N°11 PASSIONE

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3 SOMMARIO CHI SIAMO DIRETTORE Massimo Carta VICE DIRETTORE Guido Conti ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Luigi Casa, Simona De Blasio, Lucia Gambetta, Armando Minuz, Federica Pasqualetti, Sara Pastori, Federica Sassi, Denis Zuliani RELAZIONI ESTERNE Roberta Gatti PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE Alessandro Berti STAMPA Mattioli1885 - Fidenza (Parma) PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale LALUNADITRAVERSO Anno 5 - Numero 11 Monte Università Parma Editore Vicolo al Leon d’Oro, 6 - 43100 Parma www.lalunaditraverso.it INFORMAZIONI o per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo redazione @lalunaditraverso.it oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (tel. 0521-384470). Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente. Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio. LaLunaDiTraverso è sostenuta da Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità del Comune di Parma. Illustrazione di copertina Magda Palazzi Incipit d'autore 7 Testo di Achille Campanile Racconto d'autore Il certificato 8 Testo di Marco Vichi Una metropolitana chiamata desiderio 10 Testo di Stefano Del Re Semplice dimenticanza 12 Testo di Enrico Cantino Roba preziosa 14 Testo di Marcello Freddi Est 16 Testo di Ettore De Bortoli Storia vera avvenuta il 20/08/1958 in un paesino del profondo sud 18 Testo di Rocco Pausa pranzo 20 Testo di Vincenzo Sarcinelli Paura 22 Testo di Simona De Blasio Partitura in un atto 24 Testo di Elisabetta Marino Ormai è rovinato 26 Testo di Massimiliano Virgilio La Signorina Grünbein gode di ottima salute e vi manda i suoi saluti 28 Testo di Daniela Raimondi La mia passione. Veramente 30 Testo di Massimiliano Dagli Alberi In bocca 32 Testo di Andrea Cirillo Il popolo dei consumatori ossia Un Prometeo moderno 34 Testo di Ludovico Di Lavacchielli RUBRICHE Heart of darkness. La passione occidentale ha un cuore di tenebra 36 a cura di Armando Minuz Croci 38 a cura di Federica Pasqualetti Biografie 40 PASSIONE.indd 5-08-2005, 18:32 3

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Numero 11 della rivista "La Luna di Traverso" dal titolo PASSIONE

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SOMMARIO

CHI SIAMODIRETTOREMassimo Carta

VICE DIRETTOREGuido Conti

ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTOMariella ToscaniResponsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

REDAZIONESilvia Bia, Enrico Cantino, Luigi Casa, Simona De Blasio, Lucia Gambetta, Armando Minuz, Federica Pasqualetti, Sara Pastori, Federica Sassi, Denis Zuliani

RELAZIONI ESTERNERoberta Gatti

PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONEAlessandro Berti

STAMPAMattioli1885 - Fidenza (Parma)

PROMOZIONE E DISTRIBUZIONEPDE - Promozione Distribuzione Editoriale

LALUNADITRAVERSOAnno 5 - Numero 11Monte Università Parma EditoreVicolo al Leon d’Oro, 6 - 43100 Parmawww.lalunaditraverso.it

INFORMAZIONIo per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo [email protected] oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (tel. 0521-384470).

Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.

LaLunaDiTraverso è sostenuta da Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità del Comune di Parma.

Illustrazione di copertinaMagda Palazzi

Incipit d'autore 7Testo di Achille Campanile

Racconto d'autoreIl certificato 8Testo di Marco Vichi

Una metropolitana chiamata desiderio 10Testo di Stefano Del Re

Semplice dimenticanza 12Testo di Enrico Cantino Roba preziosa 14Testo di Marcello Freddi

Est 16Testo di Ettore De Bortoli

Storia vera avvenuta il 20/08/1958in un paesino del profondo sud 18Testo di Rocco

Pausa pranzo 20Testo di Vincenzo Sarcinelli

Paura 22Testo di Simona De Blasio

Partitura in un atto 24Testo di Elisabetta Marino

Ormai è rovinato 26Testo di Massimiliano Virgilio La Signorina Grünbein gode di ottima salutee vi manda i suoi saluti 28Testo di Daniela Raimondi

La mia passione. Veramente 30Testo di Massimiliano Dagli Alberi

In bocca 32Testo di Andrea Cirillo

Il popolo dei consumatori ossia Un Prometeo moderno 34Testo di Ludovico Di Lavacchielli

RUBRICHE

Heart of darkness. La passione occidentale ha un cuore di tenebra 36a cura di Armando Minuz

Croci 38a cura di Federica Pasqualetti

Biografie 40

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Non è un caso che il tema “Passione”, proposto per questo numero de “LaLunaDiTraverso”, coincida con quello scelto per la XII Edizione della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterra-neo, che avrà luogo dal 19 al 28 Settembre, a Napoli, città che ospiterà centinaia di giovani artisti appartenenti a tutte le realtà nazionali dei Paesi mediterranei. La nostra città parteciperà all’evento con alcuni giovani talentuosi, rappresentanti di discipline diverse, ma uniti per esprimere una delle peculiarità di Napoli: l’intreccio di emozioni, sentimenti e forti pulsioni. “Passione” è infatti un tema che si presta a interpretazioni varie e a sfumature sottili, un termine connesso a motivazioni ideali, tuttavia fortemente essenziali per l’agire umano. Aderendo a questa Biennale, l’Amministrazione comunale di Parma intende fare proprie le declina-zioni e le accezioni di questo tema, condividerle con tutti quei giovani che si metteranno in gioco in una manifestazione di tale rilevanza.In una sorta di terreno comune la passione rappresenta anche il motore che ha condotto fin qui, dopo undici numeri, un gruppo di giovani di Parma che, autodefinendosi “genitori imperfetti”, quattro anni fa, si è riunito in un “consiglio di famiglia” per far nascere e crescere “LaLunaDiTraverso”, rivista letteraria impegnata a raccogliere le prove di scrittori, fotografi e illustratori di tutta Italia.

Il Sindaco di ParmaElvio Ubaldi

Archivio Giovani Artisti di Parma e ProvinciaComune di Parma

Scatto di Gianfranco De Simone

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Sapevamo che Passione fosse un tema vasto. L’abbiamo scelto ap-posta.E chi ha scritto, fotografato ed illustrato non ci ha deluso ed ha battuto

davvero, se non tutte, molte delle strade che avevamo aperto.Colpisce il fatto che la passione si sia sfaccettata non solo nelle accezioni di sentimento amoroso e contur-bamento dei sensi, ma anche, e soprattutto, nei riflessi più torbidi e forti della paura, del desiderio deviato e, perché no, abbia condotto a situazioni inverosimili e, a volte, giocose.Ne è emersa una passione primitiva ed elementare. Di quelle che stringono lo stomaco e, ancor più, le viscere in un pugno forte e serrato. È questo il senso che cercavamo: è qui che ci siamo accorti che la passione è scesa più in basso, convivendo con gli istinti e gli impulsi primordiali. Privi dell’intenzionalità di investigare ulteriormente la contrapposizione romantica tra ragione e sentimento, volevamo capire cosa vuol dir oggi passione. Ci siamo accorti che è ancora il motore di molto di ciò che si muove sotto il sole, che stravolge e modifica il corso di un’ora e di una vita intera.Se il sentimento è un elemento aereo, la passione si è mostrata non più come un fuoco, ma ha coinvolto le nostre pulsioni ataviche, è diventata terra e lava, un fiume che travolge e sommerge senza possibilità alcuna di essere contrastata da argini, che cadono come castelli di carte.È lo stesso senso che intride il lavoro pittorico di Luigi Mor, che abbiamo pubblicato assieme alla rubrica di Federica Pasqualetti. Artista bresciano, che ha esposto in varie città, tra cui Udine, Brescia e Salisburgo, ci ha proposto un tema religioso che ben trasale il senso classico e biblico di passione di Cristo e ne afferra la carnalità ed il sangue che, seppur trasfigurando, restano ancorate alla materialità dell’umano, del terreno e del doloroso. Ci è, dunque, piaciuto prendere il lavoro di Mor come icona semantica di questo numero.Siamo felici, poi, nel ripubblicare l’eleganza creativa di una nostra collaboratrice storica, Daniela Raimondi, che tocca col suo racconto i vertici espressi nel primo numero della rivista con “Sangue”. E che dire, poi, delle espressioni felici di altri che già ci avevano accompagnato in passato come Virgilio, Dagli Alberi o Cirillo. È in questa ottica che lavoriamo alla rivista. Per incontrare, per ritrovare esperienze che riteniamo importanti, espressioni e punti di vista originali che ci colpiscono sempre. Per ripetere l’alchimia fortunata di pubblicare e far conoscere autori come Gianluca Morozzi, Gabriele Dadati o Monica Pistolato, che volano oggi verso vette più elevate. È proprio nella ricerca di questi incontri che noi mettiamo tutto il nostro impegno, è proprio questa che noi riteniamo la nostra più grande passione.Tutto questo introdotto da un testo raffinato e sorridente di Achille Campanile.

EDITORIALE

Scatto di Matilde Vanetti

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Un altro equivoco di Pedro Mendoza è strettamente connesso con la sua vita sentimentale. Egli aveva spesso sentito parlare del "moroso" in genere. Talvolta Anna, una grassona ch’era a servizio in casa sua, chiedeva d’uscire. «Dove vuoi andare?» le domandava Pedro. «A passeggio col moroso,» diceva lei. Pedro aveva sentito anche dialoghi di questo genere:«Tu ce l’hai il moroso?»«Io no.»«Ti compiango.»Talché, dopo essersi domandato più e più volte:«Ma che sarà questo moroso?», gli venne voglia d’averlo anche lui, pur non avendo la più lontana

Scatto di Emanuele Ferrari

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D ' A U TORE

idea di quel che fosse. Che, se l’avesse saputo, si sarebbe guardato bene dal cercarlo. Detto fatto, si mise alla caccia. Ma come procu-rarsi quel che cercava? In buon punto sentì il padrone di casa che si lamentava dicendo che uno degl’inquilini era moroso.«È quel che fa per me,» pensò Pedro.S’adoperò per stabilire rapporti amichevoli con costui. La cosa non fu difficile, mercé la potenza dell’oro che gli permise d'invitare a pranzo l’altro. A farla breve, riuscì a farselo amico. Lo chiamava: «Il mio moroso». Uscendo diceva: «Vado dal mio moroso.»«Dov’è Pedro?» domandavano gli amici.«È uscito col moroso… È a passeggio col moroso… È andato al cinema col moroso…»Naturalmente si basavano su quello che diceva loro Pedro, il quale non aveva mai voluto presentare quella ch’egli riteneva una rara e preziosa amicizia. La domenica il brav’uomo non mancava di andare ai giardini pubblici o sui bastioni col moroso. S’annoiava mortalmente, ma Anna, la sua istruttrice in questa materia, gli aveva detto che s’usa così ed egli s’uniformava disciplinatamente ai dettami relativi al moroso.Ora avvenne che questi, profittando dell’intrinsichezza con Pedro, gli chiese un prestito. Pedro, temendo di perderne l’amicizia, s’affrettò a concederglielo. L’altro, appena avuto il danaro, se ne servì come prima cosa per pagare le pigioni arretrate. Così il padrone di casa, incontrando Pedro, gli disse: «Sa, quel suo amico…»

«Ebbene?»«Da qualche tempo non è più moroso.»Per Pedro fu una mazzata in capo.»«Possibile?» disse.«Diamine.» fece l’altro, «ha pagato.»Pedro rimase sinistramente impressionato. Sia per il fatto in se stesso, che il suo moroso si fosse dato ad amicizie mercenarie, sia soprattutto perché aveva capito d’essere stato proprio lui a fornire quell’uomo di pochi scrupoli dei mezzi per non esser più il suo moroso.

Achille Campanile, Il moroso, in Codice dei fidanzati, Milano, Federico Elmo Editore, 1961, pp. 95-98.

INCIPIT

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Racconto d'autore

Testo di Marco VichiScatto di Patrizia Ferrari

Parcheggiò la macchina nel giardino della sua villetta, al solito posto. Era stata una mattina faticosa in azienda, e non vedeva l’ora di mettersi a tavola. Sua moglie non sarebbe tornata a pranzo, doveva andare a una riunione di lavoro, ma aveva lasciato tutto pronto per lui e per Anna, c’era solo bisogno di mettere i piatti nel microonde. Il motorino di Anna non c’era. Strano che non fosse già tornata da scuola, erano già le due. Ma forse era quel giorno che tornava più tardi. Giovedì o venerdì? Non riusciva mai a ricordarselo. Salì i tre scalini con le chiavi in mano, e vide che la porta di casa era accostata. La spinse e si affacciò dentro.«Anna?» chiamò a voce alta, e fece un passo dentro. Era strano che Anna avesse dimenticato la porta aperta, era sempre molto attenta a queste cose. Il quadretto appeso nell’ingresso era caduto in terra, e il vetro si era rotto.«Anna!» gridò più forte. Con la borsa in mano andò verso le camere, e passando davanti alla porta aperta del salotto si bloccò. La stanza era distrutta… il televisore scoppiato, le tende stracciate, i divani sfondati, i vetri delle finestre rotti dal primo all’ultimo, i quadri sparsi per terra… e il pavimento era ricoperto di oggetti di ogni materiale, frantumati in mille pezzi.Lasciò cadere la borsa in terra e con il cuore che gli batteva forte nelle tempie proseguì verso le camere. Dappertutto la scena era la stessa. Sembrava che fosse scoppiata una bomba. Chi poteva aver fatto una cosa del genere?«Anna…» disse piano, cercando il suo corpo fra le macerie. Intanto pensava a tutti quelli che poteva-no odiarlo. Scoprì che erano più di quelli che immaginava. Lavorava in una importante società che produceva software, e aveva fatto carriera in fretta. Era ovvio che qualcuno lo invidiasse. Girò per le stanze camminando sui cocci e sui vetri rotti. Anche il bagno era stato preso d’assalto, e in cucina non c’era più una sola stoviglia intera. Tutto quello che c’era in frigo era stato lanciato contro il muro. Quello era lo spregio più cattivo. Ma Anna non c’era.A un tratto immaginò la scena in diretta, e sentì un brivido di paura. Chiunque avesse fatto quella cosa doveva essere un pazzo. Meno male che Anna non era in casa, sennò chissà cosa poteva succedere. Questo pensiero lo fece stare molto male. Doveva telefonare subito alla polizia. E doveva cercare Anna al più presto. E poi doveva avvertire sua moglie, ma non sapeva che parole usare. Una cosa del genere non si poteva raccontare, bisognava vederla con gli occhi. Non sembrava nemmeno più casa sua. L’atmosfera era tutta diversa, come se nell’aria fosse rimasto l’odio di quel pazzo. Tornò verso l’ingresso a prendere il cordless e fece il numero del cellulare di sua moglie. Squillava.«Ti è piaciuto il pranzetto?» fece lei, allegra.«Non ho ancora mangiato…» disse lui, cupo.«Che hai? è successo qualcosa?»«Sì, è successa una cosa.»«Anna!» disse lei, isterica.«Anna sta bene, almeno credo… qui non c’è… però la casa…»«La casa cosa?»«E’ venuto qualcuno e… non so come dire… è tutto distrutto...»«Distrutto? Come distrutto?»«A pezzi… tutto a pezzi… se non lo vedi non ci credi» disse lui, guardandosi intorno.«Vuoi dirmi che si è rotto qualcosa?» fece lei.«Vieni subito. Io intanto chiamo la polizia.»«La polizia?»«Fai presto» disse lui, e chiuse la telefonata. Sentì un rumore e si voltò. La gatta stava camminando in mezzo a quello sfacelo, agitando la coda. Digitò il 113 sulla tastiera e attivò la comunicazione.

l certificatoI

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l certificato «Polizia.»«Buongiorno, volevo fare una denuncia…»«Per fare una denuncia deve andare a un commissariato o dai carabinieri.»«No, mi scusi… volevo dire… qualcuno è entrato in casa mia, e ha distrutto tutto quello che c’era...»«Indirizzo?»«Certo…» Dettò l’indirizzo e il poliziotto disse che avrebbero mandato una macchina. Riattaccò e andò in cucina per bere un po’ d’acqua. Le bottiglie erano di plastica, e non si erano rotte. Camminando sui cocci riuscì a prenderne una. Bevve un lungo sorso, poi ritappò la bottiglia e l’appoggiò sul tavolo. Quella bottiglia era l’unica cosa in quella casa a non essere per terra. Tornò verso l’ingresso e riprese in mano il cordless. Provò a fare il numero di Anna. Lo sentì squillare da qualche parte, in casa. Che strano, se lo portava sempre dietro. Un pensiero improvviso gli fece quasi cacciare un grido. Anna era stata rapita. No, no, non era possibile, lui non era così ricco. E poi era una cosa assurda. Chi rapisce qualcuno non si mette a sfasciare la casa, pensa solo a fare in fretta. Però poteva essere stato qualcuno che lo odiava… aveva rapito Anna per vendetta e aveva distrutto la casa. Sentì una goccia di sudore scivolare sulla faccia, e l’asciugò con la manica della giacca. Quanto ci metteva la polizia ad arrivare? Gli sembrava di aver chiamato già da un’ora. Guardò l’orologio, erano appena le due e dieci. Solo pochi minuti prima la sua vita era diversa.Andò di nuovo a fare un giro della casa, attirato in modo quasi morboso da tutta quella rovina. Dai frammenti e dalle schegge riconosceva le cose, e a volte si ricordava dove le aveva comprate, e addi-rittura quando. Ora che erano in pezzi, quegli oggetti lo riportavano a momenti lontani della sua vita. Era come ripercorrere anni e anni in pochi secondi. Passando davanti alla camera di Anna fu attirato da un foglio che era stato attaccato al mobile con un coltello. Strano, prima non l’aveva notato. Si avvicinò al mobile, attento a non scivolare sulle cose rotte sparse sul pavimento. Staccò il foglio e lesse… e in quel momento capì tutto. Accartocciò il foglio e lo gettò via con rabbia. Poi prese a pugni il

mobile finché non vide uscire il sangue dalle nocche. Si guar-dò le mani, e sentì un dolore alle ossa che gli fece uscire un lamento. Si avvicinò al letto di Anna, spazzò via quello che c’era sopra e si lasciò andare sul materasso. Scoppiò a pian-gere come un bambino. Nella sua tasca il cellulare si mise a suonare, ma lui non aveva voglia di rispondere.Quel foglio era un certificato del Comune, da cui risultava che Anna non era la loro vera figlia, ma era stata adottata alla nascita, sedici anni pri-ma. Anna non lo aveva mai saputo, nessuno glielo aveva mai detto. Poi oggi era ar-rivato quel foglio. Lei aveva saputo. E lui pensò che non avrebbe più rivisto sua figlia. Sentì suonare il campanello e bussare, era arrivata la polizia. Lui non aveva voglia di alzarsi da quel letto. Voleva stare da solo, senza pensare a nulla. Sentiva il bisogno di riposarsi, era stata una mattina faticosa in azienda.

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Testo di Stefano Del ReIllustrazione di Matthias Kanka

Una metropolitana chiamata desiderio

Ero andato a trovare un vecchio amico. Stava in periferia, in un posto dal nome triste e assurdo. Le vie erano nastri di cemento e asfalto, la gente piccoli automi che si muovevano monotoni, gli occhi bassi sui propri piedi. Sbagliai strada due volte, ma alla fine arrivai sotto un palazzo alto, simile ad altri che si perdevano nel buio della sera. Mi venne ad aprire, le braccia aperte ed un sorriso commosso sul viso invecchiato. Cenammo, bevemmo una bottiglia di vino, prendemmo a rivangare episodi e persone. Facemmo tardi. «Resta a dormire», mi disse. «Domani mattina partirai direttamente da qui». Accettai l’invito. Il mattino dopo c’era nebbia. Stavo in piedi di fronte alla finestra con la tazza di tè che mi aveva messo in mano e non vedevo nulla. Solo caligine. Alla radio stavano parlando di blocco totale del traffico. Me n’ero dimenticato. «Puoi sempre prendere la metro», mi disse. «Hanno aperto da poco una fermata qui vicino. È la civiltà che avanza», aggiunse sorridendo. «Così, quando vieni a ripren-dere l’auto, passiamo insieme un’altra serata».

Scesi la scalinata di cemento. Sotto era quasi più freddo che fuori. C’erano altri, imbacuccati in giacconi e sciarpe. Un uomo fumava la prima sigaretta della giornata. Una donna mangiava un panino. C’erano sacchi di cemento accatastati che il solito teppista aveva squarciato. C’era polvere dappertutto, poche indicazioni, lampade nude, fasci di cavi elettrici. Non capivo da che parte sarebbe arrivato il treno. Chiesi alla donna, che m’indicò il binario opposto. Attraversai un sottopassaggio gelido e grondante d’acqua. Mi ritrovai dall’altra parte mentre un treno arrivava sul primo binario. Vidi dall’indicatore illuminato che era il mio. Mentre le porte si aprivano con un sibilo, mi gettai nel sottopassaggio, ma quando sbucai il treno era già in movimento. Intravidi in un finestrino la donna che ancora sbocconcellava il panino e la maledissi. Ferma, mi dissi un secondo dopo. Si è solo sbagliata. Stiamo ancora dormendo tutti.Un uomo vestito da operaio scendeva le scale. «Il prossimo? Tra venti minuti, credo», mi disse. «Ma per andare in centro può salire anche sull’altro che arriva alla stazione centrale. Lì può prendere una coincidenza. Ci mette un po’ di più…» Volevo andarmene. Sull’altro treno sedetti in una carrozza semivuota. Guardavo il buio fuori del finestrino e lo scorrere veloce di muri grigi, cavi dell’alta tensione che salivano e scendevano ad intervalli regolari davanti ai miei occhi. Stazioni dai nomi nuovi e sconosciuti si susseguivano. Gente che saliva, altri scendevano. Guardai l’orologio. Era già più di mezz’ora. Il treno si stava fermando. Il nome della fermata non mi disse nulla, ma scesi. Anche lì tutto era un cantiere. Anche lì mucchi di sabbia, attrezzi da lavoro, un’umidità che penetrava nelle ossa. Neanche un’indicazione. Chiesi ad un uomo. «La stazione centrale non sta su questa linea», disse. «Meglio che vada al capolinea. Da lì può prendere un treno per il centro». Imprecai, e mi rivolse uno sguardo triste, indifferente. Un treno stava arrivando, lo presi al volo. Questa volta osservai gli altri passeggeri. Erano stanchi, tenevano lo sguardo a terra, nessuno leggeva il giornale, nessuno che scambiasse una parola. Altre fermate, altra gente salì, qualcuno scese. Nomi sconosciuti, direzione incerta. «Dov’è il capolinea?» Un ragazzo scosse la testa. Arrivammo in una stazione più grande delle altre. Un altoparlante annunciò: capolinea. Scendemmo tutti. Sul marciapiede sentii una corrente fredda che proveniva dalle scale e intravidi la luce lattiginosa di una mattina d’inverno. Non sapevo dov’ero. Feci per salire, ma mi fermai. Che stavo facendo? Dove sarei andato, una volta in superficie? Ero uno stupido. Stupido per essermi messo in quella situazione. Ero in ritardo. Guardai l’orologio: fermo sulle nove. C’era un lungo graffio sul vetro del quadrante: l’avevo sbattuto da qualche parte. Imprecai di nuovo. Alzai lo sguardo. La gente continuava a sciamare dalle scale e si dirigeva verso un binario in fondo alla stazione. Mi mossi anch’io. Man mano che mi avvicinavo la gente s’infittiva. Quando arrivai al binario mi resi conto che era oltre una rete metallica, di quelle che vengono tese provvisoriamente

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Una metropolitana chiamata desiderionei cantieri. Stavano tutti pigiati di là della rete. Qualcuno premeva con la schiena, deformandola. Come diavolo ero finito dall’altra parte? Di qua non c’era più nessuno. Mi guardai attorno per cercare il varco, mi avvicinai alla rete, chiesi ad una ragazza da dove si passava. Mi guardò. Era carina, sui venticinque anni, aveva due occhi grandi e molto belli. «Perché vuoi venire di qua?», mi chiese, stupita. «Vattene. Esci, sei ancora in tempo!» Ecco, a questo punto pensai che stavo sognando. Ne fui sicuro. Aspettai con pazienza il momento del risveglio, ma non voleva venire. Poi sentii un rombo, e una corrente d’aria calda m’investì. La gente di là dalla rete si agitò, sentii qualcuno urlare. A quel punto vidi che la barriera, cento metri più oltre, finiva contro un basso muretto. Corsi, mentre il treno si stava fermando. Arrivai al muro e lo scavalcai mentre la gente si accalcava verso le porte delle vetture. Ora mi sveglio, pensai.

Metto le mani in tasca ma so già che sono vuote. È un gesto automatico, ormai. Le monete le ho finite da un pezzo. Mi chino, raccolgo una sbarra di metallo. Ce ne sono tante, qui. Sabbia, sassi, bastoni. Detriti provvidenziali. Colpisco il distributore con la sbarra. Il vetro s’incrina. Un altro colpo e si sfonda del tutto. Infilo la mano, raccolgo un panino avvolto nel cellophane, poi un altro e un altro ancora. Mentre ne addento uno infilo in tasca gli altri. Acqua, devo trovare acqua: è merce di scambio, quaggiù. La vita è più movimentata, più pericolosa, più vita. Una giungla sotterranea di cemento. Da quanto tempo? Non ricordo. L’orologio l’ho buttato, e quelli che ogni tanto vedo appesi nelle stazioni segnano sempre ore diverse. Non so nemmeno se è giorno o notte. Che im-porta? Mangiare. Combattere. Ho imparato che non sempre posso vincere, ho imparato che a volte fuggire è onorevole. Sopravvivere, forse sognare. La vita lassù è più comoda, ma è una gabbia, una prigione. Tanti piccoli automi che obbediscono a regole non decise da loro. Qui è diverso. Posso sempre tornare fuori, ma non voglio. Ho uno scopo. Devo ritrovare la ragazza, quella che mi ha detto: «Esci, sei ancora in tem-po!», che mentre parlava il suo sguardo diceva invece: Resta! Inseguimi! Vieni! I suoi occhi m’imploravano. Da quanti anni non mi succedeva? Del mio amico (un nome, una figura sfuocata) affiora solo una cosa, una delle sue ultime frasi prima di separarci, prima di scendere qui: La civiltà che avanza. A che si riferiva? Ad ogni istante m’importa sempre meno.

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SL’essere umano è dotato di un’intelligenza appena suffi-ciente per constatare chiaramente la sua incapacità nel comprendere il mondo reale. Se si potesse comunicare a ognuno questo senso di umiltà, tutta la sfera dei rapporti umani ne trarrebbe vantaggio.

Albert Einstein

Finge d’essere indaffarata.Apre i cassetti. Li chiude. Sposta i panni. Riordina i maglioni. Movimenta la biancheria intima. Ancora non gliel’ha chiesto. Magari si scorda. Magari.Ha già fatto tutto quello che doveva fare. Però continua a ripetere le stesse cose, gli stessi gesti. Nella speranza che, vedendola occupata, la lasci in pace.Oggi no. Ti prego, Dio. Oggi no. Fa che non me lo chieda. Fa che…È appena entrato nella stanza. Gli atti insensati si moltiplicano in maniera esponenziale. Va di qua. Va anche di là. Più volte. Anche se non serve. Anche se già sa cosa sta per chiederle.«Dove l’hai messo?»«Cosa?…»Dialogo ridondante. Lei se ne rende conto, però ci prova lo stesso. Tentativo estremo, prima di cedere.«Lo sai, cosa».Nessuna replica. Ma le mani di lei si baloccano con la tasca del grembiule. C’è qualcosa, dentro. Qualcosa di piccolo.«Dove l’hai messo?»Gesù, ma perché non la smette con quella tortura…Le mani paiono impazzite. Ha già capito. Non è uno stu-pido.«Non posso simulare, senza. E tu…»Sbuffa. Maledetto chi l’ha realizzato. E ancora di più chi ha avuto il coraggio di portarlo in quella casa.«Prendi».Voce ferma. Solida come granito. Non ci sono venature. Solo stanchezza.Al volo, dalla tasca del grembiule. Un dischetto azzurro, grande quanto una spilla da balia. Glielo caccia in mano.«Che Dio, se esiste, incenerisca te e quell’aggeggio infer-nale».Se potesse, lo farebbe lei. Ma non ne ha la forza. E nem-meno il coraggio.«È l’ultima volta che lo usi. Intesi?»Lui fa di sì con la testa. Ha ottenuto quello che voleva.Ora può prometterle quello che vuole. Tanto, la prossima volta – perché una prossima volta ci sarà – non si sentirà tenuto a mantenere un bel niente.Lo guarda negli occhi. Non servirà. Però doveva farlo. Simulare la mancata comprensione. Esitare. Estorcere un giuramento o quel che sia. Per poi consegnarglielo.

Testo di Enrico CantinoScatto di Luigi Casa

emplice dimenticanza

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Come sempre.«Vai, adesso. Chiuditi pure in camera con quel fottuto arnese. Ti chiamo io, quando è pronta la cena».Non l’ascolta già più. Pensa al dischetto che tiene fra le mani. A quello che gli permetterà di fare.Che donna. Una santa. No, no: una santa. Sul serio. Giuro.

Si chiama Induttore.Non ha bisogno di pile o cavi. Nessun collegamento esterno. Una volta applicato alla fronte, si attiva da solo. È alimentato con l’energia mentale dell’ospite.Tutto qui.Consigliano di effettuare non più di tre – massimo quattro – simulazioni a settimana. Per evitare seri danni cerebrali. È di questo che ha paura. Sa di avere esagerato. Lo sa pure sua moglie, che lo nasconde sempre. Meno male che trova ogni volta la maniera di farselo consegnare. E dopo ciascuna applicazione, lo riconsegna a lei. Che si sente presa in giro.Sì. Ho promesso di non usarlo più. Ma non è la prima volta. Né sarà l’ultima…Gli tremano le mani, mentre lo accosta alla fronte sudata. Chiude gli occhi, per predisporsi allo stato di catalessi primaria. Attende.L’induttore vibra appena. Ronza come un insetto.Comincia l’effetto ascensore.Lo porta a scendere, non sa nemmeno lui dove.Dove mi porti, oggi? A che piano mi farai arrivare?La scelta spetta all’Induttore. Esplora paure e ambizioni. Alla ricerca di qualche buon appiglio cui ag-grapparsi per la partenza. Sono poche le cose che gli sfuggono. Un anfratto non resta tale a lungo.Oggi l’ascensore cambia direzione. Non scende. Sale.Una novità. Bene. Le novità sono sempre bene accette. Questa volta sale. L’ascensore sale. Però, com’è lento. Più del solito.Non è possibile fermarne la corsa.Oddio, basterebbe intervenire sulla pulsantiera dell’ascensore. Ma così rischia la pazzia. Quella vera,

con la P iniziale maiuscola.Deve stare fermo. Lasciare che la simulazione si compia fino in fondo. Anche se sarebbe più opportuno dire fino in cima.Oggi si sale.

«Questa porta è chiusa».«Ah sì?»«Prova».«Hai ragione».«Potrebbe essere uno sgabuzzino».«Forse. La proprietaria non ricorda bene. Gli inquilini pre-cedenti sono scomparsi. Hanno lasciato la porta chiusa dall’interno, e lei non ha una copia della chiave».«Bisognerà che ne facciamo fare una».«La prendiamo?»«Mi piacerebbe. La casa è bella e spaziosa».«Poi non costa molto».«Non vorrei ci fosse sotto la fregatura».«Io dico di rischiare».«Ci sto».«Per il momento lasceremo chiusa la “stanza del mistero”».«Facciamo sempre in tempo ad aprirla».«Già. Cosa vuoi che ci sia, lì dentro?»

Continua a salire. Non sono ancora arrivato.Che donna. Una santa. No, no: una santa. Sul serio. Giuro.Però è lento…

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«Di brutto c’è l’odore, ma per il resto non manca niente, eh, piccolo?»«Beh, vecchio», mi viene da dire, «colpisce».«Comunque, dopo un po’ non ci si fa più caso».«No, dicevo che uno non si aspetta di entrare qui e…»«È una taverna, no?» mi fa Piedediporco. «Ti ci puoi anche riempire gli occhi, piccolo! Piuttosto, non sederti su quella sedia o finisci col culo per terra!»Mi aggiro un po’ spaesato, seguendo una successione di buchi e macchie di grasso su una vecchia e frusta moquette. D’un tratto, m’imbatto in due manichini che mi fissano con le loro orbite sfondate. Indietreggio, turbato e sorpreso. Li osservo meglio: uno è vestito con giacca a scacchi e occhiali

senza lenti; l’altro indossa una orribile parrucca coi riccioli biondi e un grembiu-lino stracciato in più punti, ma sul quale si può ancora leggere la scritta Gustate Cioccogigio Rolvè. Entrambi i manichini sembrano ammi-rare il rottame arrugginito di una stufa e un televisore dal video sfondato. Divertente, invece, la collezio-ne di spazzolini usati disposta su quel paraurti adoperato come mensola.«Ah, dimenticavo, vecchio: buon compleanno!»Piedediporco arrossisce.«Grazie, Sorcio», dice, mo-strandomi una fila di denti rotti e mancanti. «Ascolta: prendi la birra e tutto il resto, che cominciamo la festa».Le sue guance sono nere per la ricrescita della barba. La zucca è quadrata e spelac-chiata. Si butta a pesce su un di-vanetto tenuto insieme da spago e nastro adesivo da imballaggio. All’impatto con quel corpo tozzo e pesante, una molla fuoriesce sparando grumi di gommapiuma.Sembrerà assurdo, ma l’idea

Testo di Marcello FreddiScatto di Caterina Minganti

Roba preziosa

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che anche Piedediporco abbia un compleanno mi fa andare giù di testa. Insomma, Piedediporco bambino! Piedediporco con mamma e papà! Pazzesco! «Sai, vecchio… non pensavo di esserti simpatico», gli dico mentre mi avvicino ad un frigo scassato, «sì, insomma, non è che ci frequentiamo molto, io e te».Per quanto usi la massima cautela, lo sportello del frigo mi resta in mano. «Comunque, vecchio, se me lo dicevi prima, della tua festa, vedevo di fregare in giro qualcosa». «Bah! L’importante è che adesso siamo qui insieme e che ci divertiamo, eh, Sorcio? Dico con la birra e tutto il resto».Dopo aver sistemato birra e patatine su un tavolo tenuto in piedi da una stampella assicurata con del filo di ferro, indico a Piedediporco un sacco trasparente pieno di batuffoli di cotone: «Mi ci posso sedere, su quello?»«Altroché, Sorcio: ti ci puoi spaparanzare! Sentirai quanto è comodo…»Lancio a Piedediporco una lattina di birra e mi accorgo di non essere poi tanto dispiaciuto di essere qui. La mia serata prevedeva il solito programma di telefonate oscene: mi piace sentire al telefono la gente che s’incazza, l’idea della mia voce che penetra nelle casette linde e perbene, disturbando tutta quella gente merdona, convinta di essere al sicuro. «Salute, vecchio… e tanti auguri!», faccio io.«Salute a te, Sorcio, amico mio!»E intanto, mentre mi gusto la mia birra, faccio un’altra bella panoramica in giro. Ammetto che, se non si fa troppo caso al tanfo di discarica, l’ambiente non è poi così malaccio. Se poi passo lo sguardo su quelle cornici mezze vuote, o su quel barometro sfondato, o sulla piantana mezza fusa, o sul frullatore scassato che sta marcendo sopra la lavatrice, non mi sembra neanche di stare dentro un garage.«Ci ho messo un po’ a metterlo insieme, questo posto», dice lui, tutto orgoglioso. «Quella parrucca bionda, ad esempio: avrò frugato in un centinaio di discariche prima di trovarla».«Senti, vecchio… è da quando ho messo piede qui dentro che mi frulla in testa questa domanda: ma come ti è nata questa passione? Cioè… perché ti sei riempito il garage di tutta questa robaccia vecchia e puzzolente?»«Sai, piccolo… la roba nuova è noiosa, non ha vita, non ha storia. Questa qui, invece, qualcuno l’ha usata, le ha voluto bene. È come se avesse un’anima dentro, capisci? Insomma, è come se l’esistenza di qualcuno ci fosse rimasta appiccicata. Io, quando sto qua, sento la vita di tanta gente intorno a me. Per te sarà anche robaccia, ma per me è qualcosa d’importante, di prezioso…»Si alza e mi mostra all’interno di un vecchio passeggino un bambolotto senza braccia e senza gambe: mi racconta dei suoi estenuanti giri di discarica in discarica alla ricerca dei pezzi per aggiustarlo.Un’ombra di tristezza scende sul viso di Piedediporco. E d’un tratto si crea tra noi un silenzio imba-razzato.«Animo, vecchio: è il tuo compleanno!», faccio io. «E poi… che razza di compleanno è se non c’è almeno una torta con candeline?»«Mai avuta una torta con candeline», mi fa, tirando su le spalle, «neanche quando stavo al Becca-ria…». E fa un sospiro, come se rievocasse i bei tempi andati.«Vecchio, adesso ci facciamo portare una pizza e ci sbattiamo sopra un mare di candeline. E sai che ti dico? Domani ci vengo anch’io, per discariche, a cercare i pezzi per il tuo bambolotto! Perché c’è una cosa che ti voglio proprio confessare: più passa il tempo e più questo posto mi piace!»«Mi stai prendendo per il culo, eh, piccolo?…»«Per niente! C’è un progetto, qua: un cavolo di casa, un cavolo di famiglia. Babbo, mamma e figlio-letto. Sono di plastica, puzzano di marcio. Ma se non altro, non ti massacrano a cinghiate, urlandoti del delinquente da mattina a sera…»«Mi fa piacere che apprezzi. Ma sì, mi hai convinto: ordiniamo questa pizza!»

Facciamo le ore piccole con una gara di rutti, finché arriva il momento che me ne devo andare. «Allora ci si vede domani?»«Certo, vecchio».Mi accompagna alla porta. Fa per uscire con me, ma improvvisamente si ferma, come se si fosse ricordato di una cosa importante. Torna indietro. Beh, mi venga un colpo se Piedediporco non dà un bacetto sulla guancia del manichino che indossa la parrucca coi riccioli biondi e sussurra: «Buona notte, mammina!»

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A Laura, che il mio amore cannibalenon ha saputo rendere felice.

«Non ti muovere», disse lui, in un sussurro, «chi sei tu? Ripeti…»«Sono Marta Hölder», disse la voce di lei, quasi meccanicamente e come ripetendo una monotona lezione a memoria, ma con una nota d’insopprimibile ed indescrivibile grazia nell’intonazione «e sto portando a passeggio il bimbo». Una strada di una città dell’Est, forse Cracovia, si stendeva davanti ai loro occhi. Strada da poco asfaltata, nuova, che nell’alba fresca ed altrettanto nuova, sembrava carica d’incerte promesse, come un fiume o un cielo stellato di mare. «Bene, allora ti lascio», disse lui, «qualsiasi cosa succeda, mantieni la calma».La giovane donna che diceva di chiamarsi Marta Hölder si sporse appena dal consunto e folto collo di pelliccia, per baciare l’uomo su una tempia e poi guardarlo negli occhi che, grigi e tristi, brillavano silenziosi ed inspiegabili come il Bosforo in gennaio. L’uomo aveva la pelle liscia e forte, di un pallore latteo ma insieme energico e vigoroso, un viso che avresti detto inscalfibile da qualsiasi evento o burrasca. Per la prima volta nella vita, Marta aveva sentito la voce del suo uomo tremare, incrinarsi di una vena rosso sangue, anche se impercettibilmente. Poi, l’uomo le restituì lo sguardo ed il bacio e tutte le cose del mondo tornarono al loro posto, come lo erano sempre state di fianco a lui. La donna guardò la sua sagoma attraversare quella strada gravida di promesse, verso il monte dei pegni gestito dal vecchio Aleksander. Gli occhi di lei lo seguirono finché, apertagli da misteriose mani bianche la porta con le pesanti inferriate, non lo videro scomparire, inghiottito dal basso e tozzo edificio in mattone grigio, che stonava se paragonato alle promesse della strada. Il rifugio dell’usuraio era una specie di bunker, massiccio e privo di qualsiasi identità che non fosse quella cinerea ed atemporale del denaro, fuori posto nella città tutta ori e storia e passato. Marta Hölder raccolse dalla strada il bimbo, portandoselo al petto. Subito il bambino, aiutato dalla mano di Marta, sprofondò la faccia nel folto collo di pelliccia, lo stesso che poco prima aveva sfiorato il viso di Pietro. Il bimbo avrebbe ricordato per tutta la vita quella sensazione: il tatto soffice e caldo di quel collo di pelliccia, irriproducibile nelle decine di colli di pelliccia che il bambino, ormai diventato adulto, avrebbe sfiorato voluttuoso, alla ricerca disperata di quella prima sensazione.Non saranno passati che pochi, interminabili minuti e Marta, stremata dall’attesa, posò il bimbo, già stanca e incapace di reggere ulteriormente quella commedia. «Non ce la faccio», si disse. Si appoggiò delicatamente al muro rosso che fronteggiava la casa di Aleksander, mentre il petto si muoveva ritmico e in affanno, visibile sotto il grosso cappotto. Marta girò la testa dall’altra parte, disperata. Il poliziotto, stretto nella sua divisa consunta, le si avvicinò.«Buongiorno, signora. Portiamo a spasso il pupo?», le chiese in polacco. Lo sbirro aveva dato alla sua domanda un’intonazione cortese. Lo sprezzo per l’abbigliamento di lei, tuttavia, per il cappotto da anni fuori moda, per i suoi guanti lisi e per le scarpe logore, che una meticolosa pulizia non riusciva ad abbellire (e che anzi rendeva più patetiche), tradì la voce dell’uomo. Marta pensò di fingere di non capire, ma quasi subito si rese conto che sarebbe stata la più stupida delle scelte. Quel “quasi” bastò tuttavia ad allarmare il poliziotto, che inarcò un sopracciglio in un gesto arrogante e sicuro. «Favorisca i documenti», ordinò il poliziotto immediatamente. Allora Marta aprì dolorosamente il cappotto, quel tanto per lasciare intravedere, sotto il maglione di lana grigia pesante, le forme discrete e giovani di un seno. Restò così, in quella posizione, per un lungo istante che al poliziotto sembrò comunque troppo breve, poi infilò una mano guantata nella tasca interna del cappotto ed estrasse quello che poteva essere un taccuino da viaggio, un passaporto tedesco o austriaco.«Ah… le mie scuse, signora…», disse il poliziotto in tedesco, anche se il tono della voce e l’espressione

Est Testo di Ettore De BortoliScatto di Stefano Dall'Asta

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del viso indicavano che non si stava realmente scusando «signora… Hölder … lei è tedesca. Le mie scuse».Poi il poliziotto sostò per un attimo davanti alla donna, ancora appoggiata al muro rosso. Nessuno in giro, se non quello strano trio che pareva fuggito dal palcoscenico di un teatro. Lo sbirro sembrò valutare se poteva approfittarsi, in qualche modo, di Marta. Il bel viso bianchissimo e gli occhi di un azzurro luminoso, che baluginavano nel primo sole cristallino di dicembre, i tratti regolari e sottili, le labbra vermiglie e giovani, le gambe slanciate, castamente nascoste dalla lunga gonna di panno grezzo. Ma il poliziotto era incapace di vedere, o soltanto di intuire, la reale bellezza della donna, che nascosta odorava come di un costoso e sofisticato profumo da boutique e, insieme, di latte materno. Così seguì un breve silenzio.«E tu, piccolino», apostrofò il poliziotto d’un tratto rivolgendosi al bambino, frangendo quella quiete irreale, «tu devi essere il piccolo Hölder…».Poi, il poliziotto, imbarazzato da un qualcosa d’indescrivibile ed eternamente giusto (ma nascosto ai più fin dalla notte dei tempi), o forse dall’aver intravisto per un attimo fugace che cosa si celava davvero dietro la donna, portò una mano alla visiera del ridicolo berretto, salutò e continuò la sua ronda. Solo quando l’uomo le ebbe dato le spalle, il petto di Marta sembrò sgonfiarsi d’un tratto, come una mongolfiera stracciata da una cannonata, e lei s’accasciò contro il muro, fondendosi con esso. Divenne quasi una linea invisibile premuta contro il muro rosso e osservò con ansia la sagoma del poliziotto che scompariva dietro l’angolo. Come grazie ad un perfetto congegno ad orologeria o come se il creato, per una volta, si fosse accor-dato per favorirlo, Pietro sbucò dalla porta del vecchio Aleksander, anche se questa volta più nessuno gli teneva aperto l’uscio. Lei lo vide attraversare lo spiazzo che li separava con una certa fretta, tuttavia ben celata nei passi regolari dell’uomo, nei suoi lineamenti altrettanto regolari, solo leggerissimamente tesi. L’uomo in-contrò Marta, sì ficcò le mani sporche di sangue nelle tasche del grigio cappotto di panno. Erano mani grandi e forti come tenaglie, privilegio e unica ancestrale eredità di secoli di lavoro nei campi di schiavi o contadini. «Andiamo, Marta», le sussurrò Pietro in un bacio all’orecchio, non osando tirare fuori delle tasche quelle mani e spingendo la donna delicatamente con un gomito contro il suo gomito, indicando la direzione opposta a quella dell’uscita di scena dello sbirro. Lei sentì la terra mancarle sotto i piedi. Era tutto così giusto e insieme così faticoso! Non le importava niente del vecchio Aleksander. Non le importava delle tasche di Pietro, piene di sangue e presumibil-mente d’oro e diamanti. Le interessava solo che l’uomo fosse di nuovo lì, con lei. Era tutto così giusto, e così faticoso. Si accasciò sbiancando contro di lui, con infinita fatica e strazio, come colta da un malore improvviso e, con infinita gratitudine, sentì il corpo di lui sorreggerla come aveva fatto poco prima il muro rosso

che fronteggiava la casa di Aleksander l’usuraio. Con la stessa solidità. «Su, su», disse lui, resistendo alla forte tentazione di estrarre una mano per sorreggere la sua donna, sporcandole però il cappotto «per l’alba di domani saremo a Piran». E lì, in mezzo alla strada che racconta-va e infrangeva promesse, ricordarono i coppi rossi che ricoprivano ogni casa della città di Piran e la sua forma quasi a becco di passero, sporgente in un arcipelago sul mare. Il mare Adriatico, nelle giornate di sole in giugno, pos-sedeva la gloria degli occhi di Marta, che erano come la vita. Ed entrambi ricordarono loro due, a Piran, molti anni prima e insieme. Quello, ancora, significava qualcosa.

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Testo di RoccoIllustrazione di Ilaria Grimaldi

MORTULu vinti agustu chi mala sbentua successi a lu paisi di Serrata, quandu vinni la sira all’urtimura fu na disgrazia di nuju aspettata chi successi alli deci di la notti Pappi lu Pudu nci trovau la morti.Aiju nci asppettau sta mala sorti tuttu lu jornu stezzi a lavurari la sira nci ricoghi cu la notti e sancu mortu nci jiu a curcari, lu sbenturatu comu nci curcau subitamenti lu sonnu pighiau.

MOGLIEMa la mughieri sua si alluntanau cu lu soi amanti mu poti parlari, e nci dissi lu toi frati nci curcau chista è l’ura chi tu poi approfittari.

FRATELLOLu scelleratu frati si partiu e nommu e vistu assai ncistezzi attentu dirittu alla casa nciddiju comu nu gattu e nujiu vitti nenti, trasiu intra e nci ntisi sicuru non vidia nenti ca restau a lu scuru.Poi si avvicina a lu lettu e vitti lu soi frati chi dormia, iju di lu lupu avia lu cuspettu e amuri di frati non sentia, spara nu corpu lu grandi assassinu ed ammazzau lu povaru Peppinu.Doppu fici lu fattu l’assassinu di la finestra subitu scappau, curri pemmu trova la canata e fora la trovau tutta prejata. Libari simu mò Tiresa mia lu fattu e fattu mo stamundi attenti, jeu prestu mindi vaju a casa mia pemmu facimu cridari all’agenti, e puru quandu fannu lu processu mu dinnu tutti nci ammazzau iju stessu.

MOGLIECurri da lu sociaru ija prestamenti veniti a casa non tardati ancora staju suffrendu jeu peni e turmenti Peppinu è mbriacu e a mia mi cacciau fora.

STORIA VERAAVVENUTA IL

20/08/1958IN UN PAESINO DEL

PROFONDO SUD

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SUOCEROCurri lu sociaru iju prestamenti pemmu vidi li cosi comu stanno non nci aspettava ca di chida avver-tanza avia a succedari nu simili dannu, e quandu trasiu inltra si era accortu ca nta lu lettu lu fighiu era mortu. E non sapendu a cui dari lu tortu prima critti ca sulu si ammazzau, la mughieri nci dicia, iju era pazzu di ciaraveju e giustu a mia trova chi l’aju amatu cu tantu amuri e mo mi dassa cu tantu doluri.

CARABINIERIA tutti i dui li portaru in caserma ija ca eni innocenti nci dicia raggiuni nci facia cu vuci ferma, l’amaru brigaderi singannau e prestu a tutti i dui li libarau. Ma poi la scuatra mobili portaru lu capitanu di li carbineri e a tutti i dui di novu l’arrestaru, tantu dogni modu li pressaru chi lu delittu tutti i dui accettaru.

FRATELLO E AMANTEMo si cianginu la sorti scelerati unu cingia maritu e ltru frati, ciangianu forti cu nu grandi strillu ma era lu chiantu di cuccutrillu, tutti i dui furu misi a lu sicuru su cundannati mu stannu a lu scuru.

I GIORNALIStu fattu fici assai rumuri e fù publicatu supra a li giornali pe tutti chidi chi veninu appressu basta mu sannu chistu chi è successu.

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Testo di Vincenzo SarcinelliScatto di Claudio Fergola

«La traversata sarà breve», egli pensò, «potesse durare sempre!»

Thomas Mann, La morte a Venezia, 1912

Pausa pranzo in un ristorante invaso da bancari in apnea. Mangio insalata di tutto, assieme ad un intero cestino di pane casereccio. Cosa beve, signore? Acqua minerale non gasata. Non vuole assaggiare un calice di Tocai? No, grazie, solo acqua: il vino mi fa venire sonno. Chiudo il mio libro (sto leggendo L’educazione sentimentale, perché Woody Allen afferma che è uno dei motivi per cui è felice di vivere) e conquisto un quotidiano che un mangiatore di prosciutto ha abbandonato sulle briciole. Per molte buone ragioni, apro a caso. Non comincio mai dalla prima pagina. Gli sbarchi dei curdi non hanno più il loro fascino: i carabinieri arrivano sempre prima dei clandestini e i giornalisti prima dei carabinieri. I candidati fascisti mi rovinano la digestione: le loro idee sono sempre così prive di fantasia. Dalla cronaca nera mi tengo lontano. L’omicidio è la peggiore caduta di stile in cui si possa incorrere, le code sull’autostrada mi fanno sbadigliare (ogni anno sono uguali a quelle dell’anno

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prima), delle guerre non ne parliamo. Come disse Pes-soa, «ce n’è sempre qual-cuna in corso, che ormai non provocano più orrore, ma tedio». Allora vado alla pagina della cultura: c’è un articolo in cui Ermanno Olmi dice che non c’è più speranza, perché i giovani hanno tutto e non sanno più fare la rivolta come la facevano trent’anni fa e, quando tirano fuori le gonadi per farla, subito le tv e i giornali cominciano a macinarla e a farla così noiosamente bere a tutti, con telecamere e interviste, servizi speciali e aggiornamenti ogni trenta minuti, che, dopo un paio

di giorni, già si ricomincia a preferire la polizia agli antiglobal e il partito di maggioranza ai ribelli e si torna con mestizia alle solite occupazioni, cioè mandare sms, provare top estivi e leggere Dylan Dog.Ha talmente ragione, che mi passa la voglia di leggere. Mi pulisco le labbra e vado a pa-gare. La cassiera comincia a parlarmi mentre ritira uno dei miei buoni pasto: le ho rivolto più di venti parole durante l’ordinazione e ora si sente in dovere di srotolarmi i fatti suoi, non sapendo che sono perfino meno interessanti dei miei. Mi divincolo e me ne esco. Mi è già passata la fretta e anche la voglia di tornare a lavorare. Ho ancora ventisei minuti (i secondi rimangano come immeritata mancia agli ingranaggi della vita), così decido di andare a prendere il sole ai giardini. Il cielo è «di un blu così intenso che, per contrasto, moltiplicava la solitudine», come lo vide Paolo Conte quando compose Azzurro. Tolgo la giacca e ne faccio cuscino, il camoscio tocca terra e s’impolvera. Ma che importa, non lo fece anche da vivo? Mi stendo nell’erba e mi viene in mente una pubblicità di Leonardo di Caprio. Per fortuna, nessuno penserebbe ad un’emulazione: sono molto più brutto e meno femminile di lui. Una delle mie scarpe si graffia su un sasso, il cuoio lucido è rigato. Se c’è una cosa a cui tengo è avere le scarpe lucide. Ma, in fondo, cosa cambia, non fu già marchiato il bue? Il sole è forte, l’ho sulla faccia, il cielo è del colore del mare quando è lontano – o sognato – e le foglie delle grandi querce s’inchinano. Che giorno è? E chi lo sa: io non ho nome, sesso, origine e bisogno di niente. A qualche metro da me, due ragazze di chissà che età sono sedute educatamente su una panchina. Suppongo siano ventenni e non reali, progettate dal pacchetto di maggioranza di Donna moderna, Amica e MTV: gonnelline anni Cinquanta, corpetti innocenti ma fatali, e borsette col manico corto.Appena arrivo io, smettono di parlare. Forse dicevano cose tutte loro e dovrei sentirmi un intruso. Sì, in questi casi mi sento invadente e sono capace di andare a scegliere un altro posto, lontano, per non imporre la mia presenza o perché non si parli di me. Oggi, no: si spostino loro. Mi sento in me, in un luogo immenso e privato, come allo specchio del mio bagno mentre mi rado. Una delle due ragazze ride, dà un calcio all’altra e dice: «Scema!», e si mette una mano davanti alla bocca. In un giorno qualsiasi, mi chiederei se stiano ridendo di me, ma oggi sono innocente come il bimbo con un lecca-lecca in mano che si è perso alle giostre, neutro come una crema dopobagno per signora, invisibile come il sogno di un altro.Un quarto d’ora dopo, mi alzo e me ne vado. Tornare in ufficio, adesso, è cosa da nulla, come la traversata di un cammello che ha bevuto per la vita intera. Gli avambracci che scottano, riprendo l’auto e guido che le ruote non toccano l’asfalto, né io il sedile. Il volante si muove da solo e la radio mi regala un pezzo di Hendrix, di cui non conosco il titolo, ma a un certo punto la musica si ferma e lui canta: «Scusatemi, vado a baciare il cielo…»

Pausa pranzo

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Testo di Simona De BlasioScatto di Massimiliano Cestari e Laura Cerchi

Ho paura di morire, pensò.Il suo sguardo era come stregato dal luccichio del sole sul tubo d’acciaio in mezzo al piazzale.Il caldo saliva silenzioso dall’asfalto mentre gocce di sudore gli scendevano dalla schiena e macchiavano la camicia bianca.«Quante volte l’ho fatta soffrire… quante volte le ho mentito mentre facevo del male a me stesso… Mi sono sempre promesso di farla finita… e ora?»Si batteva forte la mano sulla fronte continuando con insistenza a guardare il tubo, accecandosi. La luce riflessa era stata troppo intensa e si era protratta a lungo per i suoi occhi: cadde come stordito e appena fu a terra, ebbe il tempo di picchiare il pugno contro il cemento, prendere una manciata di sabbia e strofinarla sul viso, prima di perdere i sensi.La sabbia scivolò via sul sudore della fronte come una maschera.

«Non puoi lasciarmi così… non è giusto! Te ne vai senza una parola… senza dirmi il motivo per cui mi abbandoni… che stupida sono stata a fidarmi di te, delle tue parole false! A cosa mi sono serviti tutti questi anni con te? A cosa?!… Sconvolgi tutto quello che ci siamo promessi con due parole del cazzo?!… Dovevi smettere, ricordi?!… E io ci ho creduto, come sempre… come una stupida che pensava ce la potessi fare da solo, senza cure… con la presunzione che la mia comprensione…»Comprensione fu l’ultima parola di Stefania che la segreteria lasciava echeggiare nella stanza prima che il telefono finisse a pezzi sul pavimento.Rocco non ne poteva più di quella voce e di tutti quei pianti nei messaggi telefonici che finivano per tempestare la sua testa.La casa era sconvolta dal giorno che cadde svenuto nel piazzale.Aveva preso una settimana di malattia, giustificando l’episodio pomeridiano come sintomo da stress lavorativo.Ricordava ancora lo sguardo del dottore mentre gli firmava il certificato di malat-tia.«Sicuro di stare bene, ora? Dopo queste notizie devi riposarti, con calma… le analisi che ti ho prescritto ti stancheranno molto, ma sono fiducioso sulla tua guarigione. Devi pensare a te stesso, non puoi continuare a fare una vita divisa tra lavoro e alcool».

L’alcool era l’amico migliore che aveva mai conosciuto.Non poteva credere che anche lui, come i colleghi, come gli amici, come i genitori, an-che lui per ultimo ma con più durezza di tutti gli altri, lo avesse colpito alle spalle.I genitori se n’erano andati ad abitare, appena ebbe compiuto diciotto anni, in un pae-sino di mare; scelta che aveva condizionato gran parte della vita adulta di Rocco.Non era stato difficile trovare un lavoro in città; ci aveva messo passione dal primo momento e gli occupava così tanto tempo da riuscire a distrarsi dalla solitudine. Cominciò ad uscire con i colleghi e a farsi degli amici di ogni sorta, in fondo non gli importava granché della faccia che avevano o dei vestiti che indossavano, bastava che ad ogni bicchiere buttato giù senza respirare, lo lasciassero continuare ancora.Quante volte gli «amici» lo avevano portato fuori a svagarsi dal lavoro e lo avevano fatto ubriacare al punto di fargli dimenticare i calci che dava alla sua ragazza quando non aveva voglia di fare l’amore…

Ora parlo io.Voglio togliere questa voce che giudica i miei problemi dando un tono di rammarico, e quasi di disprezzo, a quello che faccio.Lo dico io che… ho paura.Sono stato io che ho buttato giù, nello stomaco, il goccio in più per finire quella che P a u r a

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pensavo fosse l’ultima bottiglia.Quella che pensavo essere l’ultima goccia, era quella che distoglieva la mente dal ricordo della porta che un giorno si chiuse davanti a me.Mi sembra di sentire ancora le parole di mamma mentre diceva a papà quanto io ero responsabile per l’età che avevo e che sarei riuscito benissimo a vivere anche senza di loro.Quanto sbagliarono nel credermi pronto a stare da solo… e quanto mi mancò nei momenti di crisi uno schiaffo o anche solo una parola d’insulto per farmi capire gli sbagli, quando, alle sei del mattino, torna-vo, sporco, maleodorante e livido, dalle serate di sballo.Quanto poco sapevano di me…Non voglio conoscano la paura che ho di soffrire nuovamente, la paura di far soffrire la donna che amo e che ha sempre cercato di farmi smettere di bere.Nessun collega conosce quanto sia duro specchiarsi senza provare disprezzo dopo che la tua donna, gonfia di botte, si copre gli occhi per non guardarti mentre continui a picchiarla.Avrei voluto che quel giorno il sole

mi accecasse per sempre mentre, prima di svenire, mi coprivo il viso di sabbia e di vergogna.

Ho voglia di sentire ancora la voce di Stefania in segreteria.Ho voglia delle sue lacrime salate sul viso che mi tolgono il bisogno di bere.Ho paura di alzarmi, di prendere dal frigo del vino, della birra, perché ora non riesco nemmeno più a percepire i sapori.Ho così paura alla vista di una bottiglia, di esserne attratto, che non ho acceso le luci e, con la scopa presa dallo sgabuzzino, ho rotto qualsiasi cosa capitatami davanti.La casa ha cocci e vetri sparsi dappertutto, parti di soprammobili, libri rovesciati.Potrei avere rotto anche la foto mia e di Stefania, quella in cui noi due siamo abbracciati.Sento che i piedi scalzi pizzicano e fanno male. Il sangue sporca il pavimento, lo sento scivolare via.Assuefatto dal dolore ai piedi, mi butto in ginocchio e comincio a strofinare le gambe per terra.Mi sento abbracciare dai pezzi della casa frantumata che si attaccano ad ogni mia parte… ma quello che sento di più, ora, rispetto al dolore, è la paura di perdere sangue, di perdere ciò che è ancora mio, di perdere la vita.Urlo…Urlo disperato e la mia voce stridula diventa più fioca ad ogni secondo che passa.È Stefania che mi tappa la bocca con la mano.Non mi sembra di averla mai sentita più viva di ora.«Non urlare… ti sento… sono qui con te!».I suoi occhi sono così grandi… e sembrano più chiari, tante sono le lacrime che portan dentro.«Fammi sentire una lacrima, ho sete…», le bisbiglio piano, «…non c’è più niente da bere: le bottiglie le ho già tutte rotte io».

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Testo di Elisabetta MarinoIllustrazione di Serena Brandini

Magari c’è un modo peggiore di passare il sabato sera. Solo che in questo momento, con un paio di calzini usati stipati in bocca, del nastro adesivo sulle labbra, attorno ai polsi e alle caviglie, non me ne viene in mente nessuno.Guardo con rabbia i miei piedi più lunghi del normale, con quella loro insana capacità di puzzare sempre. In qualunque situazione. Ma quello che mi stordisce veramente è sentire l’odore acre dei cedri siciliani che allappano in bocca, anche se devi morderli perché sono gialli, grandi e sfrontati nel presentarsi. L’odore che le è rimasto addosso dalla giovinezza, che ha portato con sé andando via dalla sua terra, come se lei stessa fosse pianta e frutto. Non ho mai il tempo di scegliere perché la sua follia mi precede e ogni volta sono io ad essere in ritardo. Forse dieci anni sono un tempo sufficiente per abituarsi alla follia di una madre. O almeno, all’idea della sua follia. Ma lei riesce ancora a sorprendermi.Quella del sequestratore è la parte che preferisce. L’ha sceneggiata in mille modi e ogni volta ag-giunge un particolare, una battuta.La malattia ha stroncato la sua carriera d’attrice. Mi correggo: l’ha deviata verso spettatori più attenti. Di sicuro, più tolleranti.Non è mai riuscita a sfondare. Relegata in avari ruoli di secondo piano che le hanno concesso solo fugaci apparizioni, il suo senso del dover dire e del dover parlare con occhi, mani, e bocca frementi, è rimasto soffocato in un corpo che da tempo non freme più.Nessuno ha mai preso sul serio il suo amore per il teatro, e sono io il primo a dichiararmi colpevole. Mio padre si nutre di denaro, di tempi diversi con ritmi diversi, sempre distanti dai nostri. La sua presenza in casa si è limitata alle ore notturne, quelle destinate al riposo o, forse, ai doveri coniugali. I libri che mia madre divorava, i vecchi ritagli di giornale con gli articoli dei suoi spettacoli, le locan-dine arrotolate nel ripostiglio, per lui erano oggetti estranei, forse inutili. E, quella giovane formosa e distratta, che aveva avuto il coraggio di sfidare il padre iscrivendosi ad una scuola di recitazione, si è trasformata in una di quelle vecchie dive del cinema americano, intrappolata in strati di trucco, ammaliata da se stessa.

Ma io l’amavo. L’amavo sopra ogni cosa. Anche se vivevo la sua follia. Lei non era sfrontata come i cedri siciliani. Era triste. E silenziosa. Come le parti che per anni le avevano rifilato. Così adesso, quando mi costringeva alle sue deliranti interpretazioni quasi fossero la quotidianità, parlava. Parlava ininterrottamente. Parlava con la sua vittima, con le taciturne fotografie di un marito fantasma, con il vuoto di un ventre che mi aveva vomitato quando nessuno glielo aveva chiesto.C’era un modo peggiore di passare il sabato sera, forse: fare la parte dell’amante. Dover elaborare le più assurde strategie per sottrarmi alle sue labbra di dolore, alle sue mani calde che mi svuotavano dentro, alle sue gambe che si aprivano al non-senso, al grottesco. Le negavo l’amore. Le ho sempre negato quel tipo d’amore. Non ci sono mai riuscito. Ho pianto e riso, urlato e strisciato senza mai tirarmi indietro. Ma quel corpo non potevo toccarlo.La scena madre terminava quando cominciava a sfiorarmi i capelli. Sempre lo stesso gesto. Lento e regale, come per riordinare i pensieri. Allora m’invadeva una strana, morbida e irresistibile stanchezza. Anche lei era stanca. Mi slegava con movenze lente e precise. Mi si accoccolava accanto senza dire niente. E cosa avrebbe potuto dire? Non ha mai ricordato nulla. Ma se mi fermo a pensare, mi accorgo di ricordare anch’io poche cose. Mi sembra quasi naturale recitare quei ruoli. Ruoli diversi di una stessa follia. Stralci di una sola, grande opera, stesa nel tempo ad intervalli regolari. Ma non mi dispiace. Non ne soffro poi così tanto. Forse non potrei più farne a meno. Forse non riuscirei ad amarla e ad amarmi, senza quell’odore addosso di cedri siciliani e di calzini usati stipati in bocca.

P a r t i t u r a

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Testo di Massimiliano VirgilioIllustrazione di Maximiliano Sebastian Chimuris

Ormai è

I miei genitori non litigano mai magari litigassero una voltaCome i genitori di Gigi che parlano diventano nervosi e quando sono tutti e due belli che infuriati urlano si lanciano le cose poi se la prendono con Gigi che è un delinquente uno scansafatiche allora Gigi viene da noi racconta le urla i litigi che i suoi nemmeno lo hanno visto uscireMagari i miei si lanciassero le cose ogni tanto potrei fare come Gigi andarmene quando mi pare tagliare con un coltello le ruote delle macchine non studiare mai inglese giocare a pallone con quelli del parco Munnezzella che sono violenti ma forti e quando segni un goal a uno di quelli del parco Munnezzella vuol dire che sei uno di loro e allora non c’è più modo che ti picchino ti lasciano giocareGigi fa sempre quello che gli pare io no io sto sempre in casa a scuola in piscina al corso d’inglese dal medico della schiena un gigante alto e pizzuto che ripete sempre non ti preoccupare Luciano ti raddrizziamo io penso che è lui che deve curarsi perché sbava quando parla la saliva si attacca al mento e quando usciamo lo dico alla mamma lei ride dice non fa niente è una malattia non fa niente ti raddrizzerà Mi chiedo che malattia è quella di non pulirsi la faccia come può raddrizzarmi chi non si accorge della robaccia che cola dal mentoNon mi piacciono i fumetti non mi piace Harry Potter ai miei compagni sì pure a Gigi sempre a parlare di Harry della scuola di magia come vorrebbero diventare maghi come Harry e Harry di qua e Harry di là Harry dappertutto Come i fumetti non li leggo non mi piacciono non li capisco cioè li capisco sono robe da scemi da bambocci vi pare che non capisco i fumetti? Non capisco i miei compagni che stanno sempre incollati a qualche fumetto a Harry Potter Gigi mi guarda dice sei strano a tutti piace Harry Potter anche io voglio diventare mago come lui costruire un coltello lungo affilato per tagliere le ruote di tutte le macchine della città a quelli del parco Munnezzella gliela farei vedere io Gigi secondo me sei pazzo se fossi mago vorrei essere un gran calciatore e fargliela vedere sì a quelli del parco Munnezzella coi dribbling e le scivolate mica ucciderli tutti mica fargli del male umiliarli questo sì ma mica fargli del maleLa mamma quando è arrabbiata dice che sono grasso devo mettermi a dieta trovare una passione leggere libri scrivere al computer allora rispondo che sono già a dieta che i libri non posso leggerli in piscina al corso d’inglese e che il computer non mi piace lei non capisce e non sente niente finisce quello che sta facendo dobbiamo iscriverti a un corso d’informatica dice e io vorrei scappare da quella casa andare da Gigi raccontargli come fa lui con me che non ce la faccio i computer non li sopporto e prendere una borsa e partire come Calimero e starmene tutta la vita lontano da qui da questa casa dove nessuno litiga maiOggi l’ha detto ha detto non leggi devi leggere devi usare il computer il web on line in rete Non ho resistito ho detto sì mamma imparerò ho deciso di leggere un libro l’ho visto in vetrina alla libreria lo vado a comprare se mi dai il permesso lo vado a comprareE quanto costa? dice lei Cinque euro dico io Così poco? dice lei Così poco dico io Allora tieni Grazie Mentre mi passa i soldi mi guarda sospettosa dice Almeno sai di cosa parla questo libro? Sì rispondo io E di cosa parla? Di un ragazzo che ama i computer ma è gobbo Che storia è? È la storia di un ragazzo che ama i computer ma è gobbo Diventa gobbo a causa dei computer? Questo non lo so Vai torna presto dobbiamo finire il cruciverbaE sono uscito che libertà che sensazione che gioia il tempo era brutto ma che sensazione le nuvole tutto grigio ma che sensazione la gente il rumore mai stato il pomeriggio per strada da che mi ricordoBusso al citofono di Gigi Dico scendi sono Luciano Non posso scendere Perché non puoi scendere? I miei non hanno litigato Allora non scendi? No Allora io vadoIl parco Munnezzella è pieno di bambini dappertutto non oggi però che il tempo non è buono vado dove stanno i ragazzacci quelli col pallone di cuoio e le facce bucate dietro l’albero grande

ro v i n ato

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Mi fate giocare? Non mi danno ascolto continuano a rincorrersi calciare la palla litigare non mi hanno nemmeno vistoMi fate giocare? Non ti facciamo Vi prego fatemi Devi pagare Per giocare? Sì No Non giochi sennò Va bene cinque euro? Vieni mettiti in porta Voglio giocare all’attacco Quelli si guardano e ridono va bene mettiti all’attacco ma vedi di segnare SegneròInvece non ho segnato si è fatto buio non ho segnato nemmeno una volta però che sensazione mi sono divertito mi sono fatto dei nuovi amici violenti ma forti anche se forse per il tempo erano tran-quillissimi Ho detto perché adesso non andiamo a bucare le ruote? Quali ruote? Hanno risposto Le ruote delle macchine È tardi dobbiamo tornare a casa Che ora è? Quasi le ottoLe otto che sensazione devo tornare a casa prima devo comprare il libro speriamo che il Tedesco sia ancora aperto ho salutato i miei nuovi amici che ridono sempre quando parlo e sono scappato dal libraio che stava abbassando la serranda ho detto signor libraio! Signor libraio buonasera devo comprare un libro Chi è? Ha detto lui Sono io Ah sei tu solo Mia mamma non poteva sono io Devi comprare un libro? Sì Torna Tomani sto chiutento No oggi il libro mi serve oggi Allora entra Ha alzato la serranda e mi ha chiesto che libro volevo Un libro dove un ragazzo diventa gobbo a stare davanti al computer Che libro è come si chiama? Non lo so Non lo sai? No E come facciamo? Il libraio tedesco si è messo davanti al computer mentre sbuffava e parlava nella sua lingua sottovoce poi ha detto non esiste un libro così Nemmeno un bambino che diventa gobbo ad andare sempre in piscina? Ha controllato ha fatto no con la testa C’è un libro con un bambino che ha smesso di essere gobbo grazie alla piscina ha detto E un bambino che diventa gobbo a studiare inglese? No E un bambino che diventa gobbo a fare il cruciverba? No c’è il libro di un bambino che diventa gobbo perché studia sempre Come si chiama? Lo Zibaltone Lo prendo non ho i soldi passo domani Va bene tieni adesso vattene tefo chiutere

Fuori la libreria l’inferno una pioggia che non ho mai visto una pioggia così il vento le macchine che affondavano l’acqua che saliva dalle fogne gli ombrelli che volavano la gente che scappava sono rimasto solo in strada ho pensato devo tornare mamma è in pensiero e ho cominciato a camminare sotto la pioggia Il medico deve curarmi parecchio perché il vento era così forte la schiena si spezzavaA casa l’inferno mia mamma che urlava dove sei stato guarda come ti sei ridotto tutto ba-gnato fradicio ti prenderà un accidente dovrai saltare la scuola la piscina il corso d’inglese informatica tutto guarda come ti sei ridotto spogliati fatti un bagnoHo preso il libro. Che libro? La storia del bambino gobbo che studiava sempre guarda lo Zibaltone Lo Zibaldone! E io che ho detto? È tutto bagnato Lo so ormai è rovinato Do-mani ne compriamo un altro Vado a fare il bagno Vai L’acqua calda che sensazione è tardi ho fame domani devo tornare al parco Munnezzella giocare segnare vincere magari ci porto anche Gigi domani devo comprare un altro Zibaldo-ne e pagare trovare i soldi per il libraio che sensazione l’acqua calda mia mamma che mi passa la spugna sulla schiena E si sta bene così Mamma esce resto nella vasca ancora un po’ sento che dice cinque minuti la cena è in tavolaDevo uscire asciugarmi andare in cucina sto troppo bene così

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Da piccola volevo macchine volanti. Andare a caccia di cinghiali e imparare l’arte della falconeria. Non ho mai amato le torte di mele, né le parole tristi degli in-namorati. Sopporto a malapena i baci dei bambini.Quando d’estate mia madre mi portava al mare, entravo nell’acqua con le gonne arrotolate sui fianchi. L’acqua del Baltico è fredda di neve, anche d’estate. Eppure adoravo quello schiaffo improvviso sul ventre, la frangia d’oceano che faceva blu la mia carne. La casa restava dietro fra i pini. Là rimaneva la luce gialla posata sulle cose, il ticchettio di mio padre sulla macchina da scrivere. Odiavo quando lui si chiudeva nello studio, quando mi toglieva dalle ginocchia e mi diceva di andare a giocare. Odiavo gli uomini che la sera lo venivano a trovare. Ero gelosa di quel cameratismo, dell’odore di birra e l’aria che si riempiva di storie di donne. I vetri sudavano la sera e io faticavo a dormire da sola. Quando mi chiedevano cosa volevo fare da grande, rispondevo sempre una sola cosa: volevo volare. Ma non bastava: volevo farlo sopra il Circolo Polare Artico. Realizzavo il mio so-gno a ventisette anni, quando mio padre morì e finalmente mi sentii libera di alzarmi verso il cielo. Quel mattino i motori ronzavano come api giganti. Ero sorda ai rumori del mondo. Sentivo solo il flusso del sangue nelle tempie e l’animale di ferro tremare sotto di me, pronto a scattare come un mastino, a sbranare l’orizzonte bianco che si stendeva alla fine del mondo.Gustav restava immobile sulla pista di decollo. Lottava nel vento della mia partenza.Gli mandai un saluto con gli occhi. Niente di più. Non ho mai amato gli addii. Lui lo sapeva e rimase in silenzio sul cemento. Tremava sotto il rombo dei motori, le mani in tasca. Rispose al mio sguardo con un piccolo gesto della testa. Per noi era abbastanza.A certe latitudini le cose non hanno bisogno di un nome. Per orientarsi basta seguire il fiato dei lupi, la traccia di luce sulla neve. Mi muovevo nell’aria come un feto nel liquido materno. Senza peso, il cervello affamato d’ossigeno.Fu un volo breve. Come quello di un insetto che un mattino di luglio rompe la membrana della nascita per vivere fino al tramonto. Il mio tramonto fu il tonfo secco del motore.Un silenzio nel vuoto. Un eco prolungato, devastante.L’angelo aveva smesso di respirare. Restava con le ali aperte, sospeso nella crudeltà di quell’azzur-ro.Allargai i polmoni in uno spazio e in un tempo irrinunciabili. In quel momento compresi il sogno magnifico di ogni suicida.

La SignorinaGrünbein godedi ottima salutee vi manda i suoi salutiTesto di Daniela RaimondiScatto di Luigi Casa

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L’eroina nel bracciol’orgasmo proibitola frusta che morde la carneil parto di un figlio.L’ultima nota di Bach che violenta il mondo di bellezza.Restai sospesa nella ragnatela di un confine irraggiungibile. Fra una vita e l’altra. Fra il richiamo di Icaro e lo schianto.Un sibilo nel sangue.Un mulinello di spuma e il ritorno verso la terra.L’abbandono degli dei.

***

Quando riaprii gli occhi, la slitta di Huttenen segnava un cammino nuovo verso la costa. Ricordo la neve sugli alberi, i fiotti di sangue che uscivano dalla mia bocca. Dal sud giungeva la luce d’Europa e il profumo del muschio e delle betulle.La fontana d’inverno brillava nel sole. Dentro mi batteva il cuore lento del mondo. Morivo di nuovo, pazientemente. Tutto accadeva all’altezza degli occhi. Nella tasca del cuore tenevo i versi di Shelley, le lettere mai aperte di mio padre.

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La mia passione. Veramente.

Testo di Massimiliano Dagli AlberiScatto di Luigi Casa

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La stanza non è grande, ma ci sto bene. L’aria dell’oceano la rinfresca. Sono qui da solo e aspetto. Non per molto. Lei si avvicina. Sapevo che sarebbe andata così. Me l’avevano detto che sarebbe accaduto così.Viene e mi prende per mano. Bellissima. Capelli neri. Bellissima. Pelle nera. Bellissima. Vestito nero. Bellissima.Sento una musica, mentre lei mi stordisce con il suo nome spremuto dalla canna da zucchero. Le dico subito che non sono capace. Non tanto, ecco. Sorride. Dico che non è proprio la prima volta ma che non sono molto bravo. Mi abbraccia. Dico che deve avere pazienza, con me. Non mi ricordo bene, dall’ultima volta che l’ho fatto. Appoggia la guancia sul mio viso.Nient’altro. Inizia a muoversi, lentamente. Mentre rimane abbracciata a me, che non la conosco.Cerco di muovermi con lei, di seguire il suo ritmico, impercettibile ondeggiare. Sento il mio vestito che si mescola con il colore della sua pelle. Chiudo gli occhi sulla sua guancia che sa di barriera corallina e mi adagio tra i suoi fianchi.Dolcemente cambia posizione. Ora si sposta avanti e indietro. Non me l’aspettavo. Mi ero appena insinuato nel suo collo.Avanti e indietro.Cerco di farmi guidare aggrappandomi ancora di più a lei, che sa di sabbia e luce.Avanti e indietro.Mi accorgo che il corpo non ha più bisogno di pensieri.Avanti e indietro.Ogni suo movimento si propaga nel mio dentro, sconvolto dalle sue gambe tra le mie.Avanti e indietro.Mi guarda e sorride. Un sorriso bianco, che illumina ogni mia domanda, ogni mio dubbio, ogni mio timore accumulato in tutti questi anni nel mio fondo oscuro.Si abbassa, muovendosi, per un tempo che non riesco a contare, mentre il mio corpo si libera definitivamente dalla testa. Poi torna a guardarmi negli occhi. Quegli occhi che racchiudono tutta l’acqua creata prima del mondo, nei quali potrei galleggiare per sempre e non essere più capace di ricordare il mio nome.Ora tocca a me. Senza perdere il suo ritmo, m’invita a scendere lungo il suo corpo fino ai fianchi che le mie mani stringono, affinché non svanisca.Mi alzo di nuovo verso il suo volto, mentre lei ha gli occhi chiusi, ascoltando ciò che non potrei mai sentire. Mi avvicino a lei, al suo lento vibrare. Se ne accorge.Sei pronto, mi dice, ora sei pronto.Si volta e mi avvicina alla sua schiena. Mi prende le mani e se le porta sulla pancia. Alla fine della pancia. Non si ferma. Non si è mai fermata. Il suo muoversi attorno a ciò che sono diventato ora, mi ha fatto dimenticare tutto di me stesso. Le gambe, le spalle, le braccia, il collo, non mi appartengono più. Tutto è suo. Di lei. Di ciò che rappresenta. Perché lei è l’assenza di pensieri, di confusione, di problemi, di cose difficili. I suoi fianchi quasi non si riescono a distinguere dai miei. Non si devono distinguere, mentre il muoversi arriva dalle foreste primordiali fino alla fine della mia schiena. In-controllabile. Imprevedibile.Il corpo, non più costretto dalle parole, si appropria di se stesso.Prova piacere nel mescolarsi a un altro corpo sconosciuto, come un tempo, prima che io nascessi. Prima che tutti nascessero.Lei mi si stringe ancora addosso, la sua schiena contro di me. Mi guarda. Adesso, mi sussurra.Si volta e mi avvolge in un modo da farmi male dentro. Proviamo il settanta, il trecentosessanta, il sombrero, il Washington, la vuelta mambo.Non immaginavo d’essere capace, all’inizio. Non credevo veramente di riuscire. Avevo provato. Giuro. Davvero. Impossibile, credevo. Ma sono riuscito. E sento che non potrei più rinunciarci, dopo stasera. Dopo tutto questo. E mentre il ritmo è ormai il mio unico ritmo, la musica finisce.Ci fermiamo improvvisamente nel mezzo di un susy Q. La stanza riprende la sua forma intorno a me. Con i tavoli in vimini, le sedie vecchie, i bicchieri con il lime, le altre persone, l’orchestra.Ho appena avuto una lezione di salsa da una ragazza di Santiago.Ho scoperto che ballare i latini è la mia passione. Scoperto ora. La mia passione. Veramente. Grande passione. Inarrestabile. Quando ritorno in Italia m’iscrivo ad un corso. Deciso.E dopo aver imparato, ritorno qui.

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Dio allora ordinò: «Vi sia luce».E vi fu luce.

(Genesi 1, 3)

Ci trovavamo ogni notte sotto lo stesso lampione, come quattro puttane, tra i brandelli di sigarette e i fili d’erba che lottano contro il marciapiede. Io, Fetta, Checco, Nik. Slegavamo le biciclette incatenate tra loro e andavamo per la città in cerca di una via mai vista: c’è sempre una fila di palazzi che è sfuggita al tuo sguardo. Giocavamo in casa d’altri. In angoli bui del nostro cervello.E si giocava a dadi.Non per soldi o per gloria. È la regola numero uno, la più importante: il dado è sacro. È quello che ho, che abbiamo: sei numeri da giocarci. Giocavamo perché il mondo è come una strada dissestata. Tentavamo di riempire le buche. Arrivati dove la corrente ci aveva condotto, sbattevamo a terra le nostre navi arrugginite e ci mettevamo uno di fianco all’altro. Il primo tiro era così, per scaldarsi: nemmeno guardavi che avevi fatto. Dopo si veniva subito al dunque. Partita secca. Sempre che non venisse il Killer, il numero più alto. Perché il Killer non ha sentimenti: ammazza la partita, che sia il primo o l’ultimo. Era una delle sei regole. Finché venne il quinto tiro. Ci domandavamo se l’acqua avesse potuto sbiadire le parole, quella notte. Pioggia pioggia pioggia pioggia. Fitta come grate di confessionali. Fine come aghi di cielo. E in mezzo a quella sassaiola spunta un uomo alto, con un impermeabile grigio e un cappello, che pedala tranquillo verso di noi. Dietro, un semaforo come una debole candela. Sulla sinistra, le quattro bici martoriate dall’acqua. Sulla destra, lampioni in preghiera. Davanti a noi, un uomo che sembra uscito da un film. Scende dalla bici e l’appoggia sul cavalletto. Ci guardiamo. Durante le partite, tutti stanno alla larga. Di giorno nessuno ci teme, ma di notte la gente ci considera un pericolo. Il Checco, con garbo: «Cazzo vuoi?»L’uomo alza lo sguardo. «Ho un dado».Mica basta avere un dado per giocare, penso io.«Mica basta giocare per avere un dado» dice Nik, che a volte accavalla le frasi. Lo sconosciuto guarda Fetta. Ha un volto scavato come da una malattia, perfettamente asciutto, come se fosse protetto da un campo magnetico: le gocce scendono dal cappello, scostano la faccia e cadono sulla spalla del soprabito. Gli dice: «Sputa per terra». Fetta, che non ha certo l’educazione del Checco, ubbidisce. In un attimo la pioggia sciacqua via la sua bava.«Il mondo è un marchingegno labirintico, creato da Dio con le parole. La parola pioggia lava via la parola sputo». Fu con noi. Eravamo il filo d’erba che spinge contro l’asfalto, il dado che batte sulla strada. Con i sei numeri

Testo di Andrea CirilloScatto di Matilde Vanetti

In bo cac

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che ci restavano, sfidavamo l’esistenza. Cercavamo il senso, il modo di unire il cerchio alla retta. Una parola nuova.«In casa d’altri una volta soltanto», dice il Checco. Continua Fetta: «Ovunque il dado cada è ca-duto». «La bici è la nostra nave, il lampione il nostro molo», ancora Checco. Poi Nik: «L’asfalto è il nostro mare». Fetta: «Il Killer ammazza la partita». Sta a me. Respiro a fondo e con tono solenne: «Il dado è sacro».Il primo è Fetta. Si mette il dado davanti agli occhi. Il dado, le righe di pioggia. Lo butta in alto una volta e lo riacciuffa stringendoselo nel palmo. Via. Parabola arcuata, veloce. Rotazione: in avanti. Cade a terra, inciampa. Tre. Fetta smorza un «cazzo» tra i denti. È il turno di Checco. Checco è il mago della tecnica. Sa fare cose con un dado che voi umani non potete nemmeno immaginare. Non ha fronzoli. Fissa la fila di macchine che chiude la strada e lancia. Incredibile. Riesce a dare un effetto zig-zag degno di un giocatore di baseball. Eccellente, come al solito. Come al solito anche il re della sfiga: uno.Io. Mi chino. «A cavallo di una tomba e una nascita difficile». È come un rito. Poi tiro. Rasoterra, con tutta la forza che ho. Il dado sembra una macchina impazzita: salta, si scaravolta, rimpatta sull’asfalto. Rallenta. Si ferma accanto al pneumatico di una Punto blu petrolio. Quattro. Non male. In fondo ho più numeri dietro che davanti.Ora Nik. Lancia il suo dado in alto, tanto in alto che non lo si vede più. Ha fatto l’istituto d’arte, il ragazzo. Ha il senso dell’estetica. Il cubo precipita con la pioggia. È una corsa tra acqua e plastica. Al fotofinish: il dado cade sul cofano della Punto blu petrolio. Toc. Sei. Il Killer. Io e Fetta ci avviamo a controllare i punteggi. Lo straniero rimane impassibile nel temporale con lo sguardo puntato a ore dodici. «È il Killer», gli dice Checco, «la partita è finita». Si volta verso me e Fetta, due passi più in là. Ci fermiamo. «Niente di personale: è il regolamento», dice Nik, «ho vinto». «Come volete», dice, abbassandosi il cappello. Non avrei mai violato le regole: conosco bene la fragilità dei riti. Ma quell’uomo mi affascinava. Non aveva nessun marchio. Fu per questo che gli dissi di tirare.«Tira pure». Nik e Checco mi fulminano con lo sguardo.Lo straniero si concentra. Si passa il dado sul palmo come se sgranasse un rosario. Il quinto tiro. Il dado cade e comincia a ribalzare avanti e indietro come un pendolo, e noi con lui, quindi si appoggia su un angolo e ruota. Ruota per una decina di secondi. E poi il silenzio.Nella pioggia infinita, appesantiti dall’acqua, girarlo e rigirarlo per contarne le facce. Nella strada nera annerita dal cielo ripetersi che un dado è un cubo e che in un cubo ci stanno sei facce. Non è possibile.Sette su sei.Come un bozzolo appeso alle corde vocali.

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Ermete Potolicchio, scienziato di fama non oscura, benefattore e filantropo, interrompeva talvolta i gravi pensieri delle vegliate notti per vagheggiare la sua futura gloria. Allora, nei suoi occhi celesti e ingenui si accendeva una fiamma d’amore per l’umanità. Aveva visto in quali e quanti travagli essa quotidianamente si dibatte, e sentito che il problema principale era sempre uno: l’economia. I consumi stagnano, la produzione cala, la disoccupazione cresce. La solfa era sempre questa, ma il buon Potolicchio, da persona d’intelligenza non comune, capì subito dove stava il bandolo: il problema era che l’uomo, più di tanto, non riesce a consumare. Decise: avrebbe affrontato e risolto il problema. Sarebbe stato il suo dono alla posterità.Gli fu subito chiaro che il difetto era nell’uomo (non nel prodotto, stolti!), che il vaso era imperfetto e andava rifatto di sana pianta: al lavoro, Ermete! Riuscì dopo anni di sudori e veglie a creare, con opportune opere di ingegneria genetica, una nuova specie, quale non avrebbero sognato tutti gli economisti del mondo. Sì, egli si era pareggiato a Prometeo, a Geova, aveva creato dal nulla una stirpe: il Popolo dei Consumatori.Ciò fatto, morì perché il suo compito su questa terra era finito.

Tempo dopo, in un grande piaz-zale torreggiava un Potolicchio di bronzo in atto di levare al cielo

una provetta con la destra, e spargere in terra denaro con la sinistra. Dietro, un cancello alto chiudeva uno spazio impenetrabile e un cartello indicava: Città dei Consumatori – Vietato l’accesso. Del resto, l’alta muraglia era sorvegliata. Di simili città ne erano sorte in tutto il mondo, e l’economia fioriva come non mai.Ecco arrivare e fermarsi tre automobili d’importanza, e scendere un drappelletto scelto: mogli di politici o industriali recentemente ristrutturate con finiture di pregio, un intellettuale di molto intelletto, un “presentatore”, un cantante dall’ugola d’oro. Trepidavano.«Ma tu li hai mai visti?» «Dal vivo, mai!» «Mi hanno detto che è tutta un’altra cosa…» «Ma quando ci aprono…»Arrivò un uomo in divisa molto coscienzioso:«Signori prego, da questa parte. Mi seguano e nessuno si allontani dal gruppo». Entrarono, percorsero un tratto in una galleria semibuia, e si trovarono in una delle sale degli operatori televisivi, che costantemente riprendevano non visti la vita della città per la gioia delle moltitudini, secondo un modello spettacolare consolidato. Ma dal vivo era un’altra cosa. I Consumatori erano veramente un capolavoro. Avevano corpi ben modellati, fortissimi, con vesti in genere sportive, le facce tutte simili, dalla lingua umida e gonfia e lo sguardo vuoto. I volti, solo a tratti bestialmente furenti, esprimevano una soddisfazione ignara e completa. Fatto notevole, erano privi di nuca: la fronte sfuggente si saldava rovesciandosi diret-tamente alla collottola. Del resto il geniale Potolicchio aveva operato con ispirazione divina: delle attività cerebrali aveva lasciato solo quelle riguardanti il consumo. Le altre, inutili e quindi dannose, le aveva bandite dalle sue creature. E veramente era impressionante quanto consumavano. Infantil-mente vanitosi, passavano il tempo a gozzovigliare, a provarsi abiti nuovi, a danzare certi loro balli primitivi, a spostarsi in auto dalla palestra alla piscina. Non possedendo favella, mandavano come un mugghio lieto… talvolta un cupo bramito se la foga consumatoria più fortemente li coceva. I visitatori dietro le quinte della città-set erano in estasi. Vagavano per corridoi scuri muniti di quei vetri che dall’altro lato specchiano: al di là, i Consumatori pazzamente giocondi.

Il popolo Testo di Ludovico di LavacchielliIllustrazione di Marta Zanello

dei consumatori

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«Senta» domandavano all’ad-detto, «non cercano mai di fuggire?»«Perché mai? Qui hanno tutto, e quello che c’è fuori non gli interessa né punto né poco. Piuttosto, è da evitarsi che ve-dano un esterno».«È mai accaduto?» «Ahimè, sì, e non è stato un bello spettacolo. Di solito li ri-forniamo di nascosto o di notte, ma una volta alcuni videro un elettricista. Si misero a urlare in un modo che non credevo possibile. Alcuni si gettarono in terra, altri cercavano di attacca-re come bestie ferite. Non po-tevano capire, forse vedevano un dio, forse un dèmone… Ab-biamo dovuto ritirarli e vendere gli organi prima del tempo: non consumavano più bene.»Ma le signore erano distratte e si davano di gomito, con una luce maliziosetta nelle pupille.«Senta, una mia amica mi ha detto che si potrebbe vedere, in via eccezionale…» I visitatori illustri furono condotti nelle zone dove i Consumatori usano accoppiarsi di preferen-za. L’amplesso dei quali, fame-lico, urlante, furibondo, non è cosa che si possa scrivere sulla carta.

Abbandoniamo tutti costoro e contempliamo il sublime volgere del Tempo. L’economia e l’industria conobbero un’espansione illimitata. La terra ne fu sconquassata e tremò sui cardini: cataclismi, inondazioni, glaciazioni cancellarono le vestigia umane. Ma in piccole aree equatoriali gruppuscoli di esseri ululano alla luna e gridano al fulmine e implorano pietà al cielo. Son forse uomini sopravvissuti? No! Sono Consumatori. Gli umani fracidi di civiltà si estinsero prestissimo: i Consumatori, invece, quando si trovarono senza cibo, parte si divorarono fra loro, parte fuggirono e si inselvarono vivendo di rifiuti, topi, insetti e radici. Il loro intelletto ele-mentare, la loro ferinità, li protesse: divennero piccoli e irsuti. Eccoli, dunque, ignari di fronte a un mondo rifatto vergine. Già hanno maturato un germe di pensiero: già la civiltà si annuncia nella tenebra come il bagliore dell’alba lontana.(Forse l’umanità non rinasce per la prima volta dal Consumatore; ma da uomo a Consumatore e da Consumatore a uomo ha già compiuto il doppio periodo della sua oscillazione infinite volte. In questo caso è un ignaro Demiurgo che ogni volta interviene. E la Città dei Consumatori è quell’Eden perduto che rimane poi nel cuore dell’uomo come eco e sospiro d’una perfetta felicità, affinché eternamente si compia il gioco alterno della sua vicenda).

ossia Un Prometeo moderno

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Heart of darkness.La passione occidentale

ha un cuore di tenebra.

Rubrica a cura di Armando MinuzScatto di Ilaria Ghidini

Se è vero che la viltà è il vizio più grave, il cane, forse, non ne porta la colpa. L’unica cosa che questo animale coraggioso temesse, era la tempesta. Ma chi ama, deve dividere la sorte di colui che egli ama.

M. BULGAKOV, Il Maestro e Margherita

Il cuore, nell’immaginario comune, è il luogo in cui risiede la passione. Forse per questo, ne L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese, troviamo una scena in cui Cristo, per provare la propria natura e la propria passione per l’uomo, estrae sanguinante il cuore dal proprio petto, tenendolo davanti a sé al cospetto dei Dodici, come offrendo un dono. Scorsese costruisce la scena, anche visivamente, considerando la vasta iconografia pittorica del Sacro Cuore, la quale dimostra la partecipazione del Cristo stesso alla vita terrena e al destino dell’uomo. Come dire: non è solo questione di dogmi e precetti o di spiritus, ma ci entra dentro il sangue, la carne, la vita. Insomma il cuore, che è come dire la passione. Del resto, in molte espressioni verbali è passato questo legame tra cuore e passione: si dice avere il cuore in mano (proprio come Cristo per l’essere umano) oppure scritto col cuore, o ancora ti ringrazio di cuore. Tutto conduce alla passione. Diversamente Itsuo Tsuda, filosofo giapponese contemporaneo, definisce con l’espressione cuore di cielo puro la condizione di non-mente, che depreda la mente del ruolo di tiranno e le conferisce il ruolo di imperatore (secondo la tradizione taoista l’imperatore, al contrario del tiranno, è colui che comanda senza far avvertire la propria presenza). Per Tsuda, il cuore deve fondersi con uno dei simboli che più indicano l’antifisicità, lo spazio aperto illimitato, azzerando così la passione, intesa negativamente come figlia del pathos e del patire. Per Conrad, invece, l’Occidente ha un cuore di tenebra. Nella storia del capitano di vaporetto Mar-

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low, incentrata sulla ricerca dello scomparso Mr. Kurtz, c’è tutta la passione di un uomo sul punto di perdersi. Viene in mente, ancora pensando al cinema, l’ultimo saluto di Mastroianni sulla spiaggia de La dolce vita: un’occasione (persa) per trasformare la propria passione in redenzione. Perché Marlow, ripercorrendo herzoghianamente un fiume lento e denso come petrolio, insegue fin nel cuore dell’Africa non un uomo ma la propria passione per un ideale o un idolo, una divinità. “Io non mi sarei spinto fino al punto di fare a pugni per Kurtz, ma per lui andai assai vicino a una menzogna. Sapete che odio, detesto, non posso tollerare le bugie, non perché sia più retto degli altri, ma semplicemente perché mi spaventano. C’è un’ombra di morte, un effluvio di mortalità nelle menzogne; proprio ciò che odio e detesto al mondo, ciò che voglio dimenticare”.In uno scenario che davvero ricorda un Vietnam (inteso come luogo-simbolo in cui salta ogni princi-pio etico o morale, e infatti Coppola trasse parzialmente da Conrad Apocalypse Now) vi è la danza tormentata del devoto che segue un dio oscuro, insieme sfuggente e reale. Così in Cuore di tenebra tutto si gioca sull’elemento cardine che è la passione malata. È la passione malata che spinge Kurtz, personificazione del giovane di belle speranze, ad avventurarsi nelle periferie del mondo e a trasformarsi in Lucifero, il portatore di luce, caduto per superbia e per la mancanza di un’unica qualità, vale a dire l’umiltà. Kurtz morirà debilitato da malattie di cui probabilmente non sa pronunciare il nome e reso pazzo dai riti brutali consumati in suo onore dagli indigeni, che lo adorano come un dio misterioso e inconoscibile. Poi è la passione malata, simile ad una fame inappagata, che spinge l’onesto Marlow ad imbarcarsi alla ricerca del Male di cui s’è innamorato. Infine, ed è questa forse l’intuizione maggiore di Conrad, è la stessa passione malata che spinge l’intero Occidente ad avventurarsi verso le risorse delle disarmate e disarmanti periferie del mondo. A questa passione distorta, occidentale ed espansionistica, tutti sacrificano tutto, anche a costo di logica e sopravvivenza. Ci si ritrova così nel regno dell’assurdo, che è come dire, oggi come ieri, in Vietnam, in Cecenia o in Iraq.Seguendo questa passione, molto diversa da quella di Cristo perché priva di pietà e perché legata non al Regno dei Cieli ma al regno dell’uomo, tutti si perdono, in una sorta di sterminata danse macabre medievale: Kurtz si perde seguendo un miraggio che sa di fame e avorio. Marlow si perde inseguendo Kurtz, sua divinità e tentazione. Gli uomini tutt’intorno si perdono, stregati dal dio dell’oro

e dell’avidità. Sopra le loro teste, davvero come la Morte ossuta che sovrasta imparzialmente re e mise-rabili, onesti e disonesti, comparse e protagonisti, sta il cuore di tene-bra dell’Occidente coloniale: nero, malato e pulsante. Una versione in negativo del cuore purpureo che un Cristo, fremente e appassionato, of-friva in dono ai propri discepoli. Alla fine resta solo un sospiro al-lucinato, che è quello di Lucifero cacciato dal Regno, dal Cielo, dalla Vita: «L’orrore… l’orrore». Queste sono le ultime parole di Kurtz prima di morire, una volta raggiunto dal proprio devoto. Parole che, amplifi-cate dall’amante abbandonato, nel finale si propagano ovunque, im-pregnano l’intero universo, risuona-no come un’ineluttabile condanna: «Il tramonto le andava ripetendo in un sussurro incessante tutto attorno a noi, in un mormorio che sembra-va dilatarsi minacciosamente come il primo alitare del vento che si alza: "Che orrore! Che orrore!"».

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Perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!

A. BLOK, I Dodici

’Elì, ’Elì lèmà shèbaqtani! 1

È la fine. La consapevolezza crudele che la passione è una cosa che distrugge. La consapevolezza disarmante che nella passione c’è l’odio, l’amore… tutto quello che può spezzare un corpo.Non resta che l’anima, da salvare.Ed è bastato un sacrificio per lasciare alle ideologie un simbolo, un lascito sensibile del significato di passione.Davanti a folle divise in parti contrapposte dal Bene e dal Male, davanti all’odio maligno delle genti, all’ignoranza atavica dell’umanità, un uomo viene messo su una croce da supplizio a causa dei dubbi e dei pregiudizi, unica vera grande piaga del genere umano.E in quell’abbraccio universale di carne, legno e sangue come riconciliazione salvifica tra il mondo divino e l’umanità corrotta, tutta la forza ideologica della passione di un gesto diventa il simbolo più forte del credo di una religione.Proprio nel momento più difficile, la certezza della possibilità di congiungersi con un sentire subli-mato e divino si scontra con il dolore e la passione tutta umana che sta nell’evidenza di una fine gloriosa ma allo stesso tempo reietta, con la paura nel lasciare ciò che fino ad allora era tangibile, vivibile, amabile.Ma con sé Cristo ha proprio il suo strumento di dolore: la Croce, il legno, l’albero del male che mette le radici nel terreno ma che al tempo stesso diventa il mezzo per la liberazione e la salvezza.La Croce, sin dalle civiltà più antiche, è sempre stata il grande simbolo del dualismo (caratteristica tipica anche dell’essere umano) che cresce fino a diventare complementare, quasi a figurare la diversità nell’unità.La Croce Ansata egiziana, la Croce ‘swastika’ tibetana, la Croce atzeca di Tlaloc… sono tutti simboli di vita, di principi di opposizione che sono destinati a ricongiungersi e portare a nuove epifanie. Così anche nella religione cristiana la Croce, pur essendo strumento di morte e di punizione co-munemente usato tra i greci, i persiani e i romani, viene ad assumere un significato di unione fra l’entità umana e l’entità divina, tra vita terrena e divinità, sublimando la passione in pace eterna e gloriosa.La croce era costituita da due pali: uno verticale da piantare nella terra e uno orizzontale che veniva unito all’altro solo dopo aver inchiodato il condannato sullo stesso. Così nasce il simbolo: l’asse verticale, strettamente connesso al cielo, da una parte va a simboleggiare l’ascesa e dall’altra rap-presenta la radice, il legame con la vita terrena e l’uomo; e l’asse orizzontale diventa il gradino, la scala che permette l’ascesa a Dio.Cristo verrà inchiodato su questo legno apparentemente senza speranza, che lo renderà martire debole e dubbioso, ma, nelle tenebre dei suoi spasmi, quel sangue che lo rendeva tanto mortale quanto divino, ricoprirà la Croce di tutta la forza della passione: la Croce diventa il simbolo stesso della passione, unica forza necessaria per superare l’ostacolo dei dolori e delle gioie e portare l’anima nella serenità della contemplazione di una divinità superiore.

Rubrica a cura di Federica PasqualettiDipinto di Luigi Mor

RUBRICA - ARTE

1 Dio mio, Dio mio, perchè mi abbandonasti! - Matteo 27, 46

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Luigi Mor, Trasfigurazione (olio su tavola, cm 160x194), 2003.

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BIOGRAFIEPENNAENRICO CANTINO ha 39 anni e una laurea in Materie Letterarie. Vive a Parma, dove lavora part-time come impiegato in una minuscola casa editrice. Le sue passioni: i gatti, i cartoni animati, la letteratura. Scrive racconti dal 1984.

ANDREA CIRILLO è nato a Reggio Emilia nel 1982 e vive a Parma, dove frequenta la Facoltà di Lettere. Nel 2000 ha vinto il premio speciale della giuria del “Premio Minardi” con il racconto “Finestre”. Nel 2004, “LaLunaDiTraverso” ha pubblicato due suoi racconti. Nel futuro vorrebbe far coincidere la passione per la penna e per il palco con il suo lavoro.

MASSIMILIANO DAGLI ALBERI nato a Parma, è ricercatore presso un’industria farmaceutica. Grazie ai noiosi programmi televisivi, compone racconti dopo il lavoro. Si interessa di musica e letteratura, fra le sue passioni i viaggi e il ciclismo.

SIMONA DE BLASIO ha 22 anni e vive a Parma. Ha cominciato a scrivere all’età di otto anni. Si è diplomata in ragione-ria ed ora lavora come impiegata nella sua città. Tutto, ora, è molto concreta nella sua vita, ma l’incanto della fantasia l’accompagna da quando era bambina.

ETTORE DE BORTOLI è nato a S. Stino di Livenza (VE), il 20 novembre del 1976. Gli piace leggere di tutto, ma in par-ticolare la letteratura e la poesia del Novecento, testi di psicologia e sociologia.

STEFANO DEL RE crede di essere il famoso scrittore americano Stephen King. Dopo ripetute querele e cause per plagio si è dovuto piegare a più miti consigli e si accontenta di utilizzare uno scoperto pseudonimo per pubblicare i suoi racconti. Il suo stile è – ovviamente – molto diverso da quello dell’originale, ma non togliamogli anche quest’ultima illusione.

LUDOVICO DI LAVACCHIELLI è per metà parmigiano, un quarto leccese e per l’altro borgotarese. Si aggiunga che se vive da 15 anni a Parma, visse la prima giovinezza abbeverato alla purissima sfera d’aere ed acque delle Alpi Occidentali; si capirà come dalla Magna Grecia agl’ardui graniti del Canavese egli la sua amata Italia, se pur morta, tutta la veneri e racchiuda in seno.

MARCELLO FREDDI è nato nel 1967 a Reggio Emilia. Ha pubblicato racconti sulla rivista “Inchiostro” (ed. Il Riccio, Firenze), e sulla "Gazzetta di Reggio". Ha pubblicato inoltre un romanzo breve intitolato “Uomini e lupi”, nella collana “Bao’bab Narrativa”.

ELISABETTA MARINO trent’anni, romana, lavora attualmente nel programma “Gaia-Il pianeta che vive” (Rai Tre), di cui è una delle autrici. Appassionata di scrittura, collabora con la rivista “Coréographie”, per la quale recensisce spettacoli di danza, e con il sito di cinema Tempimoderni.com.

ARMANDO MINUZ è nato a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, il 26 gennaio 1975. Attualmente abita a Parma. È laureato in Letteratura italiana, con una tesi sul comico e la retorica nelle opere di Luigi Malerba.

FEDERICA PASQUALETTI ha ventisette anni e vive a Parma dove frequenta l’università di Lettere Moderne . Scrive racconti e poesie da sempre… scrive di ogni cosa, di ogni immagine con la quale viene a contatto, scrive di sé, degli altri, del buio, del dolore, della felicità, dei colori.

DANIELA RAIMONDI è nata in provincia di Mantova e dal 1980 vive a Londra, dove si è laureata e dove insegna italiano. Collabora con alcune riviste letterarie italiane e ha vinto numerosi concorsi nazionali sia per la poesia che per la narrativa e il giornalismo. Per la narrativa ha inoltre pubblicato la raccolta di racconti “Nove Donne e una Zebra Metropolitana” (ed. Montedit, Milano).

VINCENZO SARCINELLI è nato nel 1970 a Adria (BA), ma vive in provincia di Udine. Ha pubblicato come autore, oltre che come curatore di testi, per diverse riviste e case editrici italiane. É stato finalista e vincitore ad alcuni premi letterari. Tiene corsi di scrittura creativa per il PIC Medio Friuli e per il Circolo Pabitélè di Udine.

MARCO VICHI è nato a Firenze nel 1957. Già autore di racconti, testi teatrali e trasmissioni radiofoniche, nel marzo 1999 pubblica presso Guanda Editore il romanzo “L’inquilino” di cui scrive la sceneggiatura insieme ad Antonio Leotti. Sempre per Guanda, nel 2000 pubblica “Donne, donne”, seguito nel 2002 da “Il commissario Bordelli”, protagonista anche dei due romanzi successivi, “Una brutta faccenda” (2003) e “Il nuovo venuto” (2004). Nel 2003 cura inoltre, per Fazi, un libretto di “omaggi” a John Fante e, dallo stesso anno, lavora all’adattamento dal francese del format televisivo “Love Bugs”. Nel 2005 è uscito “Perché dollari?” (Guanda), raccolta di quattro racconti in uno dei quali ricompare Bordelli. I suoi testi vengono tradotti in Grecia, Portogallo, Spagna e Germania.

MASSIMILIANO VIRGILIO è nato a Napoli ventisei anni fa. Si sta per laureare in Scienze dell’Educazione, nel frattempo lavora presso un Consorzio di Cooperative Sociali. È autore di racconti, soggetti e sceneggiature per cinema e fumetto. Il suo primo romanzo è ancora inedito.

CAMERA

LUIGI CASA ha 47 anni e lavora come geologo presso una società che svolge ricerca di idrocarburi. La sua vera passione è però la letteratura. Ha visitato vari angoli del mondo sia per lavoro che per diletto, ma i viaggi più emozionanti li ha fatti con i libri. Essendosi abituato ad osservare, sia per il lavoro, che per la scrittura, ha finito per prendere il vizio della fotografia. Un suo racconto è apparso sull’antologia “Parma Noir”.

MASSIMILIANO CESTARI è nato a Trento nel dicembre del 1985. Attualmente frequenta il corso di laurea DAMS curri-culum Arte contemporanea a Bologna e partecipa ad un corso di sceneggiatura e fumetto. Una sua storia a fumetti è

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stata pubblicata nel 2005 dalla rivista autoprodotta “Naked”.

LAURA VITTORIA CHERCHI nata ad Alghero nel 1983 è attualmente iscritta al DAMS di Bologna curriculum Arte con-temporanea. Ha partecipato al catalogo redatto da Giorgio Cattani per il corso di tecniche pittoriche 2004 (Accademia di Belle Arti, Sassari).

STEFANO DALL’ASTA trentenne, parmigiano. Laureato in filosofia, attualmente lavora in banca. Ama la montagna e tutti gli sport che la riguardano. Cos’è per lui la fotografia? Ricerca di sé, ma anche un’opportunità: condividere la sua ricerca con altri.

GIANFRANCO DE SIMONE attualmente sta eseguendo una ricerca “astratta pura”, ossia senza l’utilizzo di tecniche digitali, utilizzando materiali di uso comune, come plastica, carta, nastro adesivo, ma soprattutto materiali di scarto.

LUCIANO ELSANO è nato a Parma nel 1975 e vive a Felino (PR). Diplomato all’Istituto Tecnico Industriale Statale della sua città, si avvicina alla fotografia grazie al fratello maggiore. Unisce questa passione a quella per i viaggi, che non manca di documentare con immagini. L’America Latina è il luogo che finora lo ha affascinato maggiormente.

CLAUDIO FERGOLA nasce il 26 febbraio 1961 a Genova, dove attualmente vive. Nel 1994 acquista una Pentax K 1000 manuale e scopre, quasi per caso, una forte sensibilità visiva che lo porta a fare centinaia di scatti in poco tempo. Minimalista, trova nel particolare la possibilità di esprimere l’idea interiore fotografando più e più volte il centro storico genovese.

EMANUELE FERRARI è nato a Piacenza quarant’anni fa. Ha svolto reportage fotografici per alcuni gruppi musicali e ha partecipato a diverse mostre fotografiche collettive.

PATRIZIA FERRARI dopo la maturità artistica, si è diplomata come art director junior all’Istituto Superiore di Comunicazione di Milano. Attualmente lavora presso un’agenzia di pubblicità milanese, svolgendo mansioni di grafico/creativo.

ILARIA GHIDINI è nata a Parma e ha 27 anni. É iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Parma e ha partecipato ad alcuni laboratori di scrittura e di teatro.

CATERINA MINGANTI è nata a Bologna nel 1977. Si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 1998 ha illustrato gli articoli della “Dichiarazione universale” nel “Notiziario mensile di Amnesty International” (ott.-nov.). Negli ultimi anni le sue opere sono state esposte in diverse mostre a Bologna, Parma e in Grecia.

MATILDE VANETTI è nata e vive a Milano. Attualmente frequenta la facoltà di Conservazione dei Beni Culturali a Parma. Adora fotografare gli oggetti comuni, preferibilmente in bianco e nero.

MATTEO VARSI è nato nel 1970 a La Spezia. Si è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Ateneo di Genova. Ha partecipato a diverse collettive in Italia e in varie città d’Europa. Nel 2002, due sue fotografie vengono scelte per essere inserite nel cortometraggio prodotto a Glasgow “One World One Minute”, dedicato alla tragedia dell’11 settembre.

MATITA

SERENA BRANDINI veronese, si è diplomata in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e dal 1993 espone in mostre collettive e personali in Italia e all’estero.

MAXIMILIANO SEBASTIAN CHIMURIS è nato a Mar del Plata (Argentina) nel 1973, ma attualmente vive in provincia di Roma ed esercita la professione di disegnatore grafico. Nel 2002 ha partecipato alla mostra collettiva “Artistas Mar-platenses”.

MATTHIAS STEPHAN KANKA è nato a Darmstadt (RTF) nel 1960, dove si è laureato e ha ottenuto l’abilitazione per l’insegnamento. Dopo aver vissuto a Roma e a Rio de Janeiro, attualmente abita a Montevideo dove insegna arte e dipinge.

LUIGI MOR è un artista bresciano nato nel 1954. Sin dal principio la sua pittura rappresenta l’esperienza di un’audace sperimentazione di stile, già segnalata in Italia Artistica (1976) e Bolaffi (1977). Poco dopo, in antitesi alla fortuna espo-sitiva, Mor entra in una pausa quasi ventennale che manifestava l’esigenza di una riflessione ancora più autentica: l’esito è la maturazione di un segno vigoroso e di forte contrasto espressivo, accentuato anche attraverso la tecnica inedita delle cosiddette “teste”, vere proiezioni figurative ri-generate attraverso l’inchiostro, le stesse delle immagini di periodici trattati con l’uso di un semplice solvente. Si è di fronte ad una radiografia della società, soprattutto delle contraddizioni del proprio fatale ricorso storico e che nelle imponenti scene d’iconografia sacra trova l’attualizzazione della coscienza etica e spirituale dell’essere umano. Tra le recenti esposizioni nazionali e all’estero: Casarsa della Delizia (palazzo Burovich, 2001, “Omaggio a Pier Paolo Pasolini”), Orzinuovi (rocca di San Giorgio, 2001), Castenedolo (ex Chiesa dei Disciplini, 2002-03), Udine (Etra, 2004), Brescia (Chiesa dei SS. patroni Faustino e Giovita, 2005, “Omaggio a Giovanni Paolo II”), Salisburgo (Berchtoldvilla, 2004; Miramed, 2005).

MAGDA PALAZZI è nata in provincia di Bari nel 1980. Ha conseguito un diploma di disegnatrice di Fumetto Umoristico presso la Scuola del Fumetto di Milano e ha partecipato per diversi anni a “Cartoomics”.

MARTA ZANELLO è nata a Udine nel 1983. Dopo aver conseguito la maturità artistica, frequenta attualmente il primo anno dell’Accademia di Belle Arti seguendo il corso di Grafica. Nel 2004 alcuni suoi lavori sono stati scelti e pubblicati sul sito di “Illustrissimi”.

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La rivista letteraria «LaLunaDiTraverso», edita dalla Casa editrice Monte Uni-versità Parma, in collaborazione con l’Archivio Giovani Artisti del Comune di Parma e con l’Assessorato ai Servizi Sociali, bandisce un NUOVO CONCOR-SO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI

REGOLAMENTO

Art. 1 - TEMA DEL CONCORSO

Dopo L’altro da sé, La notte, La stazione di servizio, Numeri, Bugie, Vizi, Equivoci, CittàCheCambia, Confini, Asfalto, Passione, Fame il prossimo tema della rivista sarà SGUARDI.

Art. 2 - MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE

Opere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a [email protected] o per posta su floppy disk.Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su negativo o su supporto ma-gnetico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). Il materiale inviato per posta dovrà pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 – 43100 Parma.Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e – mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti dell’originalità dell’opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inap-pellabili e il materiale non verrà restituito.

Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONE

Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’origi-nalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sulla rivista “LaLunaDiTraverso”. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Art. 4 – SCADENZA

Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 14 ottobre 2005.

Art.5 – INFORMAZIONI

Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384468-69-70, oppure agli indirizzi di posta elettronica: [email protected].; [email protected]. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00.

Comune di ParmaAssessorato Politiche Culturali e Promozione di Iniziative per i Giovani

Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità

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