Nella mente di Jane. Emergere dal silenzio

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Jane è una storica d’arte e vive a Roma. Il suo lavoro consiste nell’estenuante ed appassionante ricerca e catalogazione di dipinti, appartenenti ad una collezione privata, che non possiedono ancora un nome ed una connotazione. Vive la realtà narcisistica e liquida dei nostri tempi, senza confini, senza reali incontri, dove ci si perde e disperde negli sguardi della gente, senza mai riuscire a contattarla veramente, provando intimamente una sensazione di sconfinato vuoto interiore. Parallelamente a questa ricerca, emergerà il bisogno di un’altra, che porterà Jane alla scoperta di sé stessa. Dalla confusione iniziale, che suscita sensazioni di smarrimento e scissione, si evolve progressivamente verso una condizione, o stato mentale d’integrazione, dove tutto rientra in una cornice d’appartenenza dotata di senso. Così, lentamente, prenderà via in Jane la ricerca di sé e così come i suoi quadri un’identità troveranno così, i suoi due mondi finalmente combaceranno.

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A Tu per Tu

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Tiziana Campanella

Nella mente di Jane

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Prima Edizione: 2013

ISBN 97888898037285© 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2013 in Italia da Digital Print Service srl - Segrate (MI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psi-conline® Srl)

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A Dora, Rosaria e Mariolina

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Indice

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I

Andare o restare. Scappare o aggredire. Mentire e fi ngere di non sentire. Giusto o sbagliato. Bianco o nero. Essere liberi e indipen-denti o fragili e inconsistenti. Scrivere per sciogliere e districare tutto quello che c’è dentro, dipingerlo con un acquerello, rappresen-tarlo pur di non ingoiarlo. Senza fare rumore.

Correre ineluttabilmente verso qualcosa per poi scoprire che non ha sapore, interrompersi per restare un po’ tra la mente, a rincorrere fantasie, echi di antichi suoni, a fantasticare una vita diversa, intinta di qualcosa di buono, immaginarla piena di passioni che disarmano ogni delusione e poi, ritornare in una terra reale che come un deserto condanna alla disperata e perenne ricerca di una goccia d’acqua, pregando che non sia solo frutto di un errante miraggio.

Dentro questo paesaggio io viaggio. Ora avanti, ora indietro. E non mi arresto mai, nonostante io, resti ferma.

Avete mai avuto la sensazione di percorrere due fi umi che non s’incontrano mai?

Sono in partenza. Sono su un treno che corre troppo veloce-mente. Non riesco a pensare. Non riesco a respirare. Ho sbagliato tempo, ho sbagliato luogo, ho sbagliato posto. Un’epoca fa si viag-giava diversamente. Il tragitto da città a città consentiva tempo per pensare verso cosa si stava per andare, permetteva di ascoltare e di conoscere la gente che accanto gentilmente ti sorrideva. Erano per-corsi più emozionanti, meno caotici, scanditi da un ritmo molto più lento. Oggi gli aerei azzerano quest’attesa, creano solo ansia della salita e della discesa. Non si gusta più quella trepidante emozione che precede l’arrivo in un luogo che si ha il desiderio di visitare, il piacere è defraudato da una vista che ha occhi che non sanno più

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guardare, catturare e fotografare scenari degni di devota ammira-zione. Si scartano ed ingoiano caramelle senza neanche aver intuito la peculiarità della loro essenza. Si vola da una città all’altra con la stessa ed identica direttiva.

Il massiccio ed ormai esclusivo, utilizzo di internet e dei com-puter, schermi luminosi che attirano tutta l’attenzione, di mezzi di comunicazione come facebook, non promuovono altro che l’appiat-timento della relazione e dell’emozione. L’unico motivo ricorrente in questa giostra, in quest’atmosfera, è il prevalere dell’apparenza, del mostrare e contattare chissà quante persone virtualmente senza però mai incontrarle veramente. Queste nuove frontiere, a dir la verità, non hanno fatto altro che abbattere tutti i confi ni della realtà.

Oggi mi sembra di trovarmi in uno spazio-tempo poco chiaro, poco defi nito e non strutturato, dove tutto si consuma in un attimo, dove la velocità del fare ha spodestato completamente tutte le sfu-mature che regolano l’incontro con l’altro. Mi sento immersa in una fi nzione e in una rincorsa alla perfezione, senza profumi, né distin-zioni. È come se mancasse un pezzo. Già, ma non capisco più quale.

Non ci sono più le giuste distanze. A volte mi sembra che le per-sone si confondano l’una con l’altra. Ed è per questo che mi sono abbastanza indifferenti. A volte le immagino come un colore che cola e mischiandosi con gli altri si sfuma e assume miriadi di sfu-mature, crea vortici convergenti che muovendosi portano con sé le tonalità degli altri colori e unendosi continuamente sono destinati a cambiare. La loro essenza sfugge e con essa anche la loro forma.

A me sembra di essere costantemente alla ricerca di qualcosa che desti tutti i miei sensi, che li amplifi chi e che mi faccia sentire fi nal-mente viva. Cerco di ritagliarmi angoli di sensibilità che sembrano appartenere a poche personalità, diffi cili da incontrare, ancor di più da contattare. Non mi resta che aspettare e sperare di annusare qual-cuno che le sappia apprezzare e scoprire come me.

Quando mi guardo intorno quel che noto con un certo brivido di rassegnazione è che la gente, nonostante tutto questo miscelarsi in qualcosa di dissolvente, è persa unicamente nella propria individua-

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lità. Siamo tutti soli con noi stessi.Siamo tutti concentrati su una linea ideale dentro la quale stare

o ambire. I valori sono mutati, gli obiettivi ne sono stati infl uenzati e l’entusiasmo genuino che brillava negli occhi della gente piena di serenità è svanito. Siamo accecati da una perdita di sensibilità e vulnerabilità che permettono l’autenticità, la vera creatività e la vera voglia di vivere.

Cosa potrei condividere con le persone che qui, in questo vagone, mi sono vicine? Ognuno lo sento isolato dentro il suo guscio, dipen-denti da apparecchi cellulari che non fanno altro che incrementare il controllo sull’altro, che spogliano di ogni mistero l’incontro casuale o mancato. I lori occhi sono puntati su computer. Oggetti diventati ormai il prolungamento di se stessi. Ma, d’altronde, questo io lo so molto bene. Ognuno ne ha uno proprio. Anche io ho il mio.

Mi guardo intorno. Adesso i vagoni di questi nuovi ferri a motore ad alta velocità,

sono diventati tutti interi. Prima erano comodamente suddivisi in cabine da cinque o sei posti e questo permetteva un’intimità più vera, una possibilità di scambio. Così, invece, in questa disposi-zione, dentro un lungo spazio comune tutto aperto e decisamente troppo stretto, diventa fastidioso sentire qualcuno che chiacchiera un po’ più lontano. Partecipare è praticamente impossibile. Diviene perciò solo un ronzio di sottofondo che risulta irritante. La persona che mi siede di fronte è già ritirata ed impegnata a guardare un fi lm sullo schermo del suo personalissimo ed inseparabile portatile e per questo è già da scartare.

Sospiro. Riesco solo a pensare che restano delle lunghe ore da occupare. I miei occhi si abbassano. Non mi resta altro da fare che azzerare ogni suono esterno, concedermi alla musica che viene dal mio profondo e abbandonarmi alle mie visioni e sensazioni. Incon-trare gli occhi della mia mente. Scivolo dentro canali di immagina-zione, mi lascio trascinare dentro scenari che ho voglia di vistare, mi perdo nel mio mare interiore che solo io so come attraversare. So a quale giusta profondità immergermi, ascolto le note che suonano

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una melodia che non è mai casuale, ma legata visceralmente con qualcosa che le parole non riescono a spiegare. Ora è un lamento, che ha le sembianze del mio tormento, è un grido disperato che raggiunge niente e nessuno, è un tamburo che come un fuoco si accende e poi si spegne, è un fruscio delicato che mi permette di stare in silenzio, ad ascoltare quello che più in quel momento mi scorre dentro.

Tutto quello che mi serve è un po’ di tempo, un po’ di pace per la mia mente, tutto quello che voglio è andare oltre questo sole, cam-minare e sentire il mio peso. Ho bisogno di una musica dentro la quale stare e risuonare, un luogo, dentro cui io, mi possa ritrovare. Per cui valga la pena di restare. I labirinti della mente sono infi niti ma ognuno inconsciamente ripercorre quelli entro cui si sente più sicuro. Ma a volte si tramutano in percorsi senza meta, senza via di uscita e allora diventano solo inganni. Io ho i miei.

Mi piace andare oltre quello che vedo, quello che scorgo lì in quel momento davanti a me. Lo so, sono io a isolarmi, a prendere le distanze ma non vedo cos’altro potrei fare. Gli interessi non com-baciano. La passione nella gente è scomparsa o apparsa sotto forme a me avverse. Si litiga per niente e si parla di cose futili e a me non resta altro che viaggiare con la mente.

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II

Dopo una lunga assenza sto tornando nella mia terra amata quanto la mia stessa pelle. L’Inghilterra. Riesco già quasi a perce-pire il clima differente, l’aria dal carattere più intrigante.

L’impressione che suscita il primo contatto è in qualche modo pur sempre veritiero. Sono pronta a riascoltare quello che la terra mi suggerirà; le sue vibrazioni, ne sono certa, giungeranno fi no al cuore ed i miei sensi mi bisbiglieranno l’emozione prevalente.

Questa piccola stazione è ancora libera dall’affollamento che di solito ormai caratterizza tutte le grandi città. Cammino e mi guardo intorno con la vaga sensazione di sentirmi immersa in un bagno fresco di fi ori profumati. Mi sembra di essere piacevolmente accom-pagnata dall’armonia che regna in questo piccolo e lontano paradiso, scandito da un ritmo lento, decisamente più calmo.

Intravedo un taxi, mi avvicino, l’autista scende e scambiando un segno d’intendimento, gentilmente mi aiuta a posare i bagagli dentro l’autovettura e, quasi per non alterare la fl uidità di quest’at-mosfera inebriante, entriamo in macchina in silenzio e procediamo per una via che conosco davvero molto bene ma che oggi mi sembra di vivere come se fosse la prima volta, tanto è l’entusiasmo che mi scorre nelle vene, tanto è limpido il mio cuore.

L’aria non è tersa, ma questa lieve nebbia che incontriamo non rovina lo scenario, anche quella più fi tta che avvolge il Glamis Castle, più a nord nella verdissima Scozia, un luogo davvero incan-tato e inquietante, poiché abitato da spettri di anime perse nel loro tormento infi nito, pieno di misteri e di segreti che non possono essere svelati, non sarebbe in grado, in questo momento, di offu-scare, come un velo totalmente coprente, quel che è libero di traspa-

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rire e prender forma in modo parziale per continuare nella mente, a chiuderne i contorni in un processo sorprendentemente nutriente.

Guardo e mi lascio attraversare da quello che vedo. Con incredu-lità noto che tutto sembra esser rimasto come inalterato, nonostante l’estensione delle costruzioni, queste strade sembrano immutate, tanto da farmi immaginare per assurdo che qualcuno abbia potuto fermare lo scandire del tempo, come in un fermo immagine.

L’automobile prosegue con un passo adagio, l’autista ha messo via la parola, è buffo ma sembra quasi percepisca lo stato in cui mi trovo, e assorta dentro questa mia scoppiettante energia che pur non muovendosi fa rumore, ci accingiamo a percorrere un vialetto non asfaltato, senza recinzioni né schiere fi tte di abitazioni, solo distese di verdi colline a riempire un paesaggio che sa di familiare.

L’auto si ferma, una sensazione di euforia cresce. Chiudo per un attimo gli occhi. Smetto di respirare per un momento e d’in-canto tutto mi appare. Le mie mani scivolano tremanti sul mio viso. Non riesco a scendere dalla macchina, vorrei rimanere qui ancora e ancora per godere dell’emozione, tenerla stretta a me un altro po’, ma qualcosa mi spinge subito via da quell’abitacolo avvertito d’im-provviso troppo stretto, ormai, per contenere quel che provo dentro. Rischia di esplodere, se non esco subito e tramuto tutto questo in un grido, in un richiamo che come un faro attira tutta l’attenzione su di sé.

- Ehi! C’è nessuno in casa? Ci siete! Mamma, Susan sono tor-nata!-.

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III

La pioggia corre via sul fi nestrino del treno che continua ad andare.

Guardo la mia valigia, ripasso in rassegna le cose al suo interno; di sicuro ho dimenticato qualcosa, anzi, a dire la verità, ho la sensa-zione che sia vuota, ho sistemato casualmente le prime cose che ho trovato nel mio armadio e sono partita.

Ormai è quasi buio e a me sembra di essere in uno stato di dor-miveglia. A volte ho la sensazione di sentirmi neutra, come sospesa. A volte accade, forse per effetto di ombreggiatura, che il sogno coli oltre i suoi confi ni, che i colori che compongono la sua tela vadano oltre il sonno, che le immagini ripercorrano continuamente gli occhi e le sensazioni affollino la mente, creando confusione in un quadro che risulta surreale, dove gli oggetti restano della stessa forma ma cambiano la loro consistenza o, rimangono della stessa materia ma cambiano la loro essenza.

È il gioco di sensazioni ed immagini che organizzano le mie per-cezioni. È una casa buia anche se fuori splende la luce del giorno. È un castello possente che poggia su niente. Ѐ un cielo dentro un bicchiere trasparente, è un cavalletto che regge il quadro creato dal paesaggio che guardo oltre la fi nestra, è una statua di marmo bianco ferita di rosso alla testa.

L’oscurità delle nuvole ricoprono l’azzurro ormai diradato del cielo, che si rifl ette dentro me, quasi fossi senza alcun fi ltro.

Roma è ormai lontana, sono quasi giunta alla mia città natale e ad ogni chilometro percorso amplifi ca sempre più quella sensazione, sì, proprio quella che mi fa smettere di respirare, non per l’emozione, ma per il timore.

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Se potessi deraglierei il treno, cambierei la destinazione. Ma no. Non si tratta di questo. Ciò che vorrei fermare è tutto ciò che dentro la mia mente mi assale e mi interrompe. Questo va aldilà del luogo che raggiungerò. Non è questo il mio primo viaggio e di certo non sarà l’ultimo, ma è sempre in questo tranello che incorrerò. Non sono i chilometri, né gli spostamenti a provocarlo. Sono sensazioni che, pur rimanendo immobile esattamente dove sono, arrivano ugualmente e mi confondono inavvertitamente.

È un profondo mistero come questo avvenga, ed è un segreto come io abbia imparato a remare in questa bufera.

Il mio mare. Ecco una cosa per cui vale la pena tornare. Vi prego tacete tutti dentro questo treno, non dite nessuna parola, lasciatemi pensare, lasciatemi immaginare il profumo del mio mare ed il bisbi-glio del suo vento, stretti in un’intimità che farnetica secondo il battito del loro tempo, fatemi annusare quel che provo quando mi ritrovo lì davanti a contemplare. È solo in quegli istanti che mi sento come in un’oasi di pace. Ho voglia di ritrovarmi su quelle rocce appuntite su cui so come camminare, come mettere un piede dopo l’altro per potermi fi nalmente avvicinare e toccare quell’acqua pro-fonda e blu, affi darmi al ritmo del suo andare e tornare senza nau-fragare, ondeggiare e fare posto al ritrovato silenzio, che rimane con me per un po’ anche quando, allontanandomi, lo vedo nascondersi dietro il giallo delle spighe di grano che sembra ogni volta volermi salutare e accompagnare fi no all’entroterra.

Ci siamo. Il treno si è fermato. Sono arrivata.

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IV

- Jane! Oh, mia cara, sei proprio tu! -.- Mamma! Sono io, sono tornata! -. Mi precipito verso di lei, i passi corrono senza il mio controllo

volontario e in un intenso abbraccio, fi nalmente ci ritroviamo. Ho aspettato e rincorso con l’immaginazione questo momento per troppo tempo. Già l’incontro con questi miei luoghi hanno ampia-mente risvegliato in me antiche e beate emozioni, ma non vi è ben-venuto più appagante dell’intensità dello sguardo di mia madre.

Infi nite domande vorrebbero sbocciare per chiedere di lei e rac-contarle di me, ma desisto ancora da questa tentazione per gustare il sapore della felicità che ha questo incontro.

Le lacrime, senza fretta, scivolano lungo i confi ni del mio viso, posso sentire tutta la loro lentezza, goccia a goccia, la delicatezza con cui prendono forma allontana tutta la tristezza che mi ha accom-pagnata fi no a questo momento e mi fa intendere quanto in realtà mi sia mancata, quanto l’abbia intimamente desiderata, soprattutto nei momenti più diffi cili.

Ma non serve che io le dica tutto questo, un sottile mormorio, che produce strane vibrazioni, farà riecheggiare in lei, gli stessi suoni, li terrà un po’ con sé, per intuire la melodia e son certa che compren-derà.

Finalmente dopo quasi dieci anni, in questi reali istanti ci incon-triamo e in un caldo abbraccio ci stringiamo, tutto il resto è momen-taneamente sospeso, in stand by, il tono di ciò che c’è intorno e dei relativi pensieri che viaggiano per la mente si riduce, niente riesce a distogliere la mia attenzione da questo momento presente. Sostiamo così fi no a quando il battito non si è regolarizzato, fi no a quando

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le vibrazioni del mio corpo non si sono smorzate, fi no a quando le lacrime non si sono lentamente asciugate.

Mi sento come uno scrigno che ha dovuto tenere tutto sigillato al suo interno, solo che adesso il lucchetto è stato aperto e fi nalmente può sbirciare all’esterno.

Solo adesso il mio sguardo inizia a passare in rassegna tutto il resto, si direziona altrove, a cercar indizi che confermano che non si tratti di un sogno, a rincorrere quegli oggetti e angoli della casa su cui spesso, in passato, mi soffermavo, invaghita da chissà quale passeggero pensiero, per poi oltrepassare la fi nestra lì adiacente e continuare a svolazzare nel cielo spensieratamente.

Antiche sensazioni si sposano con giovani emozioni. La mia casa di origine e la mia meravigliosa Inghilterra sono

talmente belle e simili a come le ho vedute l’ultima volta da farmi rabbrividire. Sono rimaste ferme come un quadro dell’Ottocento, incastonate in un qualcosa che non può ledere la loro identità.

L’oscurità del cielo sembra decisa a voler coprire le sfumature calde dell’orizzonte che sembrano voler ancora danzare.

Anche a me oggi, in questo giorno così speciale, sembra che, nonostante l’avanzare del primo buio, un tenue bagliore di sole tende a primeggiare.

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V

La distesa di terra che si estende fi no giù, ai limiti della proprietà, è piena ormai di alberi nudi, spogliati delle loro gemme, dei loro frutti e delle loro foglie che segnano i cambiamenti ed il susseguirsi delle stagioni. Resta l’inverno a soffi are freddi venti e a me sembra di indietreggiare per aspettare, sospirare mentre il ciclo naturale riporti il proprio start su periodi più propizi.

A volte, o troppo spesso, mi sembra che questo fl uido e conse-guente divenire lasci posto a strane ripetizioni, a falsifi cazioni di uno spazio e di un tempo che in realtà appartengono al mio interno e allora mi sembra di piombare in una realtà che mi fa saltare di stagione in stagione e ripartire sempre dalla stessa, interrompendo quella sottile linea fondamentale che permette di orientare.

E così resto incastrata ed immersa in una condizione che è uni-camente mentale.

La casa dei vicini è muta. Non c’è nessuno. Né voci, né suoni. Guardo il portico e mi appare ancora rivestito dalla pianta verde della vite che innalzandosi si ramifi ca, creando una copertura abba-stanza fi tta per ripararsi dal caldo torrido dell’estate salentina, da permettere al soffi o del vento di fi ltrare e, alla sera, qualche stellina lassù nel cielo di ricercare. Lo ricordo ancora come se fosse ieri. La guardavo nell’angolo del fi rmamento incantata dalla sua sicurezza di continuare a brillare.

Riesco ancora a sentire sulla mia pelle, lì seduta sotto quell’al-bero, la brezza del vento e quella musica incantevole che le foglie a forma di cuore toccandosi l’una con l’altra, riproducevano. Sono qui ad assaporare qualcosa che non c’è più. Ma perché?

Non riesco a stare con quello che adesso qui posso solo guardare,

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è come se sfuggissi a scenari tristi che provocano forti frastuoni. Il mio cuore inganna i miei occhi o sono i miei occhi a ingabbiare il mio cuore? È come un copione che si ripete senza libertà d’espres-sione, come una musica di un carillon che si sussegue.

Ma adesso basta. Devo entrare in casa. Devo distogliere l’atten-zione da questi pensieri e concentrarmi e far fi nta di niente, devo entrare in silenzio ed in punta di piedi. Devo salire le scale e lasciar scorrere via quella vetrata che mi divide da qualcosa a cui resto caoticamente imbrigliata. Abbottonerò la camicia e ne nasconderò un pezzo dietro il maglione. Il collo sarà rigido ed alto il mento, per dimostrare che, comunque vada, non ho bisogno di niente. Lo sguardo sarà fi sso a controllare che tutto si svolga secondo il rituale. Il respiro sarà corto, per assottigliare la gola ed evitare di comuni-care con il cervello viscerale, molto più potente e diffi cile da ingan-nare rispetto a quello abituale. Le labbra resteranno cucite, lasciate libere solo per ricamare le fi la che intessono la tela che qui è per-messo creare. Non c’è posto per combinazioni e forme differenti da quelle da sempre esistenti. Non permetterò a niente cui io non dia il consenso, di uscire da nessuno dei miei cinque sensi ma, ahimè, entrerà dentro me tutto quello che chiunque dirà, comprese quelle frecce scoccate quasi ad occhi chiusi, senza neanche accorgersi del bersaglio, che puntualmente affonderanno e feriranno senza san-guinare.

Mi è venuto in mente l’odore della plastilina con cui giocavo quando ero piccola. Mi piaceva la sensazione di tenerla tra le mani, lavorarla per ammorbidirla prima di lasciarle prendere la forma degli stampini che avevo, ottenendo oggetti tutti uguali e monocromatici. I colori dovevano essere ben separati, non reggevo alla tentazione di ripulirli quando inavvertitamente si miscelavano e si toccavano l’uno con l’altro. Se ciò avveniva buttavo la pasta.

Non molto tempo fa, ho comprato un tubetto di quella pasta colorata. L’ho tenuta in mano per scaldarla pensando a cosa potevo creare e mi sono resa conto di non saperlo fare. Ho provato un’in-comprensibile diffi coltà a sentirmi libera di inventare. Ho iniziato

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a guardarmi attorno per cercare suggerimenti ma, non ho trovato niente che ispirasse la mia creatività, appiattita da forme e colori riconducibili a rigide espressioni che non permettono alternative.

Alla fi ne, ho riposto quell’ammasso di plastilina molle dentro il suo contenitore e l’ho lasciato lì, senza dargli né forma, né conno-tazione.

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VI

Che piacevole sensazione essere di nuovo tra queste quattro mura familiari, calpestare a piedi nudi il pavimento è una cosa che ho sempre fatto quando vivevo qui. Non vedo l’ora di riassaporare il profumo del pane appena sfornato, di sedere su quella sedia che, nonostante abbia fatto posto a chissà quale rotazione di persone, sento come ancora mia, felice di accogliermi e di sostenermi, di farmi accomodare come se stessi su un cuscino che mi esorta a rilassarmi e a godere di quel che il presente propina.

- Mamma, non vedo ancora Susan, per che ora sarà di ritorno? -. - Come sempre sarà qui per un quarto alle otto, da un momento

all’altro sarà di ritorno, vedrai - . Non sto più nella pelle all’idea di rivederla. So, che quello che il lungo tempo è in grado di separare, il mera-

viglioso attimo è suffi ciente a riparare quel tempo perduto, quel bisogno di contatto a volte disperatamente cercato ma mai perduto, solo custodito gelosamente e segretamente rimasto in attesa del suo risveglio.

I brividi si affacciano sulla superfi cie della mia pelle e ten-gono caldo il mio cuore che aspetta conservando l’energia per quel momento.

Non vedo l’ora di riabbracciare la mia cara sorella, alla quale sono legata da un cordone ombelicale trasparente, talmente fl essi-bile ed elastico da permetterci di volteggiare senza mai aggrovi-gliarci, roteare e cadere senza mai farci troppo male, assumendo come le sembianze di un cuscinetto protettivo, una guaina sempre attiva, senza buchi, né lacerazioni, dove fi ltrano tutti i suoni e sono attenuate le vibrazioni dei dolori. La nostra è davvero una relazione

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speciale.Danzo ancora per un po’ in questo oceano oltre ogni mare, come

in un valzer lento, attendendo con fervore di poter scrutare un primo segnale, un avvistamento all’orizzonte di terraferma, che farà scat-tare sull’attenti ogni mio senso e una combinazione di emozioni scaccerà via i lunghi tempi di attesa.

Già la immagino Susan, mentre si avvicina alla porta, stanca e non curante di una tale sorpresa. Nessun elemento là fuori le sug-gerirà il mio ritorno ed io potrò perciò guardarla nei suoi abiti quo-tidiani, potrò godere delle espressioni che più la caratterizzano, il mio sguardo silente arriverà fi no al suo volto seminascosto dal cap-puccio e dai capelli che come sempre sono liberi di contornarle quel suo dolce viso come più preferiscono. So già che come calamite gli occhi suoi blu, attireranno i miei e come catturata dall’esperienza estetica dinnanzi ad un’opera d’arte, i nostri orizzonti si allinee-ranno e vedranno lo stesso ed identico scenario.

Tante volte ho provato a gustare nella mia mente questo momento, spesso la cercavo negli occhi della gente, ma mai nessuno evocava in me quello che solo lei è in grado di farmi arrivare.

Eccola! La sento avvicinare. Sempre più. Uno sguardo di pro-fonda intesa scambiato con mia madre e poi pronta a trattenere il fi ato fi no a quando la porta lentamente si apre.

- Mamma, sono rientrata - .Ti prego Susan, accorgiti che nell’aria c’è qualcosa di diverso,

ascolta il clima che qui è adesso più scoppiettante di quello che fi ammeggia lì nel camino. Alza lo sguardo, cara sorella, smetti di pensare, di far frullare i pensieri, respira più ampiamente, posa per terra insieme alla tua borsa tutto il peso delle tue tensioni e rilassati sui tuoi piedi. Fa scivolare via il copricapo, osserva attentamente e scoprirai che io sono qui e ti sto guardando.

- Oh mio Dio! Se questa è un’impressione frutto di un’illusione ditemelo subito! È uno scherzo dettato solamente dalla mia stan-chezza? Jane, tu qui! Ma quando sei arrivata? Che meravigliosa sor-presa! - .

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Corse incontro, come le nostre due antiche bambine un tempo facevano, ci abbandoniamo in un abbraccio talmente avvolgente da perdere la coscienza di ogni misura, in uno spazio che è solo nostro, in un tepore dove anche se piove, non c’è goccia che possa entrare.

- Susan! Che bello rivederti! Oh, no, non badare a queste mie lacrime, non spezzare questo nostro incantesimo. Sei meravigliosa! Lasciati guadare. I tuoi capelli sono più lunghi e ti stanno d’incanto. E quel tuo neo è sempre lì sotto il tuo occhio sinistro a donarti quel non so che di affascinante -.

- Dio Jane, quanto tempo è trascorso! Troppo per il mio cuore e le mie orecchie che non lo vogliono ricordare. Sono felice che tu sia qui, sono felice di poterti riabbracciare, di godere della sensazione di sentirti per qualche istante unicamente mia -.

Tutto rallenta. Tutto assume un’altra consistenza. Dio come sono contenta! I miei occhi fuori dai loro binari percettivi sono di nuovo vivi, si fi dano di quello che pancia e cuore sentono e allora la mente si arresta e cede il posto alle sensazioni che salendo e scendendo mettono in agitazione tutto il corpo. Tutto è irrorato, caldo, rag-giunto. Mi sento vivida, fi nalmente sensazione, emozione e pensiero non litigano più affannosamente, come succede di solito, ma pren-dendosi per mano danno vita ad un’onda che mi attraversa dal tetto della mia testa fi n giù alla radice dei miei piedi. Tutto combacia, tutto è uniforme.

- Presto, liberati dagli indumenti ora futili e siedi qui accanto a me, parlami di te, raccontami delle storie che ti hanno vista coin-volta. Spesso, quando il mio pensiero volava a te, ti immaginavo sempre nel tuo amato teatro -.

- Oh sì, Jane, anch’io spesso ti ho pensata e come in un puzzle, provavo a comporre la tela delle tue giornate e così, mi rassicuravo del tuo stare essenzialmente bene -.

- Ragazze, che meraviglia avervi qui insieme, l’una accanto all’altra. È bello guardarvi così unite. Continuate, io sarò in cucina per i preparativi della cena - .

Non mi sembra vero. Adesso che anche Susan è qui accanto a me, mi sento davvero a casa.

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VII

Sono quasi arrivata in cima alla scala e fi nito di indossare la mia maschera facciale.

- Ciao Jane, come stai? - .- Ciao papà. Bene, grazie -.- Jane, ma come mai ci hai messo così tanto ad arrivare? Noi

eravamo qui ad aspettare -.- Ciao mamma. Il treno ha fatto ritardo e ci ha impiegato più del

dovuto. Voi come state? -.- Tutto bene, come al solito, nulla di nuovo, sempre a lavoro e

sempre spinti da una certa fretta. Sediamoci e pranziamo, dai, che abbiamo poco tempo, e chiudiamo questa tenda perché tutto questo sole è davvero fastidioso -.

- No mamma, già qui dentro fa freddo, lasciaci almeno riscaldare dal calore dei raggi -.

- Dai Jane, lascia stare, tanto si tratta solo del tempo necessario per pranzare -.

- Va bene papà -.Sediamo insieme allo stesso tavolo. Stesse disposizioni. Mamma

a capotavola, papà alla sua sinistra ed io, alla sinistra di papà. Sulla tavola c’è di tutto. Non soltanto il primo piatto dal quale si ha la con-suetudine di iniziare, ma c’è già il tegame che contiene la seconda pietanza, la ciotola con la tradizionale ed immancabile insalata e, quasi alla fi ne del tavolo, ma non tanto lontano da permettere comunque a mia madre di afferrare quel che dentro si trova, il cesto grandissimo di frutta. Perché poi si sia sempre portata a tavola la frutta per venti persone, io non l’ho mai capito.

- Scusami Jane, alza ancora il volume della televisione. Hai sen-

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tito quel che sta succedendo?-.- No, non so nulla, adesso alzo -.- Mamma questa pasta è davvero buona. Come l’hai preparata?-.- Ah, non ci ho messo proprio nulla a farla, è di una semplicità

inaudita -. Sgranocchio un pezzo di fi nocchio. Verdura dal sapore davvero

forte, mordo voracemente. Sorseggio un bicchiere di buon vino rosso, questo, sono certa, di sicuro mi riscalderà.

- Jane più tardi cosa fai?-.- Non lo so mamma, credo che leggerò. Ho portato con me dei

libri da consultare, per quella catalogazione di quadri di una colle-zione privata a cui sto lavorando-.

- Allora ti trovo qui a casa quando torno?-.- Sì, credo che sarò qui-.- Bene. Allora io scappo. Devo proprio andar via. E come sempre

sono già molto in ritardo-.- Ciao, a stasera mamma-.Un ciao quasi euforico si allontana mentre scende di corsa le

scale. Io e papà la seguiamo con l’attenzione fi no a quando non la sentiamo indossare il suo cappotto, cercare freneticamente nella sua borsetta per trovare il suo rossetto, colorarsi senza alcuna sbavatura e con un gesto forte e deciso, le labbra, riporlo e sbattere la porta d’ingresso. Ascoltiamo il correre dei suoi tacchi per terra. Sembra il ticchettio di un pendolo impazzito o il metronomo che batte e aiuta chi suona ad andare allo stesso ed identico tempo. La sentiamo salire in macchina, inserire la prima e andare di corsa via.

E quando il maestro d’orchestra vola all’improvviso via, che suc-cede?

Sono ancora con lo stesso fi nocchio in mano. Me ne resta un ultimo pezzo. Mi piace, perché riesce a togliere il sapore di tutto quello che ho mangiato, che sembra quasi un agglomerato di roba indefi nita. Non ho dato al mio palato il giusto tempo per sentire la consistenza di ogni elemento. Tutto si confonde. Non ho avuto modo di restare qui seduta a tavola e provare ad immaginare quel che avrei

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potuto mangiare, a cercare tra le varie alternative possibili. Non ho avuto modo di pregustare il mio menù ideale. Avevo di fronte a me il piatto già servito e, non solo quello. E, automaticamente, durante la seconda forchettata che dovrebbe essere di massimo piacere, mi viene di scrutare dentro l’altro tegame della seconda portata che attira l’attenzione, ed ecco che mentre mastico quel che ho tra i denti penso a quel che mangerò subito dopo. E, ogni volta, fi nisco per non sentire né una, né l’altra. Resta, in conclusione, un misto ed una confusione, tra i diversi sapori, che cerco di coprire con quello forte del fi nocchio, sperando che in un modo, o nell’altro, faciliti la digestione.

Ed è così che mi ritrovo avvolta da un velo di spaesamento alla fi ne di un pranzo, non ancora concluso, perché tutte le volte che arrivo al momento della frutta, lei, è già andata via.

Ma concentriamoci solo sulla frutta. Vediamo, cosa potrei pren-dere? La scelta è varia. Un pezzo di banana. No, troppo pesante. Un arancio. No, non mi va di sbucciarlo. Ci sono, le pere. Quelle le mangia sempre mamma e poi ad ogni modo non mi piacciono molto. I mandarini. Ma mangio sempre quelli e non cambio mai! Ho trovato. Avrei proprio voglia di una di quelle buonissime pesche sciroppate che la vicina, la cara signora Amelia, aveva sempre, quelle pesche così dolci e saporite da ridestare tutti i sensi. Ah, quasi dimenticavo, qui non ci sono quelle pesche, mamma non le ha mai comprate. Allora non mangerò niente o ne mangerò uno a caso, solo per continuare a ripulire la bocca dai precedenti sapori.

Abbasso lo sguardo per un attimo. Mi guardo intorno. Ho bisogno di alzarmi, sono stata troppe ore seduta. Il viaggio è stato faticoso e lungo. Ho bisogno di veder fi ltrare il sole che dietro quella male-detta tende continua a restare. All’improvviso mi sembra di essere ancora dentro quel treno. Anzi no, è lui che è qui. Lo sento. Lo sento correre ancora, fortissimo lo sento sempre più avanzare. Ma questa volta non sono io che mi trovo seduta al suo interno, è lui che mi corre dentro. Ma dove corre? E perché corre così forte? Mi sembra un antico treno a vapore, che segnala un pericolo imminente, eppure

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io non vedo niente! E poi c’è tanto fumo che copre tutto, persino il treno scompare. Restano solo i rumori. Ma cos’è questo tremendo fastidio?

Rialzo lo sguardo. Tutto sembra calmo. L’assordante rumore della televisione sembra voler competere con il mio. Mi scoppia la testa. La pancia è in tormento.

- Papà, ma non credi che sia troppo alto il volume?-.- Sì, adesso abbasso un po’-.Finalmente riprendo a respirare. Il treno si è fermato. - Papà che ne dici, ti andrebbe una tazza di caffè?-.- No, tra qualche istante vado via anche io e poi lo prendo sempre

a lavoro, non ti preoccupare -.No, non sono preoccupata. Avevo solo voglia di preparare la

macchinetta del caffè. Riempirla d’acqua al punto giusto, infi larci il fi ltro e riempirlo di buon caffè macinato che emana quel buon profumo che mi piace tanto, più di quanto diventa liquido. Avevo voglia di preparare qualcosa con premura e affetto e sorseggiare, nel frattempo, il momento in cui ci saremmo seduti insieme, vicini per un attimo, immersi per pochi istanti in quel piccolo semplice gesto di prendere un caffè.

- Buon lavoro papà, ti auguro buon pomeriggio. A stasera-.- A stasera cara -.Ecco, ancora una volta mi ritrovo a scivolare su una superfi cie

che mi è sempre sembrata piatta e mi consolo con l’idea di quel che sarebbero potute essere le sensazioni, le emozioni, i suoni ed i colori per pennellare e riempire quel piccolo momento mancato. Il mio presente si arresta, tutto s’interrompe per far spazio a quello che sarebbe stato, creando una corrente che, funzionando in modo alternato, inconsapevolmente mi porta via, ed io mi ritrovo a seguire ora questa, ora l’altra scia.

Ad ogni modo, pur sempre mia.

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VIII

- Sai Jane, con la compagnia teatrale stiamo preparando proprio l’opera che tu adori da sempre. Morivo dalla voglia di dirtelo!-.

- Non mi dire Susan che si tratta di Romeo e Giulietta, dell’intra-montabile Shakespeare! Ma è meraviglioso! Dimmi dove e quando, ed io farò di tutto per non mancare -.

- Sarà pronto per l’inizio della prossima stagione estiva. Atten-diamo ancora le date sicure ma giugno è il mese prescelto. Parte-ciperemo ad un concorso e per questo siamo tutti molto eccitati, il nostro entusiasmo è alle stelle!-.

- E dimmi, cara sorella, quale parte avrò il piacere e l’onore di vederti recitare?-.

- A dire la verità, mi tocca un ruolo un po’ inusuale, soprattutto perché si tratta di un uomo -.

- Un uomo? Ma come un uomo!-.- E, precisamente, si tratta di Tebaldo -.- “La pazienza forzata, scontrandosi con la collera più sfrenata,

scuotono tutto il mio corpo, per la diversa natura del loro offrirsi. Mi trarrò in disparte, ma questa intromissione che pur ora è causa di tanta dolcezza, si convertirà in amaro fi ele”1-.

Le nostre risate, piene di tanto stupore e ardore, irrompono in tutta la stanza.

- Quale minimo accenno di espressione, a me sconosciuto, avrà mai colto in te e sul tuo viso, la regista, tanto da accostarti ad un per-sonaggio come Tebaldo? Dimmi, c’è forse qualcosa che devo cono-scere? È un lato che la mia mente diffi cilmente riesce ad accostare alla tua persona, scusami ma i miei occhi non riescono a vederti

1 Shakespeare W., Romeo e Giulietta.

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addosso questa parte. Come possono, la dolcezza dei tuoi tratti e la grazia dei tuoi movimenti, ceder posto alla collera personifi cata da un personaggio così cruento e forte come Tebaldo? E poi, perché un uomo, nonostante la tua bellezza parli da sé e sussurri unicamente per dar voce ed espressione a personaggi femminili?-.

- Come sempre Jane, l’impulsività di tutte le tue emozioni prende il sopravvento. Ma, prima di dare adito alle tue voci in fermento che, passano dalla pancia e dal cuore senza sopraggiungere alla ragione, fermati e chiediti, domandati se è questa, per me, un’opportunità ancora più importante, che trascende dal mio essere o che ancora meglio vi si poggia fornendo il sostegno per poter rappresentare qualcosa che ho scelto di accettare. È un personaggio che in realtà, sa stimolare altre mie corde emozionali anche quelle che solitamente non mi appartengono e questo sarebbe per me, un ottimo traguardo. La giusta fl essibilità permetterà loro di avere l’energia e la forza per sostenere una parte che in me ti è così diffi cile vedere-.

- E già, hai proprio ragione, sei sempre così saggia Susan. A volte l’agitazione offusca la rifl essione, ed è sempre forte ogni volta il mio stupore, ma piacevole la sensazione di quando mi fai notare visioni alternative che a me appaiono sottoforma di incomprensioni-.

È questa la qualità più preziosa, semplice ma indispensabile, che più mi manca di Susan quando non posso ritrovarla accanto a me. Questa è, la perla più rara che c’è e la verità è che credo di aver voglia di sentirmela ogni volta raccontare, per rivivere quella pic-cola ebrezza che deriva dal lasciarsi disincantare e meravigliare allo stesso tempo. Mi hanno sempre colpito l’eleganza della sua sempli-cità ed la sua maniera genuina nel mostrare di avere ragione.

- Ci sarò Susan, puoi contarci! Quel giorno sarò lì a vederti. Sarò lì per te-.

E come tutte le volte, che salirà su quel palco, non la riconoscerò e penserò che forse non basterà una vita intera per farlo. Le mie labbra saranno pregne di un dolce sorriso dietro cui si nasconderà la convinzione che comunque sia sarà in qualche modo in grado di stupirmi aldilà di ogni previsione.

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È questo ciò che la rende riconoscibile ai miei occhi così come alla mia mente. Ricordo benissimo la prima volta che la vidi padro-neggiare quel palco, era così stupenda, quasi radicata nell’anima del teatro, libera di fl uire in ogni espressione, piena di sicurezza, come quella di una fortezza, i suoi occhi erano così vivi, pieni del momento, felici di lasciar trasparire le emozioni rispecchiando sere-namente con le parole. Mi è sembrata un bocciolo nel pieno del suo sfi orire e, per me, era davvero la prima in assoluto.

Ho compreso quanto, calpestare quella terra, riuscisse a sbrigliare il suo cuore e farlo pulsare di tutta la passione che può contenere. Ricordo di averla aspettata in un trepidante silenzio e poi, d’improv-viso, ho visto una donna bellissima che sa trasmettere autentica emo-zione, compresa la sua imperfezione. Mi son chiesta dove riponesse queste qualità, come le riusciva così divinamente armonizzarsi con il resto delle parti, che per me restavano un pochino nella penombra. Mi sono interrogata sull’esistenza di queste a me sconosciute, ma reali virtù. Ed è stato bellissimo scoprirla in queste vesti cangianti, mi è sembrato di vedere una farfalla abbandonare momentanea-mente il suo bozzolo e librarsi con disinvoltura nell’aria. Ricordo che per i primi istanti non ho potuto reggere il fi lo del discorso tanto m’invadeva l’emozione. Mi ci è voluto un po’ per ritornare seduta al mio posto e mettermi comoda e seguire il resto della storia.

Da sempre, a dire il vero, mi risulta diffi cile starle alla giusta distanza, ma mi è necessaria, per poterla davvero sentire, per non ovattare i miei sensi o lasciarli danzare su musiche che fi n troppo bene conoscono, è diffi cile restare nel quieto silenzio e provare ad ascoltare. È diffi cile lasciarmi attraversare dall’energia e dal ritmo dell’onda che la sua essenza assume in quel preciso momento, quando è lì su quel palco, perché è un momento diverso, in cui io non sono abituata a vederla.

E allora che Tebaldo sia, e che giunga a raccontare ciò che ha da dire, io tenderò bene le orecchie e spalancherò il mio cuore, perché sarà comunque la mia amata Susan a recitare.

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IX

Sorseggio la mia tazza di caffè e osservo quel che, fuori della fi nestra, c’è.

Ormai anche papà è andato via.Penso a come sia facile sentirsi esattamente così, come qualcosa

che lascia intravedere esattamente quello che ti sembra di vedere. La trasparenza dà l’illusione di poter entrare ed uscire da ciò che si trova aldilà di essa. Rimane l’idea razionale collegata ad uno stere-otipo stupido e assai banale. Non si ha il coraggio di avvicinarsi per accarezzare ed incontrare quel che si ha la pretesa di percepire. Non c’è nessun tentativo di esplorare se quel che è rappresentazione o pensiero ideale, corrisponde a qualcosa di vero e concreto. Si teme che l’illusione possa svanire, frantumarsi se non dovesse comba-ciare con la sua essenza reale. Questa è la vera paura che non mi fa neanche provare ad avvicinare.

È come immaginare di annusare l’odore che i pini rilasciano quando sono mossi dal vento, nonostante la fi nestra resti saldamente chiusa, o di sentire l’odore dei ciliegi in fi ore che, fi n dagli inizi di marzo, ricoprono l’intero terreno che fi no al ponte si estende.

Ciliegi fi oriti che adesso non ci sono e che vivono dunque solo nella mia mente.

Ma una cosa è pensare di sentirne l’odore, altra storia è aprire le vere porte della percezione ed essere attraversati dall’esperienza.

Credo che la maggior parte della gente vada in giro avvolta in una bolla trasparente. Non sa più camminare con grazia e armonia, si lascia condizionare dalla velocità e dalla direzione del vento, in uno spazio stretto resta immersa in un fare che azzera il tempo, che condanna a stare dentro la stessa condizione e a ripartire in un cir-

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colo che è senza fi ne, che non ha spazi per recuperare.Io ci provo a fare qualcosa di diverso, per essere differente, per

arrestare questo incessante sottofondo musicale divenuto ormai un ronzio assordante che confonde ed uniforma dentro una stessa tona-lità di colore, ma non ci riesco e tutto perde di senso.

Allora non resta altro da fare che confondermi in mezzo a quella stessa gente che detesto e alzare il volume di quel che vorrei sentire, aumentare l’intensità delle stimolazioni per afferrare qualche vibra-zione.

I miei occhi guardano smarriti intorno ma nulla cattura la loro vivida attenzione. Le persone sono unicamente volte a rincorrere uno strascico di perfezione, sono attente all’esclusiva cura di quel che vogliono apparire, programmano e controllano tutto ciò che arriva dall’esterno, tutto per aderire ad un’idea che molto probabil-mente non combacia con quello che nel cuore scorre.

L’altra faccia della stessa medaglia, è caratterizzata da una iper-sensibilità che fa tendere e ripiegare unicamente verso sé stessi, verso il mondo interiore, dove regnano una marea di solitudine ed una voragine caotica di sensazioni ed emozioni amplifi cate che rie-cheggiano costantemente ma non permettono la pace ugualmente. Si vive così, secondo una sregolatezza diffi cile da domare, impossi-bile da attenuare e mettere a tacere, scollegata da una mente rapita, per poter compensare, da fantastiche illusioni.

Ma cosa succede quando ci si trova ora in una, ora nell’altra condizione? Non sono previsti incroci tra queste due strade, c’è un obbligo che permette di viaggiare solamente in un senso che è alter-nato, sono strade parallele perse per le loro vie. L’accesso ad una interrompe l’energia per l’accesso all’altra.

Privata dalla sensazione ed il gusto del piacere, mi alimento d’in-tenzione che si nutre di sola immaginazione. E tutto passa. Niente resta.

Ed io mi ritrovo con in mano una tazza di caffè, vuota.

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