:

- nel 1925 venne creato l'Istituto Nazionale Fascista di Cultura, poi denominato Istituto di Cultura Fascista; ne fu fondatore il filosofo Giovanni Gentile;

- il 18 febbraio 1925 venne fondato l'Istituto Giovanni Treccani per la pubblicazione della Enciclopedia Italiana, di cui fu direttore scientifico Giovanni Gentile;

- con il decreto del 7 giugno 1926, convertito in legge il 25 marzo 1927, venne istituita l'Accademia d'Italia, inaugurata ufficialmente in Campidoglio il 28 ottobre 1929; dal 1930 alla morte (20 luglio 1937) ne fu presidente Guglielmo Marconi; tra gli altri furono membri dell'Accademia:

Luigi Pirandello, scrittore, Filippo Tommaso Marinetti, scrittore, Ardengo Soffici, pittore e scrittore, Giovanni Papini, scrittore, Gioacchino Volpe, storico, Raffaele Pettazzoni, storico delle religioni, Ildebrando Pizzetti, musicista, Riccardo Bacchelli, scrittore, Enrico Fermi, scienziato e molti altri.

" L'Accademia d'Italia ha per iscopo di promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservarne puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l'espansione e l'influsso oltre i confini dello Stato" (art. 2 del provvedimento istitutivo della Accademia d'Italia).

1925: Manifesto degli intellettuali Fascisti

Nel marzo del 1925, all'indomani delle leggi cosiddette fascistissime, si tenne inoltre a Bologna un convegno sulle istituzioni culturali fasciste a cui parteciparono 250 intellettuali, esponenti di tutte le espressioni della cultura, dalla letteratura all'arte, alla scienza, alla musica. Al termine del convegno, essi firmarono un MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI FASCISTI, steso dal filosofo Giovanni Gentile, che era stato il Ministro della Pubblica Istruzione dal 1922 al 1924, poi pubblicato sul “Popolo d’Italia”. In questo manifesto il fascismo era considerato un movimento tipico dello spirito della nazione italiana, perché garante di tutte le istituzioni e le tradizioni dello Stato. Questo manifesto esaltava lo squadrismo, sottolineando il carattere religioso del fascismo e criticando aspramente il liberalismo, la democrazia, il socialismo. Tra i firmatari ci furono Giuseppe Ungaretti e Luigi Pirandello.

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Il testo del “Manifesto fascista”

Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina.

L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli.

Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione.

Di qui il carattere religioso del Fascismo.

Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal '19 al '22.

I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921.

Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore.

Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all'attività dei singoli.

Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell'ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica.

Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall'opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl'individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l'indipendenza e l'unità.

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Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch'esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del '31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la "Giovane Italia" di Giuseppe Mazzini).

Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante!

E cominciò a essere, come la "Giovane Italia" mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento.

Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente.

Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria.

Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria.

Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato.

Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l'insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma.

La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l'ammirazione e infine il plauso universale.

Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione della sue forze finanziarie e morali.

Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni.

Ed è scintilla di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice.

E' concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni.

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1925: Manifesto degli intellettuali Anti-fascisti

Il Manifesto antifascista

Il 1° maggio del 1925 , sulle pagine del quotidiano "Il Mondo", venne pubblicato un altro manifesto. Era il MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI , scritto dal filosofo Benedetto Croce (1866 - 1947). Croce rivendicava la libertà e l'autonomia di tutte la scienze e di tutte le arti in nome dell'intelligenza di ciascuno. "L'intelligenza consiste nel dubbio, nella discussione, nello scambio di opinioni diverse, nella revisione dei propri concetti". Croce denuncia la confusione dottrinale presente nel manifesto degli intellettuali fascisti e reagisce alla concezione in esso espressa che la lotta tra fascismo e antifascismo sia una lotta di religione. "Il fascismo non è una nuova religione ed affermare simile idea è solo una lugubre facezia". Il MANIFESTO DEGLI ANTIFASCISTI polemizza contro il carattere intollerante, fazioso, passionalmente "religioso" del manifesto fascista, riaffermando il valore superiore della cultura e la sua autonomia dalla politica. Tra i firmatari ci furono Luigi Einaudi ed Eugenio Montale

Il Testo del Manifesto antifascista

Gl'intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl'intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista.

Nell'accingersi a tanta impresa, quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagl'intellettuali tedeschi; un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore.

E, veramente, gl'intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell'arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'iscriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l'opera dell'indagine e della critica e le creazioni dell'arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie.

Varcare questi limiti dell'ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso.

E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni.

Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; come dove si prende in iscambio l'atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l'antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell'avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l'opposizione, si attua quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl'individui al tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale; o, ancora, dove si perfidia nel pericoloso indiscernimento tra istituti economici, quali sono i sindacati, ed istituti etici, quali sono le assemblee

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legislative, e si vagheggia l'unione o piuttosto la commistione dei due ordini, che riuscirebbe alla reciproca corruttela, o quanto meno, al reciproco impedirsi.

E lasciamo da parte le ormai note e arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche. Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che si fa della parola "religione"; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale, le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l'odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani.

Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani e li ingiuria stranieri, e in quell'atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto persino ai giovani delle università l'antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili; è cosa che suona, a dir vero, come un'assai lugubre facezia.

In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo.

E se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantarsi di un'originale impronta, tale da dare indizio di nuovo sistema politico che si denomini dal fascismo.

Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento.

Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda la loro bandiera.

La nostra fede non è un'escogitazione artificiosa ed astratta o un invasamento di cervello cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale.

Ripetono gli intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trita frase che il Risorgimento d'Italia fu l'opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d'Italia innanzi ai contrasti fra il fascismo e i suoi oppositori.

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I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero di italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale.

Perfino il favore col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici.

Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell'inerzia e nell'indifferenza il grosso della nazione, appoggiandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici o quetistici.

Anche oggi, né quell'asserita indifferenza e inerzia, né gl'inadempimenti che si frappongono alla libertà, c'inducono a disperare o a rassegnarci.

Quel che importa è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d'intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragioni di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto.

E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per ringiovanire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.

Marinetti e il fascismo

Un lungo se spesso filo lega il movimento artistico e politico futurista all’esperienza fascista italiana. Solo calandosi nella temperie culturale del Futurismo è possibile scoprire l’ “Humus” che permise alla pianta del Fascismo di germogliare in Italia e di alimentarsi per oltre due decenni.

Fin dagli esordi il futurismo è per sua natura un movimento politico aggressivo: "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore…" Siamo nel 1909 e Marinetti con il “Manifesto del Futurismo” pubblicato su “Le Figaro”lancia già il primo proclama politico ispirato al nazionalismo. Obiettivo: l'orgoglio, l'energia e l'espansione nazionale contro i vecchi e i preti, per una rappresentanza in Parlamento che deve essere "sgombra da mummie e libera da ogni viltà pacifista". Un altro elemento "politico" del primo futurismo è la guerra al parlamentarismo: "Quasi tutti i Parlamenti d'Europa - scrive Marinetti - non sono che pollai rumorosi, greppie e fogne".

La campagna di Libia del 1911 è l'occasione migliore per ribadire il panitalianismo: Marinetti dirà che "la parola Italia deve dominare sulla parola libertà"..

Nel 1913, Marinetti insieme a Boccioni stila il Programma politico futurista. Nel 1914 vengono promosse manifestazioni interventiste dei Futuristi contro l'Austria. La campagna interventista offre l'occasione per manifestazioni antiaustriache che esplodono in forme spettacolari. Il 15 settembre del '14, al teatro Dal Verme di Milano, Marinetti sventola da un palco una grande bandiera tricolore mentre l'orchestra suona la Marcia Reale; devono intervenire i questurini per sedare il tumulto. Anche nei cosiddetti vestiti neutrali disegnati da

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Balla e indossati dai futuristi nelle manifestazioni negli atenei di Roma contro i professori definiti "tedescofili" c'è il gesto simbolico, importante, che caratterizza il futurismo.

Lo stesso Mussolini, appena cacciato dal Partito socialista, scrive a P. Buzzi ricordando di aver parlato con Boccioni delle sue simpatie per gli innovatori e per i demolitori, per i futuristi, ammettendo che i Futuristi avevano manifestato prima di lui intenti rivoluzionari e interventisti.

Il ruolo dei futuristi nel distruggere le fondamenta della società borghese a cavallo tra i due secoli è riconosciuto peraltro anche da Antonio Gramsci: "I futuristi hanno svolto questo compito nella cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto; hanno avuto la concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione".

Nel 1918 esce il Manifesto del Partito politico futurista e il Partito politico futurista vuole essere nettamente distinto dal movimento artistico futurista.

Il manifesto del partito futurista italiano mette a fuoco le coordinate politiche del movimento futurista. Al primo posto ci sono l'educazione patriottica del proletariato, la lotta all'analfabetismo, la lotta all'insegnamento classico, l'educazione sportiva, l'insegnamento tecnico obbligatorio nelle officine, la libertà di sciopero, di riunione, di organizzazione, l'abolizione della polizia politica, la giustizia gratuita, la trasformazione della beneficenza in assistenza e previdenza sociale. Più che un programma di partito è lo specchio dello spirito vitalistico ed estetico dell'avanguardia futurista che per molti aspetti alimentò il fascismo. Marinetti a buon diritto dirà nel '24 che "il fascismo nato dall'interventismo e dal futurismo si nutrì di principi futuristi". Benedetto Croce ribadì che "per chi abbia il senso delle connessioni storiche, l'origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo".

Nel '19 Marinetti promuove la costituzione dei Fasci politici futuristi che nasceranno in diverse città italiane.

La politica marinettiana oscilla tra nazionalismo ed anarchismo, libertarismo e socialismo, tanto che alcuni critici parlano, soprattutto tra i seguaci di Marinetti, di un futurismo di destra e di un futurismo di sinistra. Nel 1920 Marinetti scrive: "Al di là del comunismo", considerando il comunismo "un'esasperazione del cancro burocratico che ha sempre corroso l'umanità", odia la caserma militarista quando quanto quella comunista, vuole gli artisti al potere e assume posizioni molto simili ai movimenti studenteschi dell'epoca.

Ma dopo la nascita dei fasci futuristi, Mussolini organizza i suoi fasci per la scalata al potere. Lo scontro è inevitabile. Nel 1920 i futuristi escono dal movimento fascista. E due anni dopo, nel '22, quando Mussolini riceve l'incarico di formare il governo e comincia a trasformare la rivoluzione in "regime", i futuristi sentono subito di essere stati traditi.

Giuseppe Prezzolini, in un articolo intitolato Fascismo e futurismo, pubblicato il 3 luglio del '23, scrive: "Evidentemente nel Fascismo c'è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. Il futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei. Il culto della velocità, l'amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l'appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l'esaltazione di un sentimento nazionale

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esclusivista, l'antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo".

Ma lo stesso Prezzolini, più avanti, spiega che nello sviluppo del Fascismo non c'era più posto per il Futurismo. Il ribollire di forze per Prezzolini andava bene per la rivoluzione, ma "stona in un periodo di governo". "Se il fascismo vuol segnare una traccia in Italia - continuava Prezzolini - deve espellere ormai tutto ciò che vi rimane di futurista, ossia di indisciplinato e anticlassico. Sarei troppo seccante se ai miei conoscenti del movimento futurista chiedessi un franco giudizio sulle riforme classiciste del ministro Gentile?".

Nonostante gli strali di Prezzolini, nel '24, con Le "Onoranze a Marinetti" a Milano e col 1° Congresso Nazionale futurista, il Movimento si riavvicina al fascismo, chiedendo aiuti agli artisti, nell'ottica dell'affermazione del Futurismo come unica arte innovatrice. I futuristi si attestano su posizioni che potremmo definire "di sinistra". Più tardi Marinetti verrà nominato da Mussolini "accademico d'Italia", ma la spinta modernista del movimento è ormai in gran parte già neutralizzata dal regime.

D’Annunzio e il fascismo (filmato correva l’anno n. 4)

Nel dopoguerra D'Annunzio si fa interprete dei rancori per la " vittoria mutilata” che fermentava tra

i reduci, capeggiando nel 1919 una marcia di volontari su Fiume, dove instaura un dominio

personale sfidando lo Stato italiano. Sull'onda del successo dell’impresa, D'Annunzio esprime a

Mussolini un proprio progetto: marciare su Roma alla testa dei suoi uomini e impadronirsi del

potere. Mussolini lo dissuade e lo convince che la cosa finirebbe in un fallimento. In realtà la

marcia su Roma è il suo grande sogno, ma egli vuole ancora aspettare, perché intende essere il solo

condottiero di quella marcia, e non certo l’alleato di D'Annunzio, in questo momento più popolare

di lui. Il 1920, tuttavia, vede la conclusione definitiva dell'avventura fiumana di Gabriele

D'Annunzio, che viene invitato ad andarsene da Fiume. Questa volta l'esercito e la marina italiana

non potranno più mostrarsi compiacenti con il vate, che viene fatto sgomberare. E’ Natale.

D'Annunzio dichiara che quello sarà un Natale dì sangue e promette che verserà anche il suo, ma in

realtà se ne va senza opporre resistenza ed i suoi legionari lo seguono. A questo punto i rapporti del

vate con il regime si raffreddano: il poeta si ritira nella casa-museo del Vittoriale, sul lago di Garda,

dove mantiene vivo il proprio mito con le ultime opere e gli stravizi senili. La marcia su Roma del

1922 lo coglie del tutto impreparato ed una forte diffidenza lo divide ormai da Mussolini. Il regime

a parole lo esalta, ma nei fatti lo tiene in disparte. Unica opera degna di rilievo di questi anni sono il

Libro segreto, del 1938 ed una satira antihitleriana. Al Vittoriale il vate si spegne il 1 Marzo 1938.

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Mussolini e d’Annunzio. Il fotomontaggio sulla lettera di insulti del poeta

Siamo nel 1919. d’Annunzio ha compiuto la “marcia su Fiume”, un’occupazione della città che

durerà 15 mesi.

Chiede il sostegno di tutti i nazionalisti e gli interventisti. Mussolini glielo concederà col

contagocce. Il poeta gli manda una lettera d’insulti, che il futuro dittatore fa aggiustare con

fotomontaggi, fino a snaturane il significato.

Ma prima di arrivare al fotomontaggio in questione, vediamo che succedeva a Fiume.

La situazione dei militari a Fiume non era certo ottimale. I soldati ancora indossavano le uniformi

estive e se l’esercito dei legionari poteva essere pur sommariamente rifornito di viveri, lo si doveva

alle sortite che gruppi di arditi eseguivano con destrezza nei dintorni, per terra e per mare.

D’Annunzio diede ai suoi corsari il nome di «uscocchi», che era quello dei pirati balcanici del

Cinquecento, dal serbo-croato uskok, transfuga. Gli arditi dannunziani erano, come loro, animati da

un prepotente spirito di guerriglia, pronti a tutto pur di portare a casa un bottino, grande o piccolo

che fosse. Tale era il clima di sventatezza e tale l’amore per tutto ciò che sapeva di avventuroso che,

per iniziativa scherzosa dello stesso Comandante, si decise la costituzione di un ufficio particolare

subito battezzato UCM, come dire Ufficio Colpi di Mano. Accanto all’UCM fu altrettanto

rapidamente istituito un altro organismo che ebbe per sigla UF, che stava a significare Ufficio Falsi,

presso il quale, con l’ausilio di tipografie affiliate e di consenzienti fabbriche di timbri, si riusciva a

riprodurre ogni genere di documenti falsi - perfino passaporti per l’estero - ma perfettamente imitati

tanto da trarre in inganno il più oculato dei controllori.

I pirati dell’Adriatico

Fu proprio una pattuglia di quei novelli bucanieri a catturare il 10 ottobre, davanti al faro di

Lussinpiccolo, il piroscafo italiano Persia che, partito da Trieste verso Vladivostok, trasportava armi

e munizioni, batterie da montagna, mitragliatrici e fucili. Era materiale da guerra per complessive

tredicimila tonnellate che il governo italiano aveva venduto all’Armata Bianca in Russia e che

sarebbe stato impiegato in combattimenti contro i bolscevichi. L’operazione abbordaggio e cattura

fu compiuta da una dozzina di uomini a bordo di un Mas armato di cannoncino. L’equipaggio

fraternizzò subitamente con gli uscocchi, e il piroscafo fu dirottato nel porto di Fiume avendo

sull’albero di maestra la bandiera dei legionari.

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Mentre il poeta armato chiedeva sostegno e fondi, che cosa faceva Mussolini per Fiume, in

quei giorni?

Ben poco, e d’Annunzio se ne adontò. Il capo dei Fasci si limitava ad azioni dimostrative cui

non seguivano iniziative concrete di pieno appoggio. Esaltava l’impresa sul suo giornale, come

testimoniavano certi titoli: Francesco Saverio Nitti, vilissimo ministro borbonico, noi ti gridiamo

sul grugno: Viva Fiume Italiana!, Sozzo mercante della dignità della Patria: Viva d’Annunzio.

Tutto ciò gli era anche suggerito dal fatto che i suoi lettori erano simpatizzanti fiumani, come

dimostrava il sensibile aumento delle vendite che il «Popolo d’Italia» registrò nei primi due

mesi della conquista dannunziana. Ma il poeta non otteneva da lui un vero aiuto sul terreno

della strategia politica e dell’incoraggiamento ad accorrere a Fiume, forse perché Mussolini,

non sapendo ancora che cosa aspettarsi da quell’avventura, giocava su più tavoli.

D’Annunzio si sentì tradito per il mancato appoggio alla sua impresa, e gli inviò a Milano una

lettera minacciosa piena d’insulti. Era il 16 settembre. La lettera veniva consegnata al

destinatario da una giovane signora, Alma Pinchetti, che a Fiume svolgeva il ruolo di «porta

ordini» personale del Comandante. Mussolini la pubblicò quattro giorni più tardi, dopo

averla sottoposta a un fotomontaggio truffaldino per epurarla dei passaggi scabrosi.

La manomissione fu compiuta con tanta destrezza che il «Popolo d’Italia» poté pubblicare la

foto del testo firmato dal poeta, come se fosse stata davvero scritta di pugno da d’Annunzio

senza le frasi offensive e senza le intimidazioni. Il testo integrale della lettera diceva [le parti

soppresse da Mussolini sono in corsivo]:

«Mio caro Mussolini, mi stupisco di voi e del popolo italiano. Io ho rischiato tutto, ho dato tutto, ho

avuto tutto. Sono padrone di Fiume, del territorio, d’una parte della linea d’armistizio, delle navi; e

dei soldati che non vogliono obbedire se non a me. Non c’è nulla da fare contro di me. Nessuno può

togliermi di qui. Ho Fiume; tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente.

«E voi tremate di paura! Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abbietto truffatore

che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese - anche la Lap-

ponia - avrebbe rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi state lì

a cianciare, mentre noi lottiamo d’attimo in attimo, con una energia che fa di questa impresa la più

bella dopo la dipartita dei Mille. Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi?

«Io ho tutti soldati, qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi. E’ un’impresa di regolari. E non ci

aiutate neppure con sottoscrizioni e collette. Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà.

Svegliatevi! E vergognatevi anche. Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremmo il

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dominio del mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria dell’eroismo, dove sarà dolce morire

ricevendo un ultimo sorso della sua acqua.

«Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime;

e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in

faccia. Su! Scotetevi, pigri nell’eterna siesta. Io non dormo da sei notti; e la febbre mi divora. Ma

sto in piedi. E domandate come, a chi m’ha visto. Alalà.»

Mussolini, nonostante la gravità della lettera, tergiversò ancora. E’ vero, lanciò subito la

sottoscrizione così imperiosamente reclamata dal poeta, ma prese tempo per incontrarsi con

lui e parlare di politica. Gli inviò una lettera interlocutoria, in cui gli annunciava una sua

imminente visita a Fiume, ma poi la procrastinò di ben tre settimane. Gli scrisse:

«Mio caro D’Annunzio, spero di arrivare a Fiume prima di questa lettera. Voglio dimostrarvi che io

ho lavorato strenuamente. Che io sono deciso a tutto. Ma bisogna intendersi. Bisogna precisare gli

obiettivi politici all’interno.

Dunque Mussolini gli parlava chiaro: «Bisogna precisare gli obiettivi politici». D’Annunzio invece

pensava alla sollevazione dell’Italia, movendo da una marcia che da Fiume raggiungesse Trieste

come prima tappa, per poi puntare su Roma. Già a Ronchi, nella notte che precedeva la partenza,

aveva scritto nel suo diario: «Roma, la meta!».

(Informazioni tratte da: Spinola A., “D’Annunzio il poeta armato”, Mondadori).

L’impresa dannunziana contribuì a rafforzare l’immagine di uno Stato debole, vittima di interessi e

sentimenti di parte: Mussolini sfrutterà a proprio vantaggio l’azione dannunziana e coglierà,

nell’impresa fiumana, una ulteriore “occasione politica” per la propria affermazione.

Mussolini espresse in più occasioni la stima ed il proprio consenso a Gabriele D’Annunzio

reinterpretandone l’azione secondo gli stereotipi nazionalisti della necessità di un’azione decisa che

riparasse al torto subito dall’Italia a Versailles e che faceva dunque di Fiume il simbolo della

“Vittoria Mutilata”.

L’atteggiamento di Mussolini, i rapporti che egli intrattenne con D’Annunzio e la fisionomia del

Fascio Fiumano, sono elementi esplicativi, sia di quanto avvenne in Italia nei primi anni di

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affermazione del partito fascista, sia delle violente rappresaglie cui l’Istria e Fiume in particolare

furono sottoposte alla fine del secondo conflitto mondiale.

Comprendere i rapporti che si instaurarono tra Mussolini e D’Annunzio e l’atteggiamento che

questi ebbero nei confronti della questione fiumana ci permette innanzitutto di scindere il binomio

D’Annunzio – fascismo ed il consequenziale avvicinamento dell’attività del legionari a quella dei

fascisti.

Notevoli sono le differenze caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e Mussolini e

diversa fu la valutazione e l’interpretazione che diedero del fiumanesimo. Mussolini, non seppe in

anticipo dell’impresa dannunziana, cosa che esclude che vi sia potuto essere un precedente accordo

tra questi e D’Annunzio. Del poeta, inoltre, Mussolini, sebbene riconoscesse l’infallibile intuito,

sottovalutava le capacità politiche e scorse perciò nella sua impresa una grande occasione

propagandistica per sé e il suo partito.

Al tempo stesso intuì la debolezza di un atto che, per quanto eroico, non aveva potenzialità eversive

tali da renderlo un pericolo per il governo Nitti.

D’Annunzio visse l’esperienza fiumana con una esaltazione più patriottica che nazionalista: essa fu

la grande occasione della sua vita per restituire all’Italia quella unità che il patto di Londra le aveva

tolto.

D’Annunzio cercò l’appoggio delle più diverse fazioni politiche; ogni apporto che si fosse potuto

sperimentare in un clima di grande libertà a Fiume fu per egli valido.

Non accettò le offerte e le lusinghe che gli furono avanzate dal fascismo (cui peraltro aderirono

numerosi suoi ex compagni sindacalisti) poiché non intese rinunciare ai propri progetti

rivoluzionari, e neppure volle che questi, sotto l’egida del fascismo, diventassero strumenti

reazionari.

A parole, nei suoi articoli, Mussolini appoggiò D’Annunzio, ma nei fatti non gli offrì mai il

proprio concreto e aperto sostegno. Al contrario, all’indomani del Natale di sangue del 1920, il

Comitato Centrale dei Fasci approvò all’unanimità, meno un solo voto, un ordine del giorno di

protesta contro Giolitti e di solidarietà con D’Annunzio: quel solo voto contrario era di Mussolini.

D’Annunzio, tuttavia, continuò a cercare l’appoggio di Mussolini, in grado di fungere da

mediatore con il governo di Roma e di reperire, tramite “Il Popolo d’Italia” fondi per la causa

fiumana. Il poeta era convinto che il fascismo avrebbe avuto un ruolo di scarsa rilevanza nella

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politica italiana e che, ben presto, egli si sarebbe sostituito a Mussolini nel ruolo di guida di un

movimento rivoluzionario.

La sua erronea valutazione tanto del fascismo quanto dell’abilità politica di Mussolini lo porterà,

alla fine dell’impresa fiumana, a credere in un ruolo unificatore, super partes, di conciliazione, che

egli sarebbe stato chiamato a svolgere nel momento in cui la debolezza del fascismo fosse venuta

alla luce.

Sfuggì quindi a D’Annunzio, almeno nei primi anni di affermazione del fascismo il carattere

di regime che questo andava via via assumendo e che avrebbe reso quindi ben presto inutile

qualunque opera di conciliazione. In seguito D’Annunzio, ritiratosi dalla vita politica dopo la

sconfitta subita a Fiume, irritato per l’adesione di Mussolini al trattato di Rapallo e per il suo

evidente tradimento degli interessi fiumani, ammonirà più volte i suoi legionari a non far

parte delle squadre fasciste, a mantenere la propria indipendenza o passare addirittura

all’opposizione.

L’opposizione a Mussolini fu netta, ma non esplicita; il momento non gli permetteva di entrare in

aperta polemica con il Duce, ma tuttavia egli era libero di rifiutare offerte politiche quali, ad

esempio, la candidatura a Zara, che da questo gli provenivano.

La sua azione era stata eversiva, forse la scintilla di inizio del fascismo, senz’altro una

occasione propagandistica che questo colse, ma tuttavia le differenze tra i due uomini, le loro

idee e sentimenti, erano chiare ed evidenti. All’indomani del colpo di Stato del marzo 1922, a

Fiume,l’indifferenza che accompagnò il colpo di Stato da parte dell’Italia, dell’on.le Facta e

dei Carabinieri che, ufficialmente, avrebbero dovuto mantenere l’ordine pubblico, è un segno

evidente che il fascismo del 1922 era ormai così forte da non poterglisi opporre alcuna

resistenza.

CARTEGGIO D'ANNUNZIO-MUSSOLINI

SETTEMBRE 1919

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D'ANNUNZIO prima di partire per l’impresa di Fiume scrive a

MUSSOLINI, (che rimaneva al suo posto di combattimento al "Popolo

d'Italia" per sostenere la stessa battaglia con lo stesso intrepido cuore: almeno così sembrava) un pezzo con

annessa lettera che viene pubblicato sul “Popolo d'Italia”. Dell'articolo

esisterebbero due versioni di cui una con riferimenti personali acclusi che per ovvi motivi non venne resa nota .

**. "Mio caro compagno, Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d'Italia ci

assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una

volta lo spirito domerà la carne miserabile. Riassumete l'articolo !! che

pubblicherà la Gazzetta del Popolo e date intera la fine !!. E sostenete la causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi

abbraccio- 11 Settembre 1919. - G.D'A.".

Versione edita della lettera Ricostruzione della lettera originale Mio caro Mussolini,

io ho rischiato tutto, ho avuto tutto, ho dato tutto. Sono padrone di Fiume, del territorio, d'una parte della linea d'armistizio, delle navi e dei soldati che non vogliono obbedire se non a me. Non c'è nulla da fare contro di me. Nessuno può togliermi da qui. Ho e tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente.

Lottiamo d'attimo in attimo, con un'energia che fa di quest'impresa la più bella dopo la

mi stupisco di Voi e del popolo Italiano,

E voi tremate di paura!, Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abietto truffatore (Francesco Saverio Nitti, che lui chiama Cagoja il “gran porco”) che abbia mai illustrato la storia. Qualunque altro paese, anche la Lapponia avrebbe rovesciato quell'uomo, quegli uomini. E voi state li a cianciare mentre

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dipartita dei Mille.

Io ho tutti i soldati qui, tutti soldati in uniforme di tutte le armi. E' un'impresa di regolari.

Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà.

Se almeno mezza Italia somigliasse ai fiumani, avremmo il dominio del Mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria dell'eroismo, dove sarà dolce morire.

Su scotetevi

Io non dormo da sei notti e la febbre mi divora. Ma sto in piedi e domandate come a chi mi ha visto. Alalà

Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi?

E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette*.

Svegliatevi e vergognatevi anche.

Non c'è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non Vi guarderò in faccia.

pigri nell'eterna siesta.

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**

* La colletta in effetti venne fatta e raggiunse nel gennaio 1920 la cifra di 3 milioni, che però non arrivarono mai a Fiume. - Spinola A., “D’Annunzio il poeta armato”, Mondadori " Il «caso» aveva preso le mosse da un esposto presentato al collegio dei probiviri dell’Associazione lombarda dei giornalisti da due redattori del «Popolo d’Italia», Arturo Rossato (Arros) e Giovanni Capodivacca (Giancapo), che si erano dimessi dal giornale per gravi contrasti politici con il loro direttore Mussolini. Dal dibattito emerse con chiarezza che Mussolini si era servito di gran parte della sottoscrizione pro Fiume per organizzare e finanziare bande di facinorosi utilizzate a scopo intimidatorio durante la campagna elettorale del 1919. I reclutati erano soprattutto arditi ai quali si corrispose un compenso di trenta lire al giorno oltre il pagamento delle spese. Mussolini non poté respingere tutte queste accuse, e chiese a d’Annunzio una dichiarazione dalla quale risultasse che la distrazione d’una parte delle somme era stata da lui autorizzata. «Mio caro Benito Mussolini - gli rispondeva il poeta accogliendone la richiesta - attesto che, avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari ben scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica, io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti.» ..La sottoscrizione raggiunse quasi i tre milioni complessivi, ma non si seppe quanto di quella cifra fosse effettivamente passato nelle mani di d’Annunzio, anche se Alceste De Ambris giurava che Mussolini non aveva trattenuto pìù di trecentomila lire.

Il Mussolini del 1919 è ancora titubante sulla reale capacità rivoluzionaria dei fasci sparsi in tutta Italia. Il Mussolini del 1920 ( il trattato di Rapallo è del giorno

12 novembre e chiude il contenzioso con la Jugoslavia) si sente più sicuro con oltre 800 sezioni aperte. Giolitti gli chiede poi di non opporsi al trattato di

spartizione e alla azione di forza che scatterà a Natale contro d'Annunzio (il Natale di sangue). In cambio emissari di Giolitti, si disse di un incontro al caffè Savini di Milano, prometteranno un appoggio alle

successive elezioni politiche.

Il "primo" trattato di Rapallo fu un accordo con il quale l'Italia e la Jugoslavia stabilirono i confini dei due Regni e le rispettive sovranità, nel tentativo di risolvere la difficile situazione venutasi a creare dopo il Trattato di Pace di Versailles del 1919. Il 12

novembre a Villa Spinola (oggi conosciuta anche come Villa del trattato), nel borgo di San Michele di Pagana presso Rapallo, si riunirono ancora Trumbić e Sforza, oltre a Giolitti e al ministro della guerra Ivanoe Bonomi per l'Italia e Milenko R. Vesnić (presidente

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del Consiglio) e Kosta Stojanović (ministro delle finanze) per la Jugoslavia; verso la mezzanotte si firmò un trattato, in 9 articoli, che confermava praticamente ciò che era stato deciso a Parigi.

Pirandello e il fascismo

I rapporti di Pirandello con il fascismo sono problematici. L’adesione di Pirandello al fascismo fu

sostanzialmente una scelta opportunistica e carente di una convinta giustificazione ideologica. Del

resto, i rapporti con il regime furono sempre assai freddi. Pirandello si iscrive al partito nel 1924,

nel pieno della bufera politica scatenata dall’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti,

con un breve telegramma indirizzato a Mussolini, con cui dichiarò di voler aderire come «umile e

obbediente gregario», al partito fascista. Inoltre, nel 1925 firma il "Manifesto degli intellettuali

fascisti". L’episodio appare paradossale (e molto pirandelliano) perché avvenne nel momento di

maggiore debolezza politica del regime, allorché le opposizioni sembravano sul punto di far cadere

il governo. Pirandello divenne fascista per più motivi: per la sua radicata diffidenza verso i partiti

politici tradizionali; per un bisogno di certezze, oltre le barriere del suo relativismo; perché vede

infatti nel fascismo un movimento rivoluzionario che rappresenta la forza della vita capace di

rompere le cristallizzazioni sociali; infine e soprattutto, per il sogno di favorire cosi la nascita di un

teatro di stato, protetto e sovvenzionato dal regime, cosa che avviene con la fondazione della

compagnia del Teatro d'Arte di Roma. Le illusioni, però caddero presto. Pirandello man mano si

sottrasse all’abbraccio del regime, viaggiando molto e risiedono spesso all’estero; nel 1931

pronunciò all’accademia d’ Italia , di cui era stato nominato membro l’anno prima, un discorso

commemorativo su Verga che suonava aspramente critico verso D’annunzio, all’epoca

l’intellettuale fascista prestigioso, almeno sulla carta. Quando nel 1934 gli fu assegnato il premio

Nobel, la critica ufficiale accolse con freddezza il riconoscimento. L’ultimo dispetto giocato da

Pirandello al regime fu il proprio funerale, che lui volle poverissimo. Di fronte alla volontà del

fascismo di celebrare le solenni esequie di stato dell’autore italiano più celebre al mondo, questi

riprendeva intatta la sua libertà, riaffermando la sua voglia di solitudine e di lontananza da tutto.

CORRIERE DELLA SERA, Giovedì 25 giugno 1992

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I segnali sono tanti. E tali da dare brividi di ribrezzo o da precipitare nella depressione chi per esperienza li riconosce: la violenza, l'irrazionalismo, il razzismo, il gusto delle divise e degli slogans sull'onda di una rinata - o sempre rinascente? nostalgia. Nelle memorie ancora vigili, i tristi fantasmi riapparsi danno l'allerta, o vorrebbero darla, a chi sonnecchia nel benessere raggiunto, forse anche per sazietà di troppa logorrea di politica spicciola. Tra le ombre che inquietano l'Europa ancora capace di pensare, quella di un possibile ritorno all'autoritarismo, a situazioni volte al soffocamento delle libertà, è la più minacciosa. Forse, per esorcizzarla, varrebbe la pena, ancora una volta, di ricordare. Non può insegnarci niente la tragica maestra senza scolari che è la storia, se, appunto, chi è più consapevole per l'esperienza vissuta, non ne cerca il memento ovunque sia possibile, e non già sui manuali che annotano solo le battaglie i proclami i colpi di Stato, così lontani, e apparentemente irripetibili. Può accadere invece di riconoscere familiare il passato, nelle gratuite memorie degli scrittori, e di scoprire che certe temperie non ci sono, ahimé, poi tanto estranee. Quel passato somiglia tanto all'oggi... Il 22 settembre 1928, Luigi Pirandello, conclusa mestamente la stagione italiana della Compagnia di cui accanto a Marta Abba era stato capocomico le scrive che ha deciso di lasciare la patria. Aveva la tessera fascista accettata nel 1924 (dopo il delitto Matteotti) e pure annota, incerto, desolato, ansioso «la confusione che è in tutti gli animi». La dittatura, non più con gesti violenti ma con un'invasione strisciante, conquista ogni spazio di potere nel paese e occhiuta sorveglia, blocca, impedisce l'autonoma affermazione del talento. «Ormai s'è capita la tattica». Il vuoto si forma attorno a chi è guardato con sospetto, fino a togliergli fiducia e volontà: «Ciò che si vuole è che nessuno predomini, nessuno alzi la testa... La politica entra dappertutto. La diffamazione, la calunnia, l'intrigo sono le armi di cui tutti si servono». Nella lettera incombe Mussolini, se pur non esplicitamente nominato, solo arbitro delle vicende italiane anche culturali, tanto più che nutre egli stesso velleità drammaturgiche. Pirandello si sente emarginato da una società che si sta adattando ai nuovi orizzonti celebrati dal regime, sui quali invano avevano gridato il loro allarme Gramsci e Gobetti. È la malattia morale dell'indifferenza che in quegli stessi anni muove Moravia al suo gran libro d'esordio e Luigi Pirandello avverte con sconsolata indignazione che si sta colpendo in lui la libera manifestazione di un'arte non asservita al potere. Sa di avere dalla sua le ragioni dell'ingegno, ma anche di essere perseguitato «dall'incomprensione degli stupidi che sono la maggioranza». E così, tra «i fischi degli idioti e dei nemici», per non cedere al ricatto italiano, la strada del maestro prende l'avvio verso l'estero. Ho attinto le citazioni pirandelliane da un bel libro apparso lo scorso anno: A Marta Abba per non morire (Ed. Mursia), uno studio di Pietro Frassica sull'ancora inedito, atteso e contestato (dai, familiari) epistolario. Lo studioso ha avuto a lungo sottomano le lettere di Pirandello all'amata, conservate a Princeton, dove dirige l'Istituto di Italianistica. E, a parte il fascino dell'indagine su un rapporto tra i più carichi di destino, avvolto in un'ambiguità misteriosa e perciò più intrigante, il libro offre un'immagine rara dell'Italia nel primo decennio fascista, specie se confrontato con altri di documentazione meramente storico-politica. Servendosi del grimaldello eccezionale della confessione/denuncia di Pirandello,

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Frassica apre la porta chiusa del tempo, che certo i documenti ufficiali illustrano, ma lasciando affidata solo all'immaginazione la realtà viva, parlata, sfumata dalle varie sensibilità, all'interno del gioco perverso di rimandi e di echi dal Palazzo ai salotti ai luoghi dell'arte e della letteratura militanti. Non credo sia nota a molti per esempio, l'ambizione drammaturgica del Duce. Monologhi, dialoghi, commedie furono abbozzati da lui in gioventù e approdarono alla completezza e alla scena dopo l'incontro con Giovacchino Forzato con cui Mussolini cominciò a collaborare nel 1929. Dopo un vero trionfo al Teatro Argentina, Campo di maggio, un dramma sugli ultimi giorni di Napoleone, affrontò i palcoscenici esteri con il nome di entrambi gli autori: per un'esibizione di modestia - è il caso di dirlo Mussolini, che aveva assistito alla prima con famiglia governo e apparato gerarchico al completo, non aveva voluto il suo nome sul cartellone. Seguirono, con doppia firma, altre due opere dal successo ben orchestrato. Al dittatore Pirandello doveva certo dar fastidio turbandone le granitiche certezze propagandate come assiomi epocali. Tra i quali la necessità per l'Italia di un teatro di massa, popolare, volto a superare le asfittiche angustie del dramma borghese. II maestro riferisce all'attrice discorsi, maldicenze, viltà, incontri folti di parole e sterili di risultati; una vera e propria «opera d'aggiramento» degli ambienti teatrali romani dalla cui umiliazione intende liberarsi, per poter tornare in patria solo dopo aver ottenuto giustizia all'estero. «Dobbiamo vincere per forza - le scrive il 9 giugno 1929 - vincere con l'opera, vincere col valore, vincere con l'orgoglio e la costanza, e non arrendersi.» Si è scritto tanto del rapporto di Pirandello con il fascismo, e ancora ci si agita intorno al logoro dilemma impegno disimpegno. Basterebbe la lettura di queste confessioni alla donna amata per avere un'immagine persuasiva, perché a fior d'anima, dell'essere e dire non solo di Pirandello, ma di ogni artista vero. Il solo impegno che lo scrittore sente irrinunciabile, necessario alla sua vita, è quello dell'arte e a Marta dichiara il suo netto rifiuto al regime e ai servi che esso «riceve, protegge, sussidia». Tra quei servi del fascismo Pirandello non voleva essere annoverato e nel gioco delle parti, nell'invenzione delle strutture drammatiche non si preoccupò di adombrare né le illusioni né i soprusi di quel potere; rappresentò sempre e soltanto quel che gli premeva, non il contingente, ma l'eterno, il dolore dell'umana condizione, gli inganni del male di vivere.

Ungaretti e il fascismo

"Patria e rivoluzione: ecco il grido nuovo. (...) Aderisco ai fasci di combattimento, il solo partito che intende la tradizione e l'avvenire, in modo genuino."

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Non si ha alcuna notizia di un ripensamento di Ungaretti sulla sua adesione al fascismo, neppure

dopo la sua caduta. L'adesione al fascismo da parte di Ungaretti è un problema notevole della critica

letteraria e biografica, che andrebbe indagato a fondo e che non è mai stato preso seriamente in

considerazione. Le sue poesie contro la guerra e poi la sensibilità e l'umanità dimostrata dal poeta

sono in stridente contraddizione con l'adesione ad un movimento che faceva delle persecuzione

politica e poi dell'alleanza con il nazismo (anche avallando e praticando direttamente le

persecuzioni ebraiche), i suoi mezzi di lotta correnti. Contraddizione ancor più evidente se si pensa

al nuovo massacro del secondo conflitto mondiale, del tutto simile a quello a cui si riferiva e che

condannava lo stesso Ungaretti nelle sue liriche del 1915 - 1916. Ungaretti visse personalmente

questo periodo. Nel 1924, per esempio, non si ha notizia di una sua reazione di fronte all'omicidio

del deputato socialista Matteotti. Certo, nel 1944 scrisse nuovamente contro la guerra: "Non gridate

più ", e la raccolta del "Dolore ". E tuttavia mantenne i suoi rapporti con il fascismo ed addirittura

le sue relazioni personali con Mussolini, che gli fece avere la cattedra universitaria Roma.

L'adesione di Ungaretti al fascismo rimane dunque una grande ombra sulla sua vita e sulla sua

integrità morale. D'altra parte la sua poesia e le sue riflessioni,cariche di umanità, testimoniano la

genuinità della sua lirica che non era certo al servizio del "regime". Resta quindi l'interrogativo:

come si conciliava in Ungaretti l'alta valenza morale ed umana delle sua poetica con la propria

posizione politica? E' possibile che il dissidio tra poetica e prassi giunga fino a limiti così

estremi e, se sì, perché?

Montale e il fascismo

Le idee totalitarie del fascismo, l'assolutismo, l'appiattimento dei valori umani, l'imposizione di

determinate regole ed il completo disconoscimento della libera espressione di parola e di

comportamento, causarono la ribellione di molti intellettuali, che vissero questo periodo in modo

molto sofferto, sia interiormente che politicamente, pur astenendosi, nella maggior parte dei casi

dalla militanza politica attiva. Nel 1925 Montale, coerentemente con la propria posizione liberale,

firma il Manifesto degli intelletuali antifascisti. Nel 1927 si trasferisce a Firenze che appare al

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poeta una sorta di patria della cultura, intese come valore supremo da difendere contro l'ignoranza e

la rozzezza del regime fascista. Proprio perché non iscritto al partito fascista viene licenziato dal

suo impiego di direttore del prestigioso Gabinetto Vieusseux. Dalla nuova condizione

dell'intellettuale e dalla nuova situazione storica (l'avvento del fascismo) deriva un' ideologia che

oppone alla massificazione dilagante i valori elitari della cultura e dell'arte, unico risarcimento

possibile per gli intellettuali. Pur non essendo mai stato un militante attivo dell’antifascismo,

tuttavia, Montale ha espresso il suo dissenso nei confronti del regime di Mussolini e, più in

generale nei confronti di ogni tipo di dittatura con molti testi poetici, sia appartenenti alla

prima raccolta, Ossi di seppia, del 1925, sia a Le Occasioni, del 1939, sia a La Bufera, del 1956.

In particolare la raccolta Ossi di seppia prese forma negli anni in cui in Italia il fascismo si mutava

in dittatura per mezzo delle cosiddette leggi speciali, che imponevano un regime totalitario con il

pensiero unico, un capo unico, un governo senza oppositori e molta propaganda con cui venivano

distorti i fatti.

Il filosofo del fascismo, Giovanni Gentile, riteneva che il pensiero (ovviamente un pensiero in linea

con le aspettative del regime), fosse in grado di cambiare il mondo. Il libro di montale nacque in tale

clima nell’invadenza trionfante di questi modelli culturali. Il compito del poeta è quello di tendere

all’assoluto, ma per Montale concretamente la poesia può darci solamente la negativa del mondo.

Prendendo come modello non il fascio littorio o le aquile, ma gli umili “ossi di seppia” la poesia

montaliana finì per divenire negli anni ‘20 un saldo punto di riferimento per chi negava il fascismo e

i suoi dogmi.

In particolare la lirica Non chiederci la parola collocata da Montale in apertura della raccolta

diventa un componimento programmatico, in cui l’autore chiarisce il ruolo del poeta rispetto al

mondo che lo circonda. Montale nega che la parola poetica possa scandagliare l’animo umano, o

fornire sicurezze o regole di condotta.

Montale rifiuta dunque l’immagine del poeta vate e veggente teorizzati rispettivamente da

D’annunzio e dai simbolisti, perché sostiene che il poeta abbia il dovere di svelare le falsità ed

abbattere le illusioni, mostrando i limiti della condizione esistenziale dell’uomo e la negatività

assoluta del vivere (il “male di vivere”).

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Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l’ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

“Ho scritto poesie per questo sono stato premiato,ma sono stato bibliotecario, traduttore, critico

letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime

che non potevo amare[…]in ogni modo sono qui perche ho scritto poesie, un prodotto

assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà […][La

poesia]che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare un epoca e tutta una situazione

linguistica e culturale [la grande poesia che sa incarnare lo spirito di un epoca],allora bisogna

dire che non c’e morte possibile per la poesia”

(Discorso pronunciato da Montale in occasione del conferimento del premio Nobel del 1975)

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Riflettiamo insieme…

1. Come consideri la visione di Margherita Hack e di Zichichi?

2. Qual è secondo te la differenza tra FEDE e RELIGIONE?

3. Come vivi la crisi attuale? Ne hai risentito in qualche modo? A livello personale?

4. Qual è il tuo punto fermo, quali sono cioè le tue “certezze” incrollabili anche nei momenti di difficoltà (crisi)?

5. In una situazione come quella dell’affermazione di una dittatura da che parte ti saresti schierata? E per quale motivi?

6. "Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi". Cosa significa per te questa frase di Bertolt Brecht?

INTERVISTA A MONTALE

"Gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l'umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli "

[...] Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall'artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c'è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d'allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di al di fuori di questi fenomeni [...]

Dopo questa premessa posso dirvi, in risposta alla vostra domanda, che io gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l'umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare. [...] In definitiva, fascismo e guerra dettero al mio isolamento quell'alibi

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di cui esso aveva forse bisogno. La mia poesia di quel tempo non poteva che farsi più chiusa, più concentrata (non dico più oscura). Dopo la liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata che per certi lati sembrano un ritorno all'impressionismo degli Ossi di seppia, ma attraverso il filtro di un più cauto controllo stilistico. Non vi mancano accenni a cose e fatti d'oggi. In ogni modo sarebbe impossibile pensarle scritte dieci anni fa. E perciò, a parte il loro valore, che non posso giudicare, debbo concludere che mi sento perfettamente a posto col cosiddetto "spirito del nostro tempo".

(Intervista radiofonica a Eugenio Montale,

raccolta in E. Montale, Sulla poesia)