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Alfredo Tamisari

In appendice:

Fotografie dalla serieTutti, tutti, dormono sulla collina

Prefazione diGiampiero Comolli

Postfazione diRoberto Signorini

I DISPARI - MILANO 2007

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In copertina: fotografia dell’autore, dalla serie Tutti, tutti, dormono sulla collina

Riproduzioni, elaborazioni e progetto graficodi Mario Cràighero

[email protected]

© 2007 Alfredo Tamisari

© 2007 I DispariVia F.lli Bronzetti, 17

20129 [email protected]

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Indice

Prefazione Tutti, tutti, ci guardano dalla collina p. 5di Giampiero Comolli

Introduzione 9

I. Radici 14Padre - Nonno Alfredo - Nonna Beppa (Giuseppa) -Nonno Artemio (Medardo) - Nonna Tarsina (Teresina)

II. Gli zii, i cugini 26Zio Fernando - Vittorino B. - Zia Vittoria - Zio Laerte - Zio Iliano - Zio Pino - Zia Pace - Giuseppe S. - Boberto B.

III. I vicini (anni ‘40-‘50) 46Signora B. - Signora P. - C., il droghiere - A., il salumiere -Oddone, il lattaio - Maria, la fruttivendola - La panettiera - Pistulin, il gelataio

IV. I ferraresi 64Anelusco C. - Balilla Z. - Luciano M.

V. Gli insegnanti 72Norina G. - Mario M. - Silvia S. - Alessandro T.

VI. Gli amici, i compagni di lavoro 82Alberto P. - W. M. - Bel (Belisario) - Carli - Marta -Giuseppe D. - Giorgio D.

VII. I Fratelli della Valle (1980-2000) 98Piero R. - Battista P.

VIII. Tra Affori e Bovisa (1990-2000) 102Carlo - Renzo S. - Luigi Mazzari

Appendice Tutti, tutti, dormono sulla collina 110

Postfazione Volti e voci di Roberto Signorini 145

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Prefazione

Tutti, tutti ci guardano dalla collinadi Giampiero Comolli*

Quieto, delicato e commovente, il componimento poetico-visivo di AlfredoTamisari – sorta di sommessa e premurosa elegia funebre su quanti umilmente cihanno lasciato – si richiama esplicitamente a quel famoso verso, Tutti, tutti, dor-mono sulla collina, che introduce l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.Per quanto sorga spontaneo anche nel lettore, tale voluto richiamo di Tamisariagli epitaffi che il poeta americano aveva immaginato posti sulle tombe di uncimitero in collina, rischia di trarci in inganno. Infatti “i volti e le voci” di colo-ro che per l’autore “sono stati” e non sono più (pudicamente Tamisari evita laparola “morti”), non si rivolgono a noi con gli stessi accenti che udiamo giunge-re dalla collina di Spoon River. I racconti di quanti “dormono” nel cimitero ame-ricano sono infatti dei monologhi. Il passante che si aggira fra le lapidi di LeeMasters, infatti, è come se udisse di volta in volta la voce di un “dormiente” chegli si presenta, gli dice chi era, gli rivela il segreto nascosto della propria vitapassata: “Giaccio qui accanto alla tomba / del vecchio Bill Piersol…”.

La raccolta di Tamisari, invece, dà vita a un dialogo, intessuto di ricordi, fral’autore e coloro che hanno “popolato un tratto della [sua] vita e ora non [cisono] più”. Di volta in volta, appunto come in uno “specchio del ricordo”, l’au-tore si rivolge a uno scomparso, e questi gli risponde, generando così una “poli-fonia della memoria”. Ma che hanno da dirsi colui che è rimasto e coloro che sene sono andati? Come si caratterizza questo doppio registro, fatto di “canto econtrocanto”? Passo dopo passo, il rimasto si accosta a qualcuno che non c’è più – un parente,un amico, un vicino, un insegnante… – e, come sottovoce, gli dice dolcemente:non mi sono dimenticato di te, io ti ricordo, continuerò a custodirti nella miamemoria. Questo discorso dà vita dunque a un susseguirsi di ritratti in cui il vivente fasapere all’assente che cosa di lui rammenta e in che modo lo ripensa: “Ti ricordo/ nelle ultime tue ore, quando alle donne / – alle ‘tue’ donne – / hai detto: /‘Ma come vi voglio bene!’ ” (Nonno Artemio); “Ti ricordo così. / Niente di memo-rabile / nella tua vita, / solo quel minimo tuo manifestarti / – un semplice bat-

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tito di cuore – / che creava affetto, era un valore” (Zio Iliano).Tali succinte e affettuose descrizioni in cui il vivo fa sapere allo scomparso

come era fatto, come si comportava, che impressione faceva agli altri, sono sem-pre accompagnate da una manifestazione, ora implicita, ora dichiarata, di pro-fonda gratitudine per ciò che lo scomparso ha offerto, ha lasciato al vivo, comeun dono che tuttora continua a rifiorire in lui, e che lo ha trasformato al puntodi fare di lui ciò che ora egli è: “Mi hai lasciato / la laboriosità, / la precisione,/ il rigore, / quello – dicevi – / delle ‘cose fatte bene’ ” (Padre); [quel libro] “melo lasciasti per un’ora / e ti sono grato ancora” (W.M.).

Il rimasto, in sostanza, vuol far sapere a ciascuno di coloro che se ne sonoandati: tu hai rappresentato questo nella mia vita e io ti penso sempre volentie-ri. Simili ai “microricordi” con i quali – in un altro bellissimo libro, Francobolli ditempo – Tamisari aveva rievocato immagini, scene, atmosfere della propria infan-zia e giovinezza, questi minimi profili biografici trasformano gli scomparsi infigure non esanimi, ma in qualche modo ancora vive, capaci di mostrarsi a noimentre fanno qualcosa o dicono qualcosa: “Oh, vecchio zio Pino, / l’hai raggiun-to finalmente / il tuo piccolo Gianni. / Lungo l’argine ora passeggiate / e lui,curioso come allora, / chiede, chiede… / e tu rispondi / e tu racconti…” (ZioPino).

Ma come rispondono gli scomparsi a un simile discorso? Sempre senza enfa-si, con tono semplice e dimesso, quasi scusandosi per lo scompiglio causato dallaloro dipartita, tutti loro rispondono innanzitutto con una confortevole conferma:sì, effettivamente io ero fatto così. A differenza dei defunti di Spoon River, cheil più delle volte svelano il lato tragico e segreto della loro vita (se credevate cheio fossi così, in realtà io sono stato tutt’altro, e ora ve lo svelo…), le presenzeche affollano la “collina” di Tamisari non hanno rivelazioni sconvolgenti da pale-sare; non incontriamo nessuno che voglia rompere “lo specchio del ricordo”, pro-testando: no, è tutto sbagliato, io non ero così! Con modestia, come con un lievesospiro di mansueta tristezza, questi assenti si limitano ad aggiungere qualcosain più al ritratto che è stato fatto di loro stessi: “Sono sempre stato povero…”(Nonno Artemio); “Non ho avuto fortuna” (Roberto B.). Nello specchio del ricor-do l’immagine che di sé offre lo scomparso, riflette dunque l’immagine che il vivo

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gli sta porgendo; oppure, il più delle volte, la rifrange, nel senso che la modifi-ca di poco, vi aggiunge un qualche cosa, la arricchisce di qualche tratto ma senzaarrivare a completarla. Quali sono dunque i particolari, le informazioni in più che gli scomparsi hannoda offrire alla descrizione che di loro stessi hanno ricevuto? Essi possono riferi-re innanzitutto l’esperienza della propria morte: un’autobiografia del trapasso,tanto più patetica in quanto contrassegnata da un’assoluta, disarmante sempli-cità: “Quando mi è venuto l’infarto, / me lo sentivo / che sarei morto” (Padre);“A niente è servito l’avvocato. / Non sapevo come venirne fuori, / e sono morto”(Vittorino B.); “In un lampo sono morto” (Giuseppe S.); “Poi quel lampo improv-viso. / E tutto è finito per me” (Bel). Accanto a tale rassegnata rievocazione delmomento estremo,viene ad aggiungersi poi la fioca descrizione della propria cre-puscolare condizione di esistenza, di permanenza, nel luogo indefinito del dopomorte. Colui che se n’è andato, infatti, non è sprofondato nel nulla, ma perma-ne, in qualche modo sussiste ancora:continua infatti, dall’aldilà, a osservare sestesso e l’al di qua. Così, non solo può arricchire, sia pur di poco, il ritratto cheil rimasto gli viene offrendo, ma può rispondergli di rimando: sì, anch’io mi ricor-do di te. “Quando arrivavi da Milano, / eri bianco come il latte, / e io ti spoglia-vo, / e ti facevo camminare scalzo” (Nonno Alfredo). Per poi aggiungere: sonoconsapevole di te e dei tuoi pensieri su di me: “So che tu mi ricordi / quandosono venuto a Milano / a piastrellare il vostro bagno” (Zio Iliano); “So che spes-so mi sogni” (Silvia S.); “So che hai cercato i miei scritti. / Lascia stare…” (ZioLaerte); “So che mi ricordi / quando passa un trattore” (Piero R.).

Che cosa significa questo “sapere” che gli scomparsi hanno a proposito di noirimasti? Significa che dalla “collina” in cui si trovano ora, essi non si limitano a“dormire”, ma pur dormendo, ci vedono, ci guardano: “Tu hai ancora / quel librodi Pasolini / che ti ho regalato: / ti vedo quando lo prendi in mano” (Bel); [almio funerale] “ho visto che in chiesa / hai pianto due volte” (Zia Vittoria); [miofratello, al cimitero] “lo vedo / che mi viene a trovare” (Roberto B.). Solo chequesto loro è come uno sguardo diafano, appannato, vago, simile a un’ombra,come del resto è un’ “ombra” quella che di loro noi vediamo; e loro lo sanno: “Lavedo la mia casa / […] e so che nel cortile / tu vedi ancora la mia ombra”

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(Battista P.). Per questa ragione, credo, Tamisari ha voluto far seguire alla serie dei dialoghi

un’Appendice illustrata, con le immagini, da lui realizzate, di alcuni cimiteri dellaValtrebbia. Struggenti fotoceramiche, ingrandite e sgranate, di antiche lapidi cor-rose, “immagini dolenti, spettrali, diafane entità, pure parvenze”, che nel loro pro-gressivo “sgretolamento” persistono a fissarci, sembrano chiedere, implorare, dicontinuare a nostra volta a guardarle, a non dimenticarle. Posti alla fine del libro,questi volti così fragili ed evanescenti finiscono per disvelarci qualcosa che giàavevamo intuito ascoltando il canto e il controcanto dei dialoghi: se “nella mentee nel cuore continuano a risuonare le voci di chi è stato”, tuttavia il trascorrere deltempo – quel tempo che “scolorisce e a poco a poco cancella i volti” dalle lapididei cimiteri – finisce inevitabilmente per rendere indistinto, incerto, a rischio dievanescenza, anche il nostro ricordo di coloro che non sono più. Come dice RobertoSignorini, nella Postfazione che accompagna questo libro: «le ‘voci’ sono altrettan-to fragili quanto i ‘volti’; anch’esse dureranno soltanto finché qualcuno sarà dispo-sto a evocarle e a farle risuonare dentro di sé». Il che sarebbe come dire che colo-ro che se ne sono andati continueranno a “vivere” fra di noi solo se noi rimarremodediti a farli rivivere nello “specchio” del nostro ricordo.

O forse c’è di più. Non di semplice ricordo, infatti, si tratta. Noi in realtà – cifa capire Tamisari – siamo quel che siamo perché coloro che se ne sono andati cihanno fatti diventare così: lasciandoci qualcosa di loro stessi ci hanno trasforma-to. Il che è come dire che i morti ci sostengono, ci sorreggono, ci fanno vivere. Enoi per conoscere noi stessi dobbiamo allora continuare a ricordarli, e ricordarli conamore.

* Scrittore e giornalista

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Introduzione

Tutti, tutti, dormono sulla collina è un verso della poesia che apre lanotissima Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Lo utilizzai cometitolo di un lavoro fotografico di qualche anno fa, quando per un'interaestate esplorai i cimiteri della Valtrebbia.Ripresi le foto di alcune lapidi e poi le ingrandii. L'ingrandimento accen-tuava la sgranatura, la decontestualizzazione rendeva quei volti "assolu-ti": quegli occhi erano rivolti a me, esprimevano la trascendenza, l’assen-za dal mondo e mi “riguardavano”. Erano i volti del mio prossimo, commo-venti perché imprecisi, rovinati dal tempo, sfuocati. Toccanti perché ano-nimi.Una selezione di quelle immagini è riproposta nell'appendice di questolibro e una, forse la più struggente, appare simbolicamente in copertina, asignificare che, se il tempo scolorisce e a poco a poco cancella i volti, nellamente e nel cuore continuano a risuonare le voci di chi è stato. Mi torna-no in mente i versi di Ungaretti: nel cuore nessuna croce manca.

In questa raccolta ho cercato di rivedere chi ha popolato un tratto dellamia vita e ora non c'è più: mio padre, i nonni, i parenti, gli amici, alcuniinsegnanti, ma anche presenze della lontana infanzia. Essi si rivolgono ame con le espressioni, il linguaggio che erano loro propri. I loro messaggi(riportati in carattere tondo) sono preceduti dal mio ricordo (in corsivo).Una partitura a specchio. Ma quello del ricordo risulta alla fine uno spec-chio singolare e sorprendente: talora riflette, più spesso rifrange. E dunqueemergono i due registri: il canto e il controcanto, vale a dire la polifoniadella memoria.

In questo libro non ci sono eroi. Le voci sono scarne, semplici, taloradimesse. Non c'è enfasi neppure quando sono rievocati il dramma, il dolo-re, la tragedia. Esistenze singolari e uniche, legate a me, ma anche unite a tutti noi. Perché la morte ci rende uguali, diversi, fratelli.

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Nello specchio del ricordo

A Franca, l'Amore.Ad Alessandro e a Dario,figli/amici miei,perché ricordino di ricordare.

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I

Radici

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Padre

Mi hai lasciatola laboriosità,la precisione,il rigore,quello – dicevi –delle «cose fatte bene».Mi hai lasciatoil cipiglio e il muso lungo,quello della «luna di traverso».E ancora di te ricordola timidezza camuffatacon la facile battuta,la risata adoperataper nasconderti meglio.Oggi dobbiamo dire tutto,aprirci, comunicare…Il tuo era ancora il tempodel segreto, del pudore.

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Quando mi è venuto l'infarto,me lo sentivoche sarei morto,e che sarei morto prestolo dicevo spesso.E pensare che avrei volutofare tanti viaggi,vedere tanti posti nuovi,e comprarmi una casa al paese.Ti chiamavo Pippoe ti volevo bene.Volevo bene a tutti voi,ma non ero capace di dirlo.Neppure alla mamma.E con tua sorella?Facevate disperare da piccoli.Adesso fate i bravi.

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Nonno Alfredo

Ero un bambinoe mi facevi fumaree bere vino.Come potrò mai dimenticareil biciclino che mi hai comprato?E la gazza ammaestratache mi hai ammazzato?E il mio gattino,piccolo e magro come me,che ti ha cagato nella scarpae tu dalla finestra l'hai scagliato? Ma non ricordo di averti mai odiato.E come avrei potuto?«Sono il tuo nonno, – mi dicevi – sono io il tuo nonno vero».

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Il tuo nonno, eh!Ero un galantuomo, io,sempre stato un galantuomo.Anche quando c'era il Fascio,che ero camicia nera,non ho mai fattodel male a nessuno.A te t’hanno dato il mio nomeperché l'ho voluto io.Eri il maschio tu,e dovevi continuarela nostra razza,la razza dei Tamisari,tutti galantuomini,galantuomini e intelligenti.Tua sorella, no,non la trattavo bene,la lasciavo alla nonna:il mio nipote eri tu.Quando arrivavi da Milano,eri bianco come il latte,e io ti spogliavo,e ti facevo camminare scalzosulle pietre e sui sassi.

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Ti portavo sempre con me,sul lavoro e nell'orto,in piazza, al bar, al mercato,ti mostravo a tutta la gente.E ti insegnavo a far coseche nessun bambino faceva.Il tuo nonno, eh!E quando eri studente,che io ero venuto a Milano,venivi a trovarmie io ti mettevo in tascale mille lire, la sabadina…*Sapevo che avevi bisogno.E quando sei diventato maestroè stata una bella soddisfazione:lo dicevo a tutti,a tutti quelli della mia casa,a tutti quelli che incontravo,tanto ero contento,tanto ero orgoglioso.

* Mancia settimanale

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Nonna Beppa (Giuseppa)

Le lenzuolabollivano nella cenerea mezzogiorno.Il nonno sudava e sputavae imprecava perché voleva mangiare.Tu, con le guance di fuoco,risciacquavi masticando radicchi.La mattina prestoeri nell'orto, china,a scrutare sotto le verze,perché c'erano i bigatt*– che schifo! –ma tu con le dita li schiacciavi.E quando spigolavieri la primaa saltar nel campo,di tutte la più svelta.

* Bruchi

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Quant spigar, banadet al me putin,e ti col to biciclint’am purtavi i sac a ca’.E mi drè a ticon la cariola…«Va’ là, va’ là, va’, va’!Movat, ch’al sol al cioca !»– at gea mi –e ti at bruntlavi.E in tl’ort?Quant laurar, banadet,a iera mich’ag stava a drè,e tuti i gniva a cumprar da mi.A tratava to nonocom’en re.Lui a l’iera l’om,guai an far brisacom al gea lu!

TRADUZIONE. Quanto spigolare, / benedetto il mio bambino, / e tu col tuo biciclino / miportavi i sacchi a casa. / E io dietro a te con la carriola…/«Va’ là, va’ là, va’, va’! / Muoviti che il sole picchia» / — ti dicevo io — / e tu brontolavi. /

E nell’orto? / Quanto lavorare, benedetto, / ero io che ci stavo dietro, / e tutti venivano acomprare da me./ Trattavo tuo nonno come un re. / Lui era l’uomo, / guai a non fare /come diceva lui!(NOTA. Il dialetto è il ferrarese. Nonna Beppa non parlava l’italiano.)

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Nonno Artemio (Medardo)

Ti ricordonelle ultime tue ore,quando alle donne - alle “tue” donne - hai detto:«Ma come vi voglio bene!».Poi, rivolto agli altri:«Ma come voglio bene a tutti voi!»Sublime dichiarazione d’amorequasi a sfidare la morte!Tutta la notte ti ho vegliatocon il pensiero alla tua mitezza,alla tua arguzia,a quanto avevi donato.La luce della candelaproiettava sulla paretel’ombra del tuo cappello,sul comodinole tue lenti spesse,sul comò la vecchia pipa,accantol’ultima lettura.

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Sono sempre stato povero.Lo dicevo all'altro tuo nonnoche lui era stato furboa fare solo due figli.Ci vedevo poco,ma mi piaceva leggere,e poi raccontare alle donne,la sera nel cortile.Raccontavo anche i sogni,ma erano inventati,lo facevo per spaventarle.Ricordi anche tuquel sogno sulla mia morteche sembrava veroe faceva tremaree rimanere a bocca aperta.Durante il Fascismosono rimasto della mia idea:socialista.

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Nonna Tarsina (Teresina)

Piccola e tonda erie il tuo viso 'na pagnuchina.*Ma com'era grandela tua compassione!«Puvrìna!», «Puvrìn!»*– dicevi di tutti –anche del ladroportato in prigione.E avevi ragione.

* una pagnottina* Poverina! Poverino!

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Sette figli sono stati tanti,e tuo nonno, poverino,è sempre stato sfortunato,lo sapevano tutti in paese.Tutto gli andava male: la languriara* bruciata dal secco,poi la vendita dell'acqua…Aveva comprato la botte, il carretto e il somarino,e subito dopo in paese hanno messo l'acquedotto.Chiedevamo soldi in prestito,andavamo in bottega col librettoche era sempre pieno,pieno di debiti…Tu non venivi mai da noi,stavi con gli altri nonni.Tante volte ho pianto per questo,perché eravamo nonni anche noi.Ma loro i soldi li avevano,noi eravamo troppo poveri.

* cocomeraia

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II

Gli zii, i cugini

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Zio Fernando

Piccolo e forte,i tuoi muscolisprizzavano allegria,nei campi e nella stalla.Ero un bambino,con te mi divertivo,e non mi importavadi quanto diceva il nonno:che contavi in famigliameno del due di coppe,che a comandare era la zia,e che anche col padrone eri capace solo di ubbidire.

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Ti ricordiquando gonfiavo i muscoliper farti ridere?Ti ricordila zuppa di latte appena munto?Ti ricordii nomi delle mucche,e tu che volevi cambiarli?Ti ricordiquando ho comprato la Vespa?Eravamo poveri,ma io ero sempre allegro.

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Vittorino B.

Anche tu eri arrivato a Milano,ma in Brianza ti dicevanoche eri troppo lentoper i mobili in serie.Ti volevano più lesto,ma non c'era in teil pensiero di far presto.Era, la tua lentezza,amor di precisione,era pazienza,era attenzione.

Sobria, c'è ancorala libreria di tek,e, sopra la mia testa,le tue mensole "tamburate",un giorno crollateper il troppo peso.Ora le tengo più leggere,perché – mi hai detto –«non c'è una cosache pesi come un libro».

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Mi ricordo che ti piacevastare con me in bottega,vedermi lavoraree sentire l'odore del legnoe della colla Vinavil.Mi ero messo in proprio,ero un po' preoccupato, ma anche contento:non ero più sotto padrone.Poi ho fatto un altro passo, ho comprato quella latteria,per metterci dentro mia moglie.Maledetta quella volta!Sono stato imbrogliato,mi sono riempito di debiti.A niente è servito l'avvocato.Non sapevo come venirne fuori,e sono morto.

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Zia Vittoria

Dicevano tuttiche quando parlavieri una mietitrebbia:tenevi banco con l'energiadi un torrente in piena.E tutti dovevano ascoltarti.Fino all'ultimo hai dominato:già agonizzante,hai maltrattato il prete che aveva tardato.Poi, sul letto di morte,quella stretta di manoe quel filo di voce:«Questa mano»– dicesti –«ha lavorato tanto».

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Non venivi mai a trovarmi.Tante volte mi sono arrabbiata.Va’ là, va’ là,ero pur tua zia!All'ospedale non ti ho riconosciuto.Non mi sei mai piaciuto con i baffi, e neanche con la barba.Ho visto che in chiesahai pianto due volte.Va’ là, va’ là…!

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Zio Laerte

Sapevano tutti che scrivevi,ma quanto poco curiosi sono stati!L’unica, la tua giovane sorella– mia madre –che ricorda di averti letto,quando era una ragazzina,e ancor oggi mi diceche eri intelligente,che eri un poeta.E difatti dagli altri zii ti distinguevi, eri diverso,sorridevi timido,sempre fine nei modi,forse un po’ introverso.

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La guerra in Grecia,poi prigioniero in Germania.Quando sono tornatoho ripreso a fare il muratore,ma mi era natala passione di scrivere.Ho scritto tanti racconti,ho scritto la mia vita.Mia moglie l'ha data da leggere,ma me l'hanno persa.Poi mi sono ammalato,ho perso la memoria,non ero più io,non ero più niente.So che hai cercato i miei scritti.Lascia stare…

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Zio Iliano

«E 'lora, cum andegna?»*era il tuo saluto,sempre uguale.E quando chiedevano di te,invariabilmente rispondevi:«Quand a ghè la salut…»*Ti bastava la salute.Ti ricordo così.Niente di memorabilenella tua vita,solo quel minimo tuo manifestarti– un semplice battito di cuore –che creava affetto, era un valore.

* «E allora, come andiamo?»* «Quando c'è la salute…»

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So che tu mi ricordiquando sono venuto a Milanoa piastrellare il vostro bagno.M'hai accompagnato tua prendere la sabbia.Io, di Ferrara, cercavo la sabbia del Po,ma a Milano avevanosolo quella del Ticino.Poi ho finito il lavoroe tu ti eri tanto affezionatoche non volevi lasciarmi tornare.Ho sempre lavorato da muratore,sempre sotto impresa.Tre fratelli, tutti e tre muratori,bravi e finiti,come nostro padre,che da solo tirava su una casa.Ma il lavoro non c'era sempree d'inverno si stava fermi,con la famiglia da tirar su.Ah, è stata dura!Ma ho avuto sempre la salute.Potevo vivere ancora qualche anno,ma è successa la disgraziae quella sera non sono tornato a casa.

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Zio Pino

Oh, vecchio zio Pino,l’hai raggiunto finalmenteil tuo piccolo Gianni.Lungo l’argine ora passeggiatee lui, curioso come allora,chiede, chiede …e tu rispondi e tu racconti:di come non sia più quello il fiume,ma come sia bella, ancora,– «fantastica!» –la campagna dalla terra rossa.Poi ti domanda anche del trattoree tu gli spieghi, ricordi,ma senza più colpa,senza più dolore.

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Quando venivate a trovarmiero contento,ma facevo lo scorbutico.Mi portavate un regaloe io vi dicevoche non avevo bisogno di niente.Mi piaceva stare da solo.Andavo sull'argine del Poe guardavo da lassù i miei campi – fantastici! –,e la mia Casa Bassina,e cercavo di dimenticare.Ma avevo sempre mio figliodavanti agli occhi,e la sua fine sotto il trattore,il mio trattore.Non ho mai trovato pace.

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Zia Pace

Eri come tua madre– la Tarsina –,serena e mansueta,incapace di importianche con i bambini.Ti piaceva rideree ridevi tanto di gustoda tremare tutta.Ridevi nonostante tutto.Eri il tuo nome.

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Perdere il maritoe dopo anche il figlio– morti allo stesso modo –è stata grossa!Giuseppe!Era il più bravo della sua squadra,un bravo elettricista come suo padre.Quel giorno lavorava vicino a casae quando è passata l'ambulanza abbiamo capito subito: caduto anche lui! La stessa fine!Per fortuna, poverino,non ha sofferto come suo padreche è stato una settimana in agonia.L'Enel ha aiutato la sua famiglia.Per forza! Era responsabile!I pali della luce erano marci.Col tempo mi sono rassegnata,ma è stata grossa, troppo grossa.

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Giuseppe S.

Oh, cugino mio, come ricordo quando morì tuo padree insieme andammo a dar la notizia ai parenti!Mio nonno nell’ortos’appoggiò alla vangae si tolse, muto, il cappello.Tu nascondevi il dolore,io avevo il magone,una stretta al cuore.

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Quando anch’io diventai elettricista,lento e maligno,si preparava il mio destino. Ero contento,il mio lavoro mi piaceva.Quando c'erano i temporali,avevo sempre gli occhi al cielo,dove era più scuro.Riconoscevo le saette,quelle grosse,che facevano saltare tutto.E mi tenevo pronto.In un lampo sono morto.

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Roberto B.

Da lontanogiungevano le notiziedelle tue disavventure.La tua vita erauna giostra ingrippata.Nessuna rispostaall'urlo di tua madre:«Ma perché? Ma perché?».Non possiamo capire,solo tu potresti spiegarel'acqua ferma di un fiumeche non arriva al mare.

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Niente mi andava bene:il lavoro, la famiglia…Mio padre m'ha aiutato,ma non è servito.Me ne sono successe tante,tu lo sai:il coltello che m'è scappatoe per poco non morivo dissanguato,quella notte dell'incidenteche sono finito nel canale,e poi mia moglieche m'ha lasciato…Non ho avuto fortuna.Ero diverso da mio fratello,lui camionista,bravo come nostro padre,e lo vedoche fa ancora i suoi viaggi.Lo vedoche mi viene a trovaree ancora non si rassegna.

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III

I vicini(anni ‘40-’50)

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Signora B.

Quante volte,quando l'allarme suonava,tu accorrevi a prendermi, e mi portavi in braccio in cantina,per aiutare mia madreincinta della sorellina!Non posso ricordarlo io,è la mamma che lo raccontae ti ringrazia ancora.

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Quando è successo,sono corsa anch'io in Piazzale Loreto,a sputare sul Duce.Tua madre no, non è venuta.Io, la soddisfazioneme la sono presa.

Ti sentivoquando in bagnofacevi le radiocronachee con tutta la tua voce gridavi:«Un uomo solo al comando!».Quanto ridere mi facevi!

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Signora P.

C'era la tromba delle scalebella larga per guardare giùe comoda per suicidarsi.Ti udii quando dicesti:«Un giorno o l'altro lo faccio».Ma ero un bambino,ti guardai soltanto,non potevo capire,non potevo sapere.Io sapevo che erila signora P.,sapevo che arrivaviprima del dottore,sapevo che guarivi il dolorecon i panni caldi di lana.Ma forse era la tua premurail vero rimedio, la tua bontà a ogni ora.

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Sapevo tutto di tutti.Tuo padre mi disse una voltache ero la pettegola della casa.Non gliel'ho mai perdonato.Quando avevate bisogno,io correvo sempre,correvo da tutti,andavo a casa di tutti.Ma avevo un pensiero fisso:farla finita.Sentivo la maledizionesulla mia famiglia.

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C., il droghiere

Come facevicon quelle tue grandi mania creare così piccoli cartoccicon la carta da zucchero?Erano tempi, quelli,in cui tutto era sciolto,«tutto era poco ma buono».

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Quando voi bambinigiocavate davanti al mio negozio,io uscivo e spruzzavo l'ammoniaca sul marciapiedeper cacciarvi via.Ma non era cattiveria.Eravate tanti,mettevate le mani sulla vetrinae me la sporcavate.Io la lucidavo tutte le mattine.Quando c’era il Giro,tutti i pomeriggi scendevi da me,mi davi l’ordine d’arrivo,mi rifacevi la radiocronaca.Te lo chiedevo io,perché in negozio non avevo la radio.Io tenevo per Bartali, tu per Coppi.Ti regalavo sempre una caramella,una caramella per ogni tappa.

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A., il salumiere

Più che un salumiere,mi parevi un dottore,con quel grembiule bianco,con quegli occhialini,quei baffetti sottilie il sorrisetto furbino.Trasparenti eranole fette di mortadella,ma bastava il profumo.

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Ogni tanto rubavo sul peso.Quella volta sono stato scoperto.Avevo appoggiato il dito sulla bilanciae la signora si era accorta,ma io l'avevo calmata,le avevo subito dettoche stavo scherzando…C'era anche tua mammaquel giorno in negozio.Mi ricordo che compravi solo mezzo etto di mortadella,ed eravate in quattro!Eri tanto piccolo, a volte non ti vedevo.Ti servivo sempre per ultimo.

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Oddone, il lattaio

Sulla piccola cialda spalmavi e modellavicon perizia il gelato,attento alla fragilità del cono.Una specie di smorfiasul tuo visoe la lingua fra le labbra,quasi un piccolo sorriso.

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Venivi a comprareil cono da 5 liree volevi tutti i gusti.Cercavo di accontentarti.Le sere d'estatevenivate a sedervifuori al tavolino,tu, la tua sorellinacol papà e la mamma.Al tuo papà piacevala mia latteria.Lui non andava al bara giocare al biliardo.Stava con voi e con la mamma,e gli piaceva parlare con me.

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Maria, la fruttivendola

«Un mestieraccio» il tuo,– diceva mio padre –«ogni mattina alzarsi alle cinque»,e per questo, forse,eri sempre così arcigna.Ma com’eri bravaa far sorridere,tutte lucidate, le mele!E non parliamo poidi quelle cascate rosse…Oh, le tue ciliege così vicine, così lontane!

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Quando mi hai rubatoquelle due ciliegel'ho subito detto alla mamma.Potevo anche lasciar perdere.Erano le primee costavano tanto.Ti sei preso uno schiaffo,poi t'hanno chiuso in bagno.Mi è dispiaciutoquando l'ho saputo.

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La panettiera

Com’erano agilile tue dita grassocce,sempre bianche di farina,ad arricciare quella carta velina!Tre rotazioni per ogni fagottino,e dentroil pane con le uvette,oppure la michetta,tanto perfettache pareva un fiore.Il profumo inondava la via,una scia che ci seguivamentre si andava a scuola.

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Mi ricordola festa delle donne,quella mattina,per il pane bianco.Tu eri ancora piccolinoquando è finita la guerra.Oh, quanta fame,quanta miseria!Poi, pian piano,tutto è andato a posto.Passavate da me,voi bambini,prima di andare a scuola.Ero la fornaiadi via Napo Torriani.C’era anche quelladi piazza S. Camillo,ma voi di via Cappellinivenivate più spesso da me.Vi preparavo tutte le mattineil pane con le uvettee le veneziane fresche fresche.

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Pistulin, il gelataio

Ti immagino in Paradiso,caro omino del gelato,fra Angeli e Santi,tanto dolce è il ricordodi quelle estati favolose,quando il cortile polverosos'agitava di piedi scalziagli squilli della tua trombetta,d'ottone, mi pare, o di latta,comunque assai vecchiae tutta ammaccata.Un'unica notacinque volte ripetuta,e solo tre gusti:panna, cioccolato e limone.Ma dimenticavo la magìa!

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Ero piccolo e zoppo,mi chiamavate Pistulin.Facevo faticaad arrivare ai pedali,ma il carrettino andava… arrivavo,suonavo la trombettae tutti voi attorno a mecon la monetina in mano.D'estate andava bene,eravate tanti voi bambini.D'inverno era magra:vendevo solo bagigi e brustolini.*

* Arachidi e semi di zucca abbrustoliti

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IV

I ferraresi

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Anelusco C.

Voce rauca e mani enormi, eri il buon Anelusco, il calzolaio,«buono come il pane» si diceva di te in famiglia.La gentilezza era per te normalità.«Non dovete ringraziarlo,– ci ripeteva tua moglie –lui è fatto così…».E l’ospitalità onoravitrattandoci da gran signori:tutte le nostre scarpe lucidavi,e al risveglio ci offriviil fresco e la dolcezza del mattino.Oh, i fichi del tuo orto, bagnati ancora di rugiada!«Sono belli quest’anno,– dicevi –sono belli grossi, mangiate, mangiate!»E sorridevi, eri felice,nell’estate che scoppiavanella tua casa, nella tua campagna.

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Ah, tuo papà, poveretto,quando sono venuto a Milanomi ha aiutato tanto!Eravamo tanto amici!Lui in città ci era arrivato da giovane,aveva le mani bianche,e parlava in italiano.Io sempre in dialetto,con le bestemmie che mi scappavano,e avevo i calli sulle mani,e la faccia bruciata dal sole.Eravamo diversi,ma pur sempre ferraresi,e mangiavamo insiemei cappelletti e la salama,e poi il pomeriggio a parlare,e poi la sera ancora a mangiare.In campagna avevo lavorato tanto,a Milano ho fatto i lavori più pesanti.Ho messo da parte un po’ di soldie mi sono poi fatto la casa al paese.Era anche il sogno di tuo padre,poveretto, me lo diceva sempre!

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Balilla Z.

Eri contentoquando in agostonoi di Milano si tornava al paesee tu finalmente potevi condividereil tuo sapere deriso.«Da voi cittadini– dicevi –c’è tutto da imparare».E compiaciuto sfoggiavi parole,umile, chiedevi confermesu temi e argomenti ardui,indifferente al dileggiopersino di tua moglieche ti apostrofava:«Ma sta’ zit,cussa vot saver ti!»*

* «Ma sta’ zitto, cosa vuoi sapere tu!»

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Ero operaio metalmeccanico,ero specializzato.In paese dicevano che facevo l'intellettuale,ma era perché non mi capivano. Con voi cittadini era diverso,ero curioso,e mi piaceva stare con voi, discutere e parlare in italiano,con le parole giuste.Quando ho comprato l'automobile,mi sono sentito un gran signore.Passavo ore chiuso in macchina,all'uscita dalla fabbrica,o nel cortile di casa mia,a leggere e a pensare.Ogni tanto mi mettevo in testadi inventare una macchina nuovae dicevo in giroche volevo brevettarlae tutti ridevano di me.

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Luciano M.

Abitavi in fondo a viale Monza:era il quartiere dei ferraresi.Eri benestante rispetto a noi,e la differenza si vedeva:mio padre aveva il Bianchino,tu la Topolino.Oh, quella tua Topolinoche perdeva i pezzi per la strada!Eppure ci stavamo bene dentro,ci stavamo in sette.

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La guerra, i bombardamenti,e mio figlio sotto le maceriedella scuola di Greco.Poi arrivò una bambinae cercammo di dimenticare.Facevo il sarto, poi perdetti i clienti:compravano i vestiti confezionati.Venivano da me per le riparazionie allora io mi vendicavoe li stangavo ben bene.Prima erano stati bei tempi,si lavorava, ma ci si divertiva anche,ed eravamo tanto amici.Si ballava e si cantavaall'osteria del Boschetto.E a primavera si andava in Brianza,sulla mia Topolino decappottabile,voi tre bambini stavate in piedie vi divertivate un mondo.Morì mia moglie,poi morì anche tuo padre,e tutto finì.Chiesi una volta a tua madrese potevamo farci compagnia.Ma lei rifiutò.

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V

Gli insegnanti

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Norina G.

Sei stata la maestradei puntini e delle aste,della matita primae del pennino poi…Vennero le biro ma tu non le volevi,e la stilograficaa malincuore tolleravi.«Disimparate a scrivere,»– dicevi –«perderete la calligrafia».Ci leggevi piangendo il libro Cuore,recitavi piangendoLa cavallina storna,e noi composticon le braccia in seconda.La festa del risparmio…Il giorno freddo dei morti…La festa degli alberi…La Radio per le scuole…Sì, ricordo…e ricordo anche che il gioco non c'era,non c'era mai…Ma era così,non era tua la colpa.Noi, bambini del '50,avevamo poi la strada.

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Eri bravino, sì,ma tanto gracilino,e in prima non parlavi.Poi a poco a pocosei cresciuto,sei riuscito,e all'esame di quintasei stato bravo.Io non ero più con voi,c'era quel giovane maestrotanto severo…Ma io vi seguivo sempre,eravate sempre i miei scolari.

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Mario M.

Delle tue “ripetizioni”era l’epilogo che mi piaceva,quando, invitato a cena, andavi in cucinae preparavi tu il sugoper gli spaghetti alla pummarola.Dosavi attento gli ingredienti,raccomandavi alla mammache la pasta fosse al dente.Perplesso e un po’ diffidenteera il papà,abituato al ragù all’emiliana.Mi perdonerai se, più che il latino,ho voluto ricordare il donodi quel sapore, di quel profumo,di quel colore:il sole della tua terra.

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Ti ho preparato ioall'esame di ammissione,ti ho insegnato io l'analisi logica.I tuoi temi erano troppo cortie io ti dicevo che dovevi metterci«più colore e più calore».Poi, alle medie,venivo a casa tua,per le ripetizioni di latino.Tuo padre, in cambio,mi confezionava i vestiti.Lui era un bravo sarto e a me piaceva essere elegante.Ero stato ufficiale carristanella campagna di Russia,ero agile come un felinoa saltare sul carrarmato.Poi la disfatta, la ritirata…Una tragedia.Quando ebbi l'ictus,mia moglie voleva che scrivessi la mia vita.Non ce l'ho fatta.

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Silvia S.

Eri comunistae mio padre dicevache eri «senza Dio».Non ti ho voluto bene(ma non per questo),anzi ti ho odiato.Ma oggi soche mi hai insegnato:a leggere, ma non soltanto.Non dimentico, per esempio,come spiegavi la tua severità:«Non fidatevi»– dicevi –«di chi vi approva sempre:costui non vi vuole bene».Volevi dunque direche l'amore non c'èsenza il rigore.

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Mi davate della puttana,voi studenti,e dicevate un sacco di buagginiperché non leggevate,eravate ignoranti.Io facevo il mio doveree non mi stancavodi darvi liste di libri da leggere.Avevo ragione.So che spesso mi sogni.E so anche che hai letto molto.

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Alessandro T.

A nessuno negavi la sufficienza.Nei compiti in classetranquillamente si copiava,l’interrogazione era una pacchia.Con te non si studiava,si imparava, però, l’allegria.Con arguzia demistificavieroi, personaggi, opere.Ironico e ridanciano, a noi svelaviciò che nessun libro raccontava:il lato comico della Storia e della vita.Era logico, dunque, che in classetu non riuscissi a tener la disciplina.

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Ero ormai vecchio,ma venivo a scuolaanche con la febbre.Vi interrogavo dal posto.Ma parlavo sempre io,e vi raccontavo aneddoti,storie della mia vita,della Prima guerra mondiale,e mi divertivo,scoppiavo a ridere,e ridevo, ridevo…E voi sghignazzavate,sguaiati e rumorosi,ed era una bolgia.Mi facevate il verso,mi prendevate in giro.Non me ne accorgevo.Dai colleghi ero compatitoe il preside chiudeva un occhio.

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VI

Gli amici, i compagni di lavoro

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Alberto P.

Eri innamorato,molto più innamorato di me.A quell’amore hai creduto,io lo consideravo un sogno.Una storia, la nostra,rara, preziosa.Una storia d’altri tempi.

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Quanto siamo stati amici!Ci piaceva la stessa ragazzae ne parlavamo la sera,sulla mia Seicento.Una volta ci promettemmoche nulla sarebbe cambiato tra noi.Non fu così.La sposai,ci allontanammo,ci perdemmo.Ma quando stavo morendoti ho ricordato,te l'ha detto Mary?

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W.M.

In quelle grevi nottiquando alla Sip si lavorava(ma si doveva anchefar passare il tempo,e la volgarità non mancava),tu, composto e immobile,assorto e altero,marcavi una distanza:leggevi.Si diceva che in casa aveviminimo duemila libri.Altri sparavanocifre da leggenda:un libro ogni notte,dunque…Io allungavo talvolta l'occhioverso il tuo centralino:narrativa, filosofia, edizioni in tedesco…e quella notteil titolo verde di un libricino.– È bello? – ti chiesi.– È molto importante – fu la risposta.Me lo lasciasti per un'orae ti sono grato ancora.Era Lettera a una professoressa.*Diventai maestro l'anno dopo,era il millenovecentosessantotto.

* Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

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Tutti mi erano indifferenti,meno uno:era quello che leggeva,leggeva tanto come me.Ho letto tantoda finire pazzo.Non ce l'ho più fattaa sopportare la vita.

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Bel (Belisario)

Come ha potutola notte scendere,così improvvisa,così impietosa,sulle tue speranze,sui tuoi entusiasmi,sulle tue passioni?Imperdonabile l’ingiustizia,come un fulmine scagliatasulla nostra amicizia.

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I lunghi pomeriggiad ascoltare musica classica!Le notti alla Sipche non finivano mai!I cappelletti di tua mamma– due piatti –la sera primache tu partissi per il militare.Poi quel lampo improvviso.E tutto è finito per me.Tu hai ancoraquel libro di Pasoliniche ti ho regalato:ti vedo quando lo prendi in manoe guardi il mio disegnoe la mia dedica.

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Carli

Lavoravi giorno e notte,ma trovavi il tempoper coltivare la bellezza.Eri la signorilità, la gentilezza.Ci hai insegnato a cogliere sfumature o abissali differenze.La musica – dicevi –vive con l’interpretazione…E sul piatto posaviuno dietro l’altro i dischi.Frammentavi, scomponevi,proponevi versioni:l’ascolto era confronto.

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Ero un patito di Furtwänglere tu di Karajan.Eravamo un bel gruppetto:tu, Bel, Vanio.Ed era una bella musicaquella che si ascoltavadavanti al mio Grundig.Ore e ore,fino allo sfinimento,e non si parlava d’altro…Avevamo idee politiche diverse:io, profugo istriano,non ero certo di sinistrae voi lo sapevate…Ma erano i colori della musicache vi interessavano,che ci univano.

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Marta

Eri neve.La neve del mattinoche sorprende.E ci stupivano i tuoi doni,anche per quanto spendevi,perchè la bellezza costa,ma tu non ci badavi.Eri neve.Nulla ti ferivaquanto la volgaritàdei nostri giorni,e allora citavi il tuo Rilke, il tuo Magris,e con la mente andavialla tua Gorizia.

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Sono tornata alla mia terrae tu ricordi quanto la amavo.Ora sono unitaagli alberi dei miei boschi,alle onde del mio mare,al profumo del mio vento.Mi eravate cari.Amavo la semplicità,vedevo con voi la poesianelle piccole cose.

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Giuseppe D.

Quanto amore hai dato,tu che non potevi averne(ma nulla traspariva,tanto gioiosa era,o appariva,la tua vitalità).Quanto ci siamo stimati:– io il più bravo d'Europa –– tu il più bravo del quartiere –così ci dicevamo scherzando.Maestri eravamo entrambi,ma eri tu che mi insegnavi,anche se non volevo ammetterlo.E sei tu, ancora, che mi ricordiche la via giusta è quella lontana, molto lontana dal «Sé».

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Ai bambini volevo bene, specialmente agli ultimi,i più disgraziati,e ne ho avuti tantiin quegli anni in Comasina.La scuola era tutto per meperché c'erano loro,e a loro dicevo:«Io non vi dò niente,ma voi sì,siete voi che dovete dare a me».Ero un maestro «permissivo»– dicevano certi miei colleghi e soprattutto i direttori –.Ma a me stava a cuorela felicità dei miei scolari,e facevo di tutto per farli star bene.Andavo anche a casa loroe diventavo amico dei genitori.Li portavo a sciare e camminare,a giocare al pallone e in piscina.Questa era per me la scuola.

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Giorgio D.

L'immagine di te più veraè in quella fotografia:eri a Capo Nord, c'era freddo e buioanche nel tuo cuore,come sempre, del resto.Il tuo sguardoè come sospeso,nei tuoi occhiuna specie di domandadolorosa,gonfia di asciutte lacrime.Sei tu,pulito e limpidocome l'acqua che ti circondae che tu non guardi.

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Tu eri un decisionista,io avevo i miei tempi,e avevo anche dentrola fatica di vivere.Qualcosa ho fatto con te,poco,e per poco.Tu mi rimproveravie non capivi.La fotografia: un lampo.Tutto per merestava incompiuto.E nulla colmavail mio vuoto.Mi ricordoquando hai piantoascoltando Guccininella mia macchina.

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Anche la musica– un'altra mia passione –è finita presto.Ero sempre più solo.E solo, quella notte d'ottobre,– «solo come un cane» –avete detto voi,io me ne sono andato.«Staca la linea!»*

*«Stacca la linea!»: esclamazionericorrente – quasi un intercalare – diGiorgio, elettricista dell'AEM.Un'espressione usata durante le riparazioni, quando la linea elettricadoveva essere messa in sicurezza(staccata).

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VII

I Fratelli della Valle(1980-2000)

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Fratelli della Valle*

Ogni anno lassù,noi di Milano,a chiedere cieli azzurri,a coglierela luce d'oro del grano,i fragili rossi dei papaveri,a cercare, la sera,il miracolo delle lucciole.

Ma eravamo solo estranei spettatori.

E l'estateera solo vostra,fratelli della valle;vostraera la sete della terra,vostrele fontane ammutolite,vostrala solitudine scuracome un mallo che scoppia.

* La Valtrebbia

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Piero R.

Ne ho fatto di lavoroe sempre tutto da solo.Voi venivate d'estatequi da noi a riposare,e noi a lavorare,a mietere, trebbiare, arare…Avanti e indietrosul mio trattore,dalla mattina alla sera…Avevo sempre tanti bambini dietro,anche i tuoi,e tu venivi la seraa trovarmi nella stalla,mentre io mungevo.Avrei continuato la mia vita,ma mi sono ammalato.Prima la trombosi,poi l'alzheimer,e giravo per il paesesenza capire più niente.Mi hanno venduto il trattoree tutti gli attrezzi.Era finito tutto.So che mi ricordiquando passa un trattore,sarà l'unico ormaia Santa Maria.*

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*Santa Maria di Bobbio (PC)

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Battista P.

Quando siete arrivati– era il primo anno –non mi piacevate,specialmente quel tuo amicoche suonava la chitarra.Eh…!Voi villeggiantifacevate tanta di quella confusione!E i vostri bambini tanto di quel chiasso e tanti disastri,ché erano anche un po' maleducati!Ma poi, via, col tempo ci siamo conosciuti.Io sul "mio"– la mia casa, il mio orto, il mio campo – mi facevo gli affari miei,però parlavamo insieme,qualche volta vi brontolavo dietro,ma, via,eravate brave persone.

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E a ferragostoero con voi per il pranzoe portavo il mio vino.E a tua moglieregalavo le patate.

Quando mi hanno portato via,mi ricordo che c'eri,io piangevo e tu mi diceviche non era niente,che non avevo niente di grave.Eh…!

La vedo la mia casa,fuori è ancora uguale,ma dentro la Marinellal'ha fatta bellae so che nel cortiletu vedi ancora la mia ombra.

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VIII

Tra Affori e Bovisa(1990-2000)

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Carlo

Non sapevamo la tua storia,qualcuno neppure il nome.Non sapevamo il perchédi quella solitudine diversa,il tuo improvviso apparire,le poche parole sempre le stesse,e l'eterno andare come un fuggireper le vie, per il parco, in biblioteca.Chissà se qualcuno ha imprecatoa quella fermata non prevista – ci voleva anche questa –– morire proprio qui a quest'ora –.Chissà se qualcuno avrà visto il tuo silenzio scenderedall'autobus lento della sera,o i passi leggeri dell'ultimo tuo pensierosulla via verso casa.

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Chi eravate voi?Io non lo sapevo.Io dovevo andare,dovevo andare,e andavo, andavo,senza incontrarvi mai,sempre di fretta.Solo qualche volta,solo l'attimo di chiedere«Ce l'hai una sigaretta?»

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Renzo S.

Silenzioso custode della memoria,avevi Affori negli occhi e nel cuore.Ci hai insegnatoche conservare il passatoè un atto d’amore.

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Ho camminato tantoe tanto ho cercatonelle vie del quartiere:sapevo che in ogni casapoteva esserci un tesoro.La mia collezione!È stata bellal'idea della fototecae anche quella mostrasulle mie cartoline,le più belle, le più rare.Ti saluto,stammi bene.

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Luigi Mazzari

Eri tenace come un salice,elegante come un cipresso,vecchio signore ex operaio,operaio scomodo– come raccontavi –isolato un giornoin una guardiola.Pensava il padronedi ridurti al silenzio.Ma là dentroscrivesti quel «Fagotto di farina»,*un piccolo grande libroche ho amato.Hai raccontato, hai insegnato,perfino alberi in città hai piantato,con l'amore per la piazza,la bellezza, la giustizia, la pacesempre nel cuore.

* Luigi Mazzari, Un fagotto di farina, edizione autoprodotta, Milano, 1999.

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Ho cercato di far capirecome dal piccolo nostro quartieresi potesse vederee abbracciare il Mondo.Ma bisognava che la gentefosse preparata e informata.Che la cultura veraarrivasse dappertutto.Per tutta la vitami sono battuto.E voi continuate,continuate così.

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Appendice

Tutti, tutti,dormono sulla collina

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D alla Valtrebbia una raccolta di volti di chi è stato: gente comune di

paesi e villaggi come ce ne sono tanti.*

Non ci sono epitaffi, ma le immagini sono tutt’altro che mute: ogni

ritratto è sempre e comunque il “luogo” in cui si racchiude il destino di

un uomo.

Nel tentativo di testimoniare il passaggio di una vita, le fotoceramiche

delle lapidi si rivelano simboli dello sgretolamento nel tempo della realtà

fisica: immagini dolenti, spettrali, diafane entità, pure parvenze.

Metafore del ricordo che scorda: morti, moriamo ancora. E per questo

suscitatrici di un sentimento che ha bisogno di essere continuamente

alimentato: la compassione per l’umanità.

* Immagini tratte dalla mostra realizzata (in collaborazione con Mauro Colella)nel febbraio 2002 allo Spazio Foto Villa Litta, Biblioteca Affori, Milano

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Postfazione

Volti e vocidi Roberto Signorini*

Questo libro propone non solo parole ma anche immagini, non solo “voci” maanche “volti”. Chi legge è dunque implicitamente spinto a cercare il rapporto chelega le due realtà.

Anzitutto, come risulta dalla nota bio-bibliografica, l’autore promuove da undecennio, attraverso l’associazione culturale La Camera Chiara, sia mostre edibattiti sulla fotografia sia occasioni di riflessione sulla scrittura come praticadella memoria. In queste pagine, dunque, egli sembra avere voluto unire i duemezzi di espressione e rappresentazione su cui si concentra il suo impegno cul-turale e creativo. E poi, soprattutto, c’è il titolo della sequenza di immagini:“Tutti, tutti, dormono sulla collina” è un verso dell’Antologia di Spoon River(1915) di Edgar Lee Masters, come l’autore stesso dichiara. Con questa citazioneegli sembra indicare nella “collina” il luogo ideale della memoria, da lui ricostrui-to attraverso una ricerca fotografica sui cimiteri della Valtrebbia: una ricerca cheviene spontaneo immaginare collegata alla gestazione dei versi in cui egli rico-struisce le figure dei suoi morti. Così, i ritratti fotografici di sconosciuti trovatisu quelle lapidi, attraverso il prelievo fotografico diventano qualcosa che è anchesuo (“i volti del mio prossimo, […] toccanti perché anonimi”), e quindi entranoin rapporto con le “voci” che nelle pagine precedenti egli ha raccolto.

Ma questi volti sono anche “commoventi perché imprecisi, rovinati dal tempo”,“simboli dello sgretolamento nel tempo della realtà fisica”, e la sequenza foto-grafica li presenta in un crescendo di consumazione, quasi formassero un unicoritratto che andasse dissolvendosi sotto i nostri occhi con processo inverso aquello del suo emergere, un tempo, sotto gli occhi del fotografo dal bagno di svi-luppo in camera oscura. Alla fine della sequenza ci si arresta sulla soglia in cui,scomparsa ogni somiglianza iconica, ciò che resta, caparbiamente, è la pura trac-cia fotochimica, il nudo indice materiale che qualcuno, o qualcosa, è stato(Barthes, La camera chiara, 1980): difficile non pensare, più in là di Lee Masters,

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al Leopardi del Coro di morti (Operette morali, 1824): “in te, morte, si posa/ nostra ignuda natura”. In quale rapporto sta con le parole questo pro-gressivo azzerarsi delle immagini?

L’autore scrive che “se il tempo scolorisce e a poco a poco cancella i volti, nellamente e nel cuore continuano a risuonare le voci di chi è stato”. Qui, mi pare, sistabilisce la relazione più profonda tra le immagini e le parole del libro. Il rap-porto fra immagine e parola è molto stretto fin dalle origini della fotografia: pen-siamo a The Pencil of Nature di Talbot. Ma da allora si tratterà di un rapporto sem-pre problematico, che ogni autore e ogni fruitore dovrà inventare e interpretaredi nuovo, senza poter mai permettersi di considerarlo “trasparente” per l’intrin-seca ambiguità dell’immagine fotografica, per il suo paradosso di figurazione per-cepita nello stesso tempo come intenzionale (“matita”) e come automatica(“natura”). Nel caso di questo libro, il rapporto fra immagini e parole indicatodall’autore è il contrasto fra lo sbiadire delle prime nel tempo e il perdurare delleseconde come eco mentale. Si tratta di una chiave interpretativa sorprendente:non viviamo forse nell’epoca del dilagare delle immagini tecnologiche, iniziatoappunto con la fotografia, e dell’apparente ridursi della memoria a memoria visi-va, con una perdita completa di altre forme di memoria, fra cui in primo luogoquella verbale, orale e scritta, come dimostra anche la vistosa crisi dell’interesseper la prospettiva storica? Non viviamo forse nell’epoca in cui, con un autentico“rovesciamento storico” (Barthes, “Il messaggio fotografico”, 1961), le parolesono diventate una semplice “patetizzazione” delle immagini?

Rispetto a questa situazione culturale, il libro che abbiamo in mano fa la propo-sta, fortemente suggestiva, di un altro rovesciamento: dalla sequenza dei “volti”,sempre più corrosi e cancellati dal tempo come è in effetti inevitabile che acca-da ad ogni fotografia chimica, esso implicitamente invita a tornare alle “voci”delle pagine precedenti e al loro mobile gioco dialogico, ricavando così l’impres-sione che queste, pur costruendo identità mai concluse e oggettivate, proprio peril loro interno e inarrestabile movimento restituiscano quel senso della vita chenelle fotografie dei “volti” sfugge non meno delle ombre dei morti al protagoni-sta dell’Odissea sceso nell’Ade per interrogarle. Certo, le “voci” sono altrettantofragili quanto i “volti”: anch’esse dureranno soltanto finché qualcuno sarà dispo-sto a evocarle e farle risuonare dentro di sé. Ma questo non fa che evidenziare

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quanto sia sempre illusoria la speranza, che pure è stata la potente motivazioned’origine della fotografia, di trattenere un frammento del passato facendone unatraccia indipendente dal nostro rievocare e reinterpretare: anche l’apparenteoggettività dell’immagine-indice fotografica (prodotto della “natura”) richiede,non meno della parola (prodotto della “cultura”), di essere continuamente riatti-vata e ricaricata dal nostro consapevole intervento, che della traccia di un è statosappia fare la memoria di un è stato per me, ossia per noi, con tutto il carico distoria, personale e collettiva, che questo comporta.* Studioso di teoria della fotografia

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ALFREDO TAMISARInota bio-bibliografica

È stato insegnante elementare negli anni '70 - '80 nelle scuole di Bollate e Novate Milanese.Impegnato nel rinnovamento della didattica, ha realizzato sperimentazioni e coordinato laboratorinegli ambiti dell'educazione linguistica, dell'educazione alla poesia, dell'educazione all'immagine. Lasciato l'insegnamento, si è dedicato alla fotografia, alla scrittura e alla promozione culturale inambito associativo. Dal 1997 è presidente dell'Associazione culturale La Camera Chiara - Fotografia arte cultura(Milano).

PUBBLICAZIONI

La poesia nella scuola elementare, in Insegnare letteratura nella scuola dell'obbligo (a cura diEdoardo Lugarini), La Nuova Italia, Firenze, 1985

Pane giallo pane nero - 1900-1945 - La memoria salvata dai ragazzini, a cura di Lelio Scanavini eAlfredo Tamisari, Editrice I Dispari, Milano, 1995

(a cura di): Biblioteca Comunale Centrale, Biblioteche Rionali Affori e Dergano-Bovisa, Rivista «IlSegnale», Associazione La Camera Chiara, Quel libro nel cammino della mia vita - Antologia ditestimonianze, Ed. Comune di Milano, 2000Il volume è pubblicato in versione elettronica in: www.lua.it/pubb/nostos/index.html

(a cura di): Associazione La Camera Chiara, Rivista «Il Segnale», Biblioteca Comunale Centrale,Biblioteche Rionali Affori e Dergano-Bovisa, Per un archivio della Piccola memoria - Storie personali, ricordi, narrazioni - Con un CD Rom di fotografie e immagini, Ed. Comune di Milano incollaborazione con Coop Lombardia, 2004Il volume è pubblicato in versione elettronica in: www.lua.it/pubb/nostos/index.html

Parli come badi! - Dizionario della stupidità e dei luoghi comuni, Milano, 2005, fuori commercio.

Francobolli di tempo - Microricordi (1950-1970) e un racconto breve, Milano, 2005, fuori commercio.Il volume è pubblicato in versione elettronica in: www.lua.it/pubb/nostos/index.html

Alfredo TamisariVia Forni, 72 - 20161 Milanotel 02.64.57.257 - 340.60.68.324 e-mail [email protected]

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Finito di stamparenel mese di Giugno 2007

presso la Global Print di Gorgonzola in Via degli Alberi, 17/1