Naomi Klein - Se cambia il clima tutto può cambiare (da Il Manifesto)

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Se cambia il clima tutto può cambiare Sono trascorsi quattordici anni dalla pubblicazione di No Logo e sette anni da quella di Shock Eco- nomy. Non c’è bisogno di scomodare la qabbaláh per prevedere che anche il nuovo libro di Naomi Klein, This changes everything. Capitalism vs. the climate (uscito il 16 settembre scorso per Simon & Schuster negli Stati Uniti e per Allen Lane in Gran Bretagna), lascerà il segno. Testo ricco di potenti esemplificazioni, tra vicende in larga misura sconosciute al grande pubblico e connessioni illuminate da un lavoro d’inchiesta in profondità, durato oltre cinque anni con la deci- siva collaborazione di ricercatori quali Rajiv Sicora e Alexandra Tempus, ci proietta nel cuore di quella che non può essere considerata una «questione» tra le altre, neppure se fosse la più impor- tante, ma il «frame», la cornice, in cui inserirle tutte. Il «frame» fondamentale Il punto di partenza è in sé evidente, anche se facciamo di tutto per negarne la realtà e girarci dall’altra parte. «I dati non mentono: le emissioni continuano a crescere, ogni anno rilasciamo in atmosfera una quantità maggiore di gas serra dell’anno precedente, … creando un mondo che sarà più caldo, più freddo, più umido, più assetato, più affamato, più arrabbiato». Klein indica, con ric- chezza di riscontri scientifici a cominciare dagli studi più completi di Kevin Anderson, l’orizzonte della catastrofe prossima ventura, senza mai indulgere nel «catastrofismo» di certe prospettive mill- enaristiche, che hanno il solo effetto di produrre impotenza sociale. In questo senso il libro scavalca i confini della brillante inchiesta giornalistica e si presenta da subito come un testo eminentemente politico. All’origine della «catastrofe» stanno i caratteri salienti del capitalismo contemporaneo, riassumibili nel persistente predominio del ciclo produttivo legato all’impiego dei combustibili fossili, altro che «green economy», peraltro e giustamente quasi mai citata. Sotto questo profilo, argomenta la giorn- alista e attivista canadese raccontando l’annuale conferenza dell’Heartland Institute, think thank di ultrà neoliberisti e negazionisti, la «destra ha ragione» quando afferma che ogni seria politica per contrastare il surriscaldamento globale costituirebbe un «attacco alla libera economia di mercato, una minaccia per il capitalismo, cavallo di Troia infarcito di principi socio-economici marxisti». Da qui si dipana lo stringente lavorio critico di Klein, mirato a destrutturare, con efficacia, le cor- renti costruzioni ideologiche in materia, da lei ribattezzate «magical thinking», pensiero magico. Sotto i suoi colpi cade certo la geo-ingegneria, cioè la pretesa di risolvere, ricorrendo a innovazioni tecnologiche ancora più impattanti, gli enormi problemi posti dal «global warming». E nella figura di Richard Branson, proprietario della Virgin Airlines, vengono disvelati i veri obiettivi di quei «multimiliardari che cercano di riconciliare il clima e il capitalismo» sostituendo il benev- olente intervento privato, spesso soltanto promesso, come nell’inchiesta si rivela con la sparizione di 3 miliardi di dollari, a qualsiasi intervento di regolazione pubblica transnazionale. Ma, in pagine destinate a suscitare sane polemiche, Klein mette anche nel mirino le «Big Green», cioè le grandi associazioni ambientaliste, protagoniste negli ultimi vent’anni di un infruttuoso approccio, «mode- rato e ragionevole», alla negoziazione sulle emissioni con governi e imprese multinazionali. Le loro modalità lobbistiche non solo sono risultate perdenti, ma – come nel caso di «Nature Conservacy» – nascondono anche diretti interessi economici, non propriamente puliti. Il più grande fondo ambien- tale degli Stati Uniti avrebbe infatti speculato sull’estrazione di petrolio e gas in un’area naturale del Texas loro affidata con finalità conservative.

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Non siamo riu­sciti a dimi­nuire le emis­sioni per­ché alla fine le cose che dob­biamo fare sono in con­tra­sto con il «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», e cioè con l’ideologia che domina da quando ten­tiamo di tro­vare il modo per uscire da que­sta crisi. Non riu­sciamo a sbloc­care la situa­zione per­ché le azioni che offri­reb­bero mag­giori pos­si­bi­lità di evi­tare la cata­strofe (e che andreb­bero a bene­fi­cio di un’ampia mag­gio­ranza) rap­pre­sen­tano una grave minac­cia per una élite mino­ri­ta­ria che tiene com­ple­ta­mente sotto con­trollo la nostra eco­no­mia, i nostri pro­cessi di deci­sione poli­tica e la mag­gior parte dei mezzi di comunicazione.Forse il pro­blema non sarebbe stato insor­mon­ta­bile se fosse emerso in un momento sto­rico diverso ma per grande sfor­tuna di tutti noi, la comu­nità scien­ti­fica è giunta a for­mu­lare la sua dia­gnosi deci­siva sulla minac­cia cli­ma­tica pro­prio nel momento in cui le élite assa­po­ra­vano un potere poli­tico, cul­tu­rale e intel­let­tuale senza para­goni se non con i primi anni Venti del ’900. Governi e scien­ziati, infatti, hanno comin­ciato a par­lare seria­mente di tagli dra­stici alle emis­sioni di gas serra nel 1988 — pro­prio l’anno in cui si pro­filò quella che si sarebbe chia­mata «glo­ba­liz­za­zione» e l’anno in cui fu fir­mato il Nafta, l’accordo sulla più grande intesa com­mer­ciale del mondo. All’inizio, tra il Canada e gli Stati Uniti, diven­tato poi, con l’inclusione del Mes­sico, l’accordo Nafta.Quando gli sto­rici osser­ve­ranno in retro­spet­tiva i nego­ziati inter­na­zio­nali dell’ultimo quarto di secolo vedranno due pro­cessi cru­ciali spic­care sugli altri.Il primo sarà quello del nego­ziato mon­diale sul clima, che pro­cede avan­zando a stento, senza mai rag­giun­gere i pro­pri obiettivi.L’altro sarà il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione delle grandi imprese, che invece avanza spe­dito di vit­to­ria in vittoria (…).I tre pila­stri su cui si fon­dano le poli­ti­che di que­sta nuova era li cono­sciamo bene: pri­va­tiz­za­zione della sfera pub­blica, dere­go­la­men­ta­zione di tutte le atti­vità di impresa e sgravi fiscali alle mul­ti­na­zio­nali, tutti pagati con tagli alla spesa statale.Molto è stato scritto sui costi reali di que­ste poli­ti­che: l’instabilità dei mer­cati finan­ziari, gli eccessi dei super ric­chi, la dispe­ra­zione di poveri sem­pre più sfrut­tati, lo stato fal­li­men­tare di infra­strut­ture e ser­vizi pubblici.Pochis­simo, invece, è stato scritto sul modo in cui il fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato, sin dai primi momenti, ha sabo­tato in maniera siste­ma­tica la nostra rispo­sta col­let­tiva al cam­bia­mento cli­ma­tico, una minac­cia che si è pro­fi­lata pro­prio quando quella ideo­lo­gia era al suo apice.Il pro­blema cen­trale è che l’abbraccio mor­tale eser­ci­tato in que­sto periodo dalla logica di mer­cato sulla vita pub­blica fa appa­rire le rea­zioni più ovvie e dirette alle que­stioni cli­ma­ti­che come un’eresia poli­tica. Per fare un esem­pio: come si può inve­stire mas­sic­cia­mente in ser­vizi pub­blici e infra­strut­ture a emis­sioni zero in un momento in cui la sfera pub­blica viene siste­ma­ti­ca­mente sman­tel­lata e sven­duta? I governi come pos­sono rego­la­men­tare, tas­sare e pena­liz­zare pesan­te­mente le aziende di com­bu­sti­bili fos­sili in un momento in cui qual­siasi mano­vra del genere viene liqui­data come un resi­duo di comu­ni­smo auto­ri­ta­rio? E, infine, come si può dare soste­gno e tutele al set­tore delle ener­gie rin­no­va­bili per sosti­tuire i com­bu­sti­bili fos­sili quando «pro­te­zio­ni­smo» è diven­tata una parolaccia?Se fosse stato diverso, il movi­mento per il clima avrebbe ten­tato di sfi­dare l’ideologia estrema che sta osta­co­lando tante azioni sen­sate, avrebbe unito le forze con altri set­tori per dimo­strare che il potere delle cor­po­ra­tion, lasciato senza freni, rap­pre­senta una grave minac­cia per l’abitabilità del pianeta.

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Se cambia il clima tutto può cambiareSono trascorsi quattordici anni dalla pubblicazione di No Logo e sette anni da quella di Shock Eco-nomy. Non c’è bisogno di scomodare la qabbaláh per prevedere che anche il nuovo libro di NaomiKlein, This changes everything. Capitalism vs. the climate (uscito il 16 settembre scorso per Simon &Schuster negli Stati Uniti e per Allen Lane in Gran Bretagna), lascerà il segno.

Testo ricco di potenti esemplificazioni, tra vicende in larga misura sconosciute al grande pubblicoe connessioni illuminate da un lavoro d’inchiesta in profondità, durato oltre cinque anni con la deci-siva collaborazione di ricercatori quali Rajiv Sicora e Alexandra Tempus, ci proietta nel cuore diquella che non può essere considerata una «questione» tra le altre, neppure se fosse la più impor-tante, ma il «frame», la cornice, in cui inserirle tutte.

Il «frame» fondamentale

Il punto di partenza è in sé evidente, anche se facciamo di tutto per negarne la realtà e girarcidall’altra parte. «I dati non mentono: le emissioni continuano a crescere, ogni anno rilasciamo inatmosfera una quantità maggiore di gas serra dell’anno precedente, … creando un mondo che saràpiù caldo, più freddo, più umido, più assetato, più affamato, più arrabbiato». Klein indica, con ric-chezza di riscontri scientifici a cominciare dagli studi più completi di Kevin Anderson, l’orizzontedella catastrofe prossima ventura, senza mai indulgere nel «catastrofismo» di certe prospettive mill-enaristiche, che hanno il solo effetto di produrre impotenza sociale. In questo senso il libro scavalcai confini della brillante inchiesta giornalistica e si presenta da subito come un testo eminentementepolitico.

All’origine della «catastrofe» stanno i caratteri salienti del capitalismo contemporaneo, riassumibilinel persistente predominio del ciclo produttivo legato all’impiego dei combustibili fossili, altro che«green economy», peraltro e giustamente quasi mai citata. Sotto questo profilo, argomenta la giorn-alista e attivista canadese raccontando l’annuale conferenza dell’Heartland Institute, think thank diultrà neoliberisti e negazionisti, la «destra ha ragione» quando afferma che ogni seria politica percontrastare il surriscaldamento globale costituirebbe un «attacco alla libera economia di mercato,una minaccia per il capitalismo, cavallo di Troia infarcito di principi socio-economici marxisti».

Da qui si dipana lo stringente lavorio critico di Klein, mirato a destrutturare, con efficacia, le cor-renti costruzioni ideologiche in materia, da lei ribattezzate «magical thinking», pensiero magico.Sotto i suoi colpi cade certo la geo-ingegneria, cioè la pretesa di risolvere, ricorrendo a innovazionitecnologiche ancora più impattanti, gli enormi problemi posti dal «global warming».

E nella figura di Richard Branson, proprietario della Virgin Airlines, vengono disvelati i veri obiettividi quei «multimiliardari che cercano di riconciliare il clima e il capitalismo» sostituendo il benev-olente intervento privato, spesso soltanto promesso, come nell’inchiesta si rivela con la sparizione di3 miliardi di dollari, a qualsiasi intervento di regolazione pubblica transnazionale. Ma, in paginedestinate a suscitare sane polemiche, Klein mette anche nel mirino le «Big Green», cioè le grandiassociazioni ambientaliste, protagoniste negli ultimi vent’anni di un infruttuoso approccio, «mode-rato e ragionevole», alla negoziazione sulle emissioni con governi e imprese multinazionali. Le loromodalità lobbistiche non solo sono risultate perdenti, ma – come nel caso di «Nature Conservacy» –nascondono anche diretti interessi economici, non propriamente puliti. Il più grande fondo ambien-tale degli Stati Uniti avrebbe infatti speculato sull’estrazione di petrolio e gas in un’area naturale delTexas loro affidata con finalità conservative.

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L’ora del «People’s shock»

Di fronte alla minaccia incombente, Naomi Klein propone il rovesciamento del paradigma della«shock economy», cioè la feroce applicazione delle politiche neoliberiste a partire da eventi social-mente traumatici, catastrofi naturali o addirittura provocate, in quello che invoca come «People’sshock», la lotta ai cambiamenti climatici come «forza catalizzante per una radicale e positiva trasfo-rmazione, per rivendicare le nostre democrazie dalla corruttiva influenza delle corporation, per bloc-care accordi commerciali che impoveriscono, per investire in infrastrutture pubbliche quali casee trasporti, per riprendersi la proprietà collettiva di servizi essenziali quali acqua ed energia, perrisanare un’agricoltura malata, per aprire i confini a migranti il cui trasferimento è legato agli effetticlimatici, …, tutte che cose che aiuterebbero a porre fine a livelli grotteschi di ineguaglianza». Daquesto punto di vista, superando ogni approccio economicista, Klein sottolinea come «ciò che vienedichiarato essere una crisi è invece una serie di fatti reali così come l’espressione di poterie priorità».

Lo «spirito di Blockadia»

Ecco allora che la terza parte del volume ricostruisce, con un’ampiezza finora inedita, il panoramadei movimenti sociali che in tutto il Pianeta si battono, affrontando specifici progetti «estrattivisti»,contro i cambiamenti climatici come essenziale conseguenza del modello capitalistico imperante. Lagiornalista-attivista, con un’espressione mutuata dall’esperienza di lotta contro lo sfruttamentominerario di Halkidiki in Grecia, chiama tutto questo lo «spirito di Blockadia».

E descrive un vero e proprio ciclo globale di conflitti, paragonabile per diffusione, capillarità e radi-camento a quello delle piazze di Occupy. Un ciclo che va dal New Brunswick canadese dove i mem-bri delle comunità della First Nation sono riusciti a bloccare i test sismici finalizzati a un vastoe devastante progetto di fracking, cioè di fratturazione idraulica del sottosuolo per l’estrazione digas naturale, alla Mongolia Interna cinese dove la ribellione di intere popolazioni ha fermato i pianigovernativi per l’apertura di enormi miniere a cielo aperto destinate allo sfruttamento dei giacimenticarboniferi locali.

Fino al movimento, che ha traversato l’intero continente nord-americano e di cui la stessa Kleinè attiva protagonista, contro la realizzazione dell’oleodotto Keystone XL: qui si è trattato di una sug-gestiva dinamica ricompositiva, attraverso la quale, con pratiche comuni di radicale disobbedienzacivile, si è costruita una vera e propria «pipe-line» che ha connesso lotte e soggetti differenti tra lorosulla dorsale, tra le sabbie bituminose dell’Alberta e i terminal per l’esportazione lungo le coste delTexas, interessata da progetto.

Ma ciò vale anche per la ricostruzione di una sfera pubblica, cooperante ed egualitaria, determi-natasi nei mesi successivi al super-uragano Sandy nella metropoli newyorchese o per la«ri-municipalizzazione» della produzione energetica ottenuta con il referendum di Amburgo. Ovun-que – e il caso tedesco tra politiche economiche ordo-liberali e la Energiewende verso le fonti rinn-ovabili è particolarmente significativo nella sua contraddittorietà – la «dura realtà del mondo in viadi surriscaldamento si scontra con la logica brutale dell’austerity».

Per tanti altri aspetti, a partire dalle pagine dense di forti implicazioni personali dedicate al temadella «fabbrica della fertilità», rinviamo alla discussione, quando uscirà, della versione italianadel libro.

Questa prima lettura lascia del resto diversi nodi aperti: quello relativo al profilo dei soggetti socialiimplicati nel processo di cambiamento radicale invocato come necessario dalla Klein – per la qualeè fondamentale, ma sufficiente?, il rinvio al protagonismo delle popolazioni indigene native e alla

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loro alleanza con i movimenti sociali metropolitani -, così come quello delle forme stesse della trasfo-rmazione, e ai dispositivi istituzionali da attivare – non può qui sfuggire la contraddizione tra il rico-noscimento dell’effettualità delle pratiche comuni di alternative locali e il frequente richiamo a indi-spensabili macro-politiche di programmazione («planning»).

Ma sarebbe ingeneroso pretendere che Naomi Klein sciogliesse anche questi nodi.

Intanto, non si può che esserle grati per aver rimesso con i piedi per terra il tema del «global war-ming», per aver ricollocato la crisi ecologica nel contesto della crisi globale, per averci incoraggiatoa «muoverci in territori politici non ancora cartografati» con l’urgenza ad essa dovuta.

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