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Assenza, Sparizione, Cancellazione dell'Immagine CURIOSANDO NELL'ARTE CONTEMPORANEA DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO Anno Accademico 2019/2020

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Assenza, Sparizione,Cancellazione dell'Immagine

CURIOSANDO NELL'ARTE

CONTEMPORANEADOCENTE GIAN PIERO NUCCIO

Anno Accademico 2019/2020

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12^ Lezione

Assenza, Sparizione, Cancellazione dell’Immagine

La seconda parte del Corso di quest‟anno è stata dedicata ad un approfondimento sul tema

dell‟Immagine nelle sue varie manifestazioni. L‟ultima lezione la dedichiamo a quegli artisti che

invece hanno rivolto la loro attenzione all‟assenza di immagine, che questa sia dovuta ad una

mancanza vera e propria, una non-nascita, oppure ad una sua sparizione, ad una sua cancellazione.

Il tutto presuppone il ricorso al concetto più volte ricordato di Vuoto, ricordiamo da intendersi come

opportunità, possibilità, entità viva. Il Vuoto rivela così la sua natura costitutiva e costruttiva e deve

dunque essere considerato oggetto di esperienza sensoriale. Il silenzio fra una nota e quella

seguente, lo spazio vuoto fra una lettera e la successiva, l‟attimo di interruzione fra una parola e

l‟altra sono gli elementi che costituiscono la possibilità di costituire una melodia, una parola, un

discorso. Senza di essi non ci sarebbe possibilità di comprensione. La forma si costituisce nel vuoto

e il vuoto, a sua volta, si manifesta grazie alla forma. Attorno ad una oggetto c‟è il vuoto, se non ci

fosse vuoto l‟oggetto non potrebbe costituirsi. Del bicchiere si usa il vuoto e questo vuoto è

dinamico anche rispetto al tempo, perché un bicchiere vuoto è in attesa di essere riempito e un

bicchiere pieno attende di essere svuotato in un intreccio indissolubile fra spazio e tempo.

Ma di questo abbiamo già abbondantemente parlato durante le lezioni frontali. In questa lezione

vediamo invece come gli artisti si atteggino di fronte ad una assenza dell‟immagine e come ne

indaghino e riflettano sulla possibilità sia di costituzione dell‟immagine stessa, sia della possibilità

di farla sparire, di cancellarla e quale sia lo statuto di uno spazio svuotato da un‟immagine che

prima lo occupava.

Yves Klein

Di Klein abbiamo già abbondantemente descritto l‟opera nella 3^ Lezione e a quella rimandiamo

per chi non avesse potuto intervenire. Qui ricordiamo soltanto che Klein era fortemente interessato

alla filosofia orientale e, in particolare allo Zen, la versione giapponese del buddismo. Per klein il

Vuoto è uno stato simile al Nirvana, senza influenze materiali, un‟area dove entrare in contatto con

la propria sensibilità, per vedere la realtà oltre la rappresentazione e, dunque, oltre le immagini.

Klein distruggeva le forme di espressione universalmente riconosciute come arte – dipinti, libri,

composizioni musicali – e svuotava la forma artistica dal contenuto che ne era tipico: i dipinti non

avevano immagini, i libri erano senza parole, la musica aveva una sola nota senza composizione.

Questo avveniva nell‟intento di creare “ Zone di Sensibilità Pittorica Immateriale”. Invece di

rappresentare la rrealtà in modo soggettivo e artistico Klein intendeva rappresentarla attraverso la

sua Assenza e che fosse percepita attraverso un‟idea dallo spettatore che la ricostruiva mentalmente.

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Y. Klein, Le vide, 1958

Y. Klein, Le saut dans le vide, 1960

Le saut dans le vide è un fotomontaggio pubblicato, per la prima volta, in prima pagina sul

quotidiano Dimanche ( Domenica ), noto anche come Dimanche - Le Journal d'un Jour Seul (

Domenica - il giornale per un solo giorno ) che, in realtà, è un libro d'artista . Prendendo la forma di

un 4 pagine di largo formato , il pezzo è stato pubblicato il Domenica 27 novembre 1960 ed è stato

venduto nelle edicole in tutta Parigi per un solo giorno, oltre ad essere distribuito in una conferenza

stampa tenuta da Klein presso la Galerie Rive Droite nello stesso giorno.

Non si trattava di una discesa, bensì di un‟ascesa spirituale a ritroso: dal mondo fisico a quello della

purezza immaginifica, raggiunto infine con una morte prematura, dopo sette anni di straordinaria

attività.

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Hiroshi Sugimoto

Parlo molto con me stesso. Una sera, mentre stavo fotografando all‟American Museum of

Natural History, ho avuto una sorta di allucinazione. Il dialogo interiore che mi ha portato alla

visione si è svolto pressappoco così: „Immagina se fotografassi un intero film in un solo

fotogramma.‟ E la risposta: „Avresti uno schermo fatto di sola luce.‟ Cominciai subito a

sperimentare per poter realizzare questa mia visione: un pomeriggio entrai in un cinema

dell‟East Village con una macchina fotografica di grande formato. Aprii l‟otturatore appena

cominciò il film, e quando due ore dopo il film finì, lo chiusi. Sviluppai la pellicola la sera

stessa, e la visione mi esplose davanti agli occhi.

Così il fotografo Hiroshi Sugimoto racconta l‟antefatto di Theaters, la sua serie di vedute in

bianco e nero di sale cinematografiche cominciata nel 1976. In questo lavoro vediamo cinema

degli anni Venti, platee enormi decorate da affreschi, stucchi, pesanti quinte a impreziosire lo

schermo; col tempo queste lasciano il posto agli spazi molto più essenziali dei cinema moderni,

cubi dalle pareti lisce, disegnati esclusivamente in base alla loro funzione, le platee sempre

meno capienti. Le ultime fotografie mostrano una serie di teatri italiani del Seicento e

Settecento, seguiti da un gruppo di vecchi cinema americani abbandonati, la grandeur del

passato ancora percepibile nelle volte sfondate e negli intonaci corrosi.

Il buio delle sale viene progressivamente illuminato dal riflesso della proiezione, muovendo lo

sguardo dell‟osservatore dal bianco dello schermo verso gli angoli più debolmente illuminati,

dove si rivelano dettagli appena percepibili nella semioscurità. Sugimoto esprime il tempo

lungo della proiezione tramite la ricchezza della transizione tonale dalla luce al buio, riuscendo

a rendere il senso della durata attraverso la modulazione dei grigi delle sue fotografie. Tempo

che si esprime attraverso la percezione dello spazio: Time Exposed, come si intitolava un suo

volume antologico di qualche anno fa. Esposto nel senso di esposizione fotografica alla luce,

ma anche nel senso di rivelato, manifestato.

H. Sugimoto, Everett Square Theater, Boston, 2015

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H. Sugimoto, Regacy, San Francisco, 1992

“Lo scrittore giapponese Jun‟ichiro Tanizaki disprezzava la „violenza‟ della luce artificiale

introdotta dalla civiltà moderna”, ha scritto Sugimoto a proposito di In Praise of Shadows. “Io

stesso sono un anacronista: piuttosto che vivere sulla cresta del contemporaneo, mi sento più a

mio agio in un passato lontano.” Sugimoto è un fotografo inattuale, espressione di una cerchia

sempre più ristretta di artisti che realizzano le proprie opere in modo esclusivamente analogico,

con pellicole e camera oscura, e con un processo creativo integrato, in cui l‟artista è autore di

ogni fase creativa, dallo scatto alla stampa finale. Promotore di un‟immagine assolutamente

fisica in un‟epoca in cui la smaterializzazione della fotografia appare inarrestabile, Sugimoto è

tra i pochi artisti a intendere le fotografie come opere nel senso più classico del termine, come

fossero pezzi unici. Le sue sale cinematografiche possono essere percepite pienamente solo

nella loro esistenza materiale, stampate sulle pagine di un libro o guardati esposti a una parete.

Qualsiasi altra forma di fruizione non è in grado di restituire la complessità delle sue stampe,

che trasferite su uno schermo digitale vengono private di tutta la vita che le popola. Come dei

coralli, tanto fragili quanto complessi, possono sopravvivere solo nel loro habitat naturale.

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H. Sugimoto, Winnetika Drive in Paramount, 1993

“Quando la luce brilla, le ombre prendono vita”, scrive Sugimoto nell‟introduzione alla nuova

edizione di Theaters. “L‟ombra è il calco naturale per le forme che ombra non sono, e dà forma

visibile alle cose. Con il loro carico ombroso, queste forme visibili sono le portavoci

dell‟esistenza”. La fotografia di Sugimoto è votata a dare vita all‟impalpabile, attraverso un

controllo della forma ottenibile soltanto tramite un‟altissima definizione fotografica, ma un‟alta

definizione che viene dal passato. Portatore di un linguaggio giunto alla sua perfezione ormai

tanto tempo fa, Sugimoto tiene in vita una fotografia in via d‟estinzione.

“Quell‟immagine era qualcosa che non esisteva nel mondo reale, né io avevo mai visto prima”,

scrive adesso Sugimoto dei suoi schermi luminosi, quarant‟anni dopo la nascita di Theaters.

“Chi l‟aveva vista, dunque? La mia risposta: è quello che ha visto la macchina fotografica. Era

l‟immagine latente di un enorme accumulo di immagini latenti. L‟eccesso di luce illuminava

l‟oscurità dell‟ignoranza.”

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Tino Seghal

T. Seghal ha fatto parte della compagnia di Alain Platel, danzatore e terapeuta che rivoluziona la

danza contemporanea introducendovi una motilità violenta, discontinua, propria dei disabili. Seghal

comincia dalla drammaticità della patologia. E‟ influenzato dal movimento situazionista (vedere

Storia della critica d‟arte, Lez. 9), non sulla base della contraddizione e del contrasto

capitalisti/lavoratori, ma basandosi sulla produzione di situazioni nuove, nuovi rapporti

interpersonali. G. Debord dice che “ La rivoluzione non si fa sulla base del contrasto

capitalisti/lavoratori, ma producendo situazioni nuove, nuove relazioni sociali.” Su queste basi

lavorerà Seghal, artista visivo che on vuole riproduzioni di immagini, che crede nella parola, nel

racconto. Nel passaggio dall‟immagine alla parola cambia qualcosa che è ciò in cui Seghal crede: la

trasmissione per oralità. Gli attori delle sue performances, detti testimoni, e il pubblico sono gli

agenti della trasmissione orale di ciò che è stato rappresentato.

Il rifiuto di qualsiasi forma di tecnologia passa anche dalla negazione di documentare il proprio

lavoro; Seghal non permette agli spettatori di fotografare o riprendere le performances, né concede

tale opportunità ai media o agli uffici stampa. Non esiste quindi un archivio materiale della sua

produzione e ciò che è visibile su Web sono immagini rubate dagli utenti. Questo ostinato rifiuto ha

una duplice chiave di lettura, che si lega al tema della testimonianza e alla problematica della

produzione. In numerose interviste Seghal ha ribadito la sua volontà di realizzare opere la cui

memoria sia trasmessa esclusivamente attraverso un passaggio verbale tra le persone. Nessun

supporto tecnologico deve intervenire o sopperire a questa fase di scambio, complementare e

necessaria all‟opera stessa, e soprattutto la fotografia e il video non devono sostituirsi alla

situazione, che non piò essere cristallizzata attraverso un media che ne tenti la riproduzione.

Questa volontà di costruire un archivio orale del proprio lavoro riporta al centro della pratica

dell‟arte l‟individuo, non solo nella figura egotista dell‟artista, ma anche dello spettatore come

elemento essenziale al manifestarsi dell‟opera, alla sua transitorietà, e alla trasmissione del sapere.

L‟oggetto, che per secoli è stato posto al centro della produzione artistica – prima in qualità di

manufatto, scultura o dipinto, poi anche nella forma del ready-made – è negato e rimosso dalla

scena; non più testimonianza del nostro mondo fisico né del talento dell‟artista, lascia spazio ad un

vuoto materiale occupato dai corpi, dal tempo e dalle azioni dei performers. L‟azione del ricordare

si pone in antitesi al tempo frammentato e antimnemonico che costituisce la postmodernità, un

tempo costituito da isole di accadimenti, slegati l‟uno dall‟altro, così come slegate sono le

soggettività che lo percorrono. C‟è una certa poesia nell‟idea di produrre alcunché, cercando di

muoversi con delicatezza nel dominio della realtà.

Possiamo definire la pratica di Seghal come una sorta di ecologia della presenza, attraverso la quale

ogni gesto si carica di un valore che lo rende necessario e si libera di automatismi e coazioni a

ripetere dettate dalla necessità consumistica. L‟entità oscura che aleggia attorno alle situazioni di

Seghal, fuori da quelle “zone temporanee autonome”, per citare l‟esperienza Situazionista, è infatti

il capitalismo, nella sua forma più tarda e, in qualche modo, mostruosa. E‟ la fame di inglobare e

digerire ogni possibile alternativa a un modello unico a cui sembra opporsi il lavoro di Seghal – che

si forma studiando danza a Essen ed economia a Berlino – la cui dimensione politica, forse, non è

stata ancora ben indagata. Il desiderio di eliminare ogni elemento che sia frutto di una produzione,

dagli oggetti alle fotografie, è una sfida al mondo contemporaneo, in cui tutto esiste in forma

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mercificata. Qui lo scambio in corso non è più commerciale, ma ritorna a esistere esclusivamente

nella forma primigenia di incontro umano, riduzione dell‟opera d‟arte e di qualunque altro oggetto

culturale a elemento di intrattenimento, neutralizzandolo.

Sembra non esserci via di scampo a questa tendenza, se non attraverso delle forme di resistenza:

anche l‟antagonismo e la ribellione diventano a loro volta cibo per alimentare il sistema capitalistico

e vengono assimilati all‟interno di esso. L‟opera di Seghal, sebbene viva anch‟essa all‟interno di

questo meccanismo ineluttabile, tenta di confutarlo o, quantomeno, aggirarlo sottraendo tutto ciò

che può essere trasformato in un artefatto con la presenza del corpo umano. La riduzione degli

elementi in gioco, l‟azzeramento della parte produttiva, l‟assenza di un apparato documentario

compongono un quadro di evidente rifiuto di un preciso modello economico, politico e sociale.

Ecco quindi che la commercializzazione delle sue opere contribuisce a mmettere in crisi l‟idea del

collezionismo e della proprietà dell‟oggetto d‟arte: nessuno può possedere le opere di Seghal,

neppure acquistandole, se non lo spettatore che partecipa all‟evento nel proprio ricordo

dell‟esperienza vissuta.

Il ruolo del collezionista si avvicina a quello del mecenate, perché il suo intervento economico non

prevede il possesso materiale dell‟opera, ma ne rende possibile la diffusione, così che possa essere

riproposta in luoghi e tempi differenti, di fronte ad un pubblico sempre più ampio. I gesti che

compongono le partiture visive delle performances, senza inizio né fine, ma sempre in media res,

divengono la metafora di una non-separazione, di un tentativo di riconnettere le persone alle

esperienze, sgretolando la concezione solipsistica dell‟opera e della prassi artistica. Un‟utopia che

rende Tino Seghal uno degli artisti la cui critica coglie con più efficacia i punti nevralgici della

narrazione contemporanea, ma anche uno dei pochi davvero in grado di arrivare al cuore degli

spettatori ricordandoci, come dice il fisico Carlo Rovelli, che “le cose non sono, accadono”.

In questo caso, contrariamente a come abbiamo fatto fin qui per ogni artista preso in esame, non ci

avvarremo di fotografie, anche se sono facilissime da reperire in rete, ma, per rispettare la volontà

dell‟artista e, soprattutto, per entrare pienamente nello spirito della sua opera, lasceremo ai lettori

solo lo scritto, anche se ci sarebbe piaciuto di più poter usare le parole e la frontalità di una presenza

fisica.

Jeff Wall

Di J. Wall abbiamo già parlato nella Lez. N°7 (citazione, duplicazione e riscrittura delle immagini).

Qui lo riprendiamo soltanto per ricordare che la fotografia è un‟immagine mentale, una

materializzazione di questa immagine, non un‟illustrazione ma un dare forma ad una image con una

picture che sostituisce ad esempio la lettura di un libro. Nell‟esempio che riportiamo Wall illustra, con

una fotografia di enorme suggestione, il protagonista del romanzo di Ralph Ellison The Invisible

Man, seduto in una cantina dove vive e dove ha istallato 1350 lampadine illegalmente allacciate alla

corrente elettrica, mentre ascolta What Did I Do To Be So Black and Blue (1929)di Louis

Armstrong

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J.Wall, After “Invisible Man” by Ralph Ellison, The Prologue, 2000

“Per ora ho un solo radio-grammofono; ma conto di averne cinque. Nel mio buco c‟è una certa

immobilità acustica, e quando c‟è musica voglio sentirne le vibrazioni, non solo con le orecchie ma

con tutto il corpo. Mi piacerebbe sentire cinque dischi di Louis Armstrong che suona e canta What

Did I Do to Be so Black and Blue tutti insieme. Adesso sto ad ascoltare Louis, qualche volta,

succhiando il mio dessert preferito, gelato di vaniglia al liquore. Verso il liquido rosso sulla massa

bianca, e lo guardo luccicare ed evaporare mentre Louis plasma quello strumento militaresco in un

raggio di liriche note. Forse mi piace Louis Armstrong perché è riuscito a trasformare in poesia il

fatto d‟essere invisibile. Credo che questo avvenga perché egli non si accorge di essere invisibile. E

la mia comprensione dell‟invisibilità mi aiuta a capire la sua musica.” (da Ralph Ellison, Uomo

invisibile, traduzione di Carlo Fruttero Lucentini e Luciano Gallino, Einaudi, Torino, 1956).

Wall ha materializzato il romanzo da cui è tratto il brano sopra riportato e ha materializzato l‟image

che ne aveva tratto. Come dire che l‟immagine, compiendo il cammino in senso inverso, sparisce

nella mente dello spettatore lasciando il posto da essa prima occupato all‟image del romanzo. Un

percorso di vai e vieni fra image e picture che si compie fra la citazione (del romanzo), la sua

riscrittura (in immagine picture) e, infine, la sua cancellazione e trasformazione in image che

sostituisce la lettura del romanzo stesso.

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A P P A R A T I

Per chi vuole approfondire

TINO SEHGAL ALLE OGR di Gian Piero Nuccio

Introduzione

Il 2 febbraio si è inaugurato alle OGR di Torino il programma Arti Visive del 2018 , con un progetto a cura di Luca Cerizza su Tino Sehgal, l’artista anglo-tedesco conosciuto in tutto il mondo per le sue elaborate azioni collettive che sfidano le tradizionali relazioni tra arte e spettatore. Sehgal, già Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2013, torna per la prima volta in Italia con un progetto personale da lui appositamente pensato per il Binario 1 delle OGR dopo aver realizzato la mostra nel 2008 con la Fondazione Nicola Trussardi e aver rappresentato la Germania alla Biennale di Venezia del 2005.

Lo spazio delle OGR binario n.° 1 in cui è avvenuto l’evento

Di Sehgal si può dire che è un artista che lavora contro l’immagine o, meglio, che rimette esplicitamente in discussione la politica dell’immagine. La sua posizione si potrebbe definire quasi iconoclasta: i suoi progetti e le sue azioni non possono venire registrate, riprese, fotografate. (Per la verità con le attuali tecnologie la sua battaglia contro le fotografie risulta ormai persa, ma fino ad ora, compaiono solo sui social e sono, comunque, “rubate”. Per questo motivo e, soprattutto, per rispetto della volontà dell’artista, in questo lavoro, pur potendo disporre di numerose immagini di suoi lavori sui vari siti web, ho scelto di non utilizzarle e

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ricorro semplicemente ai disegni di Diego Perrone ispirati alle sue opere). Delle sue azioni, nel momento in cui si compiono, non deve restare traccia, se non nella memoria dello spettatore. Non sono ammessi neppure cataloghi o documenti scritti.

Quando si acquisisce un’opera di Sehgal per riprodurla (come, ad esempio, è avvento alle OGR) si fa un accordo davanti a un notaio e a testimoni esclusivamente verbale, senza alcun documento scritto. Possedere un’opera di Sehgal significa possedere la possibilità di rappresentare l’opera, secondo le rigide regole che l’artista ha stabilito, ma significa anche non possedere alcunché di concreto, neanche un contratto.

C’è qualcosa di regressivo in questo atteggiamento? Direi di no. Trattandosi di arte relazionale la processualità riguarda gli atteggiamenti delle persone coinvolte, in questo caso dei performers ( da Sehgal chiamati “testimoni”) e degli spettatori. Una sua azione deve durare almeno nove settimane e lo spettatore coinvolto si sente in dovere di dare il suo tempo, poiché, nelle nove settimane, la performance cambia, si modifica, anche in relazione agli spettatori presenti. L’opera, anche senza documentazione reale, si tramanda e continua a vivere nel racconto, ricuperando una dimensione di coralità e di immagine della memoria. Questo “silenzio dell’immagine” e recupero della parola è altamente suggestivo. Ad esempio proprio questa narrazione coinvolge sia chi la trasmette che coloro i quali la ricevono nell’opera stessa, che continua così ad esistere anche dopo il termine della performance.

L’Artista

Tino Sehgal comincia la sua attività come danzatore e terapeuta infantile attraverso la danza, ma, mentre si occupa di lavorare in questo ambito, porta avanti una riflessione sul mondo contemporaneo, la finanza (ha anche una formazione economica) e l’arte. Il passo dalla danza all’arte contemporanea è breve, ma la sua precedente riflessione gli consente di vedere quali siano i condizionamenti che la finanza esercita sul mondo dell’arte contemporanea. Decide così di voler fare arte senza però produrre nulla che possa essere venduto, per poter restare sempre fuori dal mercato.

Il rapporto fra pubblico, spazio, oggetto e artista viene così radicalmente ridefinito: l’ artista vede in linguaggi come la danza e la musica paradigmi alternativi ai modelli produttivi vigenti. Il movimento del corpo umano, con la conoscenza che gli deriva dai movimenti dei bambini durante le terapie, e il canto diventano gli unici materiali espressivi di una pratica che non produce alcun resto oggettuale. Attraverso queste forme “immateriali” ed evitando di documentare le sue opere, Sehgal veicola una profonda riflessione sulla produzione e distribuzione dei beni di consumo.

La sua prima opera è The Kiss, evento svoltosi al Museo di Arte Contemporanea di Chicago nel 2007, definito nella presentazione “sculptural and contemplative work”: due danzatori si muovono e si baciano ricostruendo pitture e sculture note, quasi una citazione alla pratica del tableau vivent. Così rivivono opere di Canova, di Rodin o Brancusi

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Diego Perrone,disegno ispirato all’opera di Tino Sehgal Kiss, Chicago, 2007

Nel 2010 al Guggenheim di New York ha fatto svuotare completamente lo spazio museale (cosa che accade sempre in qualsiasi realtà debba presentare uno dei suoi lavori). Gli spettatori dovevano percorrere la rampa che porta ai vari piani del museo e dapprima incontravano un bambino che li accompagnava per un breve tratto. Il bambino si fermava e veniva sostituito da un adolescente, poi questo da un giovane, poi da un uomo maturo e da un anziano. Ognuno poneva agli spettatori la stessa domanda: “ Cos’è il progresso? ”. Era un evidente invito ad una considerazione sul trascorrere del tempo, sul significato di progresso visto in rapporto all’attraversamento di tutte le fasi della vita.

Le rampe del Guggenheim Museum teatro della performance

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Alle OGR

Per gli ampi spazi delle OGR Sehgal ha ideato una complessa coreografia alla cui realizzazione partecipano più di cinquanta interpreti. Questo grande movimento corale muta continuamente durante il corso della settimana dando vita a quello che Sehgal definisce uno “sciame” di corpi. I movimenti, pensati appositamente per questa occasione, danno origine, infatti, a una serie di specifiche “situazioni”. In questa presentazione le singole opere dell’artista – considerate come entità discrete che possono essere separate tra di loro e dal processo della loro produzione – diventano scene o momenti, elementi che prendono forma temporaneamente in un gioco d’incontri che risponde a circostanze specifiche: il numero degli spettatori, il loro modo di interagire o il periodo del giorno in cui questi incontri avvengono.

Capita di entrare nello spazio della rappresentazione e di vedere questi “testimoni” camminare lentamente, incrociando i loro percorsi, senza mai urtarsi, senza toccarsi. Poi la velocità aumenta, e aumenta ancora e si trasforma in corsa, sempre più veloce per poi rallentare e ritornare alla velocità della camminata. Ma il rallentamento prosegue e i corpi si fermano. Qualcuno si siede, altri lo imitano e alla fine tutti sono seduti, in silenzio. Questo silenzio è contagioso, nessuno dei tanti spettatori parla. Si resta lì in una sosta apparentemente senza fine e la sensazione di congelamento del tempo afferra tutti. Ma dopo un tempo indefinibile (lungo? corto? impossibile dirlo) si leva una voce in un canto apparentemente improvvisato. Dopo un po’ un’altra voce si unisce alla prima, e poi un’altra e un’altra ancora e allora si capisce che la melodia non è un’improvvisazione, ma una musica studiata e bellissima, dolce e capace di riempire tutto lo spazio per quanto grande. Poi tutto scende di volume, qualcuno tace e poi anche altri smettono di cantare e resta solo il primo personaggio a continuare il canto.

A questo punto entra un’ altra “testimone” e recita un monologo, coinvolgendo gli spettatori, con discrezione, raccontando loro una storia e il coinvolgimento è tale che non si capisce più bene chi siano gli attori e chi gli spettatori. Gli incontri cambiano, e lo spettatore capisce che sta assistendo a qualcosa di unico e irripetibile che non potrà mai più rivivere se non nella memoria. Egli sarà quindi l’unico depositario dell’opera d’arte poiché sarà l’unico a possedere il suo ricordo della performance. Ogni spettatore possiederà un proprio ricordo dell’opera e lo trasmetterà ad altri in modo diverso.

La poetica di Sehgal abbraccia una grande varietà di temi, a partire dalla rimessa in discussione della materialità dell’opera d’arte. A comporre l’opera non sono più colori, pietra ma comportamenti, stati del corpo, movimenti come la danza, suoni e di essi nulla resta documentato se non i ricordi. E qui viene spontaneo ricordare come nell’opera di Sehgal i richiami alla classicità siano infiniti. Come non ricordare la posizione privilegiata che presso i Greci godevano la musica, la danza o la poesia, rispetto alle altre arti come la pittura o la scultura. Questa totale astrazione, venuta meno con la possibilità di registrare e riprodurre suoni e immagini, Sehgal l’ha riconquistata e la ripropone come elemento portante della propria opera.

Da questa riconquista parte la sua riflessione sui temi della tecnologia e del lavoro attraverso i quali l’arte è diventata oggetto di consumo, come un qualsiasi altro bene. Di fronte a ciò l’artista qui propone invece un’arte fatta di nulla di materiale e propone un nuovo modello di interazione sociale in cui, sfuggendo alla logica del legame puramente “produttivo” ricostruisce il vincolo di vicinanza profonda fra esseri umani liberi da sovrastrutture, timori, pudori, imbarazzi o, peggio, calcoli di interessi materiali. Non è detto che tutti provino le stesse sensazioni. Ma anche per chi risultasse noioso, poco comprensibile, sarà comunque sempre un incontro reale, con esseri umani e al di fuori delle convenzioni. Sarà pertanto un incontro con la vita perché questa è l’arte di Sehgal: un’uscita dal tempo, dove la narrazione si svolge attraverso l’esserci, di corpo e mente nell’opera d’arte.

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Diego Perrone, disegno ispirato all’opera di Tino Sehgal alle OGR, 2018

Conclusioni

Si è parlato, a proposito di Tino Sehgal, di invisibilità: nessun oggetto, nessun documento, nessun catalogo. Può anche essere vero, ma occorre precisare che si sta parlando della invisibilità materiale relativa all’atto del “vedere” inteso in senso fisiologico. Invece “il vuoto” che le performances occupano è saturo di possibilità ben presenti e concrete che l’opera offre a ciascuno spettatore.

Lo spazio durante e dopo l’evento è traboccante di sguardi, storie, sensazioni che “esigono”, proprio perché immateriali, di essere ricordate e rivissute nella mente di ciascuno. L’artista afferma di non sapere nulla e di non entrare mai nel merito delle storie che i “testimoni” depositano sul pubblico, chiedendo solo che lascino in chi le riceve, ed eventualmente interagisce, un senso di pienezza, di appartenenza. Sehgal di tutto ciò afferma di essere semplicemente il regista, ma un regista che detta regole, come in un gioco in cui le regole finiscono per dettare i comportamenti.

In tale contesto si muovono anche i personaggi per così dire “citati” da Sehgal come Rodin, Canova, Ann Lee, il personaggio dei manga giapponesi che è stata liberata dai fumetti. Perché, dice Sehgal,

“non credo che la tecnologia possa essere più potente di qualcuno che ti guarda negli occhi. Certo la tecnologia può darci oggetti magnifici, ma non saranno mai come qualcuno che ti bacia o che canta proprio per te.”

La sua critica alla tecnologia è radicale e senza appello proprio data l’immaterialità del lavoro, ma non viziata dalla pura negatività. Ha in sé la possibilità di costruire quelle che l’artista chiama le “comunità temporanee”, provvisorie, continuamente mobili e quindi depurate dall’angoscia della durata, svincolate dalla dannazione dell’”eterno presente”, ridefinite ogni volta perché mai stabili.

E lo spettatore, sentendosi ai confini dell’invisibile, capace di muoversi autonomamente, senza con questo compromettere l’armonia del complesso, attraversa la scena della performance, entrando a farne parte per avere la prova dell’essere soggetto attivo, si rende conto di aver attraversato quel labile confine fra arte e vita che l’arte contemporanea ha contribuito ad abbattere.