"Non è colpa di nessuno" (Mario de Caro)

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n. 53 33 DOMENICA - 23 FEBBRAIO 2014 Il Sole 24 Ore Scienza e filosofia di Luca Pani L a speranza è sempre l’ultima a mo- rire ed è persino logico che sia cosi. Pochi stati d’animo sono tanto strettamente connessi alla stessa vi- ta come la speranza (e il suo contrario: la di- sperazione) da meritarsi un legame imme- diato e diretto con la sua fine. Se il nostro to- no dell’umore conferisce la prospettiva da cui osservare il mondo (Die Weltanschauung ) sono la speranza o la sua assenza che muovo- no il nostro cuore, la mente e il corpo per fare in modo che gli sforzi conducano al risulta- to, appunto, sperato. È forse interessante no- tare che non nutriamo alcuna speranza all’inizio o alla fine di una qualunque opera ma durante il percorso che è necessario intra- prendere per portarla a termine. Appena il cervello capisce che ci sono del- le ragionevoli probabilità di successo o di fal- limento inizia ad elaborare una serie di valu- tazioni su piani paralleli che tengono conto di precise informazioni, passate esperienze, sensazioni emotive attuali e memorizzate, reazioni somatiche e interazioni ambienta- li, da quelle basate su relazioni diadiche (uno a uno) a quelle con gruppi sociali com- plessi. Il nostro cervello riesce a fare tutto questo in modo pressoché automatico e del tutto inconsapevole, almeno per la stragran- de maggioranza delle persone, sino ad emet- tere un responso che diviene cosciente in un tempo molto breve considerando le infor- mazioni elaborate. Ciò avviene grazie all’im- piego di algoritmi decisionali molto com- plessi selezionati in decine di migliaia di an- ni di tentativi ed errori da parte di milioni di uomini. Solo per questo dovremo avere gran cura del contenuto della nostra scatola cranica. Non esiste un diritto individuale al- la speranza e la speranza non fa parte della salute umana in quanto tale, mentre è vero che alimentare la speranza e ridurre la dispe- razione delle popolazioni ha importanti im- plicazioni politiche e religiose. San Tomma- so definisce la speranza come attesa sicura (certa) della beatitudine futura. La speranza è dunque certezza di un risul- tato atteso e non può basarsi solo sulle illusio- ni. La speranza pur non possedendo ancora il bene desiderato si fonda tuttavia sul pre- supposto certo di possederlo. Senza alcuna certezza, nessuna speranza ed è questo il mo- mento biologico in cui la sensazione di riusci- re emerge o s’inabissa: quando la certezza da possibile diviene altamente probabile e in- fine ragionevolmente sicura, in quel momen- to e solo in quel momento, tutto cambia. Allo- ra gli sforzi si decuplicano, la strategia diven- ta chiara, l’umore e la volontà divengono co- me dicono gli psichiatri «ego-sintonici» ed il successo è assicurato. Gravi patologie dell’umore e del comportamento, purtroppo ormai sempre più frequenti derivano invece dall’ego-distonia tra il volere, l’ideare e l’ese- guire, quei cosiddetti «stati misti» in cui si vuole ciò che non si può eseguire, o si pensa quanto non è possibile neppure volere. In questi casi la continuità tra la speranza e la disperazione si fanno più evidenti non come una l’opposto dell’altra, perché in effetti non lo sono, ma piuttosto quali sensori contem- poranei della reale probabilità che un evento favorevole si realizzi. Un eccesso incontrolla- to di speranza oltre il senso di realtà è rappre- sentato nelle forme di euforia patologica, che inevitabilmente poi si perdono nella più tetra disperazione e nel male oscuro della de- pressione clinica. Due condizioni che non so- no isolate quanto continue e spesso cicliche tra loro. Non è un caso se gravi forme di ma- linconia sono spesso prodotte dall’incapaci- tà di lasciar andare una speranza inutile, il che sarebbe invece un atteggiamento conser- vativo e vantaggioso. Si capisce quindi come anche la disperazione possa avere grande va- lore evolutivo, basti pensare a quanti indivi- dui si sono salvati ed hanno salvato il loro gruppo di appartenenza per aver lasciato an- dare giusto in tempo un progetto che non mostrava alcuna speranza di riuscire. Per far questo però è necessaria una buona dose di umiltà e di accettazione dei propri limiti, una merce sempre più rara al giorno d’oggi consi- derato quanto il mondo occidentale è orien- tato al successo comunque e ad ogni costo. Sono passati cinquant’anni dalle quattro do- mande di Tinbergen a cui dobbiamo cercare di rispondere, in modo complementare e se- parato, per capire evolutivamente se le ten- denze biologiche ed etologiche a «sperare o disperare» possano avere cause prossimali oppure se siano solo funzioni adattative che giustifichino la permanenza nella nostra spe- cie di tratti del carattere tanto importanti per la sopravvivenza. Il primo punto riguarda l’assetto biologico e genetico: vi sono individui più predisposti a sperare e avere un buon umore come carat- teristica temperamentale rispetto ad altri; il secondo è chiedersi come un simile tratto emerga durante l’ontogenesi e che cosa si possa fare per favorirlo (un buon attacca- mento alle figure genitoriali per esempio aiu- ta); il terzo riguarda la filogenesi di quel trat- to e richiede – in un caso come questo – ricer- che multidisciplinari sull’etologia dei mam- miferi e non solo piuttosto complesse e, infi- ne, dobbiamo chiederci quali vantaggi confe- risca possedere simili caratteri per ricavarne un possibile guadagno evolutivo e quando invece no. Abbiamo visto che la speranza si traduce in sopravvivenza (sia fisica che so- ciale) quando può contare sulla ragionevole probabilità che l’evento sperato si realizzi, quando cioè le possibilità che qualcosa si ve- rifichi divengono significativamente mag- giori di quelle per cui potrebbe non accade- re. Nella situazione opposta è infatti più van- taggioso disperare che un progetto si realiz- zi per ottenere un vantaggio evolutivo so- vrapponibile anche se di polarità opposta ri- spetto all’insistere ad ogni costo. Perché tut- to questo accada, perché l’inizio del cammi- no della speranza venga intrapreso e il cer- vello inizi ad elaborare i suoi sofisticati calco- li che oscillano tra beneficio e rischio è però assolutamente necessario che i dati elabora- ti non si basino su false premesse o su infor- mazioni sbagliate. A questo scopo è dedicata una porzione completamente diversa del cervello umano che ha il compito di operare i riscontri di real- tà e – in qualche modo – di opporsi alle conti- nue simulazioni del possibile successo che vengono portate avanti dalla nostra cortec- cia pre-frontale. Quando però la simulazio- ne viene progressivamente confermata dai riscontri di realtà le chances di riuscire au- mentano. Una caratteristica dei falliti croni- ci, spesso per questo disperati, è la tendenza ad ignorare i riscontri di realtà cercando di costringere i fatti reali ai loro desideri più o meno deliranti. Se, finalmente, la speranza ottiene dei ri- sultati tangibili, il primo prodotto è una gran- de carica di sano ottimismo che attrae gli al- tri come mosche al miele ed è predittivo di nuovi e maggiori successi; laddove i pessimi- sti sfogano la loro aggressività sulle colpe al- trui e non imparano mai dagli errori com- messi disperandosi sempre di più e facendo terra bruciata intorno a loro, gli ottimisti di- vengono – a ragione – sempre più ottimisti. Il risultato che immancabilmente ne conse- gue è molto contagioso. Così come preferia- mo situazioni o sostanze che conferiscano piacere e riducano l’ansia tendiamo ad evita- re quanto produce angoscia e dolore. Sebbe- ne possa sembrare banale queste scelte si ri- flettono anche sul piano sociale nel cercare, in modo spasmodico a volte, di stare vicino alle persone di buon umore, che hanno ener- gia e sono ottimiste, lasciando al loro desti- no miserabile quelli che si disperano e contri- buendo, in tal modo, al loro malessere. Vi sembra tutto troppo crudele? Certamente lo è, ma l’evoluzione, come abbiamo avuto già modo di riportare su queste pagine, non si cura di valori come bene o male, giusto o sba- gliato, se non in un’ottica puramente stru- mentale alla sopravvivenza dei più adatti. Ri- cordando che la fatica che si compie per gene- rare un pensiero negativo oppure uno positi- vo è assolutamente identica, non va dubbio che chi spera sia più adatto a sopravvivere e certamente a far sopravvivere una famiglia o un gruppo sociale, di chi invece non spera mai in un domani migliore. © RIPRODUZIONE RISERVATA Illustrazione di Guido Scarabottolo di Mauro Capocci N essuno in Italia si è accorto che alle fine di novembre 2013 se ne è andato, all’età di quasi novant’anni il genetista Marcello Siniscalco, uno dei protagonisti internazionali degli studi di genetica umana, in particolare degli adattamenti genetici alla malaria, nella seconda metà del Novecento. È dal 1948 che gli adatta- menti genetici umani alla malaria sono oggetto di studio, da quando cioè il geneti- sta inglese John Burdon Sanderson Hal- dane propose la cosiddetta «malaria hypothesis», cioè che questa grave infe- zione, potenzialmente letale nella forma detta «terzana maligna», costituisca un forte fattore di selezione e sia la causa del- la diffusione di mutazioni genetiche che conferiscono protezione contro la malat- tia. Poche settimane fa è stato pubblicato su Blood uno studio di grande importan- za che evidenzia l’interazione tra due trat- ti del genoma (l’alfa-talassemia e le va- rianti dell’aptoglobina, una proteina del sangue) proprio in termini di protezione e suscettibilità alla malaria. In Italia que- ste ricerche hanno radici profonde: sin dagli anni Quaranta la microcitemia è sta- ta studiata dal punto di vista genetico, e nei decenni successivi molte energie so- no state dedicate allo studio delle emoglo- binopatie e di altre patologie legate all’en- demia malarica. Marcello Siniscalco faceva parte della prima generazione di ricercatori che han- no appreso la genetica in Italia, e non all’estero. La sua carriera scientifica è ini- ziata in uno dei centri principali di studio dell’eredità, a Napoli, sotto la guida del pri- mo professore universitario di genetica, Giuseppe Montalenti. Sin dagli anni Cin- quanta Siniscalco si dedicò alla genetica umana, collaborando a diversi studi sulla genetica delle popolazioni, che in quegli anni in Italia stava raggiungendo risultati importanti grazie agli sforzi di Ezio Silve- stroni e Ida Bianco, i quali insieme a Mon- talenti avevano definito l’origine genetica della microcitemia o anemia mediterra- nea o beta-talassemia, e avevano tentato di avviare un vasto programma di scree- ning e prevenzione della malattia nelle aree più a rischio. Proprio nell’ambito di questi studi Siniscalco iniziò a lavorare in Sardegna, dove le emoglobinopatie e altri caratteri legati alla storica presenza dell’infezione malarica, avevano frequen- za più alta. Il relativo isolamento dei picco- li paesi sardi, di fatto, facilitava il lavoro genetico per l’assenza di rimescolamento ereditario. A partire dagli studi genetici sulla microcitemia e altri tratti (condotti inizialmente anche con colleghi italiani come Ruggero Ceppellini), Siniscalco pub- blicò una serie di articoli tra gli anni Cin- quanta e Sessanta sull’emoglobina e altre proteine del sangue che lo proiettarono a un livello internazionale. In particolare, grazie alle indagini sulle popolazioni sar- de dimostrò il legame del favismo (la defi- cienza dell’enzima G6PD, glucosio-6-fo- sfato deidrogenasi) con la pressione selet- tiva della malaria. Nel 1963, anche in segui- to alla vicenda dello scandaloso concorso che portò in cattedra Luigi Gedda, lasciò l’Italia per prendere la cattedra all’univer- sità di Leyden, in Olanda. A testimonian- za, già allora, da un lato il valore della scuo- la italiana, dall’altro dell’incapacità di of- frire sbocchi ai talenti su cui tanto era già stato investito. Dall’Olanda Siniscalco si trasferì all’inizio degli anni Settanta negli Usa, a New York, prima all’Albert Einstein College e poi al Memorial Sloan Kettering Cancer Center, lavorando su più aspetti della trasmissione genetica delle patolo- gie (in particolare quelle legate al cromo- soma X). Negli USA consolidò i suoi lega- mi con l’élite della genetica mondiale (ne- gli archivi di James Watson, uno degli sco- pritori della doppia elica, è conservata molta corrispondenza con Siniscalco), e sfruttò anche questo prestigio per un’im- presa ambiziosa: rientrare in Italia crean- do un centro di ricerca e formazione in Sardegna, a Porto Conte. Purtroppo, nono- stante l’iniziale supporto del ministro An- tonio Ruberti, a poco a poco i finanziamen- ti promessi dal Cnr e dal ministero scom- parvero, e il centro non è decollato come Siniscalco sperava: doveva essere un luo- go di respiro internazionale, che permet- tesse il rientro di molti ricercatori italiani, ma rapidamente Siniscalco si rese conto che ciò non sarebbe stato possibile. Di fronte ai «soliti vizi italiani» (come raccon- tò in un’intervista al Times), rinunciò alla direzione e tornò negli Usa, dove ha con- cluso la sua lunga carriera alla Rockefeller University: nonostante gravi problemi di salute, ha pubblicato l’ultimo articolo nel 2012. Sicuramente uno dei più talentuosi genetisti italiani della sua generazione, te- stimone di alcuni dei più fecondi filoni di ricerca biomedica fondamentale, la storia di Siniscalco è paradigmatica: un «cervel- lo in fuga», capace di competere a livello internazionale e al tempo stesso allonta- nato dal suo paese di origine. Una triste storia, esemplificativa delle vicende italia- ne della genetica – passata attraverso un boom nel dopoguerra per poi incontrare uno stallo che ne ha diminuito il prestigio nazionale e internazionale – e della scien- za, sistematicamente svilita da una classe politica miope e incapace di capire come la valorizzazione della cultura scientifica sia una chiave di sviluppo nazionale. © RIPRODUZIONE RISERVATA di Mario De Caro I ndovinello della domenica: sapre- ste dire qual è la «scienza delle solu- zioni immaginarie, che accorda sim- bolicamente ai lineamenti le pro- prietà degli oggetti descritti per la lo- ro virtualità»? Nel caso brancolaste nel buio, ecco la risposta: è la Patafisica, che il geniale Alfred Jarry fondò perché, diceva, «se ne avvertiva veramente il bisogno». In realtà l’unico bisogno che la Patafisica soddi- sfaceva era di farsi beffe delle presunte nuo- ve branche della filosofia che vengono pre- sentate all’orbe tutto a colpi di grancassa, sal- vo spirare ben presto per la mancanza del famoso quid. Oggi, in effetti, chi si ricorda più della prasseologia o della faneroscopia? Generalizzare, però, sarebbe un errore. Non tutte le nuove discipline filosofiche so- no velleitarie e ineluttabilmente destinate all’oblio: ve ne sono di fiorenti – come l’estetica, la metaetica o la logica simbolica – che hanno atti di nascita relativamente recenti rispetto alle plurimillenarie vicen- de della filosofia. E da pochissimo è sorta un’altra disciplina filosofica cui è ragione- vole prospettare un futuro radioso. Si trat- ta della neuroetica, disciplina battezzata uf- ficialmente nel 2002 dal giornalista del New York Times William Safire. Per capire perché questa disciplina sia destinata a du- rare è consigliabile leggere Tutta colpa del cervello. Un’introduzione alla neuroetica , in- formatissimo e molto leggibile volume scritto da Gilberto Corbellini, studioso di storia della medicina e collaboratore del Do- menicale , ed Elisabetta Sirgiovanni, filoso- fa delle scienze cognitive di stanza al Cnr. Ma cos’è la neuroetica? Secondo l’ormai classica definizione della filosofa e neuro- scienzata Adina Roskies, si tratta di una di- sciplina filosofica bipartita: da una parte, si occupa dell’etica delle neuroscienze; dall’al- tra, delle neuroscienze dell’etica. In entram- bi i casi sono in gioco questioni di grande rilevanza teorica e pratica e questo volume lo mostra benissimo, discutendo con chia- rezza e originalità della neuroetica clinica e del ruolo conoscitivo delle neuroimmagini, del potenziamento cognitivo e delle radici evolutive della morale. Sullo sfondo di queste discussioni si sta- glia poi una questione più generale: quanto contano le neuroscienze nella comprensio- ne del pensiero e dell’agire umani? Secondo alcuni, i cosiddetti «neuromaniaci», conta- no moltissimo e stanno ormai soppiantan- do la filosofia, la psicologia e le altre scienze umane. Secondo altri, i cosiddetti «neurofo- bici», le neuroscienze sono invece costituti- vamente incapaci di comprendere molte delle caratteristiche fondamentali del mon- do umano. Tra neuromania e neurofobia, Corbellini e Sirgiovanni ricercano ragione- volmente una terza via. Ma in casi del gene- re è difficile porsi esattamente nel mezzo tra due punti di vista opposti: e l’impressio- ne che si ricava dal libro è che, se proprio dovessero scegliere di buttare giù dalla tor- re il partito dei neuromaniaci o quello dei neurofobici, i nostri autori preferirebbero senza eccessive esitazioni il secondo. Corbellini e Sirgiovanni riconoscono che le comuni convinzioni riguardo alla respon- sabilità morale, la libertà, la dignità e la razio- nalità sono essenziali per «la capacità uma- na di realizzare un maggior benessere, ridur- re la sofferenza e mettere sotto controllo i pregiudizi che costantemente minacciano la qualità delle relazioni umane». A loro pa- rere, però, gli studi neuroscientifici mostra- no che tali convinzioni sono soltanto ben ra- dicate illusioni. Per comprendere il senso di questa posizione è utile guardare all’interse- zione tra neuroscienze, etica e diritto. Il volume mostra in modo convincente che la ricerca neuroscientifica e quella gene- tica stanno modificando profondamente il modo in cui concepiamo la condizione prin- cipale della punibilità delle azioni crimino- se, cioè la capacità di intendere e di volere dell’imputato. Detto altrimenti: una gran messe di dati scientifici prova che i fattori che determinano i nostri comportamenti, senza che ne siamo coscienti, sono molto più rilevanti di quanto comunemente si im- magini. Anzi, per Corbellini e Sirgiovanni siamo ormai legittimati ad affermare che nessuno di noi è mai moralmente responsa- bile, almeno nel senso classico del termine: ovvero nessuno è in grado di compiere azio- ni autodeterminandosi consapevolmente. E ciò perché «in un senso molto credibile "siamo tutti burattini": gli effetti combinati di geni e ambiente determinano tutte le no- stre azioni». Coerentemente con queste premesse, i nostri autori perorano con circostanziati argomenti l’abbandono del classico ideale retributivistico della pena, secondo cui è giusto punire tutti e solo gli individui che lo meritano, ossia quanti hanno compiuto reati intenzionalmente e senza essere in ciò determinati. Ma questa condizione, se- condo i nostri autori, non si verifica mai: dunque nessuno merita mai di essere puni- to. La via da seguire, dunque, è quella del cosiddetto «conseguenzialismo», per il quale vanno comminate solo le pene che incrementano l’utilità sociale. Sono qui evidentemente in gioco i concet- ti cardine della visione del mondo ordina- ria, come responsabilità, colpa, retribuzio- ne, merito, libero arbitrio. C’è allora da spe- rare che questo ottimo volume dia l’avvio a un dibattito non viziato da toni antiscientifi- ci e ideologici, come troppo spesso accade da noi. Punti di vista alternativi su questi te- mi ovviamente non mancano. Alcuni (ispi- rati da Roger Penrose e John Searle) sosten- gono per esempio che la concezione deter- ministica dell’agire umano non possa esse- re data per scontata, perché l’indetermini- smo quantistico potrebbe riverberarsi a li- vello macroscopico. Altri, da una prospetti- va neokantiana, sostengono che la visione scientifica del mondo e quella ordinaria so- no incompatibili, ma valgono su piani diver- si. Altri ancora, dall’ottica di un naturali- smo non riduzionistico, affermano che en- trambe le visioni del mondo sono irrinun- ciabili ma non sono incompatibili tra loro. In quest’ultima prospettiva, si può ripren- dere il giudizio del grande giurista H.L.A. Hart, secondo cui l’ideale retributivistico del- la pena non può essere del tutto abbandona- to. L’idea è che una visione corretta della pe- na debba coniugare il conseguenzialismo con la componente negativa del retributivi- smo, per la quale è lecito punire soltanto chi lo merita. E ciò perché si possono concepire casi in cui il calcolo dell’utilità sociale, secon- do i dettami del consequenzialismo puro, ci porterebbe a punire un innocente, facendo- ne un capro espiatorio (né a questa obiezio- ne basta rispondere che punire gli innocenti è pratica socialmente dannosa e dunque inaccettabile per il conseguenzialismo: an- che questa risposta si espone infatti a con- vincenti controesempi). Insomma, forse non possiamo rinuncia- re del tutto all’ideale retributivo della pena. E tuttavia questo ideale è indissolubilmen- te legato ai concetti di colpa, merito, respon- sabilità e libero arbitrio. Il problema diven- ta allora quello di reintepretare tali concetti, senza tradirne la natura e mostrandone la compatibilità con la visione scientifica del mondo. Un compito non da poco, ma che forse vale la pena intraprendere. Ma quale che sia la posizione che si assume rispetto a questi temi, il volume di Corbellini e Sirgio- vanni mostra che l’interazione tra filosofia, scienza, diritto – interazione che la neuroe- tica incarna nel modo migliore – genera al- cune delle più importanti e feconde discus- sioni del nostro tempo. Checché ne pensino i patafisici di tutte le risme. © RIPRODUZIONE RISERVATA Gilberto Corbellini, Elisabetta Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello. Un’introduzione alla neuroetica, Mondadori Università, Milano, pagg. 240, € 28,00 ricordo di marcello siniscalco (1924-2013) Il genetista della malaria Per Corbellini e Sirgiovanni va ridefinita la capacità di intendere e di volere e abbandonato il classico ideale retributivistico della pena evoluzionaria Utili e inutili speranze Nutrire aspettative su eventi irrealizzabili è spesso causa di patologie depressive. Sperare deve implicare la ragionevole certezza di farcela Venerdì a Perugia il Manuale dei Diritti con il ministro Giannini Venerdì 28, alle ore 18 a Perugia (Sala dei Notari -Palazzo dei Priori), sarà presentato il «Manuale dei Diritti Fondamentali e Desiderabili» a cura di Paola Severini e Chiara Di Stefano (Mondadori). Intervengono il ministro all’Istruzione Stefania Giannini (foto), Maria Pia Ammirati, Wladimiro Boccali, Ilaria Borletti Buitoni, Fabrizio Bracco, Brunello Cucinelli, Anna Procaccini Foà. Modera Armando Massarenti india | Siniscalco (in piedi) e J.B.S. Haldane nella giungla dell’Andra Pradesh nel 1964 neuroetica Non è colpa di nessuno L’effetto combinato di genetica e ambiente determina le nostre azioni al punto da stravolgere il concetto di colpa e punizione

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L'effetto combinato di genetica e ambiente determina le nostre azioni al punto da stravolgere il concetto di colpa e punizione.

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  • n. 53 33DOMENICA - 23 FEBBRAIO 2014 Il Sole 24 Ore

    Scienza e filosofia

    di Luca Pani

    L a speranza sempre lultimaamo-rire ed persino logico che sia cosi.Pochi stati danimo sono tantostrettamenteconnessiallastessavi-ta come la speranza (e il suo contrario: la di-sperazione) da meritarsi un legame imme-diatoe diretto con la sua fine. Se il nostro to-no dellumore conferisce la prospettiva dacuiosservare ilmondo(DieWeltanschauung)sonolasperanzaolasuaassenzachemuovo-noilnostrocuore, lamentee il corpoper farein modo che gli sforzi conducano al risulta-to,appunto,sperato.forseinteressanteno-tare che non nutriamo alcuna speranzaallinizio o alla fine di una qualunque operamaduranteilpercorsochenecessariointra-prendereperportarla a termine.

    Appena il cervello capisce che ci sono del-leragionevoliprobabilitdisuccessoodifal-limentoiniziaadelaborareunaseriedivalu-tazioni su piani paralleli che tengono contodiprecise informazioni, passate esperienze,sensazioni emotive attuali e memorizzate,reazioni somatiche e interazioni ambienta-li, da quelle basate su relazioni diadiche

    (uno a uno) a quelle con gruppi sociali com-plessi. Il nostro cervello riesce a fare tuttoquesto in modo pressoch automatico e deltuttoinconsapevole,almenoperlastragran-demaggioranzadellepersone,sinoademet-tereunresponsochedivienecosciente inuntempo molto breve considerando le infor-mazionielaborate.Ciavvienegrazieallim-piego di algoritmi decisionali molto com-

    plessiselezionati indecinedimigliaiadian-ni di tentativi ed errori da partedi milioni diuomini. Solo per questo dovremo averegran cura del contenuto dellanostra scatolacranica.Nonesisteundiritto individualeal-la speranza e la speranza non fa parte dellasalute umana in quanto tale, mentre verochealimentarelasperanzaeridurreladispe-razionedellepopolazioniha importanti im-plicazionipoliticheereligiose.SanTomma-so definisce la speranza come attesa sicura

    (certa)dellabeatitudine futura.Lasperanzadunquecertezzadiunrisul-

    tatoattesoenonpubasarsisolosulleillusio-ni. La speranza pur non possedendo ancorail bene desiderato si fonda tuttavia sul pre-supposto certo di possederlo. Senza alcunacertezza,nessunasperanzaedquestoilmo-mentobiologicoincuilasensazionediriusci-re emerge o sinabissa: quando la certezzadapossibiledivienealtamenteprobabileein-fineragionevolmentesicura, inquelmomen-toesoloinquelmomento,tuttocambia.Allo-raglisforzisidecuplicano, lastrategiadiven-tachiara, lumoree lavolontdivengonoco-mediconoglipsichiatriego-sintonicied ilsuccesso assicurato. Gravi patologiedellumoreedelcomportamento,purtroppoormai sempre pi frequenti derivano invecedallego-distoniatra ilvolere, lidearee lese-guire, quei cosiddetti stati misti in cui sivuole ci che non si pu eseguire, o si pensaquanto non possibile neppure volere. Inquesti casi la continuit tra la speranza e ladisperazionesi fannopievidentinoncomeuna loppostodellaltra,perch ineffetti nonlo sono, ma piuttosto quali sensori contem-poraneidellarealeprobabilitcheuneventofavorevolesirealizzi.Uneccessoincontrolla-todisperanzaoltreilsensodirealtrappre-sentato nelle forme di euforia patologica,

    che inevitabilmente poi si perdono nella pitetradisperazioneenelmaleoscurodellade-pressioneclinica.Duecondizionichenonso-no isolate quanto continue e spesso ciclichetra loro.Non uncaso se gravi forme dima-linconia sono spesso prodotte dallincapaci-t di lasciar andare una speranza inutile, ilchesarebbeinveceunatteggiamentoconser-vativo evantaggioso.Si capiscequindi comeancheladisperazionepossaaveregrandeva-lore evolutivo, basti pensare a quanti indivi-dui si sono salvati ed hanno salvato il lorogruppodiappartenenzaperaverlasciatoan-dare giusto in tempo un progetto che nonmostravaalcunasperanzadi riuscire.Per farquesto per necessaria una buona dose diumiltediaccettazionedeipropri limiti,unamercesemprepiraraalgiornodoggiconsi-derato quanto il mondo occidentale orien-tato al successo comunque e ad ogni costo.Sonopassaticinquantannidallequattrodo-mandediTinbergena cui dobbiamo cercaredi rispondere, inmodocomplementareese-parato, per capire evolutivamente se le ten-denze biologiche ed etologiche a sperare odisperare possano avere cause prossimalioppure se siano solo funzioni adattative chegiustifichinolapermanenzanellanostraspe-ciedi trattidelcarattere tantoimportantiperlasopravvivenza.

    Ilprimopuntoriguardalassettobiologicoe genetico: vi sono individui pi predispostiasperareeavereunbuonumorecomecarat-teristica temperamentale rispetto ad altri; ilsecondo chiedersi come un simile trattoemerga durante lontogenesi e che cosa sipossa fare per favorirlo (un buon attacca-mentoallefiguregenitorialiperesempioaiu-

    ta); il terzoriguarda la filogenesidiquel trat-toerichiedeinuncasocomequestoricer-che multidisciplinari sulletologia dei mam-miferienonsolopiuttostocomplessee, infi-ne,dobbiamochiederciqualivantaggiconfe-riscapossederesimili caratteriper ricavarneun possibile guadagno evolutivo e quandoinvece no. Abbiamo visto che la speranza sitraduce in sopravvivenza (sia fisica che so-ciale) quando pu contare sulla ragionevoleprobabilit che levento sperato si realizzi,quandocio lepossibilitchequalcosasive-rifichi divengono significativamente mag-giori di quelle per cui potrebbe non accade-re.Nellasituazioneoppostainfattipivan-taggiosodisperarecheunprogetto si realiz-zi per ottenere un vantaggio evolutivo so-vrapponibileanchesedipolaritoppostari-spettoallinsistereadognicosto.Perchtut-to questo accada, perch linizio del cammi-no della speranza venga intrapreso e il cer-velloiniziadelaborareisuoisofisticaticalco-li che oscillano tra beneficio e rischio perassolutamentenecessariocheidatielabora-tinonsibasinosu falsepremesseosu infor-mazioni sbagliate.

    A questo scopo dedicata una porzionecompletamente diversa del cervello umanochehailcompitodioperareiriscontridireal-teinqualchemododiopporsialleconti-nue simulazioni del possibile successo chevengono portate avanti dalla nostra cortec-cia pre-frontale. Quando per la simulazio-ne viene progressivamente confermata dairiscontri di realt le chances di riuscire au-mentano. Una caratteristica dei falliti croni-ci, spesso per questo disperati, la tendenzaad ignorare i riscontri di realt cercando di

    costringere i fatti reali ai loro desideri pi omenodeliranti.

    Se, finalmente, la speranza ottiene dei ri-sultatitangibili, ilprimoprodottounagran-de carica di sano ottimismo che attrae gli al-tri come mosche al miele ed predittivo dinuoviemaggiorisuccessi; laddoveipessimi-sti sfogano la loroaggressivit sullecolpeal-trui e non imparano mai dagli errori com-messi disperandosi sempre di pi e facendoterra bruciata intorno a loro, gli ottimisti di-vengono a ragione sempre pi ottimisti.Il risultato che immancabilmente ne conse-gue molto contagioso. Cos come preferia-mo situazioni o sostanze che conferiscanopiacereeriducanolansiatendiamoadevita-requantoproduceangosciaedolore.Sebbe-nepossasembrarebanalequeste scelte si ri-flettono anche sul piano sociale nel cercare,in modo spasmodico a volte, di stare vicinoallepersonedibuonumore,chehannoener-gia e sono ottimiste, lasciando al loro desti-nomiserabilequellichesidisperanoecontri-buendo, in tal modo, al loro malessere. Visembra tutto troppo crudele? Certamente lo, ma levoluzione, come abbiamo avuto gimodo di riportare su queste pagine, non sicuradivaloricomebeneomale,giustoosba-gliato, se non in unottica puramente stru-mentaleallasopravvivenzadeipiadatti.Ri-cordandochelafaticachesicompiepergene-rareunpensieronegativooppureunopositi-vo assolutamente identica, non va dubbioche chi spera sia pi adatto a sopravvivere ecertamenteafarsopravvivereunafamigliaoun gruppo sociale, di chi invece non speramai inundomanimigliore.

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    Illustrazione di Guido Scarabottolo

    di Mauro Capocci

    N essuno in Italia si accortoche alle fine di novembre2013 se ne andato, allet diquasi novantanni il genetistaMarcello Siniscalco, uno dei protagonistiinternazionali degli studi di geneticaumana, in particolare degli adattamentigenetici alla malaria, nella seconda metdel Novecento. dal 1948 che gli adatta-menti genetici umani alla malaria sonooggettodistudio,daquandocio ilgeneti-sta inglese John Burdon Sanderson Hal-dane propose la cosiddetta malariahypothesis, cio che questa grave infe-zione, potenzialmente letale nella formadetta terzana maligna, costituisca unforte fattorediselezioneesia lacausadel-la diffusione di mutazioni genetiche checonferiscono protezione contro lamalat-tia. Poche settimane fa stato pubblicatosu Blood uno studio di grande importan-zacheevidenzia linterazionetraduetrat-ti del genoma (lalfa-talassemia e le va-rianti dellaptoglobina, una proteina delsangue) proprio in termini di protezionee suscettibilit alla malaria. In Italia que-ste ricerche hanno radici profonde: sindaglianniQuaranta lamicrocitemiasta-ta studiata dal punto di vista genetico, enei decenni successivi molte energie so-nostatededicateallostudiodelleemoglo-binopatieedi altrepatologie legateallen-demia malarica.

    Marcello Siniscalco faceva parte dellaprimagenerazionedi ricercatori chehan-no appreso la genetica in Italia, e nonallestero. La sua carriera scientifica ini-ziata in uno dei centri principali di studiodelleredit,aNapoli,sotto laguidadelpri-mo professore universitario di genetica,Giuseppe Montalenti. Sin dagli anni Cin-quanta Siniscalco si dedic alla geneticaumana, collaborando a diversi studi sullagenetica delle popolazioni, che in queglianni in Italia stava raggiungendo risultatiimportanti grazie agli sforzi di Ezio Silve-stroni e IdaBianco, i quali insiemeaMon-talenti avevano definito lorigine geneticadella microcitemia o anemia mediterra-nea o beta-talassemia, e avevano tentatodi avviare un vasto programma di scree-ning e prevenzione della malattia nellearee pi a rischio. Proprio nellambito diquesti studi Siniscalco inizi a lavorare inSardegna, dove le emoglobinopatie e altricaratteri legati alla storica presenzadellinfezionemalarica,avevanofrequen-zapialta. Il relativoisolamentodeipicco-li paesi sardi, di fatto, facilitava il lavorogenetico per lassenza di rimescolamentoereditario. A partire dagli studi geneticisulla microcitemia e altri tratti (condottiinizialmente anche con colleghi italianicomeRuggeroCeppellini),Siniscalcopub-blic una serie di articoli tra gli anni Cin-quanta e Sessanta sullemoglobina e altreproteine del sangue che lo proiettarono aun livello internazionale. In particolare,grazie alle indagini sulle popolazioni sar-dedimostr il legamedel favismo (ladefi-cienza dellenzima G6PD, glucosio-6-fo-sfatodeidrogenasi) conlapressioneselet-

    tivadellamalaria.Nel1963, ancheinsegui-to alla vicenda dello scandaloso concorsoche port in cattedra Luigi Gedda, lascilItaliaperprendere la cattedraalluniver-sit di Leyden, in Olanda. A testimonian-za,giallora,daunlatoilvaloredellascuo-la italiana, dallaltro dellincapacit di of-frire sbocchi ai talenti su cui tanto era gistato investito. DallOlanda Siniscalco sitrasfer allinizio degli anni Settanta negliUsa,aNewYork,primaallAlbertEinsteinCollege e poi al Memorial Sloan KetteringCancer Center, lavorando su pi aspettidella trasmissione genetica delle patolo-gie (in particolare quelle legate al cromo-soma X). Negli USA consolid i suoi lega-mi con llitedellageneticamondiale (ne-gliarchividi JamesWatson,unodeglisco-pritori della doppia elica, conservatamolta corrispondenza con Siniscalco), esfrutt anche questo prestigio per unim-presa ambiziosa: rientrare in Italia crean-do un centro di ricerca e formazione inSardegna,aPortoConte.Purtroppo,nono-stante linizialesupportodelministroAn-tonioRuberti,apocoapocoifinanziamen-ti promessi dal Cnr e dal ministero scom-parvero, e il centro non decollato comeSiniscalco sperava: doveva essere un luo-go di respiro internazionale, che permet-tesse il rientro di molti ricercatori italiani,ma rapidamente Siniscalco si rese contoche ci non sarebbe stato possibile. Difronteaisolitivizi italiani(comeraccon-t in unintervista al Times), rinunci alladirezione e torn negli Usa, dove ha con-cluso lasua lungacarriera allaRockefellerUniversity: nonostante gravi problemi disalute, ha pubblicato lultimo articolo nel2012. Sicuramente uno dei pi talentuosigenetisti italianidellasuagenerazione, te-stimone di alcuni dei pi fecondi filoni diricercabiomedica fondamentale, la storiadi Siniscalcoparadigmatica: uncervel-lo in fuga, capace di competere a livellointernazionale e al tempo stesso allonta-nato dal suo paese di origine. Una tristestoria,esemplificativadellevicendeitalia-ne della genetica passata attraverso unboom nel dopoguerra per poi incontrareuno stallo che ne ha diminuito il prestigionazionalee internazionaleedellascien-za, sistematicamente svilita da una classepolitica miope e incapace di capire comela valorizzazione della cultura scientificasiauna chiave di svilupponazionale.

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    di Mario De Caro

    I ndovinello della domenica: sapre-stedire qual lascienzadelle solu-zioniimmaginarie,cheaccordasim-bolicamente ai lineamenti le pro-prietdeglioggettidescrittiperlalo-ro virtualit? Nel caso brancolastenel buio, ecco la risposta: la Patafisica, cheil geniale Alfred Jarry fond perch, diceva,se ne avvertiva veramente il bisogno. InrealtlunicobisognochelaPatafisicasoddi-sfacevaeradi farsibeffedellepresuntenuo-ve branche della filosofia che vengono pre-sentateallorbetuttoacolpidigrancassa,sal-vo spirare ben presto per la mancanza delfamoso quid. Oggi, in effetti, chi si ricordapidellaprasseologiaodella faneroscopia?

    Generalizzare, per, sarebbe un errore.Nontutte lenuovedisciplinefilosoficheso-no velleitarie e ineluttabilmente destinatealloblio: ve ne sono di fiorenti comelestetica, la metaetica o la logica simbolica che hanno atti di nascita relativamenterecenti rispetto alle plurimillenarie vicen-de della filosofia. E da pochissimo sortaunaltra disciplina filosofica cui ragione-vole prospettare un futuro radioso. Si trat-tadellaneuroetica,disciplinabattezzatauf-ficialmente nel 2002 dal giornalista delNew York Times William Safire. Per capireperchquestadisciplinasiadestinata adu-rare consigliabile leggere Tutta colpa delcervello. Unintroduzione alla neuroetica, in-formatissimo e molto leggibile volumescritto da Gilberto Corbellini, studioso distoriadellamedicinaecollaboratoredelDo-menicale, ed Elisabetta Sirgiovanni, filoso-fa delle scienze cognitive di stanzaal Cnr.

    Ma cos la neuroetica? Secondo lormaiclassica definizione della filosofa e neuro-scienzata Adina Roskies, si tratta di una di-sciplina filosofica bipartita: da una parte, sioccupadelleticadelleneuroscienze;dallal-tra,delleneuroscienzedelletica. Inentram-bi i casi sono in gioco questioni di granderilevanza teorica e pratica e questo volumelo mostra benissimo, discutendo con chia-rezza e originalit della neuroetica clinica edel ruolo conoscitivo delleneuroimmagini,del potenziamento cognitivo e delle radicievolutivedellamorale.

    Sullo sfondo di queste discussioni si sta-gliapoiunaquestione pigenerale: quantocontano leneuroscienzenellacomprensio-nedelpensieroedellagireumani?Secondoalcuni, i cosiddetti neuromaniaci, conta-no moltissimo e stanno ormai soppiantan-do la filosofia, lapsicologiae lealtre scienzeumane.Secondoaltri, icosiddettineurofo-bici, leneuroscienzesonoinvececostituti-vamente incapaci di comprendere moltedellecaratteristichefondamentalidelmon-do umano. Tra neuromania e neurofobia,

    Corbellini e Sirgiovanni ricercano ragione-volmenteuna terzavia.Ma incasi del gene-re difficile porsi esattamente nel mezzotraduepunti di vistaopposti: e limpressio-ne che si ricava dal libro che, se propriodovessero scegliere di buttare gi dalla tor-re il partito dei neuromaniaci o quello deineurofobici, i nostri autori preferirebberosenzaeccessive esitazioni il secondo.

    Corbellini e Sirgiovanni riconoscono chelecomuniconvinzioniriguardoallarespon-sabilitmorale, lalibert, ladignitelarazio-nalit sono essenziali per la capacit uma-nadirealizzareunmaggiorbenessere,ridur-re la sofferenza e mettere sotto controllo ipregiudizi che costantemente minacciano

    la qualit delle relazioni umane. A loro pa-rere,per, gli studineuroscientificimostra-nochetaliconvinzionisonosoltantobenra-dicate illusioni. Per comprendere il senso diquestaposizioneutileguardareallinterse-zionetraneuroscienze, eticaediritto.

    Il volume mostra in modo convincentechelaricercaneuroscientificaequellagene-tica stanno modificando profondamente ilmodoincuiconcepiamolacondizioneprin-cipale della punibilit delle azioni crimino-se, cio la capacit di intendere e di voleredellimputato. Detto altrimenti: una granmesse di dati scientifici prova che i fattoriche determinano i nostri comportamenti,senza che ne siamo coscienti, sono moltopirilevantidiquantocomunementesi im-magini. Anzi, per Corbellini e Sirgiovanni

    siamo ormai legittimati ad affermare chenessunodinoimaimoralmenteresponsa-bile, almeno nel senso classico del termine:ovveronessunoingradodicompiereazio-ni autodeterminandosi consapevolmente.E ci perch in un senso molto credibile"siamo tutti burattini": gli effetti combinatidigeni eambientedeterminano tutte leno-streazioni.

    Coerentemente con queste premesse, inostri autori perorano con circostanziatiargomenti labbandono del classico idealeretributivistico della pena, secondo cui giusto punire tutti e solo gli individui chelo meritano, ossia quanti hanno compiutoreati intenzionalmente e senza essere incideterminati.Ma questa condizione, se-condo i nostri autori, non si verifica mai:dunquenessunomeritamaidiesserepuni-to. La via da seguire, dunque, quella delcosiddetto conseguenzialismo, per ilquale vanno comminate solo le pene cheincrementano lutilit sociale.

    Sonoquievidentementeingiocoiconcet-ti cardine della visione del mondo ordina-ria, come responsabilit, colpa, retribuzio-ne,merito, liberoarbitrio.C allorada spe-rare che questo ottimo volume dia lavvio aundibattitononviziatodatoniantiscientifi-ci e ideologici, come troppo spesso accadedanoi.Puntidivistaalternativisuquesti te-mi ovviamente non mancano. Alcuni (ispi-ratidaRogerPenrosee JohnSearle)sosten-gono per esempio che la concezione deter-ministicadellagireumanonon possaesse-re data per scontata, perch lindetermini-smo quantistico potrebbe riverberarsi a li-vellomacroscopico. Altri, da una prospetti-va neokantiana, sostengono che la visionescientificadelmondoequellaordinaria so-noincompatibili,mavalgonosupianidiver-si. Altri ancora, dallottica di un naturali-smo non riduzionistico, affermano che en-trambe le visioni del mondo sono irrinun-

    ciabilima nonsono incompatibili tra loro.Inquestultimaprospettiva,sipuripren-

    dere il giudizio del grande giurista H.L.A.Hart,secondocuilidealeretributivisticodel-lapenanonpuesseredeltuttoabbandona-to.Lideacheunavisionecorrettadellape-na debba coniugare il conseguenzialismocon la componente negativa del retributivi-smo, per la quale lecito punire soltanto chilomerita. E ci perch si possono concepirecasiincuiilcalcolodellutilitsociale,secon-do i dettami del consequenzialismo puro, ciporterebbeapunireun innocente, facendo-neun capro espiatorio (na questa obiezio-nebastarisponderechepuniregli innocenti pratica socialmente dannosa e dunqueinaccettabile per il conseguenzialismo: an-che questa risposta si espone infatti a con-vincenti controesempi).

    Insomma, forse non possiamo rinuncia-re del tutto allideale retributivo della pena.E tuttavia questo ideale indissolubilmen-telegatoaiconcettidicolpa,merito, respon-sabilit e libero arbitrio. Il problema diven-taalloraquellodireintepretaretaliconcetti,senza tradirne la natura e mostrandone lacompatibilit con la visione scientifica delmondo. Un compito non da poco, ma cheforse vale la pena intraprendere. Ma qualeche sia laposizione che si assume rispetto aquesti temi, il volumediCorbellini eSirgio-vanni mostra che linterazione tra filosofia,scienza,diritto interazioneche laneuroe-tica incarna nel modo migliore genera al-cune dellepi importanti e feconde discus-sionidelnostro tempo.Checchnepensinoipatafisici di tutte le risme.

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    Gilberto Corbellini, ElisabettaSirgiovanni, Tutta colpa del cervello.Unintroduzione alla neuroetica,Mondadori Universit, Milano, pagg.240, 28,00

    ricordo di marcello siniscalco (1924-2013)

    Il genetistadella malaria

    Per Corbellini e Sirgiovanniva ridefinita la capacitdi intendere e di voleree abbandonato il classico idealeretributivistico della pena

    evoluzionaria

    Utili e inutili speranze

    Nutrire aspettative su eventiirrealizzabili spesso causadi patologie depressive.Sperare deve implicarela ragionevole certezza di farcela

    Venerd a Perugia il Manuale dei Diritti con il ministro GianniniVenerd 28, alle ore 18 a Perugia (Sala dei Notari -Palazzo dei Priori), sar presentatoil Manuale dei Diritti Fondamentali e Desiderabili a cura di Paola Severinie Chiara Di Stefano (Mondadori). Intervengono il ministro allIstruzioneStefania Giannini (foto), Maria Pia Ammirati, Wladimiro Boccali, Ilaria Borletti Buitoni,Fabrizio Bracco, Brunello Cucinelli, Anna Procaccini Fo. Modera Armando Massarenti

    india | Siniscalco (in piedi) e J.B.S. Haldanenella giungla dellAndra Pradesh nel 1964

    neuroetica

    Non colpa di nessunoLeffetto combinatodi genetica e ambientedetermina le nostreazioni al punto dastravolgere il concettodi colpa e punizione