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DOMENICA DELLE PALME: PASSIONE DEL SIGNORE Mt 26,14-27.66; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11 Colletta Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa' che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione. Egli è Dio e vive e regna con te... Con questa Domenica inizia la Settimana Santa, un momento di grande spiritualità che la tradizione cristiana chiama la “grande Settimana” (Hebdomada maior), e questo perché, come afferma san Giovanni Crisostomo, in tale periodo sono stati donati all’umanità i beni più grandi: il Signore si è riconciliato con la sua creatura più cara, il cielo si è fatto più vicino, la morte è stata sconfitta per sempre, la schiavitù del demonio annullata, e il Dio della pace ha reso “buona” ogni cosa, sia in cielo sia in terra. Per questo è bello che un avvenimento tanto espressivo, sia preceduto dalla benedizione delle “palme” e dalla processione in onore di Cristo-Re, a ricordo del suo ingresso trionfale in Gerusalemme; una scena di grande esultanza, che ben presto si muterà nella spietata congiura contro Gesù e terminerà con la sua morte sulla Croce. Se la Liturgia della “Parola” non proponesse come seconda lettura il meraviglioso inno di Paolo, sembrerebbe veramente che l’ora delle tenebre avesse il potere di annullare per sempre ogni speranza di salvezza; infatti, il lamento del servo sofferente (prima lettura) pone una struggente nota di dolore su una vicenda, che rimane incomprensibile se non alla luce del “dopo”, e il corpo che cala nella tomba, la pietra che la richiude inesorabilmente, i soldati armati che la sorvegliano, non possono che lasciare una profonda sensazione di gelo (pagina evangelica). È la storia del dramma della follia di un popolo, della perversità umana, e della violenza gratuita contro l’unico innocente apparso sulla terra, sulla quale, però, emerge sovrana la figura del Cristo che sulla Croce celebra il suo vero trionfo.

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DOMENICA DELLE PALME:

PASSIONE DEL SIGNORE Mt 26,14-27.66; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa' che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione. Egli è Dio e vive e regna con te...

Con questa Domenica inizia la Settimana Santa, un momento di grande spiritualità che

la tradizione cristiana chiama la “grande Settimana” (Hebdomada maior), e questo

perché, come afferma san Giovanni Crisostomo, in tale periodo sono stati donati all’umanità i beni più grandi: il Signore si è riconciliato con la sua creatura più cara, il

cielo si è fatto più vicino, la morte è stata sconfitta per sempre, la schiavitù del demonio

annullata, e il Dio della pace ha reso “buona” ogni cosa, sia in cielo sia in terra. Per questo è bello che un avvenimento tanto espressivo, sia preceduto dalla benedizione

delle “palme” e dalla processione in onore di Cristo-Re, a ricordo del suo ingresso

trionfale in Gerusalemme; una scena di grande esultanza, che ben presto si muterà nella spietata congiura contro Gesù e terminerà con la sua morte sulla Croce.

Se la Liturgia della “Parola” non proponesse come seconda lettura il meraviglioso inno

di Paolo, sembrerebbe veramente che l’ora delle tenebre avesse il potere di annullare

per sempre ogni speranza di salvezza; infatti, il lamento del servo sofferente (prima lettura) pone una struggente nota di dolore su una vicenda, che rimane incomprensibile

se non alla luce del “dopo”, e il corpo che cala nella tomba, la pietra che la richiude

inesorabilmente, i soldati armati che la sorvegliano, non possono che lasciare una profonda sensazione di gelo (pagina evangelica). È la storia del dramma della follia di

un popolo, della perversità umana, e della violenza gratuita contro l’unico innocente

apparso sulla terra, sulla quale, però, emerge sovrana la figura del Cristo che sulla Croce celebra il suo vero trionfo.

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Mt 21,1-11

L’ingresso di Gesù in Gerusalemme

Gesù ha lasciato la Galilea e, dopo un viaggio in gran parte al di fuori delle regioni

abitate prevalentemente da giudei, arriva finalmente a Gerusalemme. L’ingresso nella città santa introduce l’ultima fase del ministero di Gesù, che si concluderà con la sua

morte e risurrezione. A Gerusalemme ha luogo una serie di controversie e di scontri tra

di lui e gli esponenti dei giudei (21,23-22,40). Nei sinottici l’arrivo di Gesù a Gerusalemme assume un rilievo particolare perché è

questa l’unica volta, nel corso del suo ministero pubblico, che si reca nella città santa.

L’esposizione di Matteo si articola in due parti contrassegnate ciascuna da una citazione

scritturistica: invio di due discepoli per prelevare l’asina e il suo puledro (vv. 1-7); entrata di Gesù in Gerusalemme (vv. 8-9).

L’invio dei discepoli (vv. 1-7) Quando Gesù, avvicinandosi a Gerusalemme, arriva a Betfage manda avanti due

discepoli con un compito ben preciso (v. 1). L'evangelista non dice quando ha avuto

luogo questo evento, ma secondo lo schema sinottico esso dovrebbe essere avvenuto nel primo giorno della settimana (domenica). Venendo da Gerico Gesù giunge a Bètfage.

Egli osserva anche che la località si trova presso il monte degli Ulivi, quindi proprio là

dove si pensava che JHWH sarebbe apparso per liberare Gerusalemme dai suoi nemici

e dove i rabbini collocavano la venuta del Messia. L’incarico ricevuto dai due discepoli è quello di recarsi nel villaggio vicino dove

troveranno un’asina legata e con essa un puledro: essi devono scioglierli e portarli da

Gesù (vv. 2-3). Per Matteo non si tratta di un semplice puledro, ma un’asina con il suo puledro: in questo particolare è evidente l’influsso della profezia di Zaccaria che parla

di due animali, mentre in realtà si tratta di uno solo. Se qualcuno chiederà loro ragione

dovranno rispondere che il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito (v. 3). Matteo

osserva che ciò è avvenuto perché si adempisse un oracolo profetico (v. 4). Il testo a cui l’evangelista si riferisce è Zaccaria 9,9, che Matteo riporta per esteso (v.

5). Questa profezia, che rappresenta il punto focale del racconto di Matteo, nell’originale

suona così: «Esulta grandemente, figlia Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio

d’asina» (9,9). Matteo omette l’invito all’esultanza e lo sostituisce con un’espressione

tratta da Isaia: «Dite alla figlia di Sion». Per lui l’esultanza è fuori luogo perché Gerusalemme si sarebbe autoesclusa dalla salvezza e Gesù più avanti ne predirà la

condanna. Matteo tralascia anche gli aggettivi «giusto e vittorioso» per concentrare

l’attenzione sull’attributo della mitezza: egli vede questa caratteristica raffigurata nel

fatto che Gesù non entra a Gerusalemme su un focoso destriero, bensì su un’asina che, pur essendo anch’essa una cavalcatura principesca, aveva connotati pacifici.

Matteo accenna poi in forma abbreviata all’attuazione dell’incarico: i due discepoli

portano l’asina e il puledro, stendono su di essi i mantelli e Gesù si siede su di essi (vv. 6-7). Non si capisce come Gesù abbia potuto sedersi contemporaneamente su due

animali, cioè l’asina e il puledro. È vero che il profeta parla di due animali, ma in realtà

si riferisce solo a un «asino», che poi denomina, in forza del parallelismo tipico della poesia ebraica, con il sinonimo «figlio d’asina». Matteo lo segue prendendo alla lettera

il testo e, preoccupato di sottolinearne l’adempimento letterale, non si accorge

dell’incongruenza di una persona che siede su una doppia cavalcatura.

L’entrata trionfale (vv. 8-9)

Matteo annota che la folla numerosissima stendeva sulla via mantelli e «rami» tagliati

dagli alberi (v. 8). Insistendo sull’enormità della folla Matteo dimostra l’intenzione di dare la massima visibilità e solennità alla scena. Il particolare dei mantelli stesi sul

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puledro e sulla strada ricorda la proclamazione di Ieu come re di Israele (2Re 9,13);

l'uso delle fronde invece richiama sia i riti che si compivano nella festa delle capanne

(Lv 23,40), sia quelli compiuti da Giuda Maccabeo per la dedicazione del tempio dopo la profanazione che ne era stata fatta dai re siriani (2Mac 10,7). L’evangelista allude

anche al Salmo 118,19 («Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare»)

che veniva proclamato nelle feste delle Capanne e della Dedicazione. I pellegrini galilei che accompagnano Gesù si ispirano a queste parole liturgiche per acclamarlo come il

Messia. Se queste allusioni ai testi biblici sono intenzionali, vi sarebbe qui un riferimento

ai temi della messianicità di Gesù, del nuovo esodo e della purificazione del tempio:

quest'ultimo motivo sarà poi ripreso nella scena successiva. La folla grida: «Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del

Signore! Osanna nel più alto dei cieli» (v. 9). Queste espressioni, ricavate dal Sal 118,

sono usate dai sacerdoti per rivolgere il loro saluto a un personaggio, probabilmente il re che, dopo aver ottenuto una grande vittoria, sale al tempio per ringraziare JHWH. Il

termine «osanna» (salvaci) ha il senso di «Evviva». Con l’aggiunta dell’appellativo

«Figlio di David», Matteo trasforma l’invocazione in un’acclamazione messianica.

Nei due versetti successivi (vv. 10-11) l’evangelista descrive il turbamento di

Gerusalemme che rievoca quello che aveva avuto luogo all’arrivo dei magi. Come allora

i gerosolimitani restano passivi ed estranei all’avvenimento messianico. La domanda «Chi è costui?», esprime il loro atteggiamento sospettoso; sono quasi infastiditi per

tanto chiasso. Essi non riescono a cogliere i segni dei tempi. Nella risposta la folla

presenta Gesù come il profeta di Nazaret della Galilea. Per gli abitanti di Gerusalemme l’origine di Gesù da Nazaret della Galilea non doveva riuscire particolarmente

significativa.

La fitta rete di riferimenti alla Bibbia mostra chiaramente che la tradizione ha visto

nell'entrata di Gesù in Gerusalemme la manifestazione del Messia, figlio di Davide. Dal

punto di vista storico il significato messianico dell'episodio è discutibile. Da una parte è difficile immaginare che questo evento abbia avuto connotati messianici troppo evidenti,

perché non sarebbe passato inosservato alle autorità romane. Dall'altra non si può

escludere che Gesù sia entrato in Gerusalemme cavalcando un asinello e che una piccola folla lo abbia effettivamente accolto come un affermato maestro o come l'atteso messia.

Nulla fa pensare che egli stesso abbia voluto avanzare una pretesa messianica.

Gesù aveva sempre nascosto la sua dignità messianica. Per la tradizione è invece

evidente che, entrando in Gerusalemme, Gesù si è presentato come il re mansueto e pacifico annunziato dalle Scritture profetiche. Per Matteo Gesù è il Messia che prende

simbolicamente possesso della Città Santa, e come tale entra subito dopo nel tempio e

lo purifica con la cacciata dei profanatori.

Questa presentazione fortemente messianica dell’entrata di Gesù a Gerusalemme mette

in una luce nuova le controversie che avranno luogo subito dopo con i capi del popolo.

Non è un profeta qualunque, ma il Messia figlio di Davide che entra a prendere possesso

del suo regno e chiede al suo popolo un’adesione di fede che esso non è disposto a dare.

Fin d’ora però la sua regalità è contrassegnata dalla mitezza e dalla misericordia. Egli

non viene per giudicare e condannare, bensì per annunziare e per offrire salvezza al suo

popolo. Il suo ingresso in Gerusalemme dimostra anche il suo coraggio e la sua

determinazione. Egli ha un progetto, al quale ha subordinato tutti i suoi passi, e ora lo

attua, costi quel che costi, fino al dono supremo della propria vita.

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Alla commemorazione

dell’ingresso del Signore

in Gerusalemme Orazione Dio Onnipotente ed eterno, benedici questi rami, e concedi a noi, tuoi fedeli, che accompagniamo esultanti il Cristo, nostro Re e Signore, di giungere con lui alla Gerusalemme del cielo. Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Dal Vangelo secondo Matteo (21,1-11)

Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage,

verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro:

«Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina,

legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se

qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma

li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si

compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla

figlia di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e

su un puledro, figlio di una bestia da soma”».

I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù:

condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi

si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla

strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla

strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava:

«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del

Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». Mentre egli entrava in

Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è

costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret

di Galilea».

Parola del Signore.

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Is 50,4-7

Il Servo perseguitato (3° carme)

La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, si distacca

nettamente dalla precedente in quanto non si situa nel periodo storico in cui è vissuto il profeta, ma contiene una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per

annunziare loro la fine dell’esilio. Il libro si apre con il lieto annunzio del ritorno nella

terra dei padri (Is 40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio (55,1-13). Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due blocchi, quelli

composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli

che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1 - 54,17). Nel libretto del

Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato «Servo di JHWH», di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato

dato l’appellativo di «Carmi del Servo di JHWH» (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12).

Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione di cui è

fatto oggetto. Esso è molto simile ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto

perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina: solo dalle parole conclusive, non riportate dalla liturgia, appare che si tratta ancora una volta

del servo di JHWH. Nel brano liturgico il Servo ricorda anzitutto la sua chiamata (vv. 4-

5), poi passa alla descrizione delle sofferenze che gli sono inflitte (v. 6) e termina con

una dichiarazione di fiducia in Dio (v. 7).

La composizione si apre con un soliloquio: «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da

discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (vv. 4-5). Il servo è una

figura profetica, il cui compito è quello di parlare a nome di Dio. Questo concetto viene

formulato mediante l’immagine della lingua, cioè della capacità di parlare, che gli è stata data direttamente da Dio, al quale egli d’altra parte ha volto ogni giorno il suo orecchio

esattamente come fa un vero discepolo. Il rapporto del Servo con JHWH è dunque simile

a quello del discepolo nei confronti del maestro. Quando egli parla lo fa a nome di colui che lo ha istruito. Per questo può parlare con autorevolezza soprattutto a chi è

sfiduciato. Proprio perché ha ricevuto lui stesso per primo un’istruzione interiore, il

Servo può toccare il cuore dei suoi ascoltatori. Nel contesto del Deuteroisaia gli sfiduciati sono gli esuli deportati in una terra straniera, ai quali il Servo dà la speranza di poter

ritornare finalmente nella loro patria.

Bruscamente il Servo soggiunge che il suo abbandono all’iniziativa divina comporta una

dolorosa persecuzione: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (v. 6).

Il fatto di annunziare quello che JHWH gli aveva suggerito comporta nei confronti del

Servo non un atteggiamento di apertura e di fiducia, ma un’opposizione rabbiosa e violenta. Si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi. È difficile

dire in che contesto queste vessazioni gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche.

Ma certo si tratta di sofferenze gravissime. Non si dice neppure chi ne è l’autore. Si potrebbe pensare all’autorità civile che vede in lui un sobillatore. Dal contesto però

sembra piuttosto che si tratti di coloro a cui è stato mandato, i quali non solo non

accettano il suo messaggio, ma cercano di eliminare l’incomodo messaggero: è questa

la sorte dei profeti, di cui l’esempio più significativo è Geremia. Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale: «Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso» (v. 7). Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza

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verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta

fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli

deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le opposizioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la

realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.

Nella conclusione, omessa dalla liturgia, il Servo riafferma la sua fiducia in Dio e lancia una sfida ai suoi avversari (vv. 8-9). Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi

avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da

una volontà di vendetta ma dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa.

In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di

Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale riceve il messaggio che egli comunica al popolo. Nel suo comportamento è assente tutto

quello che potrebbe anche solo sembrare un progetto umano, perseguito a scopi di

successo personale o nazionale. Al primo posto il Servo mette Dio e la sua decisione di liberare Israele. Così facendo egli si oppone a ogni tentativo di considerare il ritorno

nella terra promessa come occasione per una ricerca di potere da parte di un individuo

o di un gruppo nei confronti del popolo, o anche come una rivalsa del popolo nei

confronto dei propri oppressori. Il servo ha dovuto pagare di persona perché il primato di Dio apparisse veramente

convincente. Egli non è andato semplicemente incontro all’insuccesso, come appare nei

carmi precedenti, ma ha suscitato un’inspiegabile persecuzione; di fronte ad essa però è rimasto fedele al compito ricevuto e ha continuato ad annunziare con fermezza il

decreto divino senza abbandonare il metodo non violento adottato fin dall’inizio. Il rifiuto

della violenza appare così come l’unico mezzo capace di assicurare non solo il successo,

ma anche una piena partecipazione di tutti alla libertà acquistata. Se la libertà fosse acquistata per mezzo della violenza facilmente lascerebbe il posto a una nuova violenza

nei confronti degli stati più poveri e indifesi della popolazione. Forse è proprio il fatto di

essersi rivolto a tutto il popolo che ha suscitato l’opposizione delle classi dirigenti, le quali avrebbero voluto gestire il ritorno nella terra promessa a proprio vantaggio.

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PRIMA LETTURA

Dal libro del profeta Isaìa (50,4-7)

Il signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare

una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso.

Parola di Dio.

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SALMO RESPONSORIALE (Sal 21,8-9.17-20.23-24) (22)

Anche se nell’antica Israele questo stupendo Salmo è stato un’invocazione di aiuto rivolta al Signore dal giusto afflitto e perseguitato, per la ricchezza delle immagini e per

l’intensità della preghiera, si presta anche a una lettura simbolica che lo rende sempre

attuale (per questo gli Evangelisti, nei racconti della passione, lo hanno utilizzato per sottolineare con le sue parole i momenti decisivi della vicenda dolorosa di Gesù); esso

è una delle suppliche più celebri di tutto il Salterio, ed è particolarmente caro alla

tradizione cristiana perché, nella sua parte iniziale, ricorda le parole che Cristo in Croce (secondo Matteo) pronunziò nella versione aramaica (Elì, Elì, lemà sabactàni? “Dio mio,

Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Per comprendere in modo corretto il profondo

significato di questa preghiera è necessario, però, leggere e meditare il Salmo in ogni

sua parte; esso, pur essendo dominato da un grande senso di tristezza, e inizialmente segnato dal silenzio di Dio, contiene anche un gioioso ringraziamento al Signore per il

suo aiuto, la sua giustizia e il suo amore.

Il canto amaro dell’orante è indirizzato a un Dio simile a un imperatore indifferente alla sofferenza e alle lacrime di chi soffre; la lamentazione si completa con la descrizione

dello sfacelo fisico e degli incubi in cui è immerso l’orante, e di come la sua dignità sia

completamente calpestata. I nemici sono raffigurati con immagini “bestiali” in una scena di caccia dove la preda è raggiunta e assalita. Il quadro finale descrive il fedele ormai

in fin di vita, umiliato e spogliato anche delle vesti che sono divise tra i persecutori. Ma

ecco improvvisamente la nuova realtà, un’immagine di gioia che vede la passione del

giusto finalmente premiata; egli è rappresentato nel tempio mentre scioglie i suoi voti per la liberazione e l’aiuto concessi da Dio. Tutta l’assemblea degli oppressi e dei fedeli,

intona un inno di lode in onore di JHWH re, davanti alla quale si prostrano tutti i viventi,

i defunti e persino le generazioni future. Iniziato come un grido di desolazione, il Salmo si conclude con un inno di gioia.

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,

storcono le labbra, scuotono il capo:

«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,

lo porti in salvo, se davvero lo ama!». R.

Un branco di cani mi circonda,

mi accerchia una banda di malfattori;

hanno scavato le mie mani e i miei piedi.

Posso contare tutte le mie ossa. R.

Si dividono le mie vesti,

sulla mia tunica gettano la sorte.

Ma tu, Signore, non stare lontano,

mia forza, vieni presto in mio aiuto. R.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea.

Lodate il Signore, voi suoi fedeli,

gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,

lo tema tutta la discendenza d’Israele. R.

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Fil 2,6-11

Inno cristologico

Questo testo si presenta come una composizione abbastanza autonoma all’interno della

lettera ai Filippesi a motivo sia del suo contenuto cristologico, sia della sua forma letteraria poetica: queste due caratteristiche fanno sì che esso venga comunemente

chiamato “inno cristologico”. Il contesto del brano è il seguente: dopo aver incoraggiato

i fedeli a lottare concordemente per la causa del vangelo contro gli avversari provenienti dall’esterno, l’apostolo si rivolge a loro nel c. 2 con un lungo periodo nel quale li invita

ad «avere i medesimi sentimenti» e inculca l’umiltà e la rinuncia a se stessi per il bene

comune. A tal fine li esorta a «sentire in se stessi» ciò che ha sentito Gesù, il quale

viene poi presentato nell’inno cristologico come modello di una rinuncia di sé portata fino all’estremo delle proprie possibilità (vv. 6-11). La parenesi si conclude poi con una

rinnovata esortazione a lottare per la salvezza, che si attua in mezzo a un mondo

perverso ed è fonte per Paolo e per i suoi lettori di una gioia comune.

Attualmente è diffusa l’opinione secondo cui Paolo non sarebbe direttamente l’autore

dell’inno, in quanto questo rivela uno stile e soprattutto una visione teologica che non sono quelli tipici dell’apostolo. Esso sarebbe perciò una di quelle composizioni

preesistenti, originariamente autonome, utilizzate successivamente in funzione di un

contesto diverso. L’inno di Filippesi avrebbe avuto origine nell’ambito del culto e sarebbe

stato qui inserito da Paolo per scopi parenentici. Paolo non se ne è servito per fare una sintesi o un’esposizione teologico-dottrinale sulla persona di Cristo (la sua preesistenza,

l’incarnazione, le due nature), ma per proporre ai cristiani l’umile atteggiamento di Gesù

come esempio del loro comportamento comunitario.

L’inno cristologico si divide in due parti (vv. 6-8 e 9-11), di cui la prima a sua volta si

divide in due unità (vv. 6-7b e 7c-8). Da ciò risulta la seguente divisione: dalla

condizione di Dio a quella di servo (vv. 6-7b), la sua umiliazione (vv. 7c-8) ed esaltazione (vv. 9-11).

Dalla condizione di Dio a quella di schiavo (vv. 6-7b) La prima cosa che viene affermata di Gesù Cristo è che egli era «nella condizione di

Dio» (v. 6a). Sullo sfondo si può intuire il racconto della creazione, nel quale si dice che

il primo uomo fu creato a immagine di Dio. Siccome la «condizione di Dio», in contrapposizione alla condizione dello schiavo, comporta essenzialmente dominio,

autorità e dignità, si può ritenere che Gesù Cristo fosse in condizione di Dio in quanto

queste prerogative divine gli appartenevano pienamente come suo privilegio originario.

L’esistenza di Cristo nella condizione di Dio viene espressa con una proposizione concessiva («pur essendo»), con la quale si sottolinea come il suo essere in condizione

di Dio non sia stato rimosso, ma è continuato anche dopo che egli «si svuotò».

L’inno continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il suo essere in condizione di Dio: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (v 6b). L’oggetto di

cui Cristo avrebbe potuto approfittarsi consiste nell’«essere alla pari di Dio». Questa

espressione è stata comunemente tradotta «l’essere come Dio», con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo. Dal punto di vista filologico però essa indica

semplicemente l’esercizio attivo del suo «essere nella forma di Dio», cioè dei poteri

propri di Dio, e di riflesso la pretesa che gli altri li riconoscano e li rispettino con un

atteggiamento di obbedienza e di culto. Ciò che Gesù Cristo non volle sfruttare a proprio vantaggio sono dunque le conseguenze esterne del suo rapporto privilegiato con Dio.

Anche qui sullo sfondo si intuisce l’esperienza di Adamo, il quale si è ribellato proprio

perché ha voluto essere «come Dio», acquistando la conoscenza del bene e del male. In contrasto con lui, Cristo non ha voluto gestire in termini di potere il suo privilegio di

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essere «in forma di Dio»: per questo ha iniziato un cammino che lo ha portato a

immergersi negli strati più bassi dell’umanità, non come castigo ma per libera scelta.

L’autore dell’inno prosegue affermando che Cristo non solo non volle approfittare di ciò che gli competeva, ma addirittura vi rinunciò, «svuotò se stesso» (v. 7a). L’oggetto di

cui svuotarsi è il diritto nativo di essere alla pari di Dio. L’espressione «svuotò se stesso»

significa quindi che Cristo ha rinunciato in modo totale, e al tempo stesso libero e volontario, a tutto ciò che il suo status divino comportava dal punto di vista della dignità

e del trattamento. L’autore stesso spiega che cosa significa «svuotò se stesso» mediante

l’inciso «assumendo una condizione di servo» (v. 7b). Cristo durante la sua vita terrena

non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all’umile servizio degli altri. Il termine

«servo» si rifà ancora una volta al personaggio deutero-isaiano e alla sua esperienza: il

servizio consiste nell’accettazione della sofferenza in funzione della riaggregazione del popolo, della sua conversione a Dio e del ritorno nella terra dei padri.

L’umiliazione del servo (vv. 7c-8) Viene poi delineata l’inquadratura storica in cui si è svolta la rinunzia volontaria di Gesù:

«diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo» (v. 7cd). Colui

che era nella condizione di Dio è ora sullo stesso piano degli uomini. L’autore dell’inno

intende sottolineare come la totale somiglianza di Gesù con gli uomini si situi nel tempo e nello spazio, sia cioè la conseguenza di un evento che si situa all’interno della storia

umana. Non si tratta però di una semplice somiglianza: durante la sua esistenza terrena

egli fu percepito, riconosciuto da quelli che l’hanno incontrato, nel suo modo di essere e di agire, come veramente uomo, alla pari di tutti gli altri. Viene così sottolineata a

tutti gli effetti la sua piena solidarietà con il genere umano.

L’autore afferma che Gesù «umiliò se stesso» (v. 8a). Questa espressione viene usata

nel NT in contrapposizione ai sentimenti di vanità, ambizione e autoesaltazione propri dell’uomo. L’autoumiliazione di Gesù consiste dunque nel radicale rifiuto dell’ambizione

e dell’orgoglio, e di riflesso nell’adozione di quella ferma e risoluta mitezza, aliena da

qualsiasi violenza, che è stata propria del Servo di JHWH. Gesù ha portato a termine la sua umiliazione «facendosi obbediente fino alla morte» (v.

8b). L’aggettivo «obbediente» è unito a facendosi, che indica un atteggiamento abituale

e costante, che si caratterizza come fedeltà totale alla volontà di Dio. L’espressione «fino alla morte» non ha un senso temporale, ma un senso qualitativo: un’obbedienza

che non cede davanti al sacrificio personale, compreso anche quello supremo della

propria vita.

L’autore infine commenta: «e a una morte di croce» (v. 8c). Questa espressione, che rappresenta il climax dell’inno, può considerarsi come una ripetizione retorica che mette

in rilievo l’estremo grado di umiliazione a cui Gesù è andato incontro. Nel contesto

esortativo in cui l’inno è inserito l’espressione «morte di croce» assume un significato speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi,

che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il

colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il limite estremo dell’umiliazione.

Il Cristo esaltato (vv. 9-11)

Il movimento dell’umiliazione di Cristo, che ha toccato il suo punto più profondo nella morte sulla croce, subisce un arresto inopinato e decisivo all’inizio del v. 9, dove si apre

uno spiraglio sulla sua esaltazione. Il linguaggio, che nei vv. 6-8 era conciso e lapidario,

diventa ora elaborato. Cambia anche il soggetto dell’azione: mentre finora chi agiva era Gesù, a partire dal v. 9 è Dio che esalta colui che si è abbassato e gli conferisce la

dignità di Kyrios, mentre il cosmo intero dà lode a colui che aveva preso la condizione

umile di servo.

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Il nuovo brano inizia con la descrizione degli effetti che ha avuto l’umiliazione di Cristo:

«Per questo Dio lo esaltò» (v. 9a). L’espressione «per questo» sottolinea come la

radicalità della svolta che interessa la persona di Gesù ha uno stretto collegamento con ciò che è capitato precedentemente. Proprio in forza della sua morte egli ha conseguito

un modo di essere immensamente superiore a quello dei semplici mortali. L’esaltazione

che gli è conferita appare come un esempio del modo di agire di Dio, enunciato da Gesù stesso nei vangeli.

L’intervento divino viene ulteriormente precisato con questa affermazione: Egli «gli

donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (v. 9b). Questo è l’unico passo nel NT in

cui si parla di un atto di grazia concesso a Cristo. Dal contesto (cfr. v. 11b) si ricava che «il nome» attribuito a Gesù è il nome stesso di Dio, JHWH, che in greco è stato tradotto

Kyrios. Il nome significa, alla luce del linguaggio biblico, non un appellativo o un

attributo specifico (in questo caso la divinità), ma piuttosto un ufficio, status, o dignità. Per iniziativa gratuita di Dio Gesù riceve quindi lo status di Kyrios, che comporta la

suprema dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo e in terra.

Proprio quel Gesù, che durante la sua esistenza terrena non aveva voluto avvalersi a proprio vantaggio del suo «essere come Dio», viene ora esaltato in sommo grado,

ricevendo in dono da Dio la dignità suprema propria di Dio stesso: ciò a cui aveva

liberamente e volontariamente rinunciato come diritto lo ottiene ora come dono

gratuito. Lo scopo dell’esaltazione di Cristo viene poi descritto in questi termini: «perché nel

nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua

proclami» (v. 10). Il «nome di Gesù» è quello che gli appartiene perché gli è stato dato da Dio, e indica la sua signoria universale. Perciò in esso, cioè in segno di profonda

adorazione nei suoi confronti, «si pieghi ogni ginocchio... e ogni lingua proclami».

L’autore dell’inno aggiunge «nei cieli, sulla terra e sotto terra» per esplicitare il carattere

universale di tale adorazione. L’inno cristologico raggiunge la sua conclusione quando rivela che tutto il cosmo

proclama che «Gesù Cristo è Signore» (v. 11b). Con questa formula carica di profondo

significato teologico l’autore vuole affermare che Gesù Cristo non è un signore qualunque, ma il KYRIOS per antonomasia. Gesù, che durante la sua esistenza terrena

ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell’umiliazione, è stato innalzato alla

suprema dignità. L’inno termina con l’espressione «a gloria di Dio Padre» (v. 11c). Si afferma che Gesù

non è il sostituto né il concorrente di Dio, in quanto la confessione della sua signoria

torna in ultima analisi a gloria di Dio Padre. A rigore di termini questa frase si riferisce

dunque direttamente all’esaltazione di Gesù. Tuttavia a giudizio di vari studiosi essa serve come conclusione dossologica per tutto l’inno, in quanto sottolinea che anche

come esaltato egli non fa altro che prolungare quell’atteggiamento di umiltà che lo ha

portato a non usare per il proprio vantaggio personale il suo essere alla pari di Dio.

Nel corso dei secoli l’inno cristologico è stato interpretato in due modi sostanzialmente diversi. I Padri Greci e quelli Latini fino ad Ambrogio e all’Abrosiaster hanno visto come

soggetto del brano il Verbo nella sua realtà umana concreta, cioè Gesù nella sua vita

terrena. Questa interpretazione è quella a cui si è ispirato Paolo stesso quando l’ha

utilizzato nel contesto della parenesi, e di riflesso non può essere che quella che gli hanno dato i filippesi. Per combattere l’arianesimo Ambrogio, l’Abrosiaster e i Padri

Latini posteriori hanno invece adottato un’altra interpretazione che vede come

protagonista dell’inno il Verbo preesistente nella sua esistenza presso il Padre e nel processo che lo ha portato a scendere in questo mondo e a prendere la natura umana.

Questa lettura del brano è diventata tradizionale, in quanto domina tutta l’esegesi

cattolica fino ai tempi moderni. È oggi convinzione abbastanza diffusa che lo schema teologico alla base di questa interpretazione non possa essere utilizzato per la

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comprensione dell’inno e si sta ritornando progressivamente all’interpretazione

originaria.

Appare così che nell’inno la vicenda di Gesù viene letta sulla falsariga dell’esperienza di Adamo e del Servo di JHWH. Adamo, creato a immagine di Dio, ha preteso di essere

come Dio, e così ha perso la dignità che gli era stata conferita. Gesù invece, pur essendo

in senso pieno «nella condizione di Dio», non ha fatto valere il suo privilegio in termini di prestigio e di potere, ma ha assunto la condizione propria del Servo sofferente, dando

la sua vita come espressione della sua fedeltà totale e Dio. Sullo sfondo di questa

profonda umiliazione non bisogna dunque vedere un processo ascetico di

automortificazione, ma un impegno personale e costante per la liberazione di un popolo ancora lacerato da profonde divisioni e impregnato di violenza. Come il Servo anche

Gesù ha mostrato in tutti i modi l’amore di Dio per i piccoli e gli emarginati, mettendo

in questione i privilegi dei ricchi e dei potenti. E proprio costoro non glielo hanno perdonato, provocando la sua morte violenta.

Su questa linea si scorge nell’inno una percezione profonda dei rapporti unici e irripetibili

che Gesù ha con Dio, al punto di essere fin dall’inizio della sua vita terrena nella stessa «condizione di Dio». Egli è dunque il nuovo Adamo, il quale dà origine a un’umanità

nuova, liberata dalla sopraffazione e dalla violenza. Ma ciò appare chiaramente solo alla

fine di un lungo itinerario umano in cui egli ha manifestato il suo progetto come esigenza

di fedeltà radicale a Dio e di solidarietà attiva con l’umanità. In altre parole proprio perché egli, sulla linea del cammino percorso dal Servo di JHWH, ha rinunziato a

interpretare il suo rapporto con Dio in termini di potere e di gloria, appare al credente

come colui che, fin dall’inizio, ha dato origine a un cammino di liberazione. Il suo abbassamento significa quindi non la perdita ma la piena affermazione del suo essere

nella «condizione di Dio», nella quale coinvolge coloro che credono in lui, dando così

inizio a una nuova umanità. Proprio in forza di questo abbassamento riceve già fin d’ora

l’omaggio escatologico di tutto il cosmo e gli sono riconosciuti i titoli cristologici di Signore, Cristo, Servo e nuovo Adamo.

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SECONDA LETTURA

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (2,6-11)

Cristo Gesù,

pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

l’essere come Dio,

ma svuotò se stesso

assumendo una condizione di servo,

diventando simile agli uomini.

Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù

ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra,

e ogni lingua proclami:

«Gesù Cristo è Signore!»,

a gloria di Dio Padre.

Parola di Dio.

CANTO AL VANGELO (Cf. Gv 11,25.26)

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

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Mt 26,14-27.66

La passione del Signore

Il Vangelo della Domenica delle Palme, nei tre anni liturgici, è sempre caratterizzato

dalla narrazione della passione di Gesù secondo i vari Sinottici; essi, con una rappresentazione dolorosa e drammatica sottolineano, che non solo la Risurrezione del

Figlio, ma anche la passione in ogni sua parte, è componente del piano salvifico di Dio.

Non si tratta, quindi, di una semplice esposizione, più o meno rigorosa, di un avvenimento storico, ma di una interpretazione o, meglio, dell’annuncio salvifico

dell’evento della Croce; l’interpretazione non è però uniforme nei tre Evangelisti, che

nella loro descrizione amano evidenziare delle proprie peculiarità. Secondo Matteo, ad

esempio, Gesù Cristo non fu assolutamente travolto dagli eventi, ma per essere fedele al suo Signore, rinunciò di sua volontà ad ogni potere divino, non oppose violenza alla

violenza (chiedere dodici legioni di angeli), e scelse la via del dolore o, meglio, delle

Scritture riconoscendo in questo il volere del Padre (è questo il senso delle numerose citazioni bibliche nel vangelo di Matteo). Solo dopo aver percorso il cammino dell’umiltà

egli apparirà sulle nubi del cielo dotato di ogni potere in cielo e sulla terra.

Quello che nella sua lettera ai Filippesi (seconda lettura) l’Apostolo delle genti illustra con immagini e termini molto significativi, Matteo lo descrive in un racconto fremente

di commozione e di sofferta partecipazione, rievocata nei suoi momenti più drammatici,

che non sono meno espressivi della riflessione teologica di Paolo; l’Evangelista non

fornisce una nuda cronaca dei fatti, ma un annuncio di fede che aiuta a penetrare nel grande mistero della passione di Cristo, dominato dalla “libertà” con cui egli affronta la

morte. Leggendo attentamente la passione secondo Matteo, si rimane colpiti di come

tra Gesù, che con un libero atto di volontà entra nell’ombra del Getsemani e accetta l’annientamento della Croce, e tutti gli altri personaggi ci sia una netta spaccatura, un

muro di assoluta incomprensione. Giuda, ad esempio, che da tempo aveva deciso di

“venderlo”, solo alla fine comprende veramente il significato del suo tradimento; gli

Apostoli, che avevano assistito a tanti fatti prodigiosi, non riescono a vincere il sonno, uno strano sonno quasi innaturale, come se su di loro fosse calata l’ombra di un mistero

immenso impossibile da reggere; Pietro, che nonostante il suo amore dichiarato tante

volte, rinnega il suo Maestro per ben tre volte, e solo al canto del gallo si rende conto del suo peccato, si pente e piange; e infine la folla, che tante volte avevano osannato il

figlio di Davide, ora grida il “crucìfige”.

Gesù è veramente solo, tutti lo hanno abbandonato, anche coloro che fino a quel momento erano rimasti con lui; perfino il Padre, che sempre lo aveva assistito con la

sua presenza, ora sembra lontano. Con la sua passione Gesù svela l’uomo all’uomo, la

sua solitudine è il dramma dell’intera umanità, l’ultima sua rivelazione della condizione

umana. Leggere o ascoltare la passione è penetrare totalmente in questa verità umana; una verità che costringe a vedere fino in fondo la meschinità dell’uomo e le sue

debolezze. È possibile allora comprendere cos’è il tradimento e cos’è l’amicizia, cos’è il

potere e cos’è la paura, cos’è la menzogna e cos’è il pentimento. Nell’impersonare fino allo spasimo le sofferenze del Servo, dal fondo della sua abiezione Gesù avverte

l’estrema solitudine (Dio mio perché mi hai abbandonato?). È l’amore per l’uomo che lo

conduce a questo apparente cedimento, perché chi più ama più sente la falsità di ogni sia pur minima mancanza di verità. Gesù, chiuso nella sua solitudine tace, non risponde

nemmeno a chi lo interroga, soprattutto al “potere”, causa di ogni solitudine umana;

sulla passione di Gesù incombe la coalizione suprema dei potenti: Caifa, Pilato ed Erode

la personificazione della menzogna nel mondo, ed egli dinanzi a questo potere, con il suo silenzio esprime la più grande delle condanne.

Essere condannato alla pena capitale è la massima violenza che si possa fare a un uomo,

non esiste una condanna a morte più o meno dignitosa o infamante. Oltre duemila anni di cristianesimo hanno insegnato a rispettare la vita, ma ai tempi di Gesù essa era priva

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di valore e spesso paragonata a quella degli animali; è quindi difficile capire oggi il vero

significato della morte in croce, sia per il condannato, sia per il suo significato sociale.

La croce era la sofferenza destinata agli schiavi, alle persone prive di ogni diritto, un supplizio che portava a una morte lenta, atroce, disumana, e Gesù è morto di questa

morte. Lui che tante volte aveva lottato con il “signore delle tenebre” e sempre aveva

vinto, ora sembra soccombere al “male” alleato con il “potere” degli uomini; ora, sulla Croce, egli rappresenta la vittima di ogni sopruso. Ma proprio nel silenzio della morte,

nel momento più doloroso, un centurione romano, un barbaro, pronuncia la grande

verità (Veramente costui era Figlio di Dio!). Una stupenda confessione di fede a Gesù

crocifisso detta da un pagano, una affermazione senza possibilità di equivoco, senza rischio di inganno, perché solo un Dio fatto uomo, un uomo abbandonato da tutti che

non possiede più nulla, che è nudo, che ha le mani vuote e offre solamente le braccia

aperte a chi vuole accostarsi a lui, poteva morire così. “Braccia spalancate per abbracciare ogni dolore, per raggiungere ogni regione di solitudine e di morte” come

dice san Cirillo, vescovo di Gerusalemme, uno dei principali rappresentanti

dell’ortodossia cattolica. Solo la Croce è la giusta manifestazione dell’onnipotenza di Dio, della grandezza del suo amore, che prende su di sé la morte infamante dello

schiavo, per manifestare ancora una volta il suo “beati gli ultimi, i piccoli, i deboli e

coloro che soffrono per la giustizia nel mio nome”; un Dio che non è geloso della sua

vita divina, ma la sacrifica per i fratelli, e spoglia se stesso fino alla condizione di servo. Sotto la Croce Dio convoca ogni credente per rivelare il suo vero volto, per ascoltare il

suo nome; tutti sono chiamati al silenzio e all’ascolto, a seguire la sua via, perché solo

in lui è possibile scoprire la propria verità più profonda, il perché della propria vita e della propria presenza nella storia dell’umanità. Il corpo senza vita che cala dalla Croce

per essere deposto nel sepolcro, deve insegnare che non può esserci vita senza amore;

se l’uomo non riesce a comprendere il vero significato dell’amore di fronte alla tomba

aperta per accogliere le spoglie divine, si perderà per sempre nel buio del proprio orgoglio e del proprio egoismo.

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PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

SECONDO MATTEO

(26,14 - 27,66)

Indicazioni per la lettura dialogata:

= Gesù; C = Cronista; A = Discepoli e amici, Folla, Altri personaggi

Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?

C In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai

capi dei sacerdoti e disse: A «Quanto volete darmi perché io ve lo

consegni?». C E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel

momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù.

Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?

Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli

dissero: A «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa

mangiare la Pasqua?». C Ed egli rispose: «Andate in città da un

tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua

da te con i miei discepoli”». C I discepoli fecero come aveva loro

ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Uno di voi mi tradirà

Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano,

disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». C Ed essi,

profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: A

«Sono forse io, Signore?». C Ed egli rispose: «Colui che ha messo

con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo

se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il

Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai

nato!». C Giuda, il traditore, disse: A «Rabbì, sono forse io?». C Gli

rispose: «Tu l’hai detto».

Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue

C Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione,

lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete,

mangiate: questo è il mio corpo». C Poi prese il calice, rese grazie e

lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio

sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei

peccati. Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della

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vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre

mio». C Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge

Allora Gesù disse loro: «Questa notte per tutti voi sarò motivo di

scandalo. Sta scritto infatti: “Percuoterò il pastore e saranno disperse

le pecore del gregge”. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in

Galilea».

C Pietro gli disse: A «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi

scandalizzerò mai». C Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa

notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». C Pietro

gli rispose: A «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò».

C Lo stesso dissero tutti i discepoli.

Cominciò a provare tristezza e angoscia

Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse

ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». C E, presi

con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e

angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte;

restate qui e vegliate con me». C Andò un poco più avanti, cadde

faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi

via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».

C Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro:

«Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate

e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la

carne è debole». C Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo:

«Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo

beva, si compia la tua volontà». C Poi venne e li trovò di nuovo

addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si

allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse

parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e

riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato

in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce

è vicino».

Misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono

C Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e

con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei

sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro un

segno, dicendo: A «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». C Subito

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si avvicinò a Gesù e disse: A «Salve, Rabbì!». C E lo baciò. E Gesù

gli disse: «Amico, per questo sei qui!». C Allora si fecero avanti,

misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di

quelli che erano con Gesù impugnò la spada, la estrasse e colpì il

servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli

disse: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che

prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa

pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più

di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le

Scritture, secondo le quali così deve avvenire?». C In quello stesso

momento Gesù disse alla folla: «Come se fossi un ladro siete venuti

a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a

insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto

perché si compissero le Scritture dei profeti». C Allora tutti i discepoli

lo abbandonarono e fuggirono.

Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza

Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo

sacerdote Caifa, presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani.

Pietro intanto lo aveva seguito, da lontano, fino al palazzo del sommo

sacerdote; entrò e stava seduto fra i servi, per vedere come sarebbe

andata a finire.

I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa

testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la

trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni.

Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: A «Costui ha

dichiarato: “Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre

giorni”». C Il sommo sacerdote si alzò e gli disse: A «Non rispondi

nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». C Ma Gesù

taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: A «Ti scongiuro, per il

Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio». C Gli rispose

Gesù: «Tu l’hai detto; anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio

dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del

cielo».

C Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: A «Ha

bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora

avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». C E quelli risposero: A

«È reo di morte!». C Allora gli sputarono in faccia e lo percossero;

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altri lo schiaffeggiarono, dicendo: A «Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi

è che ti ha colpito?».

Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte

C Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane

serva gli si avvicinò e disse: A «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». C

Ma egli negò davanti a tutti dicendo: A «Non capisco che cosa dici».

C Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai

presenti: A «Costui era con Gesù, il Nazareno». C Ma egli negò di

nuovo, giurando: A «Non conosco quell’uomo!». C Dopo un poco, i

presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: A «È vero, anche tu sei

uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce». C Allora egli cominciò a

imprecare e a giurare: A «Non conosco quell’uomo!». C E subito un

gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto:

«Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori,

pianse amaramente.

Consegnarono Gesù al governatore Pilato

Venuto il mattino, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo

tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. Poi lo misero in

catene, lo condussero via e lo consegnarono al governatore Pilato.

Allora Giuda – colui che lo tradì –, vedendo che Gesù era stato

condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai

capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: A «Ho peccato, perché ho

tradito sangue innocente». C Ma quelli dissero: A «A noi che importa?

Pensaci tu!». C Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio,

si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le

monete, dissero: A «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono

prezzo di sangue». C Tenuto consiglio, comprarono con esse il

“Campo del vasaio” per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo

fu chiamato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì

quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: «E presero

trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato

dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva

ordinato il Signore».

Sei tu il re dei Giudei?

[ Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore lo

interrogò dicendo: A «Sei tu il re dei Giudei?». C Gesù rispose: «Tu

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lo dici». C E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano,

non rispose nulla.

Allora Pilato gli disse: A «Non senti quante testimonianze portano

contro di te?». C Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il

governatore rimase assai stupito. A ogni festa, il governatore era

solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In

quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba.

Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: A «Chi volete che

io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». C

Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: A «Non

avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata

molto turbata per causa sua». C Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani

persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il

governatore domandò loro: A «Di questi due, chi volete che io

rimetta in libertà per voi?». C Quelli risposero: A «Barabba!». C

Chiese loro Pilato: A «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?».

C Tutti risposero: A «Sia crocifisso!». C Ed egli disse: A «Ma che male

ha fatto?». C Essi allora gridavano più forte: A «Sia crocifisso!».

C Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava,

prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: A «Non

sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». C E tutto il

popolo rispose: A «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». C

Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare

Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.

Salve, re dei Giudei!

Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli

radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero

indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine,

gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi,

inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: A «Salve, re dei

Giudei!». C Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo

percuotevano sul capo. Dopo averlo deriso, lo spogliarono del

mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per

crocifiggerlo.

Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni

Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone,

e lo costrinsero a portare la sua croce. Giunti al luogo detto Gòlgota,

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che significa «Luogo del cranio», gli diedero da bere vino mescolato

con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. Dopo averlo

crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Poi, seduti, gli

facevano la guardia. Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto

della sua condanna: «Costui è Gesù, il re dei Giudei».

Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a

sinistra.

Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!

Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo:

A «Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te

stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!». C Così anche i

capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui

dicevano: A «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re

d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in

Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio

di Dio”!». C Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso

modo.

Elì, Elì, lemà sabactàni?

A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del

pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà

sabactàni?», C che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai

abbandonato?». C Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: A

«Costui chiama Elia». C E subito uno di loro corse a prendere una

spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere.

Gli altri dicevano: A «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». C

Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.

(Qui si genuflette e si fa una breve pausa)

Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la

terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi

di santi, che erano morti, risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo

la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.

Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla

vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande

timore e dicevano: A «Davvero costui era Figlio di Dio!». ]

C Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse

avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra queste c’erano

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Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre

dei figli di Zebedèo.

Giuseppe prese il corpo di Gesù e lo depose nel suo sepolcro nuovo

Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatèa, chiamato

Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si

presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato allora ordinò che gli

fosse consegnato. Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo

pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare

nella roccia; rotolata poi una grande pietra all’entrata del sepolcro,

se ne andò. Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Màgdala

e l’altra Maria.

Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete

Il giorno seguente, quello dopo la Parascève, si riunirono presso

Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei, dicendo: A «Signore, ci siamo

ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: “Dopo tre giorni

risorgerò”. Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo

giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al

popolo: “È risorto dai morti”. Così quest’ultima impostura sarebbe

peggiore della prima!». C Pilato disse loro: A «Avete le guardie:

andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete». C Essi

andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi

lasciarono le guardie.