Non smette di piovere

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Non smette di piovere Mario Anton Orefice

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Non smette di piovere

Mario Anton Orefice

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Una pioggia leggera e tenace bagna i masegni di Piazza San Marco in questo mercoledì di giugno. La bandiera italiana e quella marocchina sventolano insieme per l’a-pertura del primo Festival italo-marocchino. Sotto i por-tici delle Procuratie un viavai di persone, l’impazienza prima che si apra il sipario, la speranza che smetta di piovere. I gruppi in costume accordano gli strumenti, accennano qualche motivo tradizionale. Abdallah e Antonio sono emozionati e corrono da una parte all’altra dispensando sorrisi, risposte, e gli ultimi suggerimenti. Anche loro guardano spesso il cielo. Una coppia strana, Abdallah Kherzraji, nato a Safi, mediato-re culturale e presidente del circolo culturale Hilal in viale Monfenera a Treviso, e Antonio Calò, nato a Bar-letta, professore di storia e filosofia al Liceo classico Ca-nova di Treviso.

In attesa che smetta di piovere si potrebbe cominciare proprio da loro due, come si sono conosciuti un im-migrato e un professore? Certo le parole non aiutano, immigrato indica già qualcuno che nella storia non si porta appresso una buona fama, l’immigrante, l’extra-comunitario, è sempre stato ritratto come un poveraccio con le valigie di cartone o con i sacchetti di plastica. Sarebbe forse meglio usare per tutti la nazionalità, in questo caso un marocchino e un italiano, ma facendo così si perde una parte della storia. Forse è più interessante capire il perché, un perché che si riflette nelle loro biografie come i contorni delle nu-vole sui masegni bagnati dalla pioggia.Abdallah è nato a Safi nel 1966, arriva in Italia all’inizio degli anni Novanta, il primo domicilio sono le tende che la Caritas ha allestito nel quartiere San Paolo. Dopo

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un impiego come operaio in un’azienda tessile, comin-cia a interessarsi dei problemi degli immigrati, entra in contatto con varie associazioni e dimostra di essere un mediatore in gamba. L’interesse per l’altro è uno dei suoi chiodi fissi, come il desiderio di far conoscere la cultura del suo paese agli italiani che incontra lungo la sua strada. A metà degli anni Novanta fonda il circolo culturale Hilal (in arabo vuol dire mezzaluna) in Viale Monfenera che oggi conta 500 iscritti. Un angolo di Marocco lungo le mura di Treviso, qui è possibile sor-seggiare un tè alla menta, degustare il cous cous e ascol-tare la musica gnawa. È vicepresidente della consulta regionale per l’immigrazione che rappresenta 530.000 migranti, e conosciuto a livello nazionale per i suoi in-terventi di mediazione.Antonio Calò, invece è nato a Barletta il 7 novembre del 1961. Dopo aver conseguito due lauree, una in filosofia con la tesi Il progresso e la filosofia della storia in Condorcet, e una in teologia con la tesi Il significato e il problema della retribu-zione in Giobbe, inizia la sua carriera di insegnate e nello stesso tempo coltiva un’intensa attività culturale come direttore scientifico dell’associazione culturale Jacques Maritain e come consulente di progetti interculturali sulle radici comuni dei cittadini europei.A pensarci bene c’è una cosa che li collega fin dalla na-scita, un mare che dovrebbe rendere paesani spagnoli e greci, marocchini e italiani, il Mediterraneo, il mare dell’Odissea o delle Odissee, con i suoi confini da rag-giungere e superare, quel viaggio da compiere per tor-nare a casa. Forse è per questo che si sono incontrati una sera di aprile del 2010 al circolo Hilal. A presentarli Guido Gasparin, Presidente della cooperativa Solidarie-tà, una realtà unica nel panorama italiano, un villaggio

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dove convivono famiglie “normali”, famiglie di immi-grati (Abdallah vi abita con la sua famiglia dal 1990), una casa accoglienza, un ostello della gioventù, appar-tamenti per ragazze madri in difficoltà e, tra un po’, an-che un gruppo di anziani autosufficienti. Un villaggio di umanità e fratellanza nel cuore di Treviso.“Davanti ad una tajine di mandorle e pollo, racconta An-tonio Calò, ho incontrato una grande persona, un uomo orgoglioso ma anche umile e capace come pochi altri di tessere relazioni e di riunire attorno ad una tavola cul-ture diverse. Mi espose la sua idea di festa italomaroc-china e mi raccontò la sua vita: all’inizio mille modi per sbarcare il lunario, poi il tempo dedicato ai connazionli, le relazioni con gli enti pubblici e gli organi di polizia, la creazione del circolo Hilal. Mi parlò del cous cous più grande del mondo, dell’incontro fra musica andalusa e musica marocchina, ma mi fece anche capire che aveva bisogno di un compagno di viaggio, di qualcuno con cui sviluppare e discutere il progetto. Gli dissi che l’idea mi piaceva ma che era essenziale coinvolgere le istituzioni ai più alti livelli perché giocano un ruolo fondamentale nell’incontro fra popoli diversi.”

Non ha smesso i piovere, aspettare ancora non ha senso. A nome del comune di Venezia prende la parola l’asses-sore alla cultura Roberto Panciera che comunica anche l’importante riconoscimento del presidente della Re-pubblica Giorgio Napolitano al professor Calò: una me-daglia di rappresentanza per l’organizzazione del primo festival italo marocchino. È poi la volta dell’ambasciato-re del Marocco Hassan Abouayoub che augura un con-tinuo sviluppo dei rapporti tra i due paesi. La festa può cominciare. La musica del bendir e del rebab accompa-

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gnano un corteo matrimoniale, simbolo dell’incontro fra Italia e Marocco. Si procede in circolo fra gocce di pioggia e sorrisi, tanti sorrisi, la sposa indossa un prezio-so abito bianco con i ricami dorati ed è portata a spalla su un lussuoso trono decorato, lo sposo la segue a piedi in una jellaba bianca. Il corteo anima la piazza, come un camaleonte inaspettato si muove lungo i bordi pronto a ritirarsi con il crescere della pioggia. Viene da pensare a un quadro, al titolo di un quadro che non esiste: “Dan-za della sposa in piazza San Marco”. Viene da pensare anche a quanto sia stupido chi pensi di essere migliore dell’altro. Italia e Marocco sono paesi che hanno grandi questioni aperte. In Marocco Tahar Ben Jelloun scrive “I problemi sono numerosi: primo fra tutti è il flagello del-la corruzione. L’accattonaggio è una piaga; il Ministero dello sviluppo sociale ha censito 200.000 mendicanti, 120.000 dei quali professionisti. Ma la cosa ancora più grave è l’assenza di una cultura dell’uguaglianza, un anafalbetismo scandaloso (il tasso più alto nel mondo arabo), una crisi costante dell’educazione nazionale, un sistema della salute pubblica misero che offre grandi op-portunità alle carissime cliniche private e una giustizia che, a causa della corruzione, non riscuote la fiducia dei più disagiati.”L’Italia, dal canto suo, se dovesse dedicare un monu-mento alle vittime del terrorismo, delle stragi, dei delitti di mafia, avrebbe bisogno di un luogo simile al Vietnam Veterans Memorial di Washington: un muro con migliaia di nomi. È una storia, quella della nostra democrazia, piena di punti interrogativi, di contatti con la mafia e di false verità che fanno venire i brividi.

Il suono ipnotico dei qraqb della musica gnawa risuona sotto le Procuratie, una folla italomarocchina forma un cerchio intorno ai musicisti, la festa continua così come la pioggia che non ha smesso per un attimo.

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“Non sei abbastanza vicino”

Robert Capa diceva “Se le tue fotografie non sono abba-stanza buone non sei abbastanza vicino”. Per capire un fenomeno, per comprendere un popolo, non hai altra possibilità, devi avvicinarti, devi mangiare e cantare as-sieme a loro. Il quattordici giugno è una di quelle gior-nate così calde che seduti nel Frecciabianca non si può fare a meno di sentire la lamiera rovente e abbacinata dal sole, e presagire l’aria calda come un phon che ci investirà appena scesi dal treno. L’appuntamento con la Fiera marocchina è a Verona, ore sedici Bastione Santo Spirito: ricostruzione di un villaggio berbero con suk e rassegna d’artigianato.Abdallah non è ancora arrivato, è rimasto bloccato in autostrada tra Mestre e Padova est per un problema al sistema di alimentazione. Con lui ci sono gli ospiti ma-rocchini.In soccorso è partito subito Antonio Calò. Arrivano stanchi ed affamati. Alla ricerca di un panino lungo l’as-solata via Magenta, finiamo nel bar di Enea Cipollini, barista scrittore poeta. Un gigante dai modi bruschi e voce stentorea. Cipollini, a dispetto del mite e giocoso cognome, non invita ordina: “Scegliete il tavolo che vo-lete, qui è tutta roba fresca”. Chi si aspetta sorrisi e gentilezza rimane deluso, ma alla fine Enea con la sua barba e i capelli bianchi raccolti in un piratesco codino ha solo voglia di raccontare la sua vita in giro per il mondo e le delusioni ricevute da uomi-ni e da letterati. Come molti, ha deciso di pubblicare e vendere in proprio i suoi libri che fanno capolino tra le bottiglie di Biancosarti e Long John: Aspettando domani, Ieri, seimila anni fa. Pubblica anche in rete. Sono milioni

le persone che come lui scrivono su blog e social media, un’esplosione della scrittura, della registrazione. Per narcisismo ma anche per sopravvivere, per lasciare una traccia dopo di noi, una sorta di esistenza ultraterrena, forse l’unica possibile, certo non quella che ci piaceva immaginare da bambini, quel luogo dove rincontrare le persone care e in cui i cattivi soffrono le pene dell’in-ferno.Il profumo del tè alla menta conduce attraverso il picco-lo suk creato all’ombra delle mura: le teiere in alpaca ce-sellate a mano con il bulino, le scacchiere di cedro inta-gliate nelle botteghe di Fes, gli specchi e i piatti in rame, i portagioie abbelliti da intarsi geometrici, le vecchie lanterne di Rabat e i tappeti delle regioni dell’Atlante impreziositi da disegni di piante, erbe, colori dei paesag-gi di provenienza, e simboli come l’occhio del profeta, la mano di Fatima, la kasba, le dune. Figure di donne compongono la trama aiutandosi con un legno d’olivo. Una volta, era tradizione che prima del matrimonio le ragazze regalassero al futuro marito il kilim creato con le loro mani, era una lettera d’amore alla quale il corteg-giato doveva rispondere senza poter vedere la ragazza.Sotto la tenda berbera Hasan prepara il tè alla menta, un rito antico che in attimo conduce la fantasia a riper-correre le piste delle carovane nel deserto e a immagina-re notti a tu per tu con le stelle.Anche in casa del professor Antonio Calò il tè è un rito, si prende intorno alle cinque del pomeriggio circondati dai libri della biblioteca: migliaia di libri hanno sostitui-to le pareti, per la maggior parte scritti e saggi filosofici e storici. Tra i dorsi La questione della colpa di Jaspers, con parole che potrebbero stare all’inizio di qualsiasi incon-tro fra culture diverse: “Cogliere quanto c’è di comune

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tra la nostra tesi e quella di chi ci contraddice, importa più che fissare affrettatamente punti di vista esclusivi con i quali si conclude come inutile la conversazione.È così facile difendere appassionatamente dei giudizi decisi; difficile è invece riflettere serenamente. È faci-le interrompere la comunicazione con asserzioni arro-ganti; difficile è invece penetrare al fondo della verità instancabilmente, al di là di ogni asserzione. È facile farsi un’opinione qualsiasi e irrigidirsi in essa, per ri-sparmiarsi la fatica di rifletterci ancora; difficile è invece avanzare passo passo, e non rifiutarsi mai di investiga-re ancora. Dobbiamo ristabilire la disponibilità alla ri-flessione. A questo scopo non dobbiamo inebriarci con sentimenti di superbia, di disperazione, di ribellione, di ostinazione, di vendetta o di disprezzo. È invece necessa-rio che questi sentimenti vengano accantonati, perché si possa guardare alla realtà.Ma, a proposito di questo discutere insieme, vale anche il contrario: è facile pensare senza mai compromettersi e impegnarsi; ma è difficile prendere la decisione vera, quando il nostro pensiero è aperto a tutte le possibilità e se ne rende conto chiaramente. È facile evitare ogni re-sponsabilità a furia di bei discorsi; è difficile mantenere la propria decisione ma senza testardaggine. È facile ar-rendersi alla minima resistenza, secondo la situazione; è difficile, una volta presa una decisione incondizionata, tenere il cammino prescelto nonostante la volubilità e l’elasticità del pensiero.Quando noi riusciamo veramente a parlarci l’uno con l’altro ci muoviamo appunto nel dominio delle origini. A tal fine deve rimanere in noi sempre qualche cosa che ci faccia avere fiducia negli altri e ci faccia meritare la fiducia degli altri. Allora soltanto si rende possibile, nel

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dialogo, quella quiete nella quale si ascolta e si sente in comune quello che è vero.Per tutto questo vogliamo evitare di irritarci gli uni contro gli altri. Cerchiamo invece di trovare insieme la via. La passione testimonia a sfavore della verità di chi parla. Non vogliamo percuoterci pateticamente il petto in segno di innocenza, per poter offendere gli altri. Ma non debbono sussistere limitazioni, che derivino da una riguardosa riservatezza. Né bisogna tacere per mitezza d’animo o illudere per consolare. Non c’è alcuna do-manda che non debba essere posta, alcuna cara vecchia ovvietà, alcun sentimento, alcuna menzogna vitale che dobbiamo salvaguardare. Ma a maggior ragione poi non ci si deve permettere di colpirci sfrontatamente sul viso con giudizi provocatori, privi di fondamento e for-mulati alla leggera. Noi apparteniamo gli uni agli altri; dobbiamo sentire la nostra situazione comune, quando discutiamo insieme. In un parlare di tal genere nessuno è giudice dell’altro. Ciascuno è nello stesso tempo accu-sato e giudice.”

“La disposizione mentale a considerare gli uomini col-lettivamente, a caratterizzarli e giudicarli in blocco, è oltremodo diffusa. Caratteristiche di tal genere – ad esempio dei tedeschi, dei russi, degli inglesi – non ri-guardano mai concetti di genere sotto i quali possano venire sussunti i singoli uomini, ma indicano solamen-te il tipo, a cui essi più o meno possano corrispondere. Questa confusione tra una concezione basata sui generi e una basata sulle tipologie è il segno del pensare in base a delle collettività: i tedeschi, gli inglesi, i norvegesi, gli ebrei – e così via: i frisi, i bavaresi – oppure: gli uo-mini, le donne, i giovani, i vecchi. Il fatto che grazie alla

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concezione tipologica si viene pure a cogliere qualche cosa di vero, non deve farci credere di aver compreso in tutto e per tutto ogni singolo individuo, quando lo con-sideriamo designato da quelle caratteristiche generali. Questa è una forma mentale che, attraverso i secoli, si trascina come un mezzo per determinare l’odio recipro-co fra i popoli e i gruppi umani. Questa forma menta-le, che dai più viene considerata purtroppo come ovvia e naturale, i nazionalsocialisti l’hanno applicata nella maniera peggiore e attraverso la loro propaganda fatta entrare nelle teste quasi a martellate. Era come se non ci fossero più uomini, ma soltanto appunto quelle col-lettività. Non c’è mai un popolo che sia un tutto unico.”

“Il tè non si dovrebbe mai prendere con lo zucchero” raccomanda Antonio Calò mentre cerca sulla sua affol-lata scrivania il documento che dà il via al coinvolgimen-to delle istituzioni nel Primo Festival italomarocchino, la lettera del 20 gennaio 2011 al Presidente della Repub-blica Giorgio Napolitano. “Contemporaneamente ab-biamo contattato, e quando è stato possibile incontrato, i sindaci e i presidenti di provincia delle città coinvolte: Venezia, Padova, Verona, Vicenza, Treviso Belluno. Man mano che procedevamo nella costruzione del festival, sentivamo la necessità di aprire un dialogo nuovo nei metodi e nei contenuti con le istituzioni, un percorso che portasse ad uno sguardo diverso. Sentivamo che questa volta la cultura e la storia del Marocco bussavano alle porte dell’Italia in maniera diversa. E ce ne ha dato conferma il Presidente della Repubblica che risponden-do attraverso l’ambasciatore Stefano Stefanini alla mia richiesta ha parlato di “nuovi italiani”.

“Io e Abdallah abbiamo viaggiato molto in treno e in macchina, se penso alle ore trascorse insieme è una vita; abbiamo avuto modo di riflettere e di conoscerci. Lungo il cammino abbiamo incontrato alleati, sostenitori, ma anche scettici, persone che ci guardavano dall’alto ver-so il basso, che giudicavano il festival un’iniziativa falli-mentare e a cui dava fastidio che ci presentassimo insie-me: l’italiano e il marocchino. La nostra compresenza ha persuaso i nostri interlocutori a impegnarsi per un festival nel quale ognuna delle due comunità si sarebbe presentata con il proprio volto.”

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Chabab al Andalous

I terrazzi dei condomini sembrano tastiere di piano-forte grigie e bianche, come le macchine allineate nei parcheggi intorno all’auditorium Modigliani. È l’audi-torium del liceo artistico di Padova intitolato a Modì, il pittore dei colli lunghi. Il nome evoca atmosfere parigi-ne e con esse i fermenti di una cultura artistica aperta all’incontro, alle contaminazioni. Come l’incrocio di questa sera: sul palco la luce della musica lirica andalusa del gruppo Chebab Andalouse e il fuoco della lirica italia-na, anche se tra il pubblico di italiani ce ne sono pochi, forse la strada per un incontro tra le due comunità non è così breve. Parlano d’amore le parole della cantante in jallaba arancione ricamata d’oro, ma parlano anche del Profeta, il ritornello Allah, Allah, Allah, è un po’ come Jesus nei gospel americani, trascina con gioia il pubblico e gli artisti. Il religioso è sempre presente nella vita dei mussulmani. Mi viene in mente, a proposito di questa presenza continua, quello che ho scritto nel mio Diario marocchino: “Fes è uno scrigno che contiene dentro di sé mille strade e mille sguardi, ma sopra ogni cosa, ogni tè alla menta, ogni saluto, c’è un signore che non ha un volto ma 99 nomi: Allah, Rafi, Latif, Nur... Tutto rimanda a dio, qui religione e vita sono una cosa sola, non c’è spazio per il dialogo socratico né per lo spirito illumini-stico, è le bon Dieu che ha già deciso quel puoi e non puoi fare, quel che accadrà. Le Matin, uno dei quotidiani del Marocco, dedica ogni giorno un’intera pagina al Rama-dan, il mese sacro. In quella di oggi sono riportati anche gli orari delle preghiere e un hadith (precetto): “Chi per dimenticanza mangia o beve deve continuare a digiuna-

re perché è Dio che ha deciso che lui abbia mangiato o bevuto”. Una delle espressioni usate più frequentemente nei dialoghi è Insciallah, “se Dio vuole”, ma anche “Dio sia con te”; che Allah sia presente anche nelle formule di saluto hello, hallo, Holà? La fede di questa gente è conta-giosa, invita a parteciparvi e nello stesso tempo non ci appartiene. La medina di Fes è la metafora dello scri-gno, di questa religione segreta non perché siano segre-ti i testi cui si ispira, ma perché privato, personale, se-greto, impenetrabile, è il rapporto che ogni musulmano ha con dio, un rapporto che impregna e guida e spiega ogni gesto della sua vita. Un dio così segreto da essere irrapresentabile. La medina è una metafora di questo scrigno con le mille botteghe che contengono spazi che non immagineresti, terrazze che si aprono su panorami inattesi. Segrete sono le parole in arabo che non capisci e le mille vite che ti passano accanto e che non conosce-rai mai, i mille poveri che farai finta di non vedere o che fotografi perché ti sembra che anche loro abbiano un segreto, loro ti raccontano che si può vivere con nien-te, tendendo una mano, cosa che tu non faresti, non la faresti mai una vita da niente, perché ti sfugge il segre-to, anzi no, un po’ lo intuisci, il vero piacere non sta in quanto puoi avere ma nel godere di quel niente, di quel nulla che non è nulla ma acquista grandezza nella man-canza, nell’assenza. Come quando rinunci a mangiare pur avendo fame o a bere pur essendo assetato, prova a resistere anche solo quattro ore e poi qualsiasi cosa ti sembrerà la migliore che tu abbia mai mangiato o bevu-to. I poveri che tendono la mano ti raccontano la fiaba di quel niente che può trasformarsi in fiore profumato, in una focaccia calda, in un tè alla menta, in un sorriso. Sono cose da niente?”

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In scena ora c’è un pianoforte, un contrabbasso, il con-trotenore Matteo Gobbo Trioli e la soprano Lieta Nac-cari, la musica è diventata un’altra cosa, è diventata indi-vidualista, a tratti gara di bravura fra singoli, sulle note di Un bacio ancor si capisce che siamo pervasi d’amore, non sempre platonico, per noi stessi prima che per dio, poi per l’altro da sedurre, poi, forse alla fine, ci ricordia-mo che sopra di noi c’è qualcuno. Ma il potere della mu-sica è proprio di essere un linguaggio universale, così la serata scorre come un unicum fra note ed applausi. Ce ne vorrebbero molte di più di serate come questa.

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Una patria assieme ad altre patrie

Le montagne intorno a Belluno ricordano quelle del Rif: “Il cammino è stato scavato nella roccia dura. Forse è per questo che si dice che i suoi abitanti hanno la testa dura e sono cocciuti. (…) Il Rif è qualcosa di più di una serie di montagne inespugnabili. È un paese raccolto in sé, con la propria lingua, la propria cultura, le proprie tradizioni e la propria forza. Non è un popolo che nego-zia”, scrive Ben Jelloun. La montagna di per sé ha qual-cosa di non negoziabile, di solido, di duro.” È tra queste montagne che è nato uno dei più grandi scrittori italia-ni, Dino Buzzati, autore del capolavoro del Novecento: Il Deserto dei Tartari. Una metafora appuntita come alcune vette delle Dolomiti, un’attesa spietata di quello che non arriva, come sa essere a volte la vita. L’attesa di qualcosa a venire, di qualcosa che darà un senso, è la stessa in ogni essere umano, a volte giace per anni dimenticata sotto il guanciale della coscienza, altre volte si fa imperiosa e porta a gesti disperati come quelli dei tanti migranti che salgono sui barconi della morte con la speranza di un futuro migliore. Dino Buzzati forse avrebbe apprezzato la performance Vento extra – migranti ieri, oggi domani di Jolanda Martini, svoltasi a villa Buzzati. Sono giovani, hanno la pelle scura, gli zaini della scuola in spalla e danzano a torace scoperto al ritmo delle bacchette che picchiano sulle bottiglie vuote e delle mani che battono a tempo, poi si dividono in due gruppi, e da una parte qualcuno sposta delle piccole barche di carta legate a fili sottili. Alcune in questo viaggio da una sponda all’altra si rovesciano in un deserto d’acqua. Malika Mokkedem nel suo ultimo romanzo La desiderance, racconta la storia

di un amore spezzato da questo sogno: lui muore nella speranza di attraversare il Mediterraneo, lei lo apprende da una telefonata della guardia costiera e si mette alla ricerca dei responsabili. In una sua intervista ha detto: “Durante i miei primi diciassette anni di vita in Francia ho passato tutte le estati a navigare. Alla fine degli studi ho persino solcato il Mediterraneo per sei mesi di fila con il progetto di un viaggio attorno al mondo in barca a vela. Mollare gli ormeggi, staccarsi dal molo allonta-nando la barca con il piede, prendere il mare mi dava una vertiginosa sensazione di libertà, sommata ad un piacere atavico. Il Mediterraneo si offriva a me come un cuore che batte tra le due rive della mia sensibilità. Ed è a forza di frequentare il mare aperto che ho trovato il senso della parola infinito: l’infinito è la libertà.”Chi riesce ad attraversare il Mediterraneo, anche con mezzi diversi dal barcone, trova comunque paesi che sull’accoglienza e sull’integrazione hanno notevoli lacu-ne. È quanto emerso nell’altro appuntamento bellunese del Festival, la tavola rotonda svoltasi al Centro dioce-sano sul tema dell’emigrazione e alla quale hanno par-tecipato Abdellatif Maazouz, Ministro delegato dell’im-migrazione del Marocco, Oscar De Bona, ex Assessore regionale dei flussi migratori, Daniele Stival, attuale Assessore regionale dei flussi migratori, Gioachino Brat-ti, Presidente dell’associazione Bellunesi nel mondo, il professor Khalid M. Rhazzali, dipartimento di Sociolo-gia dell’Università di Padova, il dottor Moulay Zidane El Amrani, moderatore.Di particolare interesse gli interventi di Rhazzali e di Kaoutar Badrane, una giovane avvocatessa italoma-rocchina intervenuta con grande energia al termine dell’incontro. Per Rhazzali: Il festival è un caso di stu-

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dio sociologico, è promosso da alcuni amici italiani ed altri marocchini che rivendicano la loro italianità. La politica ha bisogno di narrazioni come questa per ela-borazioni nuove. Trovo molto importante che quest’i-niziativa sia nata a Nordest con un sovvertimento dei rapporti centro-periferia. Riconoscere il locale è come uscire da uno stigma in un Veneto che non ha un vero centro metropolitano ma è un aggregato di città medie. Distribuire le attività culturali sul territorio arrivando fino a Belluno, è sicuramente faticoso ma se uno ci cre-de riesce a conservare una dimensione culturale. Altret-tanto importante è il rapporto tra il gruppo che ha dato vita al festival italo-marocchino e l’associazione che sup-porta il festival in Marocco, è un modo interessante di sviluppare una diplomazia parallela, un nuovo modo di stare nella globalizzazione, di innescare nuove relazioni su nuove frontiere, di muoversi in diversi contesti con serietà politica e istituzionale.Al centro del festival c’è la cultura, intesa non solo come folclore ma come confronto. Per molto tempo abbiamo confuso la cultura con l’arte locale, l’abbiamo interpre-tata in termini etnicizzati, l’abbiamo cioè sostituita con l’appartenere a qualche posto. È d’altra parte vero che chi vive una storia di immigrazione tende a mettere al primo posto l’appartenenza. Viviamo in un’epoca in cui i flussi migratori sono processi rapidi, globalizzati, fem-minilizzati e ad l’alta differenziazione: 350 provenienze etniche. Un patrimonio che l’agenda politica non riesce a valorizzare perché lo concepisce come caos. Vediamo, a questo punto, le politiche dell’Italia e del Marocco, entrambi paesi a forte emigrazione: dal punto di vista storiografico, per rimanere in Europa, ci sono in-teressanti convivenze in Germania e in Belgio fra le co-

munità di emigrati italiani e marocchini. Entrambi con-tribuiscono al Pil del loro paese ma entrambi per motivi economici rinunciano alla loro patria. Una quindicina d’anni fa in Italia si è pensato ad un dicastero sull’immi-grazione e per il voto all’estero sono stati costituiti dei comitati; in modo analogo oggi il Marocco si sta muo-vendo in questa direzione, perché c’è una nuova con-sapevolezza nel valorizzare il capitale sociale all’estero. I marocchini italiani possono contribuire allo sviluppo della società marocchina stando qui, pensandosi come identità plurime senza rinunciare ad una patria ma met-tendo questa patria assieme ad altre patrie. Secondo me l’identità plurima rappresenta un inedito valore poten-ziale, senza essere una rinuncia o deviare in conflitto. In base agli accordi bilaterali e grazie alle compagnie low cost si può circolare e lavorare con velocità fra Marocco, Italia, Francia, Gran Bretagna, portando con sé cono-scenze e nuovi modi di pensare. Esperienze che dovreb-bero contribuire ad un’accelerazione dei processi deci-sionali, perché politica è anche adeguatezza alle culture in un contesto. Racconto un piccolo episodio personale. Rientravo in Marocco con dei colleghi di Fes; all’aero-porto di Bergamo ci hanno divisi per il controllo con il metal detector: una fila per l’area Schengen, l’altra per gli extracomunitari. Io che viaggio con un passaporto tedesco mi sono messo nella fila dell’area Schengen, ma un poliziotto nonostante questo insisteva a chiedermi di cambiare fila dicendo che non potevo stare nella fila de-gli italiani, a quel punto ho tirato fuori l’altro passapor-to, quello italiano. C’è necessità di cambiare categorie di pensiero, altrimenti come si fa a passare la frontiera?”

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“Non siamo di seconda generazio-ne, siamo italiani” Prendeva appunti tra il pubblico, capelli lunghi camicia a righe. La più giovane avvocata marocchina d’Italia, Kaoutar Badrane, ventotto anni, ha carattere da vende-re. Quando interviene al termine dell’incontro si vede che è proprio arrabbiata perché ha vissuto sulla propria pelle certe ingiustizie.“Cominciamo dal termine di seconda generazione che trovo discriminatorio, un po’ come di seconda mano, cosa vuol dire? Noi siamo italiani a tutti gli effetti, siamo nati e cresciuti in questo paese, non siamo arrivati qui da chissà dove. Sono stati i nostri genitori a scegliere, per noi è scontato che questo sia il nostro paese.Da piccola abitavo ad Andria, in Puglia, e avevo impara-to il dialetto di quella zona, ma quando ho proseguito le elementari a Bassano del Grappa, i compagni di classe non mi capivano non perché parlassi l’arabo ma perché pronunciavo delle frasi pugliesi incomprensibili.D’altra parte ricordo molto bene le lunghe code davanti alla Questura sotto la pioggia per rinnovare il permesso di soggiorno: io, mia madre e i miei fratelli più piccoli. Ho sempre pensato che mi sarei laureata in giurispru-denza per tutelare i diritti dei più deboli. Oggi chi nasce in Italia, a differenza degli altri paesi europei, non è cittadino italiano, la legge 91 del 1992 infatti non ha recepito il principio dello ius soli ribadito dalla Convenzione di Strasburgo: secondo tale princi-pio chiunque nasca nel territorio dello stato acquisisce automaticamente la cittadinanza, si pensi che in Francia questo principio si applica dal 1515.Come si fa a discriminare i bambini figli di immigrati,

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che colpa hanno di essere nati qui? Credo nessuna, ep-pure se il papà perde il lavoro sono costretti a tornare in un paese che non appartiene loro. In base alla legge 91 si può ottenere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno e non è neppure automatico, cioè compiuti i diciott’anni la persona deve presentare do-manda entro un anno se no perde questo diritto. I giovani studenti devono rinunciare alle gite all’estero, alle borse di studio, agli Erasmus, ad iscriversi ai test per entrare nelle facoltà a numero chiuso, se non hanno la cittadinanza, né ci si può iscrivere ad un ordine profes-sionale o partecipare alla vita politica. Pochi lo sanno ma una delle ragioni per cui gli immigrati non si iscri-vono all’università è che ogni anno devono rinnovare il permesso di studio, allora cercano di farsi assumere perché il permesso di lavoro dura quattro anni. Io ho speso seimila euro per ricorrere contro il diniego alla mia richiesta di cittadinanza che mi era stata negata perché non titolare di un reddito sufficiente a mante-nermi. Ma come proprio a me che ho sempre collabo-rato come interprete nei tribunali e per i carabinieri? Dopo due anni e mezzo il Tar mi ha dato ragione. Alla triennale mi sono laureata in Scienze giuridiche eu-ropee e transnazionali a Trento, con una tesi sulla rifor-ma del diritto di famiglia in Marocco. In particolare in quel periodo, nel 2006, questa riforma era stata appena avviata dal nostro re Mohammed VI. Fu un cambiamen-to radicale nel diritto di famiglia marocchino per quan-to riguarda la tutela delle donne e dei bambini. Si rico-nobbero le convenzioni internazionali del fanciullo, e si introdusse il diritto per la donna di separarsi senza do-ver dimostrare di aver subito un danno. Si permise inol-tre di introdurre nell’atto di matrimonio la clausola di

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monogamia, mentre una volta un uomo poteva sposarsi con più donne al di fuori di ogni controllo. La riforma fu portata avanti anche grazie al continuo scambio con i 600.000 marocchini che vivono in giro per il mondo e che introducono idee occidentali fondate sulla libertà, sulla giustizia, sull’uguaglianza dei sessi.”

NeokaravanLe immagini a volte sono un po’ sfocate, ma la scritta bianca su tabellone verde si legge molto bene Capaci. Gli studenti di Neokaravan nel loro viaggio verso il Marocco hanno fatto tappa anche a Palermo e hanno ricordato uno degli episodi più inquietanti della storia italiani. Sabato 14 aprile 2012 sei studenti del Master Mim dell’Univer-sità Ca’ Foscari di Venezia sono partiti per il Marocco accompagnati da professori universitari, rappresentanti del festival, e dalla più importante e influente associazio-ne per lo sviluppo sostenibile del Marocco Ribat al Fath, che ha coordinato e gestito appuntamenti di approfondi-mento degli aspetti socio-culturali e antropologici nelle città di Casablanca, Rabat, Tangeri, Fès, Meknes, Volu-bilis, Safi, Essaouira, Marrakech, Tantan e Lâayoune. A maggio la Carovana è ripartita da Palermo con l’aggiunta di sei studenti marocchini dell’Università “Mohamed V” di Rabat. Le tappe italiane sono state: Messina, Cosenza, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino, Milano, Bologna e infine Venezia. Nelle piazze delle città visitate si sono svolti dibattiti con le istituzioni locali, con le organizza-zioni, gli enti e le associazioni di volontariato. Attraverso l’incontro con le comunità di marocchini residenti si è approfondita la dimensione del migrante e il suo rappor-to con la società ospitante. Tra i principali promotori di Neokaravan Giovanni De Luca direttore della sede Rai di Venezia: “Abbiamo iniziato a parlare di questa avventura fra un tè alla menta e un bicchiere di rosso, e non è un caso. I contenuti culturali sono più importanti di quelli economici, sono i primi a modellare i secondi. E noi in questo momento dobbiamo essere capaci di ripensare

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il modello culturale: confrontarci con la nostra storia e con quella degli altri per interpretare il mondo. Neoka-ravan e il festival ci ricordano che una gran parte della nostra cultura viene dalle civiltà persiana e araba, mentre i soldì quelli sì li abbiamo inventati noi, le prime lettere di credito risalgono ai tempi delle crociate. Ma l’Europa senza l’altra sponda del Mediterraneo non esisterebbe. Come il Veneto è legato per sempre a Canada, Australia, Sudamerica, lì esistono ancora comunità di emigranti che parlano dialetti scomparsi. La Rai come servizio pubbli-co in questo scenario ha un compito preciso. Come negli anni del boom trasmise un linguaggio comune a tutto il paese, oggi il suo impegno è quello di diffondere la con-sapevolezza che la geometria, l’algebra, la poesia e molto del nostro sapere proviene dall’altra sponda del Mediter-raneo. Il documentario Neokaravan che racconta questo straordinario viaggio fra Italia e Marocco, per la regia di Piergiorgio Casagrande, è stato prodotto per Rai Scuola e andrà in onda anche su Rai Tre. È un film che ci fa capire che la nostra è una storia condivisa.”

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Il Marocco per le imprese

A Palazzo Giacomelli, sede di Unindustria Treviso, non si entrava più il quindici giugno: tantissimi gli impren-ditori che hanno partecipato all’incontro con persona-lità ed esperti per illustrare le opportunità offerte alle aziende italiane dall’economia marocchina. Spiega Ma-rio Vizzotto, responsabile Unindustria per l’internazio-nalizzazione: “Per noi il Marocco è da sempre un punto di riferimento. Già nel 2006 la direzione di Confindu-stria scelse la sede trevigiana come la territoriale dele-gata ai rapporti con il Marocco. Un riconoscimento che ci siamo meritati perché abbiamo sempre considerato il Marocco come uno dei paesi potenzialmente più in-teressanti. Da un paio d’anni stiamo inoltre portando avanti un progetto che abbiamo chiamato “Africa fu-turo”. Pensiamo che sia il continente che possa offrire maggiori opportunità di business nel medio lungo pe-riodo alle nostre imprese che si trovano in forte difficol-tà. Sono stati già avviati contatti e progetti nella fascia subsahariana che però presenta una certa complessità sociale e politica. Il Marocco resta il paese più stabile e che può dare più tranquillità, come abbiamo sperimen-tato in questi ultimi anni insieme alle molte aziende che hanno chiesto la nostra consulenza per creare nuove attività lungo l’altra sponda del Mediterraneo. L’agen-zia marocchina per gli investimenti, con cui siamo in ottimi rapporti, ha aperto di recente un ufficio a Roma, a conferma di un trend in crescita. Solo un esempio, a Tangeri, a 14 chilometri dall’Europa, si sono create infrastrutture portuali strategiche per un mercato glo-bale. I settori vincenti sono edilizia, logistica, ambiente,

turismo. E, fattore da non trascurare, la gente è amiche-vole e disponibile a proporre soluzioni che da altre parti sono più difficili da realizzare”.

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Una storia che bussa in modo diverso

Antonio Calò si muove tra le tende del Bastione San-to Spirito a Verona come se fosse a Marrakesh. Insieme prendiamo un tè e inizia a raccontare questa straordina-ria avventura. “Tra le tante cose su cui ci soffermavamo c’era lo stupo-re di molti dei nostri interlocutori, era come se la richie-sta implicita di guardare ai marocchini in modo diverso, non come forza lavoro, o come fonte di problemi, ma come cultura li spiazzasse. Era la storia di un popolo che bussava in modo diverso, per chiedere qualcos’al-tro. Che poi questa richiesta venisse da un professore italiano e da un immigrato marocchino era scomodo sia per gli italiani che per i marocchini. Man mano che par-lavamo con le istituzioni di questo evento organizzato insieme ai nuovi italiani, come li chiama Napolitano, i nostri partner si rendevano conto che non sarebbe stata la solita festicciola, ma che assumeva una connotazione importante con la partecipazione della Rai, dell’Univer-sità, degli enti pubblici. Abbiamo viaggiato molto insieme io e Abdallah, una persona verso la quale ho una stima profonda. Nella sua storia personale ha raggiunto dei ruoli importanti, se volesse fondare un partito sono sicuro che sarebbe elet-to; è una persona di grande orgoglio con una vita non facile alle spalle, ma sbarcare il lunario nei primi anni qui in Italia ha rafforzato la sua qualità innata di leader e mediatore, di uomo che ogni giorno dedica moltissi-mo del suo tempo ai problemi degli immigrati. Ci sono situazioni complicate legate a suoi connazionali che si sono risolte grazie al suo intervento. Mi ha sempre col-

pito la sua capacità di relazione. A un certo punto della sua vita ha avviato un ristorante, che è poi diventato un circolo culturale, quest’idea del dialogo dell’incontro è sempre stata in lui, mettere le persone intorno ad un tavolo per dialogare, è un catalizzatore straordinario. Anche la sua scelta di vivere nel centro della cooperativa Solidarietà, un luogo straordinario in cui sono a contat-to anziani, disabili, ragazze madri, extracomunitari, va in questa direzione. Le prime volte che abbiamo parlato del festival le idee erano abbastanza vaghe, poi si sono definite identifican-do luoghi e persone. Proprio i tavoli del circolo Hilal sono stati testimoni di tanti incontri, anche con persone che la pensavano di-versamente da noi. C’è però stato un momento decisivo, un momento in cui ho capito che mi sarei dedicato ani-ma e corpo a questa iniziativa. È quando Abdallah mi ha presentato il dottor Bennani, Consigliere del Re e presidente della più importante associazione marocchi-na, Ribat al Fath, che ha garantito il suo pieno appoggio all’iniziativa. Con il dottor Bennani abbiamo incontra-to varie figure istituzionali, dal Questore al Sindaco di Treviso, ed entrambi abbiamo assistito alla qualità dei riconoscimenti che le autorità dedicavano ad Abdallah. Il primo passaggio tecnico sul versante italiano è stato quello di informare il Presidente della Repubblica, i sei sindaci delle città principali, i cinque presidenti della Provincia, la Giunta regionale. Nei mesi dedicati alla preparazione dell’evento abbiamo avuto contatti anche con Amato e con Cacciari. Tornan-do a Bennani, sembra un ambasciatore, è una persona di poche parole, grande osservatore e grande ascoltato-re. Tra le esperienze più belle che io abbia mai vissuto ci

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sono sicuramente i tre giorni in cui è stato nostro ospite qui in Italia. Sono stati tre giorni da sogno. A Venezia abbiamo incontrato Orsoni che ci ha promesso piazza San Marco, i funzionari della Regione e il Presidente del consiglio regionale Ruffato; poi il ricevimento e visita alla sede Rai di Venezia insieme al direttore Giovanni De Luca. Il terzo giorno a Susegana, presso l’azienda Col-lalto, Bennani è rimasto colpito dalla tecnologia con cui è stata realizzata la stalla delle bufale. Grazie alla com-bustione dello sterco delle mucche si realizza una tota-le autosufficienza energetica, un sistema ecosostenibile in grado di soddisfare i bisogni energetici di ottocento persone. Immaginare la rivoluzione che questo sistema potrebbe portare agli sperduti villaggi del Marocco, è stato il primo pensiero del nostro ospite. La visita si è poi conclusa al castello dei Collalto dove ad accoglierlo c’era la principessa che parla un perfetto francese perché è ta a Tangeri. A quel punto Bennani si è sentito a casa e anche noi abbiamo provato un’emozione profonda nel vedere realizzato davanti a noi lo spirito del festival. Stanco ma felicissimo quella sera l’ho riaccompagnato in hotel e al momento di salutarci ci siamo abbracciati.”

“Lavoriamo alla seconda edizione”

Arriva anche Abdallah, parla in arabo, alle volte in fran-cese al cellulare e prende posto accanto a noi, è felice: “Con grande impegno, con gli amici, un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare il 70 per cento di quello che avevamo progettato. L’idea della carovana è stata una bella idea ma i finanziamenti erano insufficienti e per quanto riguarda la logistica abbiamo dovuto arrangiar-ci. Un primo gruppo di studenti italiani ha attraversato il Marocco, un secondo gruppo di studenti marocchini è partito da Palermo e ha raggiunto Torino. Per rende-re possibile l’impresa ci siamo in parte autofinanziati dimostrando che se si crede davvero in una cosa la si realizza. Dal punto di vista economico siamo riusciti a organizzare il festival in un mese e mezzo grazie a spon-sor come Came e Unicredit che ci hanno dato fiducia.

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© Mario Anton Orefice - www.studiodiscrittura .itDicembre 2012

Progetto grafico: Marcello Dal Cin

Questa manifestazione è stata anche una grande pro-vocazione per le associazioni marocchine con sede nei capoluoghi del Veneto. Ad ognuna di loro avevamo chie-sto una mano un anno fa ma nessuno si è fatto avanti. Quando hanno visto che la manifestazione si sarebbe fatta hanno cominciato a chiederci perché erano state escluse. Non erano state escluse, semplicemente non credevano che ce l’avremmo fatta. Abbiamo coinvolto grandi artisti come Shumisha che è una star in Marocco e che è venuta per un rimborso spese grazie all’amico Fabrizio Nonis che vive a Marrakesh. Dobbiamo riuscire a saldare meglio l’aspetto economi-co e quello culturale, intensificando i rapporti tra i due paesi, La settimana scorsa abbiamo ospitato a Treviso il ministro marocchino dell’economia e delle finanze che si è reso disponibile a creare legami economici il Vene-to. Inoltre si è aperta in rete una fiera virtuale per pre-sentare i prodotti veneti al Marocco e all’Africa: Venice for Africa. Il nostro festival non è solo folclore, va oltre e, malgrado le difficoltà, siamo già al lavoro per la seconda edizione.Treviso, dicembre 2012