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I NOSTRI SERVIZI Inchieste, approfondimenti, interviste, personaggi, curiosità: vi raccontiamo l’altra faccia di Pistoia Numero 8 Agosto 2011 www.bancadipistoia.it Nel nome del Presidente Intervista esclusiva a Enrico Rossi, Governatore della Toscana Gabriele Cappellini Vauro Senesi Riccardo Tesi Chiara Nepi Simone Cipriani Arnaldo Nesti Foto Andrea Fangucci

Transcript of Nel nome del Presidente - Fabrizio Antonelli - Home · Stefano Grani 56 Sport Le mani sullo...

I NOSTRI SERVIZI

Inchieste, approfondimenti, interviste, personaggi, curiosità: vi raccontiamo l’altra faccia di Pistoia

Numero 8 Agosto 2011www.bancadipistoia.it

Nel nome del Presidente

Intervista esclusiva a Enrico Rossi, Governatore della Toscana

Gabriele Cappellini

Vauro Senesi

Riccardo Tesi

ChiaraNepi

SimoneCipriani

ArnaldoNesti

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www.bancadipistoia.it

Direttore responsabile

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Andrea Cabella

Andrea AmadoriPaolo GiovanniniGiorgio MazzantiEnzo Pacini

Ufficio Comunicazionee Risorse UmaneLargo Treviso, 351100 PistoiaTel. [email protected]

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Fabrizio Antonelli

Tipografia Menegazzo

è stata registrata presso il Tribunale di Pistoia al n. 6 del 2008

Numero 8Finito di stampare il 5/8/2011

lascia agli autori la responsabilità delle opinioni espressev

di Andrea Amadori

Vogliadi comprendere

03 Opinione

Enrico Rossi04 Primo piano

Siamo toscani,brava gente

di Marzio Fatucchi

Intervento/3C’era una volta una Regione d’oro

di Francesco Colonna

Vauro Senesi20 Personaggi

La peggior censuraè l’autocensura

di Alessandra Erriquez

Osservatorio Arcetri36 Cultura

Il Gioiello sulle orme di Galileo Galilei

di Fabrizio Morviducci

Gite sociali52 In viaggio

Alla scoperta di Irlanda e Sicilia

di Enzo Pacini

Biblioteca Leoniana40 Monumenti

Incanto e inquietudine:in giro per i libri antichi

di Andrea Vaccaro

Gabriele Cappellini10 I nostri incontri

Scommetto sull’uomoPoi sull’imprenditore

di Daniela Fedi

Riccardo Tesi24 Artisti

Portatore sano di world music

di Lorenzo Maffucci

Battistero44 Chiesa

Il nostro (bel) S. Giovannidi dantesca memoria

di Alberto Ciullini

Brevi & Bravi64 In Pillole

Curiosità per tutti i gustiper divertirci un po’

di Franco Biagioni

Intervento/114 Economia

Scarsa innovazioneE manager non all’altezza

di Alberto Vivarelli

Chiara Nepi28 Quote rosa

Ho colto un fiore per te(e ora lo conservo)

di Marta Quilici

Vannino Chiti66 Recensione

Se questi sono uomini

di Renzo Castelli

Intervento/2Ho un sogno per voi:Pistoia città ecologica

di Piero Ceccatelli

03

VOGLIA DI COMPRENDERE

Andrea Amadori. Presidente Banca di Pistoia

aree vaste, dove la maggiore efficacia dei servizi viene da

una programmazione comune e dalla condivisione delle fun-

zioni di supporto.

Gabriele Cappellini — l’amministratore delegato di Fondo

Italiano d’Investimento SGR S.p.A. — ha avuto parole di

apprezzamento per le scelte compiute dalla nostra banca

nel fornire supporti di qualità crescente alle imprese impe-

gnate sui mercati esteri e restando al loro fianco, anche nei

momenti più difficili. L’incontro con Cappellini è stato parti-

colarmente stimolante per me. Si tratta di un altro concitta-

dino eccellente che si è fatto onore a livello nazionale, e

non solo. Da oltre vent’anni lavora per promuovere lo svi-

luppo delle PMI con gli strumenti più innovativi della finan-

za. Cappellini ha maturato una simile esperienza senza

mai dimenticare la forza che viene dal mantenere solide

radici: la sua energia positiva è stata davvero incoraggian-

te. Innovazione e coraggio sono le parole d’ordine, ma

restando coi piedi per terra. Rimanere vicini alle imprese

del nostro territorio, con un approccio consulenziale ed

empatico, incoraggiando le più meritevoli verso percorsi di

consolidamento del Capitale sociale e di progettazione

verso le aggregazione necessarie ad investire sull’innova-

zione e sulla crescita.

Oltre ai contributi di Rossi e Cappellini troverete altre intervi-

ste e interventi di coloro che rendono Pistoia e il suo territorio

ancora “interessante”.

Ma non voglio andare oltre e anticipare troppo le interessanti

pagine che troverete anche in questo numero della nostra

rivista.

Buona lettura e buona riflessione a tutti.

ari Soci,

prima di tutto vorrei condividere con voi una mia

riflessione.

Durante il nostro ultimo incontro del maggio scorso, presen-

tando il bilancio 2010 alla vostra approvazione, mi sono reso

conto che non stavo più enunciando una volontà politica —

per quanto sentita e fortemente voluta —, non stavo più

elencando auspici e programmi, stavo descrivendo quella

stessa politica già incorporata nei numeri positivi realizzati

nell’anno appena concluso. Numeri che misurano i risultati

effettivamente conseguiti dalla nostra banca. Abbiamo imboc-

cato un trend coerente con la nostra missione e verso mete

concrete, solide e perseguibili, forse ci vorrà del tempo, sap-

piamo infatti che la strada che abbiamo scelto di percorrere

non è la più facile, ma è sicuramente quella giusta. E sono

particolarmente lieto di averla scelta perché, durante l’As-

semblea — genuina e partecipata — ho ascoltato nei vostri

interventi la voglia di esserci, di comprendere, ma anche la

pacatezza e la serenità di chi sente di potersi fidare. E di ciò

vi voglio ringraziare.

Gli interessanti incontri che abbiamo avuto con l’occasione di

preparare il presente numero di 0573 sono stati di grande

conforto da questo punto di vista.

Il presidente della nostra Regione — Enrico Rossi — offre

una lettura positiva del ruolo delle Bcc e ci incoraggia a pro-

gettare aggregazioni che servano a rafforzare l’identità terri-

toriale e a meglio rispondere alle esigenze di distretti e setto-

ri che non coincidono mai con i confini politici di una mappa

geografica. Facendo un parallelo con la sanità, che anch’io

mi sento di confermare, si richiama all’esempio virtuoso delle

C

Opinione

Simone Cipriani

32 Pistoiesi all’estero

Vi racconto la mia Africa

di Simone Trinci

Paola Bellandi48 Soci

A San Martino de Porresnessuno è straniero

di Beatrice Faragli

Giovani soci

54 La banca del futuro

Siamo il nuovo che avanza

di Marta Quilici

Stefano Grani56 Sport

Le mani sullo scudetto:Vado al Max con Allegri

di Andrea Cabella

A Lampedusa60 Eticamente

Porta (dolente) d’Europa

di Arnaldo Nesti

Viaggio nella storia62 Luoghi nascosti

Sulle tracce del fratello d’Italia

di Paolo Gestri

Primo PianoPrimo Piano

SIAMO TOSCANI,BRAVA GENTE

ENRICO ROSSI

Marzio FatucchiCorriere Fiorentino

04 05

n paSSato Ha Fatto (per poco) anche il giornalista, a Il Tirreno. Ma la biografia del pre-sidente della Toscana Enrico Rossi è concentrata sulla politica. Classe 1958, origini operaie, è laureato in filosofia (a soli 24 anni). La sua attività da amministratore parte come assesso-re e vicesindaco al Comune di Pontedera, dal 1985. Comune di cui diventa sindaco nel 1990. Sono anni difficili, per la città della Piaggio: c’è il rischio che l’azienda “mamma” della città se

ne vada. Parte una battaglia da parte dei sindacati che si unisce con l’impegno dell’amministrazione a trovare un contatto con l’azienda, all’epoca guidata da Giovanni Alberto Agnelli. Lo stabilimento avrebbe dovuto trasferirsi a Nusco, in provincia di Avellino. La scelta di restare viene presa dopo un incontro personale tra il giovane Agnelli (poi scomparso prematuramente) e Rossi: in Comune, i due decidono che la Piaggio poteva restare, e che il legame deve essere rinsaldato con altre iniziative, tra cui un polo hi-tech e il museo della Piaggio. Nel 2000, per l’ex sindaco di Pontedera parte l’avventura in Regione: campione delle preferenze nel 2000 (oltre 16mila), entra in Consiglio regionale e subito viene chiamato dal presidente Claudio Martini a guidare il più importante assessorato regionale: la sanità. Lo farà per 10 anni (rieletto anche nel 2005 sempre con una valanga di voti, questa volta alle primarie), fino a che la coalizione di centrosi-nistra sceglie lui per guidare Palazzo Strozzi Sacrati dopo la conclusione dei due mandati di Martini. Viene eletto governatore toscano nel marzo 2010 con il il 59,7% di voti.

I

Il Presidente della Regione si confessa a 0573: “Abbiamo contenuto i dannidella crisi, salvaguardando posti di lavoro e la presenza delle grandi aziende.Adesso dobbiamo evitare di passare dalla stabilità alla staticità”

Enrico Rossi è nato a Bientinail 25 agosto 1958. Si laurea

in filosofia all’Università di Pisacon una tesi su Agnes Heller,filosofa ungherese. Nel 1985

viene eletto vicesindaco di Pontedera,di cui diventa sindaco dal 1990 (a 32 anni)

al 1999. Nel 2000 entra in Consiglioregionale. L’ex presidente Martini

gli affida l’assessorato più importante:la sanità. Nel marzo 2010 diventa

Governatore della Toscana(foto dal sito www.enricorossi.it;

foto di copertina Andrea Fangucciwww.flickr.com/photos/andreafangucci)

Primo PianoPrimo Piano

06 07

Nell’ultimo rapporto Censis, si descrive una Toscana al bivio: ha retto meglio di altre regioni, anche se a fatica, la crisi, ma corre il rischio di “chiudersi” in se stessa. Un’analisi che condivide?

“Il Censis ha disegnato il ritratto di una regione stabile, equilibrata, coesa, che ha incassato il duro colpo inferto alla sua economia dalla crisi sapendo però conte-nere le perdite, tenendo a freno l’emorra-gia di posti di lavoro e salvaguardando la presenza della grande industria e la tenu-ta delle imprese medio-piccole. Una regione che ora deve evitare di passare dalla stabilità alla staticità, che deve far evolvere in positivo le caratteristiche che ne hanno fatto un modello di benessere e di equilibrio sociale ed economico. Penso che, con le scelte che stiamo compiendo, siamo sulla strada giusta. Le linee portan-ti del Piano regionale di sviluppo puntano a uno sviluppo sostenibile, a rilanciare la competitività dell’industria sui mercati

nazionali e internazionali, ad attrarre nuovi investimenti anche da fuori regio-ne, a conquistare i nuovi mercati emer-genti grazie a produzioni e processi innovativi e di qualità. Stiamo mettendo in campo strumenti a sostegno del lavoro e delle imprese, del manifatturiero e della grande industria visti come leva essen-ziale per lo sviluppo, mettiamo un forte accento sull’innovazione, sulla ricerca e il trasferimento tecnologico, sulla formazio-ne, sul sostegno alla crescita dimensio-nale e all’internazionalizzazione delle imprese, sul potenziamento delle infra-strutture e dei servizi. Vogliamo fare cose nuove, che nessuno ha mai fatto prima”.

L’immagine che arriva dagli studi del direttore del Censis, Beppe Roma, descrive un senso di comu- nità diffuso: i toscani si sentono tali, orgogliosi ma anche difesi dal loro senso di comunità. Ma, per la prima volta, l’immigrazione viene vista come un problema (l’analisi

è condotta prima dell’operazione sui rifugiati da Lampedusa, ndr)

“La sua precisazione è importante. Non sottovaluto affatto i dati proposti dal Censis: la politica della paura ha cercato anche in Toscana di “avvelenare i pozzi” della solidarietà. Tuttavia l’operazione di accoglienza dei migranti e dei profughi che abbiamo realizzato nelle settimane scorse ha visto l’intera comunità regiona-le, le istituzioni e il volontariato impegnar-si senza riserve. Sono state messe in campo disponibilità, intelligenza e cuore: c’è da esserne fieri”.

Nel settore della finanza, più studi hanno ricordato come la presenza di banche legate al territorio, come le Bcc, sono state uno degli stru- menti della coesione sociale tosca- na per affrontare la crisi. Che valu- tazione dà al loro ruolo?

“Le Bcc hanno un ruolo fondamentale

Vogliamo conquistaremercati emergentigrazie a processi

innovativi e di qualità.E sulla tecnologia

siamo all’avanguardia

Una splendida immaginedel Duomo di Firenze:

lo scatto è stato prodottoda Piazzale Michelangelo

(foto Fabrizio Antonelli)

09

prima fonte di spesa per l’ente Regio- ne Toscana: come affronterà i futuri tagli ipotizzati dalla manovra finan- ziaria?

“Dopo aver tolto alla sanità 1,5 miliardi lo scorso anno, il ministro Tremonti pensa a un taglio di altri 6. Mi sembrano improponi-bili i discorsi teorici a tavolino, fatti da apprendisti stregoni che non hanno mai amministrato la sanità. Quanto a noi, stia-mo sviluppando il nuovo piano socio sani-tario che ci permetterà ancora una volta di innovare e fare evolvere il sistema. Le parole chiave sono: focus sulla salute (piut-tosto che sui servizi), focus sul paziente (piuttosto che sulla patologia), integrazione (piuttosto che specializzazione) tra profes-sionisti, tra ospedale e cure primarie, tra le istituzioni. Il nostro piano sarà rivolto non al mero contenimento dei costi, ma a una rimodulazione dell’offerta sanitaria, in fun-zione della qualità, appropriatezza e sicu-rezza delle cure, progressiva eliminazione dei duplicati, potenziamento della rete. Una revisione che nulla ha a che fare con i tagli e molto con la capacità gestionale e il coinvolgimento dei professionisti. Azioni, progetti e programmi per garantire equità e parità di accesso agli utenti”.

Pistoia e il suo ruolo nella Toscana: le commesse arrivate da Trenitalia per la Breda sono un volano impor- tante per la crescita. Ma, fin dal primo momento, avete chiesto che questa sia un’occasione per tutta la

Toscana, cercando quelle collabora- zioni e potenzialità che escono dalla sola Provincia. In che modo?

“Abbiamo gettato le basi di un grande distretto regionale ferroviario, in grado di accettare la sfida a livello nazionale ed europeo. Ragioniamo in termini di distretto. Dal tondino alle rotaie, dalla manutenzione delle carrozze alla ricerca più avanzata, la Toscana dispone di tutte le risorse indu-striali per diventare un polo ferroviario di eccellenza. Penso ad esempio alle acciaie-rie di Piombino, al centro dell’Osmannoro, alla Breda, ovviamente, e all’area pisana. In questo settore siamo in grado di svilup-pare e chiudere l’intera filiera. E’ una scom-messa decisiva per il futuro industriale della nostra regione”.

La Banca di Pistoia sostiene da tem- po le aziende vivaistiche. Quali pro- getti ha la Regione per questo setto- re che sembra risentire solo marginal- mente della crisi?

“Lavoriamo su quattro aree: il sostegno alla modernizzazione e all’innovazione delle imprese, l’incentivo all’utilizzo di fonti ener-getiche rinnovabili, la promozione sui mer-cati internazionali. E voglio citare anche il bando, chiuso nel mese di giugno, per i “progetti integrati di filiera”, con il quale le imprese toscane sono state chiamate a presentare progetti di integrazione e colla-borazione per ricevere finanziamenti. Dei ventuno progetti presentati, finanziati con

circa 33 milioni di euro, due hanno riguardato il vivaismo. Uno, in particola-re, prevede l’utilizzo come ammendante del “nocciolino” delle olive dopo la produ-zione di olio sul territorio. Questo dimo-stra che le aziende toscane sono creati-ve e capaci di fare squadra. Il settore vivaistico è uno dei comparti più impor-tanti in Toscana. Conta oltre 2400 azien-de e assieme alla vitivinicoltura rappre-senta il 70% della produzione vendibile dell’agricoltura della nostra regione. Ha saputo reggere la sfida della concorren-za e del mercato globale perché ha puntato sull’identità legata al territorio”.

Crede che anche nel vivaismo biso- gna temere l’avanzata della Cina?

“Sono tornato da poco da un viaggio in Cina e continuo a ripetere che non dob-biamo temere, ma collaborare. Non dob-biamo chiudere, ma puntare sulle nostre eccellenze. Questo vale anche nel setto-re del vivaismo. La chiave per rimanere protagonisti di un mercato che vede la Toscana leader a livello europeo è quel-la di puntare sulla qualità, sulla specializ-zazione e sul legame con il territorio. Le produzioni vivaistiche sono, più di molte altre, legate alla bellezza del paesaggio toscano. Quello non può essere copiato: è unico. La concorrenza non può essere sul prezzo, ma sulla qualità, sull’identità. Chi vuole “gustare” la Toscana continue-rà a scegliere i suoi prodotti fintanto che questi saranno unici e inimitabili”.

Primo Piano

per un uso “produttivo” del credito e per contemperare i diversi interessi in gioco. Le caratteristiche dimensionali delle nostre imprese richiedono banche efficaci e terri-torialmente orientate. Non è un segreto che i distretti produttivi tradizionali siano spesso nati da un rapporto sinergico tra piccole imprese, banche locali e istituzioni. La Toscana è sede anche di grandi ban-che, alcune delle quali confluite in gruppi nazionali. Ma il mercato del credito moder-no, malgrado Basilea e affini, richiede per assurdo un surplus di confronto affinché le imprese sappiano presentare bilanci e business plan “bancabili” e gli istituti di credito possano valutare non solo indici e reputazione degli imprenditori, ma anche potenzialità di crescita. In questa dinamica la Regione non è assente, in quanto attra-verso Fidi Toscana e il sostegno al sistema dei confidi, contribuisce al governo del rischio bancario. Così come esistono imprese piccole, medie e grandi, abbiamo bisogno di banche allineate ai bisogni delle diverse categorie di aziende clienti. Il pro-blema dell’accesso al credito esiste, ma se non c’è accesso non c’è impiego in settori produttivi, da cui la tentazione di cercare ritorni finanziari o speculativi in attività che non generano occupazione e benessere diffuso”.

Il mondo delle bcc è sempre più pro- iettato alle ipotesi delle aggregazioni per avere strumenti migliori per esse- re protagonisti nell’economia regiona- le: è favorevole alle fusioni per render-

le ancora più forti e competitive sul mercato o contrario per evitare di far perdere a ciascuna la propria iden- tità sul territorio e, di conseguenza, fette di mercato?

“Tenendo presente che le banche, qualun-que natura abbiano, alla fine sono loro stesse delle imprese, ritengo che occorra considerare due aspetti. Da un lato le aggregazioni che la Banca d’Italia consiglia migliorerebbero i fondamentali di bilancio, assicurando solidità e competitività. Ma rispetto a chi? Alle banche medio/grandi? Se questo fosse il fine, credo che il gioco sarebbe impari: mi sembra che in Italia siano pochi i casi di successo di banche piccole riuscite a fare il “salto di specie”. Invece, se le aggregazioni servono a raf-forzare l’identità territoriale, in un’ottica anche regionale (tenendo presente che oggi alcuni distretti produttivi non sono più circoscritti, si pensi ad esempio alle com-ponenti della moda, alle collaborazione tra mobilieri e nautica, ecc.), allora certamente le economie di scala e di raggio di azione possono essere utili. Non a caso, se mi è consentito un parallelo, nella sanità tosca-na sono state attivate tre aree vaste: ogni Azienda sanitaria continua a svolgere la propria mission territoriale, all’interno però di una programmazione comune e condivi-dendo alcune funzioni di supporto come gli acquisti”.

Mentre parliamo, ogni giorno arrivano notizie sempre più negative dalla

Grecia. Il rischio è che mentre si re- spira una tensione verso l’uscita dalla crisi, l’Italia sia investita dal ciclone greco. Come affrontare que- sta eventualità?

“Abbiamo sperimentato cosa significa una “cattiva politica nazionale” e gli effet-ti di una politica economica che guarda solo al rigore dei conti (seppur necessa-rio), senza porsi il problema della cresci-ta economica. E’ come se un buon padre di famiglia stesse solo attento a non andare in rosso sul conto corrente (anche se, forse, bisognerebbe dire a non anda-re in default per gli interessi sullo scoper-to…) senza porsi il problema della fonte da cui deriverà il reddito e la ricchezza per poter continuare a mantenere la pro-pria famiglia: è ovvio che la prima preoc-cupazione è una condizione necessaria, ma è la seconda a fare la differenza per evitare che il numero di persone a rischio di sopravvivenza non aumenti in futuro! Più seriamente, l’Italia rimane un Paese ricco e solido, ma non è più possibile illudersi di essere la “bella addormentata nel bosco della globalizzazione” con una politica che dai mercati finanziari venga vissuta come commedia all’italiana e tanti, troppi settori, bloccati da corporati-vismo, bassa produttività ed assenza di “contendibilità” (e, mi sia consentito, sia nel pubblico che nel privato…)”.

La sanità toscana è fiore all’occhiel- lo ma anche (come tutte le regioni)

08

Primo Piano

Servono banchedi varie dimensioni

per soddisfarele esigenze di tutti.Aggregarsi significarafforzare l’identità

Abbiamogettato le basi per un grande distretto

regionale ferroviario:il futuro industriale

passa da qui

Nel vivaismorestiamo leader

a livello europeo:la bellezza dei luoghicontinuerà a rendereunici i nostri prodotti

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strumenti innovativi sia per lo Stato che per le imprese. Per lo Stato è un’operazione di poli-tica economica avanzata; un’azione a suppor-to della crescita che, non aggravando il debito pubblico, stimola e sostiene la capitalizzazio-ne, l’aggregazione e l’internazionalizzazione delle imprese italiane di minori dimensioni. Per le imprese è una manna dal cielo: nuovi capi-

tali entrano stabilmente in azienda a supporto di operazioni di rilancio e investimento a fronte di un costo futuro in termini di dividendi. E l’impresa si arricchisce di un

nuovo socio — di minoranza — affidabile e professionale che contribuisce alla qualità della governance, societaria e manageriale.Certo, come in tutte le idee innovative dal grande potenziale tutto dipende dal come l’operazione viene svolta. Le imprese con “la voglia di crescere” affidabili, meritevoli e delle giuste dimensioni — almeno 10 milioni di fat-

aGriELE cappELLini è un uomo dallo sguardo che parla. Si capisce subito che è un uomo di sostanza. Un uomo che ha fatto tesoro della

sua lunga esperienza nel mondo bancario e finanziario, guardando sempre a ciò che conta, la persona. Con una elegante gestuali-tà sottolinea le parole pronunciate come per dire: attenzione, adesso vado al cuore del discor-so, e quello che ti dice non è mai banale. Sono perle di saggezza pro-nunciate con un linguag-gio di assoluta semplici-tà, come solo le persone di sostanza sanno fare.Gabriele Cappellini è l’amministratore delega-to di Fondo Italiano d’Investimento SGR S.p.A.: la società voluta dal Ministro Tremonti, annunciata nel marzo dello scorso anno, per favorire lo sviluppo delle PMI italiane con una dotazione di mille milioni di euro. Si tratta di

G

Daniela FediDocente di Economia

“Entriamo nei capitalidi rischio delle impresesolo se chi sta al vertice

dà ampie garanzie”

I nostri incontri

10

I nostri incontri

turato annuo — vanno scelte con cura. Ed ecco che entra in scena l’uomo, Gabriele Cappellini. E’ stato scelto per la sua lunga esperienza nel settore finanziario al servi-zio delle imprese? Certamente si, ma senza dubbio il suo valore umano è ciò che fa la differenza, le sue capacità intuitive sono indubbiamente notevoli. E quanto abbia seguito con cura le operazioni che negli anni gli sono state affidate si capisce bene da come ne parla. Snocciola una sequenza di interventi gestiti negli anni come si fosse-ro compiuti ieri. Cita nomi di persone, aziende e circostanze curiose con una sot-tolineatura sui dettagli che esprime proprio questo: la cura, l’attenzione nel far bene le cose, andando a valutare il cuore della fac-cenda, non come appaiono.“Noi entriamo nel capitale di rischio delle imprese — dice —, non ci aspettiamo di uscire dopo 24-30 mesi. Vogliamo dare all’impresa i tempi necessari perché gli investimenti effettuati maturino i loro frutti,

senza forzare. Puntiamo più alla crescita che alla redditività di breve periodo. Per questo nella scelta delle imprese da finan-ziare è essenziale la figura dell’imprendi-tore. Deve avere una sua visione dell’im-presa nel futuro, deve saper guardare più lontano degli altri e avere la determinazio-ne per guidare l’impresa verso gli obiettivi condivisi. Deve conoscere la sua organiz-zazione, nei punti di forza, ma anche nei punti di debolezza. Ed è li che noi interve-niamo. Irrobustendo la struttura manage-riale con l’ingresso di una persona che, rappresentando la nostra quota di mino-ranza, apporti competenze dove servono. La due diligence — racconta — è la fase di analisi in cui figure specialistiche di nostra fiducia verificano la situazione aziendale e quantificano i rischi che affron-teremmo divenendo soci dell’impresa. Ma poi sono sempre le persone e la salute delle loro relazioni che fanno la differenza, che determinano il successo delle opera-

zioni”.Gabriele Cappellini di operazioni di Private Equity, Merchant Banking e Venture Capital ne ha seguite parecchie. Nella sua lunga ed entusiasmante carriera nel Gruppo MPS ha vissuto molti interventi finanziari, in situazioni imprenditoriali di tutti i tipi.Durante gli anni della scuola superiore — presso l’Istituto Filippo Pacini di Pistoia — ha svolto uno stage presso la Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia facendo la prima esperienza nel settore. Dopo il diplo-ma ha proseguito gli studi presso l’Univer-sità senese dove si è laureato con lode in Scienze Economiche e Bancarie nel 1973. Ha percorso gran parte della sua carriera nel Gruppo Monte dei Paschi di Siena, giungendo nel 2001 all’incarico di Direttore generale di MPS Venture SGR S.p.A., dove per 10 anni ha gestito Fondi mobiliari chiusi, andando a ricoprire cariche nei Cda di numerose SpA italiane. Attualmente è

Gabriele Cappellini(nella foto a sinistra, con Andrea Amadori,

presidente Bcc Pistoia), si è laureato con lode a Siena nel 1973

in Scienze Economiche e Bancarie.Dal 2001 al 2010 è stato Direttore Generale

di MPS Venture SGR SpA, società di gestionedi fondi mobiliari di tipo chiuso

Amministratore Delegato del Fondo Italiano d’Investimento,gestisce una dotazione di mille milioni di euro. La società è una creazione del ministro Tremonti a favore delle PMI

Gabriele Cappellini

ECONOMIA

Scommetto sull’uomoPoi sull’imprenditore

Foto Fabrizio Antonelli

12 13

“Ai vivaisti dico:riducete il rischio,

scoprite nuovi mercatie unite le forze”

docente al Master Universitario in Merchant Banking dell’Università LIUC di Castellanza (VA) e membro della “Commissione di Garanzia” di Aifi – Associazione italiana del Private Equity e del Venture Capital (Milano).“In Fondo Italiano — dice — l’obiettivo è quello di creare una fascia più ampia di aziende di media dimensione, incentivan-do i processi di aggregazione fra le impre-se minori, al fine di renderle maggiormen-te competitive anche sui mercati interna-zionali”.“Allora abbiamo fatto bene a irrobustire la struttura che offre servizi all’esportazione presso Banca di Pistoia”, chiosa Andrea Amadori interloquendo con Cappellini.“Avete fatto molto bene”, è la risposta che ottiene. “Voi Bcc — afferma Cappellini —, magari aggregandovi per ottenere una dimensione più idonea — e lo dovrete fare — potreste sfruttare al meglio la vostra grande peculiarità, la vicinanza al cliente, portando un vantaggio all’econo-mia dell’intero paese. Le grandi banche sono impegnate in operazioni straordina-rie, non saranno a posto prima di 2-3 anni. Voi banche del territorio avete l’op-portunità di investire sul rapporto perso-nale, diretto, talvolta intimo con il cliente.

Voi lo conoscete, conoscete le persone”. L’approccio giusto per fare banca del territorio, secondo Cappellini, è dunque quello della consulenza, della partner-ship, sedendosi dalla stessa parte del tavolo con il cliente. Per stimolare pro-cessi di aggregazione d’imprese è neces-sario mettersi al loro fianco, in qualità di adviser. La grande banca vincolata dal rating aziendale può avere difficoltà. Inoltre, nell’ultimo decennio è in corso un pro-cesso di trasformazione dei bilanci delle imprese, ci sono sempre più immobilizza-zioni immateriali come marchi, brevetti, avviamento per l’acquisto di aziende; a detrimento delle immobilizzazioni mate-riali sulle quali le banche acquisivano diritti reali. Allora, che succede? Bisogna rafforzare di più il patrimonio netto. Per cautelarsi di fronte agli tsunami la lezione è ancora quella: rafforzare il capitale sociale. Ed il Private Equity interviene proprio li.Fondo Italiano ha fatto la scelta di essere una struttura snella. All’avvio lo scorso anno aveva un dipendente, adesso che si è strutturato ne ha una trentina. Per intercettare le imprese meritevoli utilizza-no le segnalazioni del territorio. La rete

capillare di uno dei soci — Confindustria — è una buona fonte di segnalazioni. Ma non disdegnano neanche altre fonti di segnalazione. Come chi, presidiando il territorio, conosce bene sia l’impresa che l’imprenditore, loro limiti e potenzialità. Cappellini chiarisce dove non possono avvenire i loro interventi: lancio di nuove imprese (start-up) con imprenditori alla prima esperienza; situazioni di tourna-round, a meno che non siano giunte alla fase finale e pronte per il rilancio; società quotate in un’ottica speculativa, imprese immobiliari e di servizi finanziari; tutti quei contesti in cui non c’è un soggetto giuridi-co unitario – dotato di personalità giuridi-ca — nel quale l’SGR possa acquisire una quota di Capitale sociale (azioni).E’ anche importante l’idea imprenditoria-le sulla quale l’impresa intende investire. Deve avere un buon potenziale d’innova-zione sul prodotto ed un mercato di riferi-mento di respiro internazionale.Il settore sanitario è interessante, ha un buon potenziale di crescita in futuro. Soprattutto a causa dell’andamento demografico atteso della popolazione ita-liana, e non solo. Il continuo innalzamen-to dell’età media, ed anche l’incidenza di fasce d’età sempre più elevata, richiede-

ranno un lavoro di cura e di assistenza sanitaria crescente e sempre più evoluta in maniera da mantenere le persone nel loro ambiente, con il conforto di un controllo assiduo e di alta profes-sionalità, che sarà disponibile grazie a strumenti che all’occor-renza siano in grado di attivare gli interventi necessari.A Pistoia c’è un settore molto interessante: quello delle piante. Il distretto vivaistico pistoiese, secondo Cappellini, dovrebbe ridurre il rischio differenziando rispetto ai luoghi di produzione per poi affrontare anche mercati lontani. L’importante è farlo bene. Anche la Cina può essere un’oppor-tunità se approcciata nel modo giusto. Il che vuol dire rivolgersi al mercato cinese con logiche e mezzi di là e non di qua. Basta pensare alle dimensioni a cui loro sono abituati rispetto alla nostre. Nel comparto occorrono aggregazio-ni, reti di imprese cogenti.

Questo creerebbe ricchezza: dare la giusta dimensione e forma giuridica ad un know-how diffuso ed incarnato nel DNA pistoiese. A quel punto si può sfidare chiunque. L’importante è che la testa resti qui, che restino sul territorio i punti di riferimento, il ceppo originario. E le Bcc dovrebbero — dando per prime il buon esem-

pio — stimolare nelle piccole imprese vivai-stiche l’avvio di un processo di aggregazio-ne con una forte motivazione comune. Prevenire l’aggressione anche del mercato vivaistico da parte di chi è in grado di pro-durre a costi molto bassi, con iniziative ben pianificate e strutturate di espansione nei mercati in forte crescita. Insomma, uno dei

pochi settori italiani non ancora toccato dalla crisi non può stare a guardare, deve agire finché è ancora forte di un’elevata redditività ed un ottimo vantaggio competitivo. Il potenziale è davvero note-vole. E poi, la miglior difesa è l’attacco.

Le Bcc sono vitaliper l’economia del Paese.

E chi scommettesui servizi dell’esteroavrà grandi vantaggi

I nostri incontriI nostri incontri

L FONDO ITALIANO D’INVESTIMENTO S.p.A. è una società costituita il 18 marzo 2010 con un capitale sociale di quattro milioni di euro, su inizia-tiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze. E’ formato da alcune “banche sponsor” e associazioni di categoria. Cassa Depositi e Prestiti,

Monte dei Paschi di Siena, Intesa-Sanpaolo e UniCredit Group, definite congiuntamente le “banche sponsor”, si sono impegnate a sottoscrivere un Fondo mobiliare chiuso riservato a investitori qualificati, con quote paritarie, per un commitment iniziale di mille milioni di euro. Nel settembre 2010 si sono aggiunte alcune banche popolari (ICBP, Credito Valtellinese, Popolare di Milano, Popolare dell’Emilia Romagna, UBI Banca e Banca del Cividale) con un ulteriore commitment di 200 milioni di euro.

“Banche sponsor” a sostegno dell’idea di TremontiFonDo itaLiano D’inVEStiMEnto

I

Per i grossigruppi bancarila nostra realtà

è solo un piccolopunto nella

geografia economicama per sottrarre loro

fette di mercatole bcc hanno

una sola stradapercorribile:

le fusioni

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Mancano StratEGiE E coLLaBoraZioni pEr SUpErarE La criSi

Scarsa innovazione E manager non all’altezza

C AMBIANO I TONI, le parole, non la sostanza: la ripresa c’è ma è ancora piccola, non signi-ficativa; i numeri della congiun-

tura del secondo semestre del 2010 indi-cano una tendenza sulla quale lavorare, ma la stabilità è ancora lontana perché i segnali di crescita sono a macchia di leo-pardo, perché la ripresa viene dal mercato estero (a Pistoia in misura assai minore rispetto alla Toscana) quindi le ricadute su quello interno sono ancora lontane. E’ il giudizio dei tecnici quando parlano dell’economia pistoiese.L’Istat, infatti, ci consegna una fotografia non facile da interpretare. Ad esempio, il fatturato complessivo dell’artigianato pisto-iese — ci riferiamo ancora al secondo semestre 2010 — registra un incremento dell’8,3% rispetto al medesimo periodo del 2009, pari a 348 milioni di euro; crescono le retribuzioni (+51%), i consumi (+37%) e gli investimenti (+63%), in controtendenza rispetto agli indici regionali che presentano quasi tutti segni negativi. Bene soprattutto il manifatturiero con una crescita del 31%, che gode della robusta crescita del fattura-to del settore metalmeccanico: +92%. Crescita confermata anche dai numeri del primo trimestre 2011: +7% e dall’aumento

del fatturato dei servizi alle imprese che nell’ultimo trimestre 2010 sono schizzati ad un +122%. Per inciso, i servizi alle imprese sono anche quelli che hanno registrato il maggior numero di avviamen-ti al lavoro: +15,4% rispetto ad una media del 2,5%. Ma al primo posto per aumento del fatturato, troviamo il settore alimentare che mostra un vero boom: +121%.Continua a soffrire l’edilizia che, con il suo 33% di imprese rispetto al totale, offre una base consistente all’intera economia pro-vinciale. Il secondo semestre del 2010 si è chiuso con un calo di fatturato di quasi il 23% (circa 30 milioni di euro) e con segni negati-vi nei consumi e nelle retribuzioni. E non va meglio nei primi mesi di quest’anno.Diversa l’analisi del settore tessile. Ai dati negativi del 2010 (-14%), si contrap-pone una ripresa decisa nei primi mesi di quest’anno: +3%. Da febbraio-marzo, infatti, le macchine sono tornate a girare nella Piana e le aziende hanno ricomincia-to i turni di notte per fare fronte agli ordini. Rimane pessima, invece, la situazione del mobile che nel primo trimestre di quest’an-

no ha registrato una perdita di sette punti percentuali.I pochi — ma importanti — segnali positivi non devono far dimenticare che veniamo da due anni e mezzo terribili, soprattutto da un 2009 a dir poco disastroso con un calo del Pil provinciale del 3,6%, ben al di sopra anche della media regionale (-2%). Una crisi profonda che ha inciso non solo sull’economia ma anche sul sistema-imprese. Un esempio che normalmente sfugge ai non addetti ai lavori: lo scorso anno le aziende che hanno avviato la

procedura concor-suale sono aumenta-te del 17,5%, mentre i protesti hanno rag-giunto un valore di 13 milioni e mezzo di euro; nel settore edile in tre anni sono scomparse quasi 200 aziende.Una crisi che è calata come un macigno

anche sulle spalle già deboli dei lavoratori. I dati della Cgil Toscana — si riferiscono ai primi tre mesi dell’anno — sono impres-sionanti. Le ore di cassa integrazione in provincia sono state più di 2 milioni, equi-valenti a 5mila lavoratori: di questi, oltre duemila rischiano di perdere il lavoro entro l’anno. Non solo, il 94% delle perso-

voglia — di metterli su un mercato perife-rico e industrialmente — salvo poche eccellenze — poco appetibile come il nostro.Rimangono le “banchine”, geneticamente portate ad un rapporto strettissimo e diret-to col territorio perché le casse rurali sono il territorio da cui nascono. Il problema è la loro struttura: piccole, troppo piccole per aiutare il sistema produttivo, per finanzia-re progetti importanti. Eppure c’è ancora chi pensa che il ruolo principale di una banca cooperativa sia quello del credito al consumo, dimenticando che si tratta di un servizio che altri attori del sistema-credito fanno meglio e a costi minori. Sembra paradossale, ma spesso il credito al con-sumo è il massimo che una “banchina” può permettersi, per i limiti della loro con-sistenza patrimoniale. Quali progetti può finanziare una banca che ha un patrimo-nio utile netto di 30 milioni di euro? Pochi e piccoli. L’unica strada per sostenere la struttura produttiva della provincia è quel-la delle fusioni, che significa mettere insie-me non solo capitali e patrimonio, ma anche il meglio delle persone e dei cervel-li delle singole banche, con risparmi di gestione consistenti; i modelli virtuosi che si chiedono alla politica, dovrebbero trova-re spazio anche nel mondo del credito. A dire il vero, la filosofia è largamente condivisa, la pratica meno. Il limite del progetto è la gelosia territoriale, la paura di ciascuna banca di perdere la propria identità territoriale, dimenticando lo spirito che animò la nascita del sistema creditizio cooperativo. Ma non è ininfluente la poca propensione italiana a lasciare poltrone e strapuntini, spesso occupati senza alcun merito proprio. Ci vuole coraggio, intelligenza e sguardo puntato decisamente al futuro ma la stra-da è questa, che lo vogliano o meno i consigli d’amministrazione o i soci. Nel giro di qualche anno o decidono le fusioni o altri lo faranno al loro posto.

*Responsabile redazione di Pistoia de Il Tirreno

aziende. Nella sostanza, gli istituti di credi-to hanno fatto cassa per conto delle impre-se. Grazie a questi soldi, alcuni hanno evi-tato il crack nei pagamenti di stipendi e materie prime ma il conto arriverà presto, forse quando la crisi non sarà ancora del tutto alle spalle. Chi ha potuto fare a meno di ricorrere all’aiuto delle banche, ha evita-to di mettere una ipoteca sul proprio futu-ro.Adesso occorre pensare allo sviluppo. Le banche dovrebbero rendere operativa la seconda fase — magari rimettendo in campo la massa di soldi non ancora utiliz-zati dalle imprese —, quella che punta al futuro, quella che aiuti il sistema produtti-vo pistoiese ad agganciare la ripresa. Ci sono le forze? Vediamo. Con il massiccio ricorso alle fusioni e agli accorpamenti di questo ultimo ventennio, il sistema bancario italiano si poggia su alcuni colossi — ma solo in riferimento all’Italia — e una fittissima rete di banche popolari (ormai assai poche, però), e di credito cooperativo. Per una analisi seria, dobbiamo partire dal presupposto che il sistema industriale e artigianale pistoiese per i grossi gruppi bancari non è che un piccolo punto nella loro geografia econo-mica; hanno grandi disponibilità di finan-ziamenti ma poco interesse — e poca

ne che si affaccia al mondo del lavoro lo fa con contratti a tempo determinato se non con contratti di tirocinio il cui numero è in consistente aumento.Che fare, e soprattutto, chi deve fare? Domande semplici, risposte complesse. Le prime devono trovarle gli imprenditori all’in-terno delle loro aziende. Hanno le qualità per riprendersi dalla botta? Assindustria del presidente Giuseppe Oriana — personag-gio non incline a nascondere la polvere sotto il tappeto — ha pochi dubbi: al netto delle responsabilità altrui, mancano i mana-ger per affrontare l’export e le aziende sono piccole e incapaci di rinnovarsi. La data è recente: aprile 2011, l’occasione la presen-tazione del rapporto 2010 sulle vendite all’estero. Uno studio che testimonia come la crisi venga da lontano e come la struttura imprenditoriale pistoiese non sia stata pron-ta a farvi fronte, per carenze proprie. Un dato per tutti, dal 1991 al 2008 (cioè prima della grande crisi) la quota pistoiese sull’ex-port nazionale si è dimezzata, passando dallo 0,6% allo 0,3%. Perché? Perché l’in-dustria pistoiese ha continuato a specializ-zarsi in settori considerati maturi mostrando una scarsissima capacità di innovazione. In sostanza, agli imprenditori pistoiesi, manca la capacità di pensare una strategia che affronti il mercato globale e la propensione a fare squadra. Elemento confermato di recente da Confartigianato: “Quella tra le imprese della metalmeccanica — afferma-no i dirigenti — è infatti una collaborazione ormai storicamente trasversale. Sono gli stessi imprenditori che hanno deciso in pro-prio di superare gli steccati politici e di rap-presentanza per ‘fare’. Ed è proprio sul ter-reno del ‘fare per le imprese’ che questa sinergia storica e lo stesso distretto ferrovia-rio possono costituire un esempio e un modello: di riferimento”.E’ un caso che proprio il settore della metal-meccanica sia quello che mostra la maggio-re ripresa? Le banche. In questa crisi hanno buttato tanti soldi, ma molti meno di quelli annunciati. Sono stati finanziamenti utilizza-ti per tamponare le falle nei conti nelle

Intervento/1Intervento/1

La filosofia delle aggregazionifra piccole banche

è largamente condivisanella teoria,

meno nella pratica:c’è troppa gelosia e paura di perdere poltrone e poteri

di Alberto Vivarelli*

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aLtro cHE criSi: piStoia Ha MoLtE potEnZiaLita’ Da SFrUttarE

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Ho un sogno per voi:la città ecologica

S ONO TORNATO a Pistoia l’ulti-ma sera del Blues, concerto di Lou Reed, costretto da un amico di Prato, fierissimo delle

proprie origini, che non riesce a fare a meno di una capatina alla kermesse musicale. Dove, malgrado la mia quasi inesistente cultura dei suoni contempora-nei, pretende gli faccia da Cicerone. O, piuttosto, da Virgilio, visto che per lui il rock è ogni volta un paradiso da conqui-stare. “Una festa così, non l’avremo mai, noi”, ripeteva ammirato e sconso-lato mentre una folla linda e chiacchiero-na sfiorava il nostro tavolino in strada, allo Storno. Dove l’amico ha preteso di cenare, memore del pasto che consu-mammo nel 2008 dopo il concerto di un Dylan avaro non solo di bis, ma perfino di un ciao con la mano alla folla.Quando all’indomani ho girato all’amico la mail che riportava in quattordicimila le presenze alle tre serate del Blues, l’ho presto sentito al telefono inveire contro un pugno di sindaci e almeno una dozzina di assessori alla cultura della sua/nostra città. “Trentadue anni di Blues e i risultati sono questi. Noi a Prato abbiamo sbaglia-to tutto”. E non gli ho detto che quaranta

giorni prima, un festival di nuovo conio “Dialoghi sull’uomo” aveva riunito nei teatri e sotto tende issate nelle piazze il meglio della filosofia e del Pensiero con-temporaneo. E in platea, folle estasiate. Parto da qui, dalla lunare serata di chiu-sura del trentaduesimo Blues e dalle invettive contro il proprio campanile dell’amico pratese troppo preso dalla musica contemporanea, per parlare

dell’economia di Pistoia. E per fare un’ammenda a me stesso. Quando — a fine 2003 o 2004 — lessi un’intervi-sta al sindaco Berti che annunciava nel turismo la prossima terza voce dell’eco-nomia pistoiese, lo presi per visiona-

rio. Sarà stato perché a me non piace l’idea di una Toscana di camerieri, pronta e prona al “prego, si accomodi” al visita-tore di turno. Quella è roba da altre terre. Terre, come la Romagna, avvezze per secoli al signorsì a Papi e cardinali. O come il Sud, passato di re in re, di con-quistatore in conquistatore e pronto a concedersi all’ultimo padrone straniero che scende dall’aereo e arriva valigie alla mano in albergo.La Toscana no. Non è così. È una terra bellissima, orgogliosa. E indipendente.

Sono o non sono nati qui i Comuni? Il toscano è faber fortunae suae, il futuro se lo costruisce da solo. Ed è soprattutto faber, uno che con le mani sa far di tutto. E infatti ad Arezzo lavora l’oro e a Firenze i pellami, a Prato la lana, a Empoli confeziona abiti, a Santa Croce concia le pelli, a Pontedera costruisce motocicli. E a Pistoia fabbrica treni e col-tiva piante. Che c’entra il turismo, con Pistoia? Oddio, bella è bella, ma chi se la fila, a mezza strada com’è tra Firenze e la torre che pende?Sbagliavo, distratto dalla città che ancora non circondava le bellezze del centro con i ristorantini che oggi t’imbarazzano nella scelta e con le piazze della Sala e dell’or-taggio allora presidiate dai freak senza tempo e cane-muniti che ti riportavano sì indietro negli anni, ma insomma non erano proprio la compagnia che speri di trovare all’ombra del leoncino. Non mi accorgevo che pian piano Pistoia si scrol-lava di dosso i retaggi di una cecità che l’aveva portata — quaranta o cinquant’an-ni prima — a imprigionare la Sala in un orrendo gabbione in cemento dove far esercitare al caldo e al coperto il com-mercio ai fruttivendoli, liberandoli dai banchi e dalle intemperie. Un luogo d’in-canto violentato da uno scatolone mura-to. Non ho fatto in tempo a vederlo, ma al racconto, capii perché da secoli, a Prato, i pistoiesi li definiamo piri.Oggi invece Pistoia è giustamente fiera

Le bellezze artistichee dei vivai costituiscono

un mercato in gradodi scippare visitatori

al resto della Toscana,Firenze compresa:

basta scrollarsi di dossol’atavica indolenza

di Piero Ceccatelli*

Vannucci mostra orgoglioso i propri giardi-ni e la meravigliosa serra. Tesi è avviato sulla stessa strada dell’emersione, dell’or-goglio. Per tutti, è utile osservare i cugini di Prato che hanno fornito i più grandi sti-listi, mai arrivando però a imporre una propria etichetta sul rovescio del cappotto. Il risultato è che le stoffe di livello medio-basso si fanno ovunque e buonanotte.Industria meccanica, vivai, turismo: scu-sandomi per l’omissione di altri protagoni-sti dello scenario economico, rilancio una mia vecchia idea, che forse potrebbe venir buona ora che ci si prepara a eleggere il nuovo sindaco: unire le tre risorse, farne un unico tesoro. Come? Imponendo Pistoia quale città ecologica, che offre alle altre città quanto serve a tener pulita l’aria dai vari smog che la infestano: treni, tram, metropolitane e alberi. E all’ingresso della città vorrei un bel cartello: “Pistoia città dell’aria pulita”, sempre che — e non ne dubito — l’uso di sostanze nei vivai con-senta di esibire serenamente tale defini-zione. E sarebbe bello se la domenica Pistoia riempisse del verde delle piante i suoi gioielli — piazza del Duomo, la Sala — attraendo turisti con la lusinga delle proprie bellezze monumentali e di quelle dei vivai per un mercato in grado di rubare turisti anche a Firenze. E magari se per qualche week end primaverile o settembri-no aprisse assieme tutti i vivai e lo stabili-mento di AnsaldoBreda. Per bearsi — e beare i visitatori — nei primi dello spettaco-lo delle piante in boccio o già adulte e pronte al trapianto e per realizzare nella seconda un suggestivo giro del mondo attraverso i treni in cantiere. Nessun’altra città raccoglie simili attrattive in pochi metri. Pistoia sì, ma sembra non accorgersene. Perché malgrado tutto le resta ancora la pancia piena. Perché soffre di un’atavica indolenza. O forse perché non ha superato del tutto quella vecchia cecità. Resta comunque una città che ha ancora tanto — quasi tutto — da dire e da inventarsi il proprio futuro. Al contrario di altre che il futuro sembrano averlo dietro le spalle.

*Responsabile redazione di Prato de La Nazione, per 8 anni capo redazione di Pistoia

reddito dispensato sottoforma di salari nel territorio. La piccola Pistoia rischia lo stri-tolamento dall’abbraccio con le capitali del Mezzogiorno — Napoli, Palermo e Reggio Calabria — dove Breda ha gli altri poli produttivi. Si è attesa l’Alta velocità come ultima chanche dopo che le altre commes-se hanno preso la via del sud. Il rischio è il progressivo rilascio di un’attività storica che riguarda non solo la fabbrica di via Ciliegiole ma un’intera cultura. Perché la Breda è stata scuola di coscienze (parla-mentari, sindaci, sindacalisti e spesso tutte e tre le cose assieme si sono formate lì) e scuola di un diffuso, ingegnoso arti-gianato praticato nelle fabbriche e fabbri-chette dell’indotto e perfino nelle case se è vero che anche il professionista avvezzo al bisturi, al forcipe o ai codici ha in casa una piccola officina ereditata magari dal padre o dal nonno passati dalla Breda. I vivai sono la Grande Meraviglia di Pistoia. Una meraviglia per gli occhi e per i libri contabili, di cui però appena a pochi chilo-metri di distanza non si ha percezione. Gli occhi devono sbirciare dall’autostrada i filari coltivati. Altrimenti devono bearsi inconsapevolmente dei boulevard parigini, dei giardini inglesi e tedeschi attrezzati con piante pistoiesi di cui nessuno rivelerà mai l’origine. Bello, sarebbe un marchio territoriale a sancire per sempre che le piante migliori si producono qui. Come il parmigiano reggiano si fa in quel quadrila-tero d’Emilia e basta. Invece, Pistoia con-tinua a produrre e a trapiantare felice, senza raccontarlo in giro. Vannino

del proprio centro. Del quale colpiscono i monumenti e lo stile delle viuzze che li collegano: rimaste tali e quali al Medioevo. Peccato, per certi inserti moderni in via Roma e via Cavour, ma pazienza. Ai tavo-lini, a pranzo, scorgi coppie di turisti scam-biarsi parole in ignoti linguaggi del Nord. Sbirci la loro Lonely planet e li scopri dane-si, norvegesi, olandesi, fiamminghi, ma anche cechi, polacchi, ucraini. Di norma, sono coltissimi, sanno tutto della Toscana monumentale e arrivano a Pistoia per approfondire. E qui semmai casca l’asino. Ricordo a fine inverno 2006 una coppia di argentini chiedere alla pasticceria La Sala dove fosse un Internet point aperto. Smarrimento generale. Mi offrii di ospitarli per il tempo di una mail. Lui domandò alla signora Olga dietro il bancone: Confiença? Posso fidarmi? Lei annui, il señor fu orgo-glioso, poco dopo, di sedere alla scrivania del “redator” e di spedire mail dall’indirizzo de La Nazione, che echeggiava il suo gior-nale preferito in patria: La Nacion. Resta però che gli internet point erano sbarrati a pranzo. Non si fa così. E non si tengono all’ingresso della città quei cartelli anni Sessanta coi telefoni degli hotel scritti su pecette, che intanto i numeri sono cambia-ti ma i cartelli no, sono rimasti inutili monu-menti a se stessi. Migliorerà, visto che sul turismo si concentrano ormai gli sforzi di quasi tutte le associazioni di categoria, industriali compresi. Il centro, preda serale della movida composta da indigeni, turisti dal mondo e immigrati per divertimento dai centri vicini, rischia di distogliere l’occhio da ciò che accadrà l’anno prossimo, quan-do il centro perderà nell’ospedale uno dei suoi grandi “attrattori per necessità” e uno dei baricentri della città si sposterà oltre il raccordo. E rischia di far dimenticare le prime due voci dell’economia pistoiese: l’industria e il vivaismo. Non voglio docu-mentarmi sugli ultimi dati della congiuntura trimestrale, né far leva sui dati che parlano di primo posto in regione per cassa integra-zione, preferendo affidarmi a ricordi e sen-sazioni.I primi dicono che AnsaldoBreda è diventa-ta un pezzo di Sud trapiantato in Toscana, con la produzione che ormai non copre il

Con industriae vivaismo,il turismo

è la terza forzadell’economia

locale:unite le risorseper un unico

tesoro

Intervento/2Intervento/2

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L’antica qualità degli Anni Settanta è ormai diventata un peso sempre più difficile da sopportare. E si vedono poche speranze di rilancio visto la miriade di aziende sotto i dieci addetti che non stanno al passo coi tempi: piccolo non è (più) bello

La toScana non E’ piU’ tErra Di aVanGUarDia EconoMica

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C’era una volta la Regione d’oro

L A CRISI così violenta che ha colpito il mondo sta cercando una sua evoluzione positiva. Che in ciascun paese ha trova-

to una propria via autonoma: la stessa Europa reagisce con quantità e velocità diverse. La Germania corre, altri arranca-no, l’Italia è sostanzialmente in stagnazio-ne. E’ vero che qualcosa si muove, ma poco e male. A fare da modesta locomoti-va è l’export, ma nello stesso tempo si stanno perdendo quote di mercato (il che significa che siamo dipendenti dalla domanda estera e non in espansione con i nostri prodotti). La domanda interna lan-gue, i consumi non riprendono, i mutui sono difficili da pagare, le piccole imprese non reggono alla forbice banche fisco. Nel frattempo il debito statale continua a crescere, si fa più ardua la possibilità di abbattere il deficit fino a zero, per poi cominciare con un surplus che produca la lenta riduzione del servizio del debito. La crisi greca minaccia di fatto l’Italia e le agenzie di rating avvisano di essere pron-te a ridefinire le previsioni in senso nega-tivo, in buona compagnia con Belgio e Spagna. In Toscana le cose vanno ovviamente nella stessa direzione, ma con una aggra-

vante specifica. Sembra che questa regione stia uscendo dal piccolo gruppo di regioni all’avanguardia economica, alla quale apparteneva. Una situazione che non si è creata oggi o negli ultimi tre anni, ma che certamente sembra accelerare. Ed è difficile un riallineamento, almeno per ora, poiché quella ormai antica quali-tà degli anni Settanta (Piccolo è bello) è diventata un peso da sopportare. Con la miriade di aziende sotto i dieci addetti, anche nell’industria, non si riesce a fare massa critica per reggere il credito, l’in-ternazionalizzazione, la ricerca, il marke-ting, la finanza azien-dale, l’innovazione tecnologica. E’ un fatto che segna in modo irreversibile una grande conquista dell’industria italia-na: i distretti. La dozzina presente in Toscana, come d’altra parte quelli nel resto del paese, da tempo non funziona-no come un unico polmone, un unico respiro: anche quelli che vanno bene, in

realtà vedono evidenti differenze al pro-prio interno. Ormai contano le imprese, anche quando un settore tira molto: è il caso dell’elettronica in Toscana, solo per citarne uno. In più è bene evidente che sono le aziende grandi a approfittare meglio della ripresa, mentre un tempo non era così. Queste infatti nell’anno passato hanno segnato un progresso del

13 per cento, lon-tano, lontanissi-mo dei risultati modesti o negati-vi delle piccole. Quindi c’è una mitologia che, dopo essersi affievolita, spari-sce del tutto, e con essa la con-vinzione che la flessibilità della piccola impresa fosse la miglior

arma per subire meno le crisi e per recu-perare più in fretta i postumi di quelle. La sottocapitalizzazione, la bassa interna-zionalizzazione, la poca ricerca, l’orga-nizzazione non strutturata segnano dei punti di svantaggio difficili da annullare o

Università, qualche Asl,le istituzioni più importanti

e la trentina di industriesopra i 250 addetti

non riescono a fare da traino al mondo produttivo del nostro territorio.

E le banche cooperativenon trovano un destino

comune per parossisticheostilità di campanile

di Francesco Colonna*

usa per avere un tocco di modernità, ma nella sostanza lo zelo è impiegato tutto nell’assicurarsi che nulla sia coordinato, valutato collettivamente e soprattutto deci-so con senso comune. Il semplice ed evi-dente fatto che il capoluogo non goda di un riconoscimento effettivo del suo ruolo che gli competerebbe, anche nell’interesse comune, è solo un esempio. Ciascuna area cerca lo sviluppo in solitudine, con strategie e iniziative proprie, pur essendo collettivamente una regione di circa tre milioni e mezzo di abitanti: una media grande città nel mondo globalizzato.La contraddizione è nell’immaginare grandi destini pensando e agendo in piccolo. Ma poiché in fondo, grazie alla natura, alla storia, all’arte, alla cucina le cose poi non vanno così male, non c’è grande spinta a rivoluzionare spiriti e situazioni. Le classifi-che vedono le città toscane sempre dalle parti dove la vita è considerata più degna. Vere crisi epocali non se ne vedono, chi economicamente cede, lo fa in silenzio date le dimensioni, e tutto procede in apparente serenità. Qualche proclama ogni tanto, in attesa che le cose si riprendano da sole.Forse, alla fine, è questa la felicità.

* Editorialista Corriere Fiorentino

to. Quindi la maggiore “comprensione” delle banche più piccole si riduce in un mondo così complesso. Per non parlare della gestione patrimoni che, in una regio-ne “liquida” come la Toscana, ha visto un numero incredibile di istituti finanziari avventarsi su questo tesoro facendo con-correnza pesante ai piccoli.Si deve poi riconoscere che l’economia e la finanza di una regione, di un qualsiasi terri-torio non possono certo essere diversi sociologicamente dalla natura dei suoi abi-tanti. Qui l’espressione “fare sistema” si

ridurre. D’altra parte ormai sono molti anni che le imprese regionali di una qualche dimensione sono i grandi comuni, le uni-versità, la Regione, qualche Asl. Industrie sopra i 250 addetti sono una trentina, non certo sufficienti per fare da traino al mondo produttivo. E non si notano segni che indi-chino una inversione di tendenza: nulla si agglomera, nulla cresce, nella regione, per via di acquisizioni. Un tema che riguarda anche le banche, fatte salve le dovute differenze. Il lungo dibattito sulla natura della banca, se piccola per stare accanto ai piccoli di piccoli territori, o se grande per avere la forza per contra-stare altre grandi, è stata risolta dal merca-to: la rete delle Casse è stata smantellata con acquisizioni di istituti quasi sempre esterni alla Toscana. Dopo un tentativo poco brillante di cercare un destino comune, ma le ostilità di campanile arrivano in Toscana a livelli parossistici, tutto è sfumato perché in molti hanno scoperto che valeva molto di più avere fondazioni ricche che gestire banche in prima persona. E un altro mito se n’è andato. Bisogna anche dire che la conoscenza del territorio, vera chiave di lettura in favore dei piccoli istituti, di fatto è sminuita da mille regole europee che fissa-no limiti e parametri nella gestione del credi-

Contrariamenteal passato,

sono le impreseo le grandi aziende

ad approfittare della ripresa:

lo scorso annohanno segnatoun progresso

del 13 per cento,lontanissimodai risultati

modesti o negativi

delle realtà minori

Intervento/3Intervento/3

provoca. Il suo lavoro è fatto di divertimento e indignazione. La stessa indignazione che leggi nei suoi reportage dall’Afghanistan per PeaceReporter o nei suoi libri, la stessa uma-nità della collaborazione con Emergency. Anche nelle sue vignette c’è tutto questo. C’è il tema dei diritti dei lavoratori, l’immigrazione, la

guerra, non solo la politica. Sono ritratti del nostro Paese, dove almeno per qualche secondo ci pren-diamo il lusso di riderci su. Quanto ci sia di divertimen-to e quanto di indignazione è difficile dirlo, “è una bella

miscela, non saprei distinguere le percentuali. Certo, è una fortuna potersi incazzare con il sorriso”.Chiariamo subito. Nessun perbenismo osi cen-surarlo, perché per Vauro la satira è “il gusto della presa per il culo”. E non ci sono altre parole per dirlo. Nessuno provi nemmeno a stuzzicarlo sull’idea che la satira possa o debba avere dei limiti, “ma certo — ti risponde

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Annozero l’ha consacrato come personaggio televisivoma lui è vignettista, giornalista e scrittore.“La satira ha dei limiti? Certo, tutti quelli che deve superare”

Hino SUL FoGLio, matita in mano e occhiali sulla punta del naso, Vauro fa simpatia al solo guardarlo. E se a qualcuno non fa simpatia va bene lo

stesso perché in fondo non esiste satira senza dissenso. Sarà mica un caso che le sue vignette più geniali abbiano scatenato polemi-che, e non solo.Nato a Pistoia nel 1955, Vauro Senesi vive a Roma dal ’77, “ormai si può dire che ho vissuto qui metà della mia vita”. Della nostra città ha “un bellissimo ricor-do, era molto vivace, ho ancora tanti amici”. Ci torna talvolta “mordi e fuggi, ma devo ammettere che ogni tanto mi manca”. Di certo non ha dimenticato le sue origini che tradisce con un accento orgogliosa-mente toscano anche negli studi della Rai.La trasmissione Annozero l’ha consacrato come personaggio televisivo ma Vauro è anzi-tutto vignettista, giornalista e scrittore. E sì, una persona “seria” nonostante le risate che

C

Vauro SenesiLa peggior censuraè l’autocensura

TRA RISATE E INDIGNAZIONE

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PersonaggiPersonaggi

Alessandra ErriquezGiornalista

Polemiche, querelee sospensioni

non lo fermano:“Non mi sono mai

pentito del mio lavoro”

Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Satyricon, Linus, L’Echo del savanes, El Jueves. Non saprebbe dire se la satira venga accolta meglio in Italia o all’estero, “tuttavia credo che l’Italia abbia, uso un’espressione che non tanto mi piace, un ottimo parco di disegnatori satirici che all’estero ci invidiano. Ma al tempo stesso ha una pessima classe politica che è molto affetta da Super-io, per cui questa presa per il culo dà ancora più gusto”. Se qualcuno si sta chiedendo come si diventa Vauro, è bene fermarlo subito. È talento. Basti sapere che ha iniziato da bambino a temperare fine la sua matita, a scuola. “Disegnavo vignette sulla maestra e sui compagni. Ho fatto la Divina comme-dia satirica sull’intera classe in seconda elementare”.Il nome è venuto fuori con l’incontro con Pino Zac: “È stato molto bello. Agli inizi era venuto in mente a me e a Mannelli di fare i vignettisti, in un periodo in cui questo mestiere ancora non esisteva. Allora tutti e due andavamo a Milano, naturalmente in

treno, e dormivamo in stazione perché — come si dice — non avevamo una breccola. Andavamo in giro per le reda-zioni e capitammo a Il Sale, il predeces-sore de Il Male. Pino Zac ci prese subito, anzi ci mise immediatamente al tavolo a lavorare per il numero successivo. Gli

devo moltissimo, è stato un maestro non tanto nel disegno quanto perché mi ha insegnato quel che dicevo prima, che la censura peggiore è l’autocensura”. Sotto i suoi raggi pas-sano tutti, da Berlusco-

ni a Bersani, dalla Santanché a D’Alema, senza risparmiarsi Fiat e Papa. E ci sono alcuni che tornano come i perso-naggi di una soap, gioisci e ti arrabbi con loro, ansimi per sapere come andrà a finire. Vedi le vignette in casa Rutelli, “la sua saga — dice — è finita con Annozero. Finalmente consumerà”. Non c’è un per-sonaggio che ami (disegnare, s’intende) “anche perché negli ultimi 17 anni ho dovuto disegnare personaggi che non mi piacciono per niente”. Diciassette anni non sono pochi, ma

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— quelli che deve superare!”.Ciò che più odia della censura è l’auto-censura. Infatti non si è mai pentito di una vignetta. “Mai — dice — risposta secca e facile”. Non troppo facile per uno che è stato querelato (poi assolto) nel ‘94, con-dannato per vilipendio alla religione catto-lica nel ‘97, sospeso dalla Rai nel 2009.All’ultima edizione di Annozero ha lavora-to per mesi senza contratto, ottenendo lo stipendio a due settimane dalla chiusura della trasmissione. Eppure ha continuato a sfornare vignette senza batter ciglio (salvo dedicarne qualcuna gustosa all’ex direttore generale Mauro Masi). E l’ha fatto “per diversi motivi. Primo, per l’amicizia che mi lega a Michele Santoro, lavoriamo insieme da così tanti anni che il nostro rapporto va ben oltre la collabora-zione professionale. L’ho fatto poi perché ritengo che sia giusto difendere uno spa-zio di informazione libera sulla televisione pubblica, che è quello che abbiamo fatto con Annozero, dunque una motivazione più civile che politica. E soprattutto per-ché la satira non deve richiedere permes-si, la libertà bisogna prendersela e questo ha certamente un prezzo da pagare. Lavorare senza contratto è stato il mio”. Le sue vignette hanno deliziato i lettori de

ancor meno in confronto a quando la satira è esplosa, sulle pagine de Il Male, fondato proprio da Vauro e Pino Zac. Eppure in tanti anni “la satira non è cambiata moltissimo nel tempo. Infatti quando io e Vincino abbia-mo fatto la redazione dell’Oltretomba abbia-mo ripescato vecchie vignette di Paz, Angese, Reiser e Zac. Lì abbiamo constata-to che poco è mutato perché l’arroganza del potere è sempre la stessa e siccome questo

è l’obiettivo della satira anch’essa non è cambiata”. Come esempio sceglie Andreotti (a proposito di personaggi che riemergono, come nelle migliori soap), “lui ha affondato le radici nel tempo, e non solo nel tempo. L’importante è che ci sia sem-pre quella verve necessaria”. Non ha mai desiderato la vignetta d’altri. “Ognuno ha il suo linguaggio, il suo modo di raccontare. Bucchi, Ellekappa, Altan, Vincino, alcune loro creazioni sono molto belle ma ognuno fa il suo. A volte però è capitato che abbiamo fatto la stessa

vignetta per-ché la satira è

un umore che gira nell’aria quindi può succedere che capti la stessa idea”. Quel che gira nell’aria adesso è il ritorno de Il Male, annunciato già lo scorso anno. Vauro e Vincino, truccati da morti viventi, hanno vagato fuori da Montecitorio per promuovere la “resurrezione” della rivista satirica, provocando i politici (“Tornato Craxi, torniamo anche noi”) e preti e suore a una “benedizione de Il Male”. Quando torna? “Si sa, ma non te lo dico”. L’unica forma di autocensura che gli concediamo.

“La satira non cambianel tempo perché

l’arroganza del potereè sempre la stessa.

Ciò che contaè la libertà: va presaa qualunque prezzo”

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Vauro Senesi, 56 anni, uno dei vignettisti più conosciuti. Collabora con la ONG EmergencyAllievo di Pino Zac, la sua popolarità è esplosa partecipando ad Annozero di SantoroUna delle sue popolari vignette pubblicatesu alcune testate italiane e straniere

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ONDATO nel 1977 da Pino Zac con altri grandi nomi tra cui Vauro Senesi, Vincino, Riccardo Mannelli, Jacopo Fo, Il Male è una storica rivi-sta satirica. Storiche sono infatti le sue false prime pagine di importanti quotidiani. Primi fra tutti, i falsi di Paese Sera, Il Giorno e La

Stampa che riportavano la notizia dell’arresto di Ugo Tognazzi perché capo delle Brigate rosse. Con tanto di foto dell’attore, complice dello scher-zo, ammanettato fra due carabinieri. La notizia si diffuse rapidamente e per un po’ fu un vero scoop.Il Male conteneva poi articoli satirici, interviste divertenti (vere o false), e fumetti. Il suo scopo era sorprendere ogni settimana e non mancarono sequestri e processi, alcuni dei suoi autori firmavano infatti con uno pseudonimo, come Jacopo Fo che sulle pagine de Il Male era Karen. Dopo anni di interruzione, la rivista sta per tornare in edicola grazie alla collaborazione tra Vauro e Vincino. L’annuncio è stato dato a maggio dello scorso anno e poi a luglio con un lancio sul sito Ilmaleagain.it dove si trovano anticipazioni, video e capolavori del passato.

Stavolta non è un falso: Il Male sta per tornareL’ANNUNCIO

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grossomodo, tra tutti gli approdi conosciuti tra la mazurka e la techno. Per la sua musica polimorfa, delineatasi lentamente attraver-sando il mare magnum dei mondi possibili,

non per caso il termine più calzante è proprio world music, musica del mondo. È qualcosa che per costi-tuzione non può fare a meno delle proprie radici, delle canzoni popolari e dei balli da sala, ma che

incamera al contempo le fattezze della can-zone d’autore, della musica rock, del jazz. Motivo per cui Riccardo un giorno tiene una lezione di musica per duemila studenti all’Au-

ESTIERI DA NON intraprendere qualora non si ami la relazione e non si abbia voglia di guidare, numero 1: il musicista.

Questo, a suo tempo — abbondantemente para-frasato —, un precetto basilare firmato Riccardo Tesi, esemplare del senso di sintesi dell’uomo. Trent’anni di carriera da musicista e venti dischi, pioniere e virtuoso dell’organetto diatonico, Riccardo il pistoiese è tra coloro che hanno “aperto il ventaglio forzando i limiti tecnici e stilistici dello strumento”, traghettandolo,

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Trent’anni di carriera, venti dischie la direzione artistica del festival “Sentieri acustici”. Ha collaboratocon molti grandi artisti:da Ivano Fossati a Patrick Vaillant.È maestro nella fusione di stili diversi

Riccardo TesiPortatore sanodi world music

Fabrizio De Andrèvolle il suo assolo

in Smisurata preghiera,nell’album Anime salve:

quella, fu la svolta

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Riccardo Tesi, classe 1956,ha esordito nel 1978 a fianco

dell’indimenticabile Caterina Bueno.Nel tempo ha stretto legami con artisti

come Ivano Fossati, Fabrizio De André,Ornella Vanoni, Gianmaria Testa,Patrick Vaillant e Gianluigi Testa

ditorium di Roma, su invito di Carmen Consoli, il giorno dopo sta in Australia con Maurizio Geri, Claudio Carboni e Gigi Biolcati, l’attuale incarnazione del proget-to Banditaliana, fulcro attorno a cui orbita una decina di progetti-satellite paralleli (come i Samurai, quintetto di organettisti transnazionali con Markku Lepistö, Didier Laloy, Bruno Le Tron e David Munnelly), per poi rifugiarsi sull’Appennino di casa nostra, dove da una decina d’anni cura la direzione artistica del più importante festi-val world del territorio, “Sentieri acustici”. Da pochissimo in circolazione con Madreperla, quarto album firmato Banditaliana, Riccardo continua a non

prendere mai un concerto sottogamba: anche dopo trent’anni e passa di carrie-ra, anche nella situazione più rilassata, “affrontando ogni concerto come se fosse l’ultimo”.

Bella scopertaRiccardo fu disvelato al mondo dei più per mano di san Fabrizio De André, che lo volle con sé in calce a “Smisurata pre-ghiera”, ultimo pezzo del suo ultimo disco, Anime salve, 1996, parto doppio con Ivano Fossati. Là si ascolta un suo assolo appassionato e discreto, in punta di polpastrello, su una mareggiata di archi; Tesi fu scelto in extremis al posto

di Dino Saluzzi, superstar del bandoneón argentino, e fu la svolta. Per Riccardo quella collaborazione si traduce oggi “in termini di autostima”, ma più radicato e fruttuoso, in prospettiva, fu il lavoro con Fossati, che si sarebbe concretizzato a più riprese negli anni, portando con sé ulteriori frequentazioni virtuose come quella con Stefano Melone; o, per altre ragioni, quello con il mandolinista Patrick Vaillant. Dopo aver suonato con molti dei suoi musicisti prediletti, Riccardo si cro-giola in sogni di collaborazione con Marianne Faithfull, Paul Simon, il con-trabbassista Renaud Garcia-Fons (“forse preferirei ascoltarlo: troppo grande per

Lorenzo MaffucciGiornalista

Foto Fabrizio Antonelli

ArtistiArtisti

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PPURE, EPPURE: le radici profonde della formazione di Riccardo, a sorpresa, affondano nel rock: “A 14 anni ascoltavo quasi esclusiva-mente i Jethro Tull insieme a un amico carissimo, Paolo Zampini, oggi flautista di Morricone. Ho preso a interessarmi di musica popolare

più avanti, contestualmente all’incontro con Sergio Landini, una delle personalità della cultura pistoiese: aveva una splendida collezione di dischi e ci trovavamo sul Globo, punto di scambio della cultura cittadina. Iniziai a suonare con Maurizio Ferretti e Franco Pacini, un trio di chitarre: sono stati i primi esperimenti che abbiamo fatto sulla musica popolare italiana”. Con questo trio, nell’inverno ‘77-78, Riccardo tiene un concerto nel contesto improbabile della discoteca “Panda” di Pistoia: “Arriva Landini con la musicista ed etnomusicologa Caterina Bueno, il cui gruppo si era appena sciolto; cercava dei musicisti che la accompagnassero, è venuta a sentirci e ci ha presi in blocco. Così siam passati da essere un gruppo che aveva fatto tre concerti in due case del popolo e una discoteca con una presenza media di venti persone a suonare al Palalido di Milano, per la festa della donna, davanti a 5mila persone: uno shock niente male. Mi son trovato immediatamente a girare per l’Europa: in Francia per il Primo maggio del 1978, in Svizzera, in Germania. Cominciavo a incrociare gli artisti che amavo, di cui avevo i dischi; mi sembrava di vivere un sogno, ma allo stesso tempo ero ben cosciente di avere tanta strada ancora da percorrere”.

Tutto nacque con un trio di chitarreDAL ROCK ALLA MUSICA POPOLARE

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le di partenza: noi partiamo svantaggiati, perché nes-suno sa cos’è la musica toscana”. E non solo: “Il nostro paese sta vivendo una sorta di depressione, e ci sono tutte

le ragioni: specialmente se parliamo di politica culturale credo che abbiamo toccato il minimo storico. Vedo le nuove generazioni completamente disin-teressate a tutto ciò che sia cultura. I cantanti che finiscono in classifica sono quelli che escono dai format televisivi, che esaltano il non-talento, ma non nel senso

punk del termine: ora è veramente tutto pilotato dall’industria, e trovo che sia deprimente. Poche settimane fa siamo stati a suonare in Austria, e avevamo un

pubblico che andava dai giova-ni fino alle perso-ne di una certa età; tutti hanno l’abitudine di usci-re di casa, pagare un biglietto e assi-stere a un con-

certo, cosa che da noi si sta perdendo. Vedo che le nostre nuove generazioni sono disinteressate alla cultura, in gene-rale, e tra gli effetti si manifesta anche un grosso calo nei confronti delle presenza ai

concerti. Credo che sia il risultato di anni di televisione commerciale”.

Sintesi e pan-musica“Quando ho cominciato, i musicisti folk suonavano solo folk, i jazzisti solo jazz, e ognuno era arroccato sulla propria musica; piano piano, negli anni, questi confini si sono sciolti e c’è stata final-mente osmosi tra un genere e l’altro. È diventato un bisogno vitale quello di accostarsi ad altri stili, ad altri musicisti, a collaborazioni con pensieri musicali diversi. Per molti sono una sorta di por-tatore sano di world music: le persone che si rivolgono a me sanno di poter trovare un certo tipo di mondo, ma sanno anche quanto io sia disposto a individuare gli strumenti per uscirne. Ho sempre cercato di dotarmi del bagaglio necessario per dialogare con gli altri: ho dovuto faticosamente imparare a legge-re la musica e a scriverla, ho studiato le basi dell’armonia. Cerco sempre di met-termi in comunicazione. È bello trovarsi a metà strada, in una zona di nessuno dove non si suona la musica di uno né dell’altro, ma insieme; con due pensieri diversi si riesce a generare una terza cosa...”.

“L’organetto diatonicomi colpì per l’immagine

allegra e colorata.Metteva a disposizioneun sacco di possibilità:

là ho trovato la mia strada”

suonarci insieme”), si cruccia di aver man-cato per un pelo la collaborazione con Vinicio Capossela e Marc Ribot, sfiorati ai tempi del Ballo di San Vito, osserva rispet-to e fratellanza nei confronti di Ry Cooder e del suo modus operandi, ha un ideale babbo putativo in Francesco Giannattasio del Canzoniere del Lazio. Urge qualche passo indietro.

Un passo dopo l’altroQualunque approccio a Riccardo, per forza di cose, non può che evolvere intor-no all’organetto diatonico, strumento per cui, grazie al suo traino determinante, si è aggregata negli ultimi anni una vera e propria scuola di giovani musicisti (nomi di punta: Filippo Gambetta e Simone Bottasso). Lo strumento è vagamente assimilabile a una fisarmonica, con la par-ticolarità di emettere un gruppo di suoni aprendone il mantice, e un gruppo diverso chiudendolo. Qualcosa che si avvicina al respiro, qualcosa di molto umano, ipnoti-co, generatore di suono potenzialmente infinito. “Quando ho cominciato — ram-menta Tesi — non ero nemmeno appas-sionato di fisarmonica. Dell’organetto mi

colpiva l’immagine allegra, colorata; e metteva a disposizione un sacco di possi-bilità, molte di più di quelle che pensassi. Là ho trovato la mia strada e ho lasciato perdere tutto il resto, cercando di elimina-re tutto ciò che risultasse un ostacolo tra me e lo strumento. Oggi mi rendo conto che niente è stato programmato: è un po’ tutto successo, una cosa dopo l’altra. Ogni volta che vedevo una strada che si apriva davanti a me la imboccavo, mosso dall’entusiasmo e dalla curiosità”. Dunque la simbiosi tra uomo e oggetto non deve far passare di mente il suo fondamento, un discorso molto più ampio sulla musica. Quella di Riccardo, già potenzialmente in epoca di bilanci, rivela invece pieghe inatte-se di anno in anno, di progetto in progetto.

Tradizioni e distanza“L’incontro con la musica popolare — riprende Riccardo — è stata una cosa di

pelle: mi ha colpito prima di tutto il suono, estrema-mente innovativo per me, abituato ad ascoltare altro. L’ho

percepita come una musica molto fre-sca, che sentivo vera. Mi piacevano queste voci poco educate, i suoni, i ritmi: tutto era nuovo. In breve mi son reso conto che quando vivi in una picco-la città sembra che quello che c’è fuori sia sempre più bello e interessante, e invece non è sempre così: fare tournée nei folk club inglesi, che per me erano un mito, mi è servito a ridimensionarli. Lì ho conosciuto Martin Carthy (quello che ha insegnato “Scarborough Fair” a Paul Simon), e chiaramente mi ha fatto piacere, ma da un punto di vista artisti-co non ho trovato una scena in assoluto più interessante della nostra. Ciò mi ha dato molta fiducia nell’andare a recupe-rare le nostre tradizioni. Quando lavori sulla musica toscana, che è una delle parti della mia ricerca, non è come pro-porre musica napoletana, che ha comunque una risonanza internaziona-

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Le mani di Tesi sulla testiera dell’organetto diatonico, strumento di cui l’artista pistoiese è, da trent’anni, il più importante interprete e compositore italianoUn ritratto in…gioventùL’artista in concerto e…nel salotto di casa

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É la responsabile della sezionedi Botanica del Museo di storia naturale di Firenze:con 5 milioni di esemplari,la collezione più ricca d’Italiae una delle prime 15 al mondo

Chiara NepiHo colto un fiore per te(e ora lo conservo)

Marta QuiliciIl Tirreno

cui uno, tra poco, andrà in pensione”.L’Erbario di Firenze accoglie la più grande collezione di piante e fiori essiccati in Italia ed è tra i primi quindici erbari più importanti al mondo. Accoglie cam-pioni provenienti da tutto il mondo e risa-lenti persino al 1500. Tra questi ce ne sono alcuni da guinness dei primati: un esempio è l’Amorphophallus tita-num, un fiore che può raggiungere addirittura l’altezza di tre metri e arrivare a due metri di diametro. “Tanto per rendere un’idea — riprende Chiara Nepi — è una specie di calla gigante. È il fiore più grande del mondo e vive nell’Asia sudorientale. Fu scoperto e descritto per la prima volta dal botanico fiorentino Odoardo Beccari negli anni

Settanta del 1800 che ne essiccò un cam-pione e lo portò in Italia. Adesso il campio-ne è conservato nel nostro museo. La cosa particolare di questo fiore — conti-nua — è l’odore, tutt’altro che gradevole. L’infiorescenza, infatti, per attirare un tipo di mosca che ha la funzione di impollinar-lo, emana un odore simile a quello della

01 L’Amorphophallus titanum è una delle perle del museodi storia naturale di Firenze: è il più grande fiore del mondo,può raggiungere tre metri d’altezza e due di diametro.Cresce nell’Asia sudorientale

a innaMorati Si E’ Fatto decine di volte: cogliere una mar-gherita, regalarla all’innamorato e conservarla poi tra le pagine di

un libro per custodirne il ricordo.Alla sezione di botanica del museo di storia naturale di Firenze, questo, è moltiplicato per cinque milioni. È, infatti, il numero degli esemplari di piante, foglie e fiori fatti secca-re e custoditi nella carta sugli scaffali del museo per essere poi studiati, analizzati, mostrati. Si tratta della collezione più gran-de e ricca d’Italia, ma adesso lamenta una carenza di personale e un calo di fondi che ne impediscono la valorizzazione e ne ren-dono più difficile la fruizione. A capo del museo, una donna, Chiara Nepi, pistoiese, mamma di due ragazzi: Donata, 22 anni, laureanda in Lettere moderne, e Luca, 18 anni, studente al liceo scientifico. Moglie di Marco Cei, agronomo e paesaggista pisto-iese.“Quando sono entrata per la prima volta nel museo, nell’88, eravamo in 14 a lavo-rarci — spiega —. Adesso siamo solo 4, di

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HIARA NEPI E’ NATA a Pistoia il 10 maggio 1958. Ha conseguito il diploma di maturità scientifica nel 1977 e la laurea in scienze agrarie presso l’Università di Firenze nel 1984 con il massimo dei voti e la lode. Ottiene il titolo di dottore di ricerca in biosistematica vegetale dal

1985 al 1988. È conservatore dal 1988 del Museo botanico (oggi sezione di botanica del Museo di storia naturale dell’Università di Firenze) dopo aver vinto un concorso pubblico. È responsabile della sezione di botanica da settembre 2004 al dicembre 2007 e, di nuovo, a partire da ottobre 2010. È membro del comitato editoriale della rivista Webbia del dipartimento di biologia evoluzionistica dell’Università di Firenze e co-responsa-bile editoriale della rubrica Notulae alla checklist della flora vascolare italiana (in precedenza Segnalazioni floristiche italiane) per la rivista Informatore botanico italiano. Si occupa della conservazione, gestione e studio delle collezioni appartenenti alla sezione di botanica, compreso la catalogazione, inventariazione e digitalizzazione dell’archivio dei nuovi campioni. Si è occupata della raffigurazione delle piante nell’arte (identifi-cazione e significato). Svolge attività seminariali nell’ambito dei corsi di museologia naturalistica delle Università di Firenze e Siena. Ha seguito, come correlatore, tesi di argomento museologico nell’ambito delle collezioni della sezione. Cura numerose mostre sia all’interno della sezione che esterne.

Tra ricerche e seminari, una vita tinta di verdeBIOGRAFIA

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Foto Fabrizio Antonelli

A L MUSEO BOTANICO DI FIRENZE non ci sono soltanto piante e fiori essiccati, ma anche pezzi artistici come statue di cera e dipinti di nature morte. Esattamente come per quelle anatomiche della Specola, anche le cere

del Museo botanico riproducono con estrema precisione ogni dettaglio dei loro modelli reali. Tra piante a grandezza naturale e preparati anatomici ingranditi sono quasi 200 i pezzi conservati; 184 sono le riproduzioni di intere piante, soprattutto di specie esotiche. I preparati anatomici, invece, sono 38 e riguardano l’anatomia, la fisiologia e la patolo-gia delle piante analizzate. Quella fiorentina è l’unica collezione al mondo di cere raffiguranti fiori e piante: l’unica così precisa e ricca. “Ci sono anche altre collezioni — spiega Chiara Nepi —, come a esempio quella di Parigi, ma non sono altrettanto precise e dettagliate come le nostre”. Come quelle anatomiche della Specola, anche le cere del Museo botanico sono state realizzate tra la seconda metà del XVIII secolo e la fine del XIX presso l’officina di cero-plastica dell’imperiale e regio Museo di Fisica e Storia Naturale da alcuni ceraioli come Susini, Calenzuoli, Calamai e Tortori. Accanto ai modelli di piante, anche 290 rappresentazioni di frutti realizzate in materiale vario (cera, cartape-sta, marmo, ecc.). Il museo accoglie anche una collezione di nature morte di Bartolomeo Bimbi. “Una ricchezza non solo a livello scientifico — spiega la Nepi —, ma anche artistico che però avrebbe bisogno di fondi e risorse: se avessero una collezione così, in Francia ci farebbero subito un museo. Invece noi non riusciamo a valorizzarli a sufficienza, senza parlare che alcuni avrebbero bisogno di un urgente restauro”.

Creazioni di cera: piante, frutta e nature morte (ma preziosissime)ARTE NEL MUSEO

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carne marcia, in putrefazione. Qualche anno fa l’orto botanico di Firenze riuscì a farlo fiorire e fu un evento spettacolare”.Il centro accoglie molte collezioni, tra cui quella del primo erbario “sistematico” al mondo, il primo cioè, a seguire una classifi-cazione scientifica delle piante. È l’erbario di un medico aretino, Andrea Cesalpino, costituito nel 1563 e composto da 266 fogli con 768 specie dispo-ste secondo un preciso scientifico. Il paragone con i cam-pioni antichi permette di capire i cambiamenti della vegetazione nelle varie zone del pianeta: “Tra quelle conser-vate al museo non ci sono piante antiche completamente estinte — spiega la Nepi —, ma comprende molti campioni di piante che secoli fa crescevano in certe zone e che adesso invece non vi crescono più. Questo è il caso, a esempio, di una specie di mirtillo che una volta viveva nelle zone umide della Toscana e che, a causa delle opere di bonifica che hanno alterato le con-dizioni di questi ambienti, adesso non vi cresce più. Il foglio d’erbario, che risale al 1861, è l’ultima testimonianza della presen-za di questa pianta in Toscana”.Tante, però, sono anche le nuove scoperte: “Ogni anno vengono scoperte molte piante nuove, anche in Italia: vengono conservate negli erbari e classificate come typus”.La sezione di Botanica del Museo di scien-ze naturali di Firenze è composta da 12 sale su due piani, tutte completamente piene di scaffali e fascicoli in cui sono custodite le piante essiccate. “La prima

volta che entrai qua — ricorda la Nepi — era durante il mio dottorato di ricerca: fu un’emozione incredibile. Era come entrare nella cattedrale della botanica. È un mondo un po’ strano, forse, ma affasci-nante”. Ma come è arrivata Chiara Nepi a essere

responsabile della sezione di botanica del Museo di storia naturale di Firenze? Nel percorso che da studentessa del liceo scientifico di Pistoia l’ha portata fino agli erbari fiorentini, anche Cupido, all’inizio, c’ha messo lo zampino:

“Ho frequentato il liceo scientifico negli anni Settanta — racconta —. Ero nella sezione B che aveva professori molto bravi. Mi ricordo il professor Giovanni Starnini, di lettere, la professoressa Forniti, di inglese, la profes-soressa Ciraolo, di matematica, e anche tutti i miei compagni con cui mi sono diver-tita moltissimo. Al momento della scelta dell’università, ero partita con l’idea di fare architettura. Ma a Firenze la facoltà non mi convinceva molto e così seguii il cuore. Seguii, cioè, colui che poi sarebbe diventa-to mio marito. Ci iscrivemmo entrambi ad Agraria. Lui adesso è agronomo paesaggi-sta, io invece, ho un po’ cambiato strada: mi laureai con una tesi in botanica e dopo un annetto dalla discussione la professo-

ressa mi suggerì di partecipare a un con-corso per dottorato di ricerca. Lo feci e vinsi il posto per tre anni all’Erbario centra-le italiano di Firenze. Da allora non sono più andata via”.Quello che preoccupa Chiara Nepi, però, è adesso la scarsità di risorse destinate al museo e alla sezione di botanica. “La carenza di personale rischia di rendere più difficile la fruizione di un patrimonio, il nostro, che è importante per tutto il mondo. Sono molte le persone e gli studiosi che chiedono di visitare i nostri campioni, ma non è facile accogliere i visitatori essendo soltanto in quattro e avendo da gestire anche la gestione ordinaria del museo. A questo abbiamo cercato di sopperire con la digitalizzazione dei campioni “typus” (i nuovi) con immagini ad altissima definizio-ne liberamente accessibili dal sito del museo. A consentirci questo passaggio è stato un finanziamento della fondazione Mellon di New York che ci ha permesso di

pagare dei laureati che si occupano della digitalizzazione. Il pro-blema, però, è più ampio. Io ho due figli grandi e, pensando al loro futuro universita-rio e lavorativo, provo molta preoccupazio-ne. All’università siamo circondati da

persone di 40 anni, brave e competenti, con contratti a tempo determinato e borse di studio. Il personale va in pensione, ma non viene sostituito, e lo stesso vale per i professori. La situazione è tragica, ma da inguaribile ottimista credo che a un certo punto si debba per forza risalire”.

“Gli esemplari antichipermettono di capire

i cambiamenti della vegetazione

nelle zone del pianeta.Poi ci sono le nuove scoperte, classificate

come typus”

E’ un mondo stranoe affascinante, ma la carenzadi personale mette a rischio

un patrimonio di tutti

“Qui abbiamo il fiore più grande al mondo:

emana un cattivo odore,simile alla carne marcia,

per attirare un tipo di moscacapace di impollinarlo.

La fioritura fu un evento spettacolare”

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Chiara Nepi, 53 anni,è stata responsabiledella sezione di botanicadel Museo di storia naturaledi Firenze dal 2004 al 2007,prima di tornarne a caponell’ottobre del 2010.E’ moglie di Marco Cei,agronomo e paesaggista

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Funzionario delle Nazioni Unite con sede a Ginevra,segue progetti in Kenya e Uganda nella produzionedi accessori di moda e capi d’abbigliamentoper grandi distributori europei, giapponesi e nordamericani

La mia AfricaSimone Cipriani

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Oggi di cosa si occupa? “Sono funzionario delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, ma lavoro in Africa con alcune migliaia di micro produttori che appartengono a comunità estremamente svantaggiate. Il pro-gramma che dirigo mette questi impren-ditori, soprattutto donne, in grado di produrre accessori moda e alcuni sem-plici capi di abbiglia-mento per case di moda e grandi distributori europei, norda-mericani e giapponesi. Il tutto funziona grazie a una infrastruttura di servizio e sostegno tecnico che ci consente di svi-luppare i prodotti assieme ai compratori e ai loro stilisti, basandoci sulle competenze e sui materiali disponibili in Africa, nei paesi dove operiamo. Poi, la produzione viene portata a termine da una miriade di gruppi di piccoli produttori basati in barac-copoli e in zone rurali molto marginalizza-te e povere, soprattutto in Kenya e in Uganda, anche se adesso ci stiamo allar-gando ad altri paesi. E’ un sistema di lavoro che richiede un vero e proprio cen-tro di coordinamento e logistico a Nairobi. E dal momento che la povertà ha molte

sfaccettature, ossia non è un fattore solo economico, si è creato anche il modo di investire parte dei proventi di questo lavo-ro in un’agenda sociale, fatta di scuole, assistenza sanitaria e prevenzione,

costruzione e svi-luppo di capacità c o l l a b o r a t i v e , gestione del conflit-to (in certe zone è ma lede t t amen te importante), poten-ziamento del ruolo delle donne e così

via. Un lavoro complesso fatto per e con le persone: voglio dire che non andiamo a dire alla gente ciò che deve fare, ma ci sediamo assieme a loro per sviluppare il lavoro congiuntamente”.

Funziona?“Funziona. Migliaia di persone lavorano con noi. E piano piano si vedono i cambia-menti: ci sono adesso comunità dove le donne discutono alla pari con gli uomini, dove le malattie più comuni, portate dall’acqua, diminuiscono di intensità, dove certe forme di violenza tendono a scom-parire, e così via. E’ la forza del lavoro, che cambia la vita delle persone, confe-rendo loro la dignità di cui ognuno ha

I L SUO ULTIMO COMPLEANNO l’ha festeggiato in Africa. Naturale per chi, come lui, lavora, vive e passa più tempo nel Continente

nero che nella sua città d’origine. Simone Cipriani, 47 anni, lo sa bene: soltanto con la presenza assidua è possibile cominciare a studiare soluzioni a problemi drammatici, che hanno radici profonde. E si comporta di conseguenza, varcando i confini degli Stati africani come si passa da un quartiere all’altro di una città. Sposato con Stefania Gori, padre di tre figlie, Cipriani è funziona-rio delle Nazioni Unite e cura programmi di sviluppo per Paesi poveri. La sua è la vita di un autentico cittadino del mondo globa-lizzato.

Come ha mosso i primi passi verso questo lavoro? “Al liceo ero uno studente vagabondo. Poi all’Università mi sono laureato in Scienze Politiche. Anni dopo ho conseguito un Master of Science in Development Management. Per farlo, ho dovuto impara-re bene l’inglese. Ciò mi ha aperto tante porte: innanzitutto, quelle che mi hanno dato la capacità di imparare anche altre lingue straniere, poi quelle che mi hanno fatto scoprire tante persone che altrimenti non avrei mai incontrato”.

“Cerco di allargareil raggio d’azione

coinvolgendo anchecomunità di Ghana,Burkina Faso e Mali.

E presto toccherà ad Haiti”

Una lavoratrice africanaimpegnata nella produzionedi alcuni abiti che saranno destinati al mercato straniero

Pistoiesi all’esteroPistoiesi all’estero

Simone TrinciLa Nazione

Simone Cipriani, 47 anni, sposato con Stefania, ha tre figlie. E’ Funzionario

delle Nazioni Unite con specializzazione in programmi di sviluppo per i paesi poveri.

Lavora a Ginevra e in Africa (Kenia, Uganda, Ghana, Burkina Faso e Mali).

Le città che più frequenta, oltre a Ginevra, sono Londra, Parigi, Milano e Roma.Nella foto: assieme ai Masai, popolo

di pastori e guerrieri che vivesugli altipiani tra Kenya e Tanzania

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INO FILIPPINI, “una persona che se la incontri non la dimentichi”. E’ stato lui, missionario laico, una delle persone che più ha influenzato le scelte di vita di Simone Cipriani. “Quando lo incontrai — ricorda — già da tempo viveva in Africa. Dopo anni passati nelle foreste di Congo e

Rwanda, era approdato in Kenya, stabilendosi in una baraccopoli orribile, quella di Korogocho, a Nairobi, un chilometro quadrato di dimensione, dove vivono più di 100mila persone in condizioni impensabili. Gino era un missionario particolare: aiutava i più sfortunati, non attraverso la carità ma col lavoro. Da giovane è stato un perito industriale con ottime prospettive di carriera. Ha lasciato l’Italia negli anni sessanta. In Africa, aiutava la gente a inventarsi un lavoro, formare delle cooperative o delle mini aziende. Lo faceva perché era un credente serissimo: pregava, mattina e sera, più “seria-mente” di tanti preti. Credeva che il lavoro fosse il solo modo per dare dignità alle persone. L’ho incontrato a Korogocho e col tempo — ricorda ancora Cipriani — diventammo amici. La baraccopoli di Korogocho si trova accanto a una discarica piena di veleni e proprio quei veleni lo uccisero. Si amma-lò dopo 15 anni di vita in quel postaccio, andandosene in pochi mesi. Erano 41 anni che viveva in Africa. Oggi, nella cappellina della chiesa di San Giovanni, cuore della baraccopoli, la gente di Korogocho ha voluto un suo ritratto con una scritta: il Seminatore. Un giorno chiesi a Vincent, un amico e collega nato e cresciuto a Korogocho, cosa rendesse Gino così speciale. Mi rispose: “Era come un albero: con la sola presenza purifica l’aria, così come Gino, vivendo fra noi, con la sua disciplina di vita e di lavoro, purificava le nostre coscienze e ci rendeva capaci di fare cose per noi impensabili”.

Una volta c’era Gino Filippini. “Un maestro di vita”iL MiSSionario ScoMparSo

G

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9, in Kenya sono tutti già al lavoro, ma in Ghana ancora no; quando in Kenya si chiude la giornata, a Haiti si incomincia a lavorare”.

In pratica sta sempre lontano da casa…“Passo quasi sei mesi l’anno in missione, in continuo avanti e indietro con l’Africa, inframezzato da momenti con la famiglia a Ginevra, che cerco di preservare a ogni costo, e puntate in città europee, come Londra, Parigi, Milano, Roma per incon-trare chi lavora con noi da questa parte del mondo. Più di rado vado negli Stati Uniti e in Giappone”.

Chi più l’ha influenzata nel suo per- corso di vita?“I miei genitori, innanzitutto, che mi hanno trasmesso la voglia di viaggiare e il desi-derio di lavorare per un’organizzazione internazionale: mia mamma non stava mai ferma e mio babbo mi parlava sempre dell’allora Comunità Europea e delle istitu-zioni di Bruxelles, dove lui si recava per lavoro. Poi mio nonno Pietro, con l’esem-pio della sua vita, e Gino Filippini, che mi ha insegnato come si lavora nelle barac-copoli del Kenya e con i più poveri fra i poveri”.

E la sua città?“A Pistoia ho buona parte dei miei cari — i miei genitori, mio fratello, mia sorella —, quindi ci torno sempre volentieri. Incontro la famiglia di mia moglie, parlo coi miei nipoti. Poi passo agli amici: cerco subito di organizzare un aperitivo, un incontro, una cena. Non sempre è possibile, perché non rimango mai a lungo e questo mi pesa un po’. E poi c’è il mio parroco, che è un uomo di Dio e che ogni tanto mi prende per le orecchie e mi fa pensare alle cose che contano davvero”.

Qual è il ricordo della città che porta con sé?“Il centro: adoro camminare nelle stradine attorno a piazza del Duomo. In particolare mi piace passare davanti all’edicola al Baly perché lì, da ragazzo, grazie a un signore più unico che raro, ho imparato ad amare una musica molto bella. E poi ricordo sem-pre le nostre montagne, le più belle del mondo, con faggete e abetine sconfinate”.

Cosa, invece, non le piace?“Certe sciatterie che vedo e percepisco, certi discorsi troppo provinciali che sento sul futuro della città. Ma questa è un’altra faccenda…”.

“Sto cercando di coinvolgere nel progetto un maggior numero di comunità, non solo in Kenya e Uganda, ma anche Ghana, Burkina Faso e Mali. E’ un “lavorone”, per-ché, anche in questi paesi, bisogna ricrea-re tutta l’infrastruttura di servizio esistente in Kenya e Uganda. Ci vuole tempo e le condizioni ambientali non sono semplici. Il mio datore di lavoro mi chiede di sviluppare qualcosa di simile anche a Haiti. Ci sto lavorando, ma ci vuole ancora più tempo. Sinora i miei collaboratori erano soprattutto in Kenya e in Uganda, con un piccolo team a Ginevra. Adesso ne ho anche nei nuovi paesi e il team di Ginevra é cresciuto, anche se cerco di tenerlo comunque ridotto per mantenere i costi sotto controllo e spendere più risorse possibili sul campo: non mi piacciono le grandi squadre che stanno nei quartieri generali. Sto anche cercando di coinvolgere nel programma un maggior numero di aziende private per avere sempre più sbocchi di mercato. E anche fondazioni e finanziatori per riuscire a espandere l’agenda sociale. Il tutto senza trascurare il lavoro iniziato in Kenya e in Uganda. E quando non sono in viaggio sono su Skype con qualche collaboratore in un paese lontano. Una difficoltà sta nell’avere fusi orari differenti per i vari luo-ghi dove lavori: quando a Ginevra sono le

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I progetti delle Nazioni Unitevedono coinvolti semprepiù lavoratori (e finanziatori)Simone Cipriani (a sinistra)con un gruppo di stilisti e imprenditori europeiche acquistano capi

Pistoiesi all’esteroPistoiesi all’estero

bisogno”.

Era la sua ambizione lavorare alle Nazioni Unite?“Sono arrivato al mio lavoro perché, sin da giovane, volevo fare qualcosa del genere. Avevo fatto studi in materia di cooperazio-ne allo sviluppo, rimanendo affascinato dalla possibilità di lavorare in questo ambi-to, al punto tale che con mia moglie pas-sammo il viaggio di nozze in India. Il mio percorso è stato però tortuoso. Sono pas-sato da diversi anni nel settore privato:

dirigevo un’azienda di servizi che, fra le altre cose, lavorava in Asia per sostenere le aziende che si volevano impiantare nella regione, gestendo perciò progetti di coope-razione economica. A me piaceva e non mi pesava viaggiare e stare in posti non sem-pre comodi”.

Quindi?“Da cosa nasce cosa: finii con l’essere assorbito sempre più da questa parte del mio lavoro, perciò lasciai l’azienda e mi misi a fare il consulente per una serie di

realtà che lavoravano nell’ambito dello sviluppo. Cominciai ad andare in Africa sempre più spesso e, nel giro di un paio di anni, finii a vivere in Etiopia, con la famiglia, lavorando per le Nazioni Unite. Dopo qualche tempo sono arrivato a Ginevra, ma col desiderio di tornare subito in Africa, per lanciare un filone di lavoro che avevo intuito mentre ero in Etiopia. Ed è ciò che oggi faccio”.

Quali sono i progetti più importanti su cui sta lavorando adesso?

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Osservatoriodi ArcetriIl Gioiello sulle ormedi Galileo Galilei

Fabrizio MorviducciLa Nazione

dal granduca Pietro Leopoldo di Lorena. Il trasferimento dalla Specola, ritenuta non adatta a causa dei problemi di eccessiva illuminazione, alla collina di Arcetri si deve all’astronomo Giovan Battista Donati. La località di Arcetri, oltre a essere miglio-re per le osserva-zioni, aveva anche un profondo signi-ficato simbolico: non lontano si trova la villa de “Il Gioiello”, ultima dimora di Galileo Galilei.Oggi le attività di ricerca sono sviluppate in collaborazione col Dipartimento di Astronomia dell’Università di Firenze e

spaziano dagli studi sul sole, al sistema solare fino agli ammassi stellari della nostra galassia; dalle regioni di formazio-ne di nuove stelle e sistemi planetari alle fasi finali dell’evoluzione stellare che pro-ducono oggetti quali le pulsar e i buchi

neri; dalle galas-sie più vicine a quelle ai limiti d e l l ’ u n i v e r s o osservabile. Ad Arcetri sono attivi gruppi speri-mentali che svi-

luppano le tecnologie per la realizzazione dei più grandi telescopi (ottici e infrarossi)e di strumentazione avanzata a lunghezze d’onda visibile (infrarosse e radio). Queste

E’ Una DELLE EccELLEnZE toscane nel mondo. Dove si scrutano le stelle e si coltiva il sogno dell’uomo di seguir

“virtute e canoscenza”. Si tratta dell’Osser-vatorio astrofisico di Arcetri, che si trova nella nobile collina che sovrasta piazzale Michelangelo; un centro pubblico di ricerca scientifica che fa parte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (www.inaf.it).Attualmente vi lavorano circa cento perso-ne, tra astronomi, personale tecnico-ammi-nistrativo e studenti provenienti da ogni parte del mondo.Arcetri nasce nel 1872. Sino a quel tempo la sede dell’osservatorio astronomico di Firenze era la “Specola”, annessa al Regio Museo di Fisica e Storia Naturale voluto

Nasce nel 1872 sulle colline nobiliche sovrastano piazzale Michelangelo

a Firenze, non lontano dalla villadel fisico, padre della scienza moderna.Oggi vi lavorano oltre cento persone

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Cultura

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Cultura

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Arcetri fa parte dell’IstitutoNazionale di Astrofisica.Vanta un personale di primo livello,fra cui astronomi e studentiprovenienti da ogni parte del mondo(Foto gentilmente concessa dall’Osservatorio astrofisico)

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attività cercano di rispondere alle domande di base dell’astrono-mia moderna: come nascono e vivono le stelle e i sistemi plane-tari che le accompagnano? E le galassie? Come ha avuto origi-ne l’universo e le strutture che lo popolano? Come si è sviluppa-ta la vita nell’universo? Si tratta di un evento comune o raro? Cos’è la materia oscura che permea lo spazio all’interno delle e tra le galassie? Il grande interrogativo dell’uomo, ossia quello della nascita dei pianeti e della terra, finalizzato alla scoperta laica del big bang che ha generato la vita, affonda nella storia e oggi nella scienza che ad Arcetri è di casa. All’interno dell’Osservatorio esistono le migliori tecnologie, ma esiste anche un filo diretto da Galileo ai giorni nostri: osservare i fenomeni del cosmo con un profondo rigore scientifico. Una storia di grande impe-gno e dedizione per l’astronomia, che si affianca ai nomi dei grandi direttori che hanno lasciato tracce indelebili in materia. Come Giorgio Abetti, figlio di Antonio che fu direttore nel 1894 e primo a intuire che il mondo dell’astronomia stava cambiando gra-zie all’avvento delle “nuove tecnologie del tempo” quali la fotografia e i nuovi telescopi e a collaborazioni che varcavano sempre di più i confini nazionali. Giorgio Abetti subentra al padre nel 1921. Grazie ai suoi rapporti internazionali, in particolare con George Ellery Hale, personalità fondamentale per la sua educazione scientifica, decise di realiz-zare ad Arcetri una torre solare alta 25 metri sul modello di quella dell’Osservatorio di Mount Wilson negli Stati Uniti: una delle prime nate in Europa, venne inaugurata il 22 giugno 1925 ed è stata utilizzata quasi ininterrottamente fino al 1972: più di dodicimila immagini del sole testimoniano l’attività osservativa svolta.Con Giorgio Abetti nacque una vera e propria “scuola fiorentina”: Attilio Colacevich, Guglielmo Righini, Mario Girolamo Fracastoro e Margherita Hack furono suoi allievi e, a partire dagli anni tren-ta, l’attività scientifica ebbe un ampio sviluppo soprattutto nell’ambito della fisica solare. Nella direzione dell’Osservatorio gli succederà Guglielmo Righini

che, dal 1953 al 1978, anno della sua morte, si dedicò soprat-tutto allo studio di nuovi metodi di indagine della corona sola-re, in particolar modo introducendo la radioastronomia, le cui complesse tecnologie erano state da lui studiate a Cambridge. Righini inoltre organizzò campagne osservative di eclissi utiliz-zando aerei in volo: ciò consentiva di prolungare artificialmen-te il tempo della totalità, volando nel cono d’ombra della luna.Guglielmo Righini non esitò a inserire l’Osservatorio di Arcetri in un progetto europeo JOSO (Joint Organization for Solar Observations) il cui scopo era quello di individuare i siti di eccellenza astronomica in cui realizzare nuovi osservatori solari; inoltre, aderì alla campagna internazionale che coordi-nava le osservazioni solari in modo da stabilire una rete in

grado di sorvegliare il sole 24 ore su 24. Nel 1978 la direzione dell’Osservatorio fu affidata a Franco Pacini che ha avuto il grande merito di allargare ulteriormente gli interessi scientifici di Arcetri, sia in campo della ricerca, galattica ed extragalattica, sia in quello delle tecnologie più avanzate, dando ad Arcetri un ruolo primario nell’am-bito della ricerca astronomica internazio-nale. Dal 2005, dopo quattro anni di direzione di Marco Salvati, a capo dell’Osservatorio viene nominato Francesco Palla, laureato alla Sapienza di Roma in fisica e specializ-zatosi in astrofisica con una tesi sulle pro-prietà delle nubi molecolari interstellari e

sulla formazione stellare. Vincitore di una borsa di studio dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), supera nel 1982 il con-corso di astronomo presso l’Osservatorio di Arcetri e contribu-isce a creare il gruppo di formazione stellare, primo in Italia in queste ricerche teoriche e osservative. I suoi campi di ricerca riguardano l’origine e l’evoluzione delle stelle e dei sistemi planetari nella nostra galassia e nell’universo primordiale; le proprietà della molecole presenti nello spazio interstellare; la ricerca di nuove stelle con telescopi infrarossi e radio. Nuove frontiere per l’Osservatorio di Arcetri, dal cuore di Firenze fino gli angoli più remoti dell’universo.

Cultura

di Franco Pacini*

dettagli. Solo per fare alcuni esempi, questa nitidezza è essenziale per distinguere la pre-senza di pianeti intor-no a stelle brillanti oppu-re per studiare i dettagli del moto di gas intorno a buchi neri, nel centro di galassie in esplosione. Oppure per studiare il moto di materiale che cade verso il centro di nubi gassose, dando ori-gine alla formazione di giovani astri. Per

raggiungere questi obbiettivi gli astro-nomi hanno svilup-pato nuovi tipi di s t rumentazione, precedentemente utilizzati per scopi militari e per sbir-ciare, con satelliti

spia, quanto accade sulla superficie terre-stre.Gli scienziati italiani, per quasi un venten-nio, sono stati partner nella costruzione di un nuovo tipo di telescopio, il cosiddetto “Grande Binocolo” (LBT – Large Binocular Telescope). Come dice il nome, si tratta di uno strumento costituito da 2 specchi di 8.4 metri di diametro, i più grandi mai costruiti al mondo. Questo strumento è frutto di una collaborazione fra astronomi americani, tedeschi e italiani. LBT ha cominciato a funzionare in epoca recente nel deserto dell’Arizona, sul Monte Graham, incorpo-rando un sistema opto-elettronico (ottica adattiva) sviluppato prevalentemente pres-so l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri. Il

leader italiano del progetto, Piero Salinari, e i suoi collaboratori fioren-

tini, sono riusciti ad associare al telesco-

pio un sistema di cor-rezione degli effetti della

turbolenza atmosferica. Durante l’osservazione questo

sistema è in grado, con continuità, di correggere le distorsioni prodotte dall’at-mosfera, ottenendo immagini con una nitidezza varie volte superiore a quella degli strumenti finora più avanzati. Computers ad hoc e sistemi di servo-meccanismo sono stati realizzati da ditte italiane ADS di Lecco, EIE di Mestre, Microgate di Bolzano, Ansaldo di Milano. Tecnologie straordinariamente avanzate che hanno suscitato l’ammirazione del mondo scientifico.Anche se la prima motivazione della ricerca astronomica resta il naturale desiderio dell’uomo di comprendere il mondo che lo circonda, lo sviluppo delle tecniche di ottica adattiva apre la possi-bilità di ritorni scientifici ed economici di grande rilevanza, ben superiori agli inve-stimenti fatti inizialmente dal nostro paese.

*Socio Nazionale Accademia dei Lincei, già Presidente dell’Unione Astronomica Internazionale. Nel periodo 1978-2001 è stato Direttore dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri. Un asteroide (il 25601) porta il suo nome.

L’asTRONOMIa è CERTaMENTE una delle più affascinanti scienze moderne. Sin dagli albori della preistoria, essa ha avuto anche importanti risvolti pratici, per l’orien-tamento, la navigazione, il calendario, l’agricoltura. I progressi nella conoscenza astronomica si legano allo sviluppo e all’uti-lizzo di nuove tecnologie, dall’ottica alla meccanica di estrema precisione, dall’ana-lisi delle immagini allo sviluppo di rivelatori ultrasensibili. Nell’arco dell’ultimo secolo i progressi nello studio dell’Universo sono stati straordinari, grazie all’utilizzo di tele-scopi sempre più potenti e versatili, funzio-nanti da terra o dallo spazio. In questo modo, par-tendo dal primo cannocchiale utiliz-zato da Galileo (diametro di pochi centimetri) si è passati agli attuali giganti di dieci-quindici metri ed è iniziata la progettazione di telescopi ancora più gran-di, con diametro di 30-50 metri. Lo sguardo degli astronomi può oggi esplorare un volu-me circa un milione di miliardi di volte maggiore rispetto a quello possibile per i nostri predecessori. Agli inizi del 900 si pensava che tutto il cosmo potesse coinci-dere con la nostra galassia, la Via Lattea. L’entrata in funzione del telescopio di Monte Wilson (California) intorno al 1925, permise di scoprire che esistono centinaia di miliardi di galassie, in media contenenti ciascuna 100 miliardi di stelle. Particolarmente importanti nell’astronomia di oggi sono divenuti gli studi che richiedo-no una grande capacità di distinguere i

“Nell’ultimo secolo i progressifatti nello studio dell’Universo

sono stati straordinari: lo sguardodegli astronomi può esplorare

un volume un milione di miliardisuperiore a quello dei predecessori”

Sotto la direzionedella famiglia Abetti(Antonio, il padre,

poi il figlio Giorgio),nasce la popolare

“scuola fiorentina”,tra cui spiccano

Attilio Colaceviche Margherita Hack.

Ora si dettano i tempicol primo gruppo

di formazione stellare

Cultura

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Una scienza moderna in continua evoluzioneL’EX DirEttorE DEL cEntro ScriVE pEr noi

La prestigiosa sede dell’Osservatoriodi Arcetri sulle colline di piazzale Michelangelo.La precedente sede fiorentina era la “Specola”

annessa al Regio Museo di Fisica e Storia Naturalevoluto dal granduca Pietro Leonardo di Lorena

volte inaccettato — che il mondo sia esistito anche prima che noi fossimo. Di solito, ad accogliere gentilmente i frequen-tatori della Leoniana nell’orario d’apertura (lunedì e mercoledì tutto il giorno; martedì

pomeriggio e sabato mattina) è la responsa-bile dell’Archivio Vescovile, nonché dell’Archivio Diocesano, nonché della Biblioteca Leoniana e dell’Ufficio

Beni culturali della Curia, Lucia Cecchi. Incarichi così altisonanti non rendono certo ragione della sua figura, che è la semplicità e la premura — oltreché la competenza — fatta persona. Nessuno meglio di lei conosce i meandri più reconditi della biblioteca e volen-tieri li condivide con gli altri. Ed è lei, quindi, a rispondere alle nostre curiosità. A partire dal

È SoLo Un LUoGo che supe-ra il fascino misterioso di una biblioteca antica: una biblioteca antica della Chiesa. E’ qui che,

emblematicamente, secondo l’immaginario collettivo, aleggiano tra gli scaffali, quasi come fantasmi, storie segrete coperte da strati di seco-li, che tintinnano per farsi notare ed essere riportate alla luce. Colui che entra nella biblioteca Leoniana del Seminario Vescovile di Pistoia — nella grande Sala del Fondo antico o nelle stanze dei docu-menti del Monastero Olivetano o nell’Archivio Vescovile — non può non respirare la stessa atmosfera mista d’incanto e d’inquietudine. E’ l’inquietudine della Storia passata che si fa presente, del pensiero incomprensibile — e a

C’

Fondata per offrire ai seminaristitesti filosofici e teologici per la didattica,si è poi arricchita fino a rendereil nostro Seminario vescovile “uno dei più cospicui d’Italia”

Biblioteca Leoniana

Andrea VaccaroFilosofo

Il maestoso ingressodella biblioteca Leonianadel Seminario Vescovile:

la sede attuale risale al 1783quando il vescovo Scipione de’ Riccila spostò dall’ex palazzo Cancellieri

nell’attuale piazza San Leone

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metà del Settecento, essa si era già arric-chita, aprendosi agli studi storici e scienti-fici. Cosicché il teologo Ferdinando Panieri, che lì aveva studiato nel quin-quennio 1778-83, poteva autorevolmente valutare che quello di Pistoia è “uno dei più cospicui seminari dell’Italia: per l’am-piezza, per l’ordinata disposizione, per la molteplicità delle camere, ma principal-mente per la sua scelta e copiosa libreria, ricca anche nelle lettere, nelle belle arti e nelle scienze”. Nel periodo dell’episcopato di Scipione de’ Ricci, la biblioteca visse un momento di incremento prezioso, avvalendosi gene-rosamente della Stamperia Bracali di Pistoia e della Stamperia Vestri di Prato. La soppressione dell’Ordine Olivetano di san Benedetto, sempre sotto l’episcopato di mons. de’ Ricci, fece poi confluire l’am-pia biblioteca e l’archivio del monastero, risalente al 1380, nella Leoniana.

Pezzi pregiatiQuali sono i materiali librari più preziosi?“Il patrimonio librario della Leoniana è ric-chissimo. I documenti più antichi sono

alcune centinaia di preziosissimi volumi manoscritti. Poi ci sono gli incunaboli, ovvero i libri stampati prima del Cinquecento. Poi ancora vi è il patrimonio di circa un migliaio di “cinquecentine”, volu-mi anch’essi di rinomato valore, risalenti, appunto, al XVI secolo”.

FrequentatoriDa quali settori specifici sono più attratti i fruitori della biblioteca? “La nuova sala della biblioteca — un’opera dell’architetto Alessandro Suppressa del 2001 — è costantemente frequentata da studiosi di storia locale e, più in specifico, da ricercatori o appassionati della storia dell’arte e dell’architettura pistoiese. Su questi argomenti, la nostra biblioteca pos-siede testi esclusivi, davvero difficili da reperire altrove”. In effetti, un breve “giro” nella sala o nel ballatoio fa comprendere rapidamente l’en-tità dei materiali. Sì, perché lo stile a “scaf-fale aperto” della Leoniana — che a Pistoia ha preceduto anche la biblioteca San Giorgio — ha un gran bell’impatto visivo e permette di saggiare direttamente le nume-

nome della biblioteca.

Nome e storiaPerché la biblioteca si chiama “Leoniana” e come venne a costituirsi? “La congiuntura intorno al nome è duplice: a fondare il Seminario di Pistoia, nell’Anno Domini 1693, fu il Vescovo Leone Strozzi, e la data oculatamente prescelta per l’inau-gurazione fu l’11 aprile, giorno dedicato a san Leone Magno. Leone il Vescovo; Leone il santo, per così dire, patrono; Leoniana la biblioteca”. Per quanto riguarda la storia — continua a ragguagliarci la dottoressa Cecchi — il Seminario di Pistoia, con la sua biblioteca, all’inizio trovava sede presso quello che fino a poco tempo prima era stato il convento agostiniano delle Suore Tolentine, nella Chiesa di san Vitale. Successivamente, nel 1704, esso fu spo-stato nell’ex Palazzo Cancellieri, nell’attua-le Piazza San Leone. Solo nel 1783, sotto il vescovo Scipione de’ Ricci, trova la sua sede attuale, ma la biblioteca aveva già un suo corpo e una sua struttura. Se lo scopo primario, ovviamente, consisteva nell’offer-ta di testi filosofici e teologici per l’attività didattica con i seminaristi, nella seconda

Qui è conservato il medagliere Buonamici

e il teschio di una compagnadi Sant’Orsola nel martirio

Incanto e inquietudine:in giro per libri antichi

MonumentiMonumenti

Foto Fabrizio Antonelli

rose riviste dedicate alla realtà pistoiese, le enciclopedie filosofiche e teologiche, le più importanti versioni di Storia della Chiesa o dei Papi dal Cinquecento a oggi e, per i più eruditi, le centinaia di volumi della Patrologia Latina e Greca (il cosiddetto Migne), che raccolgono tutte (dico, tutte) le opere dei Padri della Chiesa dal II secolo al 1300. Questo vuol dire: in lingua originale, l’opera omnia di Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio Magno, Isidoro, il Venerabile Beda….. fino a Bernardo di Chiaravalle ed epigoni. Per i teologi, una fonte da cui è difficile allontanarsi.

Dentro lo scrignoQual è l’oggetto più protetto? “Direi il medagliere Buonamici, conservato nella massima sicurezza e visibile solo dietro una richiesta specifica. Il professore e canonico Antonio Buonamici, che faceva parte del corpo docenti del Seminario a fine Ottocento, era un grande appassiona-to di viaggi, libri rari, reperti archeologici e numismatica. Egli lasciò, ancora in vita — oltre alla sua raccolta libraria e alle carte toponomastiche e geografiche dell’epoca — il prezioso medagliere di monete anti-che, dove sono celebrate le effigi di perso-naggi illustri”.

Per il materiale più inquietante (e sacro) non è più necessario ricorrere alla guida di Lucia Cecchi, perché chiunque lo coglie autonomamente: si tratta di una venerabile reliquia, conservata in una teca a vetri, su un ripiano del ballatoio della sala di studio. “E’ il teschio di una delle giovani compagne di Sant’Orsola nel martirio (IV secolo). La reliquia giunse nel 1595 al convento delle Abbandonate. Oggetto di devozione, veni-va conservato nell’altare del loro Oratorio dedicato a San Tommaso d’Aquino, in Via San Pietro, nella zona in cui ora è l’Istituto Sant’Anna. Alla biblioteca è giunta, dopo non poche traversie, tramite le suore di San Domenico”.

Ci sarebbero molte altre notizie meritevoli di considerazione: la recente consegna, da parte dei Carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico, di pergamene miniate asportate dalle pagine di corali della par-rocchia di San Paolo; il Fondo Mazzei, di argomento musicale; l’Archivio sul Monastero di Monte Uliveto; il programma di digitalizzazione delle visite pastorali, di imminente inaugurazione; i beneficiali…Nelle biblioteche antiche, però, il tempo scorre con una dimensione molto particola-re. Per oggi, la nostra visita alla Leoniana si conclude così.

Scoprire i propri antenatigrazie agli “stati delle anime”

attiVita’ Di ricErca

FORSE L’ATTIVITA’ di ricerca più frequente all’interno della biblioteca. A oggi sono stati com-pilati alcune centinaia di “alberi genealogici”. Un impulso decisivo a tale genere di ricerca

risale a quando il vescovo mons. Simone Scatizzi, recentemente scomparso, volle far confluire nell’Ar-chivio diocesano centrale tutti gli archivi parrocchiali della Diocesi antecedenti al 1900. Uno degli obiettivi principali consisteva proprio nell’agevolare la consultazione degli storici. Chi vuol soddisfare la curiosità di conoscere nomi, professioni, parentele dei propri antenati, anche di un passato anteriore al 1865 — fino a quella data si possono consultare gli uffici dell’anagrafe comunale —, deve infatti necessariamente rivolgersi a questo archivio. Qui, tramite i registri dei battesimi, dei matrimoni, dei decessi e, soprattutto, degli “stati delle anime” — ovvero dei censimenti “artigianali” stilati dai sacer-doti nelle loro visite alle famiglie nell’occasione delle benedizioni pasquali —, è possibile ricostruire, tra incroci e rimandi, la rete delle parentele. Si può risalire fino alla metà del 1500, quando la pratica della compilazione degli “stati delle anime”, stabilita dal Concilio di Trento, cominciò ad assumere applicazione fattiva.

E’

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Una delle sale internedella bibliotecaIl patrimonio librario della Leoniana è ricchissimo: oltre 86mila i volumi del Fondo moderno

MonumentiMonumenti

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86.800 Volumi del Fondo moderno. Il nume-ro è in divenire, ivi confluendo siste-maticamente il lascito delle bibliote-che personali dei sacerdoti della Diocesi.

31.555 Volumi del Fondo antico. Risale pre-valentemente alla prima metà del 1700, in virtù dell’impegno organizza-tivo dei vescovi Federigo Alemanni (1732-1776) e Giuseppe Ippoliti (1776-1780) oltre che delle donazioni successive dei vescovi Enrico Bindi (1867-1871) e Niccolò Sozzifanti (1871-1883).

61 e 995Rispettivamente incunaboli e cinque-centine. Principalmente di argomen-to religioso, gli incunaboli risalgono a un periodo immediatamente succes-sivo all’invenzione della stampa, ai tempi in cui la stampa era ancora “in fasce” (“incunabulum”, dal latino, “in culla”). Nel nuovo secolo compaiono le “cinquecentine”.

297Manoscritti. Tra i più importanti sono da annoverare il manoscritto sulla Storia di Pistoia ad opera di Bernardino Vitoni, la Raccolte di lettere e scritti del vescovo Enrico Bindi, nonché il codice miniato del Quattrocento delle Commedie di Terenzio.

690Periodici. Coprono l’area religiosa e storica e, in particolare la storia territo-riale, artistica e architettonica di Pistoia.

I numeri della biblioteca

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Uno scorcio del Battistero,fotografato da palazzo dei Vescovi;nelle due pagine seguenti,la vasca del fonte battesimale,restaurata e restituita di recenteal suo primitivoaspetto.Molto antica, è probabilmenteprototipo dell’arte mondiale

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Alberto CiulliniGiornalista

Battistero Il (nostro) bel S. Giovanni di dantesca memoria

Foto Fabrizio Antonelli

orGE in Una DELLE piaZZE più belle d’Italia, e forse d’Europa. Raffinato esempio di un’arte gotica, che nella bicromia del rivestimento manifesta rapporti con il romanico pistoiese, suscita l’ammirazione di

visitatori e turisti per la maestosità della struttura, alleggerita dal marmo bianco e nero (o verde di Prato), dalla levità dei pinnacoli, dalle decorazioni in stile gotico del rivestimento esterno, dall’elegante lampada che lo sovrasta. E’ uno degli edifici più importanti di Pistoia, dal punto di vista sia artistico che storico. Ancora oggi testimonia, insieme con la cattedrale e gli edifici adibiti al governo della città e all’amministrazione della giustizia, la vita umana nei suoi momenti fondamentali. Qui potere temporale e potere spirituale sono rappresentati in tutta la loro gran-dezza e dignità.Fanno da guida, in questo rapido excur-sus sulla storia di uno dei più insigni monumenti della nostra città, Lorenzo Cipriani, giovane studioso storico dell’arte, che ha partecipato a lavori di restauro, a pubblicazioni accademiche e didattiche per incarichi dell’Università di Pisa (attualmente si occupa anche di promozione nel turismo paesaggistico e d’arte) e Nicola Bottari Scarfantoni, architetto pistoiese che ha pubblicato un lavoro di ricerca storica sul cantiere di San Giovanni Battista a Pistoia.Ma quali sono le origini del nostro bel San Giovanni? Sappiamo che le chiese più antiche di Pistoia sono quattro, tutte situate sulla Sala, l’antica curtis longobarda.Esse sono: Sant’Anastasio, Santa Maria presbiteri Anselmi, oggi conosciuta come Santa Maria del Giglio e trasformata in

un ristorante, San Michele in Bonaccio, dove ora c’è una far-macia, e Santa Maria in Corte, o Rotonda, dedicata alla Madonna. Considerando le antiche, ma anche le più recenti, dedicazioni altomedievali, sappiamo che di solito esse hanno una struttura rotonda, in quanto la figura del cerchio, simbolo della perfezione, riassume in sé i pregi della Madre di Dio. Nel XII secolo questa chiesa divenne battistero: già ai primi del XII secolo è infatti documentato un San Giovanni antistante la cat-tedrale. La tradizione vuole che dopo la metà del 1100 vi aves-se trovato sepoltura il vescovo Atto, poi proclamato santo, che aveva introdotto a Pistoia l’importante culto iacopeo. Secoli dopo ne vengono ritrovati i resti, successivamente traslati in

cattedrale, e una pia leggenda sostie-ne che il corpo è rimasto incorrotto.Dell’antico battistero nulla si sa di certo sulla struttura originaria; l’edificio più recente è il risultato di ampliamenti e modifiche importanti eseguite duran-te la prima metà del XIV secolo. A questo periodo risalgono il bellissimo rivestimento bicromo, le guglie di stile gotico, le decorazioni con elementi zoomorfi e antropomorfi, la cupola,

che termina con una lanterna alla cui sommità è collocata una sfera bronzea sormontata da una croce. Con tutta probabilità il battistero più antico, come quello che oggi possiamo ammira-re, doveva avere una pianta ottagonale.Nel valore simbolico che la scienza teologica medievale attri-buiva ai numeri, l’ottagono vuol significare l’incrocio fra il cer-chio, simbolo della perfezione divina e quindi di Dio, e il qua-drato, che simboleggia la Terra su cui vive l’uomo. L’ottagono,

S

Si pensa che i maestri comaciniabbiano operato a Pistoia

prima di dare impulso al romanicotoscano da cui hanno presospunto l’arte senese, pisana

e fiorentina, quest’ultima narratanei versi della Divina Commedia

Chiesa Chiesa

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La chiesa è diventata battisteronel XII secolo. La tradizione vuole

che nel 1100 vi avesse trovatosepoltura il vescovo Atto,

poi proclamato santo.Ora non ha più funzione liturgica

ma ospita eventi culturali

Chiesa Chiesa

quindi, rappresentando l’incontro e la ricon-ciliazione fra il creatore e la sua creatura, è la figura geometrica che, almeno nei batti-steri più importanti, caratterizza il luogo deputato alla celebrazione del sacramento con cui inizia la vita dell’uomo in Cristo. E sarebbe stato proprio il battistero di Pistoia, questo è l’argomento della tesi di Lorenzo Cipriani, a dare impulso alla realizzazione dei grandi battisteri, noti in tutto il mondo, di Pisa e di Firenze.Sappiamo, infatti, che nell’antico battistero c’era una vasca, la stessa presente in quel-lo attuale, risalente al 1226, data messa in luce durante i restauri del 1975 insieme con il nome dello scultore, un mae-stro comacino: Lanfranco Bigarelli da Como. Il batti-stero di Pisa è stato realizzato nel 1246 da Guido Bigarelli da Como, un nipote di Lanfranco. In quanto a quello fiorentino, il “bel San Giovanni” di dantesca memoria, che non c’è più, ma che Dante ricorda in alcuni versi della Divina Commedia, anche a esso lavoraro-no, probabilmente in anni successivi rispet-to all’edifico pistoiese, i maestri comacini. Non si può pertanto escludere che i mae-stri comacini abbiano operato prima a Pistoia, da cui sarebbe partito l’impulso per la meravigliosa arte del romanico toscano,

da quello pistoiese, appunto, al senese, al fiorentino, al pisano.La splendida vasca del fonte battesimale, restituita dagli interventi di restauro più recenti al suo primitivo aspetto caratteriz-zato dalle grandi formelle quadrate e deco-rate con motivi floreali e astratti, è sicura-mente molto antica, forse addirittura un prototipo dell’arte mondiale. Dalla sua forma e dalla sua struttura si può evincere che il battesimo vi poteva essere celebrato sia per immersione, riempiendo la vasca d’acqua e facendovi entrare il battezzando

insieme al mini-stro, che per aspersione. Intorno alla vasca sono infatti presenti quattro pile, che sicuramente con-sentivano il batte-simo sia per immersione, se si trattava di bambini

piccoli, che per aspersione. I battesimi potevano essere somministrati solo nella notte di Pasqua e fra i battezzan-di molti erano anche gli adulti convertiti. La possibilità di battezzare aspergendo con l’acqua benedetta rendeva probabilmente il rito più semplice e rapido.Oggi il battistero ha perduto la sua antica funzione liturgica e talvolta ospita mostre e avvenimenti culturali. Nel corso di un recente convegno sui lavo-ri di restauro al battistero e alla cattedrale

di San Zeno, si auspica non solo la ricol-locazione, sopra al portone centrale del battistero, di due statue di profeti rimos-se durante gli interventi di restauro del 1985, ma la possibilità di utilizzare l’edi-ficio, tornato, per così dire, a nuova vita, per funzioni pastorali e non più soltanto come luogo museale.Tutta la splendida piazza del Duomo ha mantenuto pressoché intatta nei secoli la sua vitalità, grazie alle importanti funzio-ni pubbliche e religiose che in essa si svolgono e grazie, anche, al crescente interesse degli studiosi per la sua storia e quella dei suoi monumenti. Il battistero, in particolare, è stato uno dei più studiati, soprattutto per capire come poteva svol-gersi il lavoro in un cantiere che doveva essere sicuramente di proporzioni immense. Ricordiamo, in particolare, fra le pubblicazioni più importanti, quella del Gurrieri su tutta piazza del Duomo di Pistoia e, fra i lavori più recenti, quello di Nicola Bottai Scarfantoni, che ha scritto un libro proprio sul cantiere di San Giovanni Battista, fornendo, sulla base di una rigorosa documentazione, interes-santi e dettagliate notizie sull’organizza-zione del lavoro, sulle spese sostenute, sui materiali usati. Come spesso acca-de, anche in questo caso tabelle e docu-menti, lungi dall’essere solo aridi elenchi, hanno rivelato preziose informazioni su rapporti sociali, modi di vivere, di pensa-re, di lavorare, e, quindi, sulla civiltà dei nostri antenati.

ti senza farsi troppe domande. Era gente che aveva toccato con mano anche la nostra emigrazione all’estero, e se la ricor-dava fin troppo bene”.

Insieme ai grandi gesti umani, però, sono arri-vati anche i momenti difficili. “Non abbiamo solo storie belle”, mette in chiaro la presidente. “L’impatto con le diffe-renze culturali lo senti e

anche forte. Su certe cose ci si indigna e bisogna avere il coraggio di reagire. Una volta — ricorda — vidi un uomo, uno che avevamo accolto qui, picchiare la moglie. Lo bloccai, gli dissi che da allora in poi lui

non avrebbe più messo piede qua dentro. Il contatto con questa realtà è difficile, però il quotidiano, vissuto tutti insieme, te lo alleggerisce. Nessuno nel gruppo si è mai arreso”.Non si sono arrese le storiche volontarie del doposcuola. Non si sono arresi i parro-ci né gli insegnanti di italiano. E nemmeno le persone che, nell’anonimato, si ricorda-no, ogni anno, dell’associazione San Martino de Porres. “Anche la provvidenza c’ha sempre aiutato” dice la Bellandi, e le labbra subito si increspano, sorridono a quel pensiero acciuffato al volo. “Quante sere — racconta —, col freddo pungente, abbiamo dato via l’ultima coperta che ave-vamo. La mattina dopo, puntualmente,

ambulatorio sempre attivo. Da noi venivano per lo più giovani albanesi. Tutti con il forte bisogno di regolarizzarsi, tutti con la voglia di ricostruire qualcosa partendo da zero”. Sono gli anni della rete umana, tanto tenace quanto riservata. “Una sera — racconta Paola, commossa — mi vedo arrivare davanti un ex sindaco di Pistoia con un ragazzo rumeno. Di lui non sapeva niente, ma non importava. L’aveva trovato nella fossetta per l’acqua, tra due campi. Mi disse che dovevamo aiu-tarlo. Tanti altri pistoiesi, soprattutto anziani, in quel periodo accudirono i giovani migran-

di là dell’oceano. Poi sono arrivati gli anni Novanta e tutto è cambiato. “Ho ritrovato a Pistoia gli stessi volti che avevo visto lontano dall’Italia”.Nel 1994 la diocesi ha messo a disposizione qualche stanza del convento di San Domenico per gli immigrati. Così è nata l’associazione, “un servizio agli ultimi come quello di Martino de Porres”. “Quando gli fu data l’opportunità di diventare sacerdote — dice la Bellandi sul santo di Lima —, non accettò. Rimase a fare ciò che aveva fatto per tutta la vita, accompa-gnato dal suo codazzo di cani”. Un inizio, quel-lo di diciassette anni fa, tenuto stretto in un pugno, una manciata di buon senso e condivi-sione. “Facevamo un’attività d’emergenza. Quaranta pasti al giorno, quaranta docce e un

Ui nESSUno È StraniEro”. Bisogna oltrepassare la scritta per entrare nel cortile dell’associazio-ne San Martino de Porres. Lettere color cielo abbracciate dall’arco-

baleno della pace. E’ la prima cosa che Paola Bellandi — presidente del gruppo di volontaria-to — indica a tutti quelli che arrivano al numero cinque di via dei Magi. Sono impresse sul pavi-mento, le ripete a voce alta.Più delle parole, però, così belle e gonfie di storie quasi da poter scoppiare, contano i salu-ti dei bimbi che, finito il doposcuola, si accaval-lano alla sera; e poi, ancora, gli scambi di bat-tute con gli studenti del corso di italiano. “Ho visto mezzo mondo passare di qua” dice la Bellandi. Un tempo, per lei, la missione era al

“Q

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“La mia prima missione,al di là dell’oceano.Tornata a Pistoia,

ho visto mezzo mondopassare di qua”

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L’attività dell’associazioneSan Martino de Porres

si basa su un gruppo di volontariche operano ogni giorno

sul campo della solidarietà umana

Beatrice FaragliIl Tirreno

Il gruppo di volontariato è nato 17 anni facome attività d’emergenza per albanesi.Oggi è centro d’ascolto, accoglienza,corsi di lingua e doposcuola per bambini

Paola BellandiA San Martino de Porresnessuno è straniero

Soci Soci

Foto Fabrizio Antonelli

ASSOCIAZIONE SAN MARTINO DE PORRES è nata nel 1994 dall’impegno di un gruppo di volontari della commissione pastorale missionaria, cooperazione tra le chiese e Caritas della diocesi di Pistoia. L’attività è basata prevalentemente sullo sforzo volontario dei soci che, ogni giorno,

operano sul campo per un unico grande intento di solidarietà umana. Le risorse economiche del gruppo vengono dalle quote sociali, dai contributi dei pri-vati, dalla chiesa locale e dalle associazioni. I fondi, inoltre, derivano, tramite la presentazione di un progetto, anche da convenzioni con enti e istituzioni pubbliche. Nato come organizzazione di volontariato, il centro San Martino de Porres non ha mai perso questa prioritaria vocazione iniziale. Anzi, nel tempo, rimasta pura e intatta come diciassette anni fa, si è sempre più consolidata facendo dell’associazione un fondamentale punto d’accoglienza gratu-ito verso gli immigrati, sia per il Comune di Pistoia sia per una forbice provinciale più ampia. Obiettivo del gruppo è la promozione dell’uomo migrante, nel pieno rispetto delle sue potenzialità e dei suoi diritti. I volontari lavorano per abbattere il doppio muro del pregiudizio e dell’indifferenza che allontana gli uomini dalla dignità e dalla cittadinanza, traguardi per cui il San Martino de Porres lotta tutti i giorni. Quest’importante realtà solidale ha un’ispirazione cri-stiana ed è aperta a uomini e donne di ogni cultura, religione e stato sociale. L’autonomia statutaria consente all’associazione di muoversi con indipen-denza e di tessere rapporti diretti con le altre realtà — istituzioni, enti e privati — del territorio pistoiese. Nato nei locali del convento di San Domenico, da pochi anni il gruppo si è trasferito in via dei Magi, a due passi dalla storica sede. Qui l’accoglienza, il centro di ascolto, il doposcuola, i corsi di lingua e la formazione possono contare su spazi più ampi e adeguati a una crescente esigenza sociale. Timone della formazione è l’assemblea dei soci e dei volon-tari; accanto alle molte persone che operano nel gruppo c’è poi il presidente Paola Bellandi, fondatrice dell’associazione nel 1994. L’amato padre spirituale don Patrizio Guidi, ricordato da tutti come “una guida e un amico sincero”, ha tenuto per mano e accompagnato l’associazione con forza e amore.

L’uomo migrante e i suoi diritti, contro il muro del pregiudizioGLi oBiEttiVi DEL GrUppo SoLiDaLE

L’

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in via dei Magi leggono la Costituzione, studiano le norme fondamentali della sicu-rezza sul lavoro, imparano l’educazione alla cittadinanza. La maggior parte di loro viene da famiglie senza reddito. L’associazione, attraverso l’aiuto degli

enti pistoiesi, garantisce alle giovani un sostegno sim-bolico. “Spesso, que-sto, rappre-senta l’unica fonte di so-

stentamento per quattro, cinque persone”. Il fondo in cambio della possibilità di impa-rare. “Apri per loro un pezzettino di porta, metti a disposizione qualche strumento. Lo scorso anno, tra le otto donne del corso, quattro sono state assunte a tempo inde-terminato nelle ditte in cui avevano fatto alcune piccole esperienze lavorative”. Perché è la libertà la prima cosa che si

impara al San Martino de Porres. Attraverso la lingua italiana o la conoscenza delle leggi passa il tentativo di

diventare un po’ più liberi, contro il muro dell’insicurezza che scoraggia e ammaz-za l’autonomia. “Nei primi anni di vita dell’associazione quando qualcuno si riaf-facciava alle nostre porte, eravamo sem-pre tutti allarmati. Poi magari ci diceva “sono venuto solo a fare un saluto” e allo-ra, perbacco, sì che aveva avuto un senso il nostro impegno”. Apri loro un pezzettino di porta, appunto, ed ecco cosa può succedere. “Ero in cima a via dei Magi — ricorda —, vedo un uomo in fondo alla strada. Viene verso di me. Gli dico: che hai fatto? Era un ragaz-zone albanese, uno di quelli arrivati con i primi sbarchi. Son venuto a farti vedere il permesso di soggiorno, mi dice. E io: sei contento? No, mi risponde. Non sono con-tento. Io oggi sono rinato”. Eccola, la libertà. La dignità. Quegli stessi occhi saldi, forti, robusti sono anche nei volti dei quarantasette studenti di lingua dell’associazione. Rumeni, marocchini, senegalesi, brasiliani, filippini: tutti vogliono

qualcuno ci bussava alla porta: vi servono per caso delle coperte?”.Ognuno fa quello che può e qui, in associa-zione, quello che ognuno può fare corri-sponde sempre al massimo. Specialmente adesso. “Negli ultimi tre anni — spiega — la crisi ha riportato indietro anche chi, arrivato da noi ormai oltre un decennio fa, era riusci-to ad avere un lavoro stabile e a costruirsi una famiglia. Sempre più sono gli italiani che passano dal centro d’ascolto Caritas, all’interno dei nostri locali. Le presenze quasi si equivalgono: il 49% arrivano dall’Italia, il 51% dai Paesi extra-comunitari. Noi siamo una realtà di volontaria-to ma non vogliamo perpetuare la dipen-denza. Usiamo anche i “no” quando servo-no. Non si viene al centro con le bollette già scadute. Il nostro primo obiettivo è quello di incontrare fuori chi abbiamo accolto in pas-sato e, magari, fare quattro chiacchiere, strappare una risata”.Anche per questo, dal 2005, l’associazione ha messo in piedi una sorta di formazione per le giovani donne immigrate. Le ragazze

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“Dal 2005 facciamo formazionealle giovani donne immigrate:lo scorso anno quattro di lorohanno festeggiato l’assunzione.

La libertà passa attraversola conoscenza”

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Paola Bellandi è la presidentee il cuore pulsante dell’AssociazioneSan Martino de Porres è nata nel 1994, ha sede nel convento di San DomenicoDal Centro di ascolto Caritaspassano sempre più italiani: ormaicostituiscono il 49% delle presenze

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Un giorno vedo un uomoin fondo alla strada.Viene verso di me.

Gli dico: Che hai fatto?Sono venuto a farti vedereil permesso di soggiorno.

E io: Sei contento?No, mi risponde,

non sono contento:io oggi sono rinato

Soci Soci

dare l’esame Cils, la certificazione d’italiano dell’Università di Siena. “Il bilinguismo, per queste persone, è sempre sottrattivo rispetto alla cultura d’origine, è sempre di fatica”. Non è orpello ma esigenza imposta dalla vita, nuda e salata. “E’ anche per questo che cerchiamo di lavorare molto con i bambini del doposcuola, per rendere l’apprendimento più naturale” spiega la Bellandi, stavolta spinta più dagli anni passati all’Itc Pacini a insegnare che dal ruolo

di presidente del gruppo. Per chi lo guarda da fuori, quel salone di bimbi con i quaderni aperti e la risata sempre pronta, sembra un quadro d’artista. Coloratissimo, vitale. Le mamme aspettano i figli nel cortile. Verso le sei e mezza tornano tutti a casa. Nell’aula resta una distesa di sedie gialle, un campo di girasoli. Cala il buio e il centro chiude. “C’è il sogno di far diventare Pistoia acco-gliente anche di notte”, dice Paola.

Quei paesaggi da fiabaLE GITE DELLA BANCA / IRLANDA

P ROFUMO d’Irlanda per i nostri soci, Dublino ci accoglie auste-ra e affascinante col suo cielo triste e le onde del (vicino)

Oceano a far da cassa di risonanza. Gita fuori dall’ordinario, meta classica ma poi nemmeno troppo, perché Dublino fa sco-prire qualcosa dietro ogni angolo, che magari non t’aspetti e quindi è più sor-prendente ancora. Abbiamo visto tanto, e tanto avremmo voluto vedere: ecco il motivo per cui la gita in terra d’Oltremani-

ca è stata promossa a pieni voti, un dispiacere dirle bye bye, che poi è un arrivederci e non certamente un addio.Abbiamo sostato a Clonmacnoise, dove fa bella mostra di sé il più esteso sito monarchico dell’Irlanda, e abbiamo visita-to Galway, la capitale dell’ovest gaelico, cittadina universitaria di invidiabile fasci-

no con i suoi moli, le sue coloratissime vie fatte di locali e divertimenti, la carat-teristica musica e la gustosa gastrono-mia. Galway è il passepartout per scopri-re le bellezze del Connemara, regione dove la natura regna incontrastata: il susseguirsi di boschi, laghi, fiumi, spiag-ge dorate e dolci colline. Da lì la visita all’Abbazia di Kylemore, convento bene-dettino dall’incredibile ubicazione: nel bel mezzo dei boschi nel cuore del Connemara, è circondato dall’omonimo lago su cui viene riflessa armoniosamen-te l’immagine biancastra dell’abbazia.

L’Irlanda è cultura ma anche meravigliosi paesaggi, come quelli ammirati sulle scogliere di Moher (letteralmente le “sco-gliere della rovina”), a picco sull’Oceano Atlantico, il cui punto più alto raggiunge i 214 metri.Poi Dublino, col Trinity College, il famo-sissimo Book of Kells — considerato il più prezioso manoscritto medievale dei vangeli al mondo — e il National Museum, dove ammirare tesori d’arte celtica e cri-stiana medievale. Poi, naturalmente, i tanti pub: uno spettacolo nello spettaco-lo. Da non perdere!

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La cultura trovamassima espressionenel Trinity College

e nel National Musem,dove ammirare l’arte

celtica e cristiana medievale

Dublino è capitale e cuore di una terra che regala paesaggi da cartolina: meravigliosele scogliere di Moher a picco sull’Oceano Atlantico. La natura regna incontrastata nel Connemara, regione dove “trova casa” l’Abbazia di Kylemore

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Il barocco che incanta LE GITE DELLA BANCA / SICILIA

M ESSAGGIO per i naviganti e per chi — soprattutto in estate — è contagiato da esterofilia acuta: la Sicilia

offre tutto quanto si può pretendere da una vacanza. Le spiagge, i colori di un mare fantastico, l’arte sparsa (a piene mani) qua e là in città meravigliose, per-corso — quest’ultimo — che abbiamo cavalcato con soci della banca regalan-doci cinque giorni unici ed entusiasman-ti. In successione: Catania, Siracusa, Noto, Modica, Ragusa, Taormina, Acireale, l’esaltazione dell’arte barocca, bellezze uniche che lasciano senza fiato.La Sicilia di Sciascia e Calvino, quella cantata nei vespri, la meno (colpevol-mente) reclamizzata a livello commercia-le ma di un valore inestimabile, unico: c’è la “perla nera” (Catania, denominata così dopo l’eruzione lavica del 1669 che ricoprì completamente la città) e c’è la “perla bianca” (Siracusa, per l’utilizzo della pietra arenaria nella costruzione degli splendidi palazzi barocchi); c’è il “giardino di pietra” (Noto, per l’unicità e la ricchezza d’arte, tanto da meritarsi, nel 2002, la nomina a Patrimonio

dell’umanità dall’Unesco) e c’è Modica, punta di diamante del barocco siciliano con le sue caratteristiche casette scava-te nella roccia cal-carea della zona e meta di degusta-zione del cosiddet-to “cibo degli Dei”, il famosissimo cioc-colato prodotto con tecniche antichissi-me di importazione atzeca; c’è Ragusa Ibla, fatta di catte-drali e basiliche fra cui emerge quella di San Giorgio, progettata dall’architetto

Rosario Gagliardi, con la sua maestosa cupola e la facciata convessa, e c’è Acireale, terra di confine fra la Val di

Noto e il V a l d e m o n e , (quasi) interamen-te ricostruita a seguito del terribi-le sisma del 1693. Ci sono infine il fascino dell’Etna, Taormina e

Acitrezza, spettacolari mete che coniu-gano arte e divertimenti (diurni e, soprat-tutto, serali).

Modica è statameta di degustazionedel “cibo degli Dei”,il cioccolato prodotto

con antichissimetecniche atzeca

Alla scoperta della terra narrata da Sciascia e Calvino e cantata nei vespri: Catania e Siracusa sono le due “perle”; Noto, giardino di pietra, è patrimonio dell’Unesco.Il fascino di Ragusa e Acireale, le bellezze turistiche di Taormina e Acitrezza

Enzo PaciniResponsabile Soci

In viaggioIn viaggio

TRA PROGETTI E REALTA’

H ANNO DAI 18 AI 30 ANNI, tanta voglia di mettersi in gioco e di dire la loro. Sono i ragazzi del gruppo Giovani

Soci della Banca di Pistoia. Nato circa un anno e mezzo fa, al primo complean-no aveva già superato le 200 adesioni (e il numero è in continua ascesa). A raccontarne l’impegno, le speranze, i successi e le difficoltà sono proprio alcuni di loro: Tommaso Amadori, 21 anni laureando in biotecnologia, Niccolò Gori, classe 1990 e studente di inge-gneria meccanica, Martina Romoli, 23 anni, lavoratrice, Alessio Ghelardini, 21 anni, studente di Scienze Politiche a Firenze. Quando è nato il gruppo?

Tommaso: “Il 25 aprile 2010, giorno in cui abbiamo esposto ufficialmente la nostra idea all’assemblea dei soci della banca”.

Cosa spinge ragazzi di 20 anni ad addentrarsi in un ambiente non proprio giovanile e in una materia considerata solitamente poco en- tusiasmante?

Alessio: “Attraverso la banca possiamo proporre iniziative, lanciare idee, essere di stimolo per altre attività. Quando abbia-mo una proposta, sappiamo che c’è qualcuno che può ascoltarci e aiutarci a realizzarla. Con il gruppo dei giovani soci si è facilitato il dialogo tra la struttura bancaria e il mondo giovanile nelle sue più varie sfaccettature. All’interno del nostro gruppo, infatti, ci sono sia studen-ti che lavoratori”. Tommaso: “Abbiamo riscontrato subito grande disponibilità nei nostri confronti, a partire dalle agevolazioni per noi giovani: a esempio, possiamo aprire un conto alla Banca di Pistoia con 50 euro (una quota), mentre prima ci volevano almeno 500 euro”.

Quali erano gli obiettivi iniziali?

Tommaso: “L’idea è nata dalla constata-zione che gran parte della compagine sociale della banca apparteneva a una o, soprattutto, due generazioni sopra la nostra! Pur rispettando queste caratteri-stiche, volevamo creare una dimensione che fosse più a misura di giovane. Anche il linguaggio e gli strumenti di comunica-zione che utilizziamo sono nuovi: abbia-mo creato il sito, aperto un blog, usiamo Facebook. E ha funzionato, visto che a fine 2010 eravamo appena 21 e a mag-gio 2011 abbiamo tagliato quota 210”.

Un bilancio del primo anno e mezzo di attività: quali sono state le soddisfazioni e quali le difficol- tà?

Alessio: “Tra le soddisfazioni c’è sicura-mente la grande crescita del gruppo in così poco tempo. Un successo inatteso

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L’altra facciadella banca:Siamo il nuovoche avanza

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che ci pone di fronte a un grande lavoro. Così tanti giovani soci sono un enorme potenziale che, però, dobbiamo riuscire a organizzare a pieno. Siamo già sulla buona strada, ma ci vuole la collaborazione di tutti. Ci piacerebbe che i nuovi soci parte-cipassero sempre più attivamente, con proposte, suggerimenti, idee, alle attività del gruppo”.Niccolò: “Altro tra-guardo positivo è la nascita del sito nell’ottobre scorso (www.giovanisoci.it).Tommaso: “Inoltre, ci ha dato molta sod-disfazione l’iniziativa dell’8 aprile a Chiazzano sul tema della cooperazione a cui hanno partecipato molti giovani”.

Nell’ultima assemblea dei soci ha parlato Martina, una ragazza. In un ambiente solitamente maschile,

questa scelta è stata un messag- gio o una semplice casualità?

Tommaso: “Semplicemente all’assem-blea 2010 aveva parlato un ragazzo, Andrea, e quest’anno abbiamo scelto Martina”.Niccolò: “Non ci avevamo nemmeno fatto

caso. Questi pro-blemi di differenze di sesso non appar-tengono più alla nostra generazio-ne. Ci viene natura-le assegnare un ruolo dirigenziale a una donna. Il futuro

è della nostra generazione e, che gli adul-ti di oggi lo vogliano o meno, tra poco queste distinzioni non ci saranno più, per il semplice fatto che la nostra generazione non le sente”.

E te, Martina, che ne dici?

“La cosa importante, all’assemblea, era che a parlare fosse uno di noi. Se poi era maschio o femmina non credo avesse grande importanza. All’assemblea prece-dente aveva parlato un ragazzo, così questa volta è stato naturale fosse una ragazza a esporre. All’inizio, nel gruppo io ero praticamente l’unica femmina. Ora, invece, tra i giovani soci i due sessi sono parimenti rappresentati”.

Un giovane socio nel Cda della banca: un miraggio o un obiettivo?

Tommaso: “Ci farebbe piacere, anche se non è questo il fine per il quale è nato il gruppo”.Alessio: “Speriamo che in futuro ci sia qualcuno che rappresenti una fetta così consistente della compagine sociale, come quella dei giovani soci, ma io credo che questo sarà frutto di un’evoluzione fisiologica, naturale della banca”.

Marta Quilici

Un sito internet cliccatissimo,l’apertura di un blog

e l’utilizzo di Facebook:“Il Cda ha assecondato

le nostre richieste.Ma vogliamo fare di più”

Il gruppo dei Giovani Sociha superato 200 iscritti

dopo appena un anno di vita.“Ci proponiamo con linguaggie strumenti di comunicazione

innovativi e accattivanti”

La banca del futuro La banca del futuro

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Gli inizi a Casalguidi, un lavoro nel reparto di ortopedia al Ceppo,il debutto con la Pistoiese nel mondo dei pro’ prima del Grande Salto nel Milan: “Negli spogliatoi mi massacravano: cosa ci vai a fare in ospedale?”

Stefano GraniLe mani sullo scudetto: Vado al Max con Allegria

Uno SU MiLLE cE La Fa

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SportSport

a Un cErto pUnto il Conte Max fece: “Firma qua”. “E io firmai, senza leggere una lettera”. E, soprattutto, senza leggere nemmeno un numero. Firmare un contratto in bianco: si dice così, no? Bella forza: ci sono, per caso, altri spazi di manovra quan-

do ti ritrovi davanti, da sinistra a destra, Massimiliano Allegri, Adriano Galliani e Ariedo Braida, rispettivamente allenatore, amministratore delegato e direttore sporti-vo della squadra più titolata al mondo? In molti pagherebbero: Stefanino-Grani-da-Casalguidi, tutta una parola perché è bello così, viene pagato. E pure bene. Anzi, benone. “Seppur pazzo di gioia, di tanto in tanto mi chiedevo, e a dir la verità anche la mia compagna me lo chiedeva: d’accordo il Milan, ma i soldi? Quanti ne avrò presi? Qualche pensiero mi venne: un figlio pic-colo, lontano da casa, le spese sono tante… Poi un giorno trovo un amico, Alessandro Borri, di Casalguidi come me, proprietario di un’edicola a Forte dei Marmi. Agita la mano, come dire “mannaggia a te”, e mi urla: “E’ passato Galliani a prendere i giornali e gliel’ho buttata là:

“Dottore, il mio amico Grani v’è costato una tombola!”. E lui: “Non mi ci faccia pensare… Ma se non è bravo, ci rende i soldi lui e ce li rende pure Allegri che l’ha voluto: sembrava che senza Grani non si potesse nemmeno entrare in campo!”.La morale è stranota e — soprattutto per chi milanista non è — pure inutile ricordarla. Grani lucida i motori e Allegri guida lo yacht in porti dove si stappa solo champagne. Guarda te come

cambia la vita: impossibile continuare a bere gazzosa se viaggi a braccetto con chi viene chiamato — non a caso — Conte Max e prende la vita di petto, a colpi di sorriso, salsedine in faccia (lui, livornese di scoglio) e battute che ti fanno venire le lacrime agli occhi. “Una volta, mentre lo osservavo in allenamento a Grosseto, pensai: “Se que-sto, a breve, non fa l’allenatore a livelli mas-simi vuol dire che io di questo sport non ho capito proprio niente”.

E non se ne staccò più, cavalcando l’onda come un surfista nell’oceano, in equilibrio perfetto e la mente sgombra da cattivi pensieri, nonostante la lettera di dimissioni presentata all’ospe-dale che stracciava un contratto a tempo indeterminato

EIn rossonero

senza guardare le cifre del contratto. “Allegri mi disse: firma qua.

Di lui ho sempre pensato:se non arriva al top,

il calcio va alla rovescia”

Andrea CabellaDirettore responsabile

Stefano Grani, 42 anni,fisioterapista del Milan

con cui ha vinto l’ultimo scudetto.

In precedenza ha lavoratoper Aglianese, Pistoiese,

Sampdoria, Grosseto, Spal, Sassuolo e Cagliari

Mazzarri lo voleva a Livorno,con la Sampdoria di Novellinola prima esperienza in serie A.

“Al Milan ho trovatoun ambiente fantastico

ma non perdo di vista la realtà.E dire che mi chiamavano

il fisioterapista della Coca Cola”

Sport

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Sport

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Stefaninoè grandein tutto.

Non si stanca mai:né di lavorare,né di mangiare

Massimiliano Allegri

Massimiliano Allegri,44 anni, allenatore del Milan:

ha conosciuto Graniquando ancora era

giocatore nella Pistoiese

Grani abbraccia Ibrahimovicdopo lo 0-0 dell’Olimpicocontro la Roma che consegnail diciottesimo scudetto al Milan

(“Lasciamo perdere quello che mi disse mio babbo…”), il futuro che solo apparentemente è una scommessa, chi ha capacità fuori dal comune vede molto più in là del proprio naso, anche partendo dal basso e arriccian-dosi le maniche, e non da imparato come troppe volte succede, specie nel calcio. Serie C, serie B, serie A, scudetto: Grani conosce (e mostra) solo la parte bella del successo perché non esiste contraltare alla sua crescita esponenziale, i punti di riferi-mento sono quelli di sempre (“Con una fami-glia come la mia alle spalle non ho mai avuto paura di sbandare, il resto l’ha fatto Allegri: va a pranzo con Berlusconi e chiama l’amico d’infanzia: credetemi, non ne ha perso di vista uno”), Viareggio la meta preferita per trascorrere le (poche) ferie, Casalguidi la culla degli affetti che non tradiscono mai. “I primi tempi di Milanello non sono stati sem-plici. Anzi, adesso che la nuttata è passata posso dirlo: sono stati proprio duri. Era tutto iperprofessionale, iperspecializzato, iperor-

ganizzato, iperstudiato nei minimi particola-ri. Eppure arrivavo dal Cagliari, mica degli sprovveduti, grande società, di un’efficienza unica con i mezzi che ha. Sì, il Milan è il Milan, un onore lavorarci, ma chi se lo crede-va così? Per dire: ci sono gli addetti al mar-keting italiano e gli addetti al marketing europeo, la comunicazione è curata nei minimi dettagli, ognuno al suo posto e con le proprie responsabilità, guai sgarrare, per non parlare della quantità di uomini di campo, e quindi nel settore in cui opero direttamen-te. Mi chiedevo: sarò all’altezza?”.Per lui assicurava Allegri, una sorta di fidejussione sulle capacità: i due si sono conosciuti nello spogliatoio di Pistoia, il fisioterapista venuto dalla gavetta che bussa con timidezza e chiede il permesso per aprire quella porta e il calciatore dalla straripante personalità a cui davano di matto per aver sperperato un talento non comune — Omar Sivori, pulpito doc, una volta disse: “Se facessi l’allenatore della

Nazionale metterei Allegri in mezzo al campo, poi altri dieci a ruotargli intor-no” —, come se sei campionati in serie A e svariati in B (da protagonista) fos-sero roba per tutti e da tutti. “Arrivo alla Pistoiese dopo cinque anni di Aglianese. Ho iniziato nel Casalguidi, Seconda categoria, e da lì un’espe-rienza nel ciclismo, grazie al corteg-giamento di quella grande persona che era Franco Ballerini. Poi di nuovo calcio, la mia passione. La Pistoiese — la Pistoiese di Bozzi e Agostinelli per intendersi — mi prende e mi desti-na al settore giovanile. La pacchia, con tutto il rispetto, dura poco: servi anche in prima squadra, mi dicono. Fantastico, pensai al volo, ma una medaglia è sempre fatta di due facce: per tutta la settimana seguo gli allenamenti di Agostinelli, il sabato vado in panchina con la Primavera, poi a fine partita via di corsa in ritiro

con la prima squadra: c’è il campionato di domenica. E il lunedì? Di nuovo in ospeda-le, sala operatoria di ortopedia. Altro che mani d’acciaio e fisico bestiale…”.Grani piace alla gente che piace, lavora più di un esaltato perché tutti vogliono lui. E se tutti vogliono lui — disse una volta l’ex direttore generale della Pistoiese, Silvano Bini — “vuol dire che è bravo. Il calciatore sperpera i soldi ma tiene al fisico perché sa che solo curandosi il fisico può mantenersi ad alti livelli”. E da lì partono i corteggia-menti vari. “Il primo fu Fabrizio Fioretti, grande persona e grande centrocampista, adesso fuori dal calcio e titolare di un risto-rante a Roma: Non ci basta averti il pome-riggio, abbiamo bisogno di te anche la mattina. E vuoi mettere la differenza di divertimento? Il secondo fu Allegri, che mise il carico da undici nei miei già trabal-lanti pensieri: de’, ‘sa ci vai a fa’ in ospeda-le? Due parole, e via, come sua abitudine, che mi aprirono gli occhi. Il resto lo fece Gianni Rosati, dirigente della Pistoiese, che nei ritiri di Pescia mi bombardava di continuo: hai davanti una grandissima car-riera, beato il tuo procuratore… Ma tu pre-ferisci lavorare in ospedale con i malati di ortopedia: che peccato…”.Grani cede e svolta, tu chiamalo se vuoi colpo di testa, gesto “tecnico” perfetto, l’av-vitamento, la torsione del busto, l’impatto, la parabola secca e decisa. E intanto Allegri smette di giocare e inizia ad allena-re, nell’Aglianese, e le loro strade si intrec-ciano ancor più, Stefanino e Max, come in una serie televisiva, ma qua è tutto vero: si capisce che la stoffa c’è e non serve com-prarla al mercato, i risultati arrivano e i

consensi pure. Allegri vola a Ferrara prima, a Grosseto poi, infine a Sassuolo e Grani dietro, sempre di corsa con la Sixtus in mano, non in pianta stabile perché i mezzi (delle società) sono quelli che sono, il fisiotera-pista in organico è quello del posto e non quello di fiducia dell’allenatore, che al massimo è da consi-derare un consulente esterno da far entra-re nello spogliatoio un paio di giorni a settimana e rizzati (ah, le gelosie…). Ma è solo questione di tempo, e Stefanino-Grani-da-Casalguidi ha umiltà e intelligenza per aspettare, il carro giusto è quello di Allegri, e lui non ci pensa nemmeno a perderne la ruota. Nonostante, nel frattempo, qualcuno bussi alla sua porta e gli offra tanta roba: una società a caso, la Sampdoria, per cui Grani lavora una stagione con Novellino allenatore (“Esperienza fantastica per la crescita professionale e di mentalità”); un nome per niente a caso, Walter Mazzarri che conosce Stefano a Pistoia e vorrebbe legarselo stretto nell’avventura di Livorno. Lui ringrazia ma non perde di vista la stra-da maestra, la scommessa (?) comincia a restituire interessi quando Allegri firma — dopo un campionato faraonico a Sassuolo, portato in B — per il Cagliari, finalmente serie A. Lì sì che c’è spazio per allargare

il gruppo: Max, oltre al fido “secondo”

(attuale allenatore dei portieri del Milan, Marco

Landucci), porta un prepa-ratore atletico (Simone Folletti,

da Ferrara) e Grani, appunto. Due anni e via, il salto nelle braccia al Diavolo, lo

scudetto come buon-giorno, ma soprattut-to tanto rispetto da un ambiente che vuole solo i migliori, scartando con perdi-te chi sta appena un gradino sotto (Enzo Ferrari diceva: i secondi sono i primi degli ultimi). “Solo adesso comin-

cio a rendermi conto dove sono arrivato”, dice Stefano dopo un anno vissuto in apnea, perché gli esami sono quotidiani e non finiscono mai, specie per chi — nell’am-biente dell’apparenza e dello scetticismo esasperato — arriva dalle retrovie, per giunta in silenzio e con educazione. Nemmeno un giorno di ritiro e qualcuno scrisse: nello staff di Allegri c’è un fisiotera-pista che consiglia di bere Coca Coca prima degli allenamenti estivi perché favo-risce la digestione e alleggerisce il fisico in vista dei pesanti carichi di lavoro. Sarebbero questi i metodi innovativi del nuovo tecnico del Milan e dei suoi collaboratori?Un anno dopo: cin cin, in alto i calici, non importa se riempiti con champagne o Coca Coca. Sempre scudetto è, vuoi met-tere la goduria alla salute dei rosiconi?

a una parabola evangelica questi operai non hanno avuto la chiamata e nemmeno il salvagente dell’ultima ora: sono stati can-cellati dal mare come se non fossero mai esistiti e poi sepolti senza nome. Di molti, nessuno saprà nemmeno che sono morti. A essi è stato tolto anche il minimo di una dignità, il nome. Dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, rozzezza, prepoten-za, corruzione, scon-cezza che sommerge il Bel Paese come liquami che salgono dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgu-stoso sia uno stadio ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione darwiniana, sia fatalmente dominante. L’indifferenza diffusa che mette in soffitta i richiami alla Costituzione è sintomo, fra i tanti, della involuzione etica in atto. Che pensare, peraltro, di un mondo di battezzati di cui si palesa, ogni giorno di più, il senso della disaffezione etica ben al di là dell’apparte-nenza formale?Nonostante tutto sono convinto che c’è un’altra Italia possibile, rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al mondo così com’è e come esso preten-de, anche perché, se proprio si è costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava davanti ai potenti, ma voltandosi

all’altra parte. Ricordo quanto ha osservato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una lettera inviata allo scrittore Claudio Magris e pubblicata il 6 giugno su Il Corriere della Sera. Nel suo intervento pubblicato dopo il naufragio al largo della Tunisia del peschereccio partito dalla Libia, Magris aveva rilevato come “le tragedie

odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione sia pur frequente, bensì una regola”, rappresentando una

“cronaca consueta” e che “non desta più emozioni collettive”, ma anzi provoca “assuefazione che conduce all’indifferen-za”. “Caro Magris — risponde il Capo dello Stato sul quotidiano di via Solferino — lei ha dolorosamente ragione. Tocca noi tutti l’assuefazione alle tragedie dei “profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile” che periscono in mare. “Ma se in qualche modo — si chiede il capo dello Stato — è istintiva l’assuefazio-ne, è fatale anche che essa induca all’in-differenza? A me pare sia questa — risponde — la soglia che non può e non deve essere varcata. Se è vero, come lei dice, che la democrazia è tale in quanto sappia “mettersi nella pelle degli altri, pure

in quella di quei naufraghi in fondo al mare”, occorre allora scongiurare il rischio di ogni scivolamento nell’indifferenza, occorre reagire con forza — moralmente e politicamente — all’indifferenza: oggi, e in concreto, rispetto all’odissea dei profughi africani in Libia, o di quella parte di essi che cerca di raggiungere le coste siciliane come porta della ricca — e accogliente? — Europa”. “La comunità internazionale, e innanzitutto l’Unione europea, non posso-no restare inerti — conclude Napolitano — dinanzi al crimine che quasi quotidiana-mente si compie organizzando la partenza dalla Libia, su vecchie imbarcazioni ad alto rischio di naufragio, di folle disperate di uomini, donne, bambini… Ma è un crimine che si chiama “tratta” e “traffico” di esseri umani, ed è come tale sanzionato in Europa e perfino a livello mondiale con la Convenzione di Palermo delle Nazioni Unite nel 2000. Stroncare questo traffico, prevenire nuove, continue partenze per viaggi della morte (ben più che “viaggi della speranza”) e aprirsi — regolandola — all’accoglienza: è questo il dovere delle nazioni civili e della comunità europea e internazionale, è questo il dovere della democrazia”. Mi auguro che queste parole trovino ascolto. Grazie presidente!

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VIAGGIO A LAMPEDUSA

In principio era un’isola di passaggio nel cuore del Mediterraneo,poi i Romani la utilizzarono come base per la produzione di pesce e derivati.Per i pirati arabi era un rifugio, per gli Americani una stazione radio della Nato,ma dagli anni ‘90 è conosciuta per gli sbarchi di immigrati.Mimmo Paladino ha dedicato un monumento a quanti sono morti in mare

Arnaldo NestiProfessore e scrittore

Porta (dolente) d’Europa

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S ONO ARRIVATO, per la prima volta, a Lampedusa in volo da Bologna in un pomeriggio dome-nicale. L’isola — la più estesa

delle Pelagie nel cuore del Mediteraneo — mi è apparsa subito nella sua luminosi-tà. Ospitato in un elegante hotel mi sono trovato ben lontano dal retroscena come quello decritto in un romanzo di Di Luigi. In esso un giovane lavora per un ente che si occupa del primo soccorso ai sempre più numerosi disperati che approdano lungo le coste del nostro paese, ne deriva una realtà che viene ben indicata dal titolo “L’odore del dolore” (Roma, 2007).All’indomani mi sono messo in cammino per orientarmi nell’isola. Sono stato in centro e poi ho chiesto del Comune e della parrocchia. Ho potuto raccogliere alcune informazioni. Ringrazio ancora a distanza di settimane il parroco don Stefano Nastasi.In principio era un’isola di passaggio con-ficcata nel cuore del Mediterraneo; veniva usata come piazzola di sosta per le flotte Greche e Fenicie, poi i romani la utilizza-rono come base per la produzione di pesce e derivati; per i pirati arabi era un rifugio; per il Governo americano il posto perfetto per una stazione radio della Nato. Ma dagli anni ‘90 a oggi Lampedusa è più conosciuta per l’ingente numero di immi-grati che dall’Africa si riversa sulle coste Italiane, al punto che alcuni sono arrivati a definirla La Porta d’Europa. Che tipo di porta? Nel 2009, dopo che in un anno le coste di Lampedusa avevano visto arrivare flotte di barconi per un totale di 30.000 immigra-

ti, al momento del mio arrivo il centro per clandestini (Ctp) è stato chiuso e le strut-ture di accoglienza sono vuote. Ma ben presto la situazione è precipitata. Centinaia e centinaia sbarcano a Lampedusa. Attraversando l’isola, in una delle prime mattine, dietro alcune informazioni, arrivo alla Porta di Lampedusa-Porta d’Europa “il monumento dedicato alla memoria dei migranti che hanno perso la vita in mare”. L’opera realizzata da Mimmo Paladino è una porta di circa cinque metri di altezza e tre di larghezza, in ceramica refrattaria che riflette la luce, collocata sul promon-torio in contrada Cavallo Bianco, rivolta in direzione del continente africano. Questa nuova Porta di Paladino, ispirata alla drammatica vicenda delle migliaia di migranti che, affrontando incredibili avver-sità, giungono a Lampedusa alla dispera-ta ricerca di un destino meno sofferto, vuole anch’essa evocare una ‘terribile allegoria’ come è stato osservato, quella degli uomini, delle donne e dei bambini che, fuggendo da insopportabili condizio-ni di vita, riescono a raggiungere, strema-ti, l’approdo in Europa. Ma anche e soprattutto quella che diventa ‘memoria dolente’ di quanti, nella sorda indifferenza del mondo, nessuno sa dire quanti siano, hanno invece perso la vita in mare nel tentativo di realizzare il sogno di una nuova e più dignitosa esistenza. Questa scultura di Paladino appare ed è, in effet-ti, una sorta di sacrario laico, che affida drammaticamente alla storia, la memoria di una strage.Mi sono fermato a riflettere davanti alla

Porta avvolto dal silenzio del mare. Avrei voluto deporre un fiore. Ma come e dove? Molti sono i pensieri che affiorano. Il primo, di fronte al mare silente ma, al tempo stesso, impietosamente aggressi-vo mi è venuto di pensare agli aspetti di questa “guerra impietosa” di cui spesso non ci si rende conto ancora abbagliati dall’illusione che, caduto il muro di Berlino, per dirla con una frase poco intelligente, che “la storia è finita” e che il mondo sorto dal crollo del comunismo, regolato dalle regole armoniche di tipo capitalistico, sarebbe stato il migliore dei mondi possi-bili.Nel giro di pochi anni si deve fare i conti con la storia che sembra accelerare i suoi ritmi. Popoli e aree del mondo, in modo repentino e imprevedibile, si affacciano alla ribalta della storia e rivendicano i loro diritti a esistere. Va corretta l’inaccettabile logica che ritie-ne normale la disuguaglianza di partenza tra gli uomini, per cui alcuni sono destina-ti a una vita miserabile. Il mondo intero è un turpe teatro di disuguaglianza. I profu-ghi che arrivano alle nostre coste proven-gono da questo mondo di esclusi a priori. E’ stato scritto: “Questi corridori nella corsa della vita sono condannati a partire quando gli altri sono quasi già arrivati e quindi perdenti già prima della gara”. Quanti arrivano a Lampedusa apparten-gono a dannati della terra, giustamente desiderosi di vivere con un minimo di dignità. Stando di fronte alla porta che in qualche modo è una croce sul Mediterraneo, cimitero di uomini e di donne naufragati senza nome. Per rifarsi

EticamenteEticamente

Questi migrantisembrano dannati della terra

ai quali viene toltoanche un minimo

di dignità, persino il nome.Dobbiamo reagire

con forza, politicamentee moralmente,

a tanta indifferenza

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Migranti arrivati a Lampedusa, stremati dalla fatica di un viaggio atroceLa porta di Lampedusa, detta anche Porta d’Europa: l’opera di Mimmo Paladino è alta 5 metri e larga 3

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Panciatichi, dominanti in San Marcello, alleati dei Medici. E’ perciò presumibile che il condottiero sia stato chiamato in soccorso dai Cancellieri “cavinanesi”, con la promessa di rinforzarlo di uomini e armi.L’incertezza è sul viaggio Calamecca- Migliorini. Tuttavia convince uno studio di Ferruccio Capecchi e Tiziano Federighi che propone due ipotesi: una “scorciatoia” da Piteglio, ma piuttosto ardua, e una via più comoda, ma più lunga, da Prunetta-Prataccio. La prima “esce da Calamecca e sale al valico di Sostrada, tra le valli del Pescia e del Lesina, E’ un tratto quasi tutto lastrica-to in arenaria — informano i due studiosi — che scende poi nella valle del Liesina, con stretti tornanti in notevole pendenza. E’ largo due metri e venti, massimo due e trenta, oggi non sempre individuabile. Dal ponte sul Liesina si raggiungevano quelli sul Rio Omicio e del Rio Buio, dopo di che la vecchia strada entrava in Piteglio da via del Fosso e ne usciva da via del Pianello verso la Pieve Vecchia e Migliorini”.Seconda ipotesi. “Passato il valico di Sostrada, la strada attraversava il Liesina in località Sasso alla Sega o poco più a monte presso il Molino dell’Ospedale e giungeva alla periferia nord di Prunetta fra le località di Le Piane e Poderaccio. Da

Prunetta proseguiva per Prataccio e Migliorini lungo un percorso oggi trekking. Fino a Cecafumo la vecchia sede strada-le è andata distrutta dalla costruzione della Mammianese, anni 1840-45, mentre da Cecafumo corre a monte di essa, pas-sando ai piedi della dorsale delle Lari, oltre 700 metri a est di Piteglio. Sembra

improbabile — notano Capecchi e Federighi — che il condottiero abbia scelto di salire ai 1200 metri di Croce delle Lari (come sostiene il Valori in “La difesa”), anziché aggirare la dorsale lungo la strada via Piteglio, tanto più che si trascinava dietro nume-rosi carichi di provviste, più mandrie di buoi e greggi di ovini”.Ora bisogna chiedersi: quan-do i Cancellieri hanno chia-mato il Ferrucci? Prima o appena giunto a Calamecca? O quando ormai poteva esse-re arrivato a Prunetta? Nel primo caso avrebbe fatto la “via corta”, nel secondo caso la “via lunga”. Da Migliorini, attraversato il Rio Pagano, la faticosa mar-cia raggiunse San Marcello

che per ordine del condottiero prese subi-to fuoco: la Porta Arsa ha ancora l’incen-dio nel nome. Poi, l’ultima ascesa, a Gavinana. L’ultima del celebrato capitano “Fratello d’Italia”, perché “Maramaldo memoria e vendetta” lo finì con un pugna-le. A costo di meritarsi l’ingiuria “Vile!, tu uccidi un uomo morto!”

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Luoghi nascosti

Da Calamecca a Migliorinipassando per Piteglio

Da Calamecca a Migliorinipassando per Prataccio

E’ considerata la madre delle selve del nostro Appennino per i boschi certificati dal 776 appartenenti al nobile longo-bardo Winifredo di Willeraldo. Storia e natura accolgono oggi il visitatore immergendo-lo su per stradine fino all’anti-ca pieve: a tre navate con soffitto ligneo. Da vedere i capitelli con teste umane della 2° metà del XV secolo.

LE TAPPE

CalameccaLa madredelle selve

Era famoso l’ospedale della Croce Bandelliana che fu dei Templari nel XII secolo. Tutto è andato distrutto. Ma gli abi-tanti del luogo ne hanno labo-riosamente riutilizzato le pie-tre con scritte, incisioni e figure per adornare le facciate delle proprie case. La chiesa è settecentesca con altari coevi in pietra e l’abside coronata da dentelli romanici.

PrunettaCase decorate dall’ex ospedale

Il castello, pieve edificata sulla rocca, e il campanile erano i pilastri. La loro difesa era affi-data a Maria: si narra che in chiesa siano conservate alcu-ne stille del latte della Madonna. In Suo onore hanno edificato un’artistica cappella preceduta da un arco e stipiti in pietra scolpita a festoni e abbellita da due dipinti: uno primi ‘600 e l’altro metà ‘700.

PiteglioStille di lattedella Madonna

E’ un moderno villaggio turi-stico, quasi fiabesco, ambito da olandesi, tedeschi, ameri-cani eccetera, desiderosi, da lì, di conoscere l’Appennino e le altre bellezze della Toscana intera. Una villa impreziosisce le caratteristiche abitazioni allietate da un paio d’artisti-che fontane. I primi studi sul territorio risalgono ai secoli XVIII e XIX.

MiglioriniUn villaggiofiabesco

Paolo GestriGiornalista

VIAGGIO NELLA STORIA

ono due versi dell’inno “Fratelli d’Italia”, un omaggio di Angiolo Silvio Novaro a Francesco Ferrucci, difensore della Repubblica Fiorentina, celebrato nel Risorgimento come simbolo di eroismo, libertà e indipendenza.

Nella battaglia di Gavinana, 3 agosto 1530, le truppe del Ferrucci si opposero all’esercito imperiale-pontifi-cio guidato da Fabrizio Maramaldo e dallo stesso comandante in capo Philibert de Chalon Principe d’Orange. Sostenuto dall’imperatore Carlo V, papa Clemente VII, battezzato Giulio de’ Medici, intendeva infatti restaurare il potere della propria dinastia sulla Città del giglio. Il Ferrucci fu sconfitto sul campo, ma per la storia ottenne una grande vittoria morale: nell’Ottocento, tra i tanti in patriottico pellegrinaggio, salirono a Gavinana in suo onore, il d’Azeglio, il Guerrazzi, il Tommaseo e perfino Giuseppe Garibaldi. Ma perché proprio Gavinana divenne teatro di scontro? E lungo quale percorso il comandante fiorentino guidò le truppe su per i monti? Gli storici non lo hanno ancora ben definito, ma si sa, di sicuro, che due notti prima il Ferrucci aveva dormito a Calamecca. Una storia tutta da raccontare.Bisogna partire da Volterra dove il nostro capitano aveva respinto un attacco del Maramaldo. Il quale, sconfitto, aveva inviato un giovane tamburino per trattare la pace. In quell’occasione il Ferrucci, già conosciuto impietoso, si mostrò oltremodo crudele, anche per quei tempi così facili alle

congiure e ai tradimenti: il tamburino lo fece impiccare a una torre della città: ché lo vedessero tutti!

Avvenne poi che, per spezzare l’assedio degli imperiali, Firenze dové richiamare il suo capitano. Il quale, raggiunta Pisa, avrebbe dovuto percorrere la via dell’Arno, ma lungo il fiume sarebbe stato facile preda dell’odiato nemico. Decise

perciò di aggirare l’ostacolo passando dai monti: da Pisa arrivò a Pescia e da qui a Calamecca. Da Calamecca avrebbe potuto raggiungere Serravalle passando dalla Fem-

minamorta. Oppure, risalito a Prunetta, avrebbe potuto raggiungere

Pistoia ripercorrendo più o meno l’antica via Brandegliana. Invece no: si ritrovò a Gavinana.Il fatto è che a Gavinana c’erano i Cancellieri, favorevoli alla

Repubblica, ma sotto tiro dei

Sulle traccedel Fratello d’Italia

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Difensore della Repubblica fiorentina, Francesco Ferruccicombattè nella battaglia di Gavinana contro l’esercitoimperial-pontificio. Seppur sconfitto, fu vincitore morale.Ecco i due itinerari possibili percorsi dal capitano

Luoghi nascosti

“ogn’uom di Ferruccio Ha il core, ha la mano”

La statua di Francesco Ferrucci nella piazza di Gavinana(foto gentilmente concessadalla biblioteca di San Marcello Pistoiese)

no DEi tanti modi di dire legati all’acqua e alla sua corrente. Nasce dall’osser-

vazione del funzionamento dei mulini, la cui forza motrice veniva fornita proprio dall’acqua che, deviata da un fiume, faceva girare le pale del mulino per poi tornare

nel fiume più a valle. La frase viene riferita a quelle cose che non si possono ormai recuperare, di situazioni in cui non si può tornare indietro, lasciando intendere l’inuti-lità di un rimpianto perché, in fondo, è naturale che sia (andata) così. Si parla pure di avvenimenti che non hanno più effetto né valore: come l’acqua che, avendo ormai oltrepassato il mulino, non può più muovere la ruota per macinare il grano.

n Modo di dAre inizio alla riflessione filosofica è la famosa domanda formulata da Leibniz:

“Perché c’è qualcosa invece che nulla, dal momento che il nulla è più facile e più sem-plice di qualco-sa?”. La doman-da presta il fian-co a un’obiezio-ne: è difficile, e non intuitivo, concepire il nulla (che non è né il vuoto, né il silen-

zio, ma semplicemente il… nulla), tanto che viene definito come “assenza di qualcosa”. La domanda rinvia alla que-stione dell’essere, dell’origine: se, come è evidente, c’è qualcosa e non il nulla, da dove nasce “il qualcosa”? In sintesi la risposta può avere una doppia faccia: 1) l’universo, in qualche forma, è sem-pre esistito, e allora è eterno, quindi si potrebbe dire che è dio: è la soluzione del panteismo (anche se qualcuno ha fatto notare che, per le leggi della fisica, un universo eterno sarebbe un universo di stelle morte); 2) l’universo è nato per opera di qualcuno o di qualcosa. Potrebbe essere Dio: è la soluzione del creazionismo, che sostiene l’insufficien-za del mondo a render conto di sé.

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Le forme(e l’eternità)dell’universo

FILOSOFEGGIANDO

di Franco Biagioni

Pillole digestive

ALBERO DELLA CUCCAGNA: LA VITE

Dove entra il bere, esce il sapereHemingway: “Il vino è uno dei segni di civiltà nel mondo”

iStoia non È FaMoSa per il vino come lo è per i vivai. Malgrado questo, i filari di vite (nella foto) sono stati, da sempre, parte integrante del nostro paesaggio. Quando il

podere produceva tutto ciò che serviva alla famiglia contadina, le viti “convivevano” con altre colture: ogni famiglia produceva il vino per il proprio fabbisogno. Col passare dei tempi l’agricoltura s’è via via specializzata, privilegiando, nella nostra pianura, i vivai. Le viti hanno trovato la loro collocazione nella fascia pedecollinare continuando a produrre un vino capace di non sfigurare su una tavola raffinata. Scriveva Hemingway: “Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo”.

PARADOSSO

Fra panteismoe creazionismostimolati dalla domanda di Leibniz: perché “qualcosa” e non il “nulla”?

MODI DI DIRE:ACQUA PASSATA NON MACINA PIU’

I mulinie i rimpianti

PU

U

A sCALA MusiCALe non si misura matematicamente, nonostante gli aggiustamenti (i temperamenti) proposti nel corso dei secoli: infatti, il prin-cipio ciclico su cui è costruita la scala (basato sul rapporto di 2/3) è incon-

ciliabile con l’equidivisione dell’ottava (data dal rapporto di uno a due) perché nessun numero naturale può essere al tempo stesso una potenza intera di 2 e

LE’ musica, altro che matematica

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Suor Lisa di Mariotto Baldovinetti fu committente di molti capolavori di Ventura Vitoni

PERSONAGGI D’ALTRI TEMPI

UrantE le loro scor-

ribande, le truppe papaline (il papa era Urbano VIII, nella foto, della famiglia Barberini) si attestarono sotto le porte di Pistoia per entrare a saccheggiarla. La città appariva sguarnita e sem-brava facile preda, ma la resistenza eroica di tutti i pistoiesi convinse gli assalitori a desistere e darsi alla fuga. Questo episodio, noto come “L’assalto dei Barberini”, viene ricordato come un luminoso even-to, che, in un secolo buio per Pistoia, contribuì a rafforzare il senso di appartenenza alla città.

LEGGENDE DI CASA NOSTRA

E dalle lacrime nacque la basilicaLa Madonna pianse per le lotte fra le famiglie pistoiesi

opo GLi SpLEnDori del libero comune nei secoli XII e XIII, Pistoia dal ‘300 ha goduto di un’autonomia

limitata, sotto la supremazia di Firenze. Nonostante la perdita di un potere effettivo, divisioni e rivalità fra le famiglie non si pla-

carono e degene-rarono spesso in vera e propria guerra intestina. Si racconta che, nell’anno 1490, in un periodo in cui le lotte fra Panciatichi e Cancellieri si fecero par-ticolarmente violente e sanguinose, dall’immagine della Madonna dell’Umiltà (cioè non seduta in trono) contenuta in un’edicola che si trovava dove ora sorge la basilica, sgorgarono lacrime, come se

la Vergine fosse turbata alla vista della crudeltà delle lotte civili. Commosse dal prodigio, le principali famiglie pistoiesi decisero di edificare, in espiazione delle violenze perpetrate, la

La Verginesegnò la treguafra Panciatichie Cancellieri

uor LisA di Mariotto Baldovinetti, fiorentina, fu, nella seconda metà del ‘400, badessa del monastero di San Giovanni e del monastero di Santa Chiara, a Pistoia.

La ricordiamo come committente di molte opere dell’archi-tetto pistoiese Ventura Vitoni: dal sodalizio artistico nac-quero la chiesa di Santa Chiara (nella foto), in via Puccini, la chiesa di San Giovanni Battista, il bel chiostro, ancora integro, di San Giovanni Battista. Vitoni, famoso anche per aver lavorato alla realizzazione della Basilica della Madonna dell’Umiltà, affermò un suo stile personale, che si affranca-va dall’egemonia artistica di Firenze, quasi a significare un sussulto di orgoglio di Pistoia verso la città che la dominava politicamente ed economicamente.

Dal sodalizioartisticofurono costruitele chiesedi S. Giovannie di S. Chiara

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Quel feeling fra badessa e architetto

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2 OTTOBRE 1643

Altolà alle truppedi Urbano VIII

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PillolePillole

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n Una conGiUntUra stori-co-politica nazionale e univer-sale nella quale tutto viene messo in discussione, a comin-

ciare dalla classe politica che, nelle varie situazioni mondiali, guidano i Paesi (in primis, l’Italia), ecco un Vannino Chiti che non ti aspetti. Quello che trent’anni fa sindaco di Pistoia, poi presidente della Regione Toscana e, dal 2001, deputato, mostra con il suo ultimo libro una grana culturale e una motivazione filosofica che lo colloca in una fascia molto alta fra i nostri rappre-sentanti a Roma. Affermazione arbitra-ria, quella di stabilire un ‘livello’ cultura-le della politica così come oggi viene percepita, ma alla quale inevitabilmen-te ci porta l’assistere ai martellanti talk show televisivi ai quali, peraltro, Vannino Chiti partecipa raramente.Dopo numerose uscite letterarie, il per-sonaggio-Chiti esce oggi ancor di più allo scoperto con il suo ultimo libro ‘Religioni e politica nel mondo globale – Le ragioni di un dialogo’ (Giunti edito-

re, pagine 236, euro 14,50). Chiti non lo dice ma sa certamente che l’universo, secondo gli ultimi studi, è profondo non meno di 291 miliardi di anni luce. In que-sto stesso ‘infinito’ si muove la parte infi-nitesimale di un pulviscolo che si chiama ’terra’, abitato da organismi quasi invisibi-li che si chiamano ‘uomini’. Ebbene, a fronte di tanta pochezza esistenziale, è mai possibile che l’uomo non riesca a trovare un punto di convivenza, non rie-sca a governare questa stessa piccolissi-ma terra con strumenti, d’ispirazione reli-giosa o materialista, che possano essere accettati dall’intera comunità per il benefi-cio della stessa? E’ per rispondere a queste domande che Chiti nel suo libro analizza una grande varietà di situazioni, quindi suggerisce, anzi ipotizza, soluzioni possibili e condivisibili. E’ uscito di recente un libro dell’antropolo-go Alberto Salza dal titolo inquietante: ‘Niente’. Vi si denuncia la presenza sulla terra di un miliardo e mezzo di uomini che non saranno mai uomini poiché la loro aspirazione a un’esistenza che abbia una qualsiasi prospettiva non potrà mai verifi-carsi (un buon numero di essi è peraltro destinata a morire di stenti entro il quinto anno di età). A fronte di questa tragedia dell’umanità, che sta evidentemente sullo sfondo del suo libro, Vannino Chiti incalza il lettore con una serie di inquietanti domande alle

Iquali riesce lui stesso a dare risposte spesso convincenti, se non soluzioni sempre praticabili nell’immediato.E’ del tutto evidente che nel presente la comunità internazionale e le singole nazionali stanno attraversando un momento di difficile identificazione divise come sono fra l’intolleranza, che blocca l’integrazione e impedisce un’etica mon-diale condivisa, e il potere fine a se stesso, veicolato da spericolate pratiche economiche e finanziarie, fra la religiosi-tà esasperata e spesso mistificatoria, che offende le stesse religioni, e un materialismo per molti aspetti mortificato dall’esperienza sul campo. Libri come questo possono servire a sciogliere qual-che nodo, aiutando l’uomo-lettore di buona volontà a intraprendere un per-corso nuovo o a rafforzarsi in idee già condivise. Opera non facile ma di grande spessore, questa ultima di Vannino Chiti, che richiede al lettore un approccio non casuale ma voluto. Una lettura che deve essere intrapresa con il desiderio di conoscere e mai con la presunzione di aver già capito tutto. E di tutto sapere.

Vannino ChitiReligioni e politica nel mondo globale Giunti Editore236 pagine

Se questi sono uominiL’ULtiMo LiBro Di Vannino cHiti: SoLUZioni aLLE DoManDE Di oGGi

Vannino Chiti è nato il 26 dicembre 1947. Dal 2008 è vicepresidente del Senato. Sindaco di Pistoia dal 1982 al 1985, è stato presidente della Regione Toscana dal 1992 al 2000

Recensione

Renzo CastelliGiornalista e scrittore

Il territorio, la nostra forza

Filiale 0 - Chiazzano Via Pratese, 471 - 0573/93591: Stefano Melani, Marco Marini, Andrea Biagioni, Sara Bonacchi, Laura Capecchi, Ges-sica Cappellini, Fabio Frosini, Michela Maffucci, Massimiliano Mezzani Filiale 1 - Pistoia Via Guerrazzi, 9 - 0573/3633: Paolo Giovannini, Catia Vezzosi, Cinzia Baldanzi, Giacomo Barontini, Fernando Bartoletti, Martina Bartolini, Paolo Bartolini, Paolo Becagli, Loretta Crisantini, Imelda Innocenti, Antonella Liessi, Massimo Roberto Puggioni, Sofia Spezzano, Riccardo Vannucchi Filiale 2 - Montale Piazza Giovan-ni XXIII, 1 - 0573/557313: Francesca Innocenti, Massimo Baroncelli, Enrico Ajello, Pier Luigi Borelli, Simona Gramigni, Cristina Grazioso, Fiorenza Zamponi Filiale 3 - Pistoia Corso Fedi, 25 - 0573/974011: Barbara Cappellini, Ada Bessi, Giacomo Baldi, Riccardo Barbini, Cinzia Bruni, Elisabetta Castiglioni Filiale 4 - Montemurlo Via Montalese, 511 - 0574/680830: Alfonso Senesi, Valeria Andreini, Emilia Beato, Sabrina Belperio, David Gai, Damiano Nincheri, Giampaolo Turi, Silvia Vivarelli Filiale 5 - Spazzavento Via Provinciale Lucchese, 404 - 0573/570053: Patrizia Bellini, Andrea Conti, Stefano Innocenti, Cristina Lomis Filiale 6 - La Colonna - Via Amendola, 21 Pieve a Nievole - 0572/954610: Enrico Mondani, Alessandro Piperno, Luca Cappellini, Serena Fedeli, Giacomo Ferreri, Federico Moroni Filiale 7 - Prato Via Mozza sul Gorone, 1-3 - 0574/461798: Marco Iafrate, Teresa Feola, Andrea Giacomelli, Francesco Vannucci, Elena Vettori Filiale 8 - S. Agostino Via Galvani, 9/C-D - 0573/935295: Fabiano Ammannati, Fabio Giannini, Franco Biagioni, Massimiliano Ferretti, Olviana Ferri, Daniele Niccolai, Federica Salute, Renato Vagaggini Filiale 9 - Campi Bisenzio Via Buozzi, 71 - 055/890196: Michele Buc-cassi, Damiano Paolini, Roberto Merildi, Lorenzo Nistri, Eleonora Palandri, Alessandro Ronconi Filiale 10 - Bottegone Via Fiorentina, 622 - 0573/947126: Stefano Matteucci, Daniele Orselli, Stefano Bai, Rachele Biagioni

Direzione Generale: Gian Carlo Marradi (Direttore Generale), Paolo Giovannini (Vice Direttore Generale) Centro Imprese: Cristiano Mazzei, Simone Dani, Silvia Passini, Antonella Romiti Centro Mercato: Massimiliano Cecchi, Alessio Gori Estero commerciale: Alessandro Tesi Marke-ting: Bernardo Capecchi Finanza: Daniele Bongiovanni, Silvia Guarino Prodotti assicurativi: Laura Tamburella Risk controller: Roberto Pierattini, Melania Menichini Ispettorato: Daniele Giacomin, Riccardo Lori Controllo andamentale del credito: Emanuele Carmignani, Stefano Ponsillo Fidi: Fabrizio Bellini, Stefano Tognarini, Giuseppina Bartolini, Stefano Benesperi, Raffaele Felicetti, Daniele Pagnini, Angelo Pieraccioli, Sergio Sala-belle Estero amministrativo: Lisa Papalini, Cecilia Bani Risorse umane/Comunicazione: Andrea Cabella, Grazia Manchia Segreteria generale: Tiziano Goffo, Giuliana Capecchi Legale: Maurizio Farnesi, Luisa Marchetti Soci: Enzo Pacini Servizi generali: Pierluigi Niccolai, Lucia Bessi, Alessandro Orlando Organizzazione tecnologie e sistemi: Alessio Fedi, Luca Franchi, Roberta Bencini Contabilità: Luca Gori, Maria Elisabetta Tesi, Tiziano Niccolai, Fabrizio Parretti, Daniele Spinetti, Carlo Turchi

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3. Pistoia - Corso Fedi

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