NIM.libri . Numero 5 . Giugno 2006

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IN QUESTO NUMERO: AA.VV. Little Nemo. 1905-2005 Un secolo di sogni p. 2 Jean Baudrillard Il patto di lucidità o l'intelligenza del male p. 3 Fulvio Carmagnola Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy p. 4 Noam Chomsky, Michel Foucault Della natura umana. Invariante biologico e potere politico p. 6 Maria Rosaria Dagostino Cito dunque creo. Forme e strategie della citazione visiva p. 7 Jaime D’Alessandro Play 2.0. Storie e personaggi nell'era dei videogame online p. 8 Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di) Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle reti p. 9 Marcello Pecchioli (a cura di) Neo televisione. Elementi di un linguaggio catodico glocal/e p. 11 Giovanni Ragone L’editoria in Italia. Storia e scenari per il XXI secolo p. 12 Elisabetta Sibilio Lautréamont lettore di Dante p. 13 Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia http://www.nimmagazine.it/bookreview/ Numero 5, giugno 2006

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Il quinto numero di NIM.libri, rubrica di recensioni di NIM magazine http://www.nimmagazine.it

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IN QUESTO NUMERO:

AA.VV.Little Nemo. 1905-2005 Un secolo di sogni p. 2

Jean BaudrillardIl patto di lucidità o l'intelligenza del male p. 3

Fulvio CarmagnolaIl consumo delle immagini.Estetica e beni simbolici nella fiction economy p. 4

Noam Chomsky, Michel FoucaultDella natura umana. Invariante biologico e potere politico p. 6

Maria Rosaria DagostinoCito dunque creo. Forme e strategie della citazione visiva p. 7

Jaime D’AlessandroPlay 2.0. Storie e personaggi nell'era dei videogame online p. 8

Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di)Dopo la democrazia?Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle reti p. 9

Marcello Pecchioli (a cura di)Neo televisione.Elementi di un linguaggio catodico glocal/e p. 11

Giovanni RagoneL’editoria in Italia. Storia e scenari per il XXI secolo p. 12

Elisabetta SibilioLautréamont lettore di Dante p. 13

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AA.VV.LITTLE NEMO. 1905-2005 Un secolo di sogniCoconino Press, Bologna, 2005.pp. 104, € 24ISBN: 88-7618-021-4

Recensione di marcello serra

Mi si perdoni la premessa, ma forse non tutti conoscono Little Nemo. Si tratta di un fumetto di WinsorMcCay che venne pubblicato dal 1905 al 1914 e poi dal 1924 al 1927 nel formato della tavola domenicalea colori allora in voga nei quotidiani. Le avventure raccontate avevano luogo nel meraviglioso mondo deisogni di Nemo, un bambino che, immancabilmente, alla fine della tavola e degli eventi si risvegliava nel suoletto. Nella storia del medium si tratta di un’opera paragonabile per importanza a quella di Griffith nelcinema, ma che conserva una freschezza molto superiore; i ritmi del racconto si mantengono infatti assolu-tamente moderni e ancora oggi si resta incantati dalla maestria grafico-narrativa che lo contraddistingue.Questo libro ne celebra il centenario.

Ma che cosa c’è dentro questo elegante volume? Com’è organizzata la festa e chi sono gli invitati? Il per-corso è duplice: visivo e testuale, ovvero, seppur con sconfinamenti, artistico e critico. Sul primo versante,e spesso a commento dei testi, possiamo leggere – ma si tratta poi di una lettura? – alcune tavole di LittleNemo, con i colori smaglianti di un ottimo restauro digitale ed un formato abbastanza grande per farceleapprezzare. A queste sono accostati gli omaggi di alcuni dei più grandi fumettisti contemporanei, che siconfrontano con l’opera di McCay secondo il proprio stile ed immaginario. In alcuni casi ci si trova davan-ti ad autentiche perle (a parte quelle di McCay segnalo su tutte le tavole di François Schuiten) e dispiacedavvero non potercisi soffermare.

Doverosamente andiamo invece ai brevi saggi che completano il libro, a firma di studiosi prevalentemen-te franco-belgi e di provenienza intellettuale eterogenea. L’opera di McCay viene analizzata secondo le suecaratteristiche linguistiche oppure ideologiche, nelle connessioni tra il sogno e il linguaggio del fumetto,nelle sue differenze rispetto al tema con il nascente approccio psicoanalitico, nei suoi sconfinamenti nel-l’animazione – di cui McCay fu uno degli inventori oltreoceano – oppure nella sua fortuna critica. Non cisi attenda dunque un discorso e un metodo omogenei, poiché la forma è piuttosto quella di una collezioneed il modello a mosaico ricorda, per certi versi, quello della vetrata (o della vetrina): lo stesso delle tavoledel nostro Piccolo Nessuno.

Peraltro, è proprio per questa ragione che l’approccio più interessante si rivela quello del bel saggio d’aper-tura, ad opera di Thierry Smolderen, che ripercorre attraverso la vita di McCay i luoghi e le esperienze all’ori-gine della sua arte come dell’industria culturale novecentesca. È alla sua esperienza formativa come artista ambulante, a stretto contatto con i mostri più o meno autenticiche popolavano le fiere ed i luoghi del divertimento popolare, che si devono infatti le sue anticipazioni di temicentrali per la cultura di massa come quello del pianeta delle scimmie o dell’animale che distrugge la città.

Allo stesso modo risulta fondamentale nel suo percorso l’Esposizione Universale di Chicago del 1893 ela sua architettura “da vacanza”, la sua illusione, il suo statuto festivo e temporaneo come i media su cuiMcCay deciderà di esprimere la propria arte: quotidiani, ritratti-lampo, manifesti per il circo, illustrazionipubblicitarie, spettacoli di music hall.

Poi, in un percorso che collega l’archeologia dei media all’esperienza del virtuale, troviamo il nostroautore affascinato dai parchi dei divertimenti, il cui mondo di trucchi, destinato a provocare il massimodelle sensazioni corporee, influenza la sua evoluzione fumettistica da uno schema rigido e immutabile, cine-matografico, all’immersione in uno spazio fluido ed in continua trasformazione. Così, osserva Smolderen,egli giunge ad «una concezione della pagina capace di riportare su carta i bruschi cambiamenti di livello ecerti scarti del terreno tipici dello Steple Chase Park. [...] Non si tratta più di assistere passivamente a unospettacolo rappresentato su una scena o uno schermo (e dunque iscritto in uno schema immobile), ma diinvitare il lettore a tuffarvisi, per vivere le avventure “in prima persona”». È il modello del fumetto comeparco dei divertimenti ed un esempio di lettura immersiva di estrema attualità.

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Del resto, per concludere citando il brillante contruibuto di Henri Van Lier a questo volume, se«ammettiamo che a caratterizzare antropologicamente un secolo non siano tanto delle opere particolari,anche se insigni, quanto i nuovi mezzi [...] allora le rivoluzioni antropologiche maggiori del Ventesimo seco-lo sono, senza dubbio, più che Joyce o Picasso, la Fotografia (Talbot, 1840) e il fumetto (McCay, 1905),entrambi granulari, quantiche, digitali anche se ancora analogiche».

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Jean BaudrillardIL PATTO DI LUCIDITÀ O L’INTELLIGENZA DEL MALE [Ed. or. Le Pacte de lucidité ou l’intelligence du Mal, Editions Galilée, 2004]Traduzione di Alessandro SerraRaffaello Cortina Editore, Milano, 2006.pp. 185, € 19,00ISBN 88-6030-003-7

Recensione di Luca Massidda

Che succede quando il mondo diventa matrice? O, per dirla con le parole usate dallo stesso Baudrillard,quando la realtà, satura del suo stesso principio, si fa Realtà Integrale, potenza assoluta, progetto operazio-nale senza limiti? Succede che, per rimanere alla “metafora matriciale” da cui siamo partiti, dobbiamocominciare tutti a fare il tifo per l’agente Smith, stringere con questo genietto maligno un patto di lucidità,condividere l’intelligenza del Male di questa sorta di agente virale e autodistruttore. Dobbiamo mettercidalla Parte del Male, partecipare alla disgregazione suicida che la Potenza rivolge contro se stessa, assumer-ci la responsabilità di quella denegazione radicale che il Sistema sta spontaneamente germogliando. È que-sto l’annuncio che viene oggi a recarci colui che già fu il messaggero del simulacro. Visto che il tono che stia-mo prendendo è assolutamente – e non metaforicamente – apocalittico converrà precisare subito che lostrumento principale di questa violenta abreazione, di questo irriducibile antagonismo è l’Ironia («unagigantesca ironia obiettiva, […] un’intuizione superiore dell’illusione di questo processo», scriveBuadrillard), il suo ambito è il Gioco, la sua filosofia la Patafisica.

Ora, non credo sia possibile restituire la ricchezza, a volte irritante, più spesso affascinante, con cuiBaudrillard ci sommerge (anche) in questa occasione. Possiamo però provare a focalizzare l’attenzione suquegli aspetti o fenomeni della Realtà Integrale che meglio ce ne restituiscano l’ambigua complessità.Il primo tema è quello delle immagini e dell’immaginario.

Viviamo in un’epoca dall’immaginario ipertrofico, obeso e onnivoro, straripante e totalizzante. Glischermi ci grandinano addosso una quantità inimmaginabile di immagini. Le consumiamo con una voraci-tà inferiore soltanto alla frenesia con cui le produciamo. Nulla accade senza che si trasmuti in una immagi-ne. A nessuno è preclusa l’opportunità di produrre immagini. È uno dei grandi doni del digitale. Eppuresiamo iconoclasti, ci dice Baudrillard: «malgrado il nostro culto degli idoli, noi siamo sempre degli icono-clasti: distruggiamo le immagini sovraccaricandole di significato, uccidiamo le immagini attraverso ilsenso». Assurdo. Ma di un’assurdità condivisibile. E condivisa: «Dovremo forse concludere che la condi-zione postumana è una condizione in cui e di cui non si danno immagini ?» (Franco Rella, Pensare perFigure). Non si danno immagini perché non ci sono immagini. La Realtà Integrale, uccidendo il reale e ilsuo principio, il suo senso e la sua rappresentazione, si macchia anche dell’omicidio dell’immagine.

È esattamente – e inevitabilmente – lo stesso destino che tocca in sorte all’arte contemporanea: «è ine-sistente, perché tra essa e il mondo si ha solo un’equazione perfetta». Quest’arte ormai contemporanea soloa se stessa, si rispecchia perfettamente nel non-godimento di uno spettatore che “consuma letteralmente ilfatto di non capirci niente e di non vedere alcuna necessità in tutto questo – nessuna, se non l’imperativodella cultura, dell’affiliazione al circuito integrato della cultura”. Proprio come Remo e Augusta (AlbertoSordi e Anna Longhi) nelle loro vacanze intelligenti alla Biennale, ma meno consapevole, forse più chic,magari meno inadeguato, sicuramente meno ironico.

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A questa crisi radicalmente moderna del sistema mondo non può sfuggire il tempo. Ammalatosi già apartire dal XIX secolo, ma di una schizofrenia lucida e folle, il tempo sembra oggi sul punto di precipita-re in un coma profondo, privo di sussulti, assoluto. Un tempo in cui nemmeno l’istante, lo choc ha piùsenso; un istante in cui non si consuma più il non-ancora/non-più di un presente inafferrabile ma soltantol’astrazione assoluta di un tempo ironicamente definito reale. Un tempo che cerca di anestetizzare il mondoannullando la potenzialità dell’evento.

Ma l’anomalia è paradigmatica e nuovamente mette in scacco ogni pretesa di totalità. L’evento precipi-ta nel tempo come un fulmine, come un aereo scagliato contro una torre. Il terrorismo come doppiomostruoso clonato da un sistema ormai troppo vicino alla sua formula definitiva, un malefico fiore che lapotenza ha premurosamente coltivato contro se stessa.

Questo di Baudrillard è dunque un libro compiutamente moderno perché animato da una tensionecostante ad esporre l’inferno, a mostrare l’ambivalenza irrisolvibile di un mondo che voleva essere princi-pio e fine di stesso. A ogni imperativo di questo mondo che si illude di poter essere Assoluto e IntegraleBartleby-Baudrillard risponde I would prefer not to, annunciandoci così l’indefettibile trionfo della dualità:“è la dualità che frantuma la Realtà Integrale, che spezza ogni sistema unitario o totalitario attraverso ilvuoto, il crash, il virus, il terrorismo”. Crash, virus, terrorismo. Agente Smith…

Jean Baudrillard, eminente figura del panorama culturale internazionale, è filosofo e sociologo. Tra le sueopere tradotte in italiano, Il sistema degli oggetti (Milano 1972), Lo scambio simbolico e la morte (Milano1984) e, per Raffaello Cortina, Il delitto perfetto (1996), Lo spirito del terrorismo (2002) e Power Inferno(2003).

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Fulvio CarmagnolaIL CONSUMO DELLE IMMAGINI. Estetica e beni simbolici nella fiction economyBruno Mondadori, Milano 2006.pp. 240, € 19,00ISBN 88-424-9313-9

Recensione di Stefano Mizzella

Benvenuti nel deserto della fiction economy. Un ossimoro seducente quanto problematico costituisce ilnucleo centrale dell’ultimo lavoro di Fulvio Carmagnola. Consumare le immagini significa accettare unparadosso, prendere parte al gioco perverso per cui l’aspetto simbolico della merce diviene il metro valo-riale della merce stessa. La moneta sonante dell’economia finzionale è dunque un simbolo opaco, immagi-nario, privo della sua antica funzione di rappresentanza. L’economia dei beni simbolici (Bourdieu) trova lapropria ragion d’essere in un’inedita tipologia di merce immaginaria o finzionale, nella quale è il virtuale aprevalere sul reale, il fantasma sulla materia. All’estetica non rimane che confrontarsi e confondersi conl’economia, mutare il proprio codice di appartenenza per adeguarsi al potere fantasmatico della brand. Èquesto il punto di non ritorno del passaggio dalla merce marxiana all’economia libidinale (Lyotard). Unprocesso che condurrà, attraverso la definitiva legittimazione del desiderio nel piano dello scambio econo-mico, alla presa d’atto di una struttura immaginaria della merce.

Carmagnola entra nel vivo della discussione con l’accuratezza a cui ci hanno abituato le sue precedentiproduzioni. Il suo sguardo è come al solito capace di tenere uniti, proprio come nell’ossimoro che perva-de tutto il testo, elementi apparentemente inconciliabili. Il suo modus operandi risente delle influenze diquei pensatori – primo tra tutti lo Slavoj Zizek a cui l’autore dedica l’appendice – che si trovano a proprioagio nel mandare in corto circuito qualsiasi presunta coordinata culturale. Alto e basso si annullano in unatrattazione che mischia seducentemente la filosofia e la fantascienza, la psicoanalisi e le strategie di marke-ting, la cultura del libro e quella dell’audiovisivo.

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D’altra parte non potrebbe essere diverso l’approccio di chi voglia davvero entrare in quel magma indefi-nito che abitualmente definiamo nei termini di immaginario collettivo. Un immaginario, precisa l’autore, ilquale oggi più che mai «non appartiene più all’altrove creato dalla facoltà creativa dell’immaginazione mapiuttosto è diventato la forma estetica portante di un’economia fondata sulla comunicazione mediale».Un’economia, quest’ultima, in cui il tempo del consumo è direttamente partecipe della generazione di valoree in cui i simboli devono perdere il loro primitivo vincolo sociale e culturale (Nancy) per divenire logo, brand.

La pillola rossa offertaci da Carmagnola è il viatico necessario per oltrepassare l’ambiguità e la pervasivi-tà dei “simboli immaginari” che caratterizzano il nostro tempo. L’opacizzazione del simbolico, accompagna-ta a una parallela dislocazione del simbolo sul piano economico, sono le cause principali dell’utilizzo com-merciale e transpolitico del simbolo stesso, processo leggibile tanto nelle magliette con l’effigie del “Che”quanto nell’orecchino a forma di croce indossato da Madonna. La “seconda démarche” è dunque il passag-gio catastrofico dal dominio del Simbolico all’affermazione attuale dell’Immaginario. Laddove il primo èordine e stabilità, il secondo è confusione e frammentarietà. Si parla di “management dell’immaginario” nelmomento in cui i simboli si trasformano in icone opache, “artefatti maneggevoli” che cambiano continua-mente natura (fumetto, cinema, videogame, romanzo) all’interno dell’attuale ambiente narrativo. I fantasmidi un certo situazionismo si dissolvono tuttavia di fronte alla presa d’atto dell’impossibilità di sottrarsi algioco dell’immaginario così come non vi è possibilità di sottrarsi al gioco delle merci. L’immaginario nondeve più essere allora letto solo come perversione del simbolico, bensì come la presa d’atto della sua consa-pevolezza definitiva. L’esito è confortante: «forse i simboli sono sempre stati immaginari. Il fatto che ora cene accorgiamo, grazie all’avvento della cultura mediale, può essere fonte di lutto ma anche di liberazione».

È proprio su questo terreno, per certi versi ancora poco battuto, che si muovono i tanti esempi di cui siserve Carmagnola che attinge, come detto in precedenza, da ambiti e discipline tra loro diversissime. Bastiqui ricordare la rilettura in chiave post-human dell’Antigone di Judith Butler o la reinterpretazione delBarocco in chiave cyberpunk operata dalla letteratura e dal cinema di fantascienza degli ultimi anni. Inentrambi i casi, simboli immaginari di una confusione di piani, di una mescolanza di livelli capace didistruggere il senso ma, allo stesso tempo, di generare nuovi codici interpretativi, nuovi simboli, nuoviimmaginari. Inediti scenari in cui viene meno qualsiasi illusorio e nostalgico tentativo di separare il pianodella fiction da quello della presunta realtà. La medesima “realtà virtuale” che caratterizza, seppur in modidiametralmente opposti, il feticismo di Victor e l’ossessione per il gusto di Cayce, protagonisti rispettiva-mente di Glamorama (Brett Easton Ellis) e di Pattern Recognition (William Gibson).

Non casualmente il percorso di ricerca proposto dall’autore si chiude con la figura di Xiao-xiao, loStickman creato da un giovane artista cinese che, nato nell’underground della rete, è diventato non solotestimonial pubblicitario, ma anche esempio perfetto delle dinamiche più moderne di marketing virale.«Xiao-xiao gioca con la merce nel suo stesso terreno», ibridando tra loro il piano estetico e quello econo-mico. È questo il monito decisivo che Carmagnola ci lancia in chiusura del suo lavoro. Il comportamentoestetico all’interno dell’economia finzionale può e deve essere un comportamento critico: giocare la mercee le sue immagini sul loro stesso terreno. Strategie tricky, dunque, attuabili purché il gioco non si svolga aldi fuori del dominio della merce bensì al suo interno, generando nuove e inaspettate potenzialità di sensonelle stesse pieghe della merce.

Fulvio Carmagnola insegna Educazione estetica presso la Facoltà di Scienze della formazionedell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pulp Times. Immagini deltempo nel cinema d’oggi (con Telmo Pievani, Meltemi, Roma 2003); Plot, il tempo del raccontare nel cinemae nella letteratura (Meltemi, Roma 2004); Synopsis. Introduzione all’educazione estetica (con Marco Senaldi,Guerini e Associati, Milano 2005).

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Noam Chomsky, Michel FoucaultDELLA NATURA UMANA. Invariante biologico e potere politico[Ed. or. Della nature humaine: justice contre pouvoir, Editions Gallimard, Paris, 1994]Traduzione di Ilaria Bussoni e Marco MazzeoDeriveApprodi, Roma, 2005.pp. 144, € 12,00ISBN 88-88738-70-3

Recensione di Manolo Farci

«Signore e signori, benvenuti al terzo appuntamento dell’International Philosopher’s Project. Gli invi-tati di questa sera sono Michel Foucault del Collège de France e Noam Chomsky del MassachusettsInstitute of Technology. I percorsi dei due filosofi convergono su alcuni punti e divergono su altri. Forsepotremmo paragonarli a due operai che stanno scavando un tunnel alla base di una montagna, ciascuno daun lato e con strumenti diversi, senza sapere che si incontreranno».

Nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault si incontrano a Eindhoven per partecipare ad un dibatti-to televisivo organizzato dal giornalista Fons Elders. L’argomento su cui sono invitati a confrontarsi è il con-cetto di natura umana: siamo il prodotto di fattori esterni oppure possediamo delle facoltà intrinseche checi consentono di riconoscerci nella specificità di essere umani? Di fronte ad un tema così vasto, i due gio-vani filosofi si muovono in parallelo, scavano due tunnel che sembrano solo sfiorarsi: troppo distanti gliapprocci, troppo differenti gli strumenti d’analisi utilizzati.

Chomsky, studioso di scienze cognitive, trova il fondamento della natura umana nell’insieme di queiprincipi organizzativi innati che consentono all’uomo di sviluppare, a partire da un numero limitato diconoscenze di base, una struttura altamente complessa come il linguaggio: esiste un dato biologico immo-dificabile che costituisce il fondamento delle nostre attitudini mentali.

Foucault, al contrario, non accetta l’idea che possa esserci un concetto naturale e innato come la naturaumana; per il filosofo francese, l’idea di natura umana non ha fondamento ontologico, ma è semplicemen-te un indicatore epistemologico nato da una particolare predisposizione delle conoscenze che ha consenti-to alla biologia del XVIII secolo di affermarsi come dominio scientifico.

La posizione dei due filosofi non può essere più distante: Chomsky punta a ritrovare quegli schemi nor-mativi fissi che consentono alla nostra mente di sviluppare la creatività linguistica, mentre Foucault è inte-ressato a definire la dimensione storico-sociale di ogni forma di conoscenza, per ritrovare quell’insieme diregole ed enunciati – l’episteme – che andranno a definire la specificità scientifica di un qualsiasi concetto.Si tratta di due prospettive differenti: Chomsky volge lo sguardo all’interno per ritrovarne una condizioneumana metastorica, Foucault guarda all’esterno, alle griglie storiche che consentono all’uomo di concettua-lizzare come tale una sua presunta natura.

Se sulle prospettive teoriche i due filosofi sembrano sfuggirsi, le cose cambiano nel momento in cui sidiscute su «la possibilità di ricavare un modello di società giusta da certe prerogative biologiche dell’animaleumano». Qui inizia l’attrito. Chomsky considera la lotta politica direttamente legata alla necessità di giunge-re a una forma di giustizia più alta, dove l’uomo possa dispiegare liberamente quelle facoltà creative e queiprincipi di libertà, dignità e comprensione reciproca che gli sono innati. È possibile, cioè, creare una teoriasociale umanistica che sia basata su una certa concezione della natura umana. Foucault è in totale disaccordo:la natura umana non può essere né definita, né quantomeno utilizzabile come base assoluta su cui fondare unanozione di giustizia autentica. Giustizia che funziona sia come uno strumento di potere per gli oppressori, siacome arma di lotta sociale degli oppressi. Il filosofo francese parla chiaro: «non può impedirmi di pensare chele nozioni di natura umana, giustizia, realizzazione dell’essenza umana siano termini e concetti che si sonocostituiti all’interno della nostra società, del nostro tipo di sapere, nella nostra filosofia» e che dunque non sipuò pretendere di utilizzarli come arma per abbattere le fondamenta di quella stessa civiltà che li ha definiti.

Chomsky e Foucault non avranno più occasione di incontrarsi e confrontarsi. Ma le questioni emerse daquel lontano dibattito continuano ancora a interrogarci con la loro stringente attualità.

Ne è un chiaro esempio – e lo sostiene Paolo Virno con un saggio in appendice al libro – la vicenda deimovimenti di contestazione no global. Estranei a tematiche classiste e di stampo marxista, le nuove formedi contestazione paiono seguire le idee di Chomsky e lottare «più per la giustizia che per il potere», in dife-

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sa di quelli che considerano elementi di fondo e prerogative del genere umano. Ma qualsiasi linguaggio cheparli in nome di una solidarietà e di una forma di giustizia più pura – come ci ricorda Foucault – nondovrebbe mai dimenticare le identità che ne costruiscono gli statuti e i campi di riferimento.

Leggendo quel lontano dibattito potremo fare riferimento anche alle tematiche relative al postumano, conil suo tentativo di riscrivere la storia dell’uomo come una storia dell’abitare tecnico dei corpi. Dovremo allo-ra domandarci se invece di seguire Foucault nella sua “morte dell’uomo biologico” non sia necessario ritro-vare un invariante biologico nella nostra specifica storia filogenetica e nei suoi processi di adattamento empi-rico all’ambiente e farne un fertile indicatore per immaginare i possibili sviluppi di una umanità futura.

Noam Chomsky è conosciuto in tutto il mondo per i suoi numerosi saggi di linguistica e scienze cognitive.Docente del MIT di Boston è altresì noto per le sue numerose critiche alle politiche statunitensi e ai feno-meni di globalizzazione economica.

Michel Foucault è stato tra i maggiori innovatori del pensiero filosofico del Novecento. Si è occupato disistemi disciplinari, modelli punitivi, storia della sessualità, pratiche mediche.

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Maria Rosaria DagostinoCITO DUNQUE CREO. Forme e strategie della citazione visivaMeltemi, Roma, 2006.pp. 216, € 18,50ISBN: 88-8353-450-6

Recensione di Alessandro Imbriano

L’indagine sociosemiotica di Maria Rosaria Dagostino sulla citazione visiva (cit-azione per l’autrice) siinnesta sul discorso inaugurato da Franco Speroni nel suo straordinario, elegantissimo e utilmente inutilesaggio sulla rovina simmelliana. Contrariamente a quanto accadeva in La Rovina in scena, però, Cito dun-que creo rilancia l’appeal dei linguaggi del Sapere, lascia che “il presente del ricordo” si areni sugli scoglidel “ricordo del presente”, si risolve in un perentorio elogio del comb-attante, si autopreclude alla fascino-sa e irrisolvibile (fascinosa forse proprio perché irrisolvibile) enigmaticità delle forme di vita post-storicheo della Quotidianità, lascia che una Donna, nevroticamente, parafrasando Paolo Virno (“Il ricordo del pre-sente”, Bollati Boringhieri), rimanga amata solo in virtù di ciò che questa possiede di Amabile (ma non siama solo ciò che non è?). Ostinatamente Moderno manca di mancare il Bersaglio: questo il limite ma anchela ragione dell’interesse – qualora si decretasse importante il destino del discorso universitario più che del-l’università – che suscita questo gustoso passo falso di cui si arricchiscono i visual studies.

Eppure il libro i luoghi topici della fioritura contemporanea del senso e del suo sottrarsi li frequentatutti: dalla pubblicità all’anti-pubblicità, dal marketing delle multinazionali al de-marketing, dalle strategiedi sopravvivenza dei piccoli centri di autoproduzione del neorealismo pubblicitario e dal tema della mortedel concetto di autore al culture jamming, dalle périgraphie (ovvero le soglie come luogo simbolico del néfuori né dentro, secondo Compagnon) al vuoto come plurireferenza, dal discorso indiretto libero alla com-puter art, dalla cultura popolare dei proverbi agli stereotipi, alla mitologia. A fare da collante il concetto dicit-azione, il cui statuto semiotico è scrupolosamente indagato nella prima parte del libro, e la cui funzioneè delucidata soprattutto metaforicamente da Dagostino nella spiegazione del funzionamento della frizione,cioè «il meccanismo che nelle nostre autovetture permette una solidarietà tra gli alberi coassiali che si tra-smettono reciprocamente la potenza del motore e il moto della rotazione». Come in meccanica la frizionecosì la citazione è «urto tra più testi che scrivono le loro somiglianze perché si leggano le loro differenze».La scintilla prodotta dallo sfregarsi di due testi è la stessa da cui sortisce se non la rivoluzione per lo menolo spirito critico con cui restituire «all’ideologia sottesa alla multinazionale di turno la creatività della rispo-sta personale». «Fermarsi, guardare all’indietro e saltare per iniziare qualcosa di nuovo, fermarsi, dovercreare ma avendo a propria disposizione il certo del passato. Saltare nel precipizio, allora, volgendo le spal-

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le al vuoto e rivolgere lo sguardo al frastuono, alle armi, agli eserciti, al passato che porteremo con noi pre-cipitando in un mondo nuovo, fatto di sguardi passati. Ma comunque agire…».

Commentando il motto celebre apparso su una lavagna della Sorbona nel 1968, vergato da un anonimocasseur ante litteram, secondo cui: “Le strutture non scendono in piazza”, Jacques Lacan, il famoso clownde “la vita non vuol guarire”, intervenendo in una conferenza dedicata alla questione dell’autore tenuta daMichel Foucault, ebbe a esprimere genialmente una glossa che può costituire un’utile obiezione a Cito dun-que Creo: «non ritengo – disse – che sia in alcun modo legittimo aver scritto che le strutture non scendonoin piazza perché se c’è qualcosa che gli eventi del Maggio dimostrano, è proprio lo scendere in piazza dellestrutture». Aggiungendo poi che l’iscrizione di questa frase faceva precisamente vedere che «un atto misco-nosce sempre se stesso». A tal destino pare votarsi il libro di Dagostino che permette che il suo discorsonaufraghi rovinosamente sulle Certezze della Militanza e dell’Attivismo anticonsumista e della critica allasocietà dello spettacolo.

In un saggio scritto da Michel De Certeau in ricordo dello stesso Lacan, lo storico francese, rifacendosia Freud, si chiede: «se è vero che la tradizione non smette mai di ingannare il suo fondatore, la parola diLacan sarà compresa là dove si pretende di possederne l’eredità e il nome o finirà invece per fare la suaricomparsa sotto altri e inauditi nomi?». Il senso è nel suo sottrarsi: i visual studies e gli studi sull’industriaculturale in generale sembrano i soli capaci di riproporre gli scacchi del “maestro” che parlava per sottrar-si. Un punto di partenza per ripensare l’università potrebbe essere ancora questo: la vita non vuol guarire.

Maria Rosaria Dagostino è dottore di ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni. InsegnaSociolinguistica nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Bari(sede di Taranto) e collabora con il Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi di testi dell’Universitàdi Bari. Si occupa di visual culture e analisi del linguaggio pubblicitario. Ha tradotto Il sogno di butterfly diRey Chow, a cura di Patrizia Calefato (2003).

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Jaime D’AlessandroPLAY 2.0. Storie e personaggi nell’era dei videogame onlineBUR, Milano, 2005.pp. 247, € 13,00ISBN 88-17-00629-7

Recensione di Stefano Mizzella

Millequattrocento ore in due anni. Questo il tempo che Jaime D’Alessandro, o meglio il suo avatar digi-tale, l’elfo Duedi, ha trascorso tra i boschi di Hibernia, reame di Dark Age of Camelot. Un arco di temposufficientemente ampio per spingere l’autore ad analizzare in prima persona il fenomeno sempre più con-sistente dei videogiochi online, ovvero la «forma più evoluta e affascinante di narrazione collettiva nell’eradelle reti informatiche». La tradizionale fruizione solipsistica si è evoluta e radicata in un’esperienza digioco che rende ancor più problematica e seducente l’interazione con gli altri giocatori: «è la stessa diffe-renza che passa fra la complessità di un individuo e la complessità di una società».

L’evoluzione degli ecosistemi digitali porta con sé un interrogativo di fondo che ha investito l’autorelungo il suo percorso di ricerca: come e perché si è arrivati ai mondi digitali online, quali sono i processiche hanno spinto così tante persone a vivere una sorta di doppia esistenza virtuale. Un percorso diacroni-co, questo, lungo il quale D’Alessandro si diverte a pescare nella memoria storica le tappe più significativedi un processo che ha caratterizzato tanto il piano scientifico-tecnologico quanto quello immaginifico. Lamessa in orbita dello Sputnik, lo sbarco sulla Luna, la conquista dello spazio e la paura di un’imminenteinvasione aliena rappresentano i prodromi di quel magma indefinito i cui memi hanno contagiato in manie-ra virale le prime generazioni di hacker cresciuti nelle stanze buie del MIT. È uno di loro, Steve Russell, ilcreatore di Spacewar, quello che viene comunemente considerato il primo videogame della storia. Una sto-ria che inizia col flipper, passa per i labirinti Dungeons&Dragons per giungere sino alle ultime generazioni

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di MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game). D’Alessandro racconta questa storia conaneddoti e dovizia di particolari incrociando nomi, date e avvenimenti di un universo in cui confluisconosenza soluzione di continuità computer, fumetti, anime, film di fantascienza e racconti fantasy (i capisaldidella cultura otaku, per intenderci).

Fin qui un libro come tanti, sicuramente ben scritto e ben organizzato, ma incapace di mordere il lettore,di catturarlo in quella spirale immersiva che avvolge la sensorialità del videogiocatore a tal punto da cortocir-cuitare i versanti del reale e del virtuale. Le cose cambiano radicalmente nel preciso istante in cui il riassuntodelle “puntate precedenti” si interrompe per lasciare il posto al cuore pulsante della trattazione, l’esperienzavideoludica dell’autore. È qui che D’Alessandro si toglie la maschera dello studioso per indossare i panni dichi ha effettivamente vissuto sulla propria pelle le emozioni e gli effetti di tale esperienza. Il suo sguardo nonha e non può avere il distacco e la freddezza di un antropologo seminascosto tra i cespugli desideroso di sco-prire i segreti di una tribù indigena. La sua (auto)analisi corrisponde all’espiazione di un peccato, è la catarsidi un’allucinazione non certo individuale bensì collettiva, stratificata, eterogenea e proteiforme.

Come nel mito di Edipo il detective arriva a convivere con l’assassino ma attenzione, non aspettatevi ditrovarvi di fronte alle confessioni di un ex alcolizzato all’interno di un centro di recupero per alcolisti ano-nimi. Assolutamente no. Le pagine iniziali del testo sono solo quel necessario messaggio di loading cherende ancor più entusiasmante l’inizio del gioco, la sfida del primo livello in cui affrontiamo per la primavolta i nostri nemici. La partita può ora iniziare. Lo stile narrativo assume da questo punto in avanti le sem-bianze di un first person shooter. La narrazione è un lungo piano sequenza alla De Palma in cuiD’Alessandro fa coincidere il suo sguardo con il nostro. Quasi senza accorgercene veniamo catapultati dicolpo nell’arena digitale di Unreal Tournament e capiamo quanto in certi casi sia meglio pensare a soprav-vivere piuttosto che sferrare il colpo di grazia al nostro avversario. Nell’attimo successivo ci ritroviamo trale terre di Hibernia (Dark Age of Camelot), pronti a difendere i nostri alleati nella battaglia decisiva per lesorti del reame, prima di venire telestrasportati sul pianeta Tatooine (Star Wars Galaxies), dove un giocato-re svedese ha avuto la geniale idea di aprire un gigantesco centro commerciale chiamandolo Ikea.

Niccolò Ammaniti ci avverte nelle pagine introduttive che questo saggio può essere utile quanto unmanuale sulle droghe e le sostanze psicotrope. Il discorso è un altro. Lo sguardo in soggettiva dell’autoreva oltre i confini di una cyber-dipendenza. Il videogame non è una droga, ma l’esemplificazione della nostraidentità, del nostro io, della nostra corporeità intrisa tanto di materia quanto di bit. Forse è proprio perquesto che D’Alessandro ogni tanto, prima di addormentarsi, racconta di pensare a cosa stia facendo il suovecchio amico Josh, sempre impegnato a organizzare feste e a provarci con la moglie del suo vicino di casa.Il mondo di Josh è quello di The Sims, ma la sua vita è così reale perché fatta della stessa materia dei sogni.

Jaime D’Alessandro (Roma, 1969), giornalista, dal 1997 si occupa di tecnologia e videogame per varie testa-te tra cui “La Repubblica”, “Diario”, “Il Sole 24 Ore”. È stato direttore creativo della sezione videogamedel CWT Festival presso la Triennale di Milano del 2001 e curatore della prima mostra europea dedicataai giochi elettronici, Play: Il mondo dei videogiochi, a Roma nel 2002. Nel 1994 ha pubblicato, nella raccol-ta La giungla sotto l’asfalto, il racconto Nuovo Cinema Paradiso, e nel 1998, con Niccolò Ammaniti,Enchanted music&light records, in Il fagiano Jonathan Livingston. Manifesto contro la new age.

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Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi (a cura di)DOPO LA DEMOCRAZIA. Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle retiApogeo, Milano, 2006.pp. 200, € 13,00ISBN 88-503-2479-0

Recensione di Rony Medaglia

La raccolta di saggi proposta da Derrick de Kerckhove ed Antonio Tursi (ambedue anche autori di duecontributi all’interno del volume) si presenta con l’ambizione di “fare il punto” sullo stato del dibattito

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intorno al rapporto tra forme politiche e scenari mediali della contemporaneità, e nel contempo offrire ele-menti di disseminazione cognitiva per una nuova prospettiva e un nuovo percorso di ricerca sui luoghi diincontro tra democrazia e nuovi paradigmi di comunicazione, tra politica e mediazione reticolare. In que-sto senso l’eterogeneità della provenienza disciplinare dei contributi proposta dal volume – germinati inoccasione del convegno Ciberdemocrazia o postdemocrazia? organizzato dall’Università di Roma “LaSapienza” e dalla McLuhan Fellows International nell’aprile 2004 – costituisce un punto di forza nell’offri-re in un percorso unitario prospettive provenienti dal diritto, dalla filosofia, dalla scienza della politica oltreche, ovviamente, dalla mediologia: e a sostegno di tale progetto sono protagonisti di un ricco percorso dianalisi le voci di Pierre Lévy, Alberto Abruzzese, Stefano Rodotà, Michele Prospero, Sara Bentivegna, LucaToschi e Franco Berardi Bifo, oltre a quelle dei due curatori del volume.

Il percorso di analisi proposto si struttura – o meglio, è letto – seguendo due dimensioni: un asse che vadal termine «accelerazione» a «decelerazione», a seconda che l’orientamento proposto sia teso a sottolinea-re nei nuovi media, rispettivamente, un ruolo di volano di emancipazione dei processi democratici o ad evi-denziare le possibili criticità d’impatto sul panorama dell’agire politico; e un asse che ha come poli «politi-ca» e «governo», a seconda che le prospettive siano legate a concezioni della sfera pubblica che fanno rife-rimento ad un suo ruolo decisivo e «denso», oppure minimo o, con una definizione suggerita nell’introdu-zione dei curatori, «chiaro».

L’alto livello dei contributi ha il primo, e non scontato, pregio di sgombrare il campo dall’eventualità diriproporre inutili dualismi come quello apocalisse/integrazione: la chiave di lettura «accelerazione/decele-razione» ordina su una gradazione continua prospettive che però mantengono la propria problematicità, equindi fecondità, interna. Si va quindi dai saggi di Lévy e de Kerckhove, prefiguratori di una simbiosi dallecaratteristiche progressive entro la ciberdemocrazia (ciò che vi è di democratico nel cibernetico, e vicever-sa) ma tuttavia consapevoli del carattere paradigmatico e non immediatamente implementabile (e quindibisognoso di mediazione) di essa, a quelli dal taglio esplicitamente «denso», che mettono in evidenza il pos-sibile vicolo cieco di analisi che sono solo apologetiche se non tengono conto di criticità insuperabili anchenel paradigma digitale, come quelle del corpo, dell’interesse, dell’agire economico – come nei contributi diMichele Prospero e Franco “Bifo”Berardi (quest’ultimo sorprendentemente inserito invece dai curatori inuna posizione più vicina a quella della «accelerazione»).

Ciò che ne risulta è un insieme di voci con un ottimo spessore teorico generale, e la fruibilità di un testopanoramico anche per un pubblico di lettori non specializzato: il proposito esplicito dei curatori di rivolgersiad un uditorio più ampio è realizzato con successo, e senza intaccare la pertinenza e la qualità del contributo.

All’inizio-fine del testo di Tursi e de Kerckhove (che può essere un’esperienza interessante «navigare»iniziando dagli estremi e avvicinandosi gradualmente al centro), ossia all’interrogativo del titolo Dopo lademocrazia?, ovviamente non è data una risposta unica o definitiva: a conferma che tra le ricche pagine cheinterrogano le prospettive future per le forme della mediazione democratica sono da trovarsi, per usareun’eco heideggeriana, «cammini, non opere».

Derrick de Kerckhove è direttore del McLuhan Program in Culture and Technology dell’Università diToronto e insegna anche presso l’Università di Napoli “Federico II”.

Antonio Tursi è dottore di ricerca in Teoria dell’informazione e della comunicazione presso l’Università diMacerata e Senior Fellow del McLuhan Program in Culture and Technology. È autore di Internet e il baroc-co. L’opera d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione (Roma, 2004) e ha curato il volume Mediazioni. Spazi,linguaggi e soggettività delle reti (Milano, 2005).

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Marcello Pecchioli (a cura di)NEO TELEVISIONE. Elementi di un linguaggio catodico glocal/eCosta & Nolan, Milano, 2005.pp. 192, € 17,20ISBN 88-7437-011-3

Recensione di Alejandro De Marzo

Con il termine neotelevisione, coniato negli anni Ottanta da Umberto Eco e Francesco Casetti, si è defi-nita la nuova stagione palinsestuale della televisione mondiale, caratterizzata dall’abbattimento delle fron-tiere tra generi, dall’inglobamento dello spettatore nei meccanismi di produzione testuale, dall’emissione diflusso della programmazione, anche sulla scorta della pressione pubblicitaria che ha prevalentemente rim-piazzato altre fonti di introito finanziario dei network.

Eppure neotelevisione significava anche sperimentazione di linguaggi e formati, ricerca visiva e croma-tica, ridefinizione delle “regole del gioco” in campo sintattico e ritmico. Ma su questi aspetti il generalismodella tv, non solo italiana, ha offuscato la portata reale del cambiamento estetico e rinviato probabilmentel’esigenza di manifestarli mediante appropriati adattamenti tecnologici. In seguito infatti si sono rese sem-pre più necessarie le emergenze digitali ed interattive, dal cavo coassiale al video on demand, alla pay tv, ilnarrowcasting, lo streaming video su internet, così confermando quasi, si direbbe ora, la repressa istanza ori-ginaria contenuta nell’esplosione fantastica e provvidenziale della neotelevisione. A questo risultato, allora,si possono ascrivere meritoriamente le installazioni elettroniche, le performance di video-arte, e tutti queilavori che hanno operato in regime di “clandestinità” consapevole e resistente durante la primordiale fasegeneralista della neotelevisione.

Gruppi di grafici e operatori video, artisti informatici, media-attivisti, perfino pubblicitari, che hannoavuto certo meno possibilità di farsi ascoltare, vedere, fruire, notare se non in circuiti selezionati, galleried’avanguardia, festival e convention di nicchia, manifestazioni e convegni (sporadici, ma fortunosamenteorganizzati). Tutto questo sottobosco di convinzioni e arduo lavorare attende ora la rivincita comunicativae ne viene evidentemente interpellato per la padronanza di esperienza e know how accumulato, di cui sisono fatti dunque epigoni e conoscitori.

Quello che va loro in soccorso, finalmente, è la virata multimediale e ipertestuale del linguaggio televi-sivo, che cerca di coniugare sempre nuove tecnologie informatiche ed elettroniche in un progetto di super-medium tv, naturale evoluzione del mezzo in uno scenario in cui il suo primato è terminato per l’avventodi internet e delle reti plurimediali.

I saggi raccolti in questo volume, scritti da più autori di varia estrazione e competenza, affrontano il temariferendosi soprattutto al presente, evitando dunque di presentare solo nostalgiche memorie e rivendicazio-ni, finalizzando ognuno il proprio chiaro ed esaustivo intervento alla comprensione degli accadimenti tele-visivi odierni (fenomeno delle telestreet e degli Hackmeeting, per esempio, oppure della minimal tv, o del-l’expanded tv), nonché volendo addurre una originale interpretazione dei reality show sulla base proprio diquest’ottica neo televisiva propugnata e difesa.

Secondo tale lettura pertanto – sostenuta nei saggi di Elena Colombo, Giorgio Simonelli, Marco Senaldie Marcello Pecchioli – anche gli attuali reality show rappresentano la resa della neo-tv generalista “classi-ca” alla neo televisione “effervescente”, avendo la prima esaurito il percorso che si è ostinata a proporreesclusivamente, e trovandosi ora a far i conti con le richieste tecnologiche e linguistiche assolte invece dallaseconda forma di neo televisione (sperimentale, multimediale, contro-culturale).

Fausto Colombo, autore che pur collabora al progetto di esplicitazione teorica di questa sommersa “neotelevisione”, trova però il coraggio per definire “post-televisione” quanto Pecchioli e gli altri saggisti pro-pongono nel libro come ancora neo televisione. Questo in virtù del fatto che, per le concomitanti trasfor-mazioni socio-culturali e tecnologiche avvenute indipendentemente dal verificarsi di tale neo televisione, lasua riscoperta attuale (dietro l’apripista dei reality) sa di un gusto sorprendentemente nuovo e diverso dal-l’aspettativa teoretica e sperimentale. In altre parole, il contesto del quotidiano comunicativo in cui si inse-risce, finalmente legittimata, la troppo a lungo trascurata neo televisione sperimentale porta a mutarlaall’istante in qualcos’altro di post-televisivo che ha tutto il sapore di uno scacco imprevisto, dichiarazione

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di una affermazione linguistica ormai superata e forse perduta di mano, ma che conviene accettare comesfida di ulteriore evoluzione.

Marcello Pecchioli (Spoleto, 1954) è critico multimediale e cinematografico, videomaker e artista. InsegnaTeoria ed estetica dei nuovi media presso l’Università di Padova. Come autore ha prodotto numerosi video,lavori fotografici e installazioni multimediali. È l’ideatore e coordinatore del Progetto multimediale DigitDiary. Oltre a numerosi articoli, ha scritto Effetto Cronenberg (Pendragon, 1994) e Scansioni (Costa Nolan,2000).

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Giovanni RagoneL’EDITORIA IN ITALIA. Storia e scenari per il XXI secoloLiguori, Napoli, 2005.pp. 252, € 14.50ISBN 88-207-3851-1

Recensione di Benedetta Fallucchi

L’editoria italiana sta transitando da un modello di terza generazione – quello cioè che caratterizza un’in-dustria culturale matura, in cui la stampa si integra pienamente nel flusso multimediale, contendendo emutuando spazi, strategie e linguaggi dagli altri media – a una conformazione da quarta generazione – ovve-ro legata alle dinamiche della società delle reti.

Questa, in estrema sintesi, è la premessa su cui si fonda il lavoro di Ragone. La storia dell’editoria inItalia è tracciata in quattro fasi, che vanno dal periodo post-unitario (“editori di prima generazione”), finoall’attuale. A fronte di un ingresso brillante nel mercato tipografico cinquecentesco (con Venezia capitaledella stampa e centro di una rete commerciale transnazionale, e figure decisive come quella di AldoManuzio), sia le fasi aurorali sia quelle più mature dell’industria culturale vedono l’Italia arrancare tra con-tinue crisi e continue rinascite dell’editoria. La seconda generazione – gli anni Cinquanta – rappresenta sicu-ramente l’acme del mercato dei libri, sia per il volume di affari sia per la maturità del comparto: concentra-zione, specializzazione e massificazione sono le parole-chiave per capire l’editoria italiana in questo periodo.Ma è anche il momento che precede il declino: le tv commerciali prima (“terza generazione”) e i media elet-tronici poi assegnano un ruolo sempre più da comprimari ai libri e alla cultura che essi veicolano.

La natura dei nuovi oggetti testuali mette in discussione la linearità intrinseca all’oggetto libro, e dun-que un intero sistema di pensiero. Anche se – ed è importante sottolinearlo – questa congiuntura di poten-ziali ribaltamenti del sistema rimane comunque caratterizzata da un’altissima concentrazione (grandi grup-pi che operano in più settori mediali), e da una parcellizzazione dei piccoli editori, che continuano a mol-tiplicarsi, pur raggiungendo tutti insieme una percentuale ridicola del fatturato nazionale (un decimo).

Oltre a quello di Ragone, nel testo sono presenti anche saggi di altri autori che prendono in esame il con-testo editoriale europeo, la ricaduta delle nuove tecnologie e la trasformazione di alcuni ruoli professiona-li legati ai libri. Il tutto confluisce in un libro agile e scorrevole (anche se purtroppo un po’ sciatto dal puntodi vista della cura redazionale e dell’impaginazione), che ha il pregio di ripercorrere le tappe dei processievolutivi del settore editoriale (approfondendo soprattutto il periodo di maggior splendore dell’editoria inItalia) e contemporaneamente di aprirsi ai nuovi (e agli altri) scenari del mercato del libro. Rispetto alle pro-spettive future, l’attenzione è concentrata quasi esclusivamente sul print on demand, benché, allo statoodierno, si tratti di una dimensione quasi del tutto marginale del settore, mentre scarso rilievo viene datoad esempio a un esperimento come quello di Google libri – cui molte realtà editoriali, più o meno grandi,si stanno accostando.

Nel volume la comparazione tra Italia e Europa risente di una bibliografia marcatamente italiana, adiscapito del ricorso a fonti straniere, mentre manca quasi completamente un reale approfondimento delletrasformazioni innescate dalla digitalizzazione sull’organizzazione del lavoro redazionale, sulla scomparsa

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di alcuni ruoli tradizionali e sull’impatto sulla qualità generale dei testi.Quel che emerge con certezza da L’editoria in Italia è che l’editoria è obbligata dal Web a rimettersi in

discussione; può farlo o seguendo una logica protezionistica – sul modello di altre realtà europee, tradizio-nalmente più attente alla salvaguardia della carta stampata e dunque impegnate in politiche pubbliche ditutela del settore – o lanciandosi con più convinzione nelle nuove tipologie produttive e distributive offer-te dalla Rete. In questo senso, segnali di trasformazione sono evidenti (vale per tutti la crescita enorme delcanale di vendita on line), e c’è chi (in America) prevede il sorpasso dell’e-book sul libro stampato già a par-tire dal 2010. Ma in Italia sembra più difficile, specie in tempi così rapidi.

Giovanni Ragone è autore di libri e saggi sull’editoria, il più noto è Un secolo di libri (Torino 1999). InsegnaTeoria dei media, Editoria, Letteratura e Comunicazione all’Università di Urbino.

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Elisabetta SibilioLAUTRÉAMONT LETTORE DI DANTEPortaparole, Roma, 2006.pp. 58, € 8,00ISBN 88-89421-30-4

Recensione di Daniele Vazquez

Le due opere di Isidore Ducasse Les Chants de Maldoror (pubblicata con lo pseudonimo di Comte deLautréamont) e Poésies costituiscono un caso singolare nel panorama della letteratura francese della secon-da metà dell’Ottocento. Si tratta di testi che sono rimasti per lungo tempo inclassificabili dal punto di vistadel genere, testi che sembrano scritti ad arte per depistare il critico letterario, per dissimulare l’autore e peroccultare le fonti dell’ispirazione. Si dovette attendere la fine del realismo positivista perché la prosa visio-naria degli Chants trovasse un piccolo pubblico entusiasta che si passasse il libro di mano in mano. Ma fusoprattutto per opera delle riviste e dei testi surrealisti che Ducasse divenne un caso letterario da indagarein profondità: Breton e compagni consideravano Ducasse uno dei loro, nel Manifesto del Surrealismo veni-va considerato un poeta che aveva fatto professione di “surrealismo assoluto”.

Ciò che rimane di queste pagine “oscure e piene di veleno” è molto più che un raro esempio di poesiasurrealista ante litteram, ciò che rimane è soprattutto una metodologia di scrittura e produzione dei testiche ha attraversato l’opera delle avanguardie prima e il linguaggio pop successivamente. Ducasse influen-zò profondamente i situazionisti e il loro stile, ed il concetto di deturnamento deriva direttamente dalla suametodologia. Lo stile de La società dello spettacolo di Debord si rifaceva esplicitamente a lui, tanto che unafrase delle sue Poésies si ritrova nel libro, come deturnamento, quasi a riconoscimento di un debito intel-lettuale. Dieci anni più tardi anche Deleuze e Guattari si servirono della metodologia di Lautréamont perscrivere Mille Piani, se ne servirono per aggirare il concetto di autore, per farsi gioco del libro come strut-tura arborea e per praticare il rizoma nello stesso momento in cui ne scrivevano.

Di che metodologia si tratta? Del plagio, ovviamente. Del montaggio, casuale o pianificato, di segmenti ditesto provenienti dalle fonti più disparati, segmenti mutilati, triturati, combinati, fino alla mutazione di sensocon lo scopo di produrre un testo originale. Debord dirà che la citazione è per i tempi culturalmente oscuri,tempi in cui è necessario render note le proprie fonti, per non essere fraintesi e guadagnare in efficacia (e cosìi suoi “commentari” richiesero il passaggio dal plagio alla citazione). Ma se l’epoca è in fermento, se lo scam-bio di idee sta sulla soglia dei mutamenti sociali, allora si rende necessario il plagio. Ducasse ha scritto:«Le plagiat est nécessaire. Le progrès l’implique.Il serre de près la phrase d’un auteur, se sert de ses expressions, efface una idée fausse, la remplace par l’idéejuste» (Poésies, Isidore Ducasse).

Le avanguardie hanno cercato gelosamente di custodire il segreto di questa metodologia finché il grup-po Tel Quel negli anni ’70 non l’ha passata al vaglio degli strumenti più avanzati della critica letteraria. Alla

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fine degli anni ’80 alcuni artisti hanno voluto chiamare questa pratica “plagiarismo”, preferendo questadefinizione ad altre più in voga come cut-up o deturnamento. Il plagiarismo oggi è esplicitamente alla basedi nuove forme d’arte come le net.art o il cultural jamming.

Negli Chants il plagio percorre tutta l’opera. Nel 1970 Blanchot era in grado di stilare un inventario dellecitazioni e reminescenze rinvenute da diversi critici negli Chants. Egli sosteneva che non vi fosse alcunpiano e che il plagio non fosse altro che una forma di sregolatezza dovuta all’inesperienza di Lautréamontcome poeta. La Sibilio, invece, concentrando il suo studio esclusivamente sui plagi dell’Inferno di Dantedimostra come Ducasse seguisse un’intenzione progettuale forte che ha dato origine ai primi cinque canti.Les Chants de Maldoror sarebbero caratterizzati da una sostanziale unità progettuale e stilistica.

Lautréamont isola i versi dal suo contesto, li priva di alcune caratteristiche formali che li farebbero rico-noscere, ad esempio la rima, si concentra sul contenuto o sul suo ribaltamento, e nel caso di Dante non nericonoscerebbe l’endecasillabo. L’Inferno negli Chants è irriconoscibile e ciò è dovuto al fatto che Ducasseprobabilmente non ha utilizzato l'originale in italiano. Sarebbe del tutto inutile cercare i plagi a partire dal-l'originale, il saccheggio molto probabilmente è avvenuto su qualcuna delle innumerevoli traduzioni inprosa (considerate dalla Sibilio mediocri) disponibili all'epoca, su un testo che dunque aveva già subito unatrasformazione e che era già diventato irriconoscibile. La Sibilio attraversa con dovizia di particolari tuttele immagini rapinate a Dante e ne sottolinea la novità della rielaborazione, il contesto mutato e la funzioneideologica e letteraria completamente diversa.

Si tratta di un’opera, quella di Ducasse, che ha senza dubbio creato un precedente fondamentale per leproduzioni culturali del '900, ma non va dimenticato che si tratta di una pratica creativa immemorabile tipi-ca della poesia popolare, che attraversa da sempre le produzioni culturali preindividuali. Ducasse morì gio-vanissimo in circostanze misteriose e il plagiarismo, esplicito o meno, continua altrettanto misteriosamen-te a segnare tutta la produzione culturale contemporanea. Se si ha voglia di approfondire l’opera del mae-stro di tutti i plagiaristi il libro della Sibilio è eccellente.

Elisabetta Sibilio è professoressa di Letteratura francese all’Università di Cassino. Specialista della poesiadel secondo Ottocento, ha pubblicato saggi su Lautréamont, Baudelaire, Laforgue, Rodenbach. Oltre a col-laborare alla traduzione del Peintre de la vie moderne di Baudelaire, ha tradotto e curato due delle maggio-ri commedie di Musset, opere di narratori contemporanei come Kessel, Fiechter, Boulanger e diversi testidi saggistica. Di recente i suoi interessi si sono focalizzati anche sul romanzo francese contemporaneo.

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