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Nel giardino di Alfred

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Nel giardino di Alfred

Rosa Maria Vasta

NEL GIARDINO DI ALFRED

Favola

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Premessa Vieni che ti racconto una favola. Le favole sono i sogni che facciamo da bambini, quando credia-mo di poter volare anche se sappiamo di non avere ali. Una favo-la è come una tazza di latte caldo, una coperta morbida che pro-fuma di talco, un abbraccio che ci fa sentire al sicuro. Nei sogni dei bambini, i cavalieri sono tutti coraggiosi e combattono fieri, per liberare principesse prigioniere di draghi e malefici.

Nelle favole i cattivi non vincono mai e per ognuno di loro c’è sempre almeno una fata buona pronta ad aiutare chiunque ne abbia bisogno. Le favole sono le storie che ci insegnano ad amare senza compromessi, ad essere liberi come gli uccelli che volano nel cielo. Quando dimentichiamo come si fa, basta guardare gli occhi di un bambino e sognare ancora come lui sa fare.

Diventi grande quando i tuoi sogni diventano speranze e le tue speranze diventano preghiere, quando cominci a pensare che forse non basterà più solo una favola ad alleggerirti il cuore. In-vece è proprio allora che hai bisogno di credere ancora che in fondo tutto può cambiare.

Cerca nel cielo una stella cadente e affidale il tuo sogno, come se un filo invisibile potesse legare alla sua scia luminosa il tuo desiderio e illuminare quell’angolo oscuro, dove si nascondono le tue ombre.

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1 Un vento gelido soffiava forte, volavano foglie secche e piccoli rami scarni. Sollevato da quel vortice impazzito, volava anche un piccolo semino arrivato chissà da dove. Luccicava come una sca-glia di vetro mentre rotolava sulla terra, per poi riprendere quota e volteggiare di nuovo in alto, al ritmo di una danza frenetica che solo il vento che lo spingeva su e giù poteva sentire. Ad un certo punto il semino finì impigliato tra le zolle secche della terra di un campo, era sfinito e morto di paura. Tirò un sospiro di sollie-vo, ora si sentiva al sicuro. Cercò di guardarsi attorno e fu pro-prio allora che, forse per un suo movimento maldestro, scivolò dentro una fessura della creta. Rotolò giù e poi ancora più giù, gli sembrò interminabile quel volo, ma finalmente si fermò. Era buio pesto là sotto e lui tremava ancora per lo spavento. Fu così che si ritrovò sepolto sotto un palmo di terra. Si rese conto di averla scampata bella ancora una volta e sentendosi finalmente tranquillo, avvolto dal tepore cadde in un sonno profondo. Un giorno in cui il cielo era scuro e borbottava arrabbiato, le nuvole spaventate si misero a piangere grossi lacrimoni, venne giù una fitta pioggerella che bagnò il campo dove dormiva placido quel piccolo semino che svegliatosi per l’improvvisa frescura, fu preso dalla curiosità di vedere cosa ci fosse fuori dal suo giaciglio. Si stiracchiò tanto fino a che bucò il terriccio che lo copriva e fi-nalmente fu fuori. Ci mise un po’ per allungarsi in un tenero germoglio, fece capolino tra l’erba e restò abbagliato dalla luce del sole. Respirò l’aria pulita e profumata, guardò in alto e s’incantò davanti all’azzurro del cielo. Per un po’ rimase immobi-le a scaldarsi beato. Sentiva attorno a sé rumori e fruscii, abbas-sò lo sguardo e trasalì per lo stupore. Attorno a lui c’era un mon-do di strane creature che lo contemplavano mentre bisbigliavano tra di loro. Gli si inchinarono con riverenza i papaveri con i loro svolazzanti cappelli rossi, gli sorrisero con tutti i petali aperti le bianche margherite, gli ronzarono attorno curiosi api e calabro-ni, libellule e farfalle, andarono a fargli visita formiche e cocci-

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nelle. Poi alcuni di loro cominciarono a chiedergli quale fosse il suo nome, ma lui non rispondeva perché non sapeva né come si chiamasse, né tantomeno da dove venisse. Non ricordava nulla di quello che gli era accaduto prima di svegliarsi in quel campo, co-sì rimase muto a riflettere. Ad un certo punto qualcuno tra tutti sentenziò: «Sarà muto o forse sordo, se no per quale motivo non dovrebbe rispondere?» Nessuno poteva immaginare che lui non parlasse perché non sapeva proprio cosa dire. Pian piano il sole cominciò a calare, il tenero germoglio però non aveva paura, sen-tiva attorno a sé il vociare allegro di tutte quelle creature che lo avevano accolto con amicizia. Intanto il cielo diventò blu sempre più scuro e cominciò ad accendersi di migliaia di lucine. Uno strano animaletto tutto pieno di pungiglioni gli si avvicinò len-tamente, lo scrutò per qualche istante e infine si presentò a lui dicendogli di essere un riccio. Ma ancora una volta lui non rispo-se e continuò a guardare in alto. Il riccio vedendo la sua espres-sione stupita davanti al cielo stellato gli spiegò che tutte quelle lucine accese erano le stelle. Il germoglio rimase sempre muto ad ammirare estasiato quello spettacolo a dir poco magico. Ad un certo punto sentì degli strani rumori, abbassò lo sguardo e si tro-vò davanti due strane creature con lunghe antenne che lo osser-vavano curiosi, fu allora che dimenticandosi che si era imposto di non parlare, d’impulso chiese loro: «Chi siete voi?»

E quelli: «Noi siamo grilli, e tu?», risposero in coro «Non ab-biamo mai visto una pianta come te.»

Lui imbarazzato più che mai, pensò che sicuramente sarebbe stato meglio se fosse rimasto zitto, magari tutti lo avrebbero cre-duto veramente muto o sordo, non importava. Ora che aveva parlato invece era nei guai, perché non sapeva proprio cosa ri-spondere e si doveva far venire subito un’idea.

«Io sono una pianta di…», esitò un attimo e siccome fino a qualche minuto prima non immaginava neppure di essere una pianta, mostrando tutta la sicurezza che riuscì a racimolare ri-spose: «Sono una pianta di stelle.»

E quelli: «Di stelle? Ma non esistono piante di stelle.» Lui schiarendosi la voce e cercando di essere ancora più con-

vincente, ribadì: «Bè, forse voi non la conoscete ma esiste, e io ne sono la prova.»

I due grilli si guardarono sbalorditi spalancando la bocca per lo stupore, e un attimo dopo esclamarono ancora una volta in coro: «Oh mio Dio! Ma è vero!»

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In quell’istante il germoglio abbassò lo sguardo su di sé e vide che il suo fusto e le sue lunghe foglie si stavano coprendo di mille lucine, esattamente come quelle che stavano lassù, era come se un pezzo di cielo si fosse appena posato su di lui. Gli sfuggì un grido per la sorpresa, perché lui stesso non capiva cosa gli stesse succedendo. Cercò di recuperare la calma anche se un lieve tre-more lo scuoteva, aveva paura. “È terribile non so chi sono, né da dove vengo, né tantomeno cosa mi stia succedendo”, si ritrovò a pensare. Tutte le creature della notte vennero ad ammirarlo, lo guardavano estasiate, lo stupore era dipinto sui volti di tutti. Al-cuni lo fissavano anche con una certa diffidenza, facendogli mil-le domande alle quali lui tentava di rispondere come poteva, mo-strando una sicurezza che in realtà non possedeva. Ad un certo punto si sentì una voce imperiosa sopra tutte le altre. Era il vec-chio riccio che ammonì tutti: «Insomma smettetela che vi è preso lo state soffocando, non vedete che è stanco e confuso? Per Bac-co non si fa così. Andate a farvi un giro o provate a dormire an-che se non avete sonno, ma lasciatelo in pace ora. Domani avrete tempo per parlare con lui e conoscerlo meglio.»

Poi gli si avvicinò: «Sai che non è educato non rispondere?», gli disse: «Avevamo pensato tutti che fossi muto o sordo.»

Dopo quella ramanzina al germoglio, il riccio si defilò. Tutti tacquero mortificati e lo lasciarono in pace. Tornò il silenzio del-la notte, si sentiva solo qualche bisbiglio. Alcuni si misero a dormire, altri come le cicale continuarono a parlottare tra loro fino all’alba quando finalmente si addormentarono sfinite. Poi il sole tornò ad illuminare e a scaldare ogni cosa e il campo, pian piano, si svegliò e prese vita. I fiori riaprirono i loro petali, gli uccellini cominciarono a cinguettare allegri volando sulle piante e tutto attorno si sentiva un allegro chiacchiericcio. Tutti saluta-rono il germoglio come si fa con un vecchio amico, e anche se continuavano a osservarlo con grande curiosità si guardarono bene dal fargli altre domande. Il riccio sonnecchiava ma ogni tanto guardava di sottecchi e vigilava discreto affinché nessuno disturbasse il suo giovane amico. Ad un certo punto però sentì come un sibilo, poi un altro ancora e poi una voce: «Ehi, tu.» Si voltò e vide che il germoglio si agitava, lo stava chiamando.

Lui sbadigliò e gli si avvicinò lentamente «Che c’è, hai bisogno di qualcosa? Perché sai, io sono stato sveglio tutta la notte e ora vorrei dormire un po’.»

Quello gli fece cenno di avvicinarsi ancora e gli disse sottovo-ce: «Scusami ma ho bisogno di chiederti una cosa importante.»

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Il riccio rimase in attesa. Il germoglio si schiarì la voce, era chia-ro che fosse imbarazzato. A quel punto l’altro lo richiamò spa-zientito «Insomma che c’è, che vuoi allora?»

Il germoglio con voce tremante a quel punto gli chiese: «Ma tu hai mai visto uno come me, o che mi assomigli?» E lui «Vuoi for-se dire che, non sai davvero chi sei?»

«Già, è terribile ma è proprio così, io ricordo solo di essermi svegliato in questo campo, ma non so né chi sono, né da dove vengo.»

A quel punto il povero riccio fu preso da un intenso prurito forse dovuto all’imbarazzo, perché per quanto volesse aiutarlo, non sapeva davvero cosa rispondergli. Si grattò il muso per un paio di secondi mentre rifletteva, poi fece un lungo sospiro. «Senti», gli disse «Io per la verità in tutta la mia vita non ho mai visto una pianta come te, né che ti assomigli almeno un poco, eppure sono anziano», prese fiato «L’unica cosa che posso fare per aiutarti è fare un giro qua attorno. Sicuramente troverò qualcuno simile a te. Vuol dire che per oggi non dormirò pro-prio. A proposito io sono Tommaso», si presentò.

«Comunque stai tranquillo, se il buon Dio ti ha fatto nascere e crescere avrà le sue buone ragioni, tutti arriviamo in questo mondo per qualche motivo, sai?»

Allora il germoglio rincuorato, con grande stupore esclamò: «Davvero? E credi sia così anche per me?», ma subito dopo in-calzò «E tu per quale motivo sei qua?»

Il vecchio riccio preso alla sprovvista capì che si stava in-guaiando da solo, così emise una specie di grugnito, fece finta di non aver sentito e si allontanò in tutta fretta. «Ci vediamo più tardi» gli gridò andandosene. Tommaso cominciò ad andare a zonzo per il campo e mentre camminava osservava tutti metico-losamente, sperando con tutto il cuore di scorgere prima o poi un’altra pianta uguale al suo nuovo amico. Ma niente, non c’era nessuno che gli somigliasse neanche un po’. Mentre andava in giro chiedeva a tutti quelli che incontrava, non importava che fossero piante o animali, lui descriveva minuziosamente come era il nuovo arrivato, sperando che uno qualsiasi di loro gli di-cesse che conosceva una pianta simile al giovane germoglio, arri-vato in quel campo chissà da dove e per quale motivo. Si perché a quel punto Tommaso cominciò a riflettere davvero sulla teoria che tutti esistiamo perché facciamo parte di un disegno divino e iniziò a farsi un sacco di domande che più che altro gli resero le idee ancora più confuse, dato che a tutte quelle domande lui non

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sapeva proprio trovare risposte. In fondo quando aveva detto quella frase al germoglio lo aveva fatto più che altro per confor-tarlo. Tommaso era molto anziano e non era abituato ad andare in giro di giorno. Faceva molto caldo e quando vide il torrente si fermò a dissetarsi. L’acqua fresca lo fece stare subito meglio e la sua attenzione fu presto catturata dal rumore che faceva quell’acqua scorrendo, sembrava proprio il suono di una campa-nella. Rimase fermo ad ascoltare, mentre i suoi occhi si chiude-vano da soli. Pensò così che forse sarebbe stato meglio se si fosse fermato un po’ e si mise a riposare sotto ad un grosso cespuglio. Stava quasi per appisolarsi quando udì la voce di qualcuno che cercava di attirare la sua attenzione. «Ehi, dico a te, ma che sei sordo?»

Tommaso sospirò scocciato, alzò gli occhi sopra di lui guar-dando nella direzione dalla quale era arrivata la voce e vide che a parlare era proprio il cespuglio sotto al quale stava riposando. «Ma che hai tanto da gridare?», gli chiese «Non vedi che stavo schiacciando un pisolino? Sono stanco morto e ho tanti di quei pensieri in testa, ci manchi solo tu».

«Scusami» rispose il cespuglio «Non avevo capito che stessi dormendo.»

Il riccio a quel punto gli rispose più che risentito Si dà il caso che io dormo di giorno. Almeno di solito.»

«Non sapevo che dormissi di giorno tu, di solito tutti dormono la notte» ribadì ancora il cespuglio.

«Ma insomma si può sapere che vuoi da me? Non devo dare conto e ragione a nessuno se sono stanco e mi voglio riposare», gli rispose spazientito Tommaso, «Sono molto anziano io, sai? E poi tu ti fai sempre gli affari degli altri in questo modo? Lo sai che non è educato fare tante domande a chi per di più non si co-nosce nemmeno.»

Il cespuglio abbassò tutte le sue foglie visibilmente mortifica-to, non sapeva più che dire, poi però si riprese e chiese scusa, «Sai, è che oggi non è passato nessuno da qui e io avevo voglia di scambiare due parole con qualcuno, non volevo essere invaden-te» chiarì.

Il riccio si rese conto di essere stato forse un po’ troppo burbe-ro e cercò di rimediare spiegando al cespuglio il motivo per cui era tanto stanco e impensierito. Cominciò «il fatto è che da ieri ho un nuovo giovane amico qui nel campo. È un germoglio che è spuntato in un battibaleno, è uscito fuori dalla terra e si è allun-gato come il collo di una giraffa. Insomma non è proprio alto

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come una giraffa credo, anche perché io in verità una giraffa non l’ho mai vista, però è molto alto. È bellissimo e sai una cosa stra-na? La sera si illumina tutto, come se le stelle si posassero per magia su di lui. Una cosa che nessuno di noi qua aveva mai visto prima.»

Il cespuglio lo ascoltò in silenzio, con tutte le foglie piegate all’ingiù per sentire meglio, ma rimase muto. Allora Tommaso lo strattonò con il muso «Ehi mi hai sentito? Insomma prima vuoi sapere i fatti miei e poi neanche ti degni di dire qualcosa.»

Quello si scosse tornando all’istante dritto come un soldato sull’attenti e replicò «E non gridare così forte che non sono sordo manco io, e poi scusami ma non capisco cosa c’entra tutto que-sto con il fatto che sei stanco e hai tanti pensieri.»

Il riccio gli spiegò velocemente che si era cacciato nei guai perché aveva promesso a quel germoglio che lo avrebbe aiutato a capire chi fosse e da dove venisse, dato che anche per lui stesso era un mistero. «Ma vedi non so come fare, ho chiesto a tutti quelli che ho incontrato, descrivendolo minuziosamente ma nes-suno ha mai visto una pianta che gli assomigli almeno un poco. Ho camminato mezza giornata inutilmente e ora non so cosa raccontargli, quando tornerò da lui» concluse.

«Hai un grossissimo problema, amico mio» sentenziò il ce-spuglio all’orecchio del riccio, con ironia.

Tommaso gli rispose visibilmente urtato «Non parlarmi così vicino che ci sento ancora bene. Comunque grazie, davvero, mi sei stato di grande aiuto, lo sapevo già di avere un problema, non c’era bisogno che sprecassi il mio fiato a raccontarti tutta la sto-ria per sentirmelo dire da te, cosa credi.»

L’altro lo guardò imbronciato e gli girò un po’ le spalle borbot-tando «ma che brutto carattere hai. Ma cosa vuoi che ti do una risposta che non ho? Io ti aiuterei volentieri, ma non so proprio come fare. Vuoi vedere che ora hai messo in agitazione pure me? Era meglio se non ti chiedevo niente.»

«Già,», replicò il riccio «così impari a non impicciarti dei fatti degli altri.»

«Bè, hai ragione, forse sono un po’ troppo curioso, però cre-dimi se potessi ti aiuterei, davvero, e che nemmeno io ho mai vi-sto un tipo così, come dici tu» ribadì il cespuglio, poi come preso da un improvvisa illuminazione gridò: «Ci sono, digli la verità!»

Tommaso lo guardò con gli occhi spalancati e balbettò «Come sarebbe a dire la verità, insomma cosa dovrei raccontargli che non so chi è, né da dove viene, e che nessuno lo sa?»