In Viaggio Con Jane Austen - Rigler Laurie Viera

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LAURIE VIERA RIGLER IN VIAGGIO CON JANE AUSTEN Traduzione di Enrica Budetta

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Inghilterra, 1813. Jane Mansfield odia le rigide convenzioni che la sua vita da nobildonna le impone e sogna spesso di fuggire il più lontano possibile da tutto e da tutti. Ma risvegliarsi nella Los Angeles del XXI secolo, dopo una rovinosa caduta da cavallo, non era esattamente nei suoi progetti! All’improvviso, Jane si trova catapultata nel corpo di Courtney, a mettere ordine in un’esistenza a dir poco incasinata, senza avere la minima idea di come ci si comporta al giorno d’oggi. Riuscirà una timida signorina della Reggenza, inguaribile romantica e fervida lettrice di Jane Austen, a sopravvivere in un mondo in cui le regole sociali sono completamente stravolte?

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LAURIE VIERA RIGLER

IN VIAGGIO CON JANE AUSTEN

Traduzione di Enrica Budetta

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Le citazioni contenute nel testo sono tratte dai seguenti volumi: J. Austen, Orgoglio e pregiudizio, a cura di G. Caprin, Mondadori, Milano 2009 («Oscar Classici»), pp. 3, 93, 184; J. Austen, Mansfield Park, a cura di L. De Palma, Rizzoli, Milano 2009 («Bur Classici Moderni»), p. 526; J. Austen, Persuasione, a cura di A. L. Zazo, Mondadori, Milano 2009 («Oscar Classici»), pp. 74, 277; W. Shakespeare, La dodicesima notte, a cura di A. Lombardo, Milano, Feltrinelli, 2004 («I Classici - Universale Economica Feltrinelli»), p. 69.

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o usati in chiave fittizia e ogni rassomiglianza a persone reali, esistenti o esistiti, organizzazioni, eventi o località è puramente casuale.

Questo libro è dedicato a tutti coloro che desideranoun’altra vita, un’altra possibilità, un altro posto.Che possano aprire gli occhi alla felicità.

Uno

UN suono acuto, come la sirena di una nave, ma più stridulo, mi scuote. Apro prima un occhio, poi l’altro; le palpebre sembrano incollate. Da una fessura fra le tende una sottile lama di luce taglia l’oscurità.

Mi copro le orecchie con le mani ma il suono è incessante. Come il dolore. È come se un intero reggimento di soldati mi stesse marciando dentro la testa.

«Barnes?» La mia voce è un lieve gracidio, troppo debole perché Barnes mi senta. Non importa, si sarà senz’altro svegliata anche lei per colpa della sirena stridula. Solo un cadavere riuscirebbe a dormire con una cacofonia del genere.

Perché Barnes non si è data da fare per fermare questo baccano infernale? Brancolo alla ricerca del cordone del campanello dietro di me, ma le mani toccano solo un muro spoglio. Strano. Dovrò alzarmi dal letto e cercare io Barnes.

Faccio penzolare le gambe oltre la sponda del letto; toccano il pavimento invece di rimanere sospese a qualche centimetro da terra. Può un mal di testa far sembrare il proprio letto più basso di quanto sia? Il peggiore dei miei mal di testa è stato annunciato da lampi di luce intermittenti davanti agli occhi, ma non mi era mai capitato di provare una sensazione del genere, come un abbassamento. Abbassamento. Mi viene quasi da ridere per la mia abilità di stamattina nel trovare le parole giuste, nonostante le deplorevoli condizioni della mia mente. E delle mie orecchie. Com’è fastidioso e insistente questo suono!

I miei piedi toccano il nudo legno del pavimento invece del solito tappeto ricamato. E le babbucce? Non ci sono. Brancolo nel buio e sbatto l’anca destra contro un grande blocco di legno. Accidentaccio... stringo i denti sforzandomi di non gridare. Evidentemente Barnes sta risistemando di nuovo i mobili. Solo che...

In cima al blocco di legno contro cui ho urtato brillano dei numeri rossi. 8 0 8. Cos’è questa cosa stupefacente? I numeri sono in una specie di scatola, la cui parte anteriore è liscia e fredda quando la tocco, mentre la parte superiore è segnata e irregolare. Passo le dita su una protuberanza e il suono si blocca. Oh, grazie al cielo.

Benedetto silenzio. Mi muovo verso la piccola striscia di luce per spalancare le tende; di certo i raggi del sole riveleranno il motivo di questo strano enigma geografico che è diventata la mia stanza. Ma invece dello spesso velluto delle tende che schermano le mie finestre da almeno cinque anni, le mani afferrano quella che sembra una tela ruvida. Forse Barnes è entrata di buon’ora e le ha sostituite per spolverare quelle di velluto. Prima la nuova disposizione del mobilio, ora questo. Non l’avevo mai vista lanciarsi in servizi casalinghi così arditi.

Afferro i bordi delle tende di tela – perché mi tremano le mani? – e le apro.Ci sono delle sbarre alla finestra.Mi sento mancare. Questa non è, non può essere la mia finestra. Infatti, mentre mi volto per guardare

lo spazio alle mie spalle, mi rendo conto che questa non è la mia camera. Con la testa pulsante, esamino il cassettone alto e disadorno; il letto basso e largo, senza baldacchino; la scatola con i numeri illuminati sopra il comodino. Non c’è il camino di marmo rosa, niente armadio, niente toeletta. C’è invece un tavolo basso, su cui è appoggiata una scatola rettangolare con la parte davanti fatta quasi tutta di vetro; il resto è di un materiale grigio, liscio e brillante che non ho mai visto prima.

Le ginocchia mi tremano, quasi mi cedono. Devo tornare a letto. Sedermi per un minuto mi farà stare meglio.

Mi butto su un groviglio di lenzuola e la scatola di vetro ricomincia a strepitare.Salto di nuovo in piedi, stringendo le coperte. Ci sono delle figurine che parlano e danzano all’interno

della scatola di vetro. Chi sono? Forse è una specie di finestra? Le figure sono piccole, quindi devono essere piuttosto distanti. Ma ne riesco comunque a distinguere le parole e le fattezze come se fossero nella stanza con me. Com’è possibile?

«Mi ricordo di averle sentito dire una volta», dice la bellissima dama della finestra al gentiluomo che

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balla con lei, «che lei non perdona e che il suo risentimento, quando nasce, è implacabile. Starà molto attento, suppongo, a non farlo nascere.»

Il gentiluomo che balla con lei risponde: «Certo».«E non si lascia mai accecare dal pregiudizio?» chiede la dama.«Spero di no», ribatte il gentiluomo. «Posso sapere a cosa tendono queste domande?»«Unicamente a illuminarmi sul suo carattere», risponde lei. «Sto cercando di comprenderlo.»Conosco queste parole... le ho lette! È il ballo di Netherfield, una scena tratta dal mio libro preferito,

Orgoglio e pregiudizio, e il gentiluomo e la dama sono Mr. Darcy e Miss Elizabeth Bennet. E pensare che Elizabeth e Darcy sono persone reali e che io li sto guardando, proprio ora, attraverso una finestra! Questo non riesco a spiegarlo, né riesco a trovare un senso al fatto che sono apparentemente lontani eppure perfettamente distinguibili.

Potrei chiamare la dama e vedere se lei è in grado di risolvere il mistero. «Chiedo venia, Miss Bennet. Non ci hanno presentate, ma sembra che io sia la sua vicina e mi sono persa. Riesce a sentirmi?»

Ma le figure vivacemente illuminate nella finestra non fanno mostra di avermi udito, anche se io continuo a sentire la loro conversazione chiaramente come se fossero proprio qui, in questa stanza, insieme con me.

Allungo la mano verso la scatola e ne tocco la superficie dura e brillante. Do un colpetto sul vetro per vedere se riesco a catturare l’attenzione delle figure all’interno, senza risultato. Accosto la faccia per osservare meglio, ma più mi avvicino alla finestra più le figure sembrano in qualche modo piatte e meno reali. Davvero curioso.

Ma non è la cosa peggiore. Ancor più strano è il suono della mia stessa voce, che, in realtà, non è affatto la mia.

«Miss Bennet?» dico, sorprendendomi per il tono e l’accento di ciò che esce dalla mia stessa bocca non aspettandomi più, a questo punto, che Miss Bennet mi senta. La voce non è la mia, l’accento sembra quasi quello di Bristol, o magari quello del capitano Stevens quando imitava gli abitanti delle Americhe. Come si irriterebbe mia madre se potesse mai sentirmi parlare come una barbara americana. Che pensiero divertente!

Getto un’altra occhiata alla strana stanza in cui mi trovo e alla finestra di vetro con i personaggi di Orgoglio e pregiudizio che conversano tra di loro come se io non fossi qui a cercare di catturare la loro attenzione e a un tratto ho un’illuminazione. Ma certo. Sto sognando. Non come gli altri sogni che ho fatto nei quali mi rendevo conto che stavo sognando, ma è comunque un sogno. Che sollievo sapere che non devo appurare dove sono o trovare la strada per tornare in camera mia! Tutto ciò che devo fare è svegliarmi. Nel frattempo, posso smettere di preoccuparmi di scoprire se Barnes è qui e, se sì, dove si trova. Sicuramente sarebbe deliziata quanto me davanti al meraviglioso spettacolo, con tanto di musica, di Lizzy e Darcy che danzano nel rettangolo di vetro.

Dovrò mettermi la vestaglia e iniziare a esplorare. Dove potrebbero essere le mie vestaglie? Apro una porta che mi rivela almeno due metri di vestiti appesi, nessuno dei quali sembra uno dei miei abiti. Tiro fuori un affare lungo, trasparente e con una fascia; dovrebbe andare. Se solo ci fosse uno specchio!

Ah, eccolo, sull’altro lato della porta di questo vasto deposito di vestiti. La apro e nello specchio vedo una piccola donna dai capelli chiari. Io e lei sobbalziamo all’unisono. Mi giro perché la donna deve essere dietro di me, ma c’è solo la stanza vuota. Eccezion fatta per Elizabeth Bennet e Darcy.

Mi giro di nuovo verso lo specchio e la verità mi guarda letteralmente in faccia: sto osservando il mio riflesso.

Due

LA donna nello specchio non è nessuno che io riconosca. Sento il riflesso mentre allungo la mano per toccare i capelli biondo chiaro striati di castano che mi ricadono sulle spalle, sentendone la consistenza setosa come fa la donna nello specchio. Tocco le cosce carnose delle gambe corte ma proporzionate che sono completamente nude, e il riflesso rispecchia i miei movimenti. Guardo il seno e il busto, che sono coperti dal tessuto sottile di una sottoveste dalle maniche corte il cui orlo arriva a sfiorare la parte superiore delle cosce... non ho mai dormito con un indumento simile prima di oggi. Davvero indecente; sorrido al pensiero di come reagirebbe mia madre se mi vedesse vestita così. Passando le dita sull’orlo, intravedo un piedino ben proporzionato e le unghie smaltate di azzurro. Per poco le ginocchia non mi cedono di nuovo.

Non devo comportarmi da poppante impaurita. Prendo un bel respiro, guardo di nuovo il piede e mi scappa una risatina. In un sogno le unghie dei piedi possono essere di uno qualunque dei colori dell’arcobaleno, giusto? Non ho sempre voluto essere piccola e rotonda, con le gambe tornite, invece che avere quelle gambe lunghe e magre che non riempiono mai i vestiti come vorrei? Non ho sempre desiderato invano le trecce dorate di mia sorella Clara? Ora non sarà l’unica Mansfield ad avere i capelli chiari.

Eppure non sono sicura di volere restare in questo sogno ancora a lungo. Dopotutto, un conto è immaginare di essere qualcun altro e un altro è esserlo davvero. So che tutto ciò non può essere reale anche se lo sembra.

Un paio di rapidi colpi alla porta che pare vengano dalla stanza accanto, una chiave che gira in una serratura e poi una voce maschile che dice: «Courtney?»

Afferro la vestaglia che devo aver fatto cadere a terra e me la stringo in vita.

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«Sei sveglia?» Di nuovo quella voce.Mi sento mancare, ma devo controllarmi.«Chi è lei, signore, se posso permettermi?»Chiunque sia, sporge la testa oltre la porta, con un sorriso dolce sul viso occhialuto. Anche se mi

trovo in déshabillé, non percepisco la benché minima minaccia da parte di questo estraneo dai riccioli arruffati come un angelo. I pantaloni di tessuto grezzo, la maglietta a maniche corte senza collo, i grossi stivali pesanti e il fatto che non porti un soprabito, lo qualificano come un membro della servitù o un operaio più che un gentiluomo, ma comunque la sua presenza non mi mette in allarme.

Sorride e mi fa un piccolo, goffo inchino: «Il suo umile servitore, signora, con caffè e uova, come promesso». Mi fa cenno di seguirlo nella stanza accanto.

«Arrivo subito», dico e chiudo la porta. Lo stomaco mi brontola a sentire parlare di cibo ma non me la sento di conversare con un servitore malvestito avendo addosso solo una sottoveste e una vestaglia.

Dalla stanza accanto arriva una risata: «Ti manca solo l’accento inglese e poi sembri proprio una delle attrici di Orgoglio e pregiudizio. Film che ovviamente stavi vedendo. Per l’ennesima volta».

Mi volto verso la scatola di vetro. Le figure stanno ancora muovendosi e parlando, totalmente ignare della mia presenza. Sono attori dunque. Questo spiegherebbe perché non mi hanno riconosciuta quando mi sono rivolta loro. Ma certo. Ci vuole una grande concentrazione per essere un buon attore. Però è davvero singolare che esista una rappresentazione teatrale di Orgoglio e pregiudizio e che io non ne abbia mai sentito parlare finora. Ma certo che non ne ho mai sentito parlare, questo è un sogno, sciocchina. Ed è normale che io sogni di vedere messa in scena la storia che amo tanto.

Cosa dovrei indossare? La fila degli indumenti appesi è molto più lunga di quella del mio armadio; comunque sembrano esserci pantaloni in abbondanza... che questa sia la stanza della servitù? Arrossisco al pensiero di essermi svegliata nella stanza di un uomo. Non ha alcun senso. Mi comporto come una femminuccia, non posso pensare a queste sciocchezze, devo vestirmi.

Ah, ecco. Qui ci sono alcuni capi leggeri che potrei mettermi. Quando me li appoggio addosso, però, mi rendo conto che non sono affatto degli abiti, visto che nel migliore dei casi mi arrivano appena sotto le ginocchia e decisamente sopra nel peggiore.

Che sfacciatella sono in questo sogno! Ma un attimo, c’è qualcosa in un angolino nascosto che sembra della lunghezza giusta... la tiro fuori e la tolgo dalla pellicola chiara e luccicante che l’avvolge. Un abito bianco di seta finissima, con un corpetto tempestato di perle. Persino troppo elegante per i miei gusti, senza considerare che è mattina e che mi trovo in un posto del genere. La lunghezza è ineccepibile ma non ci sono le maniche, solo due sottili strisce di tessuto che passano sopra le spalle. Me lo dovrò far andare bene. Mi tolgo la veste da notte e indosso l’abito bianco. La chiusura sulla schiena è fatta di bottoni di perla e asole. Avrò sicuramente bisogno di aiuto per abbottonarlo.

Chiamo l’uomo dai capelli ricci dall’altra parte della porta: «Ehi di là? Sarebbe così gentile da mandarmi la cameriera che mi aiuti a vestirmi?» Di nuovo quella strana voce che mi esce dalla bocca. È curioso, invero.

«Al suo servizio, milady», risponde l’uomo dai capelli ricci, che ha l’ardire di aprire la porta e avvicinarsi a me. Mi allontano da lui così velocemente che la parte non ancora allacciata del vestito finisce contro il muro. Mi stringo le braccia intorno al busto e gli dico con tutta l’autorità a cui riesco a fare appello: «Entrare nella stanza di una signora senza il suo permesso è davvero da screanzato».

Lui rimane immobile a fissarmi a bocca aperta.Sento che sto arrossendo. «Ha perso la parola, signore?»«Io... che ci fai con quel vestito?» La sua voce è dolce, l’espressione dei suoi occhi dietro gli occhiali

buona e gentile.«Sto solamente cercando di trovare qualcosa di appropriato da indossare. Un compito tutt’altro che

facile, potrei aggiungere. Ora mi lasci da sola e mi mandi una donna.»Lui allunga una mano e mi tocca la fronte. Mi tiro indietro a causa del mal di testa: «Non sembri

avere la febbre. Il dolore non è aumentato, vero?» Ha lo sguardo molto preoccupato.«Si tratta solo di un mal di testa. Se avessi il mio aceto aromatico starei meglio in un batter d’occhio.»«Sbattere la testa sul fondo di una piscina non è quello che io chiamo un mal di testa. Sei sicura di

stare bene, Courtney?»«È già abbastanza irritante ritrovarsi una voce che non sembra neanche la mia. Ma potrei avere

almeno il conforto di sentirmi chiamare con il mio nome?»Si avvicina al letto: «Vieni, siediti un minuto. Mi stai facendo paura».Prendo la vestaglia e me la appoggio sulle spalle, mentre permetto all’uomo dai capelli ricci di

condurmi verso il letto. Sembra davvero innocuo e d’altra parte che cosa potrebbe farmi? Grazie al cielo non fa cenno di volermi raggiungere e invece esce di corsa dalla stanza. Mi appoggio al muro che è deliziosamente fresco. La testa mi fa davvero un male tremendo. Non desidero rimanere qui ancora a lungo, anche se le figure nella scatola di vetro stanno ancora interpretando Orgoglio e pregiudizio che allevia il dolore alla testa più di quanto potrebbe fare il mio aceto aromatico.

L’uomo dai capelli ricci torna in fretta nella stanza, portando un bicchiere d’acqua che posa sul tavolino al lato del letto, e un bicchiere bianco e opaco che mi fa prendere in mano. No, non è affatto un bicchiere; è di carta spessa, così mi pare, ed è anche caldo. Davvero strano. Inalo l’aroma del caffè bollente e mi azzardo a berne un sorso. Forte, ricco e con una spruzzata di latte schiumoso in cima.

«Perché non mi dici come ti chiami?» chiede lui.«Dunque ora stiamo facendo un gioco, giusto? E va bene. Io sono Miss Mansfield. E lei chi è, oltre a

essere il giovane più impertinente che abbia mai incontrato?»Lui fa un grande sorriso, scoprendo i denti insolitamente bianchissimi. «Avrei dovuto saperlo che

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stavi ridendo di me. Non riesci a smettere di prenderti gioco di Mr. Credulone, vero? Ma speravo avessi un po’ di compassione dopo quello che mi hai fatto passare la notte scorsa.»

Ha anche un’adorabile fossetta sul mento come Edgeworth. No, prego che non sia affatto come Edgeworth. Sorseggio il delizioso caffè caldo: quanto è corroborante! Il dolore alla testa mi è quasi del tutto sparito.

«E, se posso chiedere, cosa è accaduto la notte scorsa, Mr...? O preferisce rimanere in incognito?»Il suo sorriso perde sicurezza. Anzi, sembra severo come un giudice.«Se è di cattivo umore, allora voglia essere così gentile da allontanarsi e mandarmi la cameriera.»«Mi stai spaventando, Courtney. Dimmi cosa ti ricordi della notte scorsa.»«Oh, cielo. Sta diventando davvero irritante.»«Sei andata a nuotare, ricordi? Aspetta», corre fuori dalla stanza e torna con in mano qualcosa che

sembra una morbida stoffa blu. Me lo mostra. Sembra un corpetto con un fondo attaccato. «Ricordi? Indossavi questo costume da bagno.»

Esplodo in una risata. È impossibile che io venga importunata da un simile personaggio. «Oh, davvero? Come se una qualsiasi donna rispettabile potesse andare in giro con un costume del genere, se si può definire costume un indumento così minuscolo.»

Mi mostra di nuovo il pezzo di stoffa e ne osservo la strana, setosa consistenza.«Courtney, ascoltami. Sei andata a nuotare e hai sbattuto la testa sul fondo della piscina. Hanno

chiamato un’ambulanza, e tu hai chiesto all’infermiera dell’ospedale di chiamarmi.» Mi guarda con occhi imploranti. «Non ricordi nulla?»

Sospiro. Ne ho avuto abbastanza di questo melodramma. «Se non ha intenzione di andarsene, signore, allora lo farò io. Buona giornata a lei. Ordino che tutto ciò», e indico con la mano la stanza e il giovane uomo, «finisca ora.» Poi chiudo gli occhi.

Li riapro.L’uomo dai capelli ricci è ancora ai piedi del letto. «Lei non esiste», dichiaro con tutta la calma a cui

riesco a fare appello, anche se ora avverto un vuoto allo stomaco: «Sono sveglia!»Ma ciononostante rimango nella strana camera da letto. Come è possibile? A volte mi sveglio dai

sogni, quelli piacevoli, molto prima di quanto desidererei. Ma quando il sogno è sgradevole, semplicemente ordino a me stessa di svegliarmi e lo faccio. All’istante.

«Courtney», interviene lui, «non stai dormendo.»Come se stessi sprofondando nel pavimento, mi aggrappo alle lenzuola. Questo non è possibile. Devo

prendermi un momento per pensarci con calma.Ecco cosa so per certo: faccio sogni deliziosi e quasi sempre mi sveglio prima di quanto voglia. Sogno

cose sgradevoli, e mi basta solo impormi di svegliarmi per lasciare tutto alle spalle. Eppure non mi sono svegliata; eccomi qui. Come è possibile? C’è una sola spiegazione ma non può essere...

«Courtney?»«Che cosa ha detto?»«Non stai dormendo.»

Tre

E DUNQUE non sto dormendo. Ma come posso essere sveglia se non ho il mio nome, il mio corpo, la mia voce?

Quando sono in grado di formulare qualche parola gracchio: «Dove mi trovo?»«Non preoccuparti. Fra poco starai meglio», mi tranquillizza lui.«Che posto è questo?»Lui spalanca gli occhi. «È casa tua.»«E, se posso chiedere, dove si trova questa casa?»Si siede accanto a me, sul letto, e mi prende la mano. «L.A.»«Non capisco.»«Los Angeles. California. Stati Uniti d’America. Oh, buon Dio, fa che sia tutto okay.»Ritiro velocemente la mano. «Cosa? Mia madre mi ha forse drogata e portata nelle Americhe? Dio

solo sa quante volte mi ha ripetuto che una ragazza che commette il peccato di disobbedienza filiale come me, si merita di essere deportata nelle Americhe. Ma questo accadeva quando ero una bambina, e anche in quel caso mia madre mi faceva delle minacce poco realistiche, perché il mio precettore di storia dissipò le mie paure e... no! È impossibile.»

«Courtney non ho idea di cosa tu stia parlando.»Il giovane uomo inizia a camminare avanti e indietro e tira fuori un oggetto squadrato e liscio dalla

tasca. «Devo chiamare tua madre? O magari Anna e Paula? Dimmi che devo fare, Courtney.»Una risata mi sgorga spontanea. Sembra io abbia perso il controllo su questa particolare facoltà.

«Accidenti ai vostri nomi infernali!» Santo cielo. Ho una voce così gracchiante che sembro una rana. Non riesco a smettere di ridere: «Io sono Jane Mansfield».

«Certo che lo sei», risponde e impallidisce. «Jane Mans field, la leggenda dello schermo. Non muoverti, chiamo Anna.» Alla fine non ci sono più risate. Solo un freddo nodo allo stomaco.

Adesso il giovane uomo sta parlando in quello strano piccolo oggetto che tiene appoggiato all’orecchio. Che spettacolo assurdo. Non posso affrontare la mia situazione neanche con un minimo di serietà se devo vedere un uomo adulto che parla dentro non so cosa fingendo di conversare realmente

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con un’altra persona nella stanza. Specialmente quando nella stanza non c’è nessuno. Quanto sembra buffo! Gesticola, parla in maniera teatrale. Forse è un attore, non un servo.

«...no, Anna. Se la riporto al pronto soccorso la potrebbero trattenere là... no, non credo che...»Ah, la persona immaginaria nella stanza ha un nome.Bene. Ecco i fatti. Non sto dormendo. Ho un corpo e una voce che non ricordano in alcun modo i

miei. Non rispondo al nome con cui quell’uomo si ostina a chiamarmi. Courtney. Ho un brivido malgrado nella stanza faccia caldo. Non mi arrenderò alla paura. Saprò dominarmi. Ho ancora una mente razionale, anche se niente in questa situazione lo è. Potrò anche non sembrare io, ma so chi sono.

L’uomo continua a camminare e a parlare con la donna immaginaria di nome Anna. Forse mi trovo – buon Dio, no – in un manicomio? No. Impossibile. Troppo pulito e ordinato.

«No, Anna...» Mi lancia uno sguardo e poi abbassa gli occhi. «Sì, portala. E no, non me ne vado. Se Paula non vuole avere niente a che fare con me è un problema suo...»

Come sono finita qui? E dov’è esattamente «qui»?Qual è l’ultimo ricordo che ho della scorsa notte? Niente. Il vuoto. Ma di mattina... Ho montato Belle.

L’ho fatta saltare sopra un albero caduto, il mio stomaco ha sobbalzato quando l’abbiamo superato. Brava Belle, brava. Ho galoppato nel bosco, mandando per aria zolle di terra e nuvole di polvere. Siamo passate in una radura con dei bei fiori di un blu intenso, poi di nuovo nel bosco, trascinando e rompendo rami. Un ramo basso mi ha strappato dalla testa la cuffia, mi sono voltata per guardare, quindi mi sono girata di nuovo, sentendo i fasci di muscoli di Belle contro le mie gambe mentre faceva uno scarto, e poi l’improvvisa sensazione di volare per aria.

E dopo il buio.«Courtney?»

Quattro

MI sta guardando. L’angelo riccioluto. Forse sono morta quando sono caduta da Belle e questo è il paradiso.

«Anna e Paula stanno arrivando. Sei sicura che non vuoi parlare con tua madre?»Lo stomaco mi si stringe. «Mia madre è qui?»«Certo che no. Ma posso chiamartela.» Mi mostra il piccolo oggetto nel quale stava parlando, come

per enfatizzare il concetto.Questo non può assolutamente essere il paradiso, perché nessun angelo si offrirebbe mai di mandare

a chiamare mia madre. Anche se forse intende dire metterla in quel piccolo oggetto che ha in mano? Questo sì che non sarebbe male. Sto ridacchiando di nuovo; non è un comportamento da signorina perbene. «La ringrazio ma no, non è necessario.»

Sembra sollevato e mi fa un piccolo sorriso. «Già, probabilmente non è una buona idea.»«E la donna di cui le ho chiesto? Per aiutarmi?» Indico l’abito bianco che indosso ancora per metà,

insieme con la vestaglia buttata sulle spalle.Lui mi guarda serio e si mette le mani in tasca. «Anna e Paula saranno qui tra pochi minuti. Nel

frattempo io... ho solo bisogno di un po’ d’acqua. Vuoi fare colazione?» E fa per uscire dalla stanza.Il pensiero del cibo mi fa rabbrividire. «La ringrazio, ma no. E, per favore, sia così gentile da chiudere

la porta.» La situazione sarà anche del tutto fuori dall’ordinario, ma non lascerò che questo strano personaggio gironzoli dentro e fuori dalla mia... be’, di chiunque sia questa stanza, tutte le volte che vuole.

Rivolgo di nuovo la mia attenzione alla recita di Orgoglio e pregiudizio nella finestrina. Forse sono morta. Questo mi sembra più razionale del pensiero che io mi sia davvero svegliata in un altro Paese e per di più in un altro corpo. È questo che si prova quando si muore?

Ovviamente il mio paradiso sarebbe un posto dove Orgoglio e pregiudizio è una rappresentazione teatrale messa in scena proprio nella mia camera da letto, un posto dove osservo i personaggi recitare la mia storia preferita a ripetizione e io li vedo così da vicino che sembrano miei amici e riesco quasi a toccarli. E poi c’è l’angelo riccioluto che è qui per prendersi cura di me dopo l’incidente ed è così dolce e gentile che non riesco a sentirmi minimamente agitata in sua presenza.

Certo, questo non assomiglia al paradiso di Mr. Grant con i suoi cori di angeli e neppure all’inferno di cui parla sul pulpito ogni domenica finché i bambini del villaggio non iniziano a schiamazzare sulle panche. Ma in fondo lui che ne sa del paradiso? Con tutto il suo blaterare sulla virtù e il modo in cui mi guarda di domenica mi fa sentire come se avessi bisogno di una bella strigliata.

«Courtney?»Adesso ci sono due signore, le suddette Paula e Anna, presumo, in piedi accanto al letto.Una ha i capelli lunghi castano chiaro con delle striature di blu e rosa di una tonalità così decisa che

non avrei mai immaginato esistesse, soprattutto nel colore dei capelli. Ancora più sorprendente anche del colore delle unghie dei piedi. Ma molto più sorprendente è la foggia oscena dei loro vestiti. Indossano entrambe stretti corpetti senza maniche, gonne che arrivano a metà coscia, e scarpe che sono solo delle strisce di pelle legate alle caviglie, che lasciano scoperto praticamente tutto il piede. Anche le unghie dei loro piedi sono colorate.

Quella con i capelli striati di rosa e blu chiede: «Ti senti bene, tesoro? Cos’è questo vestito?» Nonostante l’eccesso di confidenza volgare, i suoi modi sono gentili e la sua voce di gola mi ricorda Mary.

Le sorrido. «Siamo forse parenti?» È davvero una ragazza carina, a dispetto della chioma

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multicolore. Mi scruta con i grandi occhi scuri a mandorla. Sembra che le sue labbra carnose, di una specie di color sabbia brillante, stiano per sorridere, ma è come se non fossero sicure di volersi muovere in quella direzione.

«Stai scherzando, vero? Perché il qui presente Benedict Arnold non è sicuro che sia così.» Fa un cenno verso l’uomo riccioluto che è rientrato nella stanza: «E odio doverlo ammettere, ma potrebbe avere ragione, a meno che...»

Sussurra qualcosa all’orecchio dell’altra donna, che ha un caschetto di capelli castani lucidi che le arriva al mento e che è tagliato dritto sulla fronte. La castana getta un’occhiata preoccupata a quella dai capelli a coda di pavone e scrolla le spalle.

Il pavone concentra di nuovo la sua attenzione su di me. «Hai per caso deciso, e Dio ci aiuti se è così, di rivedere un certo ex che non nomineremo o, cosa ancora più importante, hai preso qualcosa che ti ha dato lui? Qualcosa che possa averti ispirato a stare sdraiata a letto a evocare Miss Havisham? Perché se hai preso qualcosa, o addirittura rivisto quel laido bellimbusto, Courtney, giuro che...»

L’uomo interviene: «Non c’è verso che l’abbia incontrato. Impossibile». I suoi occhi mi scrutano. «Non l’hai visto, vero?»

Sono tutti pazzi. «Chi?»«Frank», rispondono tutti e tre quasi all’unisono. La donna castana mi rivolge un sorriso

incoraggiante. «Non l’hai visto, vero tesoro? Vero?»«Chi è Frank?»«Contenta, Paula?» dice il riccioluto al pavone. «Te l’ho detto che non l’aveva visto.»«Questa sì che è la mia ragazza», si congratula Paula.«Bene allora», interviene la castana (che deve essere Anna). «Uno: sappiamo che questa non è una

situazione psicotropa. Due: sappiamo che hai battuto la testa.»Indica con il mento il gentiluomo riccioluto: «Per quanto se il tuo amico Wes, qui presente», e

sogghigna alla parola amico, «ci avesse avvisate immediatamente che avevi avuto un incidente, invece di aspettare fino a mezz’ora fa per chiamare me e Paula, avremmo potuto passare la notte qui con te. Ma tutto questo non spiega perché indossi quel, quel...»

«Vai avanti. Dillo», interviene Paula, «abito da sposa. Che, devo aggiungere, dovrebbe essere nella pattumiera da un bel pezzo. Oppure avresti dovuto passarci sopra con l’auto o ridurlo in cenere invece di appenderlo nell’armadio. Figuriamoci indossarlo.»

«Potevi regalarlo ai poveri. Almeno non sarebbe stato uno spreco», aggiunge Anna.Paula alza gli occhi al cielo. «Dacci un po’ di tregua, Anna.»Abito da sposa? Guardo il tessuto vaporoso, il corsetto impreziosito dalle perle. «È fin troppo

ricamato, lo ammetto, e di sicuro non mi sto per sposare, ma questa è una cosetta in confronto a tutto... questo. Questa voce. Questo corpo. Questo posto. Perché i miei vestiti dovrebbero mai interessarvi?»

Paula balbetta, le mani sulle anche. «Scusaci. Siamo solo le tue migliori amiche. E tu ti stai comportando da pazza.»

«Solo perché sto cercando di coprirmi con un abito di una lunghezza rispettabile non significa che io abbia perso il senno. La mia identità, quella sì. Il mio corpo, sì. Ma non la mia mente.»

Paula si rivolge a Wes. «Ti ho detto che dovrebbe vedere un medico. Non è vero, Anna?»Anna mi guarda con affetto. «Tesoro, forse dovremmo farti visitare da qualcuno.»Paula si gira di nuovo verso di me. «Hai detto di aver perso la tua identità. Dunque chi saresti,

esattamente?»«Sono Miss Mansfield. Jane Mansfield. La tenuta di mio padre è nel Somerset.»Paula si gira verso Anna. «È peggio di quel che pensavo. Andiamo», decide, afferrandomi la mano e

tirandomi fuori dal letto. «Ti porto da un dottore. Anna, falle infilare qualcosa addosso.»Wes, non so perché ma il suo nome mi piace, alza le mani e guarda corrucciato le due donne. «Niente

strizzacervelli, d’accordo? La imbottirebbero solo di droghe finché non saprà davvero più chi è.»Paula si riavvia una ciocca di capelli rosa. «Da quando sei così preoccupato per la sua salute? Dov’era

tutta questa preoccupazione quando Frank se la spassava a destra e a manca?»«Non sai di cosa stai parlando, Paula.»Ma lei si limita a voltargli le spalle e a tirare fuori un piccolo oggetto luccicante e piatto sul quale

picchietta diverse volte, e poi inizia a parlarci dentro nello stesso strano modo in cui faceva Wes.«Suzanne», esordisce, «sono Paula. Ho una piccola emergenza qui.» E detto ciò lascia la stanza e non

riesco a sentire altro.Anna rovista nei cassetti e fra gli abiti appesi e mi allunga un vestito in miniatura e un paio di ridicoli

affari con le cinghie che sembrano scarpe.«Voi state scherzando!» esclamo. «Di sicuro non mi presenterò in pubblico con le gambe e le braccia

completamente scoperte.»Anna sospira, rovista ancora un po’ e tira fuori un paio di pantaloni lunghi grigio scuro e una blusa

bianca a maniche corte con dei bottoni sul davanti.Tengo i pantaloni davanti a me. «Che idea romantica. Ho sempre desiderato indossare dei pantaloni

e montare a cavalcioni.» E a questo punto un pensiero mi colpisce: che Belle si sia ferita durante la caduta? Che abbiano dovuto... Dio mio, fa che quella dolce creatura stia bene.

Il labbro inferiore di Anna trema. «Courtney, mi stai facendo morire di paura.»Sento una lacrima scorrermi lungo la guancia e me l’asciugo con il dorso della mano. Mi accorgo di

aver lasciato cadere i pantaloni per terra. «Stia calma», dico riprendendo i pantaloni, «sto solo facendo qualche considerazione sui vantaggi dell’abbigliamento maschile.»

Anna guarda Wes che scrolla le spalle. Paula ritorna nella stanza, togliendosi una ciocca rosa e blu dal

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volto. «Mia cugina Suzanne, una rispettabile psicofarmacologa, ha accettato di riceverci.»Wes le lancia uno sguardo truce. «Una bella definizione per una pusher di lusso.»Paula lo ignora. «Dobbiamo uscire adesso. È all’Huntington Hospital.»Non vedo come potrei indossare questi deliziosi morbidi pantaloni se continuano a discutere.

«Vogliate essere così gentili da continuare la vostra discussione fuori, così potrò vestirmi.» Alzo i pantaloni per enfatizzare il concetto. «Inoltre le vostre grida mi hanno fatto tornare il mal di testa.»

«Scusa», dice Wes mentre va verso la porta. Si volta verso Paula. «Sto solo suggerendo che forse stiamo esagerando con questa storia delle prescrizioni mediche. E non è che chiunque abbia il cuore infranto o sia un po’ triste o...»

«O che vada in giro indossando un abito da sposa sostenendo di essere qualcun altro? Persino tu dovrai ammettere che quando è troppo è troppo. E comunque perché sei qui?»

«Me l’ha chiesto lei di rimanere.» Wes mi guarda. «Ma se volete che me ne vada...»Se volete che me ne vada. Queste parole mi colpiscono e mi riportano alla biblioteca di casa

Mansfield, quando stavo davanti alla grande finestra che dà sul giardino. «Se vuole che me ne vada», aveva detto Edgeworth, «naturalmente farò come desidera. Ma la prego di dirmi cosa ho fatto.»

Come aveva osato fare la parte dell’innocente? «Signore, non vedo il motivo di dirle quello che già sa. Ora mi lasci in pace.»

Il volto sbiancato, aveva chiuso gli occhi e abbassato il capo, come se la vita lo avesse abbandonato.«Courtney? Di che stai parlando?»È Wes che mi sta guardando, non Edgeworth. I suoi occhi sono dolci dietro gli occhiali.«Lasci la stanza all’istante. Non ho l’abitudine di fornire spiegazioni sul mio comportamento,

specialmente a un uomo che per me non significa nulla.»Lui batte le palpebre come se fosse stato colpito dalla forza delle mie parole che per un istante vorrei

rimangiarmi.Ma poi si volta ed esce lentamente dalla stanza. «Questa sì che è la mia ragazza!» esclama Paula

alzando un pollice per enfatizzare il concetto e infila la porta dopo Wes.Mentre la disputa continua indisturbata nella stanza accanto, Anna mi aiuta a sfilarmi il vestito

bianco, lo mette via e tira fuori due piccoli indumenti da un cassetto.«Non capisco», commenta Anna, «qualche settimana fa avevi dichiarato di non voler avere niente a

che fare con Wes.»«Non ho mai posato i miei occhi su di lui prima di stamane.»«Cosa?» Spalanca gli occhi allarmata.«Di qualsiasi cosa lei stia parlando non ha nulla a che vedere con me.»«Povera stella», ribatte lei. «Non preoccuparti, la cugina di Paula saprà cosa è bene fare.» Indica i

due indumenti dall’aspetto strano sul letto. «Perché non ti vesti, okay?»Uno degli indumenti è di un rosa acceso con tre grandi aperture, l’altro consiste di due pezzi di stoffa

giallo chiaro a forma di coppetta collegati con delle strisce di stoffa e decorati con dei merletti e dei ricami dello stesso colore. Anna mi porge l’indumento giallo. Lo prendo. Ah. Posso mettere le due coppette una dentro l’altra... sì, deve essere così che si fa. Mi metto le similcoppette sulla testa e cerco di annodare le strisce di stoffa sotto il mento.

Anna rimane a bocca aperta, poi inizia a ridacchiare, togliendomi la cuffia dalla testa. «A questo ritmo non usciremo mai di qui.» Apre la cuffia e me la mette sul petto, e io mi rendo conto che non si tratta affatto di una cuffia. Apparentemente serve per sostenere il seno sotto il corsetto. Non ho la benché minima idea di come si possa indossare un simile articolo e suppongo che Anna se ne renda conto dalla mia postura e dalla mia espressione, visto che mi strattona le braccia incrociate, le infila dentro le strisce semicircolari, mi sistema le coppette e allaccia il retro dell’indumento. Incredibile come tiri su il seno e come sia confortevole se comparato alle stecche che mi obbligano a tenere il busto dritto.

«Almeno non hai chiamato Frank», dice. «Per questo dobbiamo essere grati.» Prende il pezzetto di stoffa rosa acceso. «Non hai intenzione di vestirti da sola, giusto?» Mi fa sedere sul letto, mi toglie le lenzuola con le quali avevo coperto la parte inferiore del mio corpo, e mi fa infilare le gambe in due delle aperture dell’indumento, dopodiché lo tira su per coprirmi il didietro. Alcune delle donne più all’avanguardia in fatto di moda possono indossare delle mutande sotto la sottoveste, ma modelli del genere sono sicuramente molto più lunghi di questo pezzettino di stoffa.

Per il resto riesco a sbrigarmela da sola, e così indosso i pantaloni – che hanno una curiosa chiusura sul davanti, senza bottoni ma con un piccolo marchingegno che si chiude quando viene tirato su e si apre quando viene tirato giù – e abbottono la blusa.

La lite nell’altra stanza, che è passata dalle urla ai sibili, ora scoppia a distanza di pochi secondi con uscite del genere: «Chi ti dà il diritto», oppure: «Non hai idea di quello che stai dicendo», e alla fine il «Allora vengo con voi» di Wes, seguito da altri sibili.

Infilo la blusa nella cintura dei pantaloni – davvero un aggeggio comodo – e rivolgo lo sguardo verso Anna: «Ritiene che la smetteranno prima o poi?»

Anna, che per tutto il tempo mi ha osservato con la bocca ridotta a una linea sottile e una rughetta fra le sopracciglia, si rilassa e mi sorride. È una ragazza davvero carina e anche lei ha dei denti bianchissimi con una piccola fossetta sulla guancia sinistra. «Paula non è il tipo che perdona, nel caso tu non l’abbia notato.»

«Che cosa mai le ha fatto?»La fronte di Anna si corruga di nuovo e la sua espressione non è più divertita. Apre la bocca come se

dovesse parlare e poi la richiude. La porta si apre e Paula entra rapida con le chiome variopinte che ballonzolano.

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«Bene», esordisce con uno sguardo che mi scruta dalla testa ai piedi. «Vieni o perderemo Suzanne.»Mi tocco la testa senza cuffia e noto che in aggiunta alle loro stranezze in fatto di vestiti, le due donne

sono anche a capo scoperto. «E la cuffia?» domando, guardando entrambe in cerca di una risposta. Gli occhi di Anna si spalancano come per paura, mentre Paula semplicemente si avvicina e mi prende per un braccio.

«Muoviti», mi sprona, spingendomi fuori dalla stanza. Come se i confortevoli pantaloni da donna non fossero abbastanza piacevoli, l’idea di non dover indossare una cuffietta calda e opprimente in piena estate è la felicità. Paula mi conduce in una stanza ancora più piccola della camera da letto. Sembra essere quella della servitù. Al confine della stanza c’è un paravento non del tutto chiuso, oltre il quale c’è un divano color arancione acceso con un lungo tavolo basso davanti al quale c’è una poltrona con sopra una massa di indumenti spiegazzati. Dov’è il resto della casa? Non può essere tutto qui. Un momento, c’è un’altra porta socchiusa, vicino a un oggetto alto e rettangolare. Mi muovo in quella direzione e...

«Courtney? Faremo tardi.»«Per l’amor del cielo, Paula. Lascia che vada in bagno», dice Anna.«Bagno?» Ignorando lo sguardo fisso di Wes, lo supero in fretta, metto una mano sulla porta e la

spalanco, entro e richiudo dietro di me. Ne ho avuto abbastanza di tutti questi sguardi insistenti. Solo che adesso sto fissando anch’io. Il riflesso nello specchio, la donna dai capelli biondi che si suppone sia io ma che per me è una completa estranea.

Guardo la donna nello specchio; la blusa le sta piuttosto bene e la cinta dei pantaloni si adagia sulle sue forme in un modo che fa risaltare il suo vitino da vespa rispetto ai fianchi rotondi. Posso solo immaginare cosa direbbe mia madre se mi vedesse indossare un paio di pantaloni: la O che farebbe la sua boccuccia di fronte a questo spettacolo scandaloso, l’espressione fredda dei suoi occhi blu e l’imperioso: «Vai a cambiarti immediatamente», lo stesso tono che ha usato una volta quando ho osato indossare il mio vestito giallo mentre aspettavamo Edgeworth per cena invece di quello azzurro che aveva scelto lei.

La donna allo specchio sta sorridendo.Un gocciolio cattura la mia attenzione: sotto lo specchio c’è un tubo di metallo ricurvo, da cui gocciola

continuamente l’acqua.Armeggio intorno alla superficie curva, che si protende da un tubo più spesso sopra il quale c’è... una

pompa a mano? Possibile che questa minuscola dimora abbia una pompa dell’acqua? Di sicuro si arrende al mio tocco e il gocciolio diventa un getto potente di acqua che proviene dal cilindro ricurvo. E non uno scricchiolio o una scossa, non un insetto morto o una zaffata sulfurea, né una sfumatura di marrone. Solo chiare, fresche acque e – santo cielo! – quando muovo la manopola sulla sinistra l’acqua è tiepida e poi calda! Com’è possibile un simile miracolo? Muovo la manopola finché l’acqua non è della temperatura perfetta e metto le mani sotto questo getto generoso, spruzzandomi l’acqua sul viso. Do un’occhiata allo specchio e il volto che mi guarda di riflesso è deliziato dal contatto con l’acqua. Scommetto che non c’è una sola casa a Londra con un’acqua così chiara proveniente dai tubi. E certamente nessuna dispone di acqua calda a meno che non venga riscaldata sul fuoco.

Se solo ci fosse del sapone. Ah, sì. Una bottiglia chiara che sembra vetro ma non ha la consistenza del vetro, e che si piega sotto la pressione delle mie dita, ha un’etichetta che la descrive come «sapone liquido al geranio». La sommità a forma di pompa produce un sottile getto di liquido perlaceo, che diventa schiuma tra le mie mani bagnate: mi spalmo questa mistura dolce e profumata sulla faccia. Che bello essere finalmente pulita e odorare di buono.

Un rapido colpo alla porta. «Sono io», dice una voce femminile ed entra Paula. Noto che c’è poco rispetto per le porte chiuse in questa casa.

«Ho pensato che è meglio che la faccia anch’io nel caso trovassimo traffico», annuncia e solleva il coperchio di un oggetto bianco e cilindrico, che rivela un affare bianco a forma di ferro di cavallo sopra un catino d’acqua. Si solleva la gonna corta, abbassa un indumento intimo azzurro, simile a quello che indosso anch’io, si siede sul ferro di cavallo e sospira di sollievo. Sto per protestare per il suo comportamento volgare ma sono così affascinata da quanto fa dopo che posso solo fissarla con la stessa mancanza di garbo che lei sta riservando a me. Afferra una specie di carta, a quanto pare sottile e morbida, da un rullo attaccato al muro e lo usa per pulirsi, poi si riaggiusta gli abiti, e abbassa una leva sul catino che lava via tutto sotto un possente getto d’acqua.

«Stavo per dimenticarmene», aggiunge, aprendo un armadietto e un contenitore blu. «Farò meglio a prendere uno di questi.» Afferra un piccolo oggetto bianco e cilindrico avvolto in un po’ di carta. «Potrebbero venirmi da un momento all’altro. Me lo sento.» E così di nuovo giù l’indumento intimo, su la gonna, apre la carta che avvolge il cilindro e se lo infila proprio dentro al corpo!

«Ti senti bene?» chiede, con le sopracciglia aggrottate per la preoccupazione. «Che domanda stupida. È chiaro che non stai bene. Ma hai fatto, giusto? Possiamo andare?»

«Be’. Se fosse così gentile...» indico la tazza di porcellana. «Ci metterò solo un attimo.»«Sbrigati allora», mi incalza e grazie al cielo mi lascia da sola a provare questo strumento. È un

migliaio di volte più notevole della toilette della casa londinese di Miss Allen e anche molto più confortevole. Quello di Miss Allen ha a stento un trespolo e non una comoda seduta su cui appoggiarsi. E questa carta così morbida e delicata è assai più gradevole della carta straccia.

Quando esco dalla stanza da bagno mi stanno fissando tutti. Paula mi afferra per il braccio e mi conduce nell’altra stanza, dove adocchio una sorprendente immagine molto verosimile dei due attori di Orgoglio e pregiudizio sotto cui ci sono i numeri 2009 e un calendario di tutti i mesi e di tutti i giorni dell’anno.

«Duemilanove?» mi sento dire con una strana voce prima di rendermi conto di aver parlato.

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«Duemilanove?» libero il braccio dalla presa di Paula e guardo le facce dei tre estranei. «È una specie di scherzo?»

Se lo è non stanno ridendo e improvvisamente sento le vertigini e mi afferro allo schienale di una delle sedie.

Cinque

«COURTNEY, rischiamo di arrivare tardi.» Paula fa per prendermi la mano. «Tardi? Più tardi del 2009? Come può essere più tardi di così?»«Tesoro», interviene Anna accarezzandomi il braccio, «ne parleremo mentre andiamo dalla

dottoressa.»Un rumore improvviso, musica credo, ma diversa da qualunque musica abbia sentito in vita mia. Una

voce maschile canta e quasi grida qualcosa come «loving you» accompagnata da strumenti lamentosi e ad altissimo volume. Ci saranno dei musicisti fuori, ma come riescano a raggiungere un volume simile è al di là della mia immaginazione.

Paula sbatte il piede sul pavimento. «Di nuovo quell’idiota», grida, o almeno penso sia quello che dice, perché il ruggito della voce e gli strumenti praticamente coprono le sue parole.

«Usciamo di qui», urla Wes.Anna apre la porta e la tiene spalancata per noi. Paula mi afferra per un braccio e io lascio che mi

conduca fuori.Paula mi guida giù per una scala. Il rumore è ancora forte ma un po’ attutito.«Dannazione!» esclama Paula. «Se non c’è Shostakovich al piano di sotto che suona il meglio degli

anni Ottanta, allora ci sono i dolci rumori degli elicotteri della polizia che girano in cielo.»«Senza considerare le sparatorie occasionali», aggiunge Anna.«Quando te ne andrai di qui?» chiede Paula.«Parlerò con lui più tardi», dice Wes.Incrocio il suo sguardo. «Siamo davvero nel 2009?»Spalanca gli occhi e impallidisce.«Allora devo essere morta, perché nessuno può vivere tanto a lungo. Oh, buon Dio. E Belle, è morta

anche lei?»All’improvviso non provo più alcun interesse per il tubo con l’acqua calda, le toilette dalle forme

intelligenti e per il fatto che sono una bella bionda. Voglio solo essere viva, nella mia vita, non in uno strano posto, sia esso paradiso o inferno.

«Courtney, non sei morta», mi informa Wes. «Grazie a Dio hai solo battuto la testa. Questo è tutto.»«Ed è per questo che sei così confusa», aggiunge Paula.Mi sento mancare mentre mi spinge giù in strada. «Che razza di luogo è mai questo?» La facciata

della casa è sfigurata da indecifrabili sgorbi rossi e neri. Il marciapiede sul qualche camminiamo è duro, scuro e interrotto da alcuni ciuffi d’erba che spuntano qua e là.

Alti pali di legno torreggiano lungo la strada, collegati l’uno all’altro da corde nere. La cosa più sbalorditiva però sono degli enormi aggeggi luccicanti su ruote di varia forma e colore – nero, bianco, argento, rosso e mille altre tinte – che sono allineati ai lati della strada. Uno di questi inizia a emettere del fumo e a muoversi. Che tipo di attrezzo può muoversi senza cavalli che lo trainino e senza che nessuno tenga le redini, se ci sono davvero dei cavalli da imbrigliare?

«Ahi, mi stai facendo male», esclama Paula e mi rendo conto che le sto stringendo il braccio con una certa forza.

Allento la presa e con la mano libera indico l’affare che ora si muove rapidamente. «Cos’è quel coso?»«Lo so. Riesci a crederci? Un altro Suv ibrido. Che razza di presa in giro! Non come la mia bambina

qui, che in fatto di consumi è efficiente quasi quanto una Prius.» Si ferma di fronte a una macchina più corta e arrotondata del cosiddetto Suv. Questa qui è di colore azzurro con un tetto nero. Paula rovista nella sua borsa e tira fuori un piccolo oggetto che punta in direzione della macchina e che apparentemente ne apre lo sportello. Mi fa cenno di entrare.

«Non starà dicendo sul serio?»«Allora siediti davanti.»«Non so se voglio sedermi in quella... quella cosa.»«Da quand’è che non ti piace la mia auto?»«Auto.» In verità sono curiosa. E così mi siedo sul sedile rivolto in avanti, che è molto più

confortevole di quello di una carrozza. Wes si accomoda accanto a me. Paula e Anna si siedono davanti, entrando ciascuna da una diversa portiera. Contrariamente a una carrozza, dove si siederebbero di fronte a noi, anche i loro sedili sono rivolti in avanti. Paula inserisce l’oggetto che ha usato per aprire lo sportello in uno spazio vicino a una cosa a forma di ruota che è posta all’altezza del suo petto e l’auto emette un fruscio. Lei gira la ruota e l’auto inizia a muoversi!

È veloce come la più veloce delle carrozze e senza cavalli! Ma è persino più veloce e la strada è piena di altre auto che variano per forma, grandezza e colore, che si muovono sempre più in fretta finché la nostra si immette in una strada larga e divisa da una striscia dipinta in sezioni regolari piene di queste strane macchine, che corrono tutte come se il diavolo le stesse inseguendo. Mi rendo conto di essermi aggrappata al braccio di Wes con una mano e a una maniglia che spunta dalla portiera con l’altra.

«Piano! No... Troppo veloce, io...»

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«Stai bene?» mi chiede Wes.«Per cortesia rallentate», riesco appena a farmi uscire le parole di bocca. Sta iniziando a mancarmi

l’aria. Tutte queste auto che corrono lungo la strada, gareggiando l’una con l’altra, emettendo scoppi come la tromba da nave; un enorme mostro nero squadrato a forma di macchina sorpassa l’auto di Paula e si inserisce davanti a lei e quasi andiamo a sbatterci contro. Questo è l’inferno, è l’inferno, so che lo è, ma come ci sono finita? Non ho abbastanza aria, non riesco a respirare.

«Sta andando in iperventilazione», dice Wes.Paula incrocia i miei occhi nello specchietto che è sopra la ruota interna. «Vuoi che mi fermi, tesoro?

Ti stai sentendo male?»«Courtney?» mi chiama Wes.Non riesco a rispondere. Mi sforzo di rallentare il respiro finché non sono in grado di prendere una

bella boccata d’aria. «Ma certo che non mi sto sentendo male. Potrò anche essere spaventata e fuori di me ma non sono una di quelle donnine svenevoli che hanno bisogno di essere soccorse ogni minuto.»

Anna si gira e si sporge oltre il sedile. «Sei perfettamente al sicuro, tesoro. Te lo garantisco.» Rivolge un’occhiataccia a Paula: «La vuoi smettere di correre come se stessi a Indianapolis? Premi meno sull’acceleratore, okay?»

Paula si adombra. «Per l’amor di Dio, sto andando solo a settanta. Non potrei fare di più con questo traffico neanche se volessi.»

Wes semplicemente mi accarezza la testa e mi fa un cenno rassicurante. Dietro di lui scorgo un’auto bianca che sta accanto alla nostra e dentro la quale ci sono vari bambini. Vedono che li sto guardando, mi sorridono e mi salutano. Uno di loro, un bambino di circa sei anni, mi fa una boccaccia e uno più piccolo, forse di quattro anni, lo spinge e ride.

Sento che la bocca mi si atteggia a un sorriso e mi accorgo che ho lasciato la presa sul braccio di Wes e sulla maniglia. Non ho più la sensazione di nausea allo stomaco, le auto su ciascun lato della strada, le case e gli alberi diventano una macchia sfocata, mentre io mi lascio andare alla velocità, ai colori, al vento rinfrescante sul viso, visto che per qualche motivo il vetro vicino a me si è leggermente abbassato. Se questo è il paradiso, allora sto viaggiando con degli angeli e dunque che motivo c’è di avere paura?

Corriamo lasciandoci alle spalle negozi, case ed edifici tanto vari per forma e colore quanto gli esseri umani che vi entrano ed escono. Alcuni degli edifici sono così alti e hanno talmente tanti vetri che la tassa sulle finestre deve essere incalcolabile. Le molte strutture a cui passiamo accanto sono in condizioni molto diverse: alcune sono annerite e cadenti, altre luccicanti e raffinate. Non c’è alcuna uniformità di stile.

Qui e là ci sono dei mattoni o un architrave che mi ricordano una casa di Londra, ma quasi tutte le facciate sono o del tutto sguarnite di ornamenti o, al contrario, decorate in un modo che non avrei mai immaginato: pannelli di forma rettangolare verdi e rossi, bizzarri dipinti di fiori e animali, enormi lettere ricurve composte da qualcosa che sembra vetro, un mosaico gigante di piastrelle. È come se un bambino avesse regnato su questa città e, ridendo tutto il tempo, avesse creato qualsiasi cosa gli passasse in mente per i suoi abitanti, a caso e senza alcun riguardo per l’armonia artistica.

E gli alberi! Immensamente alti, a forma di stelo, con la corteccia segnata da zig-zag geometrici e con in cima una massa gigante di foglie spinose.

Faccio appena in tempo a iniziare a meravigliarmi di queste piante che passiamo accanto a strutture colossali, armature di metallo rettangolari su quattro gambe che sono collegate l’una all’altra da corde giganti. Non riesco a immaginare la funzione di queste costruzioni titaniche.

È dunque così che appare il mondo nel 2009?Avverto degli occhi su di me e mi rendo conto di aver pronunciato le parole a voce alta. Paula mi

guarda dallo specchio, perplessa. Anna si volta verso Wes, entrambi mi lanciano un’occhiata e annuiscono.

Non riesco a sopportare la loro espressione compassionevole. Chiudo gli occhi e lascio che il vento mi passi addosso. Sono morta o pazza o in qualche modo mi trovo nel futuro nei panni di un’altra persona.

Che questo sia ciò che intendeva la Società di studi asiatici nel suo saggio sulla credenza indù della trasmigrazione delle anime? Ma se ho capito bene, accade nel caso del trasferimento dell’anima di un defunto nel corpo di un neonato. E invece eccomi qui, sono un’altra adulta.

Se la mia anima è trasmigrata, allora tutti quelli che ho conosciuto devono essere morti da molto tempo... mio caro papà ti rivedrò di nuovo? Se è davvero il 2009, mia cara Mary, non potrò mai più vedere la tua dolce espressione, né quella di tuo fratello (in questo momento non riesco a provare neanche un briciolo di risentimento nei confronti di Charles Edgeworth, visto che dovrà trovarsi da almeno un secolo nella tomba). Cara mamma, non sono mai stata per te quello che sono stati mia sorella e mio fratello, eppure tu sei l’unica madre che io abbia mai conosciuto. E anche tu sei morta. Calde lacrime si affollano dietro le mie palpebre. E Barnes, cara fedele Barnes, chi ti piangerà ora a parte me?

La mano di Wes che mi accarezza il braccio mi ridesta. I suoi occhi grigioblu hanno un’aria affettuosa. Anna si sporge dal sedile per asciugarmi le lacrime con qualcosa più morbido del lino più fine.

«Siamo quasi arrivati», fa sapere Paula.Sarò forse pazza, sarò forse morta, la mia anima sarà trasmigrata, ma devo essere padrona di me

stessa. Mi sforzo di sorridere per provarlo ai miei compagni di viaggio e sul loro viso compare quello che sembra sollievo.

L’auto di Paula svolta dall’infinita, inconcepibilmente grande strada in una strada più piccola, dove le macchine procedono più lente, finché non ci fermiamo di fronte a un edificio altissimo e massiccio con centinaia di finestre.

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Ci arrestiamo e scendiamo in un vasto spiazzo con delle auto ferme. «Mi sento già meglio», dice Paula e indica la direzione verso la quale dobbiamo camminare.

All’improvviso mi scappa una risata che semplicemente sgorga fuori e mi scuote finché non mi piego in due.

Le espressioni di Wes, Paula e Anna sono tutte tranne che allegre.«Oh, no», geme Anna.«Ti senti bene?» s’informa Wes.La risata si attenua in sbuffi e risatine molto poco da gentildonna e alla fine riesco a calmarmi. «Oh,

sì. Come Paula, mi sento già meglio. Chi non si sentirebbe meglio dopo aver gareggiato con migliaia di auto per giungere a una destinazione dove ci sono altre migliaia di auto immobili? Chi non si sentirebbe meglio dopo aver scoperto che tutti quelli che ha conosciuto sono morti da almeno centocinquant’anni?»

Mi guardo intorno, verso la distesa di auto e l’edificio illuminato con le finestre luccicanti. «Se sono morti loro allora devo esserlo anch’io.»

«Ti senti davvero morta?» chiede Anna, con gli occhi colmi di preoccupazione. «Perché non lo sei. Hai tutta una vita davanti a te. So che adesso può sembrarti una bugia, ma è così. Te lo assicuro.»

«Io...» Ma non riesco a finire il pensiero perché un paio di farfalle improvvisamente si mettono a danzare nell’aria fra me e Anna. E poi si allontanano rimpiazzate da un’altra arancione a macchie nere che subito mi si posa sul braccio e che sembra guardarmi. Vorrei ridere di gioia ma non oso spaventarla. Faccio per toccarla, ma Wes gentilmente ferma la mia mano con la sua.

«Le sue ali sono troppo fragili per essere toccate.»Conosco queste parole, ricordo questo momento, proprio questo momento. Ma come?E poi, improvvisamente, la farfalla spicca il volo e il sole spunta da una nuvola e mi solletica la pelle

dove la farfalla si era appena posata; il tepore del sole sul mio viso, il profumo agrumato che viene dai capelli di Wes e il contatto con la sua pelle sono più vividi, più presenti di qualsiasi altra sensazione io abbia mai provato.

E in un attimo so di essere viva. In effetti sono più viva di quanto lo sia mai stata prima. Innegabilmente e senza dubbio viva. In questo corpo che non è il mio, con queste persone sconosciute, in un tempo lontano, in un posto distante. Impossibile, inspiegabile e allo stesso tempo è così. Un attimo prima stavo cavalcando Belle nel bosco. Un attimo dopo mi trovo qui.

Dovrei essere spaventata. Dovrei interrogarmi sulla mia sanità mentale. Ma non ci riesco.Sorrido. A Wes. A Paula. Ad Anna.Anna mi prende per il braccio e lo stringe affettuosamente. «Credo che ognuno di noi abbia il potere

di creare il paradiso o l’inferno, qui e ora.»Paula si mette tra di noi e mi fa girare verso l’edificio. «Anna, l’ultima cosa di cui questa ragazza ha

bisogno è la tua robaccia New Age.»Guardo Anna, le cui guance si sono arrossate, e dico: «Penso mi piaccia il suo pensiero».Lei mi lancia un’occhiata e poi guarda la schiena di Paula. «Mi è capitato di leggerlo in un libro. Un

libro rispettabile. Che è stato nella classifica del New York Times per venti settimane.» «Entriamo», mi invita Paula, ignorando di proposito Anna.Quest’ultima però a quanto pare non si scoraggia. «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di

quante ne sogni la tua filosofia.»Paula rotea gli occhi verso l’alto. «Se non sputa fuori la saggezza infusa di qualche tizio spaventoso

che evoca lo spirito di un ‘maestro asceso’, allora sbruffoneggia con la sua laurea in discipline teatrali.»Rivolgo un sorriso incoraggiante ad Anna. «Anch’io adoro Shakespeare.»Raggiungiamo l’edificio e Wes apre un’enorme porta di vetro – un gigantesco pannello di vetro come

non ne ho mai visti prima – e vengo catapultata in una stanza a forma di scatola con delle porte che si aprono e si chiudono da sole, ma non come le porte normali. È come se sparissero nei muri quando si aprono.

Paula preme uno dei molti cerchietti numerati sul muro vicino alle strane porte ora chiuse e la stanza fa un piccolo sobbalzo. Passano pochi attimi e le porte scompaiono di nuovo nel muro, mentre la stanza di fuori è completamente diversa da quella di prima.

E in questo istante mi rendo conto che la piccola stanza nella quale ci troviamo in realtà si è mossa! Siamo davvero saliti dal piano inferiore a quello superiore. La stanza ha letteralmente fluttuato fino al piano di sopra? Una risata inizia a gorgogliare dentro di me e mi sforzo di mantenere un contegno. Come fanno le persone intorno a me a rimanere così serie quando si trovano in un mezzo di trasporto tanto strano? Posso solo desumerne che nel 2009 meraviglie del genere accadano ogni giorno.

Dopo aver attraversato velocemente un corridoio piastrellato a scacchi, Paula ci fa segno di sederci su delle sedie arancione di forma curiosa che sembrano composte di una strana sostanza dura. Parla con un’infermiera seduta dietro una parete di vetro, poi si riunisce al gruppo. Un uomo arruffato sui trent’anni con la carnagione grigiastra quasi quanto gli abiti che indossa, prende una delle seggiole messe in fila di fronte a noi e immediatamente si gira sulla sedia fissando su di me il suo sguardo occhialuto. «Sei qui per sapere la verità? Sei qui per la verità? Qui per la verità? Qui per la verità? Sei qui per la verità? Sei qui per sapere la verità?»

Continua a sputarmi addosso quest’assurdità, agitandosi sempre di più, finché la faccia grigia non gli diventa rosa poi rossa e Paula grida alla donna dietro la parete di vetro di occuparsi di lui, mentre Wes lo invita, con modi gentili, a smetterla e Anna mi prende per il braccio con un’espressione impaurita. L’uomo continua a fissarmi, mentre la luce scintilla sui suoi occhiali dalla montatura nera.

La luce – certo, la luce – un’altra meraviglia. Non ci sono candele da nessuna parte eppure c’è una luce chiara che proviene sia da dietro il vetro sul soffitto, sia da una lampada accanto a un cumulo di

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sedie, e sia da sopra la donna dietro la parete di vetro.«Sei qui per sapere la verità? Qui per la verità?»Mi alzo e guardo la faccia stravolta di quest’uomo sofferente. «Proprio così. Non esiste nessuno più

ansioso di me di conoscere la verità.»

Sei

L’UOMO si ferma a metà della sua litania, la bocca aperta, gli occhi spalancati dietro gli occhiali. E lentamente la O della sua bocca prende la forma di un ampio ghigno. «Dio ti benedica», sussurra. «Dio ti benedica.»

«Miss Stone?» Una graziosa donna cinese con una blusa rosa in tinta con i pantaloni sta parlando con me. Dunque si suppone che il mio nome sia Miss Stone?

Mi volto verso Anna che sta facendo un cenno di assenso con la testa alla donna cinese mentre mi indica.

«Miss Stone, il dottor Menziger la riceverà subito.» La donna cinese parla un inglese perfetto, anche se non con l’accento del mio Paese.

Wes si alza dal suo posto e mi tocca leggermente il braccio. «Sei sicura di volerlo fare?»Paula lo fissa con uno sguardo minaccioso e mi prende per il braccio. «Ha bisogno di aiuto, idiota.»Un uomo anziano e una donna, lui con giacca e pantaloni grigi e una camicia bianca inamidata, lei

con un vestito blu scuro abbastanza decente che le arriva fino ai polpacci, passano di fronte a noi nel corridoio. Accompagnano, tenendolo fra loro, un ragazzo di non più di sedici anni, con i lunghi capelli castano scuro che gli ricadono sul viso, mentre una parte della capigliatura gli sta ritta come fosse un bambino appena svegliato. Ha gli occhi mezzo chiusi, inciampa fra i due adulti che sembrano stare meglio, anche se la loro faccia è solcata dalla preoccupazione per il loro compito; il ragazzo ripete continuamente: «Non lo farò più. Promesso. Non lo farò più». Wes tende il braccio in un gesto che indica lo sfortunato terzetto e l’uomo seduto di fronte a noi: «E questo tu lo chiami aiuto?»

Paula lo ignora. «Forza, Courtney.» Io e lei seguiamo la donna cinese attraverso una porta, giù lungo un corridoio a scacchi, oltre alcuni tavoli bianchi dove ci sono delle donne che chiacchierano, donne dalla pelle scura, nera, mulatta, tutte vestite allo stesso modo con i pantaloni rosa e la blusa a maniche corte. Sopra i tavoli ci sono delle scatole illuminate che mi ricordano quella nella stanza dove mi sono svegliata, ma sopra sembrano avere delle linee di testo stampato invece che attori e prima di trovare un senso in quello che sto vedendo – come se tutto questo avesse senso – mi ritrovo in una stanza senza Paula a fissare un grande tavolo di legno chiaro, dietro il quale c’è una persona che si alza dalla sedia e mi porge la mano. «Benvenuta Courtney. Sono il dottor Menziger, la cugina di Paula. Mi chiami pure Suzanne.»

Questa dolce voce femminile è davvero inaspettata, visto che ha una massa irsuta di capelli biondo scuro legati stretti, le spalle larghe, e un sorriso bianco e squadrato in una faccia quadrata. La mano che mi tende è tozza e anch’essa squadrata, con unghie molto corte e squadrate. L’unica cosa bella sono gli occhi di un azzurro intenso che luccicano come diamanti, come il sole che brilla sul mare.

Ha gli occhi di un angelo. Le sorrido compiaciuta mentre le stringo la mano, anche se è un gesto piuttosto intimo per qualcuno appena incontrato.

Prendo una delle due sedie che le stanno di fronte e la mia attenzione viene rapita da un’immagine incredibile in una cornice sull’armadietto di legno chiaro dietro il dottor Menziger. Il ritratto della donna dai capelli castani con un sorriso sicuro è verosimile come quella del calendario sul muro delle stanze in cui mi sono svegliata. Non ho mai visto dei ritratti così verosimili nonostante gli sforzi dei pittori; sono così realistiche che le si potrebbe scambiare per l’originale.

La voce del dottor Menziger richiama la mia attenzione distogliendola dall’immagine. «C’è qualcosa che la interessa in modo particolare in quella foto?»

«Foto... non ho mai visto niente di così verosimile. È come se fosse nella stanza con noi.»«Quella è la mia partner e sono sicura che sarà felice di saperlo. Ha fatto lei stessa la foto.»«Davvero.» Non riesco neppure a immaginare perché il dottor Menziger abbia scelto di esporre un

ritratto di una sua partner di affari, e neanche perché uno stimato medico sia in affari con un’artista così talentuosa. Nonché donna. Ma sono entrambe donne. Donne medico. Che idea singolare.

«C’è qualcosa che la diverte?» mi chiede il dottor Menziger con la sua espressione gentile.«Affatto», rispondo, sperando che la mia faccia non tradisca i miei pensieri. Dopotutto, perché le

donne non dovrebbero essere medici? Non sono forse loro che accudiscono gli ammalati, che si occupano dei neonati, che si prendono cura dei poveri e degli sfortunati delle parrocchie?

«Mi dica perché i suoi amici hanno voluto che lei mi incontrasse», domanda incrociando le mani squadrate davanti a sé e guardandomi con i suoi occhi blu che luccicano sopra un accenno di sorriso delle labbra. «E la prego, cerchi di capire che tutto ciò che mi dirà rimarrà in questa stanza e sarà strettamente confidenziale.»

«Bene, benissimo, ma tutto questo mi farà finire in un asilo mentale?»«‘Asilo’, un’interessante scelta di parole.» Scrive qualcosa su un libro di carta a righe con quella che

sembra essere una penna anche se non ha la piuma. «Non siamo così antiquati come dicono, a meno che lei non intenda asilo come un posto sicuro, un rifugio che tiene al riparo dal male. In questo caso, sì, offriamo proprio asilo.»

Ripenso a quella sventurata creatura là fuori che straparlava di «verità» e a quel povero ragazzo

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praticamente trasportato lungo il corridoio da quelli che presumibilmente erano i suoi genitori, i quali sembravano insensibili alle sue suppliche. «Belle parole, ma non ho alcun desiderio di essere rinchiusa.»

«Non sarebbe nel mio interesse, o nel suo, rinchiuderla da qualche parte contro la sua volontà. Mi piacerebbe però aiutarla.»

«Se questo significa prelevarmi gli umori malefici, come il medico preferito di mia madre ama ripetere, allora declino rispettosamente la sua offerta.»

«Non sono così dogmatica circa l’umorismo.»Un accenno di sorriso compare sulla sua bocca. Mi ci vuole un secondo per capire la sua arguzia e ne

rido.Lei scrive sul suo libro. Strano. Non vedo da nessuna parte il calamaio eppure l’inchiostro continua a

fluire dalla penna.«Dunque», dice. «Perché pensa che i suoi amici l’abbiano portata qui?»«Pensano che io sia Courtney... Stone, si chiama così? Ma non lo sono.»Il dottor Menziger non dice una parola, mi guarda solo con i suoi brillanti occhi blu e annuisce

leggermente.«Io sono Miss Mansfield. Il mio nome di battesimo è Jane. Non assomiglio affatto a questa persona.

Quando sono andata a dormire ero nel mio letto, nella dimora di mio padre, nel Somerset, ed era il ’13. Il 1813. Non...» Ed eccolo là, sulla scrivania, un libro dalla copertina in pelle aperto sul frontespizio, un calendario con scritto in cima il numero 2009. «Non era il 2009. Non sono malata, dottor Menziger. Mi sono solo persa.»

Annuisce. «Come la fa sentire tutto questo?»«Come si sentirebbe un’altra al posto mio? Confusa. A volte spaventata. Ma anche curiosa... per

esempio, come fa la lampada sul suo tavolo a emanare luce senza candele?»Lei annuisce gentilmente. «Se non ho capito male la notte scorsa è stata portata in ospedale a causa

di una ferita alla testa.» Indica dei fogli sulla scrivania. «I suoi pensieri e le sue emozioni potrebbero essere semplicemente il risultato di questa commozione, e in questo caso dovrebbero passare in poco tempo. La perdita della memoria è un’altra conseguenza, di solito anche questa temporanea. Paula mi ha inoltre accennato che lei ha da poco rotto un fidanzamento, il che contribuisce di certo al suo stato emotivo.»

Appoggia il suo strumento da scrittura sulle carte. «Ha una storia famigliare di malattie mentali? Che mi racconta della sua famiglia?»

Che domanda impertinente. Come se una famiglia potesse mai rivelare un’informazione del genere. «No davvero.»

«Ha accarezzato l’idea di farsi del male? Ha pensato di suicidarsi?»«No di certo. Per caso lei è anche un magistrato?»«Vorrei tenerla qui per qualche giorno, sottoporla ad alcuni trattamenti, osservare i suoi progressi

anche se...»Lo stomaco fa un sobbalzo. «Mi sento benissimo, glielo assicuro.»«C’è un’alternativa, naturalmente...»«Sì, sì, qualunque essa sia.»Mette la mano in un cassetto e tira fuori un oggetto rettangolare e sottile, che è piatto e di argento

luccicante da un lato, mentre dall’altro è ricoperto da strani rigonfiamenti di forma ellittica a distanza regolare uno dall’altro. «Se prende questa pillola», dice, ficcando un pollice sul lato piatto e tirando fuori una pastiglia rosa e ovale da uno dei rigonfiamenti, «e ne prende scrupolosamente una al giorno, ci vedremo fra una settimana e verificheremo come si sente.» Scribacchia qualcosa su due pezzi di carta che mi consegna, poi riempie una tazza da un oggetto bianco e rettangolare, con in cima un contenitore trasparente pieno d’acqua.

Mi dà la pillola e la tazza che è fatta di carta. «Credo che questo la farà sentire di nuovo se stessa. Non è quello che desidera?»

Non ho nulla da controbattere e così ingoio la pillola.«Si faccia dare un appuntamento per la settimana prossima dalla mia segretaria, d’accordo?» Si alza

e mi tende di nuovo la mano. «E chieda a uno dei suoi amici di rimanere con lei stanotte, solo nel caso in cui abbia bisogno di qualcosa. Non dovrebbe stare da sola dopo un trauma del genere.»

«Le sono davvero grata», ringrazio ed esco dalla stanza. Mentre mi faccio largo fra le donne con i pantaloni rosa verso il posto in cui suppongo che i miei accompagnatori mi stiano aspettando, recito una preghiera silenziosa di ringraziamento per essere riuscita a sfuggire a questa situazione. Se la pillola assomiglia ai rimedi che spaccia Mr. Jones, allora mi farà solo dormire – e, fortunatamente, questa è andata giù senza il solito sgradevole sapore – oppure non farà proprio niente.

Per quanto riguarda invece la questione del prendere di nuovo appuntamento con il dottor Menziger, be’, questo me lo devo proprio scordare. Avrà anche gli occhi di un angelo, ma è stata astuta come non so chi nel tramutarmi quasi in uno degli ospiti di questo posto.

Mentre mi avvicino al mucchio di sedie arancione – l’uomo che delirava grazie al cielo se ne è andato – Paula, Anna e Wes si alzano. Paula mi si avvicina per prima e mi strappa il foglietto dalle mani.

Lo esamina, mormorando qualcosa circa il fatto di fermarsi per «acquistarle immediatamente». Wes sbircia da dietro alle sue spalle e geme.

Anna mi prende per mano, Wes afferra l’altro foglietto prima di Paula e si rivolge a me: «C’è scritto di non lasciarti da sola. Ti controllerò io stanotte».

«Dalle un po’ di tregua, sir Galahad», dice Paula. «Non ha bisogno della tua protezione.»«E allora perché ha fatto chiamare me dal pronto soccorso, eh?»

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«Aveva preso una botta in testa, te lo ricordi?»«Riuscite a smettere di litigare voi due?» interviene Anna. «Non è proprio di grande aiuto.»«Va bene», concede Paula, «ma lui non starà a casa con lei stanotte.»«Perché non chiediamo a Courtney cosa preferisce?» chiede Wes.«Giusto», esclamo, domandandomi perché la mia lingua è così spessa e lenta che non riesco quasi a

comporre una parola di senso compiuto. «Perché non lo chiedete a Courtney, chiunque ella sia.» Come siamo passati dalla stanza con le sedie arancione al mare di auto senza che io mi rendessi conto di niente fino a questo momento?

«Ti senti bene?» s’informa Paula, stringendomi di più il braccio. «Aiutatemi, sta per cadere... cadere... cadere...» Le parole di Paula risuonano in modo davvero divertente. Ancora più divertente è il fatto che ora vedo sopra di me le facce di Paula, Anna e Wes che mi guardano dall’alto. Ciocche di capelli azzurri e rosa penzolano su di me come spessi fili di cotone. I colori vivaci sono così diversi dall’espressione seria del viso di Paula. La mia risatina riecheggia.

«Non state lì impalati. Aiutatemi a tirarla su da terra... terra... terra...»Appoggiata contro il vetro, in macchina. Immagini indistinte di nuvole, edifici, macchine, alberi. La

spalla di Wes mi fa da cuscino e lui mi sostiene con un braccio. Non sono poi un gran peso da portare. Cioè lei. Questo non è il mio corpo. Non è il mio modo di comportarmi. Che sciocca. Dovrei sedermi. Anna ha un’espressione accigliata. Sono stanca, stanca, stanca. Gli occhi di Paula nello specchio. Ho bisogno d’acqua. Ma prima di dormire.

In qualche modo sono tornata nella camera da letto. Paula e Anna mi stanno infilando un indumento di seta sulla testa, con dei pantaloni in tinta. Che cosa è successo agli altri vestiti? Wes, grazie al cielo, non è nella stanza. Che sto pensando? «Acqua...» gracchia la mia voce. Ho la gola terribilmente secca.

Paula mi accosta un bicchiere alle labbra. Oh, acqua benedetta, ho la bocca così secca che riesco a malapena a bere. Oh, cielo, ho bagnato un po’ il davanti di questo indumento, oh, perché sono maldestra come se avessi bevuto una bottiglia intera di Constantia, a parte il fatto che il vino mi rallegra il cuore prima di farmi addormentare, ma questo è smorto, così smorto. Mi sento grigia dentro. Grigia. Il mio cuore e la mia gola sono come polvere grigia e secca, ho della cenere in bocca e sono così assetata da non riuscire a ingoiare, non riesco a dormire ma non riesco a stare sveglia non voglio cadere di nuovo in questo abisso grigio non voglio oh che occhi pesanti che ho e dietro c’è solo il grigio...

Wes è accasciato su una sedia accanto al letto. È notte. Una sola lampada illumina metà del suo viso. Sta dormendo e russa leggermente, come un bambino spossato dalle vacanze. Qualche ricciolo gli è caduto sulla fronte; non porta gli occhiali e sembra davvero molto giovane. E carino. Corruga la fronte e apre gli occhi. Gli angoli della bocca si sollevano. «Courtney.» Ha la voce impastata di sonno. «Ero preoccupato.»

«Anche io lo ero», dico, ma la mia voce è un gracidio incomprensibile. Sono così sollevata nel vedere la luce dorata che gli illumina il viso invece di quella tremenda sfumatura di grigio e di sentire le lenzuola sulle braccia, che in gola mi è rimasto solo un leggero sentore di quell’arsura. Provo di nuovo delle sensazioni. Non mi interessa neanche più che ciò che sento è un corpo che non è il mio. Che meraviglia, che delizia riuscire a sentire qualcosa, qualsiasi cosa.

«Acqua, per favore.»Afferra gli occhiali dal ripiano della libreria ed esce di corsa dalla stanza, tornando a tutta velocità

con un bicchiere di acqua fresca che io bevo in un sol sorso, con un gesto molto poco da signora.«Ti senti meglio?» domanda.Annuisco. Indica il bicchiere. «Ne vuoi ancora?»«No, grazie.»Wes si piazza sulla sedia accanto al letto e prende la mia mano fra le sue. Che mani forti e delicate. E

che espressione dolce negli occhi nascosti dalle lenti.«Ti posso portare qualcosa?»A dire il vero, ora non vorrei altro che stare qui sdraiata con Wes seduto accanto al letto a tenermi la

mano. Si scioglie il collo muovendolo da una parte e dall’altra e scricchiola rumorosamente.«Scusa», dice. «Devo essermi incriccato mentre dormivo sulla sedia.»In questo momento mi rendo conto di quanto sia stato disdicevole che abbia dormito nella mia stessa

stanza. Con me. Sento che arrossisco. Vorrei sapere come ha fatto a convincere le signore, soprattutto perché lo disapprovano in maniera così evidente. Sebbene la loro disistima non sembri aver niente a che fare con la presenza di Wes nella mia camera senza altri accompagnatori.

La faccia mi diventa ancora più bollente: «Potresti andare a prendermi un altro bicchiere d’acqua?»Wes balza in piedi per correre a riempirmi il bicchiere. «Ascolta», mi dice mentre me lo porge. «Ho

fatto qualche ricerca online mentre stavi dormendo», indica una scatola luminosa su un tavolo dall’altra parte della stanza, più sottile e piatta delle scatole che avevano le donne vestite di rosa nella clinica del dottor Menziger, «e la sostanza è che nessuno può obbligarti a prendere quelle pillole. O portarti in ospedale. Non devi fare niente di tutto questo se non vuoi.»

Mi siedo nel letto. «Questa è una notizia meravigliosa da sentire.»Non devo fare niente che non voglia. Quando mai qualcuno mi ha detto qualcosa del genere? Onore,

dovere, obbedienza. Tutta la mia vita. Onora il padre e la madre, anche se tua madre vorrebbe che non fossi mai nata, ti considera un imbarazzo per il buon nome della famiglia, ti mette sempre a confronto con una schiera di altre donne più rispettose. Fai il tuo dovere. Verso la tua famiglia, i tuoi vicini, i tuoi amici, anche se non ti importa di nessuno di loro, anche se sei stanca morta di questo infinito cianciare, questo nulla educato, questo chiacchiericcio perverso che viene considerato una conversazione «rispettabile». Obbedisci ai tuoi genitori, a quelli più grandi, ai tuoi zii e alle tue zie, al tuo parroco,

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anche se lui, che predica la carità la domenica, dice che il mantenimento degli orfani è un fardello che dovrebbe essere affidato a un’altra parrocchia.

E a un tratto risento le parole di Anna: ognuno di noi ha il potere di creare il paradiso o l’inferno, qui e ora.

«Ma c’è ancora un particolare», continua Wes, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni e mordendosi il labbro. «Che ne pensi di non dire che non conosci i tuoi amici e che sei qualcun altro? Non che io creda che tu stia recitando o cose del genere. Intendo: hai battuto la testa piuttosto forte ma stai facendo innervosire un bel po’ i tuoi amici. Li stai facendo sentire a disagio. Li stai spaventando. E quando le persone sono spaventate per gli amici, iniziano a far loro pressione. Non ti possono costringere a tornare dal dottor Menziger. O da nessun altro, per quel che vale. Ma non faranno altro che arrovellarsi per risolvere il tuo problema. Voglio solo farti capire che sarebbe molto più semplice se ti dicessi d’accordo a essere te stessa.»

«Ma io non so nulla di questa donna. Verrei vista come la bugiarda che sono.»Rimane fermo e immobile con gli occhi spalancati: «Questa donna? Ora mi stai facendo paura.

Davvero non ti ricordi di me? O di Anna? O di Paula? Sei convinta davvero di essere...» Scuote la testa come per schiarirsi i pensieri.

«Esatto.»«Jane Mansfield.»Annuisco.«E non stiamo riferendoci alla stella del grande schermo degli anni Cinquanta. Credo che sia già

qualcosa.»«Di che stai parlando?»«Da dove viene questa Jane Mansfield?»«Desidererei che mi ascoltassi quando parlo. Vi ho già raccontato tutto questo. O le vostre domande

hanno un altro fine?»«Lo so, lo so. La proprietà di tuo padre è nel Somerset. Hai visto quello stupido dvd fino a

consumarlo. Hai sbattuto la testa sul fondo di una piscina e improvvisamente è come se fossi uscita dalle pagine di Orgoglio e pregiudizio.»

«In effetti quei piccoli teatranti mi ricordano la mia vita più di qualsiasi altra cosa in questo posto.»«Per favore, vuoi solo considerare l’idea di spiegare agli altri che hai subito una momentanea perdita

della memoria dovuta alla commozione cerebrale? Che è, dopotutto, la verità. Ci sono almeno una decina di fonti attendibili online che citano l’amnesia come un possibile sintomo. E la confusione. Sono sicuro che la cugina di Paula te ne ha accennato.»

«Se è per questo ha anche affermato che quelle pillole infernali mi avrebbero fatto sentire di nuovo me stessa.»

«Fai come vuoi. È la tua vita.»«Non sembra affatto la mia vita.»«Passerà. Garantito. Ora io vado a dormire, va bene? Sul divano questa volta. Non credo che dovresti

stare da sola stanotte.»Gli sorrido. Fai come vuoi. È la tua vita. Non sarà forse la mia vita, ma le sue parole mi sembrano la

più incantevole delle musiche che io abbia mai sentito.

Sette

IL canto di un gallo, lo stesso suono con cui mi sveglio ogni mattina e per un solo, delizioso momento sono di nuovo nel mio letto a casa Mansfield. Ma poi apro gli occhi e sono nella camera di Courtney. Era solo il suono di quel congegno che mi ha ingannato.

Un colpo rapido alla porta e Wes fa capolino nella stanza; contemporaneamente mi avvolge uno stupendo concerto di pianoforte. E in qualche modo non sono dispiaciuta di trovarmi ancora qui.

Wes si avvicina al letto, con un vassoio e due alte tazze bianche di caffè fragrante, che appoggia sul ripiano della libreria.

«Ho pensato che forse ti avrebbe fatto piacere svegliarti con Beethoven invece che con quella sveglia infernale», annuncia indicando la scatola con i numeri luminosi che ho visto ieri mattina.

«Ma dove sono i musicisti?» Non riesco a capire da dove provenga la musica. È come se il pianoforte, gli oboe, i flauti e i fagotti fossero nella stanza. Ogni nota è così chiara e cristallina che mi risuona nel petto.

Lui mi guarda con un’espressione interrogativa, poi armeggia con un piccolo oggetto rettangolare bianco appoggiato sulla libreria, e un rettangolo più grande e grigiastro tutto coperto di lettere e simboli. La musica diventa un sussurro.

«Va meglio, così?» mi chiede.«Come hai fatto?»Mi porge una delle tazze. «Molto divertente.» Mi porta l’oggetto grigiastro. «A quanto pare la tua

amnesia riguarda persino gli oggetti più semplici. Non preoccuparti, tutto ritornerà. Qui c’è il volume, qui si accende e si spegne il cd, il dvd, l’uscita ausiliaria e così via. E, aspetta un attimo», preme un bottone e la musica s’interrompe, poi toglie il piccolo rettangolo dal suo posto e mi porta anche quello. «Qui è dove troverai la tua musica, ordinata per artista, genere, album, canzone.»

Poi recupera un terzo oggetto, anche questo piatto e rettangolare. «Ricordi come si usa un telefono,

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vero?» Mi guarda scettico. «Stai scherzando, giusto? Questo era impiantato chirurgicamente nel tuo orecchio. Ecco, così mi puoi chiamare.» Si schiarisce la voce. «O chiamare chiunque altro tu voglia sentire.»

Riesco a malapena a seguire il rapido movimento delle sue dita su quello strano apparecchio; sono così rapita dal fresco profumo agrumato di quest’uomo mentre si siede sul letto accanto a me, così incantata dai ricci umidi di sudore sulla nuca mentre piega la testa per concentrarsi su quello che sta facendo che sono solo vagamente consapevole del rumore di una chiave nella serratura. In effetti, credo che non batterei ciglio se un’intera orchestra di musicisti in carne e ossa improvvisamente apparisse nella stanza.

Invece è Paula, con un contenitore di caffè fumante in una mano, splendida in un vestito rosso, più lungo di quello di ieri, con le ciocche selvagge rosa e azzurre sul viso, mentre Anna, dietro di lei, indossa un semplice corpetto grigio a maniche corte e dei comodi pantaloni bianchi.

«Buongiorno tesoro, ecco qui le tue pillole», mi saluta sventolando un sacchetto di carta verso di me. «Hai dormito bene?» Il suo sorriso svanisce quando vede me e Wes sul letto. Mi tiro le lenzuola fino al collo e mi sento subito irritata con me stessa. Chi è Paula, con braccia e gambe scoperte e il rossetto rosso in tinta con il vestito, per giudicarmi? O forse Wes è un membro della classe operaia, come ho sospettato all’inizio, e questo è il motivo della sua disapprovazione?

Impossibile. Nonostante l’abbigliamento grezzo, da quello che ho potuto vedere si è comportato con le signore da pari a pari in ogni modo, anche cercando di imporre la propria volontà ogni volta che ha potuto.

«Wes», dice Paula, «non hai nessun sito Internet da ottimizzare o qualcosa del genere?»«Come se sapessi di cosa stai parlando.»«Che cosa ci fai qui?»«Finiscila Paula. Lo sai che è stata Courtney a chiedermi di restare.»Ho chiesto a Wes di restare? Lo sa solo il cielo cosa altro posso aver detto sotto l’influenza di quella

maledetta pillola. La faccia mi scotta.Paula mi lancia un sorriso conciliante, poi si rivolge a Wes con un tono più morbido. «Ti

dispiacerebbe molto se io e Anna ci occupassimo di lei per un po’?» Poi rivolgendosi a me: «Se te la senti, è una tipica bella giornata di L.A., con il cielo azzurro e l’aria non troppo calda, per cui io e Anna vorremmo portarti a fare colazione».

Do un’occhiata a Wes, che mi guarda con quello che sembra un debole tentativo di simulare indifferenza per la mia risposta.

Paula si rivolge a Wes. «C’è qualcosa di cui vorremmo discutere. Solo noi donne.» La dolcezza svanisce e riprende il tono di prima. «Cos’è, devo sillabartelo?»

Wes sta guardando me e non Paula. «Se è quello che Courtney desidera, allora la lascerò con voi.»«Sì», dico, «suppongo che avrei fatto meglio...»«Chiamami più tardi se ti serve qualcosa», dice Wes appoggiando un biglietto sulla libreria. Mi

rivolge un sorrisetto sardonico. «Solo nel caso tu abbia fatto piazza pulita di tutti i miei contatti.» Paula gli lancia un’occhiata gelida e Anna solleva un sopracciglio. «Ah, a proposito. Ho piegato la tua biancheria. È ancora in soggiorno.» Un saluto veloce e se ne va.

In appena quindici minuti mi sono lavata – oh, benedetti acqua, sapone e asciugamani spessi e vellutati! – e vestita, con l’aiuto di Paula e Anna, che mi assistono nella scelta della mise e mi aiutano ad abbottonarmi i vestiti. Oggi questo bellissimo corpo formoso è stretto in pantaloni bianchi che scendono morbidi, una lunga camicia bianca trasparente con dei piccoli pois opachi, e sotto un corpetto sorprendentemente comodo anche se aderente e smanicato, color rosa pallido.

«Il lato positivo della botta in testa è che ti ha fatto apprezzare la tua bellezza», commenta Anna. «Credo di non averti mai vista vestirti senza snocciolare una lunga lista di lamentele.»

«Oh, che peccato.» A quanto pare, la proprietaria di questo corpo non lo apprezza gran che. Curiosamente finora non ho pensato a chi possa davvero essere Courtney Stone. O dove possa essere, se ha abbandonato questo corpo e lo ha lasciato a me. Se la mia anima è trasmigrata nel suo corpo, allora forse la sua è trasmigrata nel mio? O...

«Oh, Signore.» Non riesco a credere a ciò che vedo sulla mensola di libri di fronte a me: un libro coricato, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. E, accanto a esso, Ragione e sentimento di Jane Austen. Emma di Jane Austen...

«Tesoro?»«Ti senti bene?»«Io... sì, perfettamente. Sareste così gentili da concedermi pochi minuti? Vi assicuro che sto

benissimo.»Paula e Anna si scambiano un’occhiata e Anna scrolla le spalle. «Certo cara», acconsente Paula. «Ti

aspettiamo proprio qui fuori.»Chiudo la porta dietro di loro e prendo Orgoglio e pregiudizio dallo scaffale ricolmo di libri, così tanti

che sono impilati in ogni modo e sono sistemati in doppia fila. Questo deve essere... è – non possono esistere due libri con questo titolo – eppure non ho mai saputo il nome della scrittrice che sul frontespizio della mia copia è chiamata semplicemente «l’autrice di Ragione e sentimento». Giro la prima pagina: È una verità universalmente riconosciuta... sì è senza dubbio lo stesso libro. E in questa libreria non ci sono solo Orgoglio e pregiudizio e Ragione e sentimento, gli unici due romanzi scritti da questa autrice, Miss Austen, di cui io sia a conoscenza, ma anche un terzo, Emma. E, a quanto pare, ce ne sono anche un quarto, un quinto e un sesto: Mansfield Park, L’abbazia di Northanger, e Persuasione. Tutti di Jane Austen. Sei romanzi in tutto! Che meravigliosa abbondanza.

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Leggo il frontespizio degli altri quattro romanzi. Sono stati tutti pubblicati dopo il 1813. È per questo che non ne so nulla.

«Courtney?»«Un momento, per favore.» Non vedo l’ora di tornare e di leggerli tutti – questi strani oggetti del

futuro constano di un solo volume e sono rilegati in carta invece che in cuoio, ma nonostante ciò restano dei tesori preziosi.

Ognuno di noi ha il potere di creare il paradiso o l’inferno, qui e ora. Non so come io sia giunta in questo tempo, in questo luogo e in questo corpo. Ma so che un posto dove ci sono sei romanzi dell’autrice di Orgoglio e pregiudizio deve essere un genere di paradiso molto speciale.

Otto

ORA che sono in grado di sedermi nell’auto di Paula senza dovermi aggrappare al braccio di nessuno, mi sento a mio agio nel guardare il mondo che scorre accanto a una velocità incredibile. Osservo uomini, donne e bambini con carnagioni di tutti i colori, tutti presi dai loro affari: alcuni entrano ed escono dai negozi, la maggior parte si trovano in auto e ridono, aggrottano la fronte, parlano, stanno in silenzio; hanno la pelle scura, bianca o nera, sono asiatici, europei e persino africani, tutti, a quanto pare, perfettamente liberi e uguali. Ci avevo pensato vedendo un paio di donne africane nella clinica del dottor Menziger, ma ora so che la schiavitù in sé, non solo la tratta degli esseri umani, è finalmente finita. Questo è uno degli aspetti migliori del mondo in cui mi ritrovo adesso.

Ogni qualvolta riesco a distogliere lo sguardo dalle meraviglie delle strade, guardo Paula da vicino, perché vorrei cercare di capire come fa a guidare. Tutto quello che desumo osservando i suoi movimenti è che guidare significa premere qualcosa sul suolo con un piede e girare una ruota con le mani.

«Perché non possono sincronizzare questi stupidi semafori?» sbotta mentre ferma improvvisamente l’auto a un incrocio ed è così che noto un gruppo di luci circolari sospese sulla strada che alternano il rosso, il verde e il giallo. Come tutte le altre luci di questo mondo, non riesco a capire quale sia la fonte d’illuminazione.

Un’altra cosa che attira la mia curiosità sono le insegne. Sono dappertutto. Insegne grosse. Insegne enormi. Una promette sollievo dal mal di piedi. Un’altra delle dimensioni della casa di un operaio mostra una donna alta sei metri poco vestita che guarda dentro una grande scatola luminosa. Alcune hanno stampato su un messaggio più alto di una persona. E alcuni sono quasi del tutto incomprensibili. «Una splendida terza età», «Ancora più eccitante», «Più minuti», «50% di carboidrati in meno».

Paula si ferma e scendiamo di fronte a un edificio affollato, pieno di gente che mangia all’aperto e all’interno.

A quanto pare, si tratta di una colazione in un luogo pubblico, perché sia alle signore sia ai gentiluomini viene servito da mangiare, anche se non ci sono boschetti, sentieri per passeggiare o altro che ricordi un giardino di piacere. Davvero strano: una colazione in un luogo pubblico che viene servita in un edificio che sembra essere fatto apposta per fornire agli ospiti cibo e bevande. I vassoi che vengono portati dalla cucina da un battaglione di camerieri, donne e uomini, in grembiule bianco, mi dice che non si tratta di una semplice sala da tè.

E non pare neanche essere un ristorante di carne, poiché non è sudicio come i posti frequentati da mio fratello, dei quali si diverte a raccontare gli orrori alla sua schizzinosa sorella. Non ci sono macchie di sugo o patacche di grasso sulle tovaglie immacolate, né resti di ossa sul pavimento. E certamente non si tratta né di una locanda né di un albergo, perché tutto il piano sembra essere occupato solo da tavoli e sedie. Ed è molto più grande di quanto immagino sia una taverna.

Davvero notevole è il fatto che ci sono tante signore quanti gentiluomini e nel mio mondo non c’è un ristorante di carne, né tantomeno una taverna, che servirebbe una donna.

Un cameriere compare al nostro tavolo. «Pronte per ordinare?» chiede e io mi rendo conto di non avere nemmeno dato un’occhiata al menu mentre Anna e Paula lo stanno leggendo attentamente: è lungo come un poema epico. Sulla copertina c’è scritto che questo posto è un «restaurant», alla maniera francese.

«Ooh, che bella faccia», lo commenta Anna mentre arriva un altro cameriere carico di piatti fumanti per il tavolo accanto.

Lei e Paula scelgono, e quest’ultima mi suggerisce di optare per quello che ha preso lei. Mi dichiaro d’accordo, visto che l’incredibile numero di pietanze tra cui scegliere mi confonde. A esser sincera, immagino che la varietà di piatti elencati in queste pagine superi persino quella che le cucine del principe reggente, per non dire di una normale sala da pranzo della casa di un gentiluomo, riuscirebbero a preparare per le occasioni più importanti.

«Dunque», attacca Anna, appena il cameriere è stato congedato, «che storia è questa fra te e Wes?»«Non posso credere che tu abbia chiesto a lui di restare invece che a noi e che hai chiamato lui

all’ospedale e non noi», aggiunge Paula. «Chi si è preso cura di te, ti ha portato fuori, ti ha asciugato le lacrime, ti ha tenuto la testa mentre vomitavi le budella, ti ha ascoltato a qualunque ora del giorno e della notte, non importa che io fossi nel bel mezzo di una produzione o che Anna dovesse andare a qualche appuntamento a un orario assurdo?»

Si batte il petto. «Noi. E invece chi ha mentito per coprire Frank quando se la spassava con Miss Arseniconella-tua-torta-nuziale? Wes, ecco chi. Wes che ora è tutto mi-dispiace-tanto-Courtney e non-volevo-ferire-nessuno e stronzate del genere.»

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Guardo prima Anna e poi Paula, un po’ confusa. «Vogliate perdonarmi, signore, ma non ho il piacere di seguirvi.»

«L’unica informazione che sono riuscita a sapere da Suzanne sulla tua condizione», continua Paula, «è che la perdita di memoria e la confusione non sono rare nei casi di commozione cerebrale. Aggiunge anche che è quasi sicuro che passerà. Ma davvero non ricordi che cosa è successo con Wes?»

«O con Frank?» incalza Anna.«Devo confessare di no», ammetto io e, notando lo sguardo scioccato che si scambiano, mi rendo

conto che il consiglio di Wes di smettere di insistere che in realtà non sono chi credono loro è stato davvero saggio.

Paula prende una delle tre tazze di caffè con schiuma di latte che il cameriere ha appena depositato di fronte a noi. «Ma ti ricordi chi sono, giusto?»

«A dire il vero no.»«E di me? Davvero non ti ricordi di me?» chiede Paula con l’enorme tazza di caffè appoggiata sulle

labbra rosse.«O di me?» Gli occhi di Anna sono ansiosi, pieni di speranza.Mi sforzo di fare quello che spero sembri un sorriso incoraggiante. «Sono certa che mi tornerà tutto

alla mente molto presto.»«Oddio», esclama Paula e, rivolgendosi a un cameriere, «potrei avere anche un Mimosa?»«Fortunatamente», aggiunge prendendo una grande borsa quadrata nera con dei fiori bianchi

luccicanti da cui estrae un oggetto piatto e rettangolare simile a uno di quelli che Wes mi ha mostrato come usare, «sono venuta armata di aiuti visivi.»

Appoggia l’oggetto rettangolare sul tavolo e ne tocca la superficie piatta e dura, muovendo di tanto in tanto pollice e indice su di essa come se la stesse allisciando. Piccole immagini colorate e verosimili come quelle sopra l’armadietto nello studio del dottor Menziger compaiono sulla superficie per un attimo, rimpiazzate subito da altre, altre e altre ancora.

«Ecco qua.» Fa scivolare il rettangolo davanti a me.Sto guardando un’immagine della donna bionda che sono diventata, che sta accanto a un uomo che la

supera in altezza di almeno due teste e che le tiene un braccio sulle spalle, una dimostrazione di affetto alquanto bizzarra per un ritratto. Ha un sorrisetto beffardo e i capelli scuri, quasi neri, che gli ricadono sulla fronte e sul colletto aperto della camicia. Non c’è un gentiluomo che indossi una giacca o un fazzoletto da collo in questo mondo? A ben vedere non c’è nessuno che indossi una giacca in questo edificio. A meno che...

A meno che non siano dei gentiluomini. È possibile che io non solo sia entrata in possesso di un nuovo corpo ma anche di un nuovo status sociale, uno più basso di quello della figlia di un gentiluomo? Questo spiegherebbe i vestiti così indecenti e le labbra colorate delle due signore, a meno che non siano… no, è impensabile… anche se devo cercare di ottenere qualche informazione sulle loro famiglie, le loro occupazioni, la loro situazione. E che commentare di Wes? Cosa mi dicono l’aspetto, i modi e l’abbigliamento di Wes, Paula e Anna, vista la confidenza screanzata con la quale si rivolgono a me e fra di loro, gli atteggiamenti spudorati delle signore e dei gentiluomini che mi circondano – se tali sono?

Buon Dio. Cosa sono diventata?Un’ipocrita. Niente di più. Io, che ho proclamato a James che «rango e nascita non significano», mi

sto lamentando dell’espulsione dal bel mondo. Inoltre Paula deve essere una donna ricca per poter avere una carrozza tutta sua – o auto. E anche se non c’è traccia di nessun cameriere nella casa della donna bionda, nessuno sembra aspettarsi da lei – o, mi correggo, da me – che mi occupi del bucato. Wes ha detto di averlo piegato, no? E le signore mi hanno aiutato a vestirmi.

Ecco qui. In fin dei conti devono essere il mio personale di servizio. E Paula è una sorta di cocchiere donna. No. Impossibile. Non c’è la benché minima deferenza nei suoi modi nei miei confronti. Si impone su di me, mi chiama con il mio, cioè della donna bionda, nome di battesimo. In effetti...

«Courtney!»«Non gridare!» esclama Anna.«Perdonatemi», mi scuso io, di nuovo consapevole di ciò che mi circonda, mentre mi chiedo come sia

arrivato di fronte a me, sul tavolo, un calice alto e stretto pieno di un liquido frizzante color giallo acceso. Paula sta finendo, a quanto pare, lo stesso tipo di bevanda.

Si asciuga le labbra con un tovagliolo inamidato. «Eri tutta assorta nei tuoi pensieri. Ti senti bene? È per colpa delle foto?»

«Queste?» suggerisco, mentre noto che sta guardando le immagini nel rettangolo. «No, affatto.»«E così non lo riconosci», constata Anna. «Credo che questa sia una benedizione.»«Lascia che ti illumini», interviene Paula puntando il dito sull’immagine del gentiluomo dai capelli

neri accanto a Courtney, o dovrei dire accanto a me. L’idea fa piuttosto ridere e mi devo sforzare per mantenere un contegno.

«Quello», continua Paula, «è Frank. Eri fidanzata con lui. Due mesi prima del vostro matrimonio lo hai scoperto con un’altra. La donna che stava preparando la tua torta nuziale», dice alzando un sopracciglio, «come se la sola infedeltà non fosse abbastanza. Wes era al corrente di tutto e, invece di raccontarti la verità, ha deciso di mentire per coprire Frank. E teoricamente Wes era uno dei tuoi più cari amici. Il problema è che è amico anche di Frank dalle superiori e chiaramente quando si è trattato di scegliere tra voi due ha optato per lui.»

Mi guarda con gli occhi stretti. «Ti dice qualcosa?»Eh, sì. Perché conosco questo tipo di tradimenti fin troppo bene. Mi rivedo nella tenuta di

Edgeworth, mentre lui esce dalle stalle, spostandosi un ciuffo di capelli dalla faccia e togliendosi la paglia

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dai vestiti. Cammina verso di me ma non mi vede e qualcosa mi fa esitare nel palesargli la mia presenza. E poi anche una cameriera bella e giovane esce dalle stalle, con il grembiule pieno di fili di paglia, e i capelli, che le escono dalla cuffia, rilucenti come rame brunito alla luce del sole. Lo raggiunge e gli tende la mano con un sorriso sicuro quando lui si volta verso di lei. Io sto quanto più ferma posso, nascosta dietro un cespuglio come un ladro, con il cuore che mi batte mentre lo vedo fermare la mano di lei e poi portarsela alle labbra. Lei arrossisce, chiaramente compiaciuta delle sue attenzioni. Poi lui corre via, spazzolandosi dei fili di paglia dalla giacca e lanciando un’occhiata furtiva in giro, dato che è chiaro e non vuole farsi notare in pieno giorno insieme con una cameriera. È solo quando scompare nel boschetto e mi ha superato da un pezzo che mi rendo conto di aver trattenuto il fiato.

«Courtney? Ti ricordi, vero?» La voce di Paula mi riporta di nuovo al tavolo, all’immagine di Frank, al brusio di camerieri e dei commensali e al tintinnio di posate e stoviglie.

«Sfortunatamente si tratta di una storia familiare.»«Questa è la prima volta che te ne sento parlare senza vederti piangere», nota Anna. «Hai veramente

svoltato, tesoro.»Non ho il coraggio di confessarle che la storia che ho appena sentito è lontana dalla mia vita come la

donna che sto impersonando. Invece mi azzardo a provare un sorso dal calice. «Mmm. Champagne. E succo d’arancia.»

«Almeno ricordi qualcosa», si compiace Paula. «È il tuo preferito. Almeno per il brunch.» Fa un cenno al cameriere e indica il bicchiere vuoto. «E il mio.»

«Di solito bevo alcolici così di buon’ora?»Paula si acciglia. «E c’è un’altra cosa. L’amnesia la posso capire. Alla confusione ci arrivo. Ma il modo

in cui parli? Che significa? È come se volessi assomigliare a Keira Knightley. Ma senza l’accento inglese.»Anna lancia a Paula un’occhiata esasperata. «Devi per forza essere tanto brusca?»Paula sembra vergognarsi un po’. «Non volevo esserlo, tesoro», si scusa. «Sono solo confusa e questo

è tutto. E tu mi conosci, dico quello che penso. Sono fatta così. È per questo che ti piaccio. Non nascondo mai la verità.»

«E io dunque sarei una bugiarda, suppongo», esclama Anna stizzita.Arriva un secondo Mimosa per Paula e lei ne prende un sorso. «No, tu sei solo una persona carina.

Mentre io no.»Anna fa un sorrisetto. «È per questo che ti piaccio.»«Non ci provare», esclama Paula, al che Anna le manda un bacio per scherzo e Paula le mette un

braccio intorno al collo. «Lo sai che ti voglio bene, tesoro.»Non posso fare a meno di essere colpita dal loro evidente reciproco affetto, nonostante questa

pubblica dimostrazione. O magari qui atteggiamenti del genere non sono eccezionali. Sarebbe davvero così disdicevole? Mostrare qualsiasi cosa si provi nel momento in cui lo si prova verso chiunque lo si provi? Ho anche mai solo pensato a una libertà del genere? Non sarebbe un po’ come stare in paradiso?

«E anche tu ci vuoi bene», mi dice Paula. «Lo capisco dal tuo sorriso. Può darsi che non ti ricordi di noi, ma ci vuoi bene. E se non è ancora così, lo farai presto. Te lo garantisco io.»

Anna ridacchia. «Soddisfatta o rimborsata.»«Ma perché tu voglia bene anche a Wes», continua Paula, con un atteggiamento più serio ora,

«questo proprio non lo capisco.»Anna sospira. «Lasciala stare. Non se lo ricorda.»Ho un sussulto. «Gli ho detto che gli voglio bene? Non ero... insomma non ero in me ieri.» Dio solo sa

cosa avrò balbettato dopo aver preso la pillola del dottor Menziger.«Non essere ridicola», interviene Paula, «ma stai attenta a lui. Potrai anche non ricordarti di come ti

sei sentita tradita, ma noi sì.»«Vi ringrazio per i vostri gentili suggerimenti.» Spero che la mia espressione non tradisca i miei

sentimenti, che sono ben più confusi dai loro inquietanti resoconti su Wes che da qualsiasi cosa possano avermi detto su Frank, un gentiluomo di cui non so nulla.

Ripenso a Wes e al suo aspetto mentre dormiva sulla sedia accanto al letto. Può un uomo con un’espressione tanto angelica essere capace di tradire una donna? Ma d’altra parte, cosa posso sapere di lui dopo così poco tempo? Non sono neanche arrivata a conoscere e a fidarmi di ogni sfumatura dell’espressione di Edgeworth? Mi sarei concessa a lui completamente... e mi sarei rovinata per sempre.

«Finalmente», sospira Paula quando le viene servito un enorme piatto fumante di uova e patate. «Stavo morendo di fame.»

Un piatto tanto grande e con così tanto cibo che potrebbe bastare per tre persone viene messo davanti a me e un altro davanti ad Anna. Ho fame certo, ma questo deve essere un scherzo.

O forse no. Guardandomi intorno vedo gli altri commensali e a quasi tutti sono state servite porzioni enormi. Da un altro tavolo un cameriere toglie i piatti con gli avanzi, alcuni dei quali da soli basterebbero comunque a fare un pasto abbondante. Né Anna né tantomeno Paula tradiscono alcuna sorpresa per uno spreco simile e devo quindi concludere che queste abitudini alimentari sono considerate normali.

«Courtney», dice Anna mettendomi una mano sul braccio, «non avrai intenzione di chiamare Frank, vero?»

«Non ci pensare nemmeno», esclama Paula agitando la forchetta per dare più enfasi alle sue parole. «Se dovessi accorgermi che sei stata anche a cinque metri da quel narcisista bugiardo e traditore, ti procurerò una commozione cerebrale peggiore di quella che hai ora.»

«Prometto che non lo farò. Davvero.» Sorrido e loro si rilassano. «Vi posso assicurare che la mia vita mi confonde già abbastanza.»

E questa non è una bugia.

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«Non c’è alcuna confusione a riguardo», risponde Paula. «Tutto ciò che devi ricordare è che è questo che fanno gli uomini. Tradiscono. Mentono. Si coprono a vicenda. Quindi la prossima volta che hai bisogno di qualcuno non dimenticarlo. Gli uomini sono tutti uguali. Sono le donne che ti proteggono.»

Anna alza una mano. «Scusami, non voglio dire che Courtney non dovrebbe guardarsi da Wes, ma vogliamo davvero fare un’affermazione così triste su metà della razza umana?»

«Perché pensi che mia madre abbia divorziato da mio padre?»«Be’, non mi pare che tu abbia troncato del tutto i rapporti con il diabolico genere maschile», le

risponde Anna lanciandole un’occhiata molto eloquente.«Non cominciare», dice Paula con una punta di preoccupazione nella voce. «E poi tu da che parte

stai?»«La sua», risponde Anna, «e la tua. Che è il motivo per cui spero che tu non stia dando a quel...

Michael un’altra chance.»«Ti avevo avvertito di non tirare fuori questa storia.» E poi, rivolta a me: «Tesoro, non ti ho

raccontato nulla finora perché so che adesso hai altro a cui pensare».«E perché lei si fida di lui ancora meno di me.»Paula ignora Anna e si rivolge a me. «Ha chiuso per sempre con la sua ex, va bene?»Ovviamente non ho idea di cosa stiano parlando.«Cosa ti aspetti che faccia lei?» chiede Anna. «Che vi dia la sua benedizione?» E poi, rivolta a me: «Si

vedono stasera».«Paula, ti auguro una piacevole serata. E grazie a entrambe per i vostri gentili suggerimenti.»Tutte e due sembrano essere rimaste senza parole. Anna apre la bocca come se volesse dire qualcosa,

poi la richiude come per pensarci meglio.«Va bene allora», conclude alla fine Paula, e si scola il resto del Mimosa.

Nove

DOPO avermi comunicato che per colazione ero sua ospite e aver saldato con una carta d’oro luccicante che in qualche modo si usa al posto del denaro – anche se il cameriere gliel’ha restituita dopo che aveva firmato il conto – Paula, insieme con Anna, continua a dimostrarsi generosa nei miei confronti, consentendomi di starmene seduta tranquilla durante il viaggio di ritorno verso casa. «Tranquilla» comunque è un termine relativo, perché la musica accompagna la chiacchierata delle signore durante tutto il tragitto. A quanto pare, si può avere musica in qualunque spazio, sia esso fisso o mobile, e il tutto senza l’ausilio di musicisti.

È un tipo di musica che non ho mai sentito prima: un suono ritmico, pulsante, ripetitivo, con la voce di un uomo che non sta esattamente cantando, ma sembra più gridare parole che non distinguo. Per fortuna Anna convince Paula ad abbassare e io rimango sola con i miei pensieri.

È abbastanza normale, se c’è qualcosa nella mia situazione che possa essere considerata normale, che io non riesca a pensare al fidanzamento di cui mi hanno parlato come al mio fidanzamento. Eppure non posso negare che i miei sentimenti sono stati quasi feriti, non da Frank, che non conosco, ma da Wes.

Sono sentimenti del tutto inspiegabili. In fondo conosco Wes da poco più di un giorno.«È questo che fanno gli uomini», ha detto Paula di Wes e Frank.«È questo che fanno gli uomini», commentò mia madre a sua cugina Beatrice quando io avevo circa

tredici anni. Non avrei dovuto ascoltare la loro conversazione. A dire il vero, sono sicura che credessero stessi dormendo sul divano, ma non riuscirò mai a dimenticare la rassegnazione nella voce della cugina Beatrice mentre raccontava che aveva dovuto cacciare due domestiche rimaste incinte e che sospettava che suo marito fosse il padre.

«È questo che fanno gli uomini», sentenziò mia madre.«Non Mr. Mansfield», rispose la cugina Beatrice.«Su di lui metterei la mano sul fuoco», dichiarò mia madre e immagino che in realtà intendesse che,

in caso contrario, ci avrebbe messo quella di lui, «ma è una storia fin troppo comune, mia cara. Non dimenticherò mai cosa mi successe quando ero una giovane sposa e a una certa amica venne gettata addosso questa verità. Una sua zia – una gentildonna di notevole carattere – la spinse ad accettare le cose come stavano, dichiarando che certi vizi sono esattamente ciò che una donna deve imparare a sopportare e che in realtà sono una benedizione che preserva il nostro sesso da parti continui.»

Ricordandomi di queste parole mi rendo conto, per la prima volta – ma come ho fatto a non capirlo prima? – che ciò che ha impedito a Edgeworth di compromettere la mia innocenza non è stato, come credevo, il suo animo nobile. O il suo rispetto per me. È stata la sua incostanza.

Cos’altro lo avrebbe trattenuto dal prendermi completamente e farmi sua, anima e corpo, quando l’ho baciato e tenuto così stretto che ancora tremo al solo ricordo? È stato lui ad allontanarsi, non io. È stato lui che ha detto che dovevamo aspettare perché io lo rendessi il più felice degli uomini e che mi ha chiesto, di nuovo, di sposarlo. Perché sono sicura che lui, come tutti gli uomini, aspirava a una sposa senza macchie.

E sono stata io, talmente spaventata dal mio comportamento sconsiderato, a implorarlo di darmi un giorno o due per riflettere con calma su un passo così importante.

E così sono tornata a casa e ho riflettuto sulle parole che avevo sentito al matrimonio di mia sorella Clara, anzi a ogni matrimonio a cui ho avuto l’onore di partecipare, e cioè che il matrimonio «nessuno deve né abbracciarlo, né proporsi di abbracciarlo, sconsideratamente, leggermente, o disonestamente,

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per soddisfare le concupiscenze e gli appetiti carnali». Ma che una persona dovrebbe invece entrare in quello stato «riverentemente, saviamente, consideratamente, con temperanza, e nel timore di Dio; debitamente ponderando le cause per le quali il matrimonio fu istituito». Una persona si sposa per «compagnia, aiuto e conforto che gli sposi debbono reciprocamente prestarsi l’un l’altro».

Sì, il desiderio di essergli di aiuto e di conforto e che lui potesse essere di aiuto e di conforto a me. No, non lo avrei sposato solo per soddisfare le mie concupiscenze e gli appetiti carnali. Ma di possedere questi appetiti non lo posso negare e mi spaventa. Mi hanno spinto a diventare imprudente fino a farmi comportare da sconsiderata. E poi mi hanno resa ansiosa di sposarlo.

Perché non lo avevo rifiutato prima di sapere che provavo delle sensazioni simili? Non credevo che un uomo che avesse amato una volta potesse essere capace di affezionarsi di nuovo. Avevo dubitato che quel vedovo gradevole e piacente potesse amare di nuovo. E in quel caso mi chiedevo se avesse davvero amato la moglie e dunque se avrebbe mai amato me.

Il matrimonio, come afferma il celebrante durante la cerimonia nuziale, è stato «istituito per procreare figli». Non sapevo se avrei mai avuto il coraggio di avere dei bambini perché sapevo di fin troppe donne che erano morte durante il parto, un fato che spesso le accomunava al neonato. E dar vita a un figlio è il risultato naturale del giacere con un uomo. Ero spaventata dai continui parti che costituivano il destino di così tante donne maritate. Mia zia Mansfield aveva generato diciannove figli: con l’ultimo aveva perso la vita. Il fratello di mia madre ne aveva avuti dodici e sua moglie è sopravvissuta. Anche mia madre, con il numero esiguo di tre figli, in realtà ne ha avuti due in più, e la loro breve vita è ricordata da due lapidi nel cimitero.

Ma io amavo Edgeworth, di questo ero sicura. «Con questo anello io ti sposo, con il mio corpo io ti onoro.» Qualsiasi bambino nato dalla nostra unione sarebbe stato benedetto dall’amore. Avrei rischiato qualsiasi cosa per quell’amore. E sì – sorridevo dentro di me – avrei mandato Barnes dalla cuoca e dall’esperta del villaggio che sapeva come preparare infusi e pozioni indispensabili per una donna, o almeno così credevano Barnes e la cuoca, le cui chiacchiere mi era capitato di ascoltare.

E così, con la risposta pronta, avevo montato Belle e mi ero incamminata. Immaginavo la sorpresa sul viso di Edge worth quando fossi comparsa senza annunciare il mio arrivo. Mi figuravo la sua espressione che si allargava in un sorriso compiaciuto, come quella di Darcy, quando gli avrei detto che ero lì per accettare la sua proposta. Immaginavo di sentire le sue braccia intorno a me nel momento in cui lo avrei baciato per siglare il patto.

Ma sono stata io quella a essere sorpresa, non lui. L’ho trovato con la serva dai capelli ramati. Sono stata io a tornare indietro, vagando per i sentieri, delirando e piangendo per cercare di liberarmi dal mio dolore, in modo da poter tornare a casa da mio padre e mia madre con almeno una sembianza di compostezza nel mio portamento. Io, che avevo perso ogni speranza di felicità.

No, non continuerò a crogiolarmi in questi ricordi.Quando l’auto di Paula si ferma nella strada di fronte al mio appartamento, le signore insistono per

accompagnarmi di sopra per essere sicure che io abbia tutto quello di cui ho bisogno. Anna mi suggerisce di sdraiarmi per riposarmi un po’.

«Allora che progetti hai per il resto della giornata?» chiede Paula, lasciandosi cadere sul letto accanto a me.

«Credo che potrei leggere.»Paula si alza e posa gli occhi sulla fila di romanzi di Jane Austen sul tavolino accanto al letto. «Ci

sono anche altri scrittori al mondo, dovresti rendertene conto.»Anna porta una sedia accanto al letto. «Ora non cominciare con lei, Paula.»«Mi pare di capire che voi non siate appassionate di quest’autrice?»«A quanto pare», dice Paula appoggiando un braccio sulla sedia di Anna, «non ricordi che ti ho

raccontato di come la mia insegnante di inglese al liceo mi ha obbligato a ingurgitare Mansfield Park e che da allora ho promesso che non avrei mai più letto un libro di Jane Austen.»

«E tu?» chiedo ad Anna.«Ho letto L’abbazia di Northanger, ma non ne ho letti altri. Ho appena il tempo di leggere quando

dovrei farlo.» «Nonostante questo», riprende Paula, «abbiamo apprezzato entrambe Colin Firth quando ci hai

obbligate a quella maratona di Orgoglio e pregiudizio.» Anna ridacchia. «Sì, e anche Matthew Macfadyen era abbastanza figo.»«Nel caso tu non te lo ricordassi», continua Paula, «le tue migliori amiche sono delle filistee che

preferiscono avere la grande letteratura servita sullo schermo.»Anna fa un sorrisetto ironico. «A meno che il mio capo non stia pensando di adattarla. Siamo davvero

lealiste rispetto alla nostra professione.»«Sì», aggiunge Paula, «i nostri vari datori di lavoro possono esserne fieri.»Vari datori di lavoro. «Posso arrischiarmi a chiedervi di cosa vi occupate? Vogliate scusarmi ma non

lo ricordo.»«Ma certo che può, madame», dice Paula e Anna le assesta uno schiaffetto. «Ahia.»«Io sono una creative executive», afferma Anna, «e Paula è una scenografa.»«Ah.» Fortunatamente sembra che non abbiano niente a che fare con i postriboli.«Il che significa», spiega Paula, «perché dalla tua espressione vuota capisco che non hai idea di cosa

stiamo parlando – fatto che da un lato mi sembra allarmante, ma dall’altro ti rende una piacevole novità in questa città stanca di cinema – che Anna governa un regno conosciuto come sviluppo dell’inferno, dove i libri e le sceneggiature sono condannati a rimanere a lungo almeno quanto ci mette una delle opere di Jane Austen a diventare un film.»

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«Film», ripeto cercando di immaginare cosa possa voler dire questa parola e che significhi sceneggiatura.

Anna sorride. «Sì, ma io lo ritengo più un purgatorio che un inferno perché, come si capisce anche dalla tua definizione, alla fine si vede una luce in fondo al tunnel, anche se ci possono volere duecento anni.»

«Se devo giudicare dalla permanenza perpetua di Orgoglio e pregiudizio nel lettore dvd di Courtney, sembra che nessuna attesa sia troppo lunga per un film di Jane Austen, vero tesoro?» commenta Paula.

Annuisco come un’idiota e sorrido a entrambe. E così la miracolosa apparizione di una rappresentazione di Orgoglio e pregiudizio nella scatola di vetro nella mia stanza si chiama film? Riuscirò mai a farcela senza conoscere le parole necessarie a indicare tutte queste nuove realtà? Una cosa è subire la perdita della memoria, un’altra è non riuscire ad avere neanche il vocabolario base per un posto del genere.

«Quanto a Paula», prosegue Anna, «lei passa tutto il giorno sperperando i soldi delle società di produzione in mobili e suppellettili e a mandare in giro quegli imbranati dei suoi collaboratori in modo che Elizabeth Bennet abbia una sedia su cui sedersi quando quell’idiota di Mr. Come-diavolo-si-chiama le fa la proposta di matrimonio.»

«Lo hai detto come una vera pupilla di un produttore che passa tutto il giorno a ciondolare fingendo di lavorare a pranzi e cene d’affari», le fa notare Paula.

«Scusa», dice Anna. «Alcuni di noi stanno davvero progettando di lavorare per il resto di questa splendida domenica sgobbando per un appuntamento di lunedì mattina. Non come qualcun altro in questa stanza che...»

«Parlando di lavoro», la interrompe Paula guardando me, «non puoi andare in ufficio domani, te ne rendi conto, no? Voglio dire, come pensi di essere produttiva?»

Mi metto subito seduta sul letto. Anna mi mette una mano sul braccio. «Che c’è, tesoro?»«Hai detto che è domenica?»Paula annuisce dolcemente.«Oh, cielo. Non sono andata a messa.»Paula alza un sopracciglio. «Quando, se posso chiederlo, è stata l’ultima volta che hai messo piede in

chiesa, a meno che non fosse per un matrimonio», ma la parola «matrimonio» le muore in gola. «Ahi!» esclama guardando Anna. «Non c’è bisogno che mi prendi a calci. Courtney, sono una stupida.»

«Non ti crucciare. Sono sicura che non era tua intenzione denigrare la mia fede religiosa.»«Gesù», sospira Paula, «hai davvero bisogno di riposare. E non pensare neanche di andare al lavoro

domani. Dico sul serio.»«Ma certo», la rassicuro io, incuriosita da cosa possa significare «andare al lavoro» ed eccitata dagli

eventuali risvolti esotici. Non avrei mai potuto immaginare che la parola «lavoro» potesse significare qualcosa per una donna a parte cucire camicie per il marito, i figli e i poveri o intrecciare canestri e confezionare frange. O, nei casi delle più indigenti, fare la governante. «Potrei chiedervi – mi domandavo – mi piace il mio lavoro?»

Paula e Anna si scambiano uno sguardo scettico e scoppiano a ridere entrambe. «Scusa, cara», dice Paula. «Non preoccuparti, chiamerò David e glielo dirò.»

«David.»«Il marmocchio viziato, lo scribacchino senza talento che chiami il tuo capo. Non ti ricordi neanche

di lui? Oddio. Che faremo con te?»«Basta, Paula», la zittisce Anna e poi con un tono più dolce, si rivolge a me: «Ti tornerà tutto in

mente molto presto. Nel frattempo...» e così dicendo guarda di nuovo Paula, «il meno che puoi fare è lasciare che si riposi in pace senza doversi preoccupare di David, Frank o Wes. E forse dovresti chiamare Sandra e non David. È molto più facile avere a che fare con lei.»

«No, chiamerò David. Non mi fa paura.»«Come vuoi», risponde Anna.Non oso chiedere chi sia Sandra, ma evidentemente è collegata al mio cosiddetto capo. Un vero

peccato che, a quanto sembra, sia un uomo senza carattere.«Sono legata per contratto a un certo... David, giusto?» Devo ancora abituarmi a usare il nome di

battesimo di qualcuno quando viene menzionato o me lo presentano, specialmente se si tratta di un uomo e, in questo caso, del mio datore di lavoro.

«Stai scherzando, vero? Neppure Anna ha un contratto. Non esiste niente che assomigli alla sicurezza di mantenere il proprio lavoro in questa città.»

«Dunque posso lasciarlo quando voglio.»Anna e Paula aggrottano entrambe la fronte. «Tesoro», interviene Anna, «se questo dovesse

succedere, costruirò un altare nella piscina dove hai sbattuto la testa e ci pregherò davanti tutti i giorni.»«Sono sicura di poter trovare una situazione lavorativa più gradevole, non credete?»Entrambe le donne spalancano gli occhi e annuiscono. Paula apre la bocca come per parlare, ma non

dice niente.Anna ride. «Congratulazioni Courtney. Sei riuscita a lasciare Paula senza parole.»Poco dopo le ragazze se ne vanno, facendomi promettere che le chiamerò immediatamente se dovessi

avere bisogno di «qualsiasi cosa, basta che tu lo chieda», ammonendomi anche di «tenere il telefono in carica», qualsiasi cosa questo significhi. «Te lo dimentichi sempre», mi spiega Anna. O almeno crede di spiegarmi.

È bello stare da sola nelle mie stanze, visto che sono davvero le mie stanze, anche se nessuna di esse è particolarmente grande. Mi aggiro per le tre camere principali: la camera da letto, la stanza con il tavolo

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e le sedie e quella che Wes ha definito soggiorno, uno spazio non più grande del guardaroba di mia madre. In effetti il mio appartamento nel suo complesso mi sembra non più grande di un salotto di casa Mansfield. Eppure queste misere stanze sono tutte mie.

A quanto pare vivere da sola non è una situazione eccezionale per una donna non sposata, perché ho dedotto da ciò che Anna e Paula hanno detto in macchina che entrambe, anche se nubili, hanno delle case tutte loro. Questo sì che è strano. Se tu potessi ascoltare le mie parole, cara Mary, mi accuseresti di canzonarti.

Sì, queste stanzette mi vanno proprio a genio. Qui non devo aver paura del passo felino di mia madre o dei suoi aspri rimproveri. Qui non c’è la servitù né altre persone che possano origliare le mie conversazioni private, se «private» è una parola appropriata per una condizione in cui l’unico momento nel quale potevo essere sicura di essere sola era quando andavo a letto. E ci avrei dovuto anche rinunciare se fossi diventata la moglie di Edgeworth, perché una donna sposata ha sì la sua camera da letto, ma il marito deve potervi sempre avere accesso. Qui, invece, posso dormire, mangiare e divertirmi come voglio, senza obblighi nei confronti di nessuno se non di me stessa. Me stessa. La nuova, completamente irriconoscibile me stessa.

Almeno esteriormente. Interiormente sono come sono sempre stata.No, non è del tutto vero. Avverto una nuova sensazione di speranza che non provavo da molte

settimane.Un’improvvisa esplosione di musica, il brano di una canzone che sembra stranamente familiare. Da

dove proviene? Si ferma, poi riparte di nuovo. Si ferma e poi ricomincia. Localizzo la fonte della musica: è lo stesso oggetto che Anna chiamava telefono. E la musica – sì, ma certo – è quella del film Orgoglio e pregiudizio. La musica si ferma e riparte qualche altra volta e poi c’è il silenzio.

Sì, la mia situazione è gradevole sotto molti aspetti. Che cosa mi sarei potuta aspettare a casa se non un’infinità di giorni e di sere passate a ricamare con mia madre nel salottino, ascoltando il ticchettio dell’orologio e lo scricchiolio della casa, mentre un’altra notte sarebbe passata, senza pace e con poco riposo? Anche se mi manca mio padre. E Mary. Come potrò andare avanti senza il mio amato genitore e la mia più cara amica? Come faranno loro senza di me? Anche se immagino che se io sono qui al posto di Courtney, allora non ne consegue che Courtney è lì al posto mio? Che cosa incredibile! Comunque l’unica possibilità è che lei abbia preso il mio posto nel passato e non che lo stia facendo ora, perché io mi trovo duecento anni dopo il tempo in cui sono vissuta e chiunque fosse vivo nel 1813 è ormai morto da tempo. Questo pensiero mi dà quasi le vertigini. Non posso tornare indietro, è chiaro. Come potrei tornare a ciò che non c’è più? Sì, che non c’è più. E questo riguarda papà, Mary, Edgeworth, mamma, Barnes e Belle e ogni altro amico io abbia mai avuto. Tutti morti.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime al pensiero di papà nella tomba e all’idea che chiunque l’abbia pianto sia morto da tempo. Cenere alla cenere. Polvere alla polvere. Per quanto tempo possa essere passato, per me erano vivi fino a due giorni fa. È come quella storia di Oisín della mia vecchia bambinaia. È possibile, che proprio come Oisín, io mi trovi nell’eterna terra di Tír na n-Óg, dove trecento anni passano senza che ce ne si renda conto? Forse allora Niamh dai capelli d’oro mi permetterà, come a Oisín, di tornare a casa. E io, come lui, invecchierò e appassirò nel momento stesso in cui i miei piedi toccheranno terra.

Non il finale che avrei voluto per la mia storia, in ogni caso.No, preferisco la consolazione di un altro finale, uno che conosco bene. E così prendo la copia di

Ragione e sentimento dallo scaffale. È meraviglioso che questo tesoro che mi ha impedito di diventare pazza nei giorni bui dopo il tradimento di Edgeworth sia di nuovo qui per farmi continuare a essere forte.

Se davvero esiste una terra incantata come Tír na n-Óg, in cui tutti perdono il senso del tempo e dello spazio, essa esiste nelle pagine di Ragione e sentimento. E così succede che quando finalmente riemergo dalle pagine di questo libro, il sole è in qualche modo sparito. Mi alzo e mi stiracchio, muovendomi verso la finestra della stanza da letto con le sue orrende sbarre. Eppure la bruttezza delle sbarre viene eclissata non solo dalla luce rosa e arancione del tramonto, ma anche da una brillante distesa di luci, come se centinaia di candele illuminassero le finestre delle abitazioni dalla parte opposta della strada, e dietro di esse, milioni di lucine punteggiano il fianco della collina come una costellazione di diamanti.

Che posto incredibile è questo. Una città bellissima e riccamente ornata. Ci sono talmente tante luci nelle strade e sulle colline che non riesco quasi a distinguere le stelle nel cielo che diventa buio.

La musica di Orgoglio e pregiudizio inizia e si ferma di nuovo, inizia e si ferma. Questo è accaduto diverse volte mentre stavo leggendo, ma è stato facile non farci caso per tornare a Elinor e Marianne. Guardo il telefono, che è la fonte della musica, e su di esso c’è un’immagine dell’attore che interpretava Mr. Darcy! Sulla sua immagine c’è un piccolo riquadro con su scritto WES, RISPONDI, IGNORA.

Wes?Rispondi? Ignora? Rispondi a cosa? Ignora cosa?Prima che io possa contemplare il mistero ancora un po’, la musica finisce e il telefono si oscura.Molto meglio così perché non mi spiace rimanere avvolta dalla sensazione di appagamento di

Ragione e sentimento, contemplando la felicità di Elinor e meditando su come Marianne si ritrovi ad amare il Colonnello Brandon con tutto il cuore, piuttosto che preoccuparmi del funzionamento di un oggetto incomprensibile e francamente anche fastidioso.

E inoltre ho fame. Siccome non c’è personale di servizio dovrò prepararmi qualcosa da sola. Non so neanche se ci sia una cucina in questa casa e non vedo camini, nessuna griglia, nessun portello per il carbone.

Mi avventuro nella camera con il tavolo e le sedie con i piedi fasciati dai calzini e apro armadietti e

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cassetti, uno dopo l’altro. Piatti, forchette, bicchieri, tazze, scatole, barattoli. Niente che sembri lontanamente commestibile.

D’impulso tiro la maniglia lunga e lucida di una grossa scatola bianca che sta accanto alla parete con i cassetti e le credenze. Do un’occhiata all’interno illuminato e un’aria fresca mi investe il viso. Ci sono delle rastrelliere vuote a eccezione di un triste cespo di lattuga non più molto fresco e alcuni contenitori con dentro chissà cosa. Almeno ho scoperto una dispensa, per quanto vuota.

Ah. C’è anche una porta superiore. Da dentro esce aria fredda che mi gela la pelle. Una gigantesca bottiglia ghiacciata di qualcosa che si chiama Absolut. Un barattolo, flessibile come carta, di qualcosa che si chiama variegato all’amarena. Lo apro, ci ficco il dito e l’assaggio. È una deliziosa varietà di sorbetto, dolce e morbido, con alcuni pezzettini di quello che sembra cioccolato solo che è solido e molto più dolce. Devo trovare un cucchiaino.

Qualcuno bussa alla porta. Una voce soffocata. «Courtney? Ci sei? Sono Wes. Se ci sei, per favore, apri la porta.»

I colpi alla porta continuano finché non apro e lui è lì, il pugno ancora sollevato pronto a bussare ancora e uno sguardo confuso.

«Scusa. Ti ho spaventata? Ti ho chiamato e chiamato e alla fine ho visto la tua auto qui fuori e...»Un ricciolo gli è finito sulla fronte e gli occhiali gli sono scivolati sul naso. Le ciglia sono lunghe e

spesse e gli occhi ancora più blu di quello che sembra da dietro gli occhiali.«Stai bene?»Mi ricordo che si suppone che io stia in guardia con quest’uomo e mi sforzo di mantenere un tono di

voce freddo. «In effetti sì, signore.»«Mi sono preoccupato quando non hai risposto al telefono. E anche Paula. E Anna. Le ho sentite

entrambe e dicono che ti hanno chiamato e mandato mail e sms, ma niente. La sola cosa che sembrava farle sentire meglio è stato sapere che non hai risposto neanche alle mie telefonate e ai miei sms.» Fa un sorrisetto malizioso. «Dopo di che ci siamo solo scambiati dei messaggi nei quali dicevo a Paula che forse non ti ricordi come si usano il telefono o il computer, e lei è andata fuori di testa e ha iniziato a dire che avremmo fatto meglio a chiamare Suzanne, perché questo va ben oltre una perdita di memoria. Al che io ho ribattuto aspetta un attimo, vado là e controllo la situazione. E lei ha risposto toglitelo dalla testa, ma alla fine nell’ultimo messaggio mi ha praticamente dato il permesso – ma non esplicitamente – perché lei è a Hermosa e Anna è bloccata al lavoro e ci avrebbero messo un bel po’ per arrivare qui e... be’, eccomi qua.»

«Sul mio onore ti assicuro che erano qui appena poche... forse più di poche ore fa, ma non può essere passato molto tempo.»

«Sette ore, secondo quanto sostengono le tue amiche, e con un incidente come quello che è capitato a te, volevano essere sicure. E anch’io.»

Gli devo chiedere di entrare? Sembra così triste, così consapevole di non avere il diritto di essere qui che non posso essere troppo dura con lui.

«Perché non entri?»Prende una delle sedie dal tavolo e senza che io lo inviti si siede senza, a quanto pare, accorgersi della

sua mancanza di educazione.«Hai fame?» chiede e poi aggiunge, con un sorriso beffardo, indicando la dispensa: «Non credo che

tu abbia riempito il frigo. Non che per te riempire significhi avere molto di più che gli ingredienti per un pasto decente».

Soddisfa la sua curiosità aprendo velocemente la maniglia della dispensa. «Perché hai un frigo, mi domando? Ti occupa solo spazio. Che ne dici se ti porto fuori? Io sto morendo di fame.»

Uscire di sera. Senza essere accompagnata. Con un gentiluomo. Un gentiluomo scapolo. Forse non è neanche un gentiluomo. E di certo non è né mio fratello, né mio padre e neanche un mio cugino. Inconcepibile.

«Un attimo solo.»

Dieci

HO appena recuperato la pochette dalla forma strana, di colore arancione, piena di fibbie, che Anna mi ha messo tra le mani dichiarando che era la mia borsa e stiamo per uscire, quando bussano di nuovo.

«Courtney? Sei lì?» chiede una voce maschile.Guardo Wes per capire se la riconosce e lui stringe gli occhi.«Cosa diavolo ci fa lui qui?» Il suo tono è accusatorio.«Chi? Di chi si tratta?»Continuano a bussare. «Courtney... apri.»«Quindi non l’hai chiamato tu», sospira Wes, mentre il sollievo gli ammorbidisce l’espressione. «Ci

penso io.»Wes apre la porta all’uomo dai capelli neri di cui Paula mi ha mostrato l’immagine. Nonostante fino a

un attimo fa stesse bussando, adesso è appoggiato allo stipite come se avesse semplicemente ordinato alla porta di aprirsi con un sussurro. I capelli neri gli cadono graziosamente sulla fronte. Ha la carnagione chiara e senza neppure una ruga, gli occhi scuri, quasi neri, brillano appena mi vedono. Le labbra carnose si piegano in un sorriso che è affascinante per la sua asimmetria, visto che un lato della bocca sale più dell’altro.

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«Magra e magnifica, vedo», dice, con una voce ricca e dolce come il miele. Lancia uno sguardo sprezzante a Wes: «E per niente sola e abbandonata».

«Che vuoi?» chiede Wes brusco.Frank lo ignora. «A quanto pare, Paula era così disperata perché non riusciva a rintracciarti che si è

turata il naso e mi ha chiamato per sapere se avevo tue notizie. Ed è così che ho saputo che hai sbattuto forte la testa. Stai bene, no?» Ha un’espressione dolce mentre mi prende la mano. Lascio che lo faccia e mi accarezza il palmo con il pollice, facendomi provare un brivido lungo tutto il corpo. «Per un attimo mi sono spaventato.»

«Ora puoi andare, Frank», sbotta Wes. «Sta bene.»Frank mi guarda con i suoi grandi occhi liquidi. «Tu vuoi che me ne vada?» Può davvero essere

questo l’uomo che ha fatto tanto male a Courtney? Ha dei modi gentili e la sua espressione è buona.«È questo che vuoi, no?» mi chiede Wes. Distolgo lo sguardo da Frank e Wes sembra quasi

spaventato.«Ehi», esclama Frank. «Sto parlando con Courtney.»Mi schiarisco la voce. «Mi ha preso alla sprovvista, signore.»«Signore?» Frank guarda Wes con le sopracciglia alzate.«Voglia essere così gentile da lasciarmi proseguire, signore. Io non la conosco... non mi ricordo di lei.

La riconosco solo perché Paula mi ha mostrato una sua immagine. Pertanto non ho motivo di desiderare né che resti né che se ne vada. Mi perdoni se la mia sincera affermazione le causa qualche dispiacere.»

Frank apre la bocca come se volesse parlare, ma inizialmente non esce alcun suono. «È uno scherzo, giusto?»

Guarda Wes come in cerca di aiuto, ma lo sguardo di Wes è di pietra.«Come è possibile che non ti ricordi di me?»«Difficile accettare di non essere più il centro del mondo per una donna, vero?» lo schernisce Wes.«Come se tu ne sapessi qualcosa», risponde Frank. «Sei troppo impegnato a dare la caccia alla mia

donna per averne una tutta tua.»Il volto di Wes s’infiamma. «Vattene.»«A quel che ne so io, questa è casa di Courtney, non tua.»«Dico sul serio, Frank.»«Cosa fai altrimenti? Mi butti fuori? No, questo non è il tuo modo di affrontare le cose. Non sei così

diretto. No, tu instilli il veleno nelle orecchie delle persone finché la metà dei miei amici non vorrà neanche più parlarmi.»

Wes borbotta, quasi ridendo. «Sei tu quello che l’ha tradita.»«Questo lo pensi tu.»«Oh, per favore. Non raccontarmi che ora vuoi negare. Non è un po’ tardi per questo?»«Non ho mai detto di essere andato a letto con lei.»«Ma Courtney ti ha visto!» esclama Wes.«Mi ha visto fare cosa? Parlare con la tipa della torta? Toccarle il braccio?»Le parole di Frank mi sono sinistramente familiari. È possibile che quello che ho scorto fare a

Edgeworth con la serva fosse innocente come Frank sostiene che siano state le sue azioni? Non ho neanche affrontato Edgeworth spiegandogli quello cui ho assistito; non aveva idea del fatto che io fossi nascosta dietro un cespuglio mentre lui baciava la mano della donna dai capelli biondo rame. No. Impossibile. Che tipo di decenza si può trovare in quello che ho osservato fare a Edgeworth? La sua stessa espressione era una prova della sua colpevolezza, mentre si guardava furtivamente intorno per controllare se c’era qualcuno nei paraggi e si ripuliva i capelli e i vestiti dalla paglia. E come lo ha toccato quella donna, in modo quasi possessivo, come un’innamorata toccherebbe il suo amato. Come avrei fatto io con Edgeworth. No. Era colpevole come sembrava, anche perché è stata la lettera di Mary che mi ha cancellato ogni dubbio, la lettera nella quale Mary mi informava che la sua serva aspettava un bambino. La lettera di Mary che mi ha spinto ad affrontare quella sconsiderata cavalcata con Belle nel bosco, la cavalcata che mi ha gettato nel buio, nell’oblio e... in tutto questo.

«Courtney?» È Wes che parla. Lui e Frank mi fissano con sguardo interrogativo.«Ho mai affermato di essere andato a letto con lei?» mi chiede Frank.«Se fossi conscio della disdicevolezza del tuo linguaggio, non ti comporteresti in modo tanto

volgare.»«Non l’ho fatto, no? Tu hai solo creduto quello che volevi credere, hai mandato all’aria il matrimonio

dichiarando a tutti che io ero feccia.»«Ti do la mia parola, hai superato ogni limite. Se non riesci a parlarmi civilmente, allora ti prego di

avere la bontà di andartene.»«Lo sapevi che non ero pronto a sposarmi.»Wes si mette in mezzo a noi due. «Hai sentito che ti ha chiesto di andartene?»Frank si muove come se volesse spingere Wes, poi sembra ripensarci e semplicemente lo ignora e si

rivolge a me. «E la gelosia. Sempre la gelosia. Questo è il motivo per cui è finita, non è stata colpa mia.»Non credo di essere gelosa per natura, ma quello che ho visto quel giorno nella tenuta Edgeworth mi

ha fatto infuriare come niente altro in vita mia.«Mi dispiace, okay?» dice Frank. «Ho fatto un casino. Ero nel torto.»Wes sbuffa. «Be’, questo almeno è già qualcosa.»Frank lo ignora e mi mette una mano sul braccio. «Ma non sono andato a letto con lei.»Wes alza le mani. «Non sai proprio chiedere scusa, vero?»«Questo riguarda me e Courtney», taglia corto Frank. E poi, rivolto a me: «Possiamo parlare da soli

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per un minuto?»Lo guardo e nella sua espressione c’è tanta brama di essere perdonato da qualsiasi cosa abbia fatto

che sento un piccolo colpo al cuore.«Non ci pensare proprio», interviene Wes. «Stiamo uscendo, Frank, anche se tu non vuoi.»Come mi sono ritrovata contesa fra questi due gentiluomini? Improvvisamente il calore

dell’appartamento diventa soffocante, il corpetto bianco mi si attacca alla pelle. «Devo uscire. Aria fresca.» Vado verso la porta.

«Vengo con te», dice Wes.«Anch’io», gli fa eco Frank.«Come desiderate. Cercate soltanto di comportarvi civilmente l’uno verso l’altro per un paio di

minuti.»Appena usciti per strada le luci danzanti della città mi offrono una gradita distrazione. E che varietà

di luci c’è: si va da grandi globi che sormontano alti pali piantati nel pavimento alle lampade fissate sulle porte, agli interni illuminati che sono così brillanti da lasciar intravedere le persone che svolgono le loro faccende dietro le lastre di vetro. E poi raggiungiamo la via principale dove ci sono negozi e ristoranti, e le luci sono persino più impressionanti, i cartelli, già tanto evidenti durante il giorno, richiamano persino più attenzione quando sono illuminati.

Un bisbiglio ben udibile fra i due gentiluomini distoglie la mia attenzione. Non riesco a sentire tutto quello che si dicono a parte l’uscita di Frank: «Il modo in cui parla, come in quegli stupidi film che guarda sempre...» e quella di Wes: «È la commozione cerebrale», che mi fanno capire tutto quello che mi serve. Se spettegolare evita ulteriori liti tra di loro, tanto meglio per tutti. Ma devo davvero abituarmi a parlare in maniera più simile alle persone di questo posto, se riesco a imparare a farlo.

Ci fermiamo davanti a un edificio rosso scuro e scarsamente illuminato che si trova tra un posto chiamato Ray’s Cleaners, il cui nome è scritto a caratteri cubitali e luminosi con lettere a forma di tubo in una vetrina, e un altro chiamato Acme Taqueria, la cui insegna è meno sgargiante e da cui proviene un allettante aroma di cibo esotico.

«Ho bisogno di bere qualcosa», annuncia Frank, guidandomi verso la porta dell’edificio rosso, che è ugualmente rossa.

«Avevo capito che stavamo andando a mangiare», dice Wes guardandomi per conferma.«Solo uno veloce», fa Frank e mi apre la porta rossa con uno svolazzo della mano.Curiosa, oltrepasso la soglia e mi trovo dentro un altro mondo, fatto tutto di tessuto rosso, nero e

dorato con frange che scendono da paralumi sospesi, luci incandescenti a forma di candela (ma senza dubbio senza fiamma) su dei portalampada a forma di cherubino e poltrone e divani ovunque, sontuosamente ricoperti di velluti rossi o broccati. La musica è alta, ma più piacevole di quella dell’auto di Paula, anche se altrettanto strana per quanto riguarda il suono. Il cantante questa volta è una donna con una voce ammaliante e irresistibile.

«Ehi, Courtney.» Un uomo alto, con lunghi capelli castano scuro stranamente striati di ciocche bionde e il dipinto di un drago viola e oro su un avambraccio scoperto, mi chiama da dietro un alto bancone da bar, ingombro di file di bottiglie piene di liquidi marrone, ambra, verdi e dorati. Allunga un bicchiere a un altro uomo seduto di fronte al bar.

Che strano per un gentiluomo, e molto più probabilmente un cameriere e non un gentiluomo, salutarmi in modo tanto confidenziale senza che io gli abbia dato il permesso di farlo. Che sia un caro amico o forse persino il fratello di Courtney? Suppongo che dovrei salutarlo, per non suscitare altre congetture. Certo che anche il disegno sul braccio... forse è un tatuaggio, come quelli di cui ho letto nei diari di viaggio. Che tipo di compagnie frequenta Courtney e che genere di persona deve essere?

«Buonasera», rispondo, sperando che il mio sorriso sia educato ma non troppo incoraggiante.A quanto pare la mia speranza è vana perché l’uomo dipinto esce da dietro il bancone, mi raggiunge e

mi stringe in un abbraccio. «Tesoro, i tuoi amici mi hanno raccontato cosa è successo. Grazie a Dio ora è tutto okay.» Ha un accento più familiare di quelli che ho sentito finora, forse inglese, anche se non particolarmente distinto.

L’uomo mi sussurra in un orecchio: «Allora quand’è che scarichi quel fallito e sposi me? Mi avevi detto che era storia vecchia ormai, tesoro».

Mi sento la faccia avvampare e mi divincolo dalla presa. Certamente non si tratta di un fratello. «Sul mio onore io...»

«Lo so, vuoi un drink», mi interrompe lui con un grande sorriso. «Offro io. Ma il fallito se lo paga da solo. Stessa cosa per quell’altro. Faresti meglio a sperare che io non inizi a raccontare storie alle ragazze.» Torna al bar e così siamo di nuovo soli, a quanto pare.

Mi ritrovo seduta di fronte al bancone su un alto sgabello imbottito e ricoperto di stoffa rossa accanto a due gentiluomini. Scopro il nome del cameriere, Glenn, quando Wes lo saluta. Glenn non è molto amichevole con lui, ma Frank riceve solo uno sguardo gelido e un «Otto», da Glenn, che a quanto pare è il prezzo del drink. Otto scellini per una bevanda mi sembra un po’ troppo, anche se Frank estrae dalla tasca una banconota dell’ammontare di dieci dollari su cui c’è scritto STATI UNITI D’AMERICA. Ho sempre provato una certa curiosità per i primi coloni, ma non avrei mai immaginato niente del genere.

«Il tuo denaro qui non va bene», mi dice Glenn ammiccando prima di mettermi davanti un grande bicchiere di forma quasi triangolare con un piedistallo. Dentro c’è un liquido incolore, leggermente torbido con quelle che sembrano quattro grosse olive infilzate in un sottile bastoncino di legno. Alzo il bicchiere e annuso un po’ incerta: il naso mi si libera per le esalazioni e mi viene l’acquolina benché non abbia mai assaggiato una bevanda del genere in vita mia.

Prendo un piccolo sorso del liquido ghiacciato... delizioso. Forte, salato, tonificante e con un sapore

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di olive. Perfetto per un clima così caldo anche se, ora che ci faccio caso, qui dentro non fa affatto caldo. In effetti è stranamente fresco al confronto dell’esterno.

Ne prendo un’altra sorsata. Glenn solleva il suo bicchiere verso di me, io faccio lo stesso verso di lui e bevo. Potrei abituarmi molto facilmente a questo modo di rinfrescarsi.

E poi resto di sasso. Mi trovo davvero in un locale pubblico, una gentildonna in un pub, accompagnata da due gentiluomini che non sono né miei fratelli, né miei cugini o mio padre, ma molto più probabilmente membri delle classi inferiori e pertanto niente affatto gentiluomini? Non che entrare in un locale pubblico con un gentiluomo sarebbe stato meno scandaloso, ma questo è davvero disdicevole.

«Vacci piano», mi ammonisce Wes indicando il mio drink, «non so se vodka e commozione cerebrale siano una combinazione saggia.»

«Vodka.» Assaporo la parola sulla lingua. E ne bevo ancora.Frank si accomoda accanto a me, piegandosi sul bancone e prendendo un lungo sorso da una

bottiglia di vetro marrone dal collo lungo: «E così non mi odi più?»«Ha forse importanza? A quanto pare tu e Court... o meglio tu e io abbiamo avuto la fortuna di

scampare a quello che da più parti viene ritenuto un matrimonio decisamente imprudente.»«Courtney, sei fuori controllo e parli in modo strano. So che hai sbattuto la testa ma la devi smettere

di guardare quei film.»«Ti ringrazio per i tuoi cortesi consigli.»Frank, che si è portato la bottiglia alle labbra, scoppia a ridere. «Commozione cerebrale un cazzo.

Non prendi in giro nessuno. Eccetto forse lui.» E con il mento indica Wes.«Non sono stata abituata a un simile linguaggio», rispondo e inizio a ridere a mia volta. Solo Lady

Catherine de Bourgh riuscirebbe a pronunciare parole del genere e mantenere il suo contegno.«Lo sapevo», dice Frank.

«Sapevi cosa? Ti imploro di dirmelo.»«Che ti stai facendo quattro risate alle spalle di tutti.» Avvicina la faccia alla mia e mi guarda

intensamente negli occhi. Riesco a sentire il suo fiato caldo sulle labbra. «E che non mi detesti. Vero che non mi odi?»

«Certo che no, io...»Mi sposta una ciocca di capelli dalla fronte e il contatto con la sua mano mi fa provare un brivido

lungo tutta la schiena: «Tutti meritano una seconda possibilità, non credi?»Le sue labbra si avvicinano così tanto alle mie che praticamente le sfiorano. E poi si toccano così

delicatamente che non riesco a trovare la forza per respingerlo. Il bacio diventa più insistente, mi ubriaca e mi inebria. Quando lui con la punta delle dita mi sfiora la mascella, il contatto mi riporta all’istante a un altro giorno e mi vedo e mi sento mentre mi tocca e mi bacia nello stesso identico modo. E io bacio le sue labbra, assaggio la sua bocca, mi sdraio a letto con lui, il suo corpo stretto al mio, la sua pelle contro la mia pelle, le sue gambe contro le mie gambe nude. Il mio corpo, questo corpo, sa che è un ricordo. Un ricordo vivido come ogni altro ricordo che ho. Eppure è il ricordo di qualcosa che non è mai accaduto. È un ricordo di Courtney, non mio. Non so come sia potuto succedere un fenomeno del genere; eppure si tratta di una sensazione reale come tutte quelle che ho provato da quando mi sono svegliata ieri mattina. Come posso ricordarmi di essere stata con quest’uomo? E in un modo molto più compromettente di quanto mi sia mai accaduto con Edgeworth.

La faccia mi brucia... e lo spingo via. Senza volerlo salto giù dalla sedia, via da Frank, via da Wes e dallo sguardo scioccato nei suoi occhi e corro verso un’insegna luminosa dall’altra parte della stanza che dice SIGNORE. Forse è un rifugio, un salotto.

«Ehi!» sento gridare dietro di me. È la voce di Frank. Raggiungo la porta, una porta imbottita, rossa naturalmente, e tiro la maniglia. Dentro, alla mia destra, c’è un grosso specchio con sotto una fila di lavandini per le mani. Alla mia sinistra una serie di porte che non raggiungono il pavimento o il soffitto. Mi gingillo con il rubinetto di un lavabo finché non scorre un fresco getto d’acqua. Mi sciacquo la faccia.

Che cosa ho fatto? Come ho potuto permettere che quell’uomo mi baciasse in pubblico? Un uomo che non ho mai conosciuto prima. Proprio io che non ho mai baciato nessuno a parte Edgeworth, la persona che amavo, e anche noi avremmo dato scandalo se qualcuno ci avesse visto nel bosco quel giorno, anche se mi aveva chiesto di sposarlo. Eppure ho permesso a Frank di baciarmi. E riesco ancora a sentire le sue labbra sulle mie, il suo corpo sul mio, le mie braccia che lo tengono stretto, le mie mani che scendono lungo il suo busto, il suo... Dio santo, cosa mi sta accadendo? Che razza di donna sono diventata? Ho bramato una nuova vita e visto esaudito il mio più grande desiderio, sono stata trasportata in qualche modo o sono trasmigrata in un altro corpo, solo per scoprire che sono davvero una donna nubile che è andata a letto con un uomo che non sposerà, una donna che frequenta i locali pubblici con gli uomini, che alza il gomito e non va in chiesa, una donna senza Dio, dissoluta e perduta?

Rendermi conto che ho ereditato tutti questi peccati mi toglie quasi il fiato. Cosa mi è successo? Come potrò mai vivere con me stessa? E come potrò mai guardare di nuovo quell’uomo? Devo andarmene di qui. Non posso rivederlo. Il respiro mi si fa affannoso e devo aggrapparmi al bordo del lavandino per evitare di finire contro la fila di porte dietro di me. Potrò anche essere pazza. Potrò anche essere perduta. Ma non devo svenire.

«Ti senti bene?»Mi sento rantolare. Alzo lo sguardo e nel riflesso dello specchio c’è una giovane donna appena uscita

da una delle porte a tre quarti dietro di me. Ha la pelle color cioccolato mescolato con molta panna.«Oh, sei tu Courtney», esclama sorridendo per la piacevole sorpresa.Oh, cielo. Un’altra persona che si suppone io conosca ma il cui volto mi è del tutto estraneo.

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«Non ti ricordi di me, vero? Sono Deepa. Eri alla mia festa un paio di mesi fa.»Il suo accento è simile a quello dell’attrice di Orgoglio e pregiudizio. Che provenga dal mio Paese? Mi guarda con un’espressione sinceramente preoccupata. «A dire la verità abbiamo parlato per un

bel pezzo. Ehi, stai bene? Non sembri okay.»Suppongo che l’espressione sconvolta che mi si riflette dallo specchio sia l’opposto di quello che

dovrebbe significare «okay».«Ti assicuro che sto bene», borbotto, ma questo è tutto quello che riesco a farmi uscire perché gli

occhi mi si iniziano a riempire di lacrime e la bocca trema per lo sforzo di trattenerle.Deepa tira fuori un fazzoletto di carta da una pochette marrone luccicante con delle catenelle che

tintinnano e me lo porge. Ha anelli su quasi tutte le dita e dalle orecchie le pendono dei globi chiari tempestati di brillanti attaccati a dei fili del metallo più sottile che si possa immaginare.

Prendo il fazzoletto e mi asciugo le lacrime. Lei mi guarda dolcemente con i suoi grandi occhi marroni mentre me ne porge un altro. Ha i capelli corti, di un bel nero lucente, con qualche ciocca che le sfiora le sopracciglia arcuate.

«Eri triste anche l’ultima volta che ci siamo incontrate. E anch’io ero di cattivo umore, devo ammettere. Tutte quelle persone che venivano da me per dirmi quanto erano dispiaciute per il mio divorzio, mentre io non volevo altro che tirare un bel sospiro di sollievo. E devo riconoscere che tu e io abbiamo finito per farci una bella risata insieme.» Mi lancia uno sguardo inquisitore. «Ma davvero non te lo ricordi? Avevi bevuto un bel po’, ma non penso che fossi ubriaca.»

«Perdonami», rispondo. «Mi hanno spiegato che ho una... commozione cerebrale e ci sono molte cose che non ricordo.»

«Ma davvero? E come è successo?»«Ho sbattuto la testa in piscina, così mi raccontano.»«E non ti ricordi neppure questo?» Mi guarda con dolcezza. «Ma prima o poi ti tornerà la memoria,

vero?»Alzo le spalle.«Ehi, ci sono cose che non vale la pena ricordarsi, credimi.»In quel momento si sente bussare alla porta, che poi si apre leggermente. Wes fa capolino e quando

vede che c’è un’altra donna assume un’espressione mortificata. «Oh, ciao Deepa. Scusa ma volevo vedere se... Courtney, tutto bene?»

Riesco a malapena a costringermi a incrociare il suo sguardo dopo che mi ha visto fare quello che ho fatto con Frank che, in questo momento, entra e si appoggia a un muro come se avesse tutto il diritto di introdursi nel nostro rifugio.

Deepa mi lancia un’occhiata eloquente e io arrossisco. «Come dicevo, ci sono cose che non vale la pena ricordare.»

Quanto sa della mia relazione con Frank?«Vi rendete conto», mi rivolgo ai signori, una mano sul fianco, «che questo è il bagno delle donne?»Frank sogghigna: «Non l’avevo notato».Wes mi prende per mano. «Courtney, vieni, usciamo di qui.»Sono così sbalordita che voglia ancora scortarmi a casa da non riuscire neanche a parlare.«Sei sicura, Courtney?» mi chiede Deepa. «Ti porto volentieri a casa io.»«È questo ciò che vuoi?» mi domanda Wes.So solo che voglio allontanarmi da Frank e da quei... ricordi o qualsiasi cosa siano. E dal dispiacere

negli occhi di Wes.«Vorrei andarmene con Deepa.»«Che peccato», si arrende Frank, guardandomi come se fossi un vassoio di dolci andati a male.Poi ha l’ardire di prendermi la mano e di rivolgermi uno sguardo penetrante come se volesse dirmi

«fidati di me» prima di andarsene.«Ti chiamo», è tutto quello che dice Wes, le mani lungo i fianchi, con l’atteggiamento di chi vorrebbe

fermarmi ma che sa di non poter fare altro che sparire.La porta si chiude dietro di loro. Deepa inarca un sopracciglio. «Non starai ancora con Frank?»«A quanto pare ho rotto il fidanzamento. Sembra che io l’abbia scoperto con un’altra.»Annuisce e torce le labbra. Riesco a capire che non è affatto sorpresa da questa informazione.«Mi hai detto che ero infelice l’ultima volta che ci siamo viste. Posso domandarti se ero infelice a

causa di Frank?»«Altro che! Mi hai confidato che eri stanca del suo continuo flirtare con altre donne, che le cose erano

peggiorate ultimamente e devo ammettere che lui ne ha dato una gran bella dimostrazione alla mia festa. Ti ho chiesto perché non chiudevi con lui. E sai cosa mi hai risposto? Che Frank era davvero sotto pressione. E che tu eri così presa dai preparativi per il matrimonio da non riuscire ad affrontare altro.»

«Che tipo di donna può tollerare una simile condotta?»«Ehi, io non posso giudicare proprio nessuno. Ho rotto con quello stronzo traditore del mio ex

marito e ho divorziato. L’unica attenuante in suo favore è che non mi ha lasciato senza un soldo. Sono stata io a chiudere. Ed è stata la decisione migliore che abbia mai preso.»

Ammiro la sua sicurezza, la stessa sicurezza che sembrano possedere tutte le donne di questo tempo, con i loro discorsi sulla volontà di realizzare i propri desideri, sul matrimonio, il divorzio e l’indipendenza, come se tutto il mondo fosse alla loro portata e potessero sistemarlo e organizzarlo come desiderano. Non riesco a immaginare nessuna delle mie conoscenti che possa anche solo pensare, e figuriamoci parlare, in questo modo. Scommetto che persino Mary Wollstonecraft rimarrebbe senza parole di fronte a loro.

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Deepa mi guarda con dolcezza. «Quindi stai con Wes, ora?»«No, non sto con lui. Voglio dire...»«Ehi non fare quella faccia scioccata.»«È un amico.» Riesco a sentire che la faccia mi sta andando in fiamme.«Non lo conosco molto bene», continua Deepa. «È un amico di un amico. Ma mi è sempre sembrato

un tipo a posto. Uno dolce, capito? E poi è molto carino.»«Mi piace. Molto. Ma le mie amiche Paula e Anna mi dicono che non devo fidarmi di lui. Che, a dire il

vero, ha mentito per evitare che io scoprissi che Frank stava...»«Ah.»«Ma non ricordo niente di tutto ciò.»«Considerando quello che ti è successo», dice, «una memoria troppo buona sarebbe imperdonabile.»Non posso che sorridere a questa citazione del mio libro preferito.«Ma sei sicura che sia vero?»«Non ho motivo di dubitare delle loro parole. Anche se lui è tanto gentile e», le faccio un bel sorriso,

«una non sa cosa pensare.»«E allora perché non gli chiedi semplicemente perché ha mentito?»L’idea di affrontare Wes è così inconcepibile e contraria a tutto ciò che mi è sempre stato insegnato

circa i rapporti sociali, che non riesco neanche a rispondere. Eppure eccomi qui: ho appena conosciuto Dee pa – anche se lei dice di avermi incontrata prima – e non posso fare a meno di stupirmi di quanto facilmente mi sia aperta con lei circa il mio presunto passato con Wes e Frank. Non sono mai stata così diretta con nessuno dei miei conoscenti. Persino Mary, che considero come una sorella, non ha mai sentito una sola parola di quello che è successo fra Edgeworth e me. Non che non mi fidassi di lei, anzi, al contrario. Semplicemente non mi è mai capitato di parlare di argomenti del genere con lei. Il fatto che fosse la sorella di lui era un ostacolo in più, ma in verità me ne sarei rimasta zitta anche se non fossero stati parenti.

E per quanto riguarda Wes, lo conosco appena; chiedergli del suo passato sarebbe prendermi una libertà davvero eccessiva. Ed è stato così gentile con me che voglio credere sia un uomo d’onore. Avrà avuto i suoi motivi per quello che ha fatto. E inoltre non si tratta neanche della mia vita. Se non ricordo la storia di Courtney – eccetto il ricordo di Frank, se si tratta davvero di questo e non di una pazza fantasia – ma allora perché è così reale per me?

Incrocio lo sguardo di Deepa. «Questo è fuori questione.»«Okay allora», dice lei aprendo la borsetta e prendendo un pettine che si passa fra i capelli neri e

lucidi. «Allora che ne pensi di quest’altra idea? Qualcosa per levarti quei due dalla testa. Vieni con me al locale. Un po’ di musica, si balla un po’, un cambio di scenario... ti garantisco che sarà divertentissimo.»

Mi strizza l’occhio e il cuore mi fa un sobbalzo. Un ballo. Mi domando come si danzi in questa strana terra. «Ti sono molto grata per la tua gentilezza, ma non credo di essere vestita come si deve per un ballo.» Guardo i pantaloni bianchi e la camicia bianca leggera sul corpetto rosa chiaro che ho indossato tutto il giorno.

«Niente affatto. Sei stupenda.»Deepa rovista nella sua borsetta luccicante. «Tutto quello di cui hai bisogno è un po’ di rossetto.»

Tira fuori un tubettino argentato che apre e poi ruota facendone spuntare un cilindro di una sostanza rosa e brillantata. In men che non si dica me la applica sulle labbra. È così vicina che riesco a sentire il suo alito alla menta e il soave profumo floreale della sua pelle. Ha le ciglia spesse, nere e ricurve. Ora che ci penso ho notato che anche Paula e Anna le hanno così: credo sia l’effetto di qualche tipo di cosmetico.

«E un po’ di mascara», aggiunge estraendo un tubetto più lungo blu scuro e con un tappo dorato. Lo apre: il tappo è una bacchetta che finisce con uno scovolino ricoperto di una sostanza nera e viscosa.

«Guarda a destra. Così, non chiudere gli occhi», e mi applica lo scovolino sulle ciglia. Controlla il suo lavoro e fa un gran sorriso rivelando una fossetta sulla guancia. «Regarde. Tu es très belle.»

Poco ma sicuro, sono proprio carina. O almeno lo è la bionda con le ciglia scure che mi guarda dallo specchio con le labbra lucide di un bel rosa brillante.

Undici

QUANDO Deepa e io usciamo dal pub nella fresca aria della sera mi rendo immediatamente conto di quanto era forte il drink che ho bevuto. Non mi meraviglia, non ho mangiato quasi niente da colazione.

Ha un’auto elegante color nero lucido: quando prendo posto noto un’immagine di quella che sembra una divinità indù su un piedistallo davanti al vetro anteriore.

«Vieni dall’India?» chiedo, sperando che la domanda non sia sfrontata.Deepa fa scivolare dolcemente la macchina nella strada illuminata. «I miei nonni erano indiani, ma i

miei genitori sono nati a Londra, come me. Anche se io ora sono americana quanto te.»Americana? Sono un’americana. Questo sì che è divertente.«I miei genitori non sono ancora riusciti ad accettarlo. Sono molto inglesi, sai. E questi barbari

americani non saranno mai all’altezza dei loro standard. Senza offesa, eh?» dice sorridendo.«Nessuna offesa, te l’assicuro.»Arriviamo a un posto che deve essere il luogo pubblico dove è stato organizzato il ballo. Ci sono

gruppi di giovani all’esterno dell’edificio, uomini e donne che parlano, ridono e fumano dei bianchi cilindri sottili di tabacco. Le donne fumano quanto gli uomini. Proprio scioccante, eppure l’odore del

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tabacco è quasi inebriante. Mi ritrovo a rallentare per assaporare il profumo immaginandomi persino a fumare. Solo che io non farei mai un gesto del genere. Che strano.

Nessuno fra le signore e i gentiluomini è vestito in maniera adatta a un ballo, anche se grosso modo me lo aspettavo, visto che Deepa ha insistito spiegando che il mio abbigliamento non era inappropriato. È davvero sorprendente immaginare un ballo in cui le donne indossano pantaloni o gonne corte con le gambe scoperte e molte di loro hanno anche le braccia nude, e in cui gli uomini sono senza giacca e camicia. L’unico indizio per capire che si tratta di una festa serale è l’abbondanza di ornamenti brillanti e luccicanti sui vestiti delle donne; anzi, alcune di loro sono ricoperte interamente di stoffe brillanti e scintillanti. E non manca una profusione di gioielli vistosi.

L’impressione che questo ballo sarà completamente diverso da qualsiasi altro a cui io abbia mai partecipato è rafforzata dal ritmo pulsante e sincopato – non mi azzardo neanche a definirlo musica – ben udibile anche prima che apriamo la porta o meglio prima che i due solleciti omaccioni all’entrata, e che salutano me e Deepa come se fossimo delle dignitarie, la aprano per noi.

Entriamo nella sala dove c’è una gran folla di persone e dove si sente un boato ritmico e assordante, che mi penetra nella pelle e mi fa vibrare le ossa. Le dita mi formicolano; il petto e lo stomaco mi sussultano. Anche se la ragione mi avverte che dovrei essere terrorizzata da una simile cacofonia, in verità è tutto stranamente eccitante e mi fa venire voglia di ballare in un modo in cui non avrei mai pensato di farlo, anche se quando avanziamo un po’ di più nella grande sala, vicino all’area dove le persone girano e volteggiano in quella che immagino sia una danza approssimata, una fredda pietra di paura mi si pianta nel petto alla sola idea di essere così audace da stare tra questa folla e tentare di muovermi così. Non ne sono proprio in grado.

Deepa mi afferra la mano e avanziamo in mezzo alla ressa fino a un lungo bancone dietro il quale ci sono file e file di bottiglie, anche di più di quelle che c’erano nel locale di Glenn. «Prendi quello che vuoi», mi grida Deepa in un orecchio. «Offro io.»

E quindi mi lascia andare la mano e sparisce tra la gente, mollandomi al bar, dove vengo urtata e trascinata nella scia finché in qualche modo mi ritrovo al centro di un gruppo di ballerini che volteggiano, così concentrati sui loro movimenti ritmici e a quanto pare inconsapevoli della mia presenza che in breve mi accorgo che i miei stessi arti stanno quasi imitando i loro movimenti seguendo il ritmo pulsante. Mi agito in un modo in cui non mi sono mai azzardata prima, le anche e le ginocchia sobbalzano secondo la loro volontà. E poi il mio sguardo incontra quello del gentiluomo di fronte a me: mi fa cenno di avvicinarmi con un intrigante sorriso sulle labbra. All’improvviso mi sento così mortificata che non riesco proprio più a muovermi, figuriamoci a continuare con questa sorta di ballo non ballo. È già abbastanza brutto esibirmi tutta sola, ma adesso dovrei anche mettermi a danzare con un uomo a cui non sono stata neanche presentata?

Che cosa mi succede?In qualche maniera riesco a fargli un inchino e a voltarmi di nuovo verso il bancone, dove intravedo

una bella mano affusolata con molti anelli che mi fa un cenno e poi vedo Deepa dietro il bancone, che mi sorride.

Deepa che serve da bere? Eppure a quanto pare in questo Paese, in quest’epoca, servire da bere è un’attività normale per una donna influente che porta brillanti alle dita e alle orecchie.

«Cosa posso offrirti?» mi urla sopra il baccano della musica ritmata.Non so se indulgere o no a un altro bicchiere di vodka quando alza una mano come per fermare i miei

pensieri. «So quello che ci vuole per te. Dammi un minuto», annuncia e poi sparisce dietro una porta che è letteralmente costruita fra gli scaffali di bottiglie e completamente celata alla vista.

La porta nascosta si apre e Deepa spunta fuori di nuovo con in mano un calice pieno di un liquido rosa che mi mette davanti con uno svolazzo della mano. «Grazie», dico e le mie parole vengono risucchiate dal muro del suono e prendo un sorso. Lampone, fragola, limone? Qualunque cosa sia è davvero deliziosa. Dolce, aspro e incredibilmente rinfrescante. Mi sento immediatamente piena di energie e di vita. Deepa sorride.

Quando ho finito il delizioso intruglio rosa, lei mi fa cenno di seguirla. Alza un pannello alla fine del bancone del bar, viene avanti e gesticola verso di me. Standole il più vicino possibile, passiamo attraverso la folla e i ballerini volteggianti prima di arrivare al palco sul quale ci sono i musicisti e una cantante con i capelli lunghi e rossi e qualche ciuffo sulla fronte, stretta in un corpetto nero aderente senza maniche che le lascia scoperto l’ombelico sul quale scintilla un gioiello e con un paio pantaloni neri attillatissimi con una vita incredibilmente bassa. La sua voce è un lamento seducente. Gli altri musicisti sono giovani uomini, tutti molto magri e con indosso pantaloni stretti a vita bassa. Uno di loro è completamente a torso nudo, con il busto sfavillante e le braccia ricoperte da quelli che sembrano rami spinosi colorati di verde e nero. Non ho mai visto prima un uomo mezzo nudo, senza considerare che sta su un palco, in pubblico, e che non riesco a staccargli gli occhi di dosso. Sembra si stia godendo le attenzioni mentre urta con il bacino contro uno strumento che tiene basso e appeso in spalla con un striscia di pelle nera borchiata. Non mi rendo conto di essere rimasta immobile a fissarlo, e certamente con la bocca aperta come un pulcino, finché Deepa non mi grida in un orecchio: «Tutto bene?»

Sento la faccia che mi diventa rossa per la vergogna e Deepa mi prende il braccio e continua a farmi avanzare e finalmente mi conduce lontano dalla folla, davanti a una porta che spalanca: improvvisamente siamo fuori dal locale e lontane dal baccano ritmico.

«Grazie», dico abbozzando un debole sorriso.«Sembravi un po’ sopraffatta. Ti senti male? Ti devo riportare a casa?»«Grazie, no. Sto bene.»I suoi occhi mi scrutano il viso. «Cosa c’è che non va, allora? A me lo puoi dire. Davvero.»

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«Sei molto gentile.»«Se non vuoi parlarne, va bene lo stesso. So che non ci conosciamo da tutto questo tempo. Ma mi

piaci. E il modo in cui sei riuscita a farmi ridere dei miei guai alla festa che ho organizzato un paio di mesi fa l’ho davvero apprezzato, credimi. Così se hai bisogno di un’amica...»

La guardo in quei grandi occhi marroni e so che posso fidarmi di lei. Strano come questa totale estranea, questa donna indo-anglo-americana che ho appena incontrato sia qualcuno di cui so di potermi fidare.

Ma come posso spiegare a parole quello che provo? Cosa posso dire che alle sue orecchie suoni quanto meno razionale? Penso all’uomo mezzo nudo sul palco, ai miei ricordi di Frank che non sono affatto ricordi miei, al fatto di essermi lasciata baciare neanche un’ora fa, e che mi sono svegliata nei panni di qualcuno che non sono...

«Si tratta solo di... non so più chi sono. Mi sono comportata in un modo che non mi si confà affatto. E non so se tu, o chiunque altro, possiate aiutarmi.»

Deepa mi guarda con dolcezza. «Abbiamo tutte fatto cose che ci turbano. Anch’io.»«Sono così confusa.»«Be’, hai sbattuto la testa.»«Questo non ha niente a che vedere con la commozione cerebrale, posso assicurartelo.»Vorrei poterle raccontare la mia vera situazione, senza girarci tanto intorno. Bevo il resto del drink

dal bicchiere che tengo ancora in mano.Mi fermo per un attimo e poi domando: «Deepa, tu credi nella reincarnazione?»Non riesco a capacitarmi che mi sia uscito così, di colpo. Deve essere stato il drink.Deepa ride. «E questa da dove l’hai tirata fuori?»«Perdonami. È stato impertinente da parte mia, e me ne vergogno moltissimo.»«Ehi, ehi, non fare la Jane Austen con me. Non che io non ami quella tipa ma, ho dichiarato che sarei

stata un’amica per te se ne avessi avuto bisogno. Il che, secondo la mia definizione, include il fatto che tu possa chiedermi in cosa credo o non credo. E comunque, la risposta è: sì. Ma posso sapere a cosa mira questa domanda, per citare le parole di Mr. Darcy?»

Sorrido. Che altro avrebbe potuto dirmi per mettermi a mio agio più di così?«Te lo chiedo perché conosco qualcuno che... quello che intendo... Deepa se ti dicessi che qualcuno

ricorda di aver avuto un’altra vita, ma che non ricorda la sua vita attuale? Mi spiego: cosa succederebbe se questa persona pensasse di essere chi era nella vita precedente?»

«E questa persona è... uno dei tuoi amici?»Non so rispondere. Non voglio mentire a Deepa, ma non voglio neanche che mi guardi come se fossi

una pazza.«Va tutto bene. Non penserò che il tuo amico è un pazzo. Non lo penserei neanche se fosse una

donna. O se fossi tu stessa.» Sorride, ma non mi sta prendendo in giro. Ci guardiamo negli occhi e la sua espressione è piena d’affetto. «Davvero.»

Mi prende il bicchiere vuoto e mi rendo conto di avere le mani sudate.«Stai tremando», nota Deepa e mette le sue mani fra le mie. «Va tutto bene. Tranquilla. Non c’è

niente che tu possa raccontarmi su di te che mi possa turbare. Ho visto cose... be’, diciamo che poche cose potrebbero ancora sorprendermi.» Sorride. «Lasciamo perdere, va bene?»

Sono sollevata per aver detto la verità – o almeno la cosa più vicina possibile alla verità – e, cosa ancor più importante, perché lei non mi sta giudicando.

«Ti senti meglio?» mi chiede Deepa.Annuisco.«Non sono un’esperta ma ho sentito di bambini in India che hanno dei ricordi molto vividi di quelle

che si suppone siano le loro vite precedenti e quindi in un certo senso sono confusi. Ma ciò accade generalmente molto prima dell’età adulta.»

«Capisco.»Ma in realtà non capisco. Poiché io non ho solamente i ricordi di una vita passata; io so con tutta me

stessa di essere Jane Mansfield e non Courtney Stone, nonostante tutte le apparenze affermino il contrario, e nonostante tutti gli amici e i famigliari del mondo insistano che non è così.

«Come ho già detto, non sono un’esperta», continua Deepa. «Ma conosco qualcuno che potrebbe aiutarti.» Mi prende la mano. «Vieni.»

Mi riporta al locale, ma non nella sala dove ci sono la musica e i ballerini, perché mi fa passare attraverso una tenda argentata, dietro la quale c’è un’altra porta e poi giù lungo un corridoio alla fine del quale c’è una porta liscia senza cartelli, dipinta dello stesso nero dei muri.

«Non avrei voluto farlo», dice Deepa, «e non voglio dire altro perché sennò sarai tu a pensare che sono pazza.» Si dirige verso la porta alla fine del corridoio. «C’è qualcuno che mi farebbe piacere che tu conoscessi. Ma non so mai se è qui o no. A volte c’è, altre no. Ma se vuoi provare accomodati.»

«Chi?»Deepa mi fa un piccolo sorriso. «Se hai bisogno di me, sarò dietro il bancone del bar.»Osservo la porta per qualche minuto, poi mi giro verso Deepa per avere delle istruzioni solo per

scoprire che se n’è già andata. Le braccia e il busto mi formicolano.«Deepa? Deepa?» chiamo, ma non risponde nessuno: si sentono solo le urla attutite della cantante e

il gemito delle chitarre.M’incammino verso la fine del corridoio; dalla fessura tra la porta e il muro proviene un piccolo

bagliore di luce. Il frastuono assordante della musica va svanendo. Alzo una mano e busso alla porta. Nessuna risposta.

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Metto la mano sulla maniglia e la giro. La porta si apre e dentro uno spazio in penombra c’è una giovane donna molto graziosa con un caschetto brillante di capelli castani che le raggiunge il mento. Le gambe lunghe e scoperte sono accavallate sotto un piccolo tavolino di fronte a lei. Seduto sul lato opposto, un uomo alto che indossa una camicia sgualcita si passa una mano piena di anelli fra i capelli arruffati. Con uno svolazzo della mano la donna appoggia sul tavolo una carta non dissimile da quelle usate dalla chiromante alla fiera a cui sono andata due mesi fa con Mary. Ci sono altre carte sul tavolo, disposte a forma di croce.

«Vedi? Non c’è niente di cui preoccuparsi», dice al giovane che si porta alle labbra la mano bianca e delicata di lei, con dei braccialetti che le tintinnano sul polso, e la bacia. Con un grande sorriso sulla faccia, alza il suo corpo alto e magro dalla sedia, mi supera e infila la porta come se non ci fossi neppure.

La donna con le carte sposta gli occhi da gatta su di me.«Le chiedo perdono», bofonchio e mi giro pronta ad andarmene, con la faccia rossa per avere

interrotto quello che ovviamente doveva essere un colloquio privato.«Resti. La prego», mi ferma una voce dietro di me: il suo accento non è quello di una abitante delle

colonie, ma piuttosto di una signora inglese rispettabile e beneducata.Sbalordita dal cambio di voce, mi giro solo per vedere che è la stessa donna di prima, ma sembra una

persona diversa, con un altro abito e un’altra pettinatura. Invece di una gonna corta, le braccia nude e i sandali, indossa un vestito immacolato a vita alta della più fine mussola indiana e degli stivali bassi di colore fulvo. Non ha più i capelli corti: ora li tiene legati sulla testa, con dei ciuffetti che le cadono graziosamente sulla fronte e il collo. Gli occhi sono di un marrone dorato chiaro e davvero grandi senza più tutto quel nero intorno; le sopracciglia sono elegantemente arcuate. L’incarnato è chiaro e delicato, il sorriso dolce e incoraggiante.

Anche la stanza è completamente cambiata. La dama indica un cestino e un servizio da tè, quando sono entrata non c’erano. Anche il tavolo è diverso ed è illuminato dalle candele. Le carte sono scomparse. Ora dietro di lei c’è anche un camino e il resto della stanza è al buio e non si vede.

Mi fa cenno di sedermi. «Vorresti farmi l’onore di prendere un tè con me?»«La ringrazio ma... come è possibile che lei sia la stessa signora che... le chiedo perdono ma lei è... è

possibile che lei sia la stessa signora che ho visto... che era qui appena un attimo fa?»Ride. È una risata alta e cristallina, quasi musicale. C’è anche qualcosa di familiare in lei, anche se

non l’ho mai incontrata prima. «Ti do la mia parola che non puoi aspettarti che io risponda a due domande alla volta.» Versa il tè in una tazza, ci aggiunge qualche goccia di latte e me lo offre. «Accomodati.»

C’è qualcosa nei suoi occhi, nel cambiamento della sua espressione, che è incredibilmente familiare.«Lei è un’indovina?»«È mio fermo convincimento che ognuno di noi si crei la propria fortuna e a tutti gli effetti se la

predice.» Ride di gola come se fosse soddisfatta della sua arguzia.«Allora chi è lei? Come ha fatto a passare dalla donna che ho visto quando ho aperto la porta e...»

muovo la mano per indicare la stanza, il vestito e mi rendo conto che sto tremando. «Che razza di magia è questa?»

Mi porto la mano destra al collo e cerco la croce d’ambra che non c’è più.«Me l’hai data come pagamento, ricordi?» dice e immediatamente si trasforma in una donna anziana

vestita semplicemente di nero e con un bello scialle e ora è la stessa indovina che ho visto nella mia epoca, nel 1813, e sono di nuovo alla fiera, nella tenda, Mary mi sta aspettando fuori, il suono della festa è attutito anche se la stoffa della tenda è sottile. L’aria profuma di rose per quanto non ci siano fiori qui. L’indovina tiene in mano la mia croce d’ambra e la guarda ammirata, mentre la catena d’oro spunta dal suo pugno. «Questo andrà molto bene», commenta e le sue parole riecheggiano: «Bene... bene... bene... bene... sta bene, Miss Mansfield?»

«...Miss Mansfield, tutto a posto?» chiede di nuovo e io mi ritrovo nel Ventunesimo secolo, nella stanzetta in fondo al corridoio nel locale, non in una tenda durante una fiera alla mia epoca, e la donna ha di nuovo assunto l’aspetto della giovane con la gonna in mussola indiana. I suoi occhi color marrone dorato mi guardano gentili e preoccupati.

Mi scosto dal tavolino, il cuore mi batte all’impazzata: «Che significa tutto questo?»«Mi perdono se l’ho spaventata», dice. «Qui è al sicuro, Miss Mansfield. Non ci sono arti oscure.»«Conosce il mio nome... il mio vero nome.»«Certo, mia cara», risponde e prende un sorso di tè. «Ci siamo incontrate prima.»«Allora non me lo sto immaginando. Lei è... la stessa chiromante della fiera e anche la giovane con le

carte e il vestito corto, ma... come è possibile?»«Non è più impossibile del fatto che lei sia in questo corpo e non in quello in cui ho avuto il piacere di

incontrarla.»«Non riesco a capire come mi sia potuta capitare una cosa del genere.»«Non desiderava una vita diversa la prima volta che ci siamo incontrate? Non ambiva a essere

qualcun altro? A dire il vero, ricordo che ha pronunciato proprio queste parole nella mia tenda quel giorno, alla fiera.»

«Sta insinuando che sono stata io a volermi trovare qui?»«E non le ho forse consigliato di non andare a cavallo durante l’estate?»«Sì, certo ma...»«Ed eccoci qua», conclude sorridendo, con gli occhi che le brillano. «Perché non siamo forse ‘fatti

della stessa sostanza dei sogni’?»«Ma questo non è un sogno. Io non sto dormendo.»

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«Giusto. Ma sicuramente non è sveglia.»«Le chiedo scusa, ma che razza di scherzo è questo? Una persona può essere solo sveglia o

addormentata.»«È così.»«E allora se non sto dormendo come è possibile che io sia sveglia?»«Davvero una buona domanda, mia cara, e farò quanto posso per risponderle. Ma prima, la prego, si

sieda, e beva il suo tè prima che si raffreddi.»Indica la tazza che ancora non ho toccato.Mi siedo e con mano tremante mi porto la tazza alle labbra. Il tè è ancora caldo, forte, nero e

profumato di rosa. Lo bevo tutto e mi sento già più rinfrancata. Anche la paura non c’è più.«Allora. Ho l’impressione tu stia già meglio», commenta sorridendomi. «Ora, per quanto riguarda la

sua domanda: la maggior parte di noi vive la sua vita quotidiana come se stesse dormendo. Non guardiamo quello che abbiamo di fronte agli occhi. Non vediamo che ci costruiamo da soli delle fantasie sulle intenzioni nostre e altrui senza avere la benché minima conoscenza di ciò che noi o loro sono davvero. Non facciamo altro che immaginare, siamo dei narratori, se preferisce, e il peccato è che nessuno di noi riconosce questo miserevole stato.»

«Narratori? Devo confessare che sono ancora al buio.»«Bene, allora dovrò sforzarmi di spiegare. Prendiamo in considerazione, per esempio, la donna che

lei è diventata, Courtney Stone.»«Non so nulla di lei.»«Esattamente!» dice ridendo. «Eppure ha costruito una storia sulla sua vita. Una storia che la vuole

imprudente, nel migliore dei casi, e perduta, nel peggiore.»«Ho motivo di pensare che non sia esattamente come dovrebbe essere una giovane donna.»Inarca un sopracciglio. «Perché? Perché ha fatto ciò che lei stessa ha quasi fatto, Miss Mansfield?»«Cosa intende? Si spieghi», le chiedo ma le mie gote si infiammano al pensiero di essere stata con

Edgeworth nel bosco, quasi pronta a rinunciare alla mia innocenza per lui.«È stato lui a dirle che era meglio aspettare, non lei.»«Non ha il diritto di parlare in questo modo.»«E allora perché è venuta da me? Per sentire la verità o per iniziare una conversazione educata senza

alcuna sostanza? Non ne ha avuto abbastanza di discorsi simili in vita sua?»Mi guarda con gentilezza e i suoi occhi sono quelli dell’anziana alla fiera, la chiromante che mi ha

parlato dei miei genitori, dei miei amici, della mia vita, come se avesse accesso ai miei pensieri più intimi. La donna che mi ha spaventato così tanto con la sua conoscenza della mia vita che ho lasciato la tenda tremando e ho promesso a me stessa che non mi sarei più fatta tentare da simili stupidaggini. Ed è stato così che ho deciso di non prendere in considerazione niente di ciò che mi aveva annunciato, incluso l’avvertimento di non montare Belle durante l’estate.

Mi cingo il busto con le braccia per contrastare il freddo che si è impossessato di me.«Vede, mia cara», prosegue l’indovina, «questa storia che ha costruito su Courtney ha un solo punto

di vista: il suo. È completamente cieca riguardo al punto di vista di Courtney, ai suoi desideri, ai suoi sentimenti, alle sue intenzioni. Non sa nulla di lei, eppure ha l’arroganza di presumere di poter scrivere la sua storia. Questa è l’essenza stessa dell’arroganza, non trova?»

Sento la faccia che mi brucia. «Come potrei conoscere la sua opinione? Lei non è nulla per me.»«Allora le farò un altro esempio, Miss Mansfield. Due persone a cui è legata intimamente e che

suppongo conosca molto bene. I suoi genitori.»«Mi sta dicendo che non conosco i miei stessi genitori?»«A quanto pare, sembra che lei sappia sul loro conto quanto sa su Miss Courtney Stone.»«Che sciocchezza.»«So che ritiene che sua madre disprezzi suo padre e non l’abbia mai amato, nonostante la fedeltà e

l’amore che lui prova per lei.»Avverto lo stesso freddo che ho sentito quel giorno, nella mia epoca, nella tenda dell’indovina,

quando ha letto chiaramente i miei pensieri.«Non parlerei mai di mia madre in questo modo. E inoltre cosa c’entra con la mia situazione?»«Sto solo cercando di spiegarle, Miss Mansfield, che la sua cosiddetta conoscenza dei sentimenti nei

riguardi dei suoi genitori è più che altro una favola come la sua cosiddetta conoscenza di Courtney Stone.»

«So quello che vedo.»«Eppure non è tutta la storia. Suo padre è molto attento nei confronti di sua madre, ma di certo non

la ama. Rimpiange ancora la perdita di una ragazza della sua gioventù, Miss Allcott, che non gli fu permesso di sposare. Sua madre conosce il passato del marito e anche se non lo amava quando si sono sposati ha sviluppato un forte affetto per lui. Non è però mai riuscita a rassegnarsi al fatto che lui non la ami, anche se cerca di nasconderlo dietro la sua impeccabile gentilezza. E così è diventata acida e finge indifferenza nei suoi confronti, un sentimento che non prova affatto. È rosa dalla gelosia e fa soffrire entrambi per questo motivo.»

Mio padre innamorato di un’altra donna? Mia madre che soffre di gelosia per mio padre, l’uomo la cui educazione disdegna? Impossibile.

Ma allora perché mi sento come se il mondo fosse sottosopra? Mi afferro al bordo del tavolo. «Non ci credo.»

«Certo che non ci crede. Lei dopotutto ha scritto le loro storie. ‘Storie vere’ ci piace chiamarle. Che idea ridicola!» e si lascia scappare una risata, cristallina e squillante come un campanello.

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Poi mi guarda con un po’ di preoccupazione. «Mia cara», dice, «sembra che lei abbia davvero bisogno di un cordiale. Mi dispiace di aver riso così di cuore di ciò che le deve sembrare proprio scioccante, ma andava fatto. Non riderne ma raccontarlo. Altrimenti come sarebbe stato mai possibile che lei si svegliasse?»

«Sono sveglia», obietto come un bambino impaziente.«No», replica con gentilezza, «ma mi auguro che lo sarà.»Tira fuori un decanter di cristallo e mi versa un liquido color rubino in un bicchierino che mi

appoggia davanti, vicino alla tazza di tè.«Non ha l’opportunità di mettersi nei panni di sua madre, Miss Mansfield. Ma può indossare quelli di

Courtney. Deve ammettere che non c’è niente di meglio per capire un punto di vista diverso.»Eh, sì. Mi rivedo nel locale neanche un’ora fa, presa dal desiderio di Frank, mentre gli permettevo di

baciarmi e poi lo respingevo e correvo via per la vergogna e il dolore nell’espressione di Wes e rabbrividisco al pensiero.

«Non intendo calarmi nei panni di Courtney, qualunque cosa pensi io abbia detto.»«Una persona dovrebbe scegliere le parole con più attenzione, Miss Mansfield. Non voleva una vita

diversa l’ultima volta che ci siamo incontrate? ‘Una vita completamente diversa’ mi ricordo che si è espressa così.»

Non posso negare di aver pronunciato quelle parole.«E non ha anche desiderato fare qualcosa di importante? Di contribuire a qualche nobile causa?»In verità, rammento di aver detto qualcosa del genere all’indovina quel giorno, nella tenda.«Ebbene questa è la sua chance, perché non vi è nulla di più nobile che mettere da parte se stessi per

il bene di un altro», sentenzia la donna.«Non capisco.»«Di sicuro non deve aver pensato che i suoi desideri non avrebbero avuto un prezzo. Perché qui c’è

molto da fare. Consideri lo stato della vita che ha ereditato. Courtney ha bandito due gentiluomini dalla sua esistenza, che continuano a tornare a dispetto degli sforzi delle sue amiche e, potrei aggiungere, a dispetto di ciò che lei ritiene sia giusto.»

«Ciò che lei crede... sta dicendo che non è giusto?»«Questa parte della storia, mia cara, sta a lei determinarla.»«Ma come potrei essere di qualche aiuto se non so nulla di questo mondo?»«Potrà anche essere arrivata qui con una prospettiva limitata, ma è sicuramente fresca. E io reputo

che Courtney, e anche lei, abbiate bisogno di una prospettiva del genere. Beva», suggerisce e il suo tono gentile mi spinge a obbedire.

Mi porto il bicchiere alle labbra. I fumi del liquido rubino mi penetrano piacevolmente nel naso. Sa di mirtilli tiepidi in un giorno caldo. Bevo in un sorso. È davvero gradevole e corroborante.

La donna sorride in segno di approvazione. «La veda così. Quello che rende vera una storia non è se è realmente accaduta, poiché la verità è la sua parola contro la mia o la sua contro quella di Courtney o quella di Courtney contro quella di Frank o Wes e così via; chi fra noi, dopotutto, sta mentendo veramente? Ciò che rende una storia vera è se in essa si riflette una verità sulla natura umana, la consapevolezza e l’illuminazione sul fatto che davvero non sappiamo niente e che niente di ciò che pensiamo sia vero lo è, visto che ce lo siamo costruito da noi. Come Miss Elizabeth Bennet, la quale si rende conto che la maggior parte delle convinzioni che si era fatta su Mr. Darcy e anche sulla sua amica più cara non erano altro che un prodotto della sua immaginazione. Eppure le parole più memorabili che pronuncia e le più vere sono queste: ‘Sino a oggi non mi ero mai conosciuta’. Parla di se stessa! Capisce? Di se stessa. Non di qualcun altro.»

«Orgoglio e pregiudizio è il mio libro preferito. Che meraviglia che lo conosca così bene.» Il sorriso della donna ha una punta di malizia questa volta. «Non c’è niente di meraviglioso in tutto

ciò. Mi fa piacere che abbia a disposizione quei libri; non troverà un amico più affidabile o un consiglio più saggio. Se così non fosse torni pure a trovarmi.»

«Rimarrò per sempre qui allora, nella vita Courtney?»«Intende dire che se ne starà seduta ‘come la Pazienza su una tomba, sorridendo al dolore’?»«Lei parla per enigmi, Miss... com’è possibile che io non conosca il suo nome?»«Non preferirebbe invece trovare risposta all’enigma?»«Certamente.»«Bene allora, quando alla fine si sveglierà, la risposta sarà sua.»«Io non...»«Solo allora ci rivedremo», conclude, alzandosi con fare regale dalla sedia, mentre la luce delle

candele non le illumina più il volto che rimane nell’ombra. «È stato un incontro piacevolissimo.» E con un inchino si ritira fra le ombre.

E così com’ero sicura che fosse lì, adesso so che se n’è andata. Se è uscita da un’altra porta, allora l’ha fatto senza il minimo rumore.

Me ne resto seduta per un paio di minuti e in breve tempo il fuoco si spegne e la stanza diventa fredda. Le candele sono solo dei mozziconi ormai consunti. Mi strofino le braccia per il freddo e la stanza viene inghiottita da un buio assoluto. Ritrovo a tentoni la porta da cui sono entrata e la apro.

La luce lieve proveniente dal corridoio entra nella stanza rivelando uno scenario completamente diverso! Non c’è alcun camino, tavolo, servizio da tè, né sedie, ma solo alcuni scaffali pieni di scatole e un pavimento spoglio.

Con le mani che tremano mi precipito fuori dalla stanza, chiudo la porta alle mie spalle e mi appoggio contro il muro. Che io abbia immaginato tutto l’incontro?

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No. Lei è reale come il battito del mio cuore in questo petto, in questo corpo che è mio, ma non del tutto. È reale come l’amore che provavo per Edgeworth, quell’amore che ancora mi trafigge il cuore.

Perché sto pensando a lui proprio adesso? Ma certo, sto pensando a lui perché, quando sono andata alla fiera con Mary, camminavamo a braccetto dirigendoci verso la tenda della chiromante e lei mi ha detto: «Tentiamo la sorte, Jane? Oh, come sarebbe bello farci predire il futuro!» Io mi sono comportata come se fosse un mero divertimento. Ma era Edgeworth che avevo in mente più di tutto. L’avevo sorpreso mentre mi tradiva. Era il suo l’unico nome che ascoltavo con angoscia. E così sono entrata nella tenda dell’indovina, chiedendo a Mary di aspettarmi fuori. E ho desiderato con tutto il cuore una vita diversa. Ho desiderato con tutto il cuore di trovarmi da un’altra parte, da qualsiasi altra parte. Di essere qualcun’altra. Se solo fosse possibile, ho pensato.

Ed eccomi qua.

Dodici

MI faccio largo tra la folla di ballerini e persone assiepate al bar e vado in cerca di Deepa. Non la vedo da nessuna parte ma confido che tornerà. Mi fermo davanti a una ringhiera su una specie di ballatoio che dà sul bancone, così da avere una panoramica migliore. Spero ritorni a breve e che non le dispiaccia riportarmi a casa, perché inizio a sentire gli effetti di tutto quello che ho vissuto in questa lunga giornata e non c’è cosa che apprezzerei di più di una stanza silenziosa e un letto comodo.

I musicisti non sono più sul palco e malgrado si senta ancora della musica, non c’è dubbio che provenga da uno di quegli intelligenti apparecchietti produci-musica, anche se non è così ad alto volume come quella suonata dal gruppo. Per quanto sia sollevata dalla mancanza di frastuono e affascinata dallo spettacolo dei ballerini e della gente che si diverte, non riesco a smettere di pensare alle parole dell’indovina. Devo portare a termine un compito. C’è un motivo per cui mi trovo qui.

Ma come posso io, che non so nulla di Courtney o degli strani tempi in cui vive, mettere ordine nella sua vita? Proprio io che non sono riuscita a resistere alle avances di un uomo che per me è un completo estraneo.

E come a sottolineare questo pensiero, vedo accanto al bancone una coppia avvinghiata in un bacio tanto ardito che sembra vogliano inghiottirsi a vicenda. Nessuno pare sconvolto da questo spettacolo; anzi, le signore e i gentiluomini intorno a loro hanno l’aria di non notarli affatto o al massimo gli rivolgono un’occhiata di sfuggita prima di tornare a farsi i fatti loro.

Atti del genere sarebbero impensabili nel mio mondo, ma questo posto non assomiglia per niente al mio mondo, questo è fin troppo chiaro. E per quanto io abbia gioito oggi al pensiero di possedere una casa tutta per me e di fronte alla prospettiva dell’indipendenza, ho paura non potrei essere abbastanza forte da accettare questo grado di dissolutezza morale. La mia condotta con Frank di stasera e quei pensieri – o ricordi – inquietanti di aver fatto molto di peggio, hanno davvero scosso la percezione che ho di me stessa.

All’improvviso mi sento toccare una spalla, mi giro e c’è Wes. Che gioia notare la sua espressione gentile accesa da un sorriso, quando mi ricordo che è stato testimone del mio vergognoso comportamento con Frank. E allora non riesco più a guardarlo negli occhi.

È già abbastanza brutto che Wes mi abbia visto baciare Frank, ma saprà davvero quanto mi sono spinta in là nel peccare?

Avvicina la bocca al mio orecchio: «Speravo di trovarti qui. Stai bene?»Annuisco, ancora incapace di guardarlo.«So che non sono fatti miei. Ma hai davvero intenzione di dare a Frank un’altra possibilità?»Riesco a sentire il rossore che mi sale lungo il collo. «Non ho alcuna scusa per la mia condotta.»«Dunque non hai intenzione di...»«Provo davvero vergogna.»La chiromante mi ha avvisato che starà a me determinare se è mio – o per meglio dire di Courtney –

interesse consentire a Frank di fare parte della mia vita. E lo stesso vale per Wes. Questa parte della storia, ha precisato, sta a lei determinarla. Ma so che devo evitare a ogni costo qualunque uomo mi spinga quasi a gettare via la mia reputazione, o ciò che ne rimane.

Mentre, per quanto riguarda Wes, la sua espressione è così buona che mi sento al sicuro con lui. A dispetto di quello che Anna e Paula sostengono abbia fatto. Anche se... mi rendo conto della saggezza degli ammonimenti di Paula e Anna nei confronti di Frank e, in effetti, lo stesso Frank ha ammesso di essersi comportato male... non dovrei dunque fidarmi dei loro consigli anche per quanto riguarda Wes?

«Non c’è nulla per cui ti debba sentire male, Courtney. Ha visto uno spiraglio e ci ha provato.»E io gli ho permesso di farlo. Ma non esprimo questo pensiero ad alta voce.«Sei molto buono», dico.Mi permetto di incrociare lo sguardo di Wes per un momento e i suoi occhi non tradiscono altro che

bontà. La bontà di un uomo compassionevole concessa a una donna compromessa. A meno che – e posso solo sperare sia così – lui non sappia fino a che punto Courtney si è compromessa con Frank; se solo riuscissi a scacciare dalla testa il pensiero di essere stata a letto con Frank... ma non ci riesco. Sono immagini così reali, così vivide che la mia capacità di considerarle come parte della vita di Courtney e non della mia s’indebolisce ogni secondo che passa.

Non riesco a sostenere oltre lo sguardo di Wes. Così sposto il mio sul bancone, dove c’è Deepa. Agito la mano finché non si accorge di me e mi sorride, un sorriso smagliante che si vede fin qui.

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E poi noto anche un’altra dama, una giovane donna dai capelli neri che sta a qualche metro di distanza dal bar e che sta guardando me. O Wes. Non saprei dirlo. Ma c’è qualcosa nel suo visino pallido a forma di cuore, nei suoi occhi a mandorla, che mi risulta stranamente familiare anche se naturalmente non l’ho mai vista prima.

E poi Deepa compare sul ballatoio e mi accorgo che anche Wes sta guardando la donna che ancora ci fissa.

«Hai festeggiato abbastanza per stasera?» mi domanda Deepa con un sorriso e io annuisco, sorridendo di rimando. Wes distoglie lo sguardo dalla donna e concentra la sua attenzione su di noi. «Fantastico, allora andiamo», dice Deepa. «Stammi bene Wes.»

«Ciao Deepa.»Lei mi fa un cenno, si mette la borsa in spalla e si volta verso le scale.«Arrivederci», dico a Wes e lui fa per prendermi la mano.«Non essere così dura con te stessa, Courtney.» Me la stringe. Sono quasi sopraffatta dalla sua

gentilezza e riesco solo ad annuire, prima di affrettarmi giù per le scale, seguendo Deepa che si allontana. Per quanto riguarda la donna che mi era stranamente familiare e che ci stava fissando, sembra scomparsa.

Per quasi tutto il tragitto verso casa io e Deepa ce ne stiamo in silenzio, anche se nella sua auto c’è la musica. Mi accarezza il braccio un paio di volte e mi rivolge un sorriso rassicurante, ma non mi chiede niente sul mio incontro con l’indovina e io non dico niente anche se vorrei.

Quando ferma la macchina di fronte a casa mia, mi azzardo a chiedere: «Posso raccontarti della donna che ho incontrato quando mi hai lasciata?»

«Ti rendi conto», esclama, guardandomi negli occhi mentre la sua voce si riduce a un sussurro, anche se in macchina ci siamo solo noi, «che quello che è accaduto stasera è un avvenimento di cui non dovresti parlare con il 99,9 per cento della popolazione? E lo stesso dicasi dell’opportunità di raccontare che una certa persona viene da un’altra vita. Alcune cose non sono per tutti, sai? Non chiedere e non dire niente.» Prova a farmi un sorriso spensierato, ma mi rendo conto che è piuttosto seria.

La guardo con timore. «Suppongo di essere troppo incline a volte a domandarmi se qualcosa non sia semplicemente il frutto della mia bizzarra fantasia – anche quando so che non è così – ma chiaramente hai avuto a che fare anche tu con quella donna.» Faccio una pausa, desiderando altre informazioni ma allo stesso tempo non volendo essere impertinente.

«Senza offesa», dice Deepa, «ma questo non è un argomento di cui voglio parlare. Non ero neanche sicura di mandarti giù, stasera. Una volta che ho parlato troppo – e con la persona sbagliata, dovrei aggiungere – non ho più visto quella donna – come la chiami tu – al locale per almeno sei mesi. Inoltre se parlassi di lei la ridurrei a una semplice storiella che nessuno riuscirebbe comunque a capire. E allora non tornerebbe mai più e sarebbe come se non fosse mai esistita.»

Non commento niente ma credo di capire. D’altronde cosa direbbe Mary se tornassi nel mio Paese, nella mia epoca e cercassi di spiegarle cosa è successo qui? Non mi crederebbe, io stessa stenterei a credermi.

«Quindi», riprende Deepa, «cosa ne pensi dell’Awakening?» Sorride timidamente. «A parte ciò di cui non possiamo parlare?»

«Awakening?» «Sì, il locale.»«Awakening.» Non mi sfugge l’ironia del nome: «risveglio». «È stato... emozionante. Diverso. È da

molto che lavori lì?» «Ho una quota del locale. L’ho presa dopo che il divorzio da mio marito è diventato definitivo, due

mesi fa. Quando tu e io ci siamo incontrate per la prima volta.»Ripenso alla mescolanza di signore e gentiluomini che ho visto in quel locale. «Posso chiederti quali

sono i criteri di selezione degli astanti?»Deepa ride. «Sei troppo forte, Courtney.»Rido anch’io con lei, sebbene non ho idea del perché e mi appresto ad andarmene, ringraziandola

sinceramente per la sua gentilezza.«Facciamolo ancora, presto», mi dice e io le faccio un cenno di saluto con una sensazione positiva nel

cuore. Credo di essermi trovata una vera amica stasera.Mentre salgo le scale ripenso al fatto che Deepa abbia ottenuto una quota del locale come

conseguenza del suo divorzio. Anche l’affermazione di Paula a colazione secondo cui una donna può divorziare da un uomo a causa dell’adulterio di lui è stata abbastanza sorprendente. Ma che una donna possa persino ottenere un tornaconto economico dalla faccenda va oltre ogni immaginazione. Certamente la cugina di mia madre, quella che anni fa quest’ultima consolava, non aveva una possibilità simile. Lei, come tutte le altre donne nella medesima situazione, potevano vivere solo una vita di miseria e dipendenza mentre il marito si rendeva ridicolo.

Chissà se mia madre avrebbe divorziato da mio padre se avesse potuto. Non riesco a immaginare un’eventualità del genere. Non avrebbe mai voluto far sapere a tutti che lui non l’amava, posto fosse davvero così. No, anche se penso che mio padre possa portarsi nel cuore un amore perduto di gioventù – e cercare di figurarmi mio padre, esile, capelluto e logorato dalle preoccupazioni, come un ragazzo, e per di più innamorato, è davvero uno sforzo di immaginazione – non posso credere mia madre possa mai aver amato mio padre. La veggente sarà anche in grado di predire una caduta da cavallo, ma mi chiedo se non s’inventi delle storie come proclama che faccia io.

Eppure... è davvero la stessa veggente che ho incontrato nella mia epoca, nel mio Paese. E non posso negare fosse allora a conoscenza, come adesso, di aspetti della mia vita che non ho mai osato rivelare ad

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anima viva. E per questo non posso dimenticare facilmente niente di ciò che ha detto.Apro la porta e benedico la solitudine delle mie stanze, il cui silenzio enfatizza il fischio nelle mie

orecchie. Mi riempio un bicchiere d’acqua e affondo nei cuscini del divano per riflettere sugli strani accadimenti di stasera.

C’è molto lavoro da fare qui, ha detto la donna. Non c’è niente di più nobile che mettere da parte se stessi in favore di un altro. Consideri lo stato della vita che ha ereditato.

Lo stomaco brontola, ricordandomi che non ho in pratica toccato cibo dalla colazione con Paula e Anna. Non potrò svolgere bene il mio lavoro con la pancia vuota, né tanto meno esaminare lo stato della vita ereditata.

E così recupero il barattolo di gelato variegato all’amarena dal frigo, come lo chiama Wes, e torno sul divano.

Che è tutto ciò che riesco a fare per ora. La mia mente è piena di nobili missioni e salti nel tempo di duecento anni e per una sola sera possono bastare.

Anche se... recupero la pila di romanzi di Jane Austen dal tavolino accanto al letto. Emma, è ciò di cui ho bisogno ora. Ci sarà tempo a sufficienza, domani, per fare i conti con quello che ha detto la veggente.

Apro lo spesso volume, impaziente di tuffarmi in una storia tutta nuova.

Tredici

QUALCUNO sta bussando alla porta e io balzo in piedi dal divano. Ho dormito vestita. Ho quasi finito Emma e il barattolo di gelato giace sul tavolino, vuoto. Detesto ricevere visite in queste condizioni, ma non oso ignorare una chiamata tanto insistente.

«Chi è?» gracchio con l’orecchio attaccato alla porta.«Sono Sandra, tesoro. Apri.»Sandra? Ah sì, Anna e Paula hanno menzionato qualcuno di nome Sandra ieri, a colazione. È legata a

David, che si suppone sia il mio datore di lavoro. Apro la porta e mi trovo davanti una creatura bellissima, leggiadra ed eterea, come una principessa delle favole con lunghi capelli setosi biondo scuro, enormi occhi azzurri, una carnagione delicata e un sorriso adorabile. Non sembra avere più di ventun anni.

«Come stai, tesoro? Siamo stati tutti in pensiero. David naturalmente è andato fuori di testa, ma sai come fa.» Alza gli occhi al cielo. «Devi pensare che quell’uomo non potrebbe vivere senza di te neppure durante il fine settimana. Se io fossi in te mi farei dare un aumento. Come se potessi mai essere pagata abbastanza per quello che fai.»

Ha una voce incredibilmente profonda, come quella di Mary, ma più dolce e non così tanto di gola. Questa somiglianza è sufficiente per farmi provare una stretta al cuore al pensiero della mia amatissima amica.

I grandi occhi azzurri di Sandra mi scrutano il viso: «Sembri un po’ stanca. Ti senti bene?»Sorrido. «Alla perfezione.»«Nessun dolore?»«Niente di particolare.»Apre la bocca come se stesse per dire qualcosa ma ci ripensa. «Che ne dici se tu ti fai una doccia e io

metto su un caffè?» La seguo dentro il bagno, standole il più vicino possibile mentre tira di lato una tenda svelando una vasca da bagno nascosta, apre un getto d’acqua e poi chiude di nuovo la tenda.

«Salta dentro», mi invita. «Ti meriti di essere attesa per una volta. Ti prenderò persino i vestiti e ti accompagnerò in ufficio. Se ovviamente la cosa non ti dispiace. Naturalmente se preferisci andare con la tua macchina...»

La mia macchina. Guidare una macchina. Il solo pensiero è elettrizzante, ma non saprei da che parte iniziare. Sandra deve essere la cameriera di David, e lui l’avrà mandata qui per scortarmi al mio posto di lavoro. Io, con un posto di lavoro. Un lavoro tutto mio.

Ma Paula ha detto che non sarei dovuta andare a lavorare oggi. Oh, quanto vorrei che lei, Anna o Deepa fossero qui per darmi un consiglio su come uscire da questa situazione.

Be’, dovrò cavarmela da sola. E devo ammettere che provo un’enorme curiosità per il mio posto di lavoro.

Sorrido a Sandra. «Preferirei che mi accompagnassi. Te ne sarei molto grata.»Mi guarda con un’espressione interrogativa e poi schizza fuori dal bagno. Mi spoglio, provo l’acqua

con un piede. La temperatura è perfetta. Oltrepasso la tenda e sono immediatamente sommersa dalla cascata di acqua e vapore. Che paradiso.

Un assortimento di alti contenitori sugli scaffali a vista attira la mia attenzione. Due di questi contengono qualcosa chiamata shampoo. E balsamo, qualsiasi cosa esso sia. Una crema per il corpo. Suona tutto molto esotico. Ah, ecco qualcosa di familiare finalmente: due pezzi di sapone profumato. Potrei usare il sapone per lavarmi i capelli, ma sono curiosa di provare il contenuto delle bottiglie, che sono fatte di un materiale opaco e morbido e ricoperte di scritte che lodano le «miracolose» e «rivoluzionarie» proprietà dei vari intrugli. Ci sono così tante scritte che potrei bollire e avvizzire prima di riuscire a finire di leggere tutto.

Fortunatamente prevengo un simile esito con la bottiglia più vicina a me, le cui istruzioni su come lavare i capelli sono così dettagliate che rido mentre mi massaggio il cuoio capelluto con questa emulsione fragrante. È mai possibile che qualcuno si applichi davvero questa mistura sui capelli bagnati

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per poi non risciacquarseli, se non fosse indicato nelle istruzioni?Non ricordo l’ultima volta che mi sono sentita così pulita; è completamente diverso dal fare il bagno

in una vasca con acqua che diventa presto sporca e dunque non si può far altro che rimanere a mollo nel proprio sudiciume e cercare di rimuoverne un po’ con un asciugamano.

Ruoto la manopola come ho visto fare a Sandra cercando di arrestare il flusso d’acqua con il risultato che viene fuori ancora più calda e mi scappa un urlo prima di riuscire a chiuderla.

Un veloce colpo alla porta e Sandra si affaccia fra i vapori: «Tutto bene?»Afferro un asciugamano per coprirmi. «Sì, grazie. È stata solo un po’ d’acqua calda.»Sandra alza di nuovo gli occhi al cielo. «Innanzitutto un aumento. Poi un posto dove le cose

funzionino davvero. Ma dobbiamo portarti al lavoro prima che David abbia un infarto. Ha chiamato tre volte mentre eri nella vasca. Gli ho detto che se avesse chiamato di nuovo avremmo fatto anche più tardi e così penso che questo dovrebbe salvarti dal ricevere un’altra telefonata prima di arrivare lì.»

«Ti ringrazio.»Fedele alla parola, Sandra mi ha tirato fuori un completo appoggiandolo sul letto. Pantaloni neri

lucidi e un piccolo corpetto della stessa tinta senza maniche. Il corpetto è già fin troppo succinto, ma...Sandra mi mette una mano sul braccio. «Qualcosa non va, tesoro?»«Sono forse a lutto?»Sandra mi guarda a bocca aperta e poi ride. «Spero proprio di no. Ma da quando hai smesso di

vestirti di nero?»Tira fuori da un cassetto un vestito bianco svolazzante con dei fiori blu, non lunghissimo

naturalmente, ma che arriva almeno al ginocchio o poco sopra. Anche questo è senza maniche.«Che te ne pare?» mi chiede.Non posso mostrare le gambe. Riesco a malapena a immaginare di mostrare le braccia.«Forse potrei abbinare i pantaloni neri con qualcosa di più colorato? E con le maniche? Mezzo lutto è

preferibile al lutto intero.» Sorrido in quello che spero risulti un modo conciliante, ma lei mi guarda perplessa come prima.

«Va bene.» Tira fuori un corpetto bordeaux abbottonato a maniche lunghe e un colletto da camicia. «Almeno non ti congelerai con l’aria condizionata. E non dovrai preoccuparti di depilarti le gambe.» Lancia un’occhiata a un orologio, un oggetto molto femminile che è più che altro un gioiello, e che porta – che idea geniale! – legato al polso: «Il che ti farebbe fare ancora più tardi».

«Ma certo», esclamo aprendo la porta in modo che io possa vestirmi per conto mio mentre mi domando cosa potrà mai voler dire «aria condizionata» e «depilarsi le gambe». Ormai sono in grado di indossare e abbottonarmi i vestiti da sola, ma il vocabolario di questa società rimane comunque un mistero.

Quando esco dal bagno, sto molto bene, essendo finalmente riuscita ad applicarmi il mascara senza colpirmi gli occhi e senza che sembri mi sia passata della cenere sulla faccia. Sandra mi aspetta con un mazzo di chiavi in mano, la borsa appesa al braccio.

«Comunque», esclama premendo un affare a forma di scatola nella finestra che mette fine al fastidioso rumore che ho sentito da quando sono uscita dalla doccia, «il tuo padrone di casa dovrebbe davvero fare qualcosa per questa sottospecie di aria condizionata. Stavo per offrirmi di asciugarti i capelli», dice indicando un oggetto marrone dalla forma strana appoggiato sul tavolo, «ma con questo caldo non se ne parla proprio.»

In effetti fa davvero caldo nella stanza. Un rivolo di sudore mi scende lungo la schiena. Spero non si noti. Spero anche che quella fresca sostanza antisudore/deodorante trovata nell’armadietto del bagno e che mi sono messa sotto le ascelle secondo le istruzioni, funzioni veramente.

Non importa comunque, dopo pochi minuti siamo passate attraverso l’incredibile canicola di fuori e siamo entrate nella fresca macchina grigio scuro e iridescente di Sandra, che si mette in moto senza praticamente fare rumore. Questo, me ne rendo conto ora, deve essere l’aria condizionata.

In effetti, mi viene in mente che l’auto di Paula e anche quella di Deepa erano refrigerate in un modo simile. Erano entrambe, mi pare, molto più fresche dell’aria di fuori, anche se sul momento non ci ho fatto caso. Forse, come ha detto la veggente, sono davvero inconsapevole di certe cose. Mi domando cos’altro non sto notando, soprattutto quando c’è così tanto a catturare la mia attenzione in questo strano mondo che riesco appena a rispondere alle cortesi domande di Sandra riguardo a come sto e se la testa mi fa ancora male, e ai suoi gentili consigli sul non lasciare che David mi carichi di troppo lavoro in una volta sola. Invece sono quasi completamente assorta nell’osservare a bocca aperta dal vetro frontale e da quelli laterali lo spettacolo in movimento degli alberi esotici con le cime potate a forma di cespuglio, le auto che corrono e gli edifici dalla strana forma in vetro e muratura lucente. Eppure allo stesso tempo non riesco a scacciare la fastidiosa sensazione generata dai riferimenti di Sandra allo stipendio inadeguato, ai padroni di casa scortesi e al cattivo stato del mio appartamento. Non posso fare a meno di concludere che Courtney Stone vive in uno stato di penuria tale che persino una serva si sente in diritto di darle dei consigli. Queste circostanze – la mancanza di un personale di servizio tutto mio inoltre lo indica chiaramente – sono mortificanti per la figlia di un gentiluomo.

Eppure, può una donna che si guadagna da sola il pane e che viene accompagnata sul posto di lavoro e assistita da una cameriera carina e seducente su un’auto che è chiaramente migliore di quelle di Paula e Deepa, essere considerata davvero povera? Può una donna che ha una tale abbondanza di vestiti, che possiede un proprio mezzo di locomozione, che dispone di un suo appartamento anche se consta solo di poche camere, non essere ricca? Forse non ricca di terreni e proprietà come quelle di casa Mansfield, non ricca alla maniera di Edgeworth che ha due tenute e una casa in città, ma ricca quanto può esserlo una donna. Ricca di indipendenza, di una solitudine scelta consapevolmente e di forza di volontà. Ricca

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della determinazione di scoprire quali soddisfazioni mi aspettano in questa meravigliosa e misteriosa avventura chiamata lavoro.

«Eccoci qua», dice Sandra allegramente mentre gira con la macchina in una discesa che porta sotto il livello della strada a una vera e propria casa sotterranea per auto. È incredibile ci siano così tante macchine in questo posto ben illuminato, che sembra esistere solo per contenerle. Sandra sceglie un parcheggio, come lo chiama lei, e presto ci troviamo in una stanza mobile come quella nella clinica del dottor Menziger. Quando la porta si apre, alcune persone escono e io mi muovo come se dovessi fare altrettanto, ma Sandra mi afferra per un braccio.

«Non ancora», mi ferma.La porta si apre altre tre volte prima che Sandra si muova per uscire, questa volta tenendomi per

mano per essere sicura le stia dietro. Vengo salutata da un coro di voci di giovani uomini e donne, alcuni seduti alla scrivania, altri che si alzano dalle loro sedie, molti con degli strani oggetti infilati nelle orecchie.

«Ehi Courtney!» «Sei qui!» e «Non pensavo ce l’avresti fatta, bella», sono solo alcuni dei saluti, tutti accompagnati da sorrisi, alcuni da ammiccamenti impertinenti da parte di un paio di gentiluomini, uno dei quali dice: «Come sei sexy con l’effetto bagnato!» il che mi fa arrossire senza sapere bene perché. C’è un suono persistente di una macchina che fa brr-brr-berrup, brr-brr-berrup, e che sembra smettere a tratti solo quando qualcuno degli uomini o delle donne tocca l’apparecchio che hanno nelle orecchie, alza un oggetto rettangolare da una specie di scatola con luci intermittenti e inizia a parlarci dentro. Capisco: deve trattarsi di un altro tipo di telefono, anche se molto più grande del mio o di quelli che ho visto usare a Wes, Paula e Sandra.

Sandra mi guida tra le persone che mi salutano. «Fatela respirare, ragazzi», dice amichevolmente, quando all’improvviso si ferma e io vengo bloccata da un uomo con uno di quegli strani oggetti nell’orecchio, il quale sembra parlare contemporaneamente in quell’aggeggio e con me (questa conclusione nasce dal fatto che tocca l’affare nell’orecchio quando ci parla invece di rivolgersi a me).

Anche Sandra è catturata dalla sua scia e gli dà un bacio sulla guancia: lui per tutta risposta le mette rapidamente il braccio sul vitino e le accarezza il fianco con la manona. Lei sembra non farci caso, ma io sono disgustata da un simile comportamento nei confronti di un membro del proprio personale di servizio.

«Vacci piano con lei», lo avverte Sandra rivolgendomi un occhiolino di incoraggiamento prima di sparire in una delle stanze fatte di vetro che si susseguono lungo i muri di questo vasto e caotico spazio, pieno di tavoli e sedie, con persone che parlano all’aria o, come penso io, con gli aggeggi che hanno nelle orecchie mentre guardano delle scatole luminose e battono le dita su oggetti che sembrano avere sopra le lettere dell’alfabeto. Sono così rapita dallo spettacolo che mi si para dinnanzi e distratta dalla miriade di saluti che non riesco a comprendere immediatamente cosa va dicendo quest’uragano umano.

«Lance? David.» Sta di nuovo parlando all’aria, con la testa piegata in un modo che lo fa sembrare davvero stupido. «Cerchiamo di portare a termine questa cosa, okay? Ancora un paio di settimane e deve essere finita. Tic toc. Cerca di fare in fretta... Courtney?» mi schiocca le dita di fronte al viso, e quindi mi rendo conto che ora sta parlando con me. «Le ore passano e io sono già sommerso di lavoro. Devi prendere le mie telefonate e rispondere alle mail. Ci sei? No, Lance... è inaccettabile. Ci sei?»

Mi guarda e nonostante la temperatura della stanza sia fresca, inizio a sudare. Mi esamina da dietro le lenti nere degli occhiali e il suo sguardo è altrettanto freddo.

E poi fa un ampio e disarmante sorriso e in un attimo mi stringe in un abbraccio. «Mr...» cerco invano di districarmi «David, io...»

Mi lascia andare e alza gli occhi al cielo. «Non c’è bisogno dell’avvocato, okay? Mi hai fatto prendere uno spavento, ecco tutto. Ma ora stai bene, giusto? Perfetto!»

Adesso siamo arrivati davanti a quella presumo sia la mia postazione di lavoro poiché sta scartabellando tra sei pacchi di fogli disordinati e poi tira fuori una pila di foglietti rosa a righe che mi agita di fronte. «La sostituta che mi hanno mandato non riusciva a stare dietro alle chiamate e neanche a tenere sotto controllo la mia agenda», dice indicando le pagine rosa con disprezzo. «Questa era la sua idea di tenere traccia delle cose. Prenditi cura di tutto e sincronizzami il BlackBerry, okay?»

Devo andare a raccogliere frutta adesso? Questa sì che è un’attività degradante!Mi getta sul tavolo un oggetto che è più rotondo e grosso del telefono che ho (e che, me ne rendo

conto solo ora, è rimasto attaccato al suo filo nel mio appartamento). Lo prendo. C’è scritto sopra BLACKBERRY, mora, in piccole lettere bianche dentro una finestrella. Inizio a ridere.

«Sono felice di vedere finalmente un po’ di ilarità», dice con un tono tutt’altro che ilare. «Ora cercami Angelo. Per favore.»

«E dove posso ‘cercare’ Mr. o Miss Angelo?»«Come?»«Dove dovrei andare?»«Cercalo al telefono perdio!»Santo cielo, sono una serva. Non ci sono dubbi su questo. Gli insulti, i modi da tiranno. «Se non riesci

a parlarmi in modo civile...»«Courtney, non è divertente.»«Certo che non lo è. Credevo di avere un impiego rispettabile, ma mi trovo invece a essere una

semplice serva.»«Per l’amor di Dio, Courtney. Se fossi una serva faresti quello che ti chiedo invece di stare qui a

lamentarti di un lavoro per cui chiunque altro ucciderebbe.»Uno sbuffo di derisione da parte di un giovane uomo seduto a un tavolo vicino richiama l’attenzione

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di David e la mia.«Scusate», bofonchia lui con il viso in fiamme.David si rivolge a me più a bassa voce. «Come pensi mi senta io? Ti rendi conto di quanto dipendo da

te?»Il grosso telefono a forma di scatola sulla mia postazione di lavoro inizia a emettere quel brr-brr-

berrup. Ripetutamente.«Allora?» Agita le braccia.«Signore?»«Alza quel maledetto telefono!»Le mani mi tremano mentre si avvicinano allo strumento a forma di scatola ma appena inizio a

sollevarlo...«Ma cosa diavolo c’è che non va?» grida lui.La scatola mi scivola dalle mani sudate sul tavolo; se solo avessi un fazzoletto! La parte di dietro del

mio corpetto ora è madida di sudore: uno stato davvero poco elegante per qualcuno che voglia rivendicare un briciolo della sua dignità. «Signore, non accetto mi si parli in questo modo. Buona giornata.»

E ciò detto giro i tacchi e a testa alta faccio lo stesso percorso a ritroso.C’è un silenzio incredibile da parte dei gentiluomini e delle signore che mi osservano, interrotto solo

dallo strano suono emesso dai vari telefoni.David grida dietro di me. «Non puoi farmi questo... Courtney? Per favore... Sandra? Sandra!»Mi faccio largo tra le scrivanie evitando gli sguardi curiosi e tenendo alta la testa, finché non

raggiungo il muro dal quale io e Sandra siamo entrate in questa stanza. Mi domando se sarò in grado di richiamare da sola quello strano mezzo di trasporto.

«Courtney, che stai facendo?»Si tratta di Sandra, con un’espressione solidale stampata in faccia. Riesco solo a scuotere la testa e

dopo, inspiegabilmente, inizio a piangere. Lei fa come per mettermi un braccio intorno alle spalle, ma io la fermo alzando una mano. Che umiliazione. Prima essere trattata in pubblico in quel modo da quell’uomo orribile e poi perdere il controllo di fronte a chissà quante persone.

Ne ho abbastanza di fare finta di essere davvero quella che tutti conoscono come Courtney Stone quando niente di lei mi è in qualche modo familiare. Ma essere oggetto dei rimproveri di quel cafone e screanzato è davvero inconcepibile.

Sandra mi offre un pacchetto di fazzoletti e io li prendo con gratitudine. «Perdonami», dico rincuorata dal tono sicuro della mia voce. «Sto di nuovo bene. Se volessi essere così gentile, gradirei tornare a casa, adesso.»

«Sono sicura che è stato uno stronzo, lo è sempre, ma non voleva comportarsi male con te.»Le stesse parole usate da mio padre molte volte quando da piccola piangevo per i rimproveri di mia

madre che mi diceva che ero la bambina più maleducata avesse mai visto, per le sue previsioni sul fatto che non avrei concluso niente quando fossi diventata una giovane donna e per le sue dichiarazioni che non avrei mai trovato un buon marito perché nessun uomo avrebbe mai tollerato i miei modi da testona.

«Non diceva sul serio, piccola Janey», mi confortava scostandomi dolcemente una ciocca di capelli dalla fronte e offrendomi il suo fazzoletto per asciugarmi le lacrime. «Sai che non voleva comportarsi male con te.»

«No», dico a Sandra. «Non vogliono mai farlo.»«Possiamo sederci e parlarne?»«E perché mai? Ormai ho deciso. Lascio questo posto. Ora.»Per tutta la mia vita ho dovuto fronteggiare le ire di mia madre, la sua mancanza di affetto, il suo

disappunto per il semplice fatto che esistessi. L’ho dovuto sopportare perché, essendo nubile, non me ne sarei potuta andare da casa sua, proprio come se fossi ancora una bambina indifesa. A meno che mi fossi sposata o fossi andata a fare la governante in casa altrui, cosa che non mi avrebbe mai permesso e che, a dire la verità, mi avrebbe esposto a trattamenti peggiori di quelli che mi riservava lei.

Ma adesso che sono arrivata non so come in un mondo dove le donne, le donne nubili, possono vivere da sole, senza doversi sottomettere ai genitori, senza dover sottostare al dominio di un marito o di un fratello e persino senza la protezione di un amante, dove possono trovare un lavoro con cui guadagnarsi il pane anche con dei compiti che non siano quelli di una governante, una serva o qualcosa di peggio, come potrei non lasciare questo posto degradante?

«Fai sul serio.» La voce di Sandra mi riporta alla realtà. «Ma come farai a vivere?»La guardo negli occhi. «Non lo so. Devo ammettere che non so neanche come tornare a casa.»«Ti porto io naturalmente.» Sandra preme ripetutamente un cerchietto illuminato sul muro e in

pochi attimi le porte si aprono e siamo di nuovo nel mezzo di trasporto. La seguo verso l’auto e nel giro di poco siamo in marcia.

Dopo qualche minuto di silenzio, Sandra azzarda: «Sei sicura di non volerci ripensare?»«Non lo farò di certo.»«Si suppone che io passi sopra ai suoi errori, dopotutto ne sono innamorata. Ma tu... insomma non

posso fartene una colpa.»Questa sì che è una notizia, non può essere la serva di David. Le guardo la mano nel modo più

discreto possibile, ma non vedo nessuna fede nuziale. Che io sia seduta accanto all’amante del mio ex datore di lavoro?

«Sono sicura che lo convincerò a darti almeno il tuo ultimo stipendio come liquidazione e magari a fargli buttare dentro anche un altro paio di settimane. Posso farlo spaventare abbastanza da fargli

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sganciare un po’ di soldi. E delle referenze. Ma a parte questo...» Scuote la testa.«Sei molto buona.»Grazie al cielo Sandra rimane in silenzio per il resto del viaggio fino a casa. Sono troppo assorbita da

quello che mi è appena successo per riuscire a sostenere una conversazione. In realtà, non riesco neanche a pensare a cosa succederà con il mio cosiddetto lavoro. La velocità di questa macchina e di tutte le altre sulla strada mi provoca una forte curiosità sul funzionamento di questi marchingegni. Quale forza misteriosa le spinge? Cosa provoca l’eccezionale illuminazione che accende questa città di giorno e di notte? È impossibile vivere in questo mondo e non voler sapere. Il problema è semmai come indagare su questi fenomeni senza rivelare il mio scioccante grado di ignoranza.

Osservo Sandra che guida come meglio posso; tuttavia non riesco a capire cosa tocchi con il piede per riuscire a muovere e a fermare l’auto più di quanto avessi capito guardando Paula.

Sandra ferma l’auto di fronte casa mia, poi mi mette le braccia intorno alle spalle e mi stringe leggermente. Quando mi lascia, ha gli occhi pieni di lacrime. Anche se la nostra amicizia è durata solo poche ore, sento una piccola stretta al cuore. Prima che scenda dall’auto si fa promettere che ci «terremo in contatto» e che la chiamerò se dovessi avere bisogno di qualcosa.

Appena mi siedo sul divano con Emma aperto davanti, mi rendo conto, grazie alla violenta protesta del mio stomaco, che non ho fatto un pasto decente da ieri mattina. Forse dovrei frugare nella borsa di Courtney per cercare dei soldi e poi avventurarmi ad andare al ristorante accanto al locale dove mi hanno portato Frank e Wes. Quasi sento ancora il profumo di quella cucina esotica. Mi auguro che la borsa di Courtney contenga denaro a sufficienza per un pasto; non conosco neanche il valore del denaro in questa terra o quanto costi il cibo.

E pensare che devo frugare nel mio portafogli per vedere se rimarrò digiuna oggi. A casa avrei dovuto solo chiamare Barnes con il campanello o dire una parola alla cuoca e sarebbe apparso un pranzo delizioso.

E se le paure di Sandra sul mio destino non fossero ingiustificate? Non solo non ho la benché minima idea di quanto costi mantenere casa mia, ma non ho neanche la più pallida idea se lo stipendio che guadagnavo lavorando per David fosse appena sufficiente per questi bisogni o più che adeguato. In breve, non so proprio se dispongo di liquidi, se ho dei risparmi o se presto dovrò nascondermi dai creditori. Ma se Courtney è stata dissoluta con i suoi soldi come lo è stata con la sua reputazione allora le mie prospettive sono davvero piuttosto tristi.

Senza un padre, un fratello, senza un marito a portata di mano, non ho la minima idea di come appurare se ho almeno qualche risparmio. Sono comunque determinata a scoprirlo.

So che non dovrei né riposare né mangiare finché non mi accerto se potrò permettermelo, ma a dire la verità sono più ansiosa di scoprire come funzionano questi congegni miracolosi chiamati auto, e da dove queste meraviglie che illuminano il mondo prendano la luce, che di conoscere a quanto ammonta il mio patrimonio.

E ciò che desidero ancora di più è mettere qualcosa in questo stomaco brontolone.Appena afferro la borsa per cercare un po’ di contanti sento bussare alla porta. «Courtney?»È la voce di Wes. Provo una strana ondata nel petto, come se lui fosse il mio più caro amico che

rivedo dopo molte settimane. Ignoro da dove venga questo sentimento, so solo che sto correndo ad aprire la porta.

«Scusami per aver fatto irruzione così», dice lui, «ma non rispondi mai al telefono né alle mail e hai ancora questa commozione cerebrale.» Mi scruta il viso. «Court, stai bene? È vero?»

Sento la faccia che mi diventa rossa per la vergogna. Sa che ho fatto ben di peggio con Frank che permettergli di baciarmi.

«Dimmi Courtney, hai davvero lasciato il lavoro?»Praticamente mi lascio andare contro il muro per il sollievo.Che stupida. Sembra davvero non voglia giudicarmi neanche per quello che mi ha visto fare ieri sera.

E per quanto riguarda qualunque altra cosa possa sapere, be’, non mi sento molto a mio agio a quest’idea, ma sicuramente lui è troppo un gentiluomo per tirare fuori un simile argomento.

Wes mi prende il braccio e mi conduce verso una sedia in cucina. «Andrà tutto bene», mi rassicura, versandomi un bicchiere d’acqua. «Ho avuto il presentimento che saresti stata così testarda da andarci oggi – o che magari ti saresti sentita abbastanza in colpa da cadere in trappola – e così ho chiamato in ufficio. E Jay mi ha informato che ti sei licenziata.»

Mi porge il bicchiere. «Tieni, bevi.» Si siede di fronte a me, lo sguardo sollecito, e mette una mano sulla mia. «Se ti può essere di consolazione, Jay dice che sei l’argomento del giorno. Non riescono a smettere di parlare di te e dell’uscita che hai fatto. Posso solo commentare che era ora.»

Cerco di evitare di compiacermi per l’elogio. «Sono felice che approvi. E ti prego di non preoccuparti per me, sto benissimo, te lo posso assicurare. Ho solo fame.»

Sorride. «Stai qui. Io torno più o meno tra mezz’ora con il tuo menu preferito di Acme, okay?» «O-kay.» Sorrido. Dovrebbe essere abbastanza per finire Emma.

Quattordici

MENO di un’ora e mezzo dopo la mia mente è soddisfatta dal lieto fine di Emma. Che libro straordinario! Merita davvero un posto accanto ai suoi fratelli, Ragione e sentimento e Orgoglio e pregiudizio. Anche se la protagonista è davvero un po’ troppo piena di sé, finché non apre gli occhi sulla

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realtà. Mi ritornano di nuovo in mente le parole della veggente. Ma mi è piaciuto così tanto il fatto che Emma apprezzasse la sua condizione di nubile. Niente l’avrebbe indotta ad abbandonarla – né l’ha indotta a farlo in effetti – se non un sentimento profondissimo.

Non solo sono soddisfatta per aver letto questo romanzo straordinario, ma ho anche la pancia piena del cibo più squisito abbia mai assaggiato. Cibo messicano, Wes l’ha chiamato così, e «mole di pollo» si chiama il piatto che sempre secondo Wes è il mio preferito e non ho difficoltà a credergli.

Appoggio la forchetta dopo aver consumato meno della metà del piatto, visto che le porzioni sono abbondanti come quelle del ristorante dove ho fatto colazione con Paula e Anna. Wes mette gli avanzi in un recipiente con il coperchio che sistema nel frigorifero, un’invenzione davvero ingegnosa di questi tempi. Posso solo immaginare la gioia della cuoca se avesse avuto un attrezzo del genere nella nostra cucina. Quanto si lamentava per la quantità di cibo che veniva buttato o che era obbligata a cucinare per evitare venisse sprecato.

Ma mentre il frigorifero evita gli sprechi, io capisco che quello che si deve davvero buttare sono i piatti e le posate che erano insieme con il cibo, quando Wes lo fa.

«La forchetta e il coltello sono molto leggeri, certo», mi azzardo a dire, «ma disporre di essi in questa maniera mi sembra un terribile spreco.»

«Non me ne parlare», sospira. «Le gioie di vivere nella nostra società del consumo. Non so perché mettono le posate nel sacchetto senza prima chiedere. E anche i contenitori di polistirolo. Pensi che qualcuno li usi ancora? E vogliamo parlare del cartone, ragazzi? Sembra che non abbiano mai sentito parlare di riscaldamento globale. O di ridurre i consumi di carbone. Be’, almeno verrà riciclato.»

Cerco di annuire preoccupata per nascondere la mia ignoranza e lui si ferma come per trattenersi e sorride timidamente: «Scusa, sto farneticando. Tocca a te. Di’ qualcosa».

Ah. Ecco finalmente quello che aspettavo. «Ora che ci penso, c’è qualcosa che vorrei chiederti. Ma non ha niente a vedere con lo spreco di cibo.»

Sorride divertito. «Va bene.»«Mi chiedo se tu potessi... saresti così gentile da insegnarmi come funzionano certe cose?»«Non sono sicuro di aver capito.» Mi guarda con un’espressione interrogativa e io ricorro a una

piccola bugia per ottenere ciò che voglio.«Credo che queste spiegazioni mi aiuterebbero a ritrovare la memoria.»«Oh», fa lui. «Ma cosa hai bisogno che ti spieghi?»Esito, per paura che possa pensare che sono pazza.«Va tutto bene, Courtney. Puoi chiedermi qualsiasi cosa.»I suoi modi sono così gentili e incoraggianti che mi sento uscirmene con un: «Mi piacerebbe molto

sapere come funzionano le macchine».Ecco. L’ho fatto. E non sembra affatto scioccato. Anzi. Ha un sorriso abbastanza compiaciuto. Forse

lui, come la maggior parte dei rappresentanti del suo sesso, non si perde mai l’opportunità di mostrare la sua conoscenza superiore a una femmina ignorante.

«Posso senz’altro spiegartelo», risponde, «ma proviamo a divertirci un po’, fallo da sola. Vai al computer.» E così dicendo mi porta al tavolo nella mia camera da letto con la scatola luminosa, che non è diversa da quella che c’era nella mia postazione di lavoro. Si chiama così, quindi.

Si siede alla mia destra e devo confessare che il suo profumo di limone e di lino lavato di fresco e asciugato al sole, è piacevole ma mi distrae. Riordino i miei pensieri e mi concentro sullo schermo rettangolare, così lo chiama Wes, di fronte a me. Mi dice di cliccare su qualcosa chiamato Google, il che mi fa fare una risatina che si tramuta in un sussulto quando mette la sua mano grande e delicata sulla mia e la posiziona su una cosa chiamata mouse – il che mi provoca un’altra risata – e muove le mie dita facendole cliccare e puntare finché la parola GOOGLE – che suono sciocco – non compare sullo schermo.

Riesco a malapena a sentire le istruzioni che Wes mi sussurra su ciò che devo scrivere, tanto sono sensibile a ogni lieve pressione della sua grande, bellissima mano sulla mia, al contatto del suo palmo con il dorso della mia mano. Che bellissima forma ha la sua mano, sembra quella di uno scultore. Dà una nuova forma anche alla mia, questa mano che non è mia eppure si sta trasformando in...

«Courtney, stai tremando», esclama e si alza per andarmi a prendere un altro bicchiere d’acqua. «Ti senti bene?» mi chiede mettendomelo di fronte.

Faccio in modo da fermare la mano mentre prendo il bicchiere ma non ho il coraggio di avvicinarmelo alle labbra. Che sciocca.

«Ti devo portare qualcosa di più forte?»Perché mi devo sciogliere per un semplice contatto con una mano? «Che ne è stato del tuo consiglio

dell’altra sera di non mescolare la vodka e la commozione?»«E da quando dai retta ai miei consigli?»È davvero troppo affascinante. Sento la mia faccia arrossire. «Forse qualcosa di più forte mi farebbe

bene.»«Ritengo che un po’ non ti farà male», dice mentre sta già prendendo un’enorme bottiglia nella parte

alta del frigorifero per poi versarla in un bicchierino. «Almeno se la bevi con tutta quell’acqua.»Gli mostro quello che spero sia un sorriso sbarazzino. «Sì, signore.» Santo cielo sono una sfacciata.

Ma non mi importa. Non mi merito un piccolo sorso di vodka? Non ho fatto un bel lavoro oggi nel togliere Courtney da quella situazione insostenibile con quel terribile David come-sichiama?

Mi porto il bicchiere alle labbra. «Non mi fai compagnia?»«Oh, al diavolo.» Afferra un altro bicchiere e si versa da bere. «Alla tua», e se lo scola tutto.Per quanto mi riguarda, mi concedo solo un sorso da gentildonna, che è abbastanza per procurarmi

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una piacevole sensazione di calore alle ossa. Le mie mani volano sulla tastiera, come Wes chiama l’oggetto bianco e rettangolare su cui sono stampate le lettere e i numeri. Tastiera – come quella di un pianoforte – e d’un tratto le mie dita si muovono come se fossero dotate di una volontà propria. È davvero come suonare un pianoforte, perché le mie dita sanno dove andare sulla tastiera di questo strano marchingegno così come sanno dove andare sullo strumento che c’è in casa di mio padre.

«Vedi che ti ricordi?» commenta Wes entusiasta.Sto persino muovendo il mouse e cliccando e puntando in un modo che rivela tutta una specie di lista

di parole e immagini finora nascoste che compaiono sotto il tocco delle mie dita. È davvero divertente. Non so come io possa essere tanto brava a usare questa tastiera senza avere alcun ricordo di aver imparato. Clicco e punto e le mie mani immediatamente fanno comparire immagini e parole. Può darsi che queste mani ricordino altre azioni, che non conosco ancora o non riesco a immaginare? La sola idea è già di per sé un’avventura eccitante. Eccomi qui, duecento anni dopo il mio tempo, seduta di fronte a una macchina che non avrei mai neanche potuto immaginare, e le mie mani sanno esattamente come muoversi.

La voce di Wes mi distoglie dai miei pensieri: «Forse vuoi controllare la tua mail. Ho ricevuto almeno cinque mail da Paula e Anna che si lamentavano che non guardi la posta e non rispondi».

Senza neppure pensarci, la mia mano destra automaticamente guida una piccola freccia sullo schermo verso una fila di simboli in fondo allo schermo. Ci clicco su e appare un piccolo rettangolo: 56 NUOVI MESSAGGI. Subito dopo il rettangolo scompare, rimpiazzato da una schermata di singole linee di testo che sembra rappresentino un riassunto delle mail che mi sono arrivate. Ma dove sono le lettere vere e proprie?

Alcuni dei nomi nella colonna «Da» non mi sono familiari. Ce ne sono diverse di Paula, Anna e Wes. Ne appaiono circa dieci di David.

«Ce ne sono parecchie», nota Wes. «È come se tu non avessi controllato la posta da almeno venerdì.»«Vuoi essere così gentile da dirmi dove posso andare a prendere le lettere? E quanto costano?»«Cosa?»«O forse i mittenti le hanno già affrancate?»«Courtney, non ho idea di cosa tu stia dicendo. Oh, scusa. Pensavo che siccome stavi schiacciando i

tasti ti fosse tornata la memoria. Ecco.» Sposta dolcemente la mia mano dal mouse e lo muove sul tavolo. «Tutto quello che devi fare è cliccare sulla mail che vuoi leggere... ma non c’è bisogno che tu legga questa», dice indicando l’ultima contrassegnata dal suo nome. «Buttala nel cestino.»

«Certo che no», obietto, dirigendo la piccola freccia sulla mail in questione e un clic sul mouse fa sì che appaia una sorta di messaggio sullo schermo.

Courtney, speravo che ci fossimo lasciati tutto alle spalle.Ma sembra che Frank non sia l’unico che vuoi evitare. Possiamo parlare?Wes

Wes si schiarisce la voce. «Parlando di posta, ci sono tante di quelle lettere nella tua cassetta di sotto che praticamente stanno per finire sul pavimento. E così le ho portate di sopra e te le ho messe sul tavolo quando ho preso da mangiare. Non ho potuto fare a meno di notare che c’erano un paio di buste rosa nel mucchio.»

«Bene», dico, chiedendomi quanta rassicurazione sia il caso di dare a Wes circa queste lettere.«Vuoi che tiri fuori quelle lettere per te?»«Wes mi dispiace se la mia fuga l’altra sera ti ha addolorato. Non era mia intenzione. Ero confusa

e...»Mi sento di nuovo mortificata al pensiero della mia condotta di ieri sera.Wes mette la sua mano sulla mia. «Mi dispiace che tu l’abbia letta. Te l’ho inviata dal cellulare ieri

sera, prima di trovarti all’Awakening.» «Oh.» Azzardo un’occhiata al suo viso e mi sento immediatamente confortata dal suo sguardo

gentile.«Non dobbiamo parlarne più se non vuoi.»Gli rivolgo un sorriso pieno di gratitudine.E allora mi rendo conto che la sua mano è ancora sulla mia e sento che sto arrossendo. E come se mi

avesse letto nel pensiero si guarda la mano e la toglie, schiarendosi la voce.«Credo che ne berrò un altro», dice versandosi un bicchierino di vodka.Si offre di darmene un po’ ma in questo momento capisco ciò che ha appena detto circa le lettere:

«Stai cercando di farmi capire che posso ricevere le lettere tanto via posta che su questo computer?»«È una domanda seria?»«Ci sono cinquantasei lettere in questo computer e un altro mucchio, come hai detto, sul tavolo.

Quante sono quelle nel mucchio?»«Non saprei. Forse trenta.»«Oggi è lunedì, giusto?»Annuisce.«E da venerdì io ho ricevuto circa novanta lettere? Assumendo che la posta non lavori di domenica,

significa trenta lettere al giorno. Ma come può una persona trovare il tempo di guadagnarsi da vivere, sistemare la casa senza la servitù, e leggere e rispondere a trenta lettere al dì?»

«Ma quando mai hai avuto la servitù? Aspetta, non voglio saperlo.»

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«Era solo un modo di dire.» Devo davvero tenere a freno la lingua. Mentre scorro con lo sguardo la lunga lista di messaggi, mi viene in mente che c’è la possibilità che io scopra qualcosa circa la vita di Courtney, il suo rapporto con Wes – e con chiunque altro – dalle lettere. E forse ancora di più da un diario, se ne teneva uno.

Meglio essere diretta: «Sai per caso se tenevo un diario?»«Te ne ho regalato uno per Natale. Non ti ricordi neanche questo, vero? Te l’ho comprato solo perché

avevi detto che volevi iniziare a scrivere un po’ di cose. Non so se lo hai mai usato. Era di una stoffa arancione lucida, con dei motivi brillanti.» Scorre un dito sul dorso dei libri della libreria, fermandosi quando raggiunge lo scaffale più in basso. «Eccolo!» Me lo porta.

Lo apro alla prima pagina, sulla quale c’è il nome di Courtney, l’indirizzo e alcuni numeri. Prima che io abbia la possibilità di leggere attentamente il diario, dal telefonino sulla libreria inizia a provenire la musica del film di Orgoglio e pregiudizio.

Wes guarda il telefono: «Non rispondi?»Non saprei come.Sembra che mi legga nel pensiero perché si avvicina a quell’affare, lo prende e me lo mostra: «Vedi?

Dice chi sta chiamando. C’è scritto ‘Paula’ con sotto il suo numero di telefono. Qui, guarda. Hai due opzioni: premere ‘rispondi’ o semplicemente ‘ignora’».

Punto la parola «rispondi» e premo con il dito. Wes mi mette il telefono nel palmo della mano e poi lo guida verso il mio orecchio.

«Di’ ciao», mi sussurra.«Ciaoo!» grido, sperando che mi possa sentire.«Ehi, puoi abbassare di un paio di tacche? Mi stai rompendo i timpani.» È la voce di Paula o meglio

una specie di fantasma della sua voce.Wes mi si avvicina. «Parla normalmente», mi sussurra.«Scusa», mi rivolgo a Paula, ma come è possibile che io stia parlando con lei? Come è possibile che

questa voce senza un corpo sia la sua, quando non si trova in questa stanza o nemmeno nell’altra?«Che fine hai fatto, Courtney?» Sembra che si trovi nel mezzo di una tempesta. «Io e Anna abbiamo

provato a chiamarti e richiamarti e a mandarti mail e sms, ma è come se ci stessi ignorando o qualcosa del genere. Mi hai costretta a chiamare Wes, che mi ha raccontato del tuo lavoro. Brava, ragazza! Non è che per caso hai cambiato idea e hai cominciato a entrare nel panico?»

«Non è successo.»«Bene. Anna e io ti portiamo fuori stasera. Non c’è verso che ti lasciamo a casa a iniziare ad

arrovellarti come fai di solito. Cena. Aperitivo. Quello che vuoi.»Suppongo che si sia fermata per riprendere fiato. Dovrei dire qualcosa.«Va bene, cara. Sei sotto choc. Saremo lì alle otto, okay?»La sua voce è attutita e c’è una sorta di crepitio di sottofondo.Forse il miracolo di parlare con qualcuno senza essere fisicamente presente ha un prezzo: il rumore.

Davvero un piccolo prezzo da pagare.Mi domando quanto possa essere lontana una persona per riuscire comunque a parlarci.«Dove sei?» domando.«Scusa ma la linea fa schifo su questo tratto della 110. Ci vediamo alle otto, okay?» Ancora rumore di

fogli accartocciati e di tempesta.«Okay», accetto e la cosa che sento immediatamente dopo non è la voce di Paula ma un breve suono

seguito dal silenzio. Tolgo il telefono dall’orecchio e guardo il pannello di vetro sopra di esso che dice «chiamata terminata». Non riesco quasi a credere di aver avuto davvero una conversazione in questo modo, eppure è così. Sorrido, sentendomi quasi una perfetta cittadina di questo mondo.

Quindici

WES se ne va dopo poco aver saputo dei miei impegni serali con Paula e Anna, ma non prima di aver menzionato di nuovo le suddette buste rosa, dicendo che se ho bisogno di aiuto posso contare su di lui. Mi informa anche che ci sono dei messaggi per me nella segreteria telefonica – l’ennesima macchina in questa terra di macchine – e mi mostra quale cosiddetto tasto devo pigiare per ascoltarli. Lo ringrazio e gli prometto di occuparmi di tutto ciò immantinente, ma appena se ne va rivolgo di nuovo la mia attenzione a quest’oggetto meraviglioso chiamato computer, sul quale mi metto a indicare, cliccare e assorbire il maggior numero di informazioni possibile su telefoni, macchine, frigoriferi, luci e film. Buona parte di quello che leggo sullo schermo non lo capisco, perché c’è così tanto nel mondo e nel linguaggio moderno che bisogna sapere per capire e queste pagine di informazioni sono scritte per quelli che conoscono benissimo il linguaggio e non è il mio caso.

Ciononostante, dopo non so quanti minuti o ore, mi sento un po’ meno ignorante di quanto fossi quando ho iniziato. Per esempio so che l’elettricità alimenta le macchine mirabili del mio appartamento e le luci della città. So che la benzina alimenta l’automobile e che i film consistono di una successione di piccole immagini – ventiquattro al secondo – create da una cosa chiamata telecamera, una parola che non mi è del tutto ignota, visto che ho sentito parlare di una camera oscura usata dai grandi pittori.

Adesso so anche che l’Inghilterra ha combattuto contro Napoleone per altri due anni prima di ottenere il trionfo finale su di lui, che la follia del francese è stata superata da due guerre mondiali – che termine orribile – e che l’Inghilterra e l’America sono state per lungo tempo alleate. E come posso fare

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ricerche sulla storia inglese senza interessarmi del mio amato villaggio? È possibile che io lo trovi? Sì, ci sono pagine e pagine di informazioni in proposito, e anzi c’è proprio il villaggio, perché c’è uno schizzo del diciottesimo secolo della chiesa e della strada principale accanto a una fotografia recente, che non sembra poi così diversa dal disegno, se non si considerano le file di automobili o gli alti pali della luce elettrica.

Alla fine, mi accorgo di un orologio in cima allo schermo e mi rendo conto che mi è rimasto poco tempo per aprire le misteriose buste rosa e per cambiarmi d’abito.

Oltre a stabilire che le lettere rosa sono richieste di pagamento, non so proprio cosa farci. «Ultimo avviso», dicono. Ma di cosa? Mi ci vuole un po’ per capire che una mi annuncia che stanno per tagliarmi l’elettricità. Ah, bene. Suppongo che il peggio che possa accadere è che di sera io debba accendere una candela e avere caldo d’estate, il che non sarebbe una novità, anche se devo ammettere che qui il clima è, almeno per la mia esperienza limitata, un bel po’ più caldo di quanto sia nel mio Paese.

Tralasciando i problemi legati alla comodità, non posso tollerare l’idea di essere in debito con qualcuno. Il mio povero padre era attentissimo a fare in modo che le sue spese non superassero mai le sue entrate e disprezzava i cosiddetti nobili che avevano il viziaccio di scappare in Francia senza pagare i propri debiti. Perciò devo stabilire l’ammontare delle mie risorse e risolvere quanto prima queste questioni. E, a dire il vero, non mi piacerebbe stare senza il computer, perché mi rendo conto del grande valore del vasto deposito di informazioni che contiene, tanto utile per qualcuno nella mia situazione. Inoltre, mi piacerebbe moltissimo vedere il film di Orgoglio e pregiudizio per intero. Per avere le macchine, bisogna avere l’elettricità. A dirla tutta, credo che l’elettricità sia indispensabile.

Mi ricordo che devo ascoltare i messaggi di cui Wes mi ha parlato prima. Pigio il tasto che mi ha mostrato e, dopo che una voce che non sembra umana annuncia data e ora, sento: «Courtney, sono mami. Perché non ho più avuto tue notizie? È passata più di una settimana. Stai bene? Se non mi chiami perché non vuoi dirmi che sei di nuovo al verde, non preoccuparti. Sapevo sarebbe successo, ma tu non mi avresti dato retta. In fondo non lo fai mai! E non illuderti ti mandi dei soldi, perché non ci penso proprio. Richiamami, okay?»

Richiamarla? Il solo pensiero mi terrorizza. Anche se non avevo mai sentito la voce di questa signora prima di adesso, il suono è bastato a farmi provare una stretta allo stomaco.

Schiaccio di nuovo il tasto. Ci sono altri due messaggi, sempre più concitati, della stessa signora, ognuno dei quali proclama il suo categorico rifiuto a mandare soldi.

Bene, almeno questo messaggio mi dice che se non riesco a pagare i conti, dovrò rivolgermi a qualcuno che non faccia parte della famiglia per chiedere aiuto. Spero che la situazione non sia così negativa come la mamma di Courtney crede... e come le buste rosa suggeriscono.

Ma come farò a determinare a quanto ammonta il mio patrimonio? Forse potrei chiedere a Wes di aiutarmi a scoprire se esistono altri fondi oltre a ciò che ho nel borsellino in questo momento, anche se sono consapevole del fatto che dovrò affrontare l’argomento con la massima discrezione. Dopotutto lui non è neppure un parente. Ma non mi ha forse offerto il suo aiuto per le lettere rosa? Non ho il coraggio di affrontare Paula o Anna che senza ombra di dubbio si spaventerebbero di fronte a quella che per loro sarebbe l’ennesima prova della mia mancanza di memoria. E, quanto a Deepa, dubito che sappia abbastanza della storia di Courtney per essermi d’aiuto in questo frangente.

Do un’occhiata all’altra lettera rosa e scopro che annuncia l’interruzione del servizio telefonico che, a mio parere, non sarebbe affatto un danno. Nessuno turberebbe la mia quiete e chiederebbe di parlare con me senza prendersi neppure il disturbo di farmi una visita mattutina come fanno le persone civili.

Eppure, almeno posso scegliere se rispondere o ignorare la chiamata. Anche se spero che qualora decidessi di ignorare una chiamata, chi mi chiama non avrebbe idea del mio vero stato, proprio come se un valletto gli dicesse: «Miss Mansfield non è in casa». Dunque forse il telefono e il computer hanno reso inutile la servitù.

Ah, bene. Immagino che se devo essere una vera signora del Ventunesimo secolo, dovrò avere l’equipaggiamento necessario, ivi compreso un telefono.

Sì, dovrò chiedere consiglio a Wes su questo argomento. Inoltre formulare una richiesta del genere sarà un’opportunità di provare sul campo la mia conoscenza appena acquisita su come funziona il malefico strumento. Nel frattempo, prendo i foglietti rosa, li rimetto nelle loro buste – che trovata geniale questa busta extra separata dalla lettera stessa – e le sistemo sotto la pila di lettere sul tavolo, lontano dagli sguardi indagatori delle due ragazze che dovrebbero essere qui da un momento all’altro.

Adesso, dopo essere stata trasportata a tutta velocità nella macchina blu e tondeggiante di Paula, sono nell’appartamento di Anna, che è almeno quattro volte più grande del mio e che, attraverso le sue finestre senza sbarre, gode di una vista spettacolare di palazzi straordinariamente alti, tutti illuminati come castelli incantati. Anna si sta dando da fare in cucina, che è separata dal soggiorno da una specie di muretto con un bancone e degli sgabelli alti, dove Paula sta seduta mentre Anna mescola un intruglio liquido in un attrezzo chiamato frullatore. Paula tiene in mano quello che adesso so che si chiama telecomando, puntandolo verso un enorme schermo rettangolare che è posizionato su un camino e che, proprio come lo schermo più piccolo del mio appartamento, sta mostrando immagini che sembrano vere proprio come quelle del film di Orgoglio e pregiudizio, solo che le scene continuano a cambiare ogni volta che Paula pigia i tasti sull’aggeggio. Questa deve essere la televisione – o TV – di cui ho letto qualcosa mentre stavo cercando notizie sui film e su come funzionano.

Paula passa da una donna sorridente con le labbra di un rosso scintillante che cucina un pesce in una padella e parla di spezie, a due uomini quasi nudi che lottano cercando di buttarsi a terra a vicenda mentre il pubblico rumoreggia, a un ragazzo che finisce una canzone e si agita nervosamente mentre un gruppo di uomini e donne seduti a una scrivania irride crudelmente la sua esibizione, a una donna a seno

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nudo che viene accarezzata da un uomo, a non so cosa perché boccheggio mio malgrado e mi copro momentaneamente gli occhi.

«Non danno un bel niente», esclama Paula. «Non so perché mi prendo il disturbo di accenderla. Forse è solo perché non riesco a resistere a questo schermo gigante, ma comunque finisco per scaricare tutto quello che voglio vedere. La TV fa schifo e basta.»

«Sì, sì, non me ne parlare», interviene Anna. «È la fine del mondo come lo conosciamo, come amano dire tutti al lavoro. ‘La morte della televisione è la morte dei film, tutti vogliono scaricare on demand’ e bla, bla, bla... Ma chi se ne importa.»

Accende il frullatore per altri due secondi, poi lo spegne e versa un intruglio giallo acceso in due grossi calici.

«Frullato di mango con vodka», annuncia, porgendomene uno.«Non dici sul serio», fa Paula.«Certo che sì. Sono arcistufa di questo settore. Sto sempre a pensare a che altro potrei fare della mia

vita.»«Sì, giusto. Tra dieci anni, tu dirigerai uno studio e io sarò l’ideatrice dei tuoi kolossal invece della

robaccia di cui mi occupo adesso.»«Ti piacerebbe.» Anna ridacchia.Paula prende uno strofinaccio dal bancone e lo usa per colpirla scherzosamente sulla schiena.«Ahi!»«E quindi, Courtney», dice Paula, respingendo un colpo di strofinaccio di ritorsione da parte di Anna,

«che faremo del tuo futuro?»È con difficoltà che mi stacco dalla rappresentazione che si sta svolgendo sullo schermo.«Courtney?»«Oh. Perdonatemi.»

E così ci imbarchiamo in una discussione sulle mie prospettive di carriera. Più precisamente, io dico il meno possibile mentre cerco in tutti i modi di ottenere quante più informazioni utili posso e, grazie a Dio, Anna spegne la televisione, che stava calamitando gran parte della mia attenzione, nonostante i miei sforzi per tenere gli occhi fissi sulle signore e non sullo schermo. Finora hanno usato termini come «spostamento orizzontale implementato», «massimizzare i rapporti» e «networking» e io non ne ho capito neppure uno, mentre sorseggio questa bevanda deliziosamente dolce e forte.

«Per cui è tutto deciso», conclude Paula. «Tu inizia a mandare qualche e-mail ai tuoi contatti, e anche io e Anna tireremo fuori le antenne. Troverai una sistemazione in men che non si dica.»

«Sembra un piano eccellente», rispondo sorridendo, ma non ho la minima idea di cosa intendano per miei «contatti» né tantomeno cosa dovrei mandare loro.

«C’è un’altra cosa», aggiunge Anna, lanciando un’occhiata furtiva a Paula che è seduta alla mia sinistra. «Il modo in cui hai parlato negli ultimi due giorni potrebbe non giocare a tuo vantaggio.»

Paula alza una mano e interviene. «Diciamocela tutta, va bene? È chiaro che lo svenimento e la rottura del fidanzamento ti hanno lasciata un po’ confusa. Tutto quello che ho letto, sommato a quanto mi ha riferito Suzanne, suggerisce che passerà. Ma nel frattempo renderai solo tutto più difficile se continuerai a guardare Mr. Darcy a ciclo continuo o ti terrai in contatto con qualcuno di quei pazzi della Jane Austen Society. E per favore, non dirmi che lo stai già facendo, perché non voglio neppure saperlo. Svegliati e senti un po’ il profumo del Ventunesimo secolo, tesoro. La gente non parla così punto e basta, perciò smettila. E, per l’amor di Dio, leggi un thriller o un poliziesco o, meglio ancora, una rivista o un giornale. Qualcosa dei giorni nostri. Ci sono molte altre letture da fare a questo mondo a parte la Austen, sai?»

Una società dedicata a Jane Austen? Un intero gruppo di persone che amano la scrittrice tanto quanto me? Riesco a stento a trattenere il mio compiacimento, ma mi sforzo di farlo.

«Ti sono davvero grata per i tuoi suggerimenti», dico.«Vedi cosa intendo?» Paula alza le mani. «Non ci provi neppure!»«Lasciala stare», interviene Anna. «Non possiamo sapere cosa sta passando.»«Prometto di parlare di meno e ascoltare di più», annuncio e parlo sul serio. Magari più ascolto il

modo in cui le ragazze e gli altri intorno a noi conversano, più sarò in grado di imitarlo.Paula sembra non essere affatto rassicurata, ma sospira e si versa ancora da bere. Io sto bevendo

piano, perché ho bisogno di entrare in possesso di tutte le mie facoltà.Paula prende una lunga sorsata dal suo bicchiere. «C’è un’altra cosa di cui vogliamo parlarti. Wes.»Anna sta annuendo.«Sei un’adulta», continua Paula, «ma in questo momento secondo me non ti stai comportando in

maniera razionale. Dove sta la lealtà di Wes? Non solo il fatto che abbia coperto Frank è ingiustificabile, visto che si supponeva che fosse tuo amico, ma a quel che dice Frank l’attaccamento di Wes alla fidanzata del suo migliore amico era ben più che un po’ strano.»

«A quel che dice Frank?...»Sanno che ieri sera l’ho visto, che io?...Prendo fiato e cerco di ricompormi. «Quando è stata l’ultima volta che hai parlato con Frank?»Paula muove la mano con aria di sufficienza. «Non ti arrabbiare. L’ho chiamato ieri nel tardo

pomeriggio, quando ti stavo cercando.» Indica Anna con il mento. «Lo abbiamo chiamato tutte e due. Non lo sopporto, ma era piuttosto preoccupato per te.»

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«E la sua preoccupazione ha qualche peso?»Riesco ancora a sentirlo mentre mi sussurra quelle parole all’orecchio: Tutti meritano una seconda

possibilità, non credi? «Era anche preoccupato che tu ti fidassi di Wes», aggiunge Paula.«Ah. E invece di Frank ci si può fidare?»«Non ho detto questo.»«Eppure dai credito alla sua opinione su Wes.»«Aspetta un attimo», interviene Anna. «Wes sapeva dov’era Frank la sera in cui avete rotto e non solo

non ha detto niente, ma ha anche accettato di coprirlo.»«Non voglio mettermi a litigare su questo», dice Paula. «Mi sto solo preoccupando per te. E Anna sta

facendo lo stesso, okay?»Annuisco. «Okay.»«Bene», fa lei. «Adesso facciamo un programmino per la serata.»Ma io non riesco a rivolgere davvero tutta la mia attenzione alle signore, perché ci sono troppe

domande che sono rimaste senza risposta. La più grande di tutte è: se Wes è veramente amico di Courtney, perché ha scelto di proteggere una canaglia e non lei?

Credo che un rigoroso senso dell’onore avrebbe potuto obbligare Wes a non tradire Frank, se quest’ultimo avesse chiesto la sua fiducia. Ma, in ogni caso, il senso dell’onore verso una donna, e per di più una donna che è un’amica, non avrebbe dovuto essere più cogente delle rivendicazioni di un altro gentiluomo? Ma forse Wes sentiva di non avere il diritto di parlare male del futuro marito della signora in questione.

È davvero un rompicapo, soprattutto perché dispongo solo di racconti di seconda mano delle varie parti in causa, nessuna delle quali è disinteressata.

Forse Wes sapeva quanto si era spinta in là Courtney nel rischiare la propria reputazione e perciò credeva che per lei sarebbe stato meglio sposare Frank.

Dopotutto, se avessi scoperto l’infedeltà di Wes nella mia epoca e nel mio Paese, non avrebbe avuto molta importanza, neppure se lo avessi trovato a letto con altre sette donne. Quest’uomo sarebbe stato comunque mio marito. Il caso inverso, invece, avrebbe significato la rovina per me, perché una volta che una donna ha deciso di andare a letto con un uomo, non può tornare indietro. A meno che sia lui a lasciarla, e questo non è certamente il caso di Frank.

Eppure sembra che nessuno nella cerchia di Courtney ritenga imprudente la sua decisione di rompere il fidanzamento, anzi è vero il contrario. Però loro non possono sapere che lei – che io – e lui... o invece sì?

Wes lo sa? Se lo sapesse, o in altre parole se non lo sa ancora, allora non proverebbe mai i sentimenti che secondo Paula e Anna prova. O provava. Perché nessun uomo rispettabile vorrebbe mai corteggiare una donna che si è compromessa come ha fatto Courtney con Frank.

Non posso rispondere a nessuna di queste domande. Non posso sapere se le leggi dell’onore hanno ancora qualche significato in quest’epoca futura e in questo posto. E soprattutto, non riesco a smettere di pensare a ciò che mi ha detto la chiromante, che non conosco la vera storia di nessuno.

Però devo appurare in qualche modo di quale considerazione goda lo status di persona sposata in questo mondo. Ho visto e sentito abbastanza da confondermi terribilmente. Ma come posso condurre una simile ricerca?

«Possiamo prendere questo sorriso per un sì, Courtney?»Le due signore mi stanno guardando e mi rendo conto che stanno cercando di attirare la mia

attenzione da qualche minuto.«Anna vuole davvero vedere quel film», dice Paula, «e io non ho preferenze purché dopo ci facciamo

un giro e purché andiamo subito all’Arclight. Ho bisogno di un buon bar e di un bel cinema.» «Per te è okay?» vuole sapere Anna.«Assolutamente okay», rispondo e le signore sorridono. Dal computer ho imparato abbastanza sul

cinema e sui film da sentire un pizzico di impazienza, anche se non ho idea di cosa sia l’Arclight. Rimango in silenzio, non volendo tradire la mia ignoranza e, una volta che siamo in macchina di Paula, mi predispongo a godermi la passeggiata e a meravigliarmi alla vista di altri palazzi altissimi.

E poi, davanti a noi compare un’enorme struttura a forma di cupola bucherellata che assomiglia in un certo senso a Saint Paul ma senza la struttura turrita della cattedrale. «Perfetto», dice Anna sorridendo. «Abbiamo ancora un sacco di tempo.»

Emergiamo da un immenso parcheggio e ci dirigiamo verso un grande palazzo con delle altissime porte a vetro e il pavimento tutto coperto da tappeti. All’interno c’è una specie di negozio sulla sinistra e quello che sembra un ristorante sulla destra. Noi però andiamo direttamente verso una fila di banconi. Quando Anna si avvicina a uno dei banconi, tira fuori i soldi ed esclama: «Tre per lo spettacolo delle dieci». Mi rendo conto che qui si vendono i biglietti per i film.

Biglietti alla mano, saliamo per una scala enorme. Tutto ha delle dimensioni colossali, compreso il cibo, di cui Paula ci rifornisce a un lungo bancone. Una giovane donna sorridente addetta al servizio mi allunga un contenitore leggero pieno di affarini bianchi e dorati che sembrano boccioli in fiore. «Popcorn piccolo», annuncia mentre mi mette il contenitore tra le mani. Io mi ficco in bocca un pezzettino burroso e perfettamente salato e sorrido a Paula. Anna mastica delle caramelle lunghe, morbide, color lampone e Paula prende per sé una salsiccia coperta di senape, un contenitore grande di popcorn e una scatola di cioccolatini. «Non mangio da ieri sera», si difende, con uno schizzetto di senape al lato della bocca. Provviste di vassoi leggeri come piume, portiamo il cibo ai nostri posti e ci sistemiamo, mentre io sorseggio una bevanda deliziosamente fredda e dolce che si chiama Coca-Cola.

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Quando il teatro si riempie, la luce sfuma e io mi ritrovo immersa nello spettacolo davanti a me. Sullo schermo di fronte compaiono immagini in movimento di proporzioni gigantesche. Lo schermo fa sembrare minuscolo anche quello sul caminetto di Anna: deve essere alto almeno sei metri. Il suono è avvolgente in modo quasi sbalorditivo; i visi sono alti quanto una casa. Riesco a vedere ogni ciglio della faccia della donna!

Adesso la stessa donna sta guardando giù dal tetto di un palazzo incredibilmente alto. Si muove avanti e indietro mentre lo fa e io, guardando giù con lei, sento le vertigini. Delle mani la prendono per la vita da dietro; ansima e io ansimo con lei. Si gira e la sua espressione si trasforma quando riconosce l’uomo che la sta abbracciando. Anch’io sorrido sollevata. E poi finisce e una scritta a caratteri cubitali annuncia NELLE SALE A NATALE.

L’immagine è rimpiazzata all’istante da varie macchine che sfrecciano una verso l’altra e per poco non si scontrano. Poi vediamo l’interno di una delle automobili, dove due uomini sporchi e sciatti bevono da bottiglie marrone. Un terzo nel sedile di dietro mostra il suo posteriore – ah! – ai compagni di viaggio. Dal pubblico si levano risate di approvazione. So che quello che vedo davanti a me non è più reale di una rappresentazione teatrale, anche se, qualora un attore mostrasse le terga sul palco, me ne andrei di sicuro. Stranamente, adesso non ho il desiderio di fare una cosa del genere e neppure le mie compagne a quanto pare. Quando lancio un’occhiata ad Anna, lei si gira verso di me e alza gli occhi al cielo, dandomi la soddisfazione di farmi capire che la sua sensibilità non è diversa dalla mia. Invece Paula sta cercando invano di trattenere un sorriso.

Anna mi sussurra nell’orecchio: «Non so perché stanno promuovendo questa spazzatura per maschi in piena tempesta ormonale prima di una commedia romantica».

«Ah», mormoro, non avendo la minima idea di cosa intende.E poi la rapida successione di brevi storie sullo schermo finisce e Anna sussurra: «Ci siamo». Con

questo, comincia il film.Quasi all’inizio, la protagonista sta guidando la macchina e un’altra macchina le va addosso: l’impatto

e il rumore sono così violenti e reali che mi mordo le labbra e devo sforzarmi per non afferrare il braccio di Anna. Ma mi ripeto che questi sono attori e che la catastrofe a cui sto assistendo è uno degli effetti speciali di cui ho letto.

Passato qualche minuto, dopo essermi abituata al rumore fragoroso e all’enormità delle immagini che corrono verso di me, inizio a perdere la percezione del fatto che sono seduta in un teatro e mi immergo totalmente nella storia che si sta svolgendo davanti a me, non diversamente da quei rari momenti in cui ho visto degli attori recitare davvero bene sul palco.

Nonostante l’incidente iniziale, la storia è, per la massima parte, una commedia, come capisco dalle risate del pubblico, e ci sono addirittura delle volte in cui anch’io capisco le battute. Ma la storia è anche molto malinconica, visto che racconta la vita di una giovane donna nubile che ha appena «rotto» con il suo «ragazzo», dopo aver scoperto che lui le «faceva le corna». Sono moltissime le parole che sto imparando.

«Non so cosa aveva in testa Anna», mi bofonchia Paula sottovoce durante una scena nella quale la protagonista sta piangendo per il tradimento del suo fidanzato.

«Scusa, Courtney», mi sussurra Anna un attimo dopo. «Vuoi andare via?»«Niente affatto», le rispondo.Una storia del genere è proprio ciò che mi serve, perché spero che mi darà una chiave di

interpretazione delle arcane regole del corteggiamento di questo mondo futuro e, quindi, una migliore comprensione della vita di Courtney.

In una scena, la protagonista cerca di nascondere le lacrime mentre si trova in un negozio con la sua migliore amica che si è fidanzata da poco e sta organizzando il proprio matrimonio. Il negozio è pieno di lunghi abiti bianchi e veli. Vestiti da sposa. Il bianco deve andare di moda fra le spose. Il che mi ricorda – oh, povera me! – l’abito bianco che ho indossato quando mi sono risvegliata in questo mondo. Non mi meraviglia che Wes e le signore fossero scioccati vedendomi con quello che doveva essere l’abito da sposa di Courtney. Perché, a differenza del mio mondo, nel quale gli abiti bianchi si indossano in molteplici occasioni e un vestito da sposa, a prescindere dal colore, può essere indossato di nuovo e anche ravvivato con modifiche o nuovi ricami, qui un lungo abito bianco significa solo e soltanto una cosa. Soprattutto in questo mondo di vestitini corti e signore in pantaloni, dove tutti si vestono di nero.

Quando la protagonista esce dal negozio, torna a casa sua e si lascia andare a un pianto disperato, mentre butta nella spazzatura delle spesse riviste intitolate La Sposa e Matrimonio Moderno.

Lancio qualche occhiata alle mie amiche e vedo che non sono assolutamente angustiate da quanto stanno vedendo. Le loro espressioni mostrano un pizzico di tristezza quando gli attori sono tristi e un’eco di felicità quando sono felici. Mangiano e bevono. E perché non dovrebbero, dico a me stessa. Dopotutto, questa non è la realtà, è una storia inventata, vivida e realistica certo, ma pur sempre una storia.

La parte più sorprendente è quando, dopo aver a lungo discusso se la protagonista debba o non debba «fare sesso» con il nuovo ragazzo che ha recentemente iniziato a «frequentare» – «fare sesso» sembra avere ben poche conseguenze, proprio come «mangiare una torta» – il film mostra davvero la protagonista e il suo nuovo ragazzo a letto insieme, mezzi nudi.

Mi copro un po’ gli occhi, sbirciando per vedere se Paula e Anna sono scioccate quanto me. Ma, come sempre, sono tutte prese dalla storia e hanno dei sorrisetti stampati sulla faccia. A un certo punto c’è anche uno scoppio di risate da parte del pubblico, ma io non riesco a cogliere l’umorismo della situazione rappresentata.

All’incontro ravvicinato della protagonista con il nuovo ragazzo segue una dettagliata discussione di ciò che è accaduto con la suddetta migliore amica e questo mi spinge a chiedermi se la vera natura della

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relazione intima di Courtney con Frank sia davvero ignota a Paula, Anna e anche – che Dio non voglia! – a Wes, come avevo sperato che potesse essere.

Non mi crogiolo a lungo in queste preoccupazioni, perché il nuovo ragazzo dichiara il suo amore alla protagonista (ma non le fa una proposta di matrimonio), le luci del teatro si accendono di nuovo e io seguo Paula e Anna fuori, mentre loro due sono tutte prese a discutere appassionatamente dei vari aspetti della storia, del modo di recitare e degli effetti speciali.

Per quanto mi riguarda, me ne vado con più domande che risposte.

Sedici

A CASA di nuovo. Sono riuscita a convincere Paula e Anna che ero semplicemente stanca, non malata, ma la verità è che desideravo la quiete del mio appartamento dopo il furioso assalto sensoriale del film e il successivo tragitto lungo le strade illuminate di notte. Le luci accecanti di centinaia di macchine in corsa – fari anteriori e posteriori, è così che li devo chiamare, ricordo a me stessa – (quelle rosse che si allontanavano e quelle bianche che venivano verso di noi) formavano uno spettacolo frastornante che, in combinazione con il film, mi ha lasciato spossata e desiderosa di nient’altro che la serena tranquillità di una stanza semibuia.

Sono determinata a scoprire se il film – con tutto il suo corredo di sesso e organizzazione di nozze – è un ritratto fedele del corteggiamento e del matrimonio nel mondo di Courtney o semplicemente un’invenzione dell’autore.

La prima cosa da studiare è il diario di Courtney. Apro il libro arancione e cerco tra le pagine scritte. Le prime sono state strappate. Restano solo i bordi frastagliati. Dopo alcune pagine bianche, c’è questa:

Ospiti: conteggio finale 150Fioraio: niente gypsophilaVestito: prova sabatoWeymouth torte nuziali: deposito entro lunedìPoi decine di pagine bianche fino a questa nella stessa calligrafia veloce:

Che genere di persona si fa sorprendere a palpeggiare un’altra donna e la prima cosa che dice è: Wes avrebbe dovuto dirti che ero a una riunione? Stavano ridendo della mia ingenuità? Wes lo avrebbe ammesso se Frank non me lo avesse confessato? Che cretina che sono. Stupida, stupida, stupida. Da quanto tempo Frank se la faceva con quella strega di una pasticciera secca e bugiarda che farebbe meglio a chiudere il negozio o altrimenti la rovino qui in città? Come mi ha potuto fare una cosa del genere? Mi sento così umiliata che voglio morire e basta.

Ancora pagine bianche e poi:

E. è stato carinissimo. E poi è così giovane... e il sesso è stato fantastico, ma non lo richiamerò. Il solo sesso non è quello che mi serve adesso. Continuo a pensare a Frank mentre si portava via la sua roba dal mio appartamento, al fatto che lo volevo toccare e a quanto mi odiavo per questo. Wes continua a chiamare e a mandare messaggi. Perché Frank non telefona? Un solo timido tentativo e basta. Ma poi perché dovrei volere che lo faccia? Sono così patetica.

Non c’è altro nel diario, ma quel poco che c’è mi ha notevolmente sconvolta. Courtney credeva di certo che Frank e Wes fossero stati crudeli e disonesti. E non è andata a letto solo con Frank, ma anche con qualcun altro che nel diario chiama E.

Sembra che il comportamento della protagonista del film fosse più realistico di quanto avessi sperato. Le donne sono così? Forse c’è qualcosa nella libreria di Courtney, magari un manuale di comportamento, che possa darmi una risposta.

Un’interessante sequenza di titoli cattura la mia attenzione, compreso: SMETTILA DI FARTI SCARICARE! – Tutto quello che bisogna sapere per far innamorare pazzamente un uomo e sposare quello giusto in tre anni o meno.

Un titolo che venderebbe molte decine di copie nella cerchia delle mie conoscenze. IL GIOCO DEL MATRIMONIO – Come vincere alla grande.

Perciò adesso è un gioco? Suppongo che un gioco sia meglio di una trattativa commerciale. DONNE CHE AMANO UOMINI CHE NON SANNO IMPEGNARSI.

Ma impegnarsi a fare cosa? Prendo i libri dagli scaffali. Qualcosa che sembra un fascicolo di carta sottile è infilato nello spazio tra la libreria e il muro. Riesco a tirarlo fuori. Ah! È una rivista dedicata alle spose come quelle che c’erano nel film. La sfoglio: la sua sola esistenza è una prova del fatto che il matrimonio riveste un’importanza primaria in questo mondo.

Eppure, quando molte ore più tardi chiudo l’ultimo libro, con gli occhi che mi bruciano e il cervello incapace di comprendere anche solo un’altra frase stampata, oscillo tra stordimento e nausea, come se avessi bevuto troppo vino. Come devo interpretare tutto ciò?

Nel mio mondo Courtney sarebbe rovinata. Ma qui le donne fanno sesso prima del matrimonio e con quanti uomini vogliono. Quelle che aspettano di essere sposate per farlo sono considerate bigotte, strane, troppo anticonvenzionali o religiose, a seconda del punto di vista dell’autore.

Fare sesso. Almeno quest’espressione è preferibile a «essere adescata», che mi evoca l’immagine di

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qualcuno che viene attirato in trappola per poi essere ucciso, come un pesce preso all’amo. Che non sembra poi una metafora così estrema dopotutto, perché sebbene le donne si concedano

intimità matrimoniali senza la protezione di un vero vincolo matrimoniale, hanno una paura costante delle conseguenze di un gesto così importante. Da ciò deriva una pletora di regole e formule per valutare il «quoziente di propensione all’impegno» di un uomo prima di fare sesso, quanti «appuntamenti» si dovrebbero concedere prima di farlo davvero e come essere certe che il sesso non riduca le possibilità di sposarsi.

Perciò, se da un lato le donne attribuiscono grande importanza alla loro cosiddetta libertà sessuale, hanno paura di concedersi troppo presto, eliminando così una delle ragioni per cui un uomo si sposa. E questo sembra comportare molta libertà per gli uomini ma non per le donne, secondo la mia modesta opinione. E sembra anche che essere disonorata sia un rischio in questo mondo proprio come nel mio.

C’è comunque, devo dire, un aspetto sorprendente della questione che in effetti comporta un notevole grado di libertà, ovvero che le donne possono avere rapporti carnali senza la conseguenza di una gravidanza, sia prima sia dopo il matrimonio. Perciò esso non è, come ho sentito dire in chiesa, né finalizzato alla procreazione né un rimedio contro la fornicazione. Il matrimonio si fa, devo concludere da quanto ho appreso dalle riviste e dal film, per la sontuosità della cerimonia, la bellezza del vestito e l’impressione che suscita agli occhi del mondo.

O no? A essere sinceri, l’ostentazione e la pomposità della cerimonia non sono una tentazione anche nel mio mondo tanto quanto in questo? E l’idea non nasconde forse la vera essenza del matrimonio? Posso non aver partecipato a una pomposa cerimonia con duecentocinquanta invitati, come quelle descritte nelle riviste, ma ho perso addirittura il conto delle volte in cui ho sentito una vecchia compagna di scuola parlare con aria trasognata degli abiti da sposa, delle nuove carrozze e di ogni sorta di dettagli che hanno poco a che fare con la vera felicità della condizione coniugale. E ho perso anche il conto delle volte in cui poi ho sentito parlare o addirittura ho visto con i miei occhi una creatura molto diversa nelle vesti di donna sposata da ciò che avevo visto quando era in procinto di sposarsi. Nonostante l’importanza degli orpelli esteriori, il matrimonio d’amore conta come ha sempre contato. Anzi, le donne di questo secolo sentono addirittura di avere diritto ad amare.

Ho gli occhi stanchi per le troppe ore di lettura. Devo veramente andare a dormire prima che il sole sorga. Posso anche non avere più un motivo per cui alzarmi al mattino, ma non consentirei mai che si dicesse che non ho niente da fare.

Mentre mi sveglio e mi vesto, si sono già fatte quasi le undici e mi si contorce lo stomaco quando, non inaspettatamente, bussano alla porta. È tempo di affrontare la temutissima questione, ma come? mi chiedo per la ventesima volta, mentre apro a Wes e mi costringo a sorridergli cordialmente. Anche se la mia cordialità non è proprio tutta di facciata, sono davvero contenta di vederlo.

Per quanto cerchi di stare in guardia, come Paula e Anna vogliono che faccia, c’è qualcosa di così poco affettato nel suo comportamento che non posso essere diffidente. Comunque, devo capire una volta per tutte perché abbia scelto di mentire per coprire Frank invece di essere sincero con Courtney. Perché se ho un compito da portare a termine nella vita di Courtney, come ha avvisato la chiromante, allora non è forse della massima importanza che io comprenda la vera natura di Wes?

È per questo che l’ho invitato qui. E sono davvero fiera di me stessa non solo perché ho usato il telefono per farlo, ma anche perché ho imparato a fare il caffè con una macchina. A quanto pare non c’è niente che non possa scoprire consultando il mio oracolo, il computer. In ogni caso Wes è arrivato con una scorta di caffè per entrambi e ha portato anche dei dolci di pasta sfoglia ripieni di marmellata di fragole. Comunque beve cortesemente un sorso del caffè che ho preparato per lui e proclama che è ottimo.

«E quindi», dice il mio ospite, pulendosi la bocca con un tovagliolo di carta, «mi vuoi dire qual è la questione delicata che hai menzionato al telefono? Continuo a ripetermi che non vuoi chiudere per sempre con me se ce ne stiamo seduti qui a fare colazione insieme, ma immagino che le tue consigliere più intime ti abbiano suggerito di fare il contrario.»

Mi rendo conto che sto sbiancando.«Ti senti bene?» mi domanda, l’espressione del viso improvvisamente seria. «Qualunque cosa sia,

posso sopportarla.»Prendo un respiro profondo. «Sono colpita dalla gentilezza che hai dimostrato nei miei confronti. Ti

sei preso cura di me, ti sei preoccupato del mio benessere e ti sono davvero grata per questo.»Wes mette la mano sulla mia e il calore che emana mi dà una scossa. «Sono io quello che deve essere

grato, Courtney. Che tu mi abbia fatto tornare a fare parte della tua vita è molto più di quanto avessi mai osato sperare.» Mi guarda fisso negli occhi e per un attimo riesco a stento a respirare.

«Sai che farei qualunque cosa per te, vero?» mi chiede.«Credo di sì... e ciò spiega perché mi sia così gravoso chiederti ciò che devo chiederti.»«Di qualunque cosa si tratti, sono qui per te.»C’è così tanta dolcezza nel suo sguardo, nel cambiamento della sua espressione, che non riesco a

trovare le parole per domandargli perché sia stato disposto a mentire per Frank. Non posso. No. Non posso sopportare di vedere il dolore nei suoi occhi se metto in discussione la sua onorabilità, visto che è stato tanto buono con me. E cosa sono le parole di Courtney in un diario rispetto alla mia esperienza? No, deve esserci stato qualche fraintendimento e al momento opportuno si chiarirà tutto.

Ma c’è un’altra cosa che vorrei chiedergli, un argomento altrettanto delicato eppure più facile da affrontare.

«Sai», inizio, «ho bisogno di un tuo consiglio. Sai, non so come fare per verificare l’ammontare dei

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miei – ah – averi. Ci sono alcuni conti che vorrei saldare senza ulteriori indugi e non so, cioè...»«Oh», ribatte lui e sembra quasi indispettito. «I solleciti di pagamento.» Cosa si era immaginato che

volessi chiedergli?E poi mi rivolge un sorriso di incoraggiamento. «Ti posso aiutare. Quanto tempo ti rimane?»«Se solo potessi stabilire quanto denaro possiedo...»«Ma certo, scusami. Non ti ricordi le tue password. Fammi vedere che posso fare.» E con questo si

mette seduto davanti al computer e batte le dita sulla tastiera. «Ci potrebbe volere un po’», grida senza voltarsi. «È tutto okay, Courtney. Qualunque cosa sia, possiamo risolverla.»

Possiamo?Ieri avrei potuto pensare che una frase del genere fosse quanto meno impertinente, ma oggi non mi

importa. Anzi, mi fa molto piacere sentirla.«Nel frattempo», aggiunge lui, «perché non dai un’occhiata alle bollette e vedi quale bisogna pagare

prima?»Mi sento ancora più tranquilla quando decifro le bollette e vedo che mi sono stati concessi dieci

giorni per pagare la corrente elettrica e cinque per il telefono. Poi Wes mi fa cenno di raggiungerlo al computer. Ha scoperto dove si trovano le password e richiama la mia attenzione allo schermo. Ma sono così distratta dal profumo agrumato della sua pelle mentre mi si avvicina che devo sforzarmi per concentrarmi sui numeri dello schermo.

«Questo è il tuo estratto conto», mi indica una somma che supera di poco i trecento dollari. «Non navighi nell’oro.»

Faccio qualche veloce calcolo mentale. «Ma sono almeno ottanta sterline.»«A essere precisi circa duecento, ma cosa c’entra questo? Sterline, euro, dollari o rupie,

probabilmente la maggior parte dei soldi che hai in banca, se non tutti, ti serviranno per pagare le bollette di telefono e corrente elettrica. Se bastano.» Mi porge un libretto rettangolare. «Ho trovato il tuo libretto degli assegni nel primo cassetto. Magari dovresti controllare se c’è qualcosa che non ti torna.» Indica lo schermo. «Non voglio farti la paternale, ma capisci che potresti non avere neppure tutti i 317,25 dollari indicati qui, vero? Non vedo nessun deposito recente. David ti ha dato l’ultimo assegno?»

«No, io...»«Forse dovresti vedere se Sandra può accelerare un po’ le cose.»«Ha detto qualcosa a proposito dell’opportunità di chiedere a David di buttare dentro, parole sue,

una o due settimane in più, ma non ne era sicura.»«Ottimo.»«E poi c’era qualcosa su un anticipo e sulla liquidazione, ma non ho capito bene...»Wes mugugna. «Se ti ha dato un anticipo, potrebbe non doverti più niente. Speriamo Sandra risolva

la questione per te. Come sei messa a contanti?»Vado a prendere la borsa e Wes prende di nuovo il libretto degli assegni. «Forza, vediamo se riesco a

capirci qualcosa mentre tu cerchi il portafogli.» Sfoglia le pagine, guarda di nuovo lo schermo e aggrotta la fronte. «Se hai scritto tutto, sembra che tu abbia cento dollari in meno della cifra che compare sullo schermo. Anche se Sandra ti fa avere un assegno, i soldi non ti arriveranno prima di un tot.»

Gli mostro il contenuto del mio portafogli: sembra che l’ammontare del mio patrimonio sia di duecento dollari depositati in banca e di altri ventisette che ho in borsa.

Wes si mette la mano in tasca e tira fuori una mazzetta di banconote. Io tendo la mano per fermarlo mentre me le porge.

«Per favore, Courtney. Prendili. Me li ridarai. Non voglio tu vada in giro senza soldi. O che prosciughi le tue carte di credito.» Mi prende la mano e ci mette le banconote.

«Non posso assolutamente...» Sono troppo sopraffatta dalle lacrime che mi riempiono gli occhi per riuscire a esprimere altro, ma riesco a rimettergli in mano le banconote. «Sei molto buono, ma ti assicuro che non sono affatto nei guai.»

«E i solleciti di pagamento?» chiede Wes. «Perché non ti fai fare un assegno? Me li ridarai non appena rifiati un po’.»

«Ho qualche giorno e nel frattempo si sarà sistemato tutto. Davvero.»«Sei sicura?» Indica i solleciti di pagamento, che sono sparpagliati sul letto. «Posso darci

un’occhiata?»«Le assicuro che non ho ancora raggiunto un tale livello di incompetenza, signore.» Gli sorrido con

un’espressione che spero mostri una grande sicurezza in me stessa.Wes ricambia il sorriso. «Mi piace quando mi chiami così.» Si alza e si stiracchia. «E quindi... hai un

piano?»«Piano?»«Per il tuo prossimo lavoro. Cosa c’è in serbo per la poliedrica Courtney Stone?»«Cosa mi suggeriresti?»«Be’, sappiamo già che sei portata a offrire supporto, stare vicino e a coccolare l’ego. Per non parlare

di quell’infinità di idee creative delle quali non ti viene quasi mai riconosciuto il merito.»«Non è certo un quadro confortante.»Sorride. «Penso che dovresti andare in un’altra direzione.»«Dovrei essere d’accordo.»«Perciò nel frattempo, mentre ci pensi, che ne dici di lavorare per me?»«Cosa?» e mi rendo conto che non so neppure quale lavoro faccia Wes.«Solo temporaneamente. E non preoccuparti: non mi aspetto mi aiuti a costruire siti web. Ho solo

bisogno di qualcuno che si occupi della contabilità.»

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«Certo che no.»Sembra quasi offeso. «Perché no?»«Perché...» Sento che sto arrossendo. «Devo anche... perché sarebbe estremamente disdicevole.»«Non stai dicendo sul serio.»«Nel posto dal quale provengo io, tutto ciò che ho fatto e che sto facendo va contro quello che mi è

stato insegnato. Tutto, dal vivere così – e faccio un cenno con la mano per indicare l’appartamento – al ricevere visite mattutine da uno scapolo senza che sia presente un’altra persona.» Non riesco neppure a guardarlo negli occhi. «Come posso fartelo capire? Non è che non mi piacciano la solitudine e l’indipendenza, ma è tutto così... inedito. A dire il vero, gradisco moltissimo le nostre chiacchierate.» Perché sento che sto arrossendo fino al collo? «Ma capisci bene che se fossi alle tue dipendenze, non saremmo alla pari. È come se Jane Fairfax cercasse di fare la governante e non riuscisse a mescolarsi alla famiglia alla pari. Mi sono spiegata?»

«Chi è Jane Fairfax?»«Oh. Credevo che avessi letto Emma.» «Lo leggerò se vuoi che lo faccia.»«Non è questo il punto. Ciò che intendo è che una persona non è, non può essere, su un piano di

parità rispetto a un datore di lavoro.»«È l’affermazione più antiquata che abbia mai sentito. Courtney, ti sto chiedendo un favore. Di

lavorare con me, non per me. La verità è che il mio commercialista mi ucciderà se non faccio un po’ d’ordine tra le varie fatture. Ma ho così tante faccende da sbrigare, che non ho il tempo di occuparmene io.»

È possibile che mi stia facendo un’offerta ragionevole? Inizio ad andare avanti e indietro per la stanza. «E non lo stai facendo solo per compassione?»

«Se c’è uno che si merita un po’ di compassione, quello sono io. Se non puoi aiutarmi tu, dovrò assumere un perfetto estraneo e dargli accesso ai miei dati personali.»

Certamente non vorrei essere eccessivamente cauta e rifiutarmi di aiutare un amico che ha mostrato una gentilezza senza limiti nei miei confronti, a prescindere da qualunque errore possa aver commesso in passato. E lavorare con un uomo del genere sarebbe una prospettiva di gran lunga più rosea che rischiare di essere assunta da un altro come David.

«Ci penserò.»Parte una canzone dal ritmo sincopato e Wes tira fuori il telefono dalla tasca. «Scusami. Devo proprio

rispondere», dice e si dirige in cucina per prendere la chiamata. Trovo affascinante che a quanto pare ognuno abbia il proprio segnale personale – suoneria, così si chiama.

Mentre saluto Wes, che si scusa perché deve andare a incontrare un cliente, mi chiedo se la mia promessa di prendere in considerazione la sua offerta sia nata semplicemente da un desiderio di ricambiare la sua gentilezza o per salvarmi dalla bancarotta. Non è affatto facile rispondere.

Decido di distrarmi da questi pensieri tetri cercando di far funzionare la macchina per lavare i panni che si trova in una stanzetta accanto alla cucina, vicino alla scala esterna. Non posso negare di essere molto tentata di lavorare per Wes – e sì, è per, non con, a prescindere da come lui indori le sue parole – perché ho paura di rimanere senza soldi.

È più facile comportarsi secondo certi principi quando uno ha da parte una piccola fortuna piuttosto che quando è povero e in difficoltà. Ed è per questo che per me è stato tanto facile rifiutare due proposte di matrimonio ineccepibili prima che arrivasse Edgeworth. All’epoca ero circondata da tutti i lussi e le comodità, con la protezione di una famiglia rispettabile e con molte proprietà terriere. Ma ora sono qui con poco da proteggere in termini di reputazione e nessun reddito vero e proprio. Non ho neppure abbastanza denaro da provvedere alle bollette dell’elettricità e del telefono. Come farò a pagare l’affitto e a comprarmi da mangiare?

Non so se riuscirei a sopportare una vita di stenti nell’America del Ventunesimo secolo. La povertà è ben poco dignitosa, a prescindere dall’epoca storica, perché non mi sono sfuggite le molte persone sporche e cenciose per le strade di questa città straordinariamente moderna, che sembra aver eliminato ogni inconveniente della mia epoca tranne il problema della povertà. Spero Sandra convinca David a darmi lo stipendio di una o due settimane in più. E che i soldi arrivino in fretta. Ho ancora qualche giorno prima che mi stacchino elettricità e telefono. E non penso dovrei farmi assumere da Wes, tentata come sono di fare conto ancora una volta sulla sua gentilezza e generosità. No, non voglio rischiare di rovinare un’amicizia che mi è diventata carissima in questi pochi giorni che sembrano già anni per tutto ciò che è accaduto. Dovrei trovare un altro lavoro. Anzi devo.

Non devo pensarci più. Sarò padrona di me stessa.Almeno finché i miei vestiti non saranno puliti.

È solo un paio d’ore dopo che deposito una pila di panni lavati sul morbido copriletto rosso. La mia soddisfazione per aver imparato a usare la lavatrice scema un po’, perché nonostante abbia la certezza di aver seguito tutte le istruzioni sul coperchio del dispositivo, mi ritrovo in mano la versione miniaturizzata di un vestito bianco. Credo potrei farlo a pezzi e ottenere qualche fazzoletto. O magari uno scialle. Questo, naturalmente, se riuscissi a trovare un ago e un filo. Non ho visto né un cestino da lavoro né un astuccio per gli aghi. Non c’è neppure un ditale in questa casa.

È solo mentre sto piegando il mucchio di indumenti che scopro che anch’essi hanno le istruzioni. A quanto pare ogni capo richiede una temperatura di lavaggio e un metodo di asciugatura diversi. Spero che in quest’epoca ci sia un maggior numero di persone che sappiano leggere rispetto alla mia, altrimenti tanta gente si ritroverà con vestiti per le bambole.

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Con il bucato riposto, credo di meritarmi una ricompensa: il film di Orgoglio e pregiudizio. Inoltre, ho googolato «carte di credito» e ho scoperto un ulteriore strumento per comprare ciò di cui ho bisogno finché non ho una fonte di reddito. Poco ma sicuro, questo è anche un altro strumento per affogare ulteriormente nei debiti, ma se devo chiedere un prestito, preferisco chiederlo alla banca che ai miei amici. No, oggi non devo più pensare a questo. Invece prendo il telecomando del lettore dvd. Sono diventata così abile a gestire gli innumerevoli apparecchi di questo mondo (in effetti, sembra che le mie dita sappiano cosa fare ben più del mio cervello) che non ci vuole più di un minuto perché il disco sia al suo posto, il film cominci e io mi sistemi sul copriletto, con una bibita fresca in mano. È senza dubbio il modo più piacevole per passare il resto della giornata.

«Deve permettermi di dirle con quanta passione la ammiro e la amo...»Improvvisamente Mr. Darcy sparisce nell’oscurità e io vengo risvegliata dal sogno a occhi aperti

lungo ore/giorni/quanto tempo è che sono qui alla Orgoglio e pregiudizio. Pigio i tasti del telecomando senza risultato: lo schermo è fermo e muto. Che significa? In effetti, tutta la stanza adesso è silenziosa e buia come può esserlo una camera di notte in questa città con le tende aperte e le luci della strada che fanno in modo che io riesca a vederne le fattezze generali senza andare a sbattere contro i mobili. Anche lo schermo del computer è spento. Mi muovo a tentoni per accendere le luci, il condizionatore, il lettore dvd. Tutto invano.

E poi mi ricordo del sollecito di pagamento. Ma com’è possibile? La lettera diceva chiaramente che rimanevano dieci giorni per pagare prima che l’elettricità venisse staccata.

Cerco a tentoni le candele nella cucina buia; alla fine ne trovo qualcuna in un cassetto e ne accendo due con la fiamma del fornello. Ne porto una accanto alla pila di lettere sul tavolo della cucina e spulcio quella della società elettrica, facendo colare la cera sui fogli finché trovo la parte che dice dieci giorni. Perciò deve esserci un errore, perché ho ricevuto la lettera solo ieri. Com’è possibile? Esamino la lettere più attentamente e vedo che la data in cima al primo foglio è di undici giorni fa. Com’è possibile se ho ricevuto la lettera solo ieri? Ah, sì: la lettera era in una pila, ha detto Wes, e questo è il mio quarto giorno qui e chissà per quanto tempo Courtney l’aveva lasciata lì senza aprirla e inoltre chissà quanto ci mette una lettera ad arrivare a destinazione e... oh, niente di tutto ciò serve a qualcosa visto che sono seduta qui al buio.

Ma perché dovevo ereditare una vita così disordinata? Qui c’è una donna che non sa fare scelte prudenti, né in campo sentimentale né in quello economico. Bene, bene. Allora capiamoci. Va tutto bene quando mi guardo allo specchio e sono grata per questo corpo formoso e questa carnagione delicata. O quando guardo questo appartamento modesto e vorrei inginocchiarmi e ringraziare perché c’è un posto di cui posso dire che è solo mio, senza dipendere dai capricci o dai desideri di qualcun altro. Non è forse giusto che se devo godermi i benefici della mia nuova persona e situazione, con tutti questi amici solleciti a mia disposizione, queste macchine intelligenti e questa splendida collezione di libri, mi debba prendere la responsabilità anche degli svantaggi? Come posso pretendere gli uni ma non gli altri?

In ogni caso è inutile starsene a recriminare quando la questione più urgente è come posso far tornare la corrente – sempre sia possibile – e quando riuscirò a vedere la fine del film e?... Devo ridere di me stessa adesso, perché sto diventando davvero una donna del Ventunesimo secolo che si sente bistrattata se privata dell’elettricità per soli cinque minuti. Io, che fino a quattro giorni fa non conoscevo altro che la luce delle candele. Quattro giorni e 196 anni.

Che cosa devo fare per risolvere la faccenda? Ho paura che Wes scopra la mia situazione, perché provvederebbe senza dubbio a saldare i conti con o senza il mio permesso, come anche Paula e Anna. Quanto sono fortunata ad aver ereditato degli amici così affettuosi, ma non vorrei mai essere un peso per qualcuno a cui non sono legata da un vincolo di parentela. Mi piacerebbe tanto riuscire a procurarmi i mezzi per risolvere tutto da sola.

Che cosa farei se mi trovassi sperduta nel mio Paese, nella mia epoca, ma lontano da casa? Mi rivolgerei a mio padre, naturalmente, a mezzo posta, e lui risolverebbe tutto tenendolo nascosto a mia madre. Strano che durante il mio primo giorno qui, Wes abbia chiesto se dovesse chiamare mia madre ma non abbia detto niente di mio padre. Forse Courtney un padre non ce l’ha. E chiaramente sua madre non è una persona a cui posso rivolgermi in un momento di difficoltà. Devo schiarirmi le idee in qualche modo. Camminando. Questo mi rinfranca sempre e mi dà buone idee. Prendo la borsa dal tavolo e corro giù per le scale.

Diciassette

PERCORRO due isolati verso la strada principale dove ci sono i negozi, anche se non ho intenzione di spendere quei pochi soldi che ho, e fortunatamente ho cenato prima con gli avanzi della cena di ieri, quell’ottimo pollo in umido, perciò non ho bisogno di mangiare. Non ancora.

Appena prima di raggiungere la strada principale, un’automobile richiama la mia attenzione. Be’, non la macchina in sé, perché quell’ammasso di ferraglia marrone, il cui colore è spento da uno strato di polvere, è più normale della maggior parte delle auto vicine. No, ciò che attira la mia attenzione è dietro al grande vetro anteriore, illuminato dal lampione sovrastante: un piccolo leone di pezza appeso allo specchietto – e so che è un leone anche prima di arrivare abbastanza vicino da vederne le fattezze. E all’improvviso io, come Courtney, sto stringendo tra le mani quel giocattolino di pezza e lo sto porgendo a Frank. È il suo compleanno e il leoncino è un regalo. Sono seduta su uno sgabello alto davanti al

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bancone di un bar, nel locale dove lavora Glenn, e all’improvviso so che questo posto si chiama Fortune Bar. E so, con tutta me stessa, che ciò che sto vedendo nella mia mente è un ricordo, anche se so che non è un mio ricordo, ma di Courtney. Sono al bar con Frank e lo stomaco mi si sta stringendo per il dispiacere perché lui ha appena rifiutato il regalo.

«Forza, ammettilo», dice, il sorriso stampato sulle labbra. «Questo regalo è per te, non per me. Dai, come quelle mutandine di pizzo rosse che ti ho comprato per san Valentino. Erano chiaramente un regalo per me. Perché non appendi questo affare allo specchietto retrovisore e ti proteggerà da tutti quegli automobilisti incapaci e dagli ausiliari del traffico rapaci. Mi piace questa parola... rapace. Come mai non usiamo parole del genere ogni giorno?»

«Perché non vogliamo sembrare mezze seghe pretenziose?» interviene Paula, che si è improvvisamente materializzata in una nuvola di stoffa leggera, azzurro pallido, una sciarpa tutta trine e un vestito in tinta, un sorriso sfrontato sulle labbra rosse e lucide, e atterra sul posto vuoto tra Frank, che è in piedi, e me.

Nascondo il leone di pezza mettendomelo in borsa. Frank guarda con astio l’intrusa.Paula ha gli occhioni spalancati, con una finta aria innocente. «Ho detto qualcosa che non va?»Frank ribatte: «Suppongo che dire oscenità inglesi quando si è del Wisconsin non sia pretenzioso».Paula fa un cenno con il mento verso Glenn, che ci rivolge un sorrisetto dalla sua postazione dietro il

bancone e alza il bicchiere verso di noi. «Me lo ha insegnato lui.»«Scusatemi, signore», dice Frank, trovando una via di fuga e dirigendosi verso l’altro capo del

bancone, presumibilmente più accogliente, dove inizia a chiacchierare e a sorridere a un altro uomo giovane, alto e bello, con i capelli castani a spazzola e le braccia esili.

«Fai la brava», sibilo a Paula. «È il suo compleanno, buon Dio!»Un colpo al finestrino della macchina mi scuote da questo strano ricordo. Adesso a dire il vero sono

seduta in macchina con solo una vaga sensazione di aver aperto la portiera ed essermi seduta mentre ero immersa nel ricordo del compleanno di Frank. E, come se il ricordo avesse fatto materializzare la persona, la faccia di Frank, con un sorriso stampato, entra nel mio campo visivo dall’altra parte del finestrino. Toc-toc.

Sentendo un’esplosione di rabbia che senza dubbio mi sta facendo arrossire, inserisco la chiave che stringevo nella mano destra nella fessura accanto alla ruota – il volante, dico a me stessa – e la giro. Con un rombo, il motore si mette in moto.

Toc-toc. Getto un’occhiata alla mia sinistra. Sul viso di Frank c’è un punto di domanda; le sue labbra formano delle parole che non riesco a capire, non voglio capire. Mi giro e guardo di nuovo davanti a me: non gli devo niente. E chi è lui per avere la pretesa di venire da me, entrare nella mia vita in continuazione, dopo avermi tradito?

Tradito me? Ha tradito Courtney, non me.Ma io sono lei, o no? Che mi piaccia o no e per quanto sembri impossibile, sono lei. La vedo nello

specchio, rispondo a nome suo, vivo in casa sua. Quelli che sono sinceri con lei lo sono con me. E quelli che sono falsi con lei lo sono con me.

La mia mano muove il cambio e lo mette in posizione G, Guida. Ho visto Paula e Sandra farlo, ma finora non avevo capito che G stava per guida. Fino a questo momento non sapevo quali pedali dovevo schiacciare per muovermi e accelerare. Non lo so neppure adesso, ma le mie mani e i miei piedi sanno perfettamente cosa devono fare per guidare. Le mie mani girano il volante verso la strada. La macchina si sposta di qualche centimetro e...

Un colpo sul finestrino. Un «Courtney» soffocato. Il mio piede destro tocca un pedale e la macchina si sposta un altro po’. Un ruggito improvviso, il suono di un clacson, e il mio piede pigia il freno mentre un mezzo a due ruote che sta sfrecciando veloce passa a qualche centimetro appena dalla mia portiera. Una donna è seduta sul sellino dietro il passeggero: dal casco spunta una lunga chioma di capelli biondi; il sangue mi scorre a tutta velocità nelle vene e le mani mi restano immobili sul volante. Per un attimo smetto di respirare e poi il respiro mi torna, veloce e pesante, mentre tremo tutta.

Li avrei potuti uccidere.La donna si volta e alza il dito medio verso di me, prima di girarsi di nuovo. In un attimo non ci sono

più.Sposto di nuovo il cambio e giro la chiave verso sinistra. La macchina adesso è silenziosa come i

dispositivi elettrici di casa mia. Come ho potuto pensare di essere in grado di guidare un veicolo così potente, complesso, a me del tutto ignoto?

Frank bussa di nuovo sul vetro. Mi giro verso di lui: la sua espressione è soffusa di gentilezza. Gli faccio un cenno e apro la portiera. Lui sta lì, aspettando che io esca dalla macchina. Inciampo un po’ mentre riemergo dall’auto. A quanto pare ho le vertigini. Frank è svelto a sostenermi prendendomi per la vita e io non oppongo resistenza. L’esplosione di rabbia che ho sentito un attimo fa non sembra più reale; è solo il fantasma di uno strano ricordo.

«Tutto bene?» mi chiede. «Forza, dammi le chiavi. Alla macchina ci penso io.»Mi accompagna verso il muro che separa il marciapiede da un giardinetto. «Forza, appoggiati un

attimo qui. Io torno subito.»Fedele alle sue parole, rimette la macchina dov’era prima che io per poco non investissi due persone.

Rabbrividisco ancora pensando a quanto poco mancava perché li centrassi e Frank torna di nuovo al mio fianco. «Forza, ti riaccompagno a casa.»

«È davvero gentilissimo da parte tua. Voglio dire, ok, grazie.» E poi mi ricordo che nell’appartamento manca la corrente. Come farò a spiegargli il motivo? «Voglio dire, grazie ma no, sono perfettamente in grado di tornare a casa da sola.»

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Frank mi sorride. «Non ti preoccupare, non cercherò di salire. Non sono così presuntuoso.»Volto la faccia. È impertinente proprio come l’altra sera.«Scusami, Courtney. Era una battuta idiota. Aspetterò sul marciapiede finché non avrai acceso la

luce, così saprò che va tutto bene.»Questo proprio non si può fare.«Adesso che ci penso», dico io, cercando di assumere un tono allegro, «mi piacerebbe fare una

passeggiatina prima di tornare a casa.»«Non da sola. Questa è Los Angeles, non la pittoresca Mayberry R.F.D. Fatti accompagnare.

Dovunque tu voglia andare.»Annuisco e proseguiamo verso la strada principale in silenzio.«Non sei costretta a parlarmi», ribatte con un sorriso malizioso dopo un paio di minuti in silenzio.

Assume un’espressione più seria. «Anche se spero lo farai.»Non rispondo. Per quanto odi ammetterlo, ha la capacità di addolcirmi con uno sguardo e credo che

ne sia ben consapevole.«O meglio ancora», aggiunge mentre ci avviciniamo alla porta rossa del Fortune Bar, «puoi farti

offrire qualcosa da bere. Ti farebbe bene dopo il tuo incidente, ne sono sicuro.» Resta in silenzio per un attimo. «E comunque non saresti costretta a parlarmi.»

Qualcosa da bere è proprio quello che ci vuole adesso.Stranamente, mi sembra di essere a casa mentre entro nel locale eccessivamente decorato eppure

confortevole e mi siedo su uno dei sedili rossi curvi e imbottiti a un tavolo all’angolo mentre Frank va al bancone a prendere i nostri drink. Tutto in questo bar rosso, nero e dorato mi sembra familiare, così familiare che non posso esserci stata una volta sola: i cherubini scolpiti che fungono da portacandele sui muri, le poltrone di velluto e, soprattutto, la sagoma alta e amichevole che sta avanzando con un grande sorriso e i capelli biondo scuro che stanno diventando stranamente, eppure senza alcun dubbio, Glenn.

«Tesoro», mi saluta, piegandosi per stringermi tra le braccia (e questa volta ne sono felice anziché preoccupata di salvare le apparenze); anche il drago viola e dorato che ha sul braccio mi è piacevolmente familiare. «Sono così felice di vederti. Ma che ci fai con quello stronzo del tuo ex?» Alza un sopracciglio e scuote la testa. «Se vuoi gli do una botta in testa con lo shaker, non hai che da chiedere.» Mi fa l’occhiolino e torna al bancone, proprio mentre Frank arriva con due bicchieri in mano e si siede abbastanza lontano da me.

«Potrebbe almeno cercare di far finta che non gli sto sullo stomaco», dice guardando con ostilità Glenn. «Smetterei di dargli la mancia se non avessi paura che mi potrebbe sputare nel bicchiere.»

«Forse lo fa già», suggerisco piano, poi mi metto una mano sulla bocca, sbalordita da quello che mi è uscito.

«Molto divertente», fa lui e io non posso non scoppiare a ridere. «No davvero, Courtney. Non hai idea di cosa significhi essere odiati da tutti. E perché solo tu devi essere considerata la parte offesa? In fin dei conti sei tu quella che ha annullato le nozze, non io. Io sarei andato avanti.»

«Come se ti stessero cavando un dente.»«E con questo che vuoi dire?»Prendo una bella sorsata dal mio bicchiere e lo fisso con cautela mentre cerco di assumere

l’espressione più indifferente possibile. «Stai dicendo che ci saremmo dovuti sposare?»Farfuglia qualcosa e tossisce, praticamente strozzandosi con il suo drink. «Io... sto solo dicendo che

non sono l’unico che non era pronto.»All’improvviso mi rendo conto che quest’uomo, che avrebbe potuto essere mio marito, questa

persona di cui in teoria Courtney era pazzamente innamorata, è un bambino.Si scola tutto il bicchiere e mi guarda. «Lo sai, ci tengo ancora a te. Non potresti almeno smetterla di

comportarti come se avessi la peste?»«Non capisco cosa intendi.»«Hai quasi investito un motorino nel tentativo di evitarmi.»Rabbrividisco. «Non succederà mai più.»Frank ride. «Sono felice di sentirtelo dire.» Fa un cenno a una ragazza con le gambe lunghe, i capelli

rossi cortissimi e un vassoio di cocktail, ma lei sta sorridendo con fare civettuolo a un uomo seduto al tavolo vicino e sembra non vedere Frank. «Non c’è proprio niente da fare in questo posto», borbotta. «E, a questo proposito, potresti cercare di darmi un po’ di tregua? Il ruolo del reietto del villaggio comincia a starmi stretto.»

«Farò del mio meglio.»Intravedo Glenn, che è piegato sul bancone, con le braccia incrociate e che sta scuotendo la testa

verso di me.Mi alzo e annuncio: «Devo andare, veramente».«Okay», risponde lui, «ma ti accompagno a casa.»Questa volta non lo contraddico.Quando arriviamo, mi ricorda di accendere una luce per fargli sapere che sto bene.«Meglio ancora», dico, «accenderò una candela sul davanzale. Ho scoperto che mi dà meno fastidio

la luce della candela da quando ho avuto l’incidente.»Le labbra carnose di Frank si piegano nel suo solito sorriso leggermente sbilenco mentre mi guarda

dritto negli occhi. «Molto romantico.»Sento che il rossore mi si sta propagando dal viso al collo. Le sue labbra mi sfiorano la punta

dell’orecchio, mandandomi un brivido lungo il corpo. «Che ne pensi se vengo su e accendo un po’ di quelle candele per te?» sussurra. «Ero serio l’altra sera quando parlavo di una seconda possibilità. Mi

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manchi, sai?»Non riesco quasi a respirare. Che stia per...?La sua mano si allunga verso la mia e la stringe, mentre con le dita ne accarezza il dorso. «Eravamo

fantastici insieme», bisbiglia, le labbra vicine alle mie. «Te lo ricordi, vero?»Questo corpo se lo ricorda: questo corpo che si inarcava sotto il suo, il peso di Frank su di me, il

contatto con le sue labbra. Oddio, ma che mi sta succedendo?«Stai tremando», mormora, mettendomi le braccia intorno alla vita. Mi sussurra tra i capelli.

«Fammi stare con te stanotte.»Ah. Adesso capisco. Non vuole nient’altro che infilarsi nel mio letto. E dire che mi ero quasi fatta

ingannare.«No», mi ribello, divincolandomi dall’abbraccio.«Cosa?»«Non me lo ricordo.» E questa non è del tutto una bugia, a parte quei ricordi corporei, o qualunque

cosa siano – rabbrividisco dentro di me – e quell’incidente con il leoncino di pezza.Mi accarezza una guancia con le dita. «Posso fartelo tornare in mente.»«No», rifiuto allontanandomi. «Non ne hai diritto.»«Non capisco. Com’è che Wes ha avuto un’altra chance e io no?» Mi lancia un’occhiata ferita. «Ti ho

detto che mi dispiaceva per Amy.»«E questo, suppongo, dovrebbe bastare a far aprire il cielo.»«Mio Dio, Courtney, non ci sono neppure andato a letto!» Abbassa lo sguardo e poi incrocia di nuovo

il mio. «Ma mi dispiace.»Non riesco a credere che sto parlando di questi argomenti con qualcuno, e con un uomo del genere

poi. «Scommetto che qualunque sia il motivo per cui ti dispiace, non è qualcosa che uno fa quando è fidanzato e sta per sposarsi. Non che per me abbia molta importanza. Non rammento quasi niente di te.»

Mi guarda stupefatto. «L’hai cancellato veramente.»Non lo contraddico.«E sei comunque arrabbiata con me.»Sono arrabbiata. Più con me stessa che con questa creatura vanesia ed egoista, che è quasi riuscita a

incantarmi e a farmi credere che provasse dei veri sentimenti per me. Ma non gli darò la soddisfazione di sapere quello che provo. «Ti sbagli. Sono indifferente, ecco tutto.»

«Davvero non ti ricordi di me», mormora, come se stesse parlando con se stesso. «Non è possibile.»Lo guardo con freddezza, non volendogli concedere la soddisfazione di sapere quanto le sue parole

superino la realtà.«Courtney...» mi giro per salire, ma lui mi prende la mano. «Forse se passassimo un po’ di tempo

insieme ti tornerebbe in mente. O meglio: penso che dovresti trasferirti da me. Non dico che dovresti lasciare l’appartamento. Non subito, in ogni caso. Ma perché non vediamo come vanno le cose? Per conoscerci di nuovo. Un nuovo inizio.»

Scoppio a ridere. «Starai scherzando, voglio sperare!» Libero la mano dalla sua presa e salgo le scale.«Se la storia funziona, possiamo parlare di rifidanzarci», mi grida dietro.Ma io non gli rispondo.«È per Wes, non è vero?»Non mi guardo indietro finché non sono in casa, con la candela accesa e messa sul davanzale. È in

questo momento sbircio la sua sagoma solitaria che guarda verso di me, la mano sollevata in un gesto di saluto; poi si gira e io lo guardo ritirarsi nel luccichio notturno, sollevata all’idea di essere fuori dalla sua orbita.

E pensare che avevo creduto, anche solo per un momento, che stesse per farmi una proposta di matrimonio. Non che mi prospettasse la possibilità di andare di nuovo a letto con lui ed essere la sua amante, continuando però a lavorare e a pagare da me l’affitto e rischiando di essere buttata fuori senza preavviso a meno che, forse, lui non decidesse di farmi di nuovo un’offerta onesta. Che affarone.

Eppure l’effetto più fastidioso è l’attrazione provata per lui giù in strada. Be’, prima di tornare in me. Certamente, ora che sono al sicuro nel mio appartamento, provo solo sollievo per il suo allontanamento. Ma per qualche minuto c’è stata quella forza che mi tirava, come un uccello che sta volando troppo vicino a un gatto. Il fatto che sia stata coinvolta anche solo per un attimo, nonostante tutto ciò che ho sentito da Wes, Paula e Anna, nonostante ciò che ho visto con i miei occhi del comportamento di Frank, è a dir poco incredi bile.

In strada erano i sentimenti di Courtney o i miei? Capisco perché Courtney potesse essere attratta da lui, perché, dopotutto, lei ha condiviso con Frank ciò che dovrebbe essere condiviso solo nel matrimonio. E, secondo tutte le testimonianze che ho ascoltato, lei lo amava veramente. Quanto a Frank, sarebbe andato avanti con la storia del matrimonio, come ha ammesso lui stesso. Non tutti gli uomini si sarebbero comportati così.

Eppure adesso mi deve considerare merce difettata. Altrimenti non mi avrebbe mai fatto un’offerta così offensiva.

Per la prima volta, riesco ad apprezzare il coraggio di Courtney nel rompere il fidanzamento. Forse la sua scelta nel mio mondo non sarebbe stata prudente, ma è certamente molto saggia.

Diciotto

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MI ricordo sgradevolmente delle limitazioni della lettura a lume di candela, soprattutto quando in casa ci sono solo due candele. Così sono costretta ad andare a letto prima di quanto vorrei e mi sveglio con la prima luce del mattino per divorare quante più pagine posso del prossimo romanzo della Austen in mio possesso, Mansfield Park. Nello specifico questo volume non mi fornisce solo il piacere di una nuova storia, ma mi dà anche la possibilità di imparare qualcosa sull’autrice in sé, perché ci sono un bel po’ di informazioni su di lei sulla copertina, compreso un resoconto di come inizialmente accettò la proposta di matrimonio di un uomo molto ricco, un amico di famiglia. Anche se il matrimonio avrebbe salvato lei, la madre e la sorella dalla povertà, Miss Austen non amava quel gentiluomo e quindi alla fine rifiutò la proposta. Un atto coraggioso, considerando la sua età e la sua situazione, perché allora aveva quasi ventisette anni, le sue prospettive erano pessime e gli amici ne furono certamente contrariati. Almeno Courtney ha avuto l’approvazione dei suoi amici quando ha rotto il fidanzamento.

Mi chiedo se la mia strada e quella di Miss Austen si siano mai incrociate in città o a Bath. Forse potremmo aver partecipato alle stesse feste alle Upper Rooms o comprato nastri nello stesso negozio di Bond Street. Cosa non avrei dato per aver avuto la fortuna di incontrarla! E come mi piacerebbe aver avuto la possibilità di dirle quanto sarebbe stata famosa e amata quasi duecento anni dopo la sua morte.

Quando mi alzo dal letto, il sole è alto nel cielo e la temperatura nell’appartamento ha già raggiunto un livello sgradevole, anche con tutte le finestre spalancate. Se non fosse per le sbarre, sarei tentata di mettere la testa fuori. Non che creda che questo servirebbe a qualcosa: il clima della città natale di Courtney è davvero caldissimo.

Mi dirigo in cucina a piedi scalzi e con le unghie laccate di azzurro (che non mi sconvolgono più, anzi credo che potrebbero persino iniziare a piacermi) e apro il frigorifero. Mio Dio. Mi tappo il naso, che è assalito da un odore sulfureo. A quanto pare quel cespo d’insalata dall’aspetto derelitto è andato a male per colpa del caldo e adesso si sta putrefacendo.

Orribile. Trattengo il respiro e afferro un fazzoletto di carta con cui rimuovo questa cosa disgustosa, poi la getto in un sacchetto, che mi affretto a portare fuori dall’appartamento e giù per le scale fino al grande contenitore esterno dove ho visto Paula mettere la tazza del suo caffè. Non mi rendo neanche conto di aver fatto tutto questo con addosso solo una lunga maglia che mi lascia scoperte le gambe fino a metà della coscia finché non ritorno in camera da letto e intravedo un riflesso di me stessa nello specchio dell’armadio aperto. Solo cinque giorni in questa società e sto già mettendo in mostra le mie grazie davanti a tutto il mondo.

Che cosa direbbe Mary se mi vedesse espormi, letteralmente, in questo modo? Non che mi riconoscerebbe. Non che io mi riconosca.

Ah, Mary, mi manchi. Se tu fossi qui, ti farei capire che questa sono io.Buon Dio, è davvero caldo qui. Una doccia fredda sarebbe piacevolissima; non riesco neanche a

immaginare di potermi vestire senza farla. Mi tolgo la camicia da notte e mi butto sotto il getto freddo e rinvigorente. Potrei stare qui tutto il giorno, godendomi il fresco delizioso e il profumo di marzapane del bagnoschiuma. Una sensazione divina.

Mentre asciugo questo corpo ben tornito con un asciugamano enorme e morbido, all’improvviso mi rendo conto della differenza tra esso e le innumerevoli donne incredibilmente magre, ai limiti della denutrizione, viste sulla rivista per future spose che ho spulciato l’altro giorno. Tutte quelle donne avevano un tipo di bellezza molto diverso da queste braccia e gambe piene e da questa pancia appena prominente. Questo corpo non è grasso, ma non assomiglia affatto alle donne di quelle immagini, che sono ancora più magre del mio vecchio corpo, con il seno piccolo e la figura longilinea. La sarta preferita di mia madre diceva sempre che avevo il corpo perfetto per i vestiti in stile Impero che sono così eleganti, ma io ho sempre desiderato delle forme più femminili.

In ogni caso in questo mondo futuro a quanto pare quanto più una donna ha un aspetto emaciato, quanto più le clavicole e i gomiti si vedono sotto la pelle, tanto più è considerata bella.

Non mi meraviglia che Anna abbia parlato della litania di lamentele di Courtney sulla sua taglia. Povera Courtney: nella mia epoca sarebbe considerata un ideale di bellezza da molti uomini e donne. Comunque io farò ammenda per questo ingiusto disprezzo lodando ogni giorno il corpo bellissimo che ho ereditato.

Mentre rovisto tra i vestiti cercando qualcosa di adeguato da indossare, il mio stomaco inizia a borbottare. Qualcosa che, immagino, le donne che di sicuro a un certo punto hanno fame sopportano volontariamente, visto che nel giornale c’erano un sacco di chiacchiere sui metodi usati per ottenere l’aspetto emaciato tanto bramato che, naturalmente, comporta morire di fame davvero. È una pratica che non adotterò di certo, almeno fin quando avrò i soldi per il cibo. Non ho mangiato niente da ieri pomeriggio. Quanto sono fortunata ad avere dei soldi nella borsa con i quali mi potrò pagare un pranzo in uno dei ristoranti lungo la strada e anche un po’ di denaro in banca, ma non sono più vicina ad avere la benché minima idea di cosa dovrò fare quando finiranno rispetto a ieri. Eppure non riesco a pensarci adesso. Devo vestirmi e andare a comprare del cibo. E una scorta di candele.

Nell’armadio trovo una gonna lunga e svolazzante e la completo con un corpetto bianco senza maniche. Dopotutto, come direbbe Mary, fa un caldo abominevole e comunque tutte le donne in giro hanno sia le braccia sia le gambe nude. Devo ridere, perché credo che la piccola cantonata di prima di uscire con addosso solo la camicia da notte abbia allentato le mie finora rigidissime opinioni sull’abbigliamento adeguato.

Sto per uscire dall’appartamento quando il telefono, che avevo dimenticato per la fretta e lasciato sulla libreria, esplode con la musichetta gioiosa di Orgoglio e pregiudizio.

«Mami», dice lo schermo. «Rispondi. Ignora.»Lo stomaco mi si stringe al pensiero di parlare con questa estranea che mi ha lasciato messaggi

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sempre più adirati. Tuttavia, lei teoricamente è mia madre, a prescindere da quanto mi sia estranea, e così rifiutarne la chiamata sarebbe un atteggiamento non improntato alla pietà filiale.

Oh, mio Dio.«Pronto?»«Courtney, grazie a Dio. Innanzitutto non ti sento da due settimane. Poi ti chiamo e il telefono è

staccato. Che diavolo sta succedendo?»Forse rispondere al telefono non è stata proprio un’ottima idea.«Be’? Tutto bene?»«Perfettamente, madre.»«E da quando mi chiami così?» Ha la voce profonda e si esprime rapidamente, in maniera molto

diversa da quanto fa la mia vera madre, il cui tono calmo e chiaro e il modo di parlare molto misurato possono risultare davvero ingannevoli.

«Mamma?» azzardo.«Ma hai bevuto?»«Non riesco a pensare...»«E che ne è stato di ‘mami’?»«Perdonami... mami. Certo.» Stupida, stupida. Era proprio lì, sul telefono. E nei suoi messaggi.«Ma che stai facendo, Courtney?»«Stavo solo andando a fare una passeggiata a Sunset Boulevard e a comprare qualcosa da mangiare.»«Ma non sei al lavoro? Hai perso il posto? È per questo che avevi il telefono staccato? Oh, mio Dio,

Courtney.»Cerco di far sembrare la mia voce più calma e ferma possibile. «Ho lasciato il lavoro. Era la cosa

giusta da fare.» Nonostante i miei sforzi, alla fine di questo discorsetto sto tremando. È chiaro che la madre di Courtney ha il potere di destabilizzarmi proprio come la mia vera madre.

«Senza trovarne un altro prima? Ma sei impazzita?» La sua voce diventa un sussurro. «Quanto ti serve?»

«Dove sei?» Mi rendo conto di aver abbassato a mia volta la voce.«Non voglio che Don senta che ti sto mandando dei soldi», continua, sempre sussurrando.Don? Sicuramente non sta parlando di mio padre.«Non che siano affari suoi», continua, «ma sai com’è.»Davvero?«I suoi figli sono avvoltoi e non voglio pensi...»«Che sto spolpando la tua carcassa?» Non riesco a credere che queste parole siano appena uscite

dalla mia bocca. E comunque: chi è Don?«Questo è disgustoso», replica lei. «E ingiusto. Don è stato molto buono con me. E con te, dovrei

aggiungere. Non è colpa sua se tuo padre si è dimenticato di avere una famiglia. Ma non mi darai mai tregua, vero?»

Oh, mio Dio. Ma che razza di famiglia è mai questa? Il padre di Courtney, mio padre, ha abbandonato la moglie e la figlia? E sua madre si è sposata con Don? Oppure è...?

«Mi dispiace, Courtney. Non avrei dovuto mettere in mezzo tuo padre.»«No. Sono io che dovrei scusarmi.»«Lasciamo stare, va bene? Lo sai che non navigo nell’oro, ma sei mia figlia e se una madre non aiuta

sua figlia, che razza di madre è?»«Per favore, non preoccuparti. Sono certa che troverò un nuovo lavoro molto presto.»«Con questa crisi economica? Dovresti ascoltarmi e lasciar perdere l’industria cinematografica.

Assistente. È il lavoro più insensato che esista e non ti porterà da nessuna parte. Lo so, lo so, hai degli amici che hanno fatto carriera. Bene, buon per loro. Ma io sono stanca di vedere mia figlia trattata come spazzatura. Assistente. È stato tanto bello quando hanno cambiato il mio titolo da segretaria ad assistente esecutiva quando è diventato tanto di moda, ma ciò non significa che io abbia smesso di servire il caffè, né tantomeno che le mie possibilità di prendere il lavoro del mio capo siano diventate più concrete. Naturalmente quando si lavora in uno studio legale questo non è un problema, ma almeno si tratta di un impiego ben pagato. Perché non mi hai dato retta e non hai preso un master in business administration invece di una laurea proprio in letteratura inglese?»

Io, una laurea?«Avresti potuto fare giurisprudenza. E adesso è troppo tardi: devi pensare ad avere figli... Oddio. Ho

fatto proprio una gaffe, tesoro. Mi dispiace tanto. Lo so che sei distrutta. Dio mio. Sono solo così dispiaciuta che, con tutto quello che stai passando, tu sia rimasta anche senza lavoro.»

«È tutto... ok... mami. Davvero.»Ho preso una laurea. Io. Una donna. Oh, quanto ho desiderato essere come mio fratello e andare a

Cambridge. Avrei fatto tesoro dell’opportunità di imparare, mentre lui la vedeva solo come un modo per essere libero dalle costrizioni di casa.

«Courtney! Mi stai ascoltando? Come ti è venuto in mente di lasciare il lavoro senza averne un altro? Dico solo questo. Basta, vengo lì.»

«No!» Non so da dove mi sia uscito, ma so che devo impedire a tutti i costi che venga. Cerco di assumere un tono più pacato. «Davvero. Sto benissimo, te lo assicuro.»

«Non posso continuare a mandarti soldi per sempre, lo sai. In verità, sono quasi sul lastrico. So che avevo promesso di non tirar fuori questa storia, ma i duemila dollari che ho dato in deposito per il tuo matrimonio non li vedrò mai più. Devi trovarti un lavoro. In fretta. Ed è per questo che dovresti permettermi di aiutarti. Dammi due settimane a Los Angeles per spulciare gli annunci di lavoro e

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sistemarti il curriculum e ti garantisco che avrai dei risultati.»Nonostante il caldo, un brivido mi corre lungo le ossa. «Ma le spese del viaggio, non sarebbe...»«Don ha un sacco di miglia, il volo non costerà quasi niente.»«Miglia.» Non ho idea di cosa stia parlando, soprattutto la storia del volo e non oso chiedere. Ho solo

una visione terrificante di questa strana donna che sostiene di essere mia madre a cui spuntano le ali e che poi viene a bussare al mio davanzale.

«E naturalmente verrò a stare da te.»No. Non posso permetterlo. Devo confessarle della proposta di Wes o questo significherebbe segnare

il mio destino?«Mami. Non ce n’è bisogno. Ti assicuro che avrò un nuovo lavoro entro una settimana.»«E come fai a esserne sicura?»«Ho un piano.» Naturalmente non ce l’ho affatto. «E per favore, mami, non mi mandare soldi.»«Sei sicura?»Certo che no. Non ho neppure i soldi per pagare l’elettricità e la bolletta del telefono. Ma so che non

posso barattare la mia indipendenza con un aiuto economico.«Ti chiedo solo una settimana. Se entro sette giorni non avrò un lavoro, allora farò tutto quello che

vuoi.»«Ci crederò quando lo vedrò.» Resta in silenzio per un attimo. «E va bene. Una settimana.»Grazie al cielo. È come se finora avessi trattenuto il respiro. «E mami? Sono colpita dalla tua

generosità. Davvero.»Lo sono. Nonostante la paura di vedermela comparire alla porta. O alla finestra.«Non sparire di nuovo, Courtney. Ti voglio bene, lo sai.»All’improvviso la gola mi si stringe per le lacrime che mi riempiono gli occhi e mi appannano la vista.

Riesco appena a emettere un grazie soffocato con il quale chiudo la telefonata, ampiamente sollevata. E con un forte senso di colpa, proprio come mi sento dopo ogni conversazione con la mia vera madre sulle prospettive buie del mio futuro. Se solo adesso potesse vedere cosa si è rivelato questo futuro.

Se non esco di qui, finirò a terra in preda a una risata isterica. Afferro la borsa e mi lancio fuori dalla porta.

Diciannove

LA luce del sole è abbagliante, il caldo è come un muro solido. Frugo nella borsa, sperando di possedere un paio di occhiali scuri come quelli che ho visto portare ad Anna e Paula e che adesso vedo addosso a quasi tutti gli automobilisti in strada. Le mie dita si stringono intorno a un fodero che contiene un paio di lenti scure – occhiali da sole, ecco come si chiamano. Da qualche ora è come se nel mio cervello si fosse aperto un vasto vocabolario interno, che mi suggerisce i nomi di cose mai viste prima.

Inforco gli occhiali da sole. Ah sì, il mondo adesso è piacevolmente splendente. Quando arrivo da Acme Taqueria faccio appello a tutto il mio coraggio, perché nel mio mondo sarebbe inaudito per una donna rispettabile entrare in un ristorante da sola. Per la precisione sarebbe inconsueto vedere una donna perbene, accompagnata o no, in un posto del genere. Ma questo non è il mio mondo e ben poche di queste regole, se non nessuna, sono valide.

Sto davanti alla porta del ristorante, bramando la frescura che so che mi aspetta all’interno eppure incapace di uscire da questa cappa di calore. Studio la disposizione degli avventori ai vari tavoli. Donne. Uomini. Uomini e donne insieme. Un uomo solo. Ma non una donna sola.

Eppure non può essere sbagliato che io mangi per conto mio qui: non ho forse detto alla madre di Courtney, cioè alla mia, che stavo per uscire a prendere qualcosa da mettere sotto i denti? Non mi ha nemmeno chiesto se fossi accompagnata, né tantomeno da chi. Si è interessata solo a questioni di lavoro e soldi.

E allora perché non ci sono donne non accompagnate?Sto per voltarmi e tornare a casa, nonostante i brontolii del mio stomaco, quando una voce familiare

mi chiama.«Non entrare. Vieni fuori con me invece», dice.Mi giro verso la voce. È Deepa, sola in macchina. «Sali a bordo, ragazzina. Fa un caldo dannato là

fuori.»Non sono mai stata così sollevata nel vedere qualcuno quanto ora di fronte all’espressione sorridente

di Dee pa, i denti perfetti che contrastano con la sua bella pelle scura, e appena mi sono sistemata sul sedile imbottito color crema della sua auto, so di essere in salvo.

«Non riesco a credere di non essermi fatta dare il tuo numero l’altra sera», esordisce Deepa. «Perciò ho fatto un salto a casa tua, proprio come una visita mattutina vecchio stile alla Jane Austen», si gira per un attimo verso di me, con gli occhi che le brillano maliziosi, «ma la signora non era a casa. Per mia fortuna ti ho incontrata su Sunset.»

Le sorrido. «Anche per mia fortuna.»«Perciò», continua, «devo pensare che il tuo atteggiamento esitante di fronte al ristorante indichi che

non hai fame tanto quanto me?»«Affatto. Sono estremamente affamata.»«Ottimo. Puoi aspettare quarantacinque minuti? Mi è saltata in mente la pazza idea di andare sulla

spiaggia, dove ci devono essere almeno quindici gradi in meno rispetto a questo inferno, ma non mi

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sembrava divertente farlo da sola.»«La spiaggia. Sarebbe meraviglioso.»Non sono più andata in spiaggia da quella volta a Brighton ed è stato cinque anni fa.«Offro io», fa lei.«Ma io...»«No, insisto. Questa è la mia avventura e sono felice di avere compagnia.»Non può sapere che mi trovo in ristrettezze. No, l’offerta non è dettata da un impulso di compassione.

È un atto di vera amicizia. Desidera la mia compagnia e non semplicemente per una visita mattutina di un quarto d’ora, ma per una gita al mare. Devo accettare la sua generosità e ricambiarla appena potrò.

Non siamo in macchina neppure da dieci minuti quando intravedo qualcosa che mi fa restare a bocca aperta: una vera macchina volante con ali come quelle di un uccello per aria, che attraversa il cielo come una freccia.

L’ha vista anche Deepa? Non sembra aver notato niente di straordinario. Può essere che in questo mondo una meraviglia volante nel cielo sia comune come lo era la carrozza nel mio? Che invenzione miracolosa! In un modo o nell’altro riesco a staccare gli occhi dal cielo e a rispondere a Deepa che mi sta gentilmente chiedendo come vanno le cose da quella sera al locale.

Prima di lasciare la superstrada – un’altra parola nuova che ho imparato – e svoltare in una strada alla fine della quale c’invita un mare azzurro e luccicante, ho notato altre due macchine volanti. E non so davvero come sia accaduto, ma ho finito anche per raccontarle che ho perso il lavoro, che ho rifiutato l’offerta di soldi da parte di mia madre e sono riuscita a evitare la sua visita (e allora mi sono resa conto che le macchine volanti sono ciò a cui stava alludendo quando parlava di volare).

«In tutta onestà», esclamo, «è davvero generosa a farmi una proposta del genere, perciò dovrei vergognarmi di me stessa per il fatto che temo la prospettiva di una visita. Veramente, mi vergogno di me stessa.»

«Stai scherzando, spero. Senti, voglio bene a mia madre come tutti, ma ogni volta che viene da me, passa praticamente ogni aspetto della mia vita al microscopio. E quello che vede non le piace mai. Hai fatto bene a rifiutare i suoi soldi. C’è sempre un guinzaglio attaccato, credimi.»

Non potrei essere più contenta della mia compagna neppure se improvvisamente comparisse Mary davanti all’imponente hotel fatto di mattoni e di un materiale che sembra quasi pietra di Bath, dove scendiamo dalla macchina.

«Che pensi?» mi chiede Deepa, mentre entriamo nell’edificio. Io sono così assorbita dalla leggerezza aerea dello spazio enorme che riesco solo a mormorare il mio compiacimento. Una doppia scalinata curva intarsiata di piastrelle colorate conduce a una vasta area circondata di colonne piena di divani e di grandi poltrone imbottite, dove uomini e donne stanno seduti a sorseggiare bevande. Le pareti sono coperte di libri e ci sono persino scrivanie con piccole lampade, che danno la sensazione di una biblioteca in una grande proprietà invece di un luogo pubblico. Ma nessuna biblioteca, naturalmente, porta a un bar dove due donne sorridenti con lunghi capelli biondi servono da bere. Mi chiedo se le signore siano state scelte per il loro aspetto, come i valletti, visto che sono uguali per altezza, figura e corporatura.

Queste domande però sono passeggere, perché la fonte della luce splendente che permea l’immensa sala diventa chiara mentre mi avvicino al bar e vedo qualcosa che mi toglie il fiato: una vera e propria parete di finestre, di forma semicircolare, che deve essere alta sei metri e rivela un panorama spettacolare del mare e della spiaggia. E qui, capisco mentre Deepa mi conduce a un tavolo di fronte a una delle finestre immense, è dove pranzeremo!

Deepa ride. «Sei rimasta senza parole?»Posso solo annuire e sorridere. Barche a vela si muovono nell’immensità abbacinante come giocattoli

di bambini, mentre altre barche, senza vela, corrono fra le onde. Una sorprendente giustapposizione di vecchio e nuovo, perché le barche a vela sarebbero potute provenire dal mio mondo, mentre quelle senza vela o remi mi risultano estranee come carrozze senza cavallo.

Ugualmente affascinanti sono le macchine con le ruote, con una ruota davanti all’altra, su cui uomini, donne e ragazzini poco vestiti sfrecciano allegramente lungo stradine incurvate che bordano la spiaggia.

E poi, come se questo strabiliante spettacolo davanti ai miei occhi non fosse abbastanza, un’altra macchina alata non dissimile da quelle che ho visto prima passa librandosi in alto nel cielo. Se solo mio padre, che si è stupito di fronte all’ascensione dei palloni aerostatici a Bath, potesse assistere a questo miracolo!

E in questo momento è come se il pavimento si fosse improvvisamente spostato e fossi disancorata; sono quasi sopraffatta dalla straordinarietà di trovarmi di fronte a simili portenti, di essere in un’epoca, in un mondo, dove cose simili sono possibili e anzi appaiono aspetti della normale vita quotidiana, se devo giudicare dalla noncuranza degli altri astanti che stanno di fronte alla finestra e senza dubbio contemplano lo stesso spettacolo che è davanti ai miei occhi. Agli occhi di Courtney. Se non fosse per gli occhi di Courtney, non sarei qui ad ammirare queste meraviglie. E in questo momento le sono profondamente grata per avermi consentito di intravedere un po’ del suo mondo.

«Vuoi guardare il menu o sai già cosa vuoi?» chiede Deepa.A dire il vero, non riesco a togliere gli occhi dalla finestra abbastanza da concentrarmi sul menu.Deepa ride. «Ho troppa fame per aspettare. Che ne pensi se ordino per entrambe?»Annuisco sorridendo e lei ordina. Anche da bere. «L’orange margarita qui è da paura», commenta.Le bevande arrivano, insieme con un cestino di panini fragranti come se fossero appena usciti da un

forno caldo. Spalmo uno dei panini di burro, che si scioglie quando il coltello tocca il pane e chiudo gli occhi mentre mastico il primo boccone, che è buonissimo.

Adesso devo provare anche la mia bevanda e ne prendo un bel sorso. È ottima e non assomiglia a

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niente che abbia mai assaggiato.«Attenta, cara», sorride Deepa. «Quella è roba bella forte. Magari dovresti mangiare tutto il panino

prima di tuffartici.»Ma non riesco a trattenermi. Il margarita è così gustoso, dolce, saporito e rinfrescante, che mi scolo

l’intero bicchiere prima del secondo boccone di pane.«O forse no», dice Deepa, ridendo.

Fortunatamente, il cameriere ritorna, mi mette davanti un piatto e io prendo un bel pezzo di una cosa che si chiama hamburger, che è coperto da un formaggio fuso giallo intenso e da cipolle fritte.

È divino, ma è anche troppo tardi. Sono già ubriaca.«E quindi», dice Deepa, posando la forchetta. «Hai qualche idea su quale lavoro ti piacerebbe fare?»«Ah. Una domanda interessante. Se solo conoscessi la risposta.» Il cameriere mi piazza davanti un

altro margarita e io ne bevo un bel sorso prima di vedere Deepa che scuote la testa e di posarlo, imbarazzata. «Mia madre dice che avrei dovuto studiare giurisprudenza o prendere un master. O avere dei bambini. Ma a quanto pare è tardi per tutte e tre le opzioni.»

Deepa ride. «Quindi ti ha schiacciato tra le rocce del senso di colpa e della paura. Una tecnica in cui mia madre è maestra.»

«Credo sia stato un po’ come Scilla e Cariddi. Ma mi chiedo cosa commenterebbe se sapesse che Wes mi ha offerto un lavoro.»

Deepa alza un sopracciglio. «Davvero? E che lavoro fa lui?»Alzo le spalle e ridacchio. «Non ne ho idea.»«Mi sembra di ricordare sia qualcosa a che fare con i computer.»«Giusto.» Penso alla grande mano di Wes che copriva la mia mentre mi mostrava come usare il

mouse. Prendo un altro sorso di margarita e ridacchio.Deepa allontana il bicchiere da me. «Temo tu sia un po’ brilla.»Mi metto la mano sulla bocca, mortificata.«Quindi comincerai a lavorare per Wes facendo chissà cosa?»«Certo che no.»«Bella mossa», approva Deepa. «Troppo complicato.»«È quello che ho pensato io.»«Sì», continua lei bevendo un sorso del suo margarita. «Tu gli piaci.»Per poco non mi strozzo e tossisco così tanto che Deepa si allunga verso di me e mi dà qualche

colpetto sulla schiena.«Tutto ok?»Afferro il bicchiere e ne ingurgito un bel sorso. Annuisco.«Comunque, se lavori per lui, potrebbe sentirsi troppo in imbarazzo per provarci ed è troppo carino

per lasciarselo sfuggire, se vuoi sapere come la penso.»«Davvero credi che...?»«Oh, forza. Lo vediamo tutti come ti guarda.» Deepa mi lancia un sorrisetto furbo. «Stai diventando

tutta rossa. Questo significa che anche lui ti piace?»È possibile Wes abbia davvero una considerazione per me che va oltre la gentilezza e l’amicizia? Ma

questo significherebbe che Wes non sa veramente fino a che punto è arrivata la mia storia con Frank. Qualunque cosa sostenessero i libri in camera di Courtney, nessun uomo rispettabile si legherebbe mai a una donna che ha... E comunque quei volumi mettevano in guardia sulle conseguenze di concedersi all’uomo sbagliato troppo presto.

«Courtney? Sembra che tu sia a milioni di chilometri da qui.» Mi sorride affettuosa e mi appoggia una mano sul braccio. «Mi dispiace se ho toccato un nervo scoperto. Non sono affari miei.»

«No, niente affatto.» Ma sento che sto arrossendo ancora di più e cerco di distrarmi con il panorama e con lo spettacolo della gente sorridente e mezza nuda che cammina, guida mezzi a due ruote e scivola con stivali con le rotelle.

«E se la smettessimo di guardare il mondo attraverso un vetro e iniziassimo a godercelo invece?» Fa un cenno al cameriere. «Immaginavo di fare una passeggiata sulla spiaggia o magari una nuotata.»

Adesso ha di nuovo la mia completa attenzione. «Ma non pensavo di immergermi in acqua.» Osservo la spiaggia alla ricerca di macchine per immergersi, ma non ne distinguo nessuna. E non ci sono neppure i tuffatori che conducono le signore e i signori in acqua per le loro tre immersioni. «Come faremo?» Eppure un mucchio di persone a quanto pare non vede la mancanza di macchine per l’immersione e dei tuffatori come un deterrente per il proprio svago, dato che molti si lanciano dentro e fuori dalle onde senza nessuna assistenza e senza preoccuparsi della modestia. Anzi, stanno sgambettando, schizzando e persino nuotando con addosso solo dei piccoli costumi che coprono appena le parti più intime e la maggior parte dei quali sembra esporre più pelle di quanto facesse quello che mi ha mostrato Wes quando mi sono risvegliata qui la prima volta.

Nonostante la sgradevole prospettiva di indossare un capo del genere, il piacere che apparentemente provano i nuotatori mi fa sentire la voglia di unirmi al loro divertimento. E anche a Brighton desideravo moltissimo immergermi, anche se mia madre giudicava inappropriato fare il bagno in un posto in cui gli uomini e anche un po’ di donne, a detta di qualcuno, si tuffavano nudi. Non contava che mi sarei naturalmente infilata il vestito di flanella lungo e per niente ardito prediletto dalla maggior parte dei bagnanti. Non contava che la spiaggia avesse una sezione maschile e una femminile e che i bagnanti non fossero in alcun modo visibili dalla costa perché protetti dalle macchine per l’immersione che, a rifletterci adesso, hanno un nome davvero assurdo. La sola idea di chiamare «macchina» una scatola

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trainata da un cavallo in cui svestirsi e scendere in acqua è ridicola come quella di immaginare che i nuotatori seminudi su questa spiaggia desiderino nascondere i loro corpi dietro simili congegni.

Posso solo immaginare la faccia di mia madre se potesse vedere ciò che sto vedendo io. Eppure sembra che nessuno guardi i nuotatori con insistenza, tranne nel caso di una specie di Venere che esce dall’acqua con un costume striminzito a due pezzi e gocce d’acqua che le scendono dalla figura aggraziata. Un bel po’ di uomini girano la testa per ammirarla.

Be’, per fortuna non ho un costume del genere con me. «Ma ho solo questi vestiti», mi lamento con Deepa.

Lei alza un sopracciglio. «Non te la caverai così facilmente. Forza.» E, dopo aver pagato velocemente il conto, mi prende per mano e mi trascina nel bagno delle signore, dove apre la grande borsa bianca lucida che ha portato con sé e ne tira fuori due costumi minuscoli, uno arancione acceso e l’altro giallo pallido. Me li allunga entrambi.

«Che ne pensi? Non riuscivo a decidere quale dei due mettere, così li ho portati entrambi. E ho anche un pareo in più.» Tira fuori due lunghi pezzi di stoffa variopinta. «Sono più alta di te, ma questo qui ha dei laccetti arricciati e si può stringere.» Indica quello giallo pallido. «Penso che ti potrebbe stare bene.»

«Ma io...» Il pensiero di mostrarmi così spogliata mentre mi tuffo mi fa attorcigliare le budella per la paura.

«Forza», mi invita, «ti andrà benissimo.» Mi agita il costume davanti alla faccia. «E con questo legato in vita», aggiunge indicando il tessuto giallo e bianco che ha chiamato pareo, «sarai stupenda.»

Mi appoggio il pareo all’altezza della vita. Suppongo che una gonna di fortuna bella lunga renda le bretelline sottili e la mancanza di una copertura per la schiena del costume un po’ meno riprovevole. Solo un po’.

«Provatelo», mi invita Deepa, spingendomi verso uno dei bagni.Dopo molte manovre e grazie all’aiuto di Deepa, adesso indosso il costume giallo e ho il pareo legato

in vita. Non riesco quasi a credere stia per uscire dal bagno con la schiena e le braccia nude, ma Deepa mi tira per la mano in un modo che non ammette resistenze. Inforcando gli occhiali da sole e piegando la testa, le permetto di condurmi fuori dall’edificio dalla parte posteriore verso la spiaggia, dove lei si toglie le scarpe e io faccio lo stesso. Poi ci mettiamo a camminare sulla sabbia.

Ci facciamo strada tra i bambini che giocano e gruppi di donne e di uomini, giovani e vecchi, che stanno stesi o seduti su grandi teli dai colori accesi, a leggere libri, mangiare, chiacchierare o semplicemente guardare le onde.

Mentre ci avviciniamo all’acqua, sento un brivido di attesa, perché non mi sono mai tuffata in mare, non ho mai neppure infilato un dito nell’oceano.

E poi Deepa si ferma per togliersi il pareo, lo stende sulla sabbia, lo ferma con le scarpe e la grande borsa bianca per evitare che voli via. Inizia a correre verso l’acqua, poi si ferma e mi guarda con un’espressione interrogativa. Ma io sono inchiodata sul posto. Inizia che mi tolga il pareo e la segua?

Deepa torna indietro di corsa, con un grande sorriso sulla faccia, e prima che io possa protestare, mi scioglie davvero il nodo del pareo e me lo toglie.

«No!» Incrocio le gambe e mi metto le mani sulle cosce in un debole tentativo di coprirmi.«Cosa c’è che non va, Courtney?» chiede, con uno sguardo affettuoso. «Stai bene?»«Io... io...» Tremo così tanto di paura, nonostante il caldo, che non riesco a formulare una frase.«Ho fatto qualcosa di sbagliato?»«Tutte queste persone e io...» Abbasso lo sguardo sul mio corpo mezzo nudo e poi lo rivolgo a Deepa.«Tesoro, chi è che ti ha fatto venire tutta questa vergogna del tuo meraviglioso corpo? Hai un aspetto

magnifico. E sei comunque vestita il doppio di tutti i presenti. Quel costume è il più castigato che ci sia in città.»

Mi rivolge un sorriso abbagliante e mi tende la mano. «Forza, portiamo quel corpo fantastico in acqua. Così non penserai più a quello che hai addosso.»

E poi la risata gioiosa dei nuotatori mi sommerge come un’onda e mi ritrovo a dare la mano a Deepa e a correre con lei verso il mare aperto e il cielo azzurro e ci ritroviamo in acqua fino alle caviglie, la sabbia attaccata ai piedi. Ci immergiamo ancora di più, tenendoci ancora per mano, come due bambine durante una gita scolastica. Dopo poco abbiamo l’acqua all’altezza della vita e stiamo saltando tra le onde e ridendo di felicità. «Forza, facciamoci una nuotata», propone Deepa. E io le rispondo: «Ma non so nuotare». Lei mi guarda per un bel po’, poi scoppia a ridere e dice: «E tu saresti quella che ha battuto la testa in piscina?» e mi lascia la mano e si immerge nelle onde. Una grande onda sta per sommergermi quando mi ritrovo a tuffarmici dentro e a emergere con delle bracciate forti e decise che mi trasportano nell’acqua e, improvvisamente, mi rendo conto che sto nuotando, che mi muovo come una creatura marina. E nuoto, nuoto e galleggio di schiena e mi godo l’azzurro del cielo con le morbide nuvole bianche, mentre il sole mi riscalda la faccia e l’acqua mi raffredda la schiena. È davvero un paradiso.

Venti

DOPO non so quanto tempo, tanto sono rapita dalle bellissime onde e dal mare luccicante, Deepa torna da me e suggerisce che ci prendiamo una «piccola pausa». Nuoto senza fatica verso la costa ed emergo dalle onde, con l’acqua che mi gocciola dai capelli e dalla pelle, e lancio solo un pensiero distratto alla decenza dovuto all’abitudine mentre torno verso i pareo che adesso sono i nostri teli. Deepa si stende sul suo e si mette gli occhiali da sole. Accanto a lei faccio lo stesso, mentre il sole forte mi asciuga e mi

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culla provocandomi una leggera sonnolenza. Oh, come mi piace il mare! Deepa mi offre un po’ d’acqua da una grande bottiglia che tiene nella borsa bianca e, mentre bevo una

bella sorsata, sono rapita dalla visione di due strutture alla nostra destra: una è una ruota gigante che gira e l’altra una specie di tubo che si snoda lungo quello che sembra essere un binario. Sono entrambe strutture stabili eppure mobili, una sorta di macchine. Non ho il coraggio di chiedere cosa siano, ma Deepa mi toglie dall’imbarazzo. «Ah sì, la ruota panoramica», spiega. «La prima volta che ci sono salita è stato a diciott’anni, durante il mio primo viaggio in America con i miei genitori.»

«Che cosa emozionante», commento io.Deepa si toglie gli occhiali da sole e il suo sguardo si perde nell’orizzonte.«Scappai dal nostro albergo sulla spiaggia per vedere un ragazzo. Doveva avere vent’anni ed era

molto esotico, anche se, si è scoperto poi, non lo era più di quanto lo fossi io. Tutto in America mi sembrava esotico. Comunque, mi portò sul molo. E quando guardai l’immensa distesa dell’oceano dalla cima di quella ruota, il braccio abbronzato di quel ragazzone californiano sulla spalla, mi innamorai all’istante.»

«E quindi ti sei sposata con lui?»Deepa ride. «Mi innamorai di L.A., sciocchina. Non di lui. Sarei dovuta andare all’università in

Inghilterra, ma decisi di iscrivermi qui. Alla fine i miei genitori si sono arresi, io mi sono laureata alla University of Southern California e loro non hanno mai smesso di rimpiangerlo.»

«E tu?»«Adoro stare qui. Soprattutto adesso che sono uscita da un matrimonio infelice. Che, tanto per essere

chiara, è stato con un ragazzo completamente diverso e anni dopo la laurea.» Mi sorride. «Sai, sono contenta che tu e io ci siamo conosciute dopo il mio divorzio. Che tu faccia parte della mia nuova vita, quella iniziata dopo la fine del matrimonio. Un’amica nuova per una vita nuova.»

«Un’amica nuova per una vita nuova. Lo stesso vale per me nei tuoi confronti.»Deepa mi stringe la mano e guardiamo le onde in un silenzio carico di complicità. Poco dopo, Deepa

propone: «Vogliamo andare? Se ci mettiamo in macchina adesso, forse riusciamo a evitare l’ora di punta».

Ora di punta. Un’altra espressione da decifrare. E così saluto tra me e me la spiaggia, promettendo di ritornare, e monto di nuovo in macchina di Deepa. E questa volta, quando si ferma davanti a casa mia, Deepa mi fa scivolare in mano il suo biglietto da visita, mi bacia sulle guance e mi strappa la promessa che la chiamerò prestissimo e andrò al locale tutte le volte che vorrò come sua ospite.

Felicissima di questa nuova amicizia, non posso dire di essere altrettanto felice di ritrovarmi davanti alla porta del mio appartamento e, mentre indugio sulla soglia, avverto di nuovo tutto il peso della mia situazione. Certamente dentro non sarà più fresco di fuori, dove fa considerevolmente più caldo rispetto alla spiaggia. E senza la distrazione di un posto nuovo e il piacere della compagnia di Deepa, la promessa che ho fatto alla mamma di Courtney di trovarmi un lavoro mi rimbalza in continuazione nella mente. A pensarci bene, la testa ha ricominciato a farmi male.

Sospiro mentre apro la porta e mi faccio forza in vista del caldo opprimente, ma non mi aspetta nessun disagio del genere. Invece sono accolta da un bel fresco, da luci splendenti e dai dolci suoni della musica di Orgoglio e pregiudizio.

Com’è potuto succedere?In qualche modo, inspiegabilmente, è tornata la corrente. Non posso iniziare a chiedermi come sia

successo: devo godermelo finché dura. Adesso devo prepararmi a una bella serata dedicata alla visione di un film in una stanza fresca con una bella bibita e domani potrei anche azzardarmi a riempire il frigorifero con un po’ di roba da mangiare, visto che adesso so che potrei usare le mie carte di credito e c’è un supermercato a poca distanza dall’appartamento.

Mentre mi sistemo sul letto e inizio a guardare Orgoglio e pregiudizio, una musica assordante copre ogni altro suono.

I’m gonna keep on lovin’ you’Cause it’s the only thing I wanna do...Il pavimento sotto i miei piedi vibra per colpa del rumore. Deve provenire dal piano di sotto, come il

giorno in cui sono arrivata qui, quando Wes e le ragazze mi hanno portato dal dottor Menziger.Ma cos’è questa musica? Ha qualcosa di fastidiosamente familiare... ma cosa?I’m gonna keep on lovin’ you’Cause it’s the only thing I wanna do......e all’improvviso è un altro giorno e io sono qui, nell’appartamento, e la musica, la stessa musica,

proviene dal piano di sotto. Sono qui con Frank. Non proprio con lui: piuttosto lo sto guardando. Lo sto osservando mentre impila libri e cd negli scatoloni. Quello è mio, penso, ma non mi importa, perché sta portando via le sue cose da questo appartamento e io lo sto fissando, disperata, arrabbiata per l’intromissione della musica, sapendo che la nostra storia è finita, che mi ha tradito, eppure non ce la faccio a smettere di guardarlo, di volerlo, di desiderarlo. E non riesco neppure a cancellarmi dalla mente l’immagine di me a letto con lui, sotto di lui, mentre sento il peso di lui su di me.

Mi risveglia dal mio sogno a occhi aperti qualcuno che bussa alla porta: mi alzo in fretta e furia e corro ad aprire. È Wes.

Sento che la faccia mi diventa rosso fuoco per la confusione nel vederlo. Riesco a malapena ad alzare lo sguardo verso i suoi occhi chiari, dolci e buoni. Una bontà che merita di più dell’incostanza di una donna immersa in pensieri sconvenienti su quell’essere inutile... ma che sto farneticando? È come se Wes fosse il mio innamorato e io fossi appena andata a letto con un altro uomo.

La sua voce mi scuote da questi pensieri. «A quanto pare la mia tregua con Mr. REO Speedwagon è

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finita», grida sopra il boato della musica.«Cosa?»«Il tuo vicino.» Fa un cenno verso il pavimento. «Vado a parlarci.»«No... è il mio vicino. Lo farò io.»«Ma tu lo odi.»«Una ragione in più per fare pace, allora. Entra pure.»Lo fa e respiro il suo profumo agrumato mentre mi passa accanto in cucina. Si gira per rivolgermi un

sorriso d’incoraggiamento e per poco non mi sciolgo. Deepa si è immaginata un attaccamento da parte di Wes o ha visto davvero qualcosa che a me è sfuggita? Le donne spesso fingono di vedere più di quello che c’è quando sono in ansia per le prospettive matrimoniali delle loro amiche. Ah, bene. Devo scoprirmi e risolvere la faccenda immediatamente.

E perciò prendo un bel respiro per raccogliere tutto il mio coraggio e scendo i gradini, facendomi forza per un incontro con qualcuno che non immaginavo fosse l’uomo calvo, grosso e con la faccia lucida che mi apre la porta senza una parola di saluto e mi fa l’occhiolino da dietro un paio di occhiali con le lenti scure.

«Signore, mi dispiace disturbarla, ma mi chiedevo se fosse possibile... potrebbe prendere in considerazione l’idea di suonare la musica un po’ più... piano? Anche se quaggiù non sembra molto forte, nel mio appartamento c’è così tanto rumore che non riesco a portare avanti una conversazione senza gridare.»

La faccia di lui è impassibile, le braccia incrociate.«E in più», aggiungo, piuttosto debolmente, «speravo di guardare un film.»Al che lui mi risponde, con una voce fintamente profonda e uno spiccato accento, forse russo: «Deve

permettermi di dirle con quanta passione la ammiro e la amo...»Non posso evitare di sorridere e le labbra di lui si contorcono come se volesse fare altrettanto. «Sì,

perché?» chiedo. «Come lo sa?»«Le mie pareti sono sottili come le tue.»«Oh, mio Dio. Sono mortificata di averla disturbata.»Adesso lui sembra davvero sbalordito. «Lo sai, inizio quasi a credere a quella storia strampalata che

mi ha raccontato il tuo ragazzo sul fatto che hai battuto la testa.»Sento che sto arrossendo, più lusingata dalla supposizione del mio vicino di quanto voglia

ammettere. «Non è il mio ragazzo, signore, anche se ho battuto davvero la testa.»«Non importa. Anche se lui mi piace molto più di quell’altro che, mi scuserai, era proprio un pezzo

di... Comunque, ho usato le cuffie che il tizio che non è il tuo ragazzo mi ha dato.» Mi mostra un paio di affari circolari argentati e concavi uniti da un pezzo curvo e se li mette per un attimo in testa, come se volesse darmi una dimostrazione. «Un’ottima acustica, devo ammettere. Non è affatto tirchio, il tuo non-ragazzo. Comunque, stavo sentendo la mia musica senza questi perché non eri in casa. Almeno pensavo che non ci fossi.»

«Posso chiederle come faceva a sapere che non ero in casa?»«Perché sento quelle tue scarpe con il tacco che fanno bang-bang-bang sul parquet sulla mia testa

proprio come tu senti la mia musica che fa boom-boom-boom sotto i tuoi piedi. E quindi capisci bene, Miss Courtney Stone, che è quella che si chiama una strada a doppio senso, no?»

«E allora sono mortificata di averla disturbata. Posso fare ammenda?»Adesso alza entrambe le sopracciglia e le sue labbra carnose si piegano in un sorriso gentile. «Quanto

forte hai detto che hai picchiato la testa.»«Non lo so con esattezza.»«Non importa. Senti questa: facciamo che teniamo i nostri film e la nostra musica a volume

bassissimo? E se poi vogliamo fare casino, ci mettiamo le cuffie. O io mi accerto che tu non sia in casa e quando torni e la musica è troppo alta, bussi o gridi e io la abbasso. E che ne dici se mettiamo la regola di camminare scalzi in casa? O al limite potresti mettere un tappeto. Andrebbe bene lo stesso.»

Posso solo immaginare cosa risponderebbe mia madre al suggerimento della regola di camminare scalzi in casa. Lei che quando ero piccola mi ha punito per aver corso scalza sul prato. Poi però penso alla sua reazione se mi avesse visto non solo tuffarmi in mare, ma anche nuotare come un pesce. E praticamente nuda sotto gli occhi di tutti.

Ridacchio al pensiero e abbozzo un sorriso al mio vicino. «Niente scarpe? Ma che idea incantevole.»«Lieto di esserti d’aiuto», risponde con un piccolo inchino.Mi congedo dal mio vicino. Vladimir, così si chiama, mi dico mentre salgo le scale per tornare al mio

appartamento. Una di quelle cose che non dovrei sapere e che so comunque. Mi ritrovo a fischiettare una melodia – quella della canzone di Vladimir, che teoricamente odio – e devo ridere di me stessa, di Courtney, dell’inutilità della guerra infinita con il nostro prossimo. In questo caso, una buona memoria è davvero imperdonabile. Come posso avercela con qualcuno che è solo il fantasma di un ricordo che non è neppure il mio? E che soddisfazione mi ha dato farmi carico e aver risolto un mio problema invece di appoggiarmi, ancora una volta, a Wes. O Paula. O Anna. O Deepa. Se devo essere una donna indipendente di questi i tempi, credo che non ci sia un momento migliore di questo per cominciare.

Entro in casa, dopo essermi tolta le scarpe, naturalmente, e raggiungo Wes, che si tira su dalla posizione vigile sul divano, cercando il mio viso con lo sguardo.

Gli sorrido e i suoi lineamenti si distendono. «Quel sorriso e il silenzio prolungato mi dicono che il colloquio è stato un successo. Sono impressionato.»

«È stato davvero ragionevole. Ha detto che userà le cuffie se io mi toglierò le scarpe.» E così mi ritrovo a fissare i piedi di Wes. Oh, Signore!

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Lui segue il mio sguardo. E si mette a ridere. «Oh.» E si china per togliersi le scarpe.«Spero che non sia troppo... intendo, non avevo pensato alle conseguenze che questa regola avrebbe

avuto per i miei amici.»Alza una mano come per impedirmi di continuare a scusarmi. «Non c’è problema. Sono fiero di te,

Courtney. Specialmente dopo che avevi dichiarato che avresti preferito cambiare casa piuttosto che tentare di parlare di nuovo con quel tizio.»

«Un po’ di meriti ce li hai anche tu visto che gli hai dato le cuffie. Io non ci avrei mai pensato.»Soprattutto perché ho scoperto solo pochi minuti fa cosa sono.«È stato molto generoso e gentile da parte tua», aggiungo. Che persona affettuosa che è.Lui alza le spalle, ma vedo che è felice per il complimento che gli ho rivolto. «L’idea brillante mi è

venuta quando ti ho riaccompagnato a casa dall’ospedale. Avevi bisogno di riposo e le cuffie erano per caso in macchina. Tra l’altro, ne ho date un paio anche al signore anziano della porta accanto. Non sono della stessa marca che ho dato a Vladimir, ma sono comunque degli auricolari decenti.» Fa un sorrisetto. «Invece per il gallo non ho trovato rimedi. Si è dimostrato refrattario a ogni tipo di corruzione. Senza contare che offre una specie di fascino bucolico al nostro panorama urbano, non trovi?»

«Mi fa pensare di essere tornata a casa di mio padre... voglio dire che mi ricorda di quando vivevo in campagna.»

«E quando mai hai vissuto in campagna?»Devo soppesare le mie parole con un po’ più di attenzione. «Io... be’... comunque, dare via le tue

cuffie è stato generosissimo da parte tua. Il che mi fa pensare a un’altra questione che sospetto dipenda dalla tua generosità.»

La sua espressione è teneramente innocente.«Le luci, l’aria condizionata? Deve esserci sicuramente il tuo zampino.»«Beccato.» Piega la testa e arrossisce in modo molto affascinante. «Ieri sera non riuscivo a

raggiungerti né sul cellulare né via e-mail, perciò ti ho chiamato a casa e il messaggio automatico mi ha informato che il telefono era fuori servizio. Allora ho fatto un giro in macchina da queste parti e ho visto la candela sulla finestra. So che non avrei dovuto farlo senza chiedertelo, ma avevo paura che mi avresti detto di no. E così ho pagato entrambe le bollette.»

«Wes, non posso...»«Ti prego, non dire niente. Senza contare che adesso non c’è molto da fare: ormai sono state pagate.

Anche se ci vorrà un’altra giornata perché riattivino la linea telefonica. Almeno adesso che la corrente c’è, puoi ricaricare il cellulare, dato che deve essere morto. Ed è proprio per questo che sono passato di nuovo oggi, solo per vedere se stai bene. Non ti si riusciva proprio a raggiungere telefonicamente.»

Si mette le mani in tasca e abbassa lo sguardo per un attimo prima di guardarmi negli occhi. È in questo momento che mi si riempiono di lacrime.

«Courtney? Non sei arrabbiata, vero?»«Signore, la sua gentilezza mi confonde.» La voce mi trema e mi fermo per prendere fiato e

ricompormi.Gli occhi di Wes dietro gli occhiali hanno un’espressione affettuosa. «Non sono così sicuro che mi

piaccia ancora il fatto che mi chiami ‘signore’ se sei così seria quando lo fai.»Gli sorrido. «Ti prego di non credere che io sia ingrata. Ti sono veramente grata. Non so da dove

iniziare per esprimerti la mia gratitudine. Sei molto, molto gentile. Ma insisto per ripagarti, appena avrò trovato un lavoro.»

Spero non sia stata un’imprudenza da parte mia rifiutare l’offerta di denaro di mia madre. Ma come facevo a sapere che sarei stata in debito con Wes?

Mi schiarisco la voce. «E a proposito di questo...» È molto più difficile di quanto avessi immaginato. «Ho riflettuto sulla tua offerta di lavoro e...»

Alza la mano come per interrompermi. «Mi piacerebbe farti un’offerta molto più interessante.»Quasi non riesco a respirare. Non può voler dire... o sì? Sta per farmi l’unica offerta che un

gentiluomo possa rivolgere a una donna a cui tiene?Il cuore mi batte così forte che quasi riesco a sentirlo.«Court, stai bene? Sei tutta rossa.»«Io... ho solo molta sete. Faceva caldissimo fuori.»Wes corre in cucina per prendermi un bicchiere di acqua fresca. «Ecco qui. Bevi questa.» Mi sorride

mesto. «Pensavo temessi che volessi offrirti un lavoro peggiore che aiutarmi con la dichiarazione dei redditi? Non avere paura: te ne ho trovato uno migliore.»

Stupida, stupida, stupida. Era ovvio che non stava per farti una proposta di matrimonio. Imparerò mai il linguaggio di questo mondo? Grazie a Dio non sa leggermi nella mente, il che mi infiamma di nuovo la faccia. Abbasso lo sguardo e mi appoggio il bicchiere gelato sulla guancia. Mi fa stare meglio.

«Fatti offrire un caffè. Un caffè freddo, se preferisci. E ti parlerò del lavoro, okay?»Riesco ad abbozzare un sorriso. «Solo se permetti che offra io.»Perché è questo ciò che devono fare le donne indipendenti con gli amici maschi che non sono i loro

ragazzi, giusto?

Ventuno

DOPO cinque minuti, siamo davanti alla nostra meta, un edificio con la facciata più o meno quadrata,

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marrone scuro e giallo brillante con le pareti dalla consistenza ruvida, un luogo dall’aspetto allegro con la vernice fresca e le vetrine grandi e splendenti – il suo nuovo posto preferito, proclama Wes, aperto da poco e fa il miglior caffè della città – e vedo il mio riflesso nel vetro della porta. Sì, è il mio riflesso, e mi sento molto a mio agio nel pensarlo. In questo momento, non posso evitare di sorridere alla mia immagine, perché mentre la porta si apre e l’aroma inebriante del caffè appena tostato mi accoglie, mi rendo conto all’improvviso che questa è una caffetteria, e chi avrebbe mai immaginato che prima o poi sarei entrata in una caffetteria, una mossa che nessuna signora a Londra farebbe? E invece sono qui e lo sto facendo da donna senza un cavaliere, nubile, in compagnia di un uomo celibe. E un uomo celibe che trovo anche bello e affascinante.

No, non c’è nessun pensiero infantile in vista. Niente rovinerà questo momento.La caffetteria non assomiglia per niente a quelle che mio fratello ha millantato di frequentare. Questo

non è un covo chiassoso di gentiluomini che fumano pipe, si occupano di affari e discutono di politica e attualità. No, l’unica confusione, a parte lo staccato che non è diverso dalla musica che Paula mette nella sua macchina, è visiva. Giovani uomini e donne tatuati e ingioiellati dalla figura sottile con i capelli acconciati in modi strani e dai mille colori sorseggiano pacatamente grandi tazze di caffè. Alcuni leggono libri e sgranocchiano pasticcini; altri stanno vicini e chiacchierano a bassa voce. Altri ancora ignorano tutto il resto e digitano sulla tastiera dei loro portatili – un’altra parola nuova che sono fiera di poter usare.

Mentre io e Wes facciamo la coda per il caffè, lo stomaco mi si stringe un po’, perché è la prima volta che devo pagare io e non voglio sembrare presa alla sprovvista. Ho già studiato i nomi di tutti i contanti che ho nel portafogli; adesso concentro la mia attenzione sui ragazzi in fila prima di me. Guardo bene cosa fanno e, in particolare, osservo che mettono una banconota in più o qualcuna delle monete più grosse in un vaso di vetro accanto alla macchina dei soldi – il registratore di cassa –, in qualche modo so che si chiama così.

Quando tocca a noi una ragazza graziosissima, con le gambe lunghe, la carnagione pallida e dei grandi occhi marrone chiaro bordati da ciglia fitte, saluta Wes con un sorriso scintillante.

«Sharon», esclama lui e le dà un bacio sulla guancia. I capelli di lei, che sono di un bel colore castano, sono raccolti alla meglio e fermati da quello che sembra un bastoncino smaltato.

«E lei chi è?» chiede, rivolgendomi un sorriso: il suo modo di fare è così simpatico che lascio perdere lo stupido impulso che ho avuto, solo per un attimo, di essere gelosa della confidenza che Wes ha con lei. Non che ne abbia diritto.

Wes ci presenta. Lei tende una mano e stringe la mia amichevolmente: sono subito conquistata dalla dolcezza del suo sorriso e dalla cordialità genuina del suo sguardo. Senza contare che in questo mondo non è affatto sconveniente che uno scapolo baci sulla guancia una nubile. E mi ricordo, ridendone fra me e me, di quanto fossi scioccata la prima volta che sono entrata al Fortune Bar e Glenn mi ha stretto tra le braccia.

«E quindi Sharon», prosegue Wes, «ho sentito che stai per rinunciare a tutto questo.» Fa un ampio gesto con la mano.

Lei sospira. «Non credere che non mi mancherà questo posto. È il miglior lavoro che abbia mai avuto. Te lo giuro.»

Wes mi sorride. «Giuro che non l’ho pagata perché lo dicesse. Sharon sta per prendere una specializzazione in ambito legale. Diventerà un avvocato di successo.»

Sharon alza gli occhi al cielo e poi mi rivolge di nuovo il suo sorriso cordiale. «Non esattamente. Mi concentrerò sul diritto pubblico, che può essere ben poco affascinante, soprattutto quando sei agli inizi. Comunque, sono passati un po’ di anni dall’ultima volta che sono stata in un’aula scolastica, se si eccettua la sgobbata che ho fatto per il test di ammissione, e ho un sacco di faccende da sbrigare prima di cominciare la mia nuova vita.»

«Sam deve avere il cuore a pezzi», ipotizza Wes.Lei ride. «Sopravviverà.»Dopo che abbiamo ordinato e io ho orgogliosamente pagato per i nostri caffè e muffin, aggiungendo

quella che spero sia una mancia generosa nel vaso di vetro, io e Wes ci accomodiamo su due poltrone imbottite accanto alla vetrina.

Wes sorseggia il caffè e sospira tutto soddisfatto. «Adoro questo posto.»Io mi appoggio allo schienale della poltrona. «È molto accogliente.»Lui abbassa lo sguardo verso la tazza e tace prima di guardarmi negli occhi. «Pensi potresti passarci

quattro o cinque giorni a settimana?»«Non capisco.»«Sam, il proprietario, è un mio caro amico. Gli ho raccontato tutto di te e il fatto è che... sarebbe

felicissimo di darti il lavoro di Sharon, senza metterti alla prova, perché si fida molto di me. E di Sharon. Lei ti potrebbe insegnare quello che c’è da sapere. Mi rendo conto che non è il lavoro più prestigioso del mondo, ma non è un impegno a lungo termine. Sam sa che sarebbe solo un impiego temporaneo per te. Gli basta solo che tu gli dia un minimo preavviso quando troverai qualcos’altro.»

«Io... io non so cosa dire.»«Riflettici su. Non devi decidere adesso. Domani potrebbe andare bene.»Io, la figlia di un gentiluomo, servire bevande in una caffetteria. Come potrebbe passarmi per la testa

anche solo per un attimo di accettare un’idea del genere? Farmi pagare per servire bevande. Prendere mance. Portare un vassoio.

Guardo Sharon che ride con un ragazzo mentre prende le tazze vuote e i piatti dal tavolo di lui e li mette sul suo piccolo vassoio.

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No. Non posso pensarci un minuto di più. Io, piegarmi a una situazione che la mia stessa governante si rifiuterebbe sdegnosamente di prendere in considerazione? Sarebbe insopportabile. Non può esserci un altro punto di vista su questo argomento.

O sì?«Ti senti offesa, vero?» chiede Wes, un po’ sulla difensiva, ed è in questo momento che realizzo di

avere abbassato la testa e che la tengo stretta tra le mani.Lo guardo negli occhi. Non voglio sembrare ingrata. Ma sembrarlo è peggio che esserlo? E chi sono

io, nella mia condizione precaria, per rifiutare ogni sorta di lavoro retribuito?Sento che il rossore mi sta salendo dal collo alle guance. «È solo che io... io sono confusa.»«Courtney, non c’è niente di male a lavorare in un bar. Per un’estate l’ho fatto anch’io. E guarda

Sharon. Lei ha la tua età, è la migliore del suo corso, sta per diventare avvocato, ma anche se non fosse così, qui avrebbe un lavoro decente finché questo locale sarà aperto. Che c’è di sbagliato in questo?»

Cosa potrei mai ribattere che abbia un senso per lui? Che non sono chi crede che io sia? Che sono la figlia di un gentiluomo e sono stata educata a giudicare un lavoro del genere degradante?

No, non capirebbe mai, neanche se riuscissi a fargli credere che non sono Courtney Stone, che sono un’altra persona e vengo da un mondo diverso, da una vita diversa, una vita con linee di demarcazione invalicabili tra i diversi strati della società.

«Senza offesa, Courtney», continua Wes, «ma c’è qualcosa di più umiliante che essere l’assistente di uno come David? Io preferirei mille volte lavorare qui. Soprattutto per Sam. Sai cosa mi ha detto quando ha inaugurato il locale, qualche mese fa? Che voleva sentirsi come se stesse servendo il caffè a degli ospiti a casa sua. E che voleva che anche i suoi dipendenti si sentissero così. Questa è la sua visione di un posto di lavoro.»

Servire il caffè a degli ospiti in casa propria. Quante volte mi sono occupata del tè nel salotto di casa Mansfield, preparandolo e servendolo ai nostri ospiti, versando loro il caffè e offrendo loro i pasticcini? Non era degradante. Era il mio dovere e un onore mostrare ospitalità.

Non potrei fare lo stesso qui o immaginare di farlo, anche se vengo pagata per presiedere a tali rituali? Potrebbe forse rivelarsi peggio dell’interminabile momento del dopo cena con le altre donne, quando fingevo interesse per i loro racconti infiniti su pizzi e merletti, bambini viziati e gretti pettegolezzi? È davvero vergognoso guadagnarsi il pane in questo modo? Cosa potrebbe esserci di veramente umiliante in un lavoro onesto?

Wes ha ragione. Servire caffè, tè e muffin a sconosciuti in questa caffetteria – in questo bar – non è meno degno di accontentare i capricci di quel mostro di David. Anzi ben più degno, ne sono sicura.

«Sì», mi sento pronunciare quasi prima di realizzare che ho deciso di dirlo. «Lo farò. E grazie per avermelo offerto.»

Per poco Wes non si strozza con il caffè, ma si riprende in fretta e si pulisce la bocca con un tovagliolo di carta.

«Stai bene?»«Sei sicura? Non sei costretta ad accettare questo lavoro. O qualunque altro. Non devi sentirti in

obbligo con me. Hai capito, Courtney? Perché è l’ultimo dei miei desideri. Non devi sottometterti a una specie di schiavitù per ricompensarmi.»

Cerco di ridere, ma il suo atteggiamento serio mi ferma. «È la cosa giusta da fare.»«Dico sul serio, Courtney.»Gli sorrido. «Anch’io. E sono felice di accettare la tua offerta.»Mi rendo conto che Sharon ci sta osservando e mi viene in mente che, come Mrs. Jennings di

Ragione e sentimento, potrebbe fare delle illazioni sulla parola «offerta». Il che mi fa arrossire all’istante. Di nuovo.

C’è un silenzio un po’ imbarazzato nell’auto di Wes mentre torniamo a casa mia. Non faccio altro che sentire me stessa mentre dico: «Sono felice di accettare la tua offerta», e arrossire fino alla punta dei capelli come una scolaretta ingenua. Per quanto riguarda lui, non riesco a capire perché dovrebbe sentirsi in imbarazzo, tranne per il fatto che forse si sta chiedendo se non abbia insistito un po’ troppo per farmi accettare il lavoro.

«Qui c’è il numero di Sam», esclama, allungandomi un biglietto da visita quando arriviamo a casa mia. «Dovresti chiamarlo stasera e prendere accordi con lui. È possibile che voglia farti iniziare già domani, se te la senti. Oh, prima che me ne dimentichi.» Sorride. «Chiamami se ti servono indicazioni su come arrivare. So che non presti mai attenzione quando non sei al volante. La buona notizia è che ci vogliono solo cinque minuti in macchina.»

Ed è a questo punto che capisco che si aspetta che ci arrivi in automobile.Per un attimo non riesco a spiccicare neanche una parola.«Io... preferisco andarci a piedi.»«Tu a piedi?» Wes trattiene a stento una risata.«Non mi spiego cosa ci sia di così divertente.»«Tu prenderesti la macchina anche solo per fare un isolato se nessuno ti vedesse.»Gli sorrido dolcemente. «Ma camminare è un esercizio benefico, non è vero?»Wes cerca di rimanere serio. «Ma certo, signora.»«Bene, allora. È deciso.»«Ma quanto forte hai picchiato la testa, Courtney?» Allunga la mano e mi sposta una ciocca di capelli

che mi è finita davanti agli occhi, sfiorandomi la fronte con la punta delle dita.Sono così sbalordita dal contatto con lui, dalla dolcezza del suo sguardo, che devo prendere fiato.Il suo è un affetto amicale o c’è qualcosa di più nei suoi occhi?

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Rido per mascherare la mia confusione. «Sei la seconda persona che me lo chiede oggi.»Ha parcheggiato la macchina di fronte a casa mia, ma non sta dando nessun cenno di voler aprire lo

sportello e non ha neppure spento il motore.Gli devo chiedere di entrare o è troppo... Oh, ma che mi importa! «Ti va di salire?»Mi sorride ed è come se il cuore mi si fosse riscaldato. «Mi piacerebbe. Ma purtroppo ho una

scadenza da rispettare. Devo andare a casa a lavorare. Probabilmente ne avrò per tutta la notte.» Fa un sospiro profondo.

Scadenza da rispettare. Qualunque cosa sia, non sembra certo piacevole. «Va bene allora.» Metto una mano sulla maniglia desiderando che mi tocchi di nuovo i capelli. O la mano. O...

«E tu che fai stasera?» mi chiede.«Credo che leggerò e guarderò il mio film.»Si mette a ridere. «Il mio film. Certo. Nel tuo mondo esiste un solo film.» Quasi non riesco ad articolare le parole. «Perché, ce ne sono altri?» Poi mi rendo conto di aver detto

una stupidaggine: certo che sì, ne ho visto uno con Paula e Anna.«Che tu ci creda o no, è così. Un cassetto pieno nel tuo caso.»Un cassetto pieno di film. Mi metto a ridere. Che cosa sono gli uomini in confronto ai libri e ai film?

Forse non dovrei mai uscire di casa. Tranne che per andare a lavorare, naturalmente.

Ventidue

SONO le undici di mattina e io mi trovo alla mia postazione dietro al bancone di Home, che è il nome del caffè. Sam, l’omone grande e grosso a cui appartiene il locale, che ho incontrato brevemente stamattina, mi ha messo piuttosto a mio agio, e adesso Sharon mi sta insegnando i passaggi più delicati della preparazione del caffè, che in questo posto non è un compito semplice. La macchina del caffè, mi informa piena di orgoglio, è uno dei duecento esemplari di questo tipo in tutto il Paese e a me sembra un numero notevole finché non mi dice che rappresenta meno dell’uno per cento delle caffetterie.

«Naturalmente è una macchina da diecimila dollari», aggiunge. «Mettila così: secondo te qual è la vettura più lussuosa?»

«Vettura?»«Sì, la quattro ruote per eccellenza.»«Fammi pensare... un calesse-landò?»«Quella non la conosco. Ma per me le auto sono come macchine per il caffè più grandi e su quattro

ruote... che ne so, una Maserati. Questa è la Maserati delle macchine per il caffè.»Mi passa una tazza di quello che ha appena fatto. «Ma non prendere per oro colato quello che ti dico.

Verifica tu stessa.»Il primo sorso è così squisito che riesco a stento a trovare le parole per dirlo. Leggero, delicato e allo

stesso tempo corroborante. Un sentore di cioccolato. E il profumo poi: sono ciliegie, mirtilli o qualcos’altro?

Sharon sorride radiosa. «Lo so. Non assomiglia per niente al caffè della mamma.»Rido. E mentre preparo il primo caffè della mia vita, sotto la supervisione attenta di Sharon, che mi

piace sempre di più, sono molto contenta di me stessa. Perché c’è qualcosa di straordinariamente gratificante nel guadagnarsi da vivere con le proprie mani. Anche se sono mani prestate. E adesso so che posso permettermi di pagare la spesa che ho fatto stamattina usando la carta di credito. Incredibile come ho dovuto solo porgere la carta e gli articoli sono diventati miei.

Chiaramente anche Sharon è molto fiera del suo lavoro, questa giovane donna che sta per intraprendere gli studi di legge. Non si dà le arie per la sua posizione recentemente migliorata, non disprezza il suo impiego. Sembra che io sia atterrata in un mondo guidato dal lavoro e dal merito piuttosto che dal sangue o dal rango. E devo ammettere che mi piace davvero molto.

Alla fine della giornata, dopo che Sharon mi ha insegnato a chiudere il locale e l’ho salutata, faccio attentamente al contrario il percorso che Wes è stato così gentile da indicarmi. E mentre attraverso le strade affollate che si illuminano nel crepuscolo estivo, mi chiedo se per caso non manco di sensibilità, perché trovo che non mi sto struggendo per la mia posizione privilegiata di figlia di un gentiluomo, per le stanze riccamente arredate e i servi che vi ronzavano e che facevano parte di casa come l’aria che respiravo. Naturalmente sarebbe piacevole svegliarsi e trovare la colazione pronta e non dover pensare a fare il bucato ma, a dire la verità, vivevo in una prigione dorata. Nessuno mi chiedeva cosa volessi fare a parte scegliere una pietanza a tavola o decidere tra il ricamo e la lettura per lo svago serale. Tutto il resto era già organizzato per me – doveri filiali, attività femminili, matrimonio, figli – con la stessa inflessibilità con cui sul letto veniva messo l’abito azzurro che dovevo indossare per cena e guai a me se osavo rifiutare. Ma io ho rifiutato. Non le attività femminili e l’abito azzurro, ma il matrimonio e i figli. Finché non ho quasi ceduto. Quasi.

Quello che mi manca sono i miei amici. Mi mancano mio padre, Mary e Barnes. Mi mancano il verde e il fresco della campagna; l’aria qui è calda, afosa e piena di smog, come l’inverno a Londra. E se gli alberi con le cime che sembrano spazzole sono meravigliosi, la mancanza di prati e piante è notevole.

Penso anche a mia madre nei momenti di malinconia, ma so che la madre che mi manca è quella che ho desiderato, la madre che mi sono creata nella mia testa, piuttosto che la persona che avevo davvero. Però era comunque mia madre e c’è un posto vuoto nella mia vita dove dovrebbe esserci lei.

Penso a Edgeworth, anche se quegli istanti sono fugaci, e ogni giorno che passa il dolore si attenua

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nel ricordo. Perlopiù mi viene a trovare quando scivolo nel sonno. È in quei momenti che il suo viso e la sua immagine mi appaiono in mente con grande chiarezza; e in quegli attimi il pensiero di lui è quasi dolce. È allora che lo vedo come l’ho amato di più, il mio splendido uomo, il mio grande lettore di poesia e opere teatrali, il mio campione di tutto ciò che era bello e interessante nel mio mondo.

Ma ieri sera, mentre fluttuavo tra sonno e veglia, le sue sembianze sono diventate quelle di Wes, e mi confortava sapere che lui fosse lì, che potessi guardarlo di nuovo negli occhi. Mi chiedo se io sia così incostante da poter passare dal voler essere la moglie di Edgeworth al trovarmi attratta da Wes, un uomo che conosco da una settimana. E quando Frank mi balena nella mente, è ancora più inquietante. Per quanto non desideri vederlo, ho paura di testare i miei propositi in sua presenza. Perché ho paura di non riuscire a tenere lontani quei sinistri ricordi di lui. Che è poi il motivo per cui non ho risposto ai suoi due messaggi che mi aspettavano ieri sera in segreteria.

Ma non ho agio di riflettere su queste questioni, perché mi sto avvicinando a un gruppo di giovani uomini seduti al tavolo di un bar e mi stanno guardando tutti in modo estremamente imbarazzante. Uno di loro sussurra qualcosa agli altri che scoppiano a ridere. Indossano tutti pantaloni a vita bassa davvero troppo grandi per loro, alcuni con ampie magliette bianche a maniche corte senza colletto, altri a petto nudo. Adesso sono abbastanza abituata all’apparentemente infinita varietà di abbigliamenti bizzarri. Quello che mi fa scattare sulla difensiva, però, sono i loro sguardi beffardi, che sembrano soppesarmi.

Adesso uno di loro fa un fischio e gli altri ridono.Attraverso la strada più veloce che posso senza mettermi a correre, chiamando a raccolta tutta la mia

dignità e imponendomi di non guardare nella loro direzione.«Ehi bella», grida una voce.Per poco non inciampo in un cumulo di spazzatura abbandonata sulla strada.Altre risate.Continuo a camminare, con il cuore che mi batte all’impazzata. Quando giro l’angolo, getto

un’occhiata al gruppo di giovani uomini: nessuno di loro mi ha seguita.Così mi lascio andare a un sospiro di sollievo.Credo siano solo giovanotti o per meglio dire ragazzi, che fanno i fanfaroni. Eppure, non posso fare a

meno di pensare che se fossi stata nel mio villaggio, alla mia epoca, nessun figlio di contadino o di fattore avrebbe osato toccarsi una ciocca di capelli o levarsi il cappello nella mia direzione.

È possibile che la mia sola presenza per strada sia stata un invito silenzioso a comportarsi da impertinenti? Forse non è saggio camminare da sola al tramonto in questa città. Forse avrei dovuto prestare ascolto alle parole di Frank. Forse, dopotutto, ci sono limitazioni alla libertà di una donna. O magari è semplicemente questione di prudenza.

Come ho potuto essere così stupida? Affretto il passo, guardandomi intorno nella strada che diventa sempre più buia alla ricerca di chiunque possa costituire una minaccia. Quando infilo la chiave nella serratura della porta, sono fradicia di sudore e sto ansimando per lo sforzo. Mi precipito dentro, chiudo la porta dietro di me, mi tolgo i vestiti e accendo l’aria condizionata – che tu sia benedetto, Wes – mentre mi dirigo verso la doccia e mi butto sotto un paradisiaco getto di acqua fredda.

Che meraviglia essere fresca, pulita e al sicuro nel mio appartamento! Potrei passare il resto della serata a finire di leggere Mansfield Park (mai una storia mi ha tenuto così tanto con il fiato sospeso) e poi iniziare L’abbazia di Northanger ora che ho finito di vedere il mio film, che è stato davvero splendido. La magnificenza delle scene mi ha dato un piccolo assaggio di casa – a parte la stranezza del petto messo in mostra da Miss Elizabeth Bennet nelle sue mise da giorno (e ancora più strano era che nessuno sembrasse notarlo) e il fatto che Mr. Darcy non portasse i guanti mentre danzava. Ma credo di poter perdonare queste mancanze in fatto di conoscenza della moda in un film che è stato realizzato in un mondo nel quale delle sottili strisce di stoffa vengono considerate appropriate per fare un bagno al mare e dove nessuno indossa i guanti.

Quasi in risposta ai miei pensieri sul film, dal mio telefono inizia a provenire la musica della sua colonna sonora. È Wes! Mi sforzo di calmarmi prima di rispondere. Che bello sentire la sua voce!

«Tutto okay al locale?» mi domanda. «Spero che non sia stato troppo male.»«A dire il vero, sono proprio soddisfatta. È bellissimo.»«Davvero?»«Hai la mia parola d’onore.»Sento che è sollevato. «Per fortuna, così non dovrò preoccuparmi mentre sono fuori città. Devo stare

via un paio di giorni. Una faccenda di lavoro.»«Oh.» Non so perché, ma il pensiero che Wes non sarà qui, anche se solo per un paio di giorni, mi

lascia con una sensazione di vuoto nello stomaco.Che creatura sciocca che sono.«Non devo stare in pensiero per te, vero?» chiede.Meglio non menzionare la piccola disavventura che ho avuto mentre tornavo a casa stasera.«Ma mi puoi sempre raggiungere telefonicamente», aggiunge. «O via mail.»«Certo.» Mi sforzo di assumere un tono allegro. «Ti auguro un buon viaggio e un piacevole

soggiorno.»«Non so quanto sarà piacevole, sarà già tanto se riuscirò a lavorare meno di sedici ore al giorno.

Comunque grazie.»E poi ci salutiamo e appena metto giù arriva un’altra chiamata, senza nome, solo un numero. Quando

rispondo, una voce familiare dice: «Finalmente. Iniziavo a immaginare di dovermi presentare a casa tua».

È Frank.

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«Continuo a pensare a quella sera al Fortune Bar», prosegue. «Quando ci siamo baciati. E al tuo buon sapore.»

Le sue parole sono come una carezza e lo stomaco mi va su e giù.«Non hai idea di quanto volessi baciarti di nuovo l’altra sera», incalza. «Ma poi sei scappata via.»Il cuore mi batte all’impazzata. Perché quest’uomo ha un simile effetto su di me?«Courtney? Ci sei?»«Sì, sono... sono qui.»«Mi manchi.»«Cosa vuoi da me, Frank?»«Lo sai cosa voglio. E penso anche tu lo voglia.»«Non capisco cosa intendi dire.»«Courtney, voglio stare con te.»Perché una parte di me prova un brivido nel sentire queste parole?«E?»«Lasciami venire», aggiunge, «e ti farò vedere quanto lo voglio.»È come l’altra sera. Vuole solo infilarsi nel mio letto.«Cosa ti fa credere che io ritenga di valere così poco?»«È Wes? È per questo che mi resisti?»E allora capisco chiaramente che il tentativo di riconquistarmi ha molto a che fare con la sua rivalità

con Wes e niente a che fare con il suo affetto nei miei confronti.E con questa consapevolezza, sono libera.«Perché se è così, dovresti sapere che Mr. Perfezione ha fatto qualche affare sotto banco.»«Che vuoi dire?»«Perché non lo chiedi a lui? A meno che tu non abbia paura di scoprirlo.»«Non accetto che mio padre mi si rivolga con questo tono, figuriamoci una persona con cui non ho

nessun legame.»«Da quando in qua parli con tuo padre? E che intendi con ‘nessun legame’? È una cattiveria,

Courtney.»«Addio, Frank.»«Non puoi dire sul serio. Quel bacio ti ha presa.»È insopportabile. «Non mi chiamare più.»E riattacco.Se c’è qualcosa che posso fare nella vita di Courtney, bandire Frank una volta per tutte è il favore più

grande che potrei mai farle. Eppure, mi ci vuole un po’ per calmarmi abbastanza da stendermi e mettermi a leggere, per non dire scrollarmi di dosso la spiacevole sensazione lasciata della criptica affermazione di Frank su Wes.

Ventitré

«NON stai parlando sul serio, Courtney», dice la voce di Paula dal telefono che tengo incuneato tra la spalla e l’orecchio.

Mi sto aggirando per l’appartamento la mattina dopo, preparandomi per il secondo giorno di lavoro alla caffetteria.

«Non capisco», rispondo cercando fra i vestiti nel mio armadio qualcosa di appropriato da indossare, di preferenza qualcosa che possa camuffare le macchie di caffè.

«Fare il caffè? Questo sì che è un lavoro senza prospettive.»Senza prospettive. Devo controllare il significato. In ogni caso non promette niente di buono.Paula continua a farneticare. Premo il tasto VIVAVOCE, un’altra invenzione geniale, e metto il

telefono sul letto mentre mi abbottono i pantaloni. «E questa è stata un’idea di Wes», sbuffa. «Pensa un po’. La sua famiglia ha così tanti soldi che non

deve preoccuparsi di quanto guadagna. Ma tu come farai a vivere con quel misero stipendio?»Wes? Proviene da una famiglia benestante? E figurarsi che lo avevo scambiato per un servo la prima

volta che l’ho visto.«Courtney? Mi stai ascoltando?»«Ce la farò, Paula. È solo finché non troverò qualcosa di più adatto.»«Forza, Courtney. Non riesco a immaginarti mentre servi il caffè senza rovesciarne un po’ addosso a

qualcuno.» Paula ridacchia. «Apposta, naturalmente. È che tu non sei un tipo servile, ecco tutto.»«Non riesco a immaginare nessuno meno servile di Sharon», ribatto, ma sento che sto per aggiungere

qualcosa di cui probabilmente mi pentirò.«Chi è Sharon?»«La ragazza che mi sta insegnando il lavoro. Scusami, Paula, ma devo prepararmi.»Di tutte le insolenze... oh, al diavolo, perché le opinioni di Paula dovrebbero essere così importanti

per me? E Dee pa, che mi ha chiamato poco prima di Paula, non si è forse complimentata per il mio nuovo lavoro? Ha avuto solo affettuose parole di incoraggiamento per me. Comunque mi metto a correre rumorosamente per l’appartamento mentre abbino l’ultimo dei miei completi, poi mi ricordo della promessa che ho fatto a Vladimir e mi sforzo di fare passi più appropriati a una signora.

Ci vuole una veloce camminata nella benedetta aria più fresca della mattina per raffreddare la mia

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rabbia. Non sono ancora pronta a provare a guidare di nuovo; per il momento, dovrò dipendere dalla gentilezza di Sharon per un passaggio a casa di sera e spero di essere al sicuro per le strade di giorno. Continuo a guardarmi intorno, ma non riesco a smettere di pensare alle parole di Paula.

Naturalmente ho dovuto semplicemente googolare «lavoro senza prospettive» prima di uscire di casa. A dire il vero, non mi importa se un lavoro mi offre la possibilità di un avanzamento di carriera. Che idea. Io, che prima di arrivare in questo mondo potevo scegliere solo tra la carriera matrimoniale e quella di zia zitella, la seconda delle quali sarebbe stata certamente una disdetta per la mia famiglia ma non così degradante come essere costretta a impiegarmi come governante, se fossi stata così sfortunata da nascere in una famiglia signorile eppure poco abbiente.

No, non mi importa affatto di avere un lavoro che non contempla la possibilità di un avanzamento di carriera.

Ma servile? È davvero una brutta parola, e non riesco proprio a togliermela dalla testa. Paula è stata piuttosto prepotente, certo, ma è una mia amica. Ed è una donna, per cui ha dei sentimenti femminili. A essere sinceri, ha fatto qualcosa in più che amplificare i miei dubbi? E se dopotutto avessi sbagliato ad accettare il lavoro?

No, non può essere sbagliato. È stata un’idea di Wes. Lui, che è la bontà in persona, nonostante quello che ho letto sul diario di Courtney, nonostante quello che hanno detto Paula e Anna, nonostante le insinuazioni di Frank...

A Deepa, che è mia amica, lui piace molto, non è vero?No. Se Wes mi ha suggerito questo lavoro, non può essere sbagliato. Wes, che voleva che lavorassi per

lui ma, per rispetto dei miei sentimenti, mi ha trovato un altro impiego. Wes, che è stato sempre generoso, gentile e attento ai miei bisogni. Wes, che secondo Deepa prova sentimenti per me che sono... sento che sto arrossendo alla base del collo. Oh, quanto vorrei chiedergli del passato, del suo ruolo nel tradimento di Frank, ma anche capire se sa fino a che grado di intimità sia arrivata Courtney – cioè io – con Frank. Ma non oso. È imbarazzante finanche prendere in considerazione un’ipotesi del genere.

Oh, Signore. Non posso accedere al mio posto di lavoro con una simile confusione in testa. Dovrò pensare a qualcos’altro. E poi ci sono fin troppe cose a distrarmi in queste strade pullulanti di macchine che emanano fumo e musica dai finestrini aperti, persone di tutti i colori dall’abbigliamento bizzarro e negozi che vendono Dio solo sa cosa. E così quando arrivo da Home – quanto mi piace il nome della caffetteria! – mi sono davvero ripresa sia nello spirito sia nell’aspetto esteriore.

Forse assomiglio un po’ a Catherine Morland di L’abbazia di Northanger, un’ingenua ragazza di campagna che ha la sua prima avventura nella grande città di Bath. Forse non so ancora cosa ci si aspetta da me in ogni situazione in questa terra, ma non mi lascerò convincere da Paula a fare ciò che so sarebbe sbagliato. E, come dice Fanny Price di Mansfield Park in maniera tanto eloquente, «Ciascuno di noi è la migliore guida di se stesso, e se ci attenessimo a questo, nessun’altra persona potrebbe fare di meglio».

Inoltre ho promesso a Wes che avrei accettato il lavoro e che avrei dato un adeguato preavviso quando sarei stata pronta a lasciarlo. Non posso rimangiarmi la parola data. Senza contare che non voglio lasciare il mio lavoro. Per adesso, mi sta proprio bene.

La caffetteria è affollata e Sharon mi ricorda che è ora di fare la pausa. Non riesco a credere siano passate quattro ore e che per giunta siano state ben più piacevoli di quanto avrei immaginato.

Proprio mentre sto per accomodarmi con la mia tazza di caffè su una poltrona imbottita con una bella tappezzeria gialla e rossa, mi accorgo che mi stanno guardando. Alzo lo sguardo e vedo una giovane donna minuta che è appena entrata nel locale ed è rimasta impietrita, come se si fosse bloccata a metà strada, e mi sta fissando. All’inizio non riesco a credere di essere l’oggetto della sua attenzione, ma poi quando mi giro, vedo che Sharon è dall’altra parte del bancone e non c’è nessun altro nelle vicinanze. Squadro la donna con aria interrogativa e lei sembra ricomporsi, riprendendo a camminare verso il bancone.

Sono stranamente turbata, non solo dal fatto che mi sta studiando, ma anche dalla misteriosa familiarità del suo viso, e così mi sposto il più velocemente possibile dalla sua traiettoria. Mi sistemo sulla poltrona accanto alla vetrina e cerco di non gettare occhiate nella sua direzione. Ma non posso evitare, tale è la mia curiosità di osservarla di nuovo.

E poi mi ricordo dove l’ho vista prima: è la stessa donna che mi scrutava all’Awakening mentre ero in corridoio a parlare con Wes e Deepa, anche se era molto più lontana di quanto non sia adesso. Studio i suoi lineamenti mentre ordina il caffè. È davvero bella, anche se la sua è una bellezza molto particolare. Ha il viso a forma di cuore e gli occhi grandi a mandorla. Ha un nasino delicato, le guance lentigginose e una grande bocca da bambina.

E poi mi guarda dritta in faccia e non la smette dall’altra parte della caffetteria. Se io e lei ci conosciamo, come in effetti deve essere, altrimenti non mi guarderebbe così, allora perché non mi saluta come si deve? È davvero inquietante. Punto gli occhi su Sharon, che scivola verso il tavolo accanto al mio, con il vassoio in mano, e raccoglie tazze e piatti vuoti.

Quando Sharon ritorna al bancone, decido di dedicarmi completamente al mio caffè e al giornale che è sul tavolo. E, a dire il vero, qualcosa di molto più interessante della donna che mi guarda cattura la mia attenzione: la storia del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Che una cosa del genere sarebbe mai potuta succedere e che io l’avrei potuta verificare di persona, qualcosa che, giuro, neanche William Wilberforce o Thomas Clarkson avevano mai sognato, non lo avrei mai detto.

«Pensi di piacerle anche tu?» dice una voce con un accento assai riconoscibile dietro di me. Mi giro: è Deepa.

Mi alzo e la bacio sulle guance. «Che bella sorpresa!»

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Mi sorride. «Dovevo fare un salto e vedere il tuo nuovo posto di lavoro, ma la prima cosa che ho notato è stata lei.» Fa un piccolo cenno con la testa verso la donna misteriosa, che è piegata sul bancone, in attesa del suo caffè, mentre continua a scrutarmi.

«L’ho vista al locale», continua Deepa. «Ma non so come si chiama. Immagino la sua mamma non le abbia mai spiegato che è maleducato fissare le persone.» Alza leggermente la voce dicendo «fissare» e la donna sembra ricomporsi, perché distoglie e abbassa lo sguardo.

Alzo le spalle e Deepa mi chiede: «Come vanno le cose qui, a parte il fatto di essere oggetto delle attenzioni altrui?»

E così le racconto del mio lavoro, della temporanea mancanza di elettricità, del suo ritorno e delle telefonate di Wes e Frank. Lei è così amichevole e affettuosa mentre mi loda per aver rimproverato Frank e sono così presa dalla nostra conversazione che mi dimentico completamente della strana donna che, quando mi separo con riluttanza da Deepa, la saluto e riprendo le mie attività dietro il bancone, in effetti è andata via.

Sharon decide che ora sono in grado di fare tutto da sola: lei mi darà un’occhiata e mi assisterà se necessario. E così le ore passano e io preparo le bevande, scambio quattro chiacchiere con gli avventori, servo torte e muffin e distribuisco bottiglie di un’acqua minerale sorprendentemente buona, un altro miglioramento rispetto al mio mondo, dove l’acqua minerale di solito sa di metallo o di fogna.

Alla fine del nostro turno, sono ancora più orgogliosa di quanto non fossi il primo giorno, perché Sharon non è mai dovuta intervenire e salvarmi da un mare di ordini, e non ho mai avuto problemi con il registratore di cassa, anche se avevo paura non sarei riuscita a occuparmene da sola, io che non avevo mai neppure sentito parlare di computer prima di arrivare in questo mondo. Non posso non pensare alla confidenza che in qualche modo ho acquisito con il mio computer e il mio telefono: è come se queste mani ricordassero cose che la testa non ricorda. Suppongo che sia al lavoro la stessa parte di intelligenza che ultimamente ha iniziato a richiamare parole finora sconosciute alle mie labbra.

Perciò sì, sono orgogliosa di essermi resa utile oggi, di avere un lavoro che mi consentirà di mantenermi e, alla fine, di ripianare i miei debiti. E sì, sono fiera di aver fatto sorridere molte persone servendo loro torte e caffè.

Questo impiego non è certo il massimo, è vero, ma sono tutto fuorché servile. Anzi, non tollererò alcuna mancanza di rispetto, perché Sharon mi ha insegnato a non servire quei rari clienti che dovessero comportarsi in maniera offensiva. E quanto al paragone della mia situazione con quella di una domestica, la sola idea è offensiva considerando la fatica infinita che tocca ai domestici, i quali devono vivere con la famiglia dei loro datori di lavoro, guadagnano un decimo di quanto guadagno io, spesso faticano più di sedici ore al giorno e vivono dietro l’impenetrabile barriera della differenza di classe. Una barriera che ho superato, pentendomene infinitamente, quando ho baciato James, in un momento di dolore e follia dopo aver scoperto la volubilità di Edgeworth. Se qualcuno ci avesse sorpreso, James avrebbe perso il suo lavoro come cameriere a casa nostra e io sarei stata rovinata.

Se mia madre potesse vedermi in questa fantasia, di certo sverrebbe immediatamente. E questa fantasia, lo ammetto, mi fa sorridere. Ma in fondo non ho mai risposto alle sue aspettative su come dovrebbe essere una brava figlia. Mamma ripeteva sempre che ero la figlia di un elfo scambiata con la sua vera figlia alla nascita, e forse aveva ragione. Forse in Courtney troverà la «vera» figlia che ha sempre voluto.

La troverà? Mi rendo conto che sto pensando a ciò che deve essere un passato morto e sepolto come a qualcosa che sta succedendo anche adesso, semplicemente perché non posso concepire l’idea che tutti quelli che conosco siano morti, anche se quando sono arrivata qui ho versato tante lacrime per loro. Ma adesso, quando rifletto che sto vivendo la vita di Courtney, mi dico che lei sta certamente vivendo la mia. E se la mia mente, la mia percezione di chi sono, sono riuscite a sopravvivere in un futuro lontano duecento anni, allora la sua mente deve essere sopravvissuta in un passato lontano duecento anni. So che in questo non c’è un briciolo di razionalità, ma deve essere così. Se sono qui nella sua vita, allora lei deve essere nella mia. E sta certamente accadendo adesso. Ma come è possibile? Il tempo non è forse una linea diritta, dove il passato è morto e il futuro non è ancora nato?

Oh, Signore: queste elucubrazioni mi stanno facendo venire mal di testa o forse sto davvero impazzendo. La mia situazione – andare a dormire nei panni di una persona e svegliarsi in quelli di un’altra – non è la definizione stessa di pazzia? Eppure non mi sento folle. Mi sento molto viva. Ben più di quanto non mi sia sentita da molto tempo a questa parte. Due secoli, per l’esattezza. Sorrido a me stessa finché non mi rendo conto che Sharon mi sta guardando con un’espressione interrogativa e, a esser precisi, mi sta anche aspettando davanti alla porta del locale, essendosi offerta di darmi un passaggio a casa, cortesia che ho accettato ben volentieri. Non ho voglia di ripetere le mie disavventure della notte scorsa.

Dopo qualche minuto, sto aprendo di nuovo la porta del mio appartamento. Mentre mi verso un bicchiere di tè freddo, ansiosa di godermi la mia serata dedicata a finire L’abbazia di Northanger e iniziare Persuasione, mi viene in mente che prima dovrei controllare le mail; ho sentito dire più di una volta dai miei amici che sono diventata una corrispondente davvero ritardataria. Non che abbiano usato proprio questa espressione.

E magari c’è un messaggio da parte di Wes.Scorro la lista dei messaggi. Uno di Paula che si scusa, un po’ in maniera scherzosa e un po’ cercando

di giustificarsi, per le parole di stamattina. Uno di Anna che si augura che io stia bene e aggiunge che è molto impegnata questa settimana, ma naturalmente se mi serve qualcosa... Molte di mittenti che non riconosco e a cui non so proprio come rispondere: è come risvegliarsi nel bel mezzo di una conversazione con perfetti sconosciuti che in un modo o nell’altro credono che tu li capisca.

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Nessun messaggio da Wes. Certo che non ce ne sono. È fuori città, impegnatissimo con il lavoro, e di sicuro non ha tempo per cose del genere.

Ah, ma c’è un messaggio da parte di Sharon. «Sharon vuole essere tua amica», dice, mostrandomi che devo cliccare su una riga particolare se voglio confermare la sua richiesta.

Certo che sarei felice di essere amica di Sharon!Interessante abbia richiesto la mia amicizia per iscritto: è così che si fa qui? Deepa però si è

dichiarata mia amica senza scrivermi per chiedere il permesso. Forse in questo mondo ci sono due consuetudini diverse per quando si diventa amico di qualcuno al lavoro e quando...

...lo si diventa nella toilette delle signore in un locale?Scoppio a ridere per l’assurdità della faccenda. A quanto pare ci vorrà un po’ perché io comprenda le

regole.Non importa. Sono onorata che Sharon voglia essere mia amica. Clicco sulla riga per confermare

immediatamente la sua richiesta. Questo piccolo gesto mi porta a un posto del computer che non avevo mai visitato prima.

Tu dice. Info. Foto. Pagine. Clicco su Info e vengono fuori una fotografia della mia faccia e del mio nome in prestito, Courtney Stone.

Data di nascita, luogo di nascita, università, libri preferiti, film preferiti. Queste ultime due liste iniziano con i titoli delle opere di Jane Austen. Nessuna sorpresa qui.

Interessata a conoscere: Uomini. Oddio! Forse nessun altro può vederlo.Il tuo profilo è pubblico. Sento che la faccia avvampa, anche se sono da sola nel mio appartamento.Che sto facendo adesso: Sognando di investire il mio ex fidanzato con la macchina. O con un rullo

compressore.Di fronte a queste parole mi scappa una risatina, che diventa più forte quando passo al dizionario

online e controllo la definizione di «rullo compressore». Perché naturalmente tutto il mondo deve sapere non solo che voglio conoscere uomini, ma anche ucciderli con le mie mani.

Perché una donna non sposata dovrebbe rendere pubbliche informazioni di questo tipo?Oh, Signore. Vorrei essere scandalizzata, ma è tutto troppo assurdo. E in fondo non ho avuto pensieri

simili riguardo a Edgeworth dopo aver scoperto il suo tradimento? Se avessi saputo cosa sono le macchine e i rulli compressori, non dubito che avrebbero giocato un ruolo anche nelle mie fantasie.

Sposto di nuovo lo sguardo sullo schermo. Data di nascita. Un calcolo veloce mi dice che ho... oh, cielo!... ho trentadue anni. Trentadue! Ovvero due in più della settimana scorsa.

Due anni in più? A dire il vero dovrei avere centonovantasei anni. In questa prospettiva, trentadue non sembrano poi molti.

Eppure... trentadue. E non ancora sposata.Ma non ho motivo di dolermi.Perché posso anche avere trentadue anni, ma mi guadagno da vivere da sola, abito in un

appartamento tutto mio e dispongo del mio tempo. Dispongo anche di una vettura... volevo dire, macchina. Che dovrei senz’altro imparare a guidare.

Niente male. Proprio niente male.E guarda quanti amici che ho – getto un’occhiata alle fotografie – è possibile che io abbia davvero

292 amici? Tra le fotografie c’è quella della faccia sorridente di Wes. Clicco sulla sua foto e ora sullo schermo c’è il suo profilo.

Professione: Web developerSu di me: Quando non sto incollato allo schermo di un computer a costruire siti web sono incollato

al plasma a vedere film, divagando di tanto in tanto per cucinare, fare un giro in bici a Mount Wilson e contemplare il significato di tutto questo.

Costruire siti web. Di sicuro qualcosa che ha a che vedere con i computer, come ha detto Deepa. E cucina. Un uomo ricco che cucina. Per divertimento, a quanto pare. Che cosa strana. E affascinante.

Aspirazioni: Buone intenzioni che portano su invece che giù.Mi piace moltissimo.Citazioni preferite:Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento. W ILLIAM S HAKESPEAREAmare se stessi è l’inizio di un idillio che dura una vita.OSCAR W ILDELa vita è piena di solitudine e squallore, di guai, di dolori, di infelicità... e oltretutto, dura troppo

poco. W OODY A LLENRido. Riflessivo, spiritoso e amante di Shakespeare.E poi do un’occhiata al suo gruppo di amici e sussulto alla vista della – oh sì, è proprio lei – donna

che mi fissava in caffetteria e che era anche all’Awakening. Si chiama Morgan LeDonne. Ma chi è?Clicco sul suo profilo e non c’è molto su di lei a parte commenti di amici su questioni che per me non

significano niente. E poi clicco su Foto e lì, proprio in cima alla pagina, c’è una foto di lei con Wes, un uomo e una donna, tutti seduti a un tavolo, che tengono in mano dei bicchieri e sorridono. Per quanto guardi l’immagine, non riesco a decifrare se il loro atteggiamento sia quello di una coppia o di due semplici amici.

Wes non l’ha forse notata mentre ci guardava quella sera all’Awakening? Perché non l’ha salutata? È impossibile non volergli chiedere di lei. Ma come farlo è la vera domanda.

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Ventiquattro

LA mattina seguente sto armeggiando con i miei capelli indisciplinati davanti allo specchio. Quanto vorrei Barnes fosse qui per mettermeli un po’ in ordine! E, oh, come mi manca, e come ero viziata a non apprezzare la sua costante assistenza, quando faccio cadere una graziosa molletta luccicante dietro la libreria. Mentre mi piego accanto alla libreria e distendo il braccio nel piccolo spazio retrostante, tocco appena l’estremità della molletta quando sento qualcos’altro che sembra essere un libro così grande che farebbe sembrare piccoli quelli enormi della biblioteca di mio padre.

Recupero sia la molletta sia il libro mastodontico, coperto di polvere. Dopo averlo spolverato in cucina, lo apro e scopro che è un libro di schizzi a matita e disegni. Eseguiti da qualcuno chiaramente molto esperto. E questo libro appartiene senz’altro a Courtney.

Giro le pagine, rimirando gli studi di mani, paesaggi e figure e resto senza fiato alla vista del disegno di una donna con un vestito del mio tempo, una donna il cui corpo e il cui viso sono inconfondibilmente i miei. Non di Courtney. Proprio i miei.

Mi viene la pelle d’oca. Com’è possibile?Le pagine successive contengono il disegno dello stesso soggetto da varie angolazioni e la somiglianza

è sorprendente come lo era nel primo schizzo.Com’è possibile che Courtney conoscesse il mio aspetto, per giunta così bene da poter disegnare dei

ritratti tanto fedeli?È impossibile. Lei era qui e io ero lì e non ci siamo mai incontrate.Finché io non mi sono svegliata nel futuro, con la sua faccia, nella sua vita.E questi disegni sono stati fatti prima che arrivassi. Perciò devono essere frutto della sua

immaginazione. Non c’è altra spiegazione.Ma io non sono un frutto dell’immaginazione. Io sono vera.Certo che sono vera. Ho pensieri, sentimenti, ricordi e tutta una storia che è reale.Eppure qui nessuno sa chi sono veramente.Nessuno tranne me. E la chiromante. E lei non è frutto della fantasia.Questo pensiero mi solleva enormemente.Mentre studio i disegni, penso: Courtney troverà qualcosa a casa mia che le provocherà uno choc

uguale a quello che questi disegni hanno provocato a me?Alla fine devo staccarmi dall’album. Se non mi sistemo i capelli ed esco di casa, arriverò in ritardo per

il mio turno. Però porto l’album con me, ansiosa di studiarlo di nuovo durante la pausa.Dopo essere arrivata alla caffetteria e aver preparato le prime tazze di latte macchiato e cappuccino,

sono meno turbata al pensiero di quei disegni di quanto non fossi prima.Mentre la giornata va avanti, riesco a non pensarci in continuazione. E riesco anche a guardarli

durante la pausa senza pensare neppure una volta se esisto o no. E prima che me ne renda conto, l’orologio mi dice che mancano solo due ore alla fine del mio turno.

Mi sto asciugando le mani e sto per mettere via alcune tazze pulite quando Sharon mi si avvicina e mi tende le braccia. «Courtney, è stato divertentissimo lavorare con te.»

Sono così sbalordita che per un attimo non riesco neppure a parlare.«Non essere così sconvolta!» Mi sorride. «Sapevi che ti avrei insegnato quello che c’è da sapere solo

per qualche giorno.»«Sì, ma non avevo idea che oggi fosse il tuo ultimo giorno.» Afferro il bordo del bancone, sentendomi

quasi frastornata.«Sembri spaventata, ma non ti preoccupare. Sam aprirà tutte le mattine. E ha chiesto a Keith di

venire a dare una mano nelle ore di punta. Sarai copertissima. E ti piacerà Keith. Che, tra l’altro, sarà qui tra due ore. Non devi fare altro che tenere duro per le prossime due ore da sola.»

Cerco di sorridere ma, nonostante i miei sforzi, ho gli occhi pieni di lacrime. Sharon fa per abbracciarmi e io la stringo forte. Mi scende una lacrima. Lei si stacca e mi asciuga la faccia con il cencio che stavo usando.

«Andrà tutto bene. Hai la mia parola. Ci sentiamo, okay?» dice, con un’espressione affettuosa nei grandi occhi marrone.

Annuisco, temendo che se dirò qualcosa, verserò altre lacrime. Non riesco a credere a quanto mi sia affezionata a Sharon in così poco tempo. O forse sono solo terrorizzata al pensiero di lavorare qui da sola. Anche soltanto per due ore. Con Sharon accanto, in un certo senso mi sentivo protetta.

Mi sforzo di sorridere e la saluto mentre esce.Per fortuna nell’ora successiva ci sono così poche ordinazioni che sento tornare la fiducia in me stessa

e ho anche la possibilità di tirare di nuovo fuori l’album dei disegni, che metto sul bancone e inizio a studiare.

Ora che ho superato lo choc di vedere il mio ritratto, posso ammirare di nuovo la bravura di chi lo ha eseguito. Questo mi fa venire in mente quanto mi piacesse disegnare quando ero piccola, soprattutto nelle rare occasioni in cui mio padre mi permetteva di accedere al suo studio, con le matite e la carta su uno dei suoi tavoli da lavoro e io seduta lì a sforzarmi di stare più tranquilla e buona che potevo. Cercavo di disegnare, inalando l’odore intossicante delle vernici, ma perlopiù guardavo mio padre dipingere. Non tanto quello che metteva sulla tela, ma il modo in cui il suo viso si lasciava trasportare dalla gioia e dall’intensità di ciò che stava creando. Ma non gli piaceva essere guardato e così ben presto venivo

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rimandata nel salottino, dove mia madre iniziava a commentare la strana scelta dei soggetti nei miei disegni: che razza di bambina preferiva rappresentare cameriere e giardinieri al lavoro invece che gentildonne e gentiluomini o fiori e ceste di frutta?

I momenti migliori per disegnare erano nella mia camera da letto, di notte, alla luce della candela, quando il resto della casa dormiva e io stavo comodamente accucciata nel mio letto, con il fuoco ravvivato e il baldacchino che mi chiudeva in quello che mi piaceva immaginare come il mio mondo. Allora ero davvero serena, lontana dagli occhi indagatori di mia madre.

Imparai a nascondere i disegni dei servi in fondo alla mia cartella di schizzi, dietro a vari fogli bianchi. E poi, un giorno, mentre stavo rientrando nel salottino sorpresi mia madre che spiava tra i disegni della mia cartella. Aveva trovato quelli che avevo nascosto.

Alzò lo sguardo dai disegni, che erano sparpagliati sul tavolo: il suo viso era una maschera pallida di rabbia, la sua voce fredda come il più freddo degli inverni.

«Non voglio vedere mai più una cosa del genere, mi hai sentito Jane? Se non sei in grado di disegnare come una signorina perbene – e a queste parole gettò uno dei miei disegni nel fuoco e mi guardò con aria trionfante mentre io rimanevo senza fiato – allora non dovresti farlo affatto.»

Rimasi a guardare, senza poter dire né fare niente, mentre lei gettava nel fuoco tutti i miei disegni, pagina dopo pagina.

«E ora sparisci dalla mia vista», ordinò, sedendosi per ricamare.Fu allora che notai mia sorella Clara, seduta sul divano dall’altra parte della stanza, che fingeva di

leggere con un sorrisetto compiaciuto stampato sulla faccia.In quel momento seppi che non sarei mai stata una di loro e che non lo avrei mai neanche desiderato.

Loro, come mio fratello, erano chiusi in un piccolo mondo fatto di presunzione e vanità. Mio padre era l’unico che mi voleva bene, ma anche lui cercava di scappare da loro, passando la maggior parte del giorno a dipingere nel suo studio o ad andare in giro per la tenuta occupandosi dei suoi affari. Come avrei voluto trascorrere le mie giornate con lui! Ma ero chiusa in casa, costretta a imparare a comportami da «signorina perbene», come diceva mia madre e, a dire il vero, a fallire.

Prima o poi, dicevo a me stessa, sarei stata libera da quel mondo soffocante. E ci ero quasi riuscita, perché consideravo la prospettiva del matrimonio con Edgeworth come la via di fuga che avevo sempre sognato. Con lui non mi sarei dovuta accontentare di uno degli uomini stupidi e insopportabili proposti da mia madre. Con lui avrei finalmente avuto una persona uguale a me nel modo di pensare e di agire.

E poi era andato tutto in pezzi. Ma adesso sono qui, libera come non avrei mai immaginato.Sfoglio le pagine dell’album finché non arrivo a un foglio bianco. E, usando una matita che trovo sul

fondo della mia borsa, inizio a disegnare. Sono passati anni dall’ultima volta che ho impugnato una matita, da quando mia madre, ridicolizzando e bruciando i miei schizzi, aveva distrutto il mio desiderio di farlo. Avevo quasi dimenticato quanto mi piacesse. Finché non ho trovato questo album.

Mi ritrovo a disegnare un viso. Il viso di una donna. Delineo i suoi occhi a mandorla, i suoi lineamenti con lo strano miscuglio di bellezza infantile e fascino femminile. Non so perché, ma sto riproducendo il viso della donna che ieri mi guardava con una tale intensità che mi ha messo quasi in imbarazzo e, così facendo, mi è rimasta fortemente impressa nella memoria.

Non so giudicare se il mio sia un ritratto fedele o no. In ogni caso, è quasi un sollievo disegnare di nuovo, a prescindere dal soggetto. Una liberazione, in un certo senso. È strano guardare queste mani che non sono le mie, queste mani più paffute, forti, grandi, che stringono la matita. E la tengono più agevolmente, devo dire, di quanto le mie abbiano mai fatto. Forse sarei stata più brava a disegnare se non avessi smesso tanto presto. Ah, bene. Sono grata che, a quanto pare, Miss Courtney Stone non l’abbia fatto.

Sono così assorta nell’attività che quando lo scampanellio della porta annuncia l’ingresso di un cliente, il suono arriva a malapena alla periferia della mia coscienza. Solo quando arriva al bancone alzo lo sguardo e mi rendo conto che la persona che è entrata è Wes. Gli occhi gli brillano dietro gli occhiali e ha i riccioli bagnati, come se si fosse appena lavato i capelli. La sua camicia bianca è stirata e inamidata e ha il colletto aperto.

Il cuore mi fa un balzo in petto. Prego che la mia gioia non sia troppo evidente. Chiudo in fretta l’album.

«Sam mi ha detto che sei ufficialmente uscita dalla fase di apprendistato, perciò ho pensato di venire a farti un saluto. E a portarti fuori per festeggiare. Se non sei impegnata, naturalmente.»

«Non pensavo di vederti prima di domani.»«Ho lavorato quasi tutta la notte per poter tornare oggi.»Piegandosi in avanti, allunga il collo verso l’album e il familiare odore agrumato è quasi inebriante.«E quindi sei libera per cena?»Ho la bocca asciutta e le mani bagnate. «Andare a cena sarebbe carino», mormoro alla fine. Oh,

Signore. Carino. Un’espressione banale in questo mondo proprio come lo era nel mio.«Non ti ho mai vista disegnare prima di oggi.» Allunga la mano verso il mio album. «Posso?»Gli sto porgendo l’album quando la porta suona di nuovo e un ragazzo alto e muscoloso in pantaloni

corti e con una maglietta senza maniche avanza verso il bancone, con un grande sorriso sulla faccia abbronzata.

«Ehi, amico», dice a Wes, mostrandogli il pugno chiuso, che Wes tocca con il suo in una specie di strano saluto rituale. «Il traffico del mio sito è arrivato alle stelle da quando hai modificato le parole chiave.» Poi rivolge il suo sorriso smagliante a me. «Courtney, giusto? Sono Keith.» Si toglie una ciocca di capelli chiarissimi dalla fronte. «Se vuoi andartene qualche minuto prima», e rivolge a Wes un’occhiata eloquente, «a me sta bene.»

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Ah. Questo deve essere il Keith di cui Sharon mi ha parlato prima di andarsene.«Piacere di conoscerti», dico, avendo imparato che «sono lieta di fare la tua conoscenza» provoca

inevitabilmente un’espressione corrucciata. «Ed è molto gentile da parte tua», aggiungo.Sono davvero ansiosa di trascorrere un po’ di tempo con Wes. Prima però vorrei lavarmi la faccia e

sistemarmi i capelli. Devo avere un aspetto spaventoso dopo ore a fare il caffè e a schiumare il latte. «Mi puoi dare qualche minuto?» domando.

«Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Dà un colpetto all’album. «Questo mi terrà occupato.»Mi chiudo nel bagnetto della caffetteria e guardo il mio riflesso nello specchio. Questa faccia che non

è la mia faccia mi sta diventando sempre più familiare e mi ci trovo sempre più a mio agio. Perché avere un viso diverso rende più facile fare e dire cose che non avrei mai fatto e detto con il mio.

Come picchiettarmi le labbra con un rossetto rosa lucido che tiro fuori dalla borsa. Ora che ho superato il senso di colpa per un’altra cosa che a casa mi era proibito fare, ho iniziato ad apprezzare il vero e proprio arsenale di cosmetici di Courtney. Mia madre si permetteva di usare un po’ di trucco ogni giorno eppure giurava alle amiche che l’incarnato roseo delle sue guance era un dono di natura. Qui però i cosmetici sono universalmente reclamizzati e anche ostentati. Non potrei enumerare tutte le volte in cui ho visto donne di ogni età tirare fuori degli specchietti e mettersi il rossetto o un po’ di fard a tavola in un posto pubblico o anche mentre guidavano.

Mi butto un po’ d’acqua fresca in faccia e poi mi asciugo delicatamente con un asciugamano di carta. Queste guance sono rosate, a differenza del colorito pallido del mio vecchio viso. Non mi resta che spazzolarmi i capelli.

Oh sì, magari anche una spruzzatina di profumo. Tossisco e apro la finestrella. Un’ultima occhiata allo specchio. Spero di non aver esagerato con il profumo. Preferisco sapere di fresco e avere una faccia pulita piuttosto che sembrare agghindata in maniera artificiale.

Torno da Wes, che è seduto al tavolino accanto alla vetrina, con l’album aperto davanti a sé. Mentre mi avvicino alza lo sguardo e mi rivolge un sorriso raggiante. «Court. Sono splendidi», si congratula scorrendo i fogli. «Non sapevo che disegnassi.»

Mi limito a sorridere e chino la testa, perché non ho fatto io gli schizzi che sta ammirando. Che brava bugiarda che sono diventata.

Wes resta senza fiato. Non so come ha fatto cadere la bottiglia verde di vetro di acqua minerale, bagnando la parte superiore dell’album, che adesso è aperto sul mio ritratto della donna. Schizza in piedi per schivare l’acqua che sta gocciolando dal tavolo.

«Non è niente», lo rassicuro correndo al bancone per prendere dei tovaglioli di carta con cui mi metto ad asciugare. «È solo acqua e in men che non si dica sarà asciutta.»

Tampono il disegno con i tovaglioli, guardando negli occhi la donna del disegno.«Courtney, mi dispiace così tanto», bofonchia Wes.Courtney, mi dispiace così tanto. Queste parole, le stesse che mi ha detto mentre mi trovavo in un

negozio sulla Vermont. È un altro ricordo, e non è affatto un mio ricordo, eppure c’è. E riesco a vedere anche lei, la donna del disegno, insieme con noi. Non l’avevo mai vista prima, eppure mi stava fissando, proprio come ha fatto in questa caffetteria e al locale. Mi stava fissando perché Wes la teneva per mano e l’aveva lasciata andare quando mi aveva visto nel negozio. L’aveva lasciata ed era venuto verso di me, come se lei non esistesse.

«Courtney», aveva detto, «mi dispiace così tanto.»«Non ci pensare», gli avevo risposto, avviandomi il più in fretta possibile verso la porta posteriore del

negozio. Come osava parlarmi? Aveva avuto la possibilità di farlo, quando sapeva che Frank stava con un’altra donna. Wes, il mio migliore amico, mi aveva tradito. E dagli sguardi della ragazza a cui teneva la mano, non ero l’unica che aveva ingannato.

«Courtney?» La voce di Wes mi riporta alla caffetteria.Stringo ancora il tampone di tovaglioli di carta sulla metà inferiore del disegno. Ma la faccia della

donna è salva e i suoi occhi mi guardano con la stessa aria fredda e poco amichevole di quella in carne e ossa che era qui ieri.

E, in questo momento, capisco che mi sono raccontata un sacco di bugie su Wes. Volevo credere che ci fosse stato un fraintendimento, un motivo per cui mi aveva tenuto nascosta l’infedeltà di Frank.

Ma mi sbagliavo.Oh, come ho potuto essere così stupida? Perché non ho dato ascolto ad Anna e Paula? Perché per un

attimo ho pensato che non sarei stata attratta dal solito ipocrita traditore? Non solo era stato disposto a mentire a me – a Courtney – riguardo Frank, ma aveva mancato di rispetto a quella donna in mia presenza, una donna che stava tenendo per mano, che era nella fotografia con lui, che doveva essere la sua... fidanzata? Ragazza? Oh, quanto odio questa parola assurda! Non mi meraviglia che mi abbia mostrato tanta ostilità ieri alla caffetteria. E quella sera al locale. Non mi meraviglia che ci stesse fissando. Deve essere andato da lei appena Deepa mi ha portato a casa quella sera.

«Courtney?»Il cuore mi rimbomba nelle orecchie. Devo uscire da qui. E prima di rendermene conto, mi sono

messa la borsa in spalla e sono schizzata fuori dalla caffetteria, correndo più che posso verso casa.«Courtney!»Wes è dietro di me e mi grida di fermarmi, ma io non gli darò ascolto, devo allontanarmi da lui.

«Courtney, ti prego!»E pensare che mi stavo affezionando a quest’uomo. I negozi e i palazzi sono una macchia indistinta

mentre corro, con il suono del mio respiro affannato nelle orecchie. Ma vedo a stento ciò che mi circonda. Tutto quello che vedo è Wes, i suoi occhi, il modo in cui mi guardava in quel negozio, le lacrime

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che gli giravano negli occhi grigioazzurri e il modo in cui sono scappata da lui, scappata da quello sguardo addolorato, con il desiderio di pensare a qualcos’altro, a qualsiasi cosa, mentre tornavo a casa, mentre cercavo in cucina qualcosa da mangiare, qualcosa per distrarmi. Ma non riuscivo a pensare ad altro che ai suoi occhi, al suo dolore, al tocco della sua mano sulla spalla, al profumo agrumato della sua pelle – e improvvisamente ero così frastornata che mi ero aggrappata al bordo del tavolo per tenermi ferma.

Perché non era Frank che amavo. Era Wes.Adesso lo vedo chiaramente, ma lei non riusciva a vederlo. Vedo che cosa ha affogato quel giorno

nella vodka e nel dolore, cosa ha sepolto nelle pagine di Orgoglio e pregiudizio. E sono di nuovo lì, in quel ricordo, nell’appartamento, la mattina dopo aver visto Wes in quel

negozio: ho la nausea perché ho bevuto troppo e la testa mi rimbomba mentre barcollo fuori di casa. Poi c’è una sequenza di immagini indistinte: io che guido la macchina mentre la luce del sole mi fa male agli occhi e mi trascino al lavoro, poi nuoto in un’enorme vasca pubblica... una piscina. E sto nuotando nell’acqua fresca, con le braccia che accarezzano la superficie luccicante, le gambe che scalciano. Poi sono sul bordo della piscina: tremo per lo sforzo e mi sto tuffando in acqua. E infine sono stesa sul pavimento accanto alla piscina, le facce preoccupate degli altri nuotatori che mi sovrastano, il gocciolio della più vecchia e magra mentre il nastro della sua cuffia aderente fa cadere una goccia dopo l’altra sulla mia guancia destra in un ritmo costante. Com’è ipnotico questo suono, come un metronomo che mi culla fino a farmi addormentare, e io chiudo gli occhi, arrendendomi al gocciolio. È allora che sento la sua voce, come se fosse la prima volta. È la voce di Wes che mi dice che ho battuto la testa sul bordo della piscina mentre mi tuffavo, che andrà tutto bene, che devo aprire gli occhi. Com’è strano avere Wes che mi parla mentre sono stesa qui in piscina, con le sue mani che si allungano verso di me. Solo che non sono più in piscina. «Sei al pronto soccorso», mi informa, tenendomi per mano. «E andrà tutto bene.»

«Courtney?» La voce di Wes mi riporta al presente. Non sto più correndo: sono appoggiata al muro di fronte casa mia e sto ansimando.

«Che succede? Perché sei scappata?» In mano ha l’album dei disegni, aperto alla pagina del ritratto della donna.

Abbasso lo sguardo verso l’album e poi incontro quello di Wes.«Ora mi ricordo. Volevo credere che tu avessi delle buone ragioni per non dirmi di Frank. Per essere

stato disposto a mentire per lui. Ma adesso so che non ci sono scuse per quello che hai fatto.»Chiude gli occhi per un attimo e fa un sospiro che è quasi un brivido. «Non ho mai voluto ferirti,

Courtney.»Indico il disegno. «E lei, Wes? Cosa hai fatto a lei? Le hai mentito come hai fatto con me?»«Le ho detto che non riuscivo a sentirmi coinvolto dalla nostra storia. Lei mi ha risposto che non ero

il tipo di ragazzo di cui si sarebbe mai potuta innamorare. Ha aggiunto che ero troppo carino e che lei voleva solo divertirsi.»

Riesco a vedere la faccia di quella donna, il dolore nei suoi occhi mentre Wes le lasciava la mano e si allontanava da lei nel negozio.

«Non sembrava affatto che si stesse divertendo quel giorno. O ieri, quando era alla caffetteria.»Qualcosa che assomiglia alla paura gli fa fremere i lineamenti. «Morgan è venuta lì?»«All’inizio non l’ho riconosciuta, a parte il fatto che l’avevo vista all’Awakening. Ma poi mi sono

ricordata di quel giorno.» «Courtney, per favore possiamo entrare e parlarne?»«No, non ho niente da dire.»«E io invece ho moltissime cose da dirti.»Queste parole mi risuonano nella testa: ho moltissime cose da dirti. Sono le stesse che mi ha detto

quel giorno al negozio, quando era con Morgan e io mi stavo allontanando da lui, come sto facendo adesso.

«Non mi va di sentire come hai maltrattato quella ragazza.»Lui però mi sta seguendo per le scale.«Courtney, per una volta mi vuoi stare a sentire?»Mi fermo e mi giro per guardarlo. «Quella povera ragazza. Ma esiste un uomo che conosce il

significato della parola fedeltà?»E poi il pieno significato delle mie parole mi mette in un tale stato di agitazione che arrossisco fino

alla punta dei capelli.«Non è giusto. Come potevo sapere che volesse...»Abbassa lo sguardo, come se non riuscisse ad andare avanti.La sua espressione nel locale, alla caffetteria. Tutto il tempo che Wes ha trascorso con me quando

non lavorava, la notte che è rimasto persino a dormire sul mio divano. «E così l’hai abbandonata. È incredibile.»

«Se proprio lo vuoi sapere, dopo che ti abbiamo incontrata al negozio era così arrabbiata con me che ha detto che non voleva vedermi mai più.»

«E che scelta aveva, considerato il modo in cui l’hai offesa?»Wes non si è comportato meglio del Willoughby di Ragione e sentimento, quando umilia in pubblico

la povera Marianne. «Avresti dovuto fare la cosa giusta per quella ragazza... per Morgan», dico.«Cosa avrei dovuto fare?»«Non capisci? È come il Capitano Wentworth.»Wes sembra completamente sconcertato.

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«Il personaggio di Persuasione, Wes. Di Jane Austen, hai presente? Se devo giudicare da ciò che ho visto nello sguardo della povera ragazza, quello che le è successo non è molto diverso. Vedi, in Persuasione il Capitano Wentworth deve sposare Louisa Musgrove. Dopo tutte le attenzioni che le ha riservato, la famiglia di lei si aspetta che si sposino. E così, se lei lo vuole, lui le è vincolato in nome dell’onore, altrimenti tutto il mondo penserebbe che lui l’ha rifiutata perché lui, o qualcun altro, l’ha disonorata. E anche se tu – e qui sento che sto arrossendo moltissimo – non l’hai disonorata, altre persone potrebbero credere che tu l’abbia fatto. E questo potrebbe distruggere le sue prospettive matrimoniali con qualunque altro uomo.»

Wes mi guarda a bocca aperta, come se non riuscisse a parlare. Scuote la testa. «Davvero credi che un uomo penserebbe che una donna è disonorata solo perché lui, o qualcun altro, è andato a letto con lei? È la cosa più antiquata che abbia mai sentito.»

Perciò è cattivo proprio come Willoughby. O Edgeworth. O Frank. «Se mi sbaglio, perché ci sono donne che scrivono libri di etichetta – voglio dire, libri di autoaiuto – nei quali si lamentano per il comportamento abituale da parte degli uomini di sedurle e abbandonarle? Se questa non è una prova di quanto poco siano cambiate le cose dalla mia epoca...»

«La tua epoca?» «Importa veramente?»«Sì che mi importa. Perché tu non provieni da un’altra epoca, Courtney, per quanto forte tu abbia

battuto la testa o per quanto spesso tu legga quei tuoi libri. Nessun uomo si aspetta che sua moglie sia ‘intatta’. Forse era così per i nostri nonni e ho qualche dubbio anche su questo. La contraccezione ha cambiato tutto.»

«A me non sembra che le cose siano cambiate poi tanto.»«Oh, perciò devo ritenere che possiamo semplicemente ignorare tutto il movimento femminista.»«Movimento? Verso cosa... la mancanza di rispetto per se stesse?»«Non ti ho mai sentita parlare così, Courtney. Credevo che tu fossi femminista.»«Se significa che difendo il mio sesso dai farabutti come te, allora sì, credo proprio di essere una

femminista.»«Courtney...» Fa per prendermi la mano. «Questa è una pazzia. Possiamo entrare e parlarne?»Mi libero dalla sua presa. «Vorrei stare da sola.» Mi giro e salgo di corsa gli ultimi gradini che mi

dividono dalla porta del mio appartamento. Wes mi segue e le mani mi tremano così tanto che non riesco neppure a mettere la chiave nella serratura.

«Sai perché ho detto a Morgan che non riuscivo a essere coinvolto dalla nostra storia?»Mi giro e vedo il suo sguardo intenso. Allunga la mano per toccarmi il viso, ma io mi ritraggo. «No,

non crederò a niente di ciò che dirai.»Balbettando e sospirando, tira fuori un: «È stato a causa tua».«Non voglio saperlo. Sono tutte bugie.» Oh, questa dannata serratura. Devo allontanarmi da lui.

«Vattene, per favore.»«Non mi importa con quanti uomini sia stata una donna. Ma quello che nessun uomo vuole vedere è

che la sua donna si pieghi a uno come Frank. O che abbia così poca stima di se stessa da prendere in considerazione una vita con lui. Che pensi che non possa avere niente di meglio. Perché non è così.»

«Non hai il diritto...»«Courtney, quando ho conosciuto Morgan tu non mi parlavi neppure. Non volevi vedermi. Non

rispondevi alle mie telefonate.»«Io so solo che gli uomini desiderano ciò che non possono avere. Ma una volta che lo ottengono,

l’oggetto del desiderio perde il suo valore.»«Non sai di cosa parli.»«Te ne vai, per favore, o hai completamente dimenticato le buone maniere?»«Courtney, io...» Si schiaccia contro il muro, permettendomi di passare e di scendere le scale, cosa

che faccio, due gradini per volta.Mi dirigo verso la strada.«Fatti riaccompagnare alla caffetteria così potrai riprendere la macchina», grida.La macchina.E a queste parole corro verso l’auto marrone, la mia: metto la chiave nella serratura, sbatto lo

sportello lasciando Wes fuori, giro la chiave e guido il veicolo dolcemente e senza sforzi verso la strada, verso il semaforo e poi a destra. Scivolo senza un rumore lungo la strada illuminata, in tandem con decine di altre auto. Sto guidando da sola: è facile, non richiede sforzi e queste mani e questi piedi sanno esattamente cosa fare. E un senso di pace e di calma si impossessa di me, mentre percorro una strada che è allo stesso tempo nuova e familiare. Non posso pensare, non posso farmi domande, non posso fermarmi: guido e basta.

Venticinque

MI ritrovo su una strada tortuosa e in salita che mi è stranamente familiare. La conosco, proprio come conoscevo le strade pianeggianti sottostanti. Su questo tratto di strada in particolare, sento un po’ della tensione delle spalle che si scioglie mentre salgo il dolce pendio. Mi sto librando sui miei problemi, me li sto lasciando dietro. E poi faccio una deviazione e arrivo a un piccolo belvedere sul fianco della collina, che domina tutta la città. Il mio corpo, i miei sensi, ricordano questo posto come un rifugio. E so

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che ci sono stata molte volte prima di oggi. Scendo dalla macchina e mi siedo sul cofano, nella quiete della sera, a contemplare la città scintillante, la sua vastità dispiegata in milioni di lucine, che brillano di promesse e segreti.

Ma quella promessa non è per me. E quei segreti io non li comprenderò mai.Perché non appartengo a questo posto. Non appartengo a un mondo dove non ci sono regole, oppure

ce ne sono troppe, da capire. Non appartengo a un luogo in cui la persona che mi era più cara di ogni altra non è chi pensavo fosse.

Ha scelto di proteggere Frank invece di proteggere me. Ha sedotto e abbandonato una ragazza. Ha una considerazione molto bassa di me.

Nessun uomo, ha detto, vuole vedere una donna piegarsi davanti a uno come Frank.È umiliante in tutti i sensi. Naturalmente reputa io sia disonorata, proprio come temevo. E pensare

che avevo iniziato a illudermi che fosse legato a me.C’è molto lavoro da fare qui, ha detto la chiromante. Considera lo stato della vita che hai ereditato.Se davvero sono stata portata qui per rimettere ordine in questa vita, allora ho fallito. Perché sono

infelice in amore qui come lo ero nel mio tempo.Come farò ad affrontarlo di nuovo?E poi capisco dove voglio andare veramente. E prego che ci sia qualcuno che possa aiutarmi ad

arrivarci.Dopo venti minuti sono davanti all’Awakening. Parcheggio, sono sorprendentemente brava a fare le manovre, a patto che non pensi a quello che

faccio, e mentre scendo e mi mescolo alla folla festosa di giovani uomini e donne, non posso evitare di confrontare la mia reazione iniziale di fronte a questi capelli, gioielli e abiti stravaganti con il mio distacco di adesso. Do il mio nome all’uomo corpulento davanti alla porta, ha una maglietta nera attillata e strisce viola brillante nei capelli biondi raccolti e la sua espressione concentrata davanti alla lista si trasforma in un sorriso cordiale.

«Avviso Deepa che sei qui», dice e mi fa cenno di entrare.Mi faccio largo tra la calca verso il bar; sono assetata e ho bisogno di bere qualcosa. La musica a tutto

volume è un suono indistinto, ma improvvisamente le parole catturano la mia attenzione:

Ora erano come estranei; no peggio che estranei,La loro era una estraneità perpetua.Una volta avevano rappresentato tanto l’uno per l’altra!Ora nulla!La loro era una estraneità perpetua.

Conosco queste parole, ma certo che sì! Le ho lette appena ieri sera. Sono tratte da Persuasione. Mi sto meravigliando che una cantante canti le parole di un libro che sto leggendo, quando un

colpetto sulla spalla mi spinge a girarmi ed ecco Deepa.«Tesoro!» Mi bacia sulle guance e mi grida nell’orecchio, sopra la musica: «Credo che quasi nessuno

farebbe caso a queste parole se non una vera fan di Jane».Fan. Che parola graziosa.Sono così felice di vederla – la mia cara amica fan di Jane – che le getto le braccia al collo e la stringo.

Lei ricambia il mio abbraccio e poi si fa indietro per guardarmi con attenzione.«Che succede? Sembri sconvolta.»E poi sento spuntarmi le lacrime anche se non lo voglio e non posso far altro che scuotere la testa.«Forza.» Mi prende la mano e mi guida attraverso la folla, oltre il gruppo musicale, giù per un

corridoio che porta al bagno delle signore. Una volta dentro, i suoni che provengono da fuori sono un po’ attutiti.

«Un po’ di acqua fresca sul viso ti farà sentire meglio», sentenzia.Guardo nello specchio questa faccia che è diventata la mia e ha davvero un aspetto spaventoso. I

capelli sono tutti in disordine dopo aver corso per le strade caldissime e guidato con i finestrini aperti. Il viso è lucido e pieno di macchie per colpa del caldo. Ho il retro della maglietta bagnata di sudore e immagino anche che l’odore dica che ha bisogno di una bella lavata.

«Ho un’altra maglietta in borsa», esclama Deepa. «Ne porto sempre una quando lavoro casomai dovessi farmi cadere addosso un drink. O che lo faccia qualcun altro, un caso non infrequente.» Sorride. «Te la vado a prendere, se ti fa piacere. Insieme con uno dei miei drink speciali. Che te ne pare?»

Riesco solo ad annuire, con gli occhi pieni di lacrime.«Va tutto bene», mi tranquillizza. «Fatti un bel pianto, sfogati, okay? E poi se ti va me ne parli.»Esce dal bagno e io mi metto a lavarmi la faccia, il collo e le ascelle. Non è comodo come una bella

doccia a casa, ma è comunque meglio della brocca e del catino che avevo a casa Mansfield.Quando Deepa torna con una maglietta immacolata, un piccolo asciugamano e un grande bicchiere di

un liquido rosa, mi sento e appaio mille volte meglio di qualche minuto fa. La ringrazio, mi asciugo e mi cambio la maglia sporca con quella pulita, che mi sta a pennello. Prendo un sorso del drink al lampone e limone, nel quale credo ci sia anche un po’ di vodka, mi passo un pettine nei capelli, e cerco nella borsa un po’ di trucco, che poi mi metto. Sto davvero iniziando a essere presentabile.

Deepa mi guarda nello specchio mentre sta appoggiata alla parete. «Ti va di parlarne?»Sospiro. «Non saprei da dove iniziare.»«Va bene. Ma forse c’è qualcun altro con cui vorresti parlare?»Il cuore mi balza in petto. «Lei è qui?»

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«Non ne ho idea, tesoro. Ma c’è solo un modo per scoprirlo.»Mi guarda con aria interrogativa e io annuisco per farle capire che sono pronta. Così mi conduce per

mano, fuori dal bagno, lungo il corridoio e poi attraverso un’altra porta. Ed eccoci qui, nello stesso corridoio semibuio, e il cuore mi batte per la trepidazione.

«Sono qui, se dopo mi vuoi», dice Deepa e, con un rapido bacio sulla guancia, si volta per lasciarmi da sola, ma io le prendo la mano e la attiro a me per abbracciarla.

«Grazie di tutto, Deepa. La tua amicizia ha significato moltissimo per me.»Mi guarda e solleva un sopracciglio. «Ha significato? Non credo che mi piaccia quest’espressione.» «Significa moltissimo per me.» E abbasso gli occhi per un attimo, senza riuscire a reggere il suo

sguardo indagatore.Mi studia con i suoi grandi occhi marroni e mi rivolge un sorrisetto sardonico. «Vienimi a salutare

prima di andartene.»E poi sparisce dietro la porta, lasciandomi tutta tremante. Perché il mio futuro dipende da questa

donna, dal fatto che è qui, e non sono affatto sicura che la troverò dietro la porta alla fine del corridoio.E se sì? Tutto dipende dalla sua capacità, o volontà, di aiutarmi.Raggiungo la porta alla fine del corridoio. Da dentro non proviene alcun suono, nessuna luce filtra

dalla piccola fessura inferiore. Metto la testa contro la superficie liscia e nera e tendo le orecchie per sentire, ma non riesco a distinguere nessun rumore; sento solo la musica attutita che proviene dal locale.

Busso. Non risponde nessuno. Appoggio la guancia sulla superficie della porta e cerco di calmare il mio affanno. Busso di nuovo.

Metto la mano sul pomello e lo giro; la porta si apre senza difficoltà. È tutto buio nella stanza, non riesco a distinguere niente.

«Buonasera. C’è nessuno?»Mi giro ma non vedo nessuna porta aperta. È tutto buio. Allungo le mani per sentire cosa c’è davanti

a me, ma non c’è niente, niente tranne che buio e vuoto.«Buonasera?»Le mie mani toccano una tenda di tessuto ruvido; ci armeggio finché non trovo un’apertura, mi ci

infilo dentro e all’improvviso è tutto bianco, di uno splendore accecante.Non riesco a distinguere niente, tranne questa luce chiara e brillante. «Salve. Ma che cos’è? Sei qui?»Poi la scena piano piano diventa un miscuglio di forme bianche che si muovono e io inizio a sentire

odori familiari di terra, cavalli e vestiti non lavati, di profumo, birra e pan di zenzero. E le forme bianche indistinte si fanno sempre più chiare fino a diventare persone, cavalli, tende, chioschi di ambulanti, gentiluomini, gentildonne, contadini, operai e bambini, tutti che passeggiano, vanno a zonzo e saltellano contenti. Non sono più in quello strano mondo in cui ho abitato o in quel corpo o in quell’epoca futura.

Sono di nuovo io, a una fiera. La fiera dove ho conosciuto la chiromante – oh, cielo – sono tornata indietro!

Ventisei

SENTO il braccio di Mary stretto al mio, mi giro verso di lei e mi sorride. E all’estremità di tutto ciò che ci circonda c’è una specie di luccichio, come se tutto quello che vedo fosse un riflesso in una piscina. Mary parla ed è come se fossi in un sogno, perché conosco ogni parola che la sua voce, quella voce profonda, roca, che mi piace così tanto, dirà prima che la pronunci.

«Tentiamo la sorte, Jane?» propone. «Oh, come sarebbe bello farci predire il futuro!»Avanziamo verso la tenda marrone della chiromante, la stessa dove mi sono seduta quel giorno che

sembra così lontano. Sta succedendo tutto di nuovo, tutto come allora.«Posso venire dentro con te?» mi chiede. «O ti aspetto qui?»E adesso, proprio come ho fatto allora, le dico: «Ti dispiace se entro da sola?»Ride e mi dà un colpetto con il ventaglio con fare scherzoso. «Ma certo che no, sciocchina.»Apro i lembi della tenda ed entro: il dolce profumo di rose, lo stesso di allora, mi riempie le narici. E

lei è lì, come quella volta, una donna anziana con un vestito nero semplice ma dal taglio elegante, uno scialle con le frange sulle spalle, che mi accoglie con un inchino e un cenno della mano per indicarmi la sedia che sta davanti al tavolo.

«Cosa posso fare per te oggi?» chiede.Voglio rispondere, ma non nello stesso modo della prima volta, perché non voglio rivivere ciò che è

già successo. E anche se sono di nuovo qui, nella mia epoca, che, me ne sono resa conto mentre ero in macchina in cima a quella collina, era ciò che desideravo di più, non voglio tornare sui miei passi per ogni parola e respiro. Voglio andare avanti. Apro la bocca per pronunciarlo, ma le parole non vengono fuori.

Voglio stare qui, nella mia epoca, nel mio Paese, formulo nella mia testa alla donna, mentre la sua faccia saggia ha un’espressione impassibile. Ma non voglio ripetere quanto è già accaduto.

E sento la sua voce nella mia mente che mi risponde: Ah, ma questo è il prezzo del tuo desiderio.Non posso svegliarmi nel mio letto nel Somerset, dopo la caduta da cavallo?Courtney Stone l’ha fatto al posto tuo. Tutto ciò che puoi fare è tornare alla tua epoca e ripetere ciò

che hai già vissuto.Ma sapendo quello che so adesso, non desidererei una vita diversa. Non cavalcherei Belle quel

giorno. Farei tutto in modo diverso.

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Ma non capisci che se tu non fossi mai andata a cavallo,allora non saresti mai caduta e così tutto ciò che hai visto, fatto e imparato nel mondo futuro, tutti quelli che hai incontrato e conosciuto e tutti quelli a cui ti sei affezionata sparirebbero così...

E sto di nuovo passeggiando per la fiera con Mary come prima, sottobraccio a lei, ed è come se le tende della mia mente si stessero chiudendo e dietro di loro, mentre svaniscono fino a diventare solo buio, polvere e vuoto, ci fossero Deepa, Paula, Anna, Frank, le strade della città enorme, le palme alte, gli aeroplani, i film, tutto ciò che ho visto e conosciuto e Wes, sì, anche Wes. Stanno scomparendo tutti fino a diventare solo ombre sottili, polvere e nulla e Mary è ancora al mio fianco, a chiacchierare con la sua voce profonda e roca, mentre la mia voce interna sta gridando No! No! Voglio ricordare! Ma anche quest’ultima svanisce nel borbottio e nel mormorio della folla che va alla fiera, nella melodia del flauto, nel suono delle risate dei bambini finché è solo un pensiero fastidioso in un angolo della mia mente, come qualcosa che so che dovrei ricordare ma che ho dimenticato di fare e anche questa alla fine svanisce nel nulla...

Il che significa che non c’è niente che possa essere conosciuto in un altro modo, che possa essere ricordato...

E sono ancora una volta dentro la tenda a guardare gli occhi buoni della chiromante.Ma io non appartengo a quello strano mondo futuro, le dico nella mia testa. «Adesso rispondimi. Anche se io avessi il potere di riportarti a quella che tu chiami la tua epoca e di

farti comportare in modo diverso», dice, e adesso sta parlando ad alta voce, e il mondo della fiera è svanito e io sono di nuovo nel buio completo, «te ne andresti prima di aver finito ciò che hai iniziato?»

«Non capisco.»«Te lo posso spiegare?»«Posso vederti, per favore?»«Dove vorresti vedermi?»«Nella stanzetta del locale di Deepa. Ti prego. Mi piacerebbe molto parlare con te e non essere

vincolata al passato.»E all’improvviso sono di nuovo nella stanza del locale insieme con lei e non è più l’anziana

chiromante della fiera ma la giovane donna con l’elegante vestito di mussola, i riccioli castani che le incorniciano il bel viso e gli occhi marrone che mi guardano con affetto. È seduta di nuovo davanti al tavolino e mi sta offrendo una tazza di tè.

«Ti farà bene, Miss Mansfield», mi dice. Un fuoco brucia allegramente dietro di lei in un camino di marmo e il fatto che sia piena estate non conta niente.

«Siamo tornate davvero al locale?»«Che importa, mia cara? Trovo che un bel fuoco sia proprio piacevole.»«Che significa finire ciò che ho iniziato?»«Pensa», dice, «a tutte le cose buone che hai fatto nella vita di Courtney. Innanzitutto, probabilmente

lei non avrebbe mai lasciato il lavoro da assistente di David, come hai fatto tu. Poi, è molto probabile che avrebbe scelto di lasciarsi abbindolare dalle scuse di Frank e dalla sua ammissione di colpa al punto che avrebbe fatto fagotto in quattro e quattr’otto e si sarebbe trasferita da lui.»

«Ma che ne è della mia vita?» le chiedo.«Oh, anche tu avevi lasciato un bel pasticcio, giudicando tutto e tutti come sei abituata a fare, agendo

con la presunzione di essere nel giusto quando non sai proprio niente, andando a cavallo anche se eri stata avvertita di non farlo, causando molto dispiacere inespresso con i tuoi comportamenti autodistruttivi. E nutrendo le tue stesse convinzioni errate sull’indulgenza, la fedeltà e la fiducia, devo aggiungere. Povera Courtney. Ha un bel po’ di lavoro da fare.»

All’inizio non riesco neppure a parlare e alla fine mormoro: «Parli di Edgeworth, vero? Ero io la parte lesa in quella storia, non lui!»

«Se la pensi così...» Mi guarda con calma e freddezza.«Perciò faresti governare la mia vita a Courtney. Quanto credi che le ci vorrà prima che si faccia

trascinare dal fascino e dai bei modi di Edgeworth? Soprattutto se è arrivata nel mio mondo con gli stessi pochi ricordi della mia vita come io li avevo della sua.»

«E questo sarebbe un grave crimine?»«Edgeworth non si merita la buona opinione di Courtney!»«Che diritto hai di dire cosa merita e cosa no?»«Può mai essere meno colpevole di quanto apparisse quel giorno nella sua tenuta quando l’ho visto

insieme con la sua cameriera?»«Forse prima o poi avremo la risposta. Ma per il momento il passato conta ben poco. Nel frattempo,

forse faresti meglio a ricordarti le parole della tua eroina preferita: ‘chi non cambia mai la propria opinione ha il dovere di essere sicuro di aver giudicato bene fin da principio’. Anche se un uomo che sembra un ladro lo è davvero, la storia non è tutta qui. Solo mettendosi nei suoi panni si può iniziare a capire cosa lo abbia fatto diventare un ladro e che altro sia oltre che un ladro, perché noi non siamo una sola cosa, ma molte. E tu dovresti saperlo più di tutti.»

E poi scoppia a ridere: una risata sonora, chiara, cristallina.«Su, su», riprende. «Non essere così abbattuta. E bevi un po’ di tè, ti farà bene.»Voglio rifiutare. Voglio essere ostinata, come se cedere fosse indecoroso. Ma non riesco a resistere

alla cordialità della sua espressione. E così bevo il tè e di sicuro mi sento più calma. Vorrei essere arrabbiata, ma richiede troppo sforzo.

«Quindi mia cara», dice la donna, posando la sua tazza, «sappiamo entrambe che non è Mr. Edgeworth la causa del tuo improvviso desiderio di rivisitare il passato.»

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Voglio esprimere qualcosa in mia difesa, ma la faccia mi brucia per la vergogna.«Meglio tirarlo fuori subito», suggerisce dolcemente.«La verità è che sono disonorata», dichiaro. «E nessun uomo rispettabile si interesserà mai a me.»«Ne sei sicura?»«Non sono più sicura di niente.»«Questa è la cosa più saggia che ti abbia sentito pronunciare.» Sorride.Nonostante i miei sforzi, le sorrido a mia volta, ma il pensiero di quello che le devo comunicare

adesso mi fa rabbuiare. «All’inizio riuscivo a dire che lo aveva fatto Courtney, e non io, ma non posso più farlo... Vedi, io...»

Non riesco neppure a formulare la frase.«Va tutto bene, mia cara.»«Ho avuto questi... sentimenti... nel mio corpo. Questa specie di... ricordi. E ne sono mortificata.»Lo sa, vedo che lo sa. Eppure nel suo viso non c’è un’espressione severa di giudizio, non c’è

riprovazione. «Lasciamoci alle spalle la parte peggiore, va bene? Via il dente, via il dolore. Meglio non esitare.» Mi sorride di nuovo, irradiando dolcezza.

«La parte peggiore. Bene: che questi sentimenti, o ricordi, o qualsiasi cosa siano, erano di Frank, un uomo per il quale non nutro rispetto. E quando li avevo, era come se non fossi padrona di me stessa. Questi sentimenti sono già abbastanza gravi, ma la cosa peggiore è che c’è qualcun altro. Qualcuno di cui ho grande stima... o almeno ce l’avevo, finché non ho scoperto la sua... intimità con un’altra donna. Una donna che poi ha abbandonato. E questa non è stata la sua unica azione riprovevole. Ha mentito per proteggere Frank, ben sapendo che stava con un’altra mentre era fidanzato con me. Ho pensato che Wes potesse avere le sue buone ragioni, ma... oddio, non so cosa pensare. Credevo di conoscerlo. Credevo di conoscermi. So che si suppone che le cose siano diverse in quest’epoca, in questo posto, rispetto a com’erano nel mio mondo. Ma non penso siano completamente differenti.»

Si allunga sul tavolino e mi accarezza la mano. «Su, su, mia cara. Sei stata molto coraggiosa. E per premiare il tuo coraggio ti rivelerò qualcosa che ti aiuterà molto: questi, diciamo, impulsi di attrazione nei confronti di Frank sono semplicemente ricordi cellulari.»

Soppeso le sue parole per un attimo. «Vuoi dire come le parole di Cowper in The Task: ‘Apre tutte le cellule dove la Memoria ha dormito’?»

Sorride soddisfatta. «Molto bene mia cara. Ma nel corpo umano c’è molto più delle cellule di cui parla Cowper. Perché lui, e quelli del suo tempo, non avevano idea di quanto piccole e numerose siano queste cellule, e non solo nel cervello, ma in tutto il corpo. Perché il tuo corpo è formato da trilioni di minuscole cellule. La scienza ha fatto molte scoperte dalla tua epoca fino a oggi e il corpo è davvero una macchina meravigliosa.

«Perciò vedi, in aggiunta ai ricordi custoditi nel tuo cervello, che sperimenti come se stessi rivivendo alcune scene della tua vita – o, in questo caso, della vita di Courtney – ci sono anche ricordi cellulari meno facilmente identificabili. Queste cellule del corpo trattengono i ricordi delle esperienze che esso ha avuto – non solo i dolori, le ferite, i gusti e gli odori, ma anche le gioie e le sofferenze, i desideri e le voglie. Ed è per questo che un giorno ti svegli allegra e un altro depressa. Il tuo corpo ricorda che un anno fa o dieci giorni fa in questo stesso giorno ti sei sentita allegra o depressa. E si sente di nuovo così.

«Il segreto è essere consapevoli del fatto che la memoria cellulare esiste e sapere che puoi scegliere se lasciare che quei ricordi restino nel passato o consentire loro di dominare il tuo presente. Una volta che hai capito cosa sono, puoi scegliere di concentrarti sul presente e vedere cosa ti offre.»

Cerco di recepire tutto, ma non sono sicura di aver compreso. «Vuoi dire che posso scegliere?»«Certo che sì, mia cara. Questa è la benedizione del libero arbitrio. Solo perché senti un fugace

desiderio nel tuo corpo non significa che la tua mente debba seguirlo.»Rifletto di nuovo sulle parole di Wes. «Ha detto che la ragazza – si chiama Morgan – gli ha detto che

voleva solo divertirsi.»Mi scruta attentamente. «Lo ha fatto anche Courtney. Lo hai fatto anche tu, devo aggiungere.»Sento che sto arrossendo di nuovo mentre vado con la mente a quei ricordi che ho avuto di Frank e al

desiderio che ho provato per Edgeworth. «Ma io amavo Edgeworth. E Courtney amava Frank.»«E questo ti rende migliore di Morgan? Non essere così frettolosa nei tuoi giudizi. Tu, proprio come

lei, volevi ancora provare piacere. E perché non avresti dovuto? Dopotutto il piacere è l’opposto del dolore. E gli esseri umani farebbero qualunque cosa per tenere lontano il dolore.»

Penso a James, il nostro cameriere, e a come l’ho baciato quella notte che ero pazza di dolore per Edgeworth. So che questa donna ha ragione. In quell’occasione non ho considerato ciò che la mia imprudenza avrebbe potuto comportare per James. O per me. Volevo solo tenere lontano il dolore.

La donna sorseggia il tè e mi guarda con un’espressione affettuosa. «Le donne di oggi non sono meno desiderose di quelle della tua epoca di trovare l’amore e sposarsi per amore. Ma, come moltissime prima di loro, hanno semplicemente paura che sia un obiettivo irraggiungibile. E così si accontentano dei piaceri fugaci che riescono a trovare, creando un ciclo infinito di piacere, disperazione, piacere, disperazione e così all’infinito. La natura umana oggi è uguale a com’era nella tua epoca. L’unica differenza tra il mondo di oggi e il tuo è che adesso le persone hanno più scelte di quante ne avessero allora. Bevi il tè, mia cara.»

Mi porto la tazza alle labbra e mentre guardo il fuoco che brucia allegramente dietro di lei, non posso negare che nel breve tempo che ho trascorso qui, ho avuto più scelte in un solo giorno di quante non ne abbia avute in tutta la mia vita come figlia di un gentiluomo. Scelte su tutto: da cosa indossare e come passare la giornata a come guadagnarmi da vivere. Eppure ciò che adesso so di volere di più sembra la più lontana dalla mia portata.

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Prendo un respiro profondo. «Prima hai detto che non ho finito ciò che ho iniziato. Ma che altro posso fare? Pensavo Wes fosse un brav’uomo e, davvero, non posso negare di aver sviluppato un attaccamento nei suoi confronti.»

Sorride. «No. Non puoi.»«Ma cosa c’è da fare? Da una parte, ha raccontato di aver spiegato a Morgan che non riusciva a essere

coinvolto e afferma sia tutto a causa mia. Ma non è legato a lei da un debito d’onore? E sebbene non lo fosse, quello che mi ha detto annulla chiaramente qualunque sentimento possa aver avuto.»

«Se ne sei convinta.» Mi versa altro tè. «Bevi, mia cara.»Prendo un piccolo sorso.«Perché non mi riferisci esattamente le sue parole? Esattamente.»«Ha detto che non gli importava con quanti uomini fosse andata a letto una donna. Ma che nessun

uomo vuole vedere una donna piegarsi a uno come Frank. Vedi? Ai suoi occhi sono peggio che disonorata!»

«Sei certa che si sia espresso proprio così?»«Certo che sì.»«Bevi il tuo tè, mia cara.»Lo faccio. Ed è come se la mia testa rallentasse.Piega il capo di lato, sorridendomi affettuosamente. «Sei certa che queste siano state proprio le sue

parole?»«Be’, io...» In qualche modo avere ragione non è più così importante. «Ha detto – e chiudo gli occhi

per immaginarmelo mentre parla – ‘Non mi importa con quanti uomini sia stata una donna. Ma quello che nessun uomo vuole vedere è che la sua donna si pieghi a uno come Frank’.»

Alza un sopracciglio. «La donna di chi?»Resto a bocca aperta. «La sua donna.»«E?»E richiamo alla mente le sue parole come se stesse parlando con se stesso: «O che abbia così poca

stima di se stessa da prendere in considerazione una vita con lui. Che pensi che non possa avere niente di meglio. Perché non è così».

«Benissimo. E qual è la parte più importante?»«Poca stima di se stessa? Deduco dalle mie letture che la parola abbia assunto una sfumatura di

significato leggermente diversa in quest’epoca.»«Sì, è più che avere semplicemente un’opinione favorevole di se stessi. Ha a che fare con il rispetto

per la vera dignità individuale, non solo per la facciata che mostriamo al mondo. Ed è certamente vero che una donna che avesse scelto una vita con Frank, o con uno come lui, non avrebbe avuto una grande stima di sé. E per Wes assistere a questo spettacolo era doloroso. Perciò sì, è una parte importante del suo discorso, ma non la più importante.»

E improvvisamente capisco. «Lo addolorava il fatto che lei pensasse di non poter avere niente di meglio di Frank. Perché non era così.»

«E chi è, mia cara, questa famosa ‘lei’?»Sorrido con la felicità più splendida. «Sono io.»«Vedi? C’è ancora molto da fare.»Sì, c’è. Perché posso avere di meglio. Per me stessa. E per Courtney. Dopotutto, non sono

l’amministratrice della sua vita? La sua futura felicità, e la mia, è nelle mie mani. Tranne... «E che mi dici di quella ragazza? Morgan. Devo dimenticarmene?»«Quella ragazza, come ogni donna di quest’epoca, ha molte più possibilità di quante ne avrebbe avute

nella tua. E scegliere comporta assumersi delle responsabilità. Wes le ha spiegato quali sarebbero stati i limiti del loro rapporto e lei ha deciso di andare avanti comunque. Per il fatto che adesso soffre merita tutta la nostra compassione, ma questo non vale il sacrificio della libertà di Wes. Lui non ha agito in modo disonorevole.»

Un brivido di sollievo mi attraversa al pensiero di Wes libero e senza legami, come succede ad Anne quando apprende che il Capitano Wentworth dopotutto non sposerà Louisa Musgrove.

Eppure c’è ancora una domanda che è rimasta senza risposta e che è comunque inevitabile.«E cosa devo fare per la bugia sul conto di Frank, del quale sapeva che stava con un’altra?»«Lo devi chiedere direttamente a lui», mi risponde. «Benvenuta nell’era della comunicazione, mia

cara. Non bisogna aspettare di essere fidanzati per affrontare argomenti delicati.»E se si autoassolve? Che succederà? Io, a mia volta, sarò integra ai suoi occhi? Lo sguardo di lei è

pieno di dolcezza e risponde ai miei pensieri come se li avessi espressi ad alta voce. «Quando ti unirai con il tuo vero amore, sarà come se lui fosse il primo per te e tu la prima per lui. Agli occhi dell’amore, il passato non esiste.»

E i miei occhi si riempiono di lacrime di gioia. Tutto perdonato. Tutto lavato via.«Vai avanti», mi esorta, «e scegli il presente.»

Ventisette

LA donna si alza e mi porge la mano. «Spero ci incontreremo di nuovo, Miss Stone.» Miss Stone!Mi fa un sorrisetto d’intesa e mi stringe la mano tra le sue. «È il tuo nome, non è vero?»

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Rido. «Sì, credo di sì.»Gli occhi le brillano. «Una rosa con un altro nome e via dicendo. Ora vai avanti e rendi questa vita

magnifica, perché è l’unica di cui puoi occuparti. Non possiamo cercare di gestire due vite contemporaneamente, giusto? Perciò non ti preoccupare di ciò che hai lasciato dietro di te. Bene, vai adesso.»

Mi accarezza la mano e io le faccio un piccolo inchino. «Ti sono molto grata.»«Sì, sì, adesso vediamo come ti comporti.»Mi indica la porta, che si è aperta in qualche modo da sola. Mi giro verso di lei, ma non c’è più, così

come il piccolo salottino accogliente, il tavolo, le sedie e il fuoco: la stanza è di nuovo il piccolo magazzino buio che era diventato dopo il nostro ultimo incontro.

Rabbrividisco, ma non per il freddo, mentre imbocco di nuovo il corridoio fuori dalla stanza e chiudo la porta dietro di me.

Adesso vediamo come ti comporti, mi ha detto. Quello che mi ha dato è un grande dono e quello che deciderò di farci sarà una mia scelta. E scegliere comporta delle responsabilità, si è raccomandata. Vai avanti e scegli il presente.

Cosa diceva Anna il primo giorno che sono arrivata qui? Ciascuno di noi ha il potere di creare il paradiso o l’inferno, qui e ora. Il presente. Adesso.

Percorro in fretta il corridoio e ritorno al locale, facendomi largo tra la calca e il muro di musica, e intravedo Deepa appoggiata al bancone del bar.

«Deepa!» La afferro e la stringo tra le braccia.«Lasciami respirare», dice ridendo quando finalmente la lascio andare. Mi guarda e sorride

compiaciuta. «Sembri una donna diversa.»Rido. «È così. Sono una donna diversa! Ed è la cosa migliore mi sia mai capitata! Devo scappare...

grazie, Deepa!» E attraverso di corsa il locale lanciandomi fuori in direzione della mia macchina. Tiro fuori il telefono

dalla borsa. Chiamo Wes.Sta squillando. Oddio, cosa gli devo dire? Non ho mai fatto una cosa del genere in vita mia. Andrà

tutto bene. Devo solo ricordare le favole della donna a proposito dell’era della comunicazione.Lo squillo del telefono si interrompe a metà. «Courtney?» mi dice la voce di Wes nell’orecchio.

«Courtney? Ci sei?»«Sì, io... Wes, mi piacerebbe molto parlarti e sarebbe opportuno che...»«Grazie a Dio», mi interrompe lui. «Posso essere lì tra cinque minuti.»«No, vengo io da te.» E subito la mia mente ricostruisce il percorso fino a casa sua, finché non vedo la

casa, anche se non ci sono mai stata prima. Memoria cellulare.«Stasera?» mi chiede.«Adesso, se sei d’accordo.» Che monella sfacciata sono. Offrirmi di andare in macchina, non

accompagnata, di notte, a casa di uno scapolo.«Ma certo.»«Benissimo. Sarò lì tra poco.» Bene, bene. Un mondo diverso, regole diverse. Inoltre, posso avere la

libertà di andarmene quando voglio, invece di provare di nuovo la sensazione di sentirmi in trappola, come mi è capitato prima, quando non sono riuscita neppure a rifugiarmi in casa mia. E sarò più forte se non sono nel mio appartamento, dove le luci funzionanti e tutte quelle altre meravigliose comodità ripristinante mi ricorderebbero continuamente il mio debito nei confronti della gentilezza di Wes.

Troppi pensieri. Devo guidare.La mia mappa interna mi rende orgogliosa, dato che concentro la mia attenzione solo sulla guida e

non sulla conversazione che mi aspetta, e dopo cinque minuti sto parcheggiando di fronte alla stessa casa che ho visto nella mia testa, un parallelepipedo basso parzialmente nascosto da alti cespugli.

Mentre mi avvicino alla porta prendo un bel respiro e poi busso. Si apre immediatamente, come se lui fosse stato sulla soglia ad aspettare il mio arrivo. Ha la faccia rossa e un’espressione seria.

«Sono così felice tu sia qui», esclama e sorride quasi timidamente, facendomi cenno di entrare.Il grande spazio aperto è allo stesso tempo nuovo e familiare. So di non essere mai stata qui, ma c’è

qualcosa di rassicurante in questa familiarità e in effetti nella mia testa ci sono immagini fugaci di me seduta al lungo tavolo, mentre ceno con Wes e molti altri amici, e poi di me sdraiata sul divano basso color panna.

«Vuoi bere qualcosa?» mi chiede.«Sì, grazie.»Intravedo un giardino appena illuminato oltre le finestre. Ci sono fiori selvatici alti, arbusti e piccole

panchine di pietra che bordano un tortuoso sentiero di ghiaia.«Ecco qui.» Mi porge un grande bicchiere ghiacciato. «Perché non ti accomodi?»Mi indica il divano e un libro appoggiato su un tavolino basso attira la mia attenzione: è L’abbazia di

Northanger. Prendo il libro. «Lo hai letto?»Sorride. «Perché sembri così sorpresa? Mi è anche piaciuto.»Non posso evitare di chiedermi se... «Wes, ti ho... ti ho chiesto io di leggerlo?»Sembra sorpreso. «No. È stata mia nipote, Emma.» Sorride di nuovo. «Credo le sue parole siano

state: ‘Eccellente romanzo di formazione e brillante satira dei romanzi gotici con un sottotesto femminista’. Emma ha tredici anni.»

«Non riesco a immaginare si possa essere così padroni di sé a quell’età.»Ma prima di farmi distrarre troppo dalla precocità dei parenti di Wes, devo occuparmi della faccenda

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che mi ha portato qui. Bevo un sorso del mio drink cercando il coraggio, ma non me ne dà neanche un po’, nonostante sia stato corretto con parecchia vodka. Se solo avessi un po’ di tè della chiromante.

Guardo di nuovo il giardino, sembra che sia passato un secolo dall’ultima volta che ho passeggiato tra le piante. «Wes, possiamo andare fuori?»

Corre verso le finestre, ne apre una facendola scivolare e mi fa cenno di raggiungerlo.Esco e il suono della ghiaia sotto le mie scarpe mi richiama subito alla mente un ricordo. Sto

percorrendo questo stesso sentiero, la ghiaia mi scricchiola sotto le scarpe e mi sto preoccupando perché Frank dovrebbe essere qui e invece non c’è e non c’è neppure Wes: non riesco a raggiungere telefonicamente nessuno dei due, so che c’è qualcosa che non va e...

«Courtney?»La voce di Wes mi riscuote. Scegli il presente, ha detto la donna. Una professione di fede davvero

inconsueta per una veggente, adesso che ci penso. E davvero saggia. «Wes, ti devo chiedere...» Oddio, non c’è un modo educato per porre questa domanda. «Wes, mi hai

mentito riguardo a Frank quando sapevi che stava con un’altra donna e mi piacerebbe molto sapere perché.»

Ecco fatto. L’ho detto. Più facile di quanto avessi immaginato, anche se il cuore mi batte così tanto che riesco a stento a respirare.

Lui prende un lungo respiro tremando, mi guarda negli occhi e poi abbassa lo sguardo prima di rivolgerlo di nuovo a me.

«Sapevo che era lì. Mi ha chiamato dopo quarantacinque minuti rispetto all’orario in cui teoricamente si sarebbe dovuto presentare qui e ho sentito una voce femminile in sottofondo che rispondeva al telefono di quella pasticceria. Sapevo che stava facendo qualcosa di male, ma non avevo prove. Quando l’ho affrontato, mi ha giurato non stava succedendo niente. Mi ha risposto che se ne stava andando da lì e mi avrebbe spiegato tutto più tardi. Non montare casini dove non ce ne sono, ha aggiunto. E così mi ha chiesto di riferirti, se avessi chiamato, che la sua riunione andava per le lunghe e, Dio mi perdoni, è proprio quello che ho fatto.»

«Ma perché non mi hai rivelato i tuoi sospetti?»«Non avevo le prove. E francamente non potevo basarmi solo sulla mia idea per dirtelo.»Wes abbassa lo sguardo per un momento e poi mi guarda negli occhi. «Non volevo che la donna che

amavo, la donna che amo, sposasse quel tizio. Ma chi ero io per decidere cosa l’avrebbe resa felice?» La donna che amo. Non riesco a sentire altro. La donna che amo. Mi ama. Mi ama! «Accettare di fornirgli un alibi è stato l’errore peggiore che abbia mai commesso, Courtney. Non ti

biasimo se non riesci a perdonarmi.»Ha gli occhi pieni di lacrime, una delle quali gli scappa e gli corre lungo la guancia.Allungo la mano verso il suo viso per asciugargliela e lui si porta le mie dita alle labbra e le bacia.«Credo che abbiamo commesso entrambi degli errori», dico e per un attimo ho paura di guardarlo

negli occhi. Ma lo faccio. «Puoi perdonarmi?»Mi solleva il mento con una mano e mi guarda negli occhi. «Non c’è niente da perdonare», sussurra.

«Proprio niente. Ti amo, Courtney. Ti ho sempre amata.»Mi abbraccia e riesco a stento a respirare. Gli metto le braccia intorno al collo. Lui si piega in avanti e

tocca le mie labbra con le sue: è il bacio più delicato, morbido e dolce che si possa immaginare. E poi diventa più urgente e Wes mi stringe ancora di più e io sono frastornata dal bacio, dal suo profumo, dal suo respiro e dal piccolo sospiro che mi scappa: non ho mai desiderato nessuno come desidero Wes adesso. Tremo di desiderio e quando il bacio finisce anche lui sta tremando: mi appoggio al suo petto e sento il battito del suo cuore e so che è più che semplice desiderio, perché amo quest’uomo più di quanto avessi mai potuto immaginare.

Ed è per questo che devo essere completamente onesta con lui.Faccio appello a tutto il mio coraggio per quello che gli devo rivelare.«Devo confessarti una cosa.»E prendo un profondissimo respiro, perché Deepa mi ha avvertito che alcune cose non dovrebbero

essere condivise con chiunque. Ma Wes non è chiunque e io non voglio finzioni, disonestà, bugie, proprio nel mio rapporto con lui.

«Qualunque cosa», ribatte, dandomi piccoli baci sulla fronte e le guance e scendendo giù lungo il collo. Il respiro mi si fa più veloce e mi sto distraendo così tanto che se non lo allontano – molto dolcemente – non riuscirò a proseguire.

«Wes, se davvero vuoi stare con me, allora devi riconoscere che non sono chi pensi tu.»«Non capisco.»«Per favore, permettimi di dirti ciò che devo o non avrò più il coraggio di farlo. È vero, mi chiamo

Courtney e in qualche modo sono arrivata nella sua vita e in questo corpo. Ma non posso stare con te e portarmi questo peso dentro. Non posso fingere di essere chi non sono. Non posso continuamente nasconderti che non ricordo quasi niente di ciò che Courtney ha fatto, sperimentato e pensato, perché non ho vissuto la sua vita. Fingerò, so che devo, con il resto del mondo. Ma non con te. Per favore. Non con te.»

«Courtney, questa è una pazzia. Come pretendi che ti capisca?»«Pensi che io sia pazza.»«Certo che no. Ma come potrei credere che tu non sia chi sei? Sei qui, proprio di fronte a me.»«Non sono diversa dalla Courtney che conoscevi prima?»«Hai avuto una grave commozione cerebrale e la tua memoria...»«Wes, tu e io sappiamo che questo non c’entra niente con la commozione cerebrale. E se qualche

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ricordo è riaffiorato, potrei non sapere mai il resto. Non siamo forse la somma totale di ciò che abbiamo vissuto, di ciò che ricordiamo?»

«No, perché preferirei di gran lunga non ricordare neppure un solo minuto di ciò che ho sofferto vedendoti con Frank e poi sapendo che eri a pochi passi da me e non volevi vedermi o parlarmi.»

Non posso evitare di sorridere. «Eppure sappiamo entrambi che non sono la persona che tu ritieni che io sia.»

«E allora senti questa: non mi importa chi sei.» Mi abbraccia e mette la faccia così vicina alla mia che riesco a sentire l’inconfondibile profumo della sua pelle e il suo respiro caldo sulla fronte. «M’importa solo che tu sia qui, fra le mie braccia, in questo preciso istante.»

Respiro il suo odore, lo stringo forte, poi lo guardo negli occhi. «Davvero non ti importa che io non abbia nessun ricordo di te prima del giorno in cui mi sono risvegliata qui, tranne quelli in ospedale, nel negozio e di quando sono venuta qui a cercare Frank? E piccole immagini fugaci di momenti più felici in questa casa? Non ti importa che tu – qualcuno che teoricamente dovrei conoscere bene – sia una persona completamente nuova per me?»

«Stai scherzando, vero?» replica baciandomi la fronte e poi piegando la testa in modo che le sue labbra sfiorino le mie. «Chi non vorrebbe essere una persona completamente nuova per la donna che ama più di qualunque altra cosa al mondo?»

Le sue labbra incontrano le mie e adesso so che posso ricevere il suo bacio senza freni o paure. Sono libera. Completamente e totalmente libera. Dal passato. Da Jane. Da Courtney. Il passato non esiste. E neppure Jane o Courtney. Esiste solo questa donna – chiunque lei sia – che bacia quest’uomo in questo momento divino.

Mi avvicina le labbra all’orecchio e sussurra: «Voglio trascorrere il resto della mia vita con te, Courtney».

Trasalisco.«Ti ho fatto paura?» mi chiede.«Mi stai chiedendo di sposarti?»I suoi occhi grigioazzurri hanno un’espressione vulnerabile. «Sto correndo troppo, non è vero?»«No... voglio dire sì... cioè, non lo so.»«Non sai cosa provi per me.»«No! Lo so.»«E...?» I suoi occhi sono pieni di speranza.«Ti amo. Certo che ti amo.»Mi prende di nuovo tra le braccia. «Non è stato difficile dirlo, vero?» E mi dà un bacio lungo e

profondo.«No», sussurro. «Per niente.» Ascolto il ritmo del suo cuore. «È solo che io...»Non posso spiegare a parole i miei sentimenti. Quando sono venuta qui la cosa che volevo di più era

sentire il suo amore, sapere che non era solo una fantasia, ma vero, concreto e reale. Ma sono pronta a rinunciare a tutta l’indipendenza che ho ottenuto? E che devo ancora ottenere?

«Cosa c’è?» mi chiede. «Qualunque cosa sia, puoi dirmela.»Mi guarda a lungo.«Certo che ti amo. Più di quanto riesca a dire. È solo che non so se sono pronta per... penso di aver

bisogno di...»«Tempo», finisce lui semplicemente. «Hai bisogno di tempo.» Ed è una constatazione, non

un’accusa, non un’espressione di disappunto.Lo abbraccio piena di gratitudine. «Esatto, Wes. Mi serve tempo per orientarmi un po’ meglio in

questo strano mondo. Mi serve tempo per abituarmi un po’ di più alla persona nuova che sto diventando. E mi serve tempo – anzi, mi piacerebbe averlo – per vedere se posso acquisire più di una competenza.»

Mi sento arrossire. È strano parlare così in generale e soprattutto all’uomo che mi ha appena fatto una proposta di matrimonio.

Mi guarda perplesso. «Più di una competenza?»«Non puoi sempre venirmi a salvare dalle mie difficoltà, sai?»Sembra ancora confuso.«Parlo di soldi, Wes.»Devo a tutti i costi applicarmi a imparare il gergo colloquiale.«Non voglio che ti preoccupi più per i soldi, Courtney.»«Sei un uomo gentile e generoso. Ma voglio sapere com’è essere davvero indipendenti. Voglio sapere

cosa si prova.»Annuisce. «Ti capisco. Completamente. E ti sosterrò. Per tutto il tempo che ci vorrà.»Mi stringe tra le sue braccia e io mi rannicchio contro il suo petto.Mi dà un bacio in testa. «Non andrò da nessuna parte, Courtney.»

Ventotto

MENTRE sto china sul mio album di disegni, che è aperto sul bancone della caffetteria, mi viene in mente che anche se non sono più vicina ad acquisire più di una competenza di quanto non fossi due settimane fa quando Wes mi ha parlato di matrimonio, la mia bravura nel disegno è certamente aumentata. Forse è il naturale risultato della combinazione di memoria cellulare ed esercizio quotidiano.

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A ben guardare, il disegno che sto ultimando adesso lo potrei addirittura incorniciare. È il ritratto di un gentiluomo che indossa i vestiti della mia epoca, come tutti i miei soggetti, che sta scendendo da una carrozza. Mi piace pensare sia pieno di meraviglia vedendo per la prima volta la sua destinazione, ma che non osi rivelare il suo stato d’animo per paura di essere giudicato meno navigato degli altri giovani uomini. Dubito che un osservatore diverso da me noterebbe questi sentimenti nella sua espressione, ma è fantastico che io possa vederli comunque.

Questo è diventato una specie di motivo ricorrente nei miei disegni. I miei soggetti stanno sempre entrando in una stanza, sbucando da porte o scendendo da carrozze, tutti sulla soglia di un’esperienza nuova ed eccitante.

Ed è così che mi sento ogni mattina quando mi sveglio e anche durante la giornata, perché non sto solo vivendo da persona completamente diversa in un’epoca e una civiltà completamente diverse, con tutte le scoperte connesse, ma sto anche sperimentando, per la prima volta, il gusto della vera indipendenza.

Grazie alla sospirata liquidazione di David, ho completamente ripagato Wes e ho ancora un po’ di soldi in banca. Non ho ancora trovato un modo per far durare il mio stipendio della caffetteria fino al punto in cui possa lasciare quei risparmi intatti e disponibili solo per i casi di estrema necessità, ma continuo a fare piani per risparmiare e ad architettare sistemi per aumentare le mie entrate.

Il mio ultimo tentativo di limitare le spese è stato fare a meno della TV via cavo – un’iniziativa ispiratami da una serata memorabile che ho trascorso incollata al divano a guardare una donna con degli enormi denti bianchi che vendeva collane di ametista false mentre io combattevo l’impulso di chiamare il numero sullo schermo e comprarne una con la mia carta di credito; subito dopo ho passato molte altre ore immersa in un miscuglio di nuovi programmi nei quali resoconti terribili di guerre sanguinose venivano interrotti da annunci pubblicitari di deodoranti e agenzie matrimoniali. Era come se non avessi più il mio libero arbitrio e quando finalmente mi sono staccata dallo schermo, con gli occhi annebbiati e disorientata, ho giurato che mai più mi sarei sottoposta a una tassa così sgradevole, soprattutto quando ho scoperto quant’era costosa. Inoltre, posso avere tutto ciò che vale la pena di guardare su dvd e, cosa più importante, possiedo già una bella collezione di film tratti dai romanzi di Jane Austen. Alcuni di essi sono davvero stupidi, con i loro costumi indecenti e le loro «pubbliche dimostrazioni di affetto» (o PDA, un termine che ho appreso di recente; oh, com’è divertente l’inglese americano del Ventunesimo secolo!) ma comunque gradevoli. E mi fanno provare un po’ il sapore di casa, o di quello che voglio ricordare di casa, perché in questi film c’è poco sporco o povertà e niente come le assemblee giudiziali o le pubbliche impiccagioni. Ma chi vorrebbe vederli se fossero mostrati anche eventi del genere?

Ed è per questo che il disegno mi è diventato così tanto di conforto mentre mi aggiro in questo nuovo mondo enorme e sconcertante. Trovo che disegnare sia un modo per rivivere ciò che c’è di bello nel mio passato con affettuoso distacco piuttosto che con struggente desiderio. E, a dirla tutta, come potrei desiderare il mio passato quando ho la compagnia di Wes, che mi è sempre più caro? Anzi, stasera dovrei avere il piacere di vederlo ancora. Come sono sollevata che i suoi motivi per aver mentito a proposito di Frank non siano venuti da una cieca fedeltà a un rigido codice d’onore che lo avrebbe reso incapace di tradire la fiducia dell’amico o di parlare male di lui a me in qualità di sua promessa sposa. Dopotutto, quanti matrimoni destinati al fallimento si sarebbero potuti evitare se solo i benpensanti avessero parlato liberamente di ciò che sapevano?

No, non ho niente da rimproverare a Wes. Non ha commesso niente di peggio di ciò che abbia fatto io per colpa della mia debolezza. Perché sì, devo ammettere che se devo gestire la vita di Courtney, devo prendermi le responsabilità di tutte le sue azioni, passate e presenti. Eppure non c’è bisogno di dare al passato alcun potere su di me. Mi sento, come ha brillantemente sottolineato Wes, una persona completamente nuova.

Wes è molto paziente con me mentre imparo come comportarmi nella mia nuova vita. La sua proposta di matrimonio, per come l’ha messa lui, non ha una data di scadenza. Devo solo dirlo e l’argomento sarà riaperto. Nel frattempo, mi dimostra il suo fervente amore eppure, con un contegno da vero gentiluomo, non si spinge mai oltre i baci più appassionati. Mi ha anche assicurato che questa astinenza è una tortura, ma ha lasciato qualsiasi iniziativa verso qualcosa di più completo nelle mie mani.

Qualcosa di più... devo ammettere che questa astinenza è una tortura anche per me. E so che quando alla fine ci congiungeremo carnalmente, sarà davvero come se lui fosse il primo per me e io la prima per lui. Desidero darmi a lui completamente, eppure è quasi inconcepibile che possa esserci qualcosa di più paradisiaco che baciarlo; quando sono tra le sue braccia, perdo addirittura il senso di dove finisce il mio corpo e dove inizia il suo. È una resa completa e totale. Solo il contatto della sua mano sulla mia nuca basta quasi a farmi...

Questi pensieri mi distraggono davvero troppo dal lavoro. Avrei fatto molto meglio ad assistere la donna minuta che sta sbirciando il menu delle bevande appeso sul muro dietro di me.

«Posso aiutarla?» Sposto l’album, al che la donna prende una bella boccata d’aria.«Il disegno!» esclama, lasciando perdere il menu e fissando l’immagine. Non dice una parola per

cinque minuti buoni, durante i quali aspetto e mi chiedo cosa possa averla affascinata così. Non posso evitare di notare che questa è la seconda volta che uno dei miei schizzi ha avuto un effetto inconsueto su una persona in questa caffetteria. Fortunatamente di solito non suscitano effusioni del genere, perché porto l’album con me tutti i giorni, essendo stata incoraggiata a farlo da Sam, che un giorno mi ha vista disegnare durante la pausa è ha esclamato che avere una barista che è anche un’artista è una cosa «figa». Non riesco a vedermi come un’artista, ma devo confessare che il suo apprezzamento mi ha fatto piacere. Sam, che è già l’esempio di datore di lavoro gentile e generoso, mi ha detto che dovrei sfruttare ogni

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opportunità per disegnare quando c’è poco movimento e io lo faccio.Alla fine, la donna bionda alza gli occhi dal disegno e si rivolge a me. «Ha fatto lei questo disegno?»«Sì.»«Ma è sorprendente! Il caso vuole che io sia nella preproduzione di un film ambientato nell’era della

Reggenza e riesce a credere che proprio oggi stavo cercando questo particolare tipo di stivali da uomo?» Indica gli stivali che indossa il gentiluomo del mio disegno. «E questo piccolo dettaglio sulla nappa – indica un marchio circolare che avrebbe dovuto essere impresso nella pelle – come è possibile che lei conosca un piccolo marchio di fabbrica così astruso fatto da un solo calzolaio a Londra?»

Credo che sarà meglio non dirle che mio fratello aveva un paio di stivali del genere fabbricati proprio da quel calzolaio. «Penso che... ho disegnato ciò che ho visto.»

«Cosa? Com’è possibile che lei abbia visto quegli stivali?»Mi schiarisco la voce; potrei interpretare il suo atteggiamento come impertinente, eppure

dall’espressione dei suoi occhi capisco che è eccitata e così probabilmente si sta lasciando andare. E quindi mi sforzo di sorriderle. «Li ho visti con gli occhi della mia mente, naturalmente.»

La donna mi guarda solennemente, sbirciando da dietro gli occhiali. «Ho fatto ricerche sulle minuzie dei vestiti e dei decori dell’epoca della Reggenza per molto tempo. Che dovesse capitarmi di leggere proprio di quel tipo di stivali oggi e poi di entrare in questa caffetteria, dove non sono mai stata prima, notare questo disegno e incontrare lei è... be’, una coincidenza per lo meno fortunata. Posso chiederle dove ha letto di quegli stivali o visto una loro immagine?»

Come rispondere a una domanda del genere? «Non riesco a ricordare dove sono incappata nella raffigurazione di questo specifico paio di calzature. Ma posso affermare che è una vita che studio lo stile e le maniere di quel periodo.»

Almeno l’ultima parte non è una bugia.La donna guarda di nuovo il disegno e inizia ad alzare l’angolo della pagina. «Posso?» chiede ansiosa

e io annuisco, al che lei sfoglia le pagine, esaminando tutti i disegni della mia epoca. «Sono straordinari», mormora. «Dettagli così autentici in ciascun disegno. Bene allora», conclude, chiudendo l’album e rivolgendomi un grande sorriso. «Questa è un’opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Avrei bisogno di qualcuno come lei nella mia squadra. Sarebbe interessata a parlare con me e il mio coproduttore della possibilità di unirsi a noi come ricercatrice? O consulente?»

Un film. Pensare che potrei prendere parte alla creazione di una di quelle meraviglie che mi hanno dato così tanta gioia da quando sono arrivata in questo posto. Quest’offerta potrebbe essere l’opportunità che aspettavo... come potevo immaginare che una eventualità del genere sarebbe accaduta davvero?

«Vedo dal suo sorriso che l’idea non le dispiace», osserva ed è solo in questo momento che mi accorgo di stare sorridendo a trentasei denti.

Ma Sam... e la caffetteria. Non posso negare di essermi affezionata al mio posto di lavoro. Ma non può rappresentare il mio futuro, lo so bene. Ma dovrei dare il preavviso di due settimane e...

«Naturalmente non mi aspetto che inizi domani», aggiunge, come se mi leggesse nel pensiero. «Ma l’idea le interessa?»

«Certo che sì.»«Ottimo», commenta la donna. «Mi chiamo Imogen e questo è il mio biglietto da visita. Lei ha un

biglietto da visita o può scrivermi i suoi numeri sul retro di questo?»Ci scambiamo i recapiti, mi promette che mi chiamerà domani e per il resto del mio turno e durante il

tragitto verso casa fluttuo su una nuvola di felicità. È straordinario che la conoscenza della mia epoca possa essere trasposta in una nuova magnifica situazione. In un film, addirittura.

Sono così allegra quando torno a casa che mi ritrovo a pulire, sistemare e anche frugare nel retro del mio guardaroba, dal quale tiro fuori l’abito bianco che ho indossato il primo giorno in cui sono arrivata qui, quel capo che doveva essere il mio vestito da sposa. Quello che ha fatto pensare ai miei amici che fossi pazza e non mi meraviglia che l’abbiano fatto.

Che ci faccio con quest’abito ancora nel guardaroba? Perché quando dirò finalmente sì al mio adorato Wes, ne indosserò uno disegnato apposta per lui e non per un altro.

Disseppellisco un paio di scatole appiattite dal guardaroba, una delle quali, una volta assemblata, contiene perfettamente l’abito. Perché adesso lo lascerò fuori della porta, accanto alla lavanderia. So che è sciocco, ma semplicemente non posso tenerlo in casa un minuto di più.

Sono così felice per l’offerta di lavoro e per essermi disfatta dell’abito, che decido di bere un bicchierino di vodka prima di cambiarmi, perché Anna, Paula, Wes e Deepa saranno qui tra poco più di un’ora e ceneremo insieme.

Questa è la prima volta che Anna e Paula hanno un appuntamento con me e Wes e mi rendo conto che sono un po’ in ansia per questo. Entrambe all’inizio sono rimaste scioccate quando ho detto loro di Wes e me. Paula l’ha presa peggio di Anna, che ha visto subito quanto sono felice... ma ora sembra aver cambiato un po’ idea. Però c’è ancora un po’ di imbarazzo tra noi. Quanto a Deepa, lei è solo contenta e abbiamo già bevuto qualcosa con lei. Lei e Wes stanno diventando in fretta amici e mi fa piacere che stasera sarà qui a bilanciare la situazione.

Paula, Anna e Deepa arrivano a pochi minuti di distanza l’una dall’altra; Wes è l’ultimo a giungere: balbetta qualche parola di scusa per il ritardo e sembra rosso e a disagio davanti ad Anna e Paula, che lo salutano educate ma senza particolare trasporto. Deepa però si alza dal suo posto sul divano e lo bacia su entrambe le guance e questo sembra metterlo a suo agio e ispirare Anna a fare altrettanto.

E poi Paula bofonchia: «Non sono ancora pronta per questo», e ridiamo tutti, compresa lei.E poi racconto ai miei amici di Imogen e dell’offerta di lavoro e sono tutti molto felici proprio come

me. Deepa prepara da bere e brindiamo insieme al mio successo. Wes mi assicura che Sam sarà solo

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contento per me. Anna inizia a fare dei calcoli sull’ammontare del mio stipendio e mi dice che dovrei aspettare un’offerta in modo da non dover negoziare contro il mio interesse. «E se ci provano e ti fanno un’offerta bassa», mi consiglia, «devi rispondere che assumere te significa assumere una persona che ha vissuto davvero in quell’epoca.»

Quanto ha ragione! Quando arriva la nostra cena a domicilio pagata da Wes, che insiste per averci tutte come ospiti per festeggiare la mia notizia, sono piena di fiducia. Ho davvero qualcosa di unico e prezioso da offrire, anche se non c’è bisogno che Imogen o i suoi colleghi sappiano mai quanto siano singolari le origini delle mie competenze.

Proprio mentre sto per assaggiare un pezzo di mole di pollo, il suono di uno sparo rompe il silenzio notturno.

Anna sobbalza e fa cadere la forchetta. «Oddio!»Le accarezzo la mano. «È solo una pistola, Anna.»Lei mi guarda, sbigottita. «Mi prendi in giro?»«Be’, sembra proprio un colpo di pistola.»Ha la faccia bianca come un lenzuolo. «Era da un po’ che non ne sentivo.»«Be’, credo che ci siano ben poche prede da cacciare in città.»Deepa scoppia a ridere.Paula fa una risatina, ma si copre la bocca per nascondere la sua ilarità di fronte allo sguardo truce di

Anna. «Oh, forza, Anna», esclama alla fine. «Anche tu prima vivevi in questo quartiere. Questa è Los Angeles, per l’amor del cielo! I conflitti a fuoco fanno parte del nostro background!»

Deepa ride ancora di più e Anna le lancia un’occhiataccia. «Scusami», dice Deepa.«Non riesco a capire cosa ci sia di così divertente», commento, «perché basta davvero poco per tirare

fuori una pistola qui, figuriamoci per sparare.»Anna sembra ancora un po’ scioccata. «Courtney», dice, «da quando ti conosco hai sempre detto di

voler lasciare questo appartamento. Non pensi sia ora di cambiare?»«Sinceramente mi piace, anche se ammetto che preferirei un quartiere più verde. E le sbarre alle

finestre sono davvero brutte. Anche se adesso non ci faccio più tanto caso come quando... come prima.»«Mi piace questa donna coraggiosa», esclama Paula allegramente e alza il calice. «A Courtney. Di

donne come te si è perso lo stampo, tesoro.»Io, una donna coraggiosa? Non sono sicura di meritare questa lode, ma comunque la apprezzo.Paula mi si avvicina e mi abbraccia ed è come se una vecchia amica fosse tornata dopo il grande gelo

e, in effetti, è proprio così. La stringo forte e lei fa altrettanto.E poi alza di nuovo il calice. «E a Wes», brinda e io guardo Wes, che si stava versando da bere ed è

rimasto impietrito per la sorpresa proprio come me. «Perché non ho mai visto Courtney così felice prima di oggi.»

«A Wes e Courtney!» esclama Deepa.«A Wes e Courtney», le fanno eco Anna e Paula.Beviamo e mentre mi guardo intorno e vedo le facce dell’uomo che amo e di queste tre donne

adorabili, le mie amiche attente e devote, sono piena di gratitudine per la mia buona sorte.

Più tardi, quando le ragazze se ne sono andate e Wes, che è rimasto per aiutarmi a sistemare, finisce di asciugare l’ultimo dei piatti – come mi piace la disponibilità dell’uomo moderno a impegnarsi nei lavori domestici! – mi prende tra le braccia e mi bacia sulla testa.

«E quindi a quanto pare stai acquisendo quella competenza dopotutto.»Sorrido soddisfatta. «Credo di sì.»«Ti ricordi quello che hai detto prima sul fatto che preferiresti un quartiere più verde?»«Sì.»«Bene. Stavo pensando... Perché non ti godi il verde di casa mia?» Mi lancia un sorriso furbetto.

«Anzi, perché non ne fai casa tua?»Alzo lo sguardo verso di lui e nei suoi occhi ci sono così tanta tenerezza e amore che riesco a stento a

parlare.«Mi offro nuovamente a voi», declama, «con un cuore che vi appartiene ancora più pienamente, di

quando voi quasi lo spezzaste, undici settimane fa.»Mi sta chiedendo di nuovo di sposarlo, usando le parole di Persuasione! «Sì», conferma, come se stesse rispondendo al mio pensiero. «Mi è piaciuto ancora di più di

L’abbazia di Northanger.» «Oh, Wes.»«So che ho detto che sarebbe toccato a te riaprire l’argomento matrimonio, ma non puoi biasimarmi

per averci provato, vero?»«No.» Sorrido. «Non posso.»E poi si inginocchia ed estrae uno scatolino di velluto dalla tasca.Lo apre e tira fuori un anello perfetto, luccicante. Uno zaffiro blu circondato di diamanti bianchi.«Mi sposerai, Courtney? Sarai mia moglie? Farai di me», sorride, «il più felice degli uomini?»Ho gli occhi pieni di lacrime. Tocco il suo bellissimo viso angelico. Avrei mai potuto immaginare che

esistesse una felicità simile?«Sì, Wes. Ti sposerò.»Mi mette l’anello. «Era di mia nonna», spiega. «Ti piace?»«Lo adoro.»Sorride raggiante e si alza, poi piega la testa per toccarmi le labbra con le sue. E ci baciamo, con il

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respiro che si fa più veloce e i corpi che si fondono l’uno nell’altro.E in questo momento so che Anna aveva ragione: abbiamo il potere di creare il paradiso o l’inferno,

qui e ora.

Ventinove

È LA mattina successiva al nostro matrimonio e sono tra il sonno e la veglia, accoccolata sul petto di Wes, che dorme come un angelo, e ringrazio Dio per la felicità che ho trovato nella vita di Courtney. Spero che anche lei la trovi nella mia.

Un giorno mi risveglierò nella mia vecchia vita e Courtney nella sua? Credo che non lo sapremo mai. E così devo fare tesoro di ogni attimo, ogni mattina, ogni giorno, ogni notte, perché ognuno di questi momenti potrebbe essere l’ultimo.

Il tempo fugge e pochi di noi sono così fortunati da accorgersi che c’è sempre un’altra possibilità per essere felici. Io la mia possibilità l’ho trovata con Wes. Mi auguro che Courtney trovi la sua.

Mi ritrovo a pensare a quel bellissimo passo di Persuasione in cui Anne legge la lettera che le ha lasciato il Capitano Wentworth. «Posso essere stato ingiusto, sono stato debole e vendicativo, mai incostante. Soltanto a causa vostra sono venuto a Bath. Soltanto per voi penso e faccio progetti.»

E poi mi vedo, con gli occhi della mente, mentre ballo con Edgeworth a Bath. È chiaro e vivido come il più nitido dei ricordi, anche se io non ho mai ballato con lui lì. E mi sta guardando mentre l’uomo accanto a lui mi fa girare. Sono consapevole di fare bella mostra del movimento del mio corpo mentre Edgeworth guarda. E io lo osservo con uguale intensità mentre fa roteare la donna che sta in diagonale rispetto a lui; anche lei gli sorride.

E poi la scena cambia e mi rivedo, anni dopo, a Londra in una tipica casa di città. Sono con Edgeworth e questa è casa nostra. Non ho mai visto questa casa prima di oggi eppure so che è mia. È la nostra, perché sono sposata con Edgeworth. E mi sta leggendo quelle parole di Persuasione: «Posso essere stato ingiusto, sono stato debole e vendicativo, mai incostante». E so che queste parole hanno un significato speciale per noi, e che in qualche modo sto vivendo quella vita – che Courtney sta vivendo – e lo sto facendo insieme con Edgeworth, che sono sua moglie e siamo felici. Non c’è più separazione tra Courtney e me. La mia vita è la sua e la sua è la mia.

Ho il cuore gonfio di felicità, per me stessa, per Jane, per Edgeworth, per Wes. E in qualche modo so che mentre Courtney vive la sua vita essendo me o, per meglio dire, quella che ero io, i ricordi della sua vecchia vita devono per forza affievolirsi per potersi adattare al passato, mentre io posso avere dei ricordi nitidissimi del passato senza che essi minaccino le gioie del presente.

Per quanto riguarda ciò che c’è in serbo per me, non ne ho la minima idea e sono ben felice di non saperlo. Non c’è un posto migliore dove stare. Perché il passato non esiste. Esiste solo il presente. Solo il momento che stiamo vivendo, eterno, bellissimo, continuamente in divenire.

Ringraziamenti

LA mia gratitudine infinita va alla mia adorata insegnante e bellissima migliore amica, Aurelia Haslboeck, la cui presenza nella mia vita è la prova che viviamo in un mondo magico: senza il suo straordinario affetto e la sua generosità questo libro non esisterebbe. Grazie, Aurelia, per averlo letto e commentato stesura dopo stesura, condividendo con me la tua impareggiabile capacità narrativa, ispirandomi sempre a fare del mio meglio e, soprattutto, per la consolazione infinita di sapere che sei sempre lì per me a ogni passo del mio cammino.

Sono piena di amore e gratitudine per il mio magnifico marito, Thomas Rigler – la mia roccia, il mio campione, il mio eroe austeniano in carne e ossa. Grazie Thomas, per il tuo amore, la tua solidarietà, il tuo sostegno costante, i consigli e l’incoraggiamento. Se ci fosse un premio per il miglior compagno di vita di tutti i tempi, tu lo vinceresti a pieni voti. La tua radiosa presenza nel mio mondo è una benedizione quotidiana e un’ispirazione costante. E grazie per aver costruito il più bel sito web di sempre.

Sono profondamente grata alla mia straordinaria agente Marly Rusoff, la donna dalla risata pronta e dalla voce angelica, per la sua gentilezza, la sua forza e il suo candore. Un sentito grazie anche al collega di Marly, Michael Radulescu, per aver fatto diventare una realtà le versioni in lingua straniera di questo libro, e per la sua precisione e il suo senso dell’umorismo; alla loro adorabile collega Julie Mosow; alla sempre deliziosa Paula Breen; e a tutti quelli che lavorano alla Marly Rusoff and Associates.

Sono davvero riconoscente alla squadra eccezionale della Dutton and Plume per aver guidato, lanciato e sostenuto questo libro e il precedente. Alcuni di loro sono ancora lì; altri hanno cambiato lavoro, alcuni sempre all’interno di Penguin Group, altri no. Sono profondamente grata a tutti. Per prima alla mia talentuosa editor Erika Imranyi, per le sue note straordinarie sulla storia e le sue correzioni, che hanno conferito all’insieme il giusto equilibrio e dettagli che mi hanno aiutato a dare a questo libro la sua forma definitiva. La mia eterna gratitudine a Susan Petersen Kennedy, Brian Tart, Christine Ball, Stacy Noble, Amanda Walker, Carrie Swetonic, Tala Oszkay e tutta la squadra di Dutton. Grazie a Kathryn Court, Cherise Fisher, Marie Coolman, Mary Pomponio, Cristi Hall e tutta la squadra di Plume che ha lanciato la versione economica del mio precedente romanzo; e naturalmente alla squadra originaria di

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Dutton che ha lanciato la prima versione: Trena Keating, Lisa Johnson, Amanda Tobier, Rachel Ekstrom, Lily Kosner e Sarah Muszynski. Mi piacerebbe ringraziare anche John Lawton, Patrick Nolan e il resto dello straordinario ufficio marketing di Dutton and Plume.

Sono molto grata ad Anita Artukovich, una delle prime lettrici di questo libro, il cui entusiasmo mi ha sostenuta proprio quando ne avevo bisogno. Molte grazie alle ragazze inglesi Beth Shube e Jessica Sully, l’una per aver passato al vaglio gli elementi britannici del manoscritto e l’altra per essere stata la voce della candidata nei miei annunci parodistici su Jane nel 2008; Roman Jakobi per avermi fotografato; Deborah Zeitman per il divertentissimo suggerimento per il titolo; Irl Extein e Lisa McGee per avermi consentito di intervistarli per le mie ricerche; Lisa Daily per aver fornito alla mia protagonista un consiglio su come comportarsi durante gli appuntamenti tratto dal suo libro Stop Getting Dumped!; Tom Edgar per aver programmato il mio sito web; e Scott Benoit per averlo disegnato.

Il mio amore e la mia gratitudine a mia madre, Sara Levine, e alle mie sorelle, Cary Puma e Felice Levine Simons, per il loro affetto, sostegno e comprensione. Sono anche profondamente riconoscente per avere tantissimi amici, che mi incoraggiano, mi ispirano e vengono anche alle mie presentazioni.

Un sentito grazie ai miei lettori, le cui domande, osservazioni, e-mail, lettere e contributi sul forum del mio sito sono doni preziosi. Mi piace moltissimo sapere di voi.

La mia perenne gratitudine alle devote legioni di librai e bibliotecari che promuovono l’amore per le parole e che ci danno un posto per ricaricarci e trovare ispirazione. Se non fosse stato per i bibliobus della mia infanzia, oggi non scriverei.

Mille grazie ai miei colleghi scrittori che partecipano ai miei workshop di scrittura e mi ispirano con la loro creatività, diligenza e saggezza.

Per le informazioni sulla vita quotidiana nel mondo di Jane Austen, sono in debito con molti ottimi studiosi e fanatici di quel periodo, davvero troppi perché ne fornisca una lista qui. Tra gli altri ci sono Penelope Byrde, Sheryl Craig, Susannah Fullerton, Christina Hardyment, Maggie Lane, Deirdre LeFaye, Kirstin Olsen, Josephine Ross, Venetia Murray, David Selwyn, Maggie Sullivan, E. S. Turner e molti altri. E naturalmente nessuno che scrive un libro ispirato da Jane Austen potrebbe prescindere dall’indispensabile Persuasions, la rivista della Jane Austen Society of North America, di cui sono socia a vita.

E, infine, la mia eterna gratitudine a Jane Austen, che non sopportava di buon grado gli stupidi ma che non poteva evitare di scriverne.