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75 Come spesso capita tra gli scrittori siciliani quando raccontano della Passione e dei suoi fasti, grandi sono le tensioni esistenziali, le esitazioni che attraversano i loro scritti. Si tratta di sfasature etiche che affiorano da scrit- ture inusuali della Settimana santa che qui proviamo a considerare sul piano di una riflessione antropologica del resto attenta, sin dagli inizi, alla dimensione festiva e, forse eccessivamente, alle sue appariscenze rituali e spettacolari 1 . Di sicuro meno attenta alle rappresenta- zioni letterarie, alle interpretazioni, alle diverse assun- zioni retoriche, poetiche, morali che ne hanno fatto importanti intellettuali esterni alla disciplina: in questo caso narratori siciliani, prevalentemente di estrazione borghese, dall’Ottocento ai nostri giorni operanti fuori o ai margini della crescita accademica di un’antropolo- gia spesso pronta a dequalificarne le vedute come “divulgative”, “romanzate”, “stereotipate”, insomma da “non addetti ai lavori”. Nel radicale movimento auto- critico che, specie negli ultimi decenni, ha investito l’og- getto e lo studio antropologico 2 , richiamare le poetiche dei “non addetti ai lavori” è più che mai proficuo e dove- roso e restituisce l’umiltà conoscitiva indispensabile alla comprensione di quella polifonia di voci che contrad- distingue il progetto primo dell’antropologia. Progetto che si compie attraverso estraniamenti e partecipazioni, restringimenti e allargamenti di campo, osservazioni e ascolti; comunque fondato sullo stupore rispetto a ciò che sembra ovvio ma che ovvio affatto non è. Stupore critico che oggi dovremmo a maggior ragione coltivare nei confronti di asserzioni che, nel generale revisioni- smo teorico e metodologico della disciplina, tendono a imporsi quali più alte e sofisticate certezze ‘moderniste’ che invece, più di altre, meriterebbero di essere trasci- nate nel fondo vivo di una reale auto-critica degli “addetti ai lavori” e delle loro pratiche antropologiche. Disporre degli usi letterari della festa in Sicilia vuol dire, allora, ragionare sulla posizione assunta da scrit- tori e letterati rispetto a un ‘campo folklorico’ che appare più evanescente, sconfinante rispetto a quello concet- tualizzato dalla tradizione demologica italiana; connesso a dimensioni sociali, politiche, filosofiche diverse e più articolate di quelle relegate alle sole ‘tradizioni popo- lari’ o sinora designate dall’antropologia. La Ssettimana santa e il dispositivo festivo in genere non vi appaiono, cioè, come prerogative ristrette alla ‘subalternità’, alla ‘debolezza’ della ‘cultura folklorica’, quali meccanismi rassicuranti di autorappresentazione e autotutela mistica delle relazioni e del potere, così come messi in luce dal pensiero antropologico italiano. Al contrario, la narra- tiva esaminata rivelerà come i giorni della Passione, I GIORNI INVASI FRANCESCO LANZA E LA PASSIONE NELLA SICILIA LETTERARIA Mauro Geraci UNIVERSIDAD DE MESSINA -ITALIA 1 In una puntuale rivisitazione critica degli orientamenti cono- scitivi con cui, soprattutto dal secondo dopoguerra a oggi, l’antro- pologia italiana ha osservato la dimensione festiva, Francesco Faeta ha notato, in particolare, “la debole e rapsodica pratica etnografica che è, di solito, dietro le opere italiane sull’argomento festivo: in genere i rilievi sono relativi al giorno o ai giorni della ricorrenza, e non si estendono alle molteplici declinazioni degli apparati mitolo- gico-rituali, al sistema festivo nel suo complesso e alle sue intercon- nessioni, alle stratificazioni dei dispositivi simbolici che operano sulla scena, alle forze sociali che si confrontano, e così via. Certe volte le communitates rituali o festive (per ricordareVictorTurner) sono viste esclusivamente nel momento parossistico della loro azione e l’indagine sull’universo festivo si risolve in un’indagine sulla forma festiva, quale appare nell’attimo epifanico dell’incontro con lo stu- dioso”. Faeta, Questioni italiane, pp. 153-154. 2 Per una visione complessiva dei tumultuosi dibattiti che oggi hanno portato al profondo, repentino ripensamento critico degli sta- tuti teoretici dell’antropologia si rinvia al testo introduttivo L’antro- pologia culturale oggi di Robert Borofsky.

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    Come spesso capita tra gli scrittori siciliani quandoraccontano della Passione e dei suoi fasti, grandi sono letensioni esistenziali, le esitazioni che attraversano i loroscritti. Si tratta di sfasature etiche che affiorano da scrit-ture inusuali della Settimana santa che qui proviamo aconsiderare sul piano di una riflessione antropologicadel resto attenta, sin dagli inizi, alla dimensione festivae, forse eccessivamente, alle sue appariscenze rituali espettacolari1. Di sicuro meno attenta alle rappresenta-zioni letterarie, alle interpretazioni, alle diverse assun-zioni retoriche, poetiche, morali che ne hanno fattoimportanti intellettuali esterni alla disciplina: in questocaso narratori siciliani, prevalentemente di estrazioneborghese, dall’Ottocento ai nostri giorni operanti fuorio ai margini della crescita accademica di un’antropolo-gia spesso pronta a dequalificarne le vedute come“divulgative”, “romanzate”, “stereotipate”, insomma da“non addetti ai lavori”. Nel radicale movimento auto-critico che, specie negli ultimi decenni, ha investito l’og-getto e lo studio antropologico2, richiamare le poetichedei “non addetti ai lavori” è più che mai proficuo e dove-roso e restituisce l’umiltà conoscitiva indispensabile allacomprensione di quella polifonia di voci che contrad-distingue il progetto primo dell’antropologia. Progettoche si compie attraverso estraniamenti e partecipazioni,

    restringimenti e allargamenti di campo, osservazioni eascolti; comunque fondato sullo stupore rispetto a ciòche sembra ovvio ma che ovvio affatto non è. Stuporecritico che oggi dovremmo a maggior ragione coltivarenei confronti di asserzioni che, nel generale revisioni-smo teorico e metodologico della disciplina, tendono aimporsi quali più alte e sofisticate certezze ‘moderniste’che invece, più di altre, meriterebbero di essere trasci-nate nel fondo vivo di una reale auto-critica degli“addetti ai lavori” e delle loro pratiche antropologiche.

    Disporre degli usi letterari della festa in Sicilia vuoldire, allora, ragionare sulla posizione assunta da scrit-tori e letterati rispetto a un ‘campo folklorico’ che apparepiù evanescente, sconfinante rispetto a quello concet-tualizzato dalla tradizione demologica italiana; connessoa dimensioni sociali, politiche, filosofiche diverse e piùarticolate di quelle relegate alle sole ‘tradizioni popo-lari’ o sinora designate dall’antropologia. La Ssettimanasanta e il dispositivo festivo in genere non vi appaiono,cioè, come prerogative ristrette alla ‘subalternità’, alla‘debolezza’ della ‘cultura folklorica’, quali meccanismirassicuranti di autorappresentazione e autotutela misticadelle relazioni e del potere, così come messi in luce dalpensiero antropologico italiano. Al contrario, la narra-tiva esaminata rivelerà come i giorni della Passione,

    I GIORNI INVASIFRANCESCO LANZA E LA PASSIONE

    NELLA SICILIA LETTERARIAMauro Geraci

    UNIVERSIDAD DE MESSINA - ITALIA

    1 In una puntuale rivisitazione critica degli orientamenti cono-scitivi con cui, soprattutto dal secondo dopoguerra a oggi, l’antro-pologia italiana ha osservato la dimensione festiva, Francesco Faetaha notato, in particolare, “la debole e rapsodica pratica etnograficache è, di solito, dietro le opere italiane sull’argomento festivo: ingenere i rilievi sono relativi al giorno o ai giorni della ricorrenza, enon si estendono alle molteplici declinazioni degli apparati mitolo-gico-rituali, al sistema festivo nel suo complesso e alle sue intercon-nessioni, alle stratificazioni dei dispositivi simbolici che operanosulla scena, alle forze sociali che si confrontano, e così via. Certe

    volte le communitates rituali o festive (per ricordareVictorTurner) sonoviste esclusivamente nel momento parossistico della loro azione el’indagine sull’universo festivo si risolve in un’indagine sulla formafestiva, quale appare nell’attimo epifanico dell’incontro con lo stu-dioso”. Faeta, Questioni italiane, pp. 153-154.

    2 Per una visione complessiva dei tumultuosi dibattiti che oggihanno portato al profondo, repentino ripensamento critico degli sta-tuti teoretici dell’antropologia si rinvia al testo introduttivo L’antro-pologia culturale oggi di Robert Borofsky.

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    quando evocati dagli scrittori siciliani, investano una piùampia scena sociale come eccezionalmente soffocanti econtraddittori: giorni tanto invasi e invasivi, coi loro fasti,le loro pretese di salvezza, quanto distanti da una vitache continua a scorrere impassibile nei suoi conflittiquotidiani, nelle miserie, nelle mortali tensioni che, anzi,la festa serve a esaltare, per contrasto, sul piano dellenarratologie. Invasività e, al tempo stesso, sordità deglieventi festivi rispetto ai drammi della vita sociale che inarratori siciliani sperimentano spesso fuori dalle lette-rature, nelle loro tormentate vicissituini biografiche. Saràsoprattutto Francesco Lanza a inscenare, in alcuni suoiracconti, la Passione, quasi come segno premonitore del-l’inutile invasione della festa, della distanza incolmabiletra la Morte, il Capodanno e l’Epifania che, come sco-priremo infine, lo scrittore proverà sulla sua pelle nel-l’ultima settimana (non santa) della sua brevissima vita.

    Giorno di festa, per iniziare, è un’operetta teatralescritta tra il 1921 e il ‘23 da Francesco Lanza in unperiodo di convalescenza trascorso a Cafèci, nelle cam-pagne di Valguarnera (Enna), dov’era nato nel 1897 edove, vedremo infine, morirà proprio nel giorno del-l’Epifania 1933 a soli trentacinque anni, in circostanzeche restituiscono nella vita l’universo tragico che lo scrit-tore, nella sua narrativa, attribuisce alla dimensionefestiva. Pubblicato nel ‘24 nella prestigiosa rivista lette-raria Galleria e rappresentato per la prima volta nel ‘27 alTeatro degli Indipendenti di Roma con la regia di AntonGiulio Bragaglia, Giorno di festa non mette in scena unavicenda compiuta, con inizio e fine riconoscibili dalpunto di vista morale, ma un dialogo continuamenteinterrotto che alla fine risulta ininterrotto. Protagonistisono tre personaggi che a stento riescono a parlarsi, adascoltarsi, a capirsi interrotti come sono da invasivi coridi bambini, verginelle, sacerdoti, insomma dai frastuonirituali del Corpus Domini: Anna, “venere rustica” e pro-stituta del paese, Santa, madre di una famiglia indigente,Bastiano, cliente abituale di Anna con la quale, forse,condivide senza però poterlo confessare una relazioneamorosa. A intromettersi tra le vicissitudini di Anna,Santa e Bastiano è il passaggio del Signore, apice di ungiorno che Lanza sin dall’inizio presenta come letteral-mente invaso dall’infuocato dominio della festa, con lesue retoriche, i suoi simboli:

    “Il Signore deve passare per la strada, e tutti gli pre-parano grandi feste: luminarie, altari per la benedi-zione, mortaretti, fuochi di bengale, fiori e canti. Lefanciulle vestite da verginelle e da angioletti con leali di cartone dorate vanno e vengono per la stradacantando e vociando, con canestri di fiori da but-tare al passaggio del Signore Sacramentato: petali dirose, gigli, ginestre, violaciocche, margherite. Tuttal’aria ne odora. Ogni donna butta nello scaldino

    acceso per l’occasione grossi chicchi d’incenso, e leviuzze sordide se ne profumano. Come il Signorepassa, ogni scaldino servirà da turibolo.A tutte le porte, a tutte le finestre, a tutti i balconisono accesi lumi a petrolio e a acetilene, lucerne, lam-pioncini colorati. I più poveri riempono d’olio grossigusci di lumaconi e con lucignoli di stoppa li met-tono in fitte righe sui davanzali; o inzuppano nelpetrolio batuffoli di cotone e li accendono al bengalaa molti colori: verde, rosso, giallo smorto, biancoargentato. Al passaggio del Signore ogni strada saràun paradiso splendidamente variopinto. Risa, canti,grida; e un gran da fare di donne e uomini agli altariacconciati con grande sfarzo; ognuno più ricco emeraviglioso dell’altro, ché ogni altare vuole averenella strada il primato, ad onore di chi lo para” 3.

    Nel totale frastuono di questo “paradiso splendi-damente variopinto”, anch’esse intente a preparare unaltare per il Signore, la prostituta Anna e la povera Santalasciano appena trapelare la loro emarginazione socialeattraverso dialoghi fugaci, interrotti continuamente dabambine eccitate dall’euforia festiva e che entrano in casadi Anna per ricevere pane, dolcini, caramelle ed essereaiutate a vestirsi da verginelle, a raccogliere fiori da get-tare sulla statua del Signore che passerà su quella stessastrada dove, sott’occhi, Anna vede sfilare i suoi clienti,insospettabilmente a braccio delle loro mogli, i bambiniper mano, anch’essi agghindati come statue processio-nali. Sgridate a forza da una vicina, le bambine vengonopresto richiamate dalla casa di Anna affinché non si“insudicino” alla sola vista di quella donnaccia e nonmangino quel “pane” su cui la vicina “sputa” perché nonè “grazia di Dio”. Mentre le grida della lite soccom-bono coperte da quelle della festa che al contrario inneg-giano al “vivo pan del Ciel gran Sacramento”, Bastianocompare in casa di Anna, deciso, proprio quel giorno, acongiungersi di nuovo con lei. La festa, tuttavia, prendeancora il sopravvento e assume, scrive Lanza,

    “un aspetto fantastico. Da un brusio lontano emer-gono a tratti voci d’argento lodanti il Signore, scop-pio di canti liturgici, vocio di bambini, cantilenaredi donne, rullare di tamburi. E’ il Signore che si avvi-cina. Un acuto profumo di fiori riempe la scena.[…]Vengono tracangiando subito, bagliori di fuo-chi colorati. In un silenzio improvviso, odorato d’in-censo, sparano lungamente mortaretti, tuona unrumore di banda. […] Ora tutta la strada è unameraviglia di luci e di colori e di canti che aumen-tano, si avvicinano, s’incorrono, s’accalcano. Vocio,grida, invocazioni. Ciò che avviene nella stradainvade immediatamente la scena” 4.

    Scena “invasa” dalla festa in cui, usciti dall’alcovasenza una parola sull’eventuale decorso amoroso del lororapporto al passaggio del Signore, Anna e Bastiano sva-

    3 LANZA, “Giorno di festa”, in Teatro edito e inedito, pp. 55-56. 4LANZA, F., “Giorno di festa”, in Teatro edito e inedito, pp. 62-63.

  • niscono tra “i cori, le grida, i canti, le invocazioni ches’incrociano, si confondono, s’abbracciano, si frantu-mano, in odorosi pulviscoli d’oro”5.

    In Giorno di festa la sfera cerimoniale è ritratta comequalcosa che mentre l’invade e spezza, svanisce poi come“pulviscolo d’oro” lasciando inalterata la conflittualitàquotidiana. Di essa Lanza segnala l’ineluttabile scolla-mento da una vita sociale che, nei suoi contrasti, nellesue tensioni oppositive rimane uguale a se stessa, nonmodificabile neppure per virtù dello Spirito Santo. Ungiorno invaso che ricorda Natale in casa Cupiello diEduardo De Filippo, dove la magica armonia dei presepianche se le ammanta non placa, anzi alimenta, le guerreche perdurano nelle case basse di Napoli, in un giornoche smentisce fortemente l’accezione della festa comequadro metastorico, protetto, efficace, ordinato e rassi-curante spesso avanzata dalla demologia italiana, primae dopo Ernesto de Martino6.Tra Anna, Santa, Bastianoe la schiera delle maschere festive s’instaura, invece, un’in-colmabile cortina tutt’altro che protetta, metastorica erassicurante; iato su cui la festa non riesce a riversare ilsuo salvifico contenuto lasciando inalterata ognidistanza, ogni contraddizione, ogni non detto, relazioniininterrottamente interrotte.

    Giorno di festa, però, non è la sola opera in cui Lanzainsiste sulle irrisolte sfasature tra la festa e il quotidiano.Si pensi alle più note Storie di Nino Scardino, mezzadro deiLanza, comparse nel 1923 e poi, tra il ‘26 e il ‘27, su sug-gerimento di Ardengo Soffici come mimi siciliani ne La fieraletteraria. Subito apprezzati da Giuseppe Ungaretti e Anto-nio Baldini e raccolti in volume nel ‘28, iMimi siciliani sonobrevi bozzetti in cui, con acutissima ironia, Lanza riportadialoghi, battute, aneddoti, atteggiamenti, caratterimorali, situazioni, istanti di vita paesana che finisconoper restituirci un’immagine del folklore locale desueta edivergente da quella ‘culturalista’ avanzata dalla demolo-gia. In essi si veda, scrive in particolare Italo Calvino,

    “la serie delle storie sulla sacra rappresentazionepaesana, basate sulle reazioni fisiologiche troppoumane del villano posto sulla Croce a far da Cristo.Qui l’opposizione sacro-profano (lo scandalo) sucui si basa la comicità della storiella, può esser dettadi secondo grado rispetto all’opposizione sacro-pro-fano (lo scandalo) in cui già consiste l’efficacia poe-tica della Passione secondo il Vangelo: il Vangeloracconta una storia di strumenti di tortura, soldati,folla urlante, ladroni, malefemmine e la riferisce aun sognificato sacro; la storiella paesana compieun’operazione simmetrica (e in fondo ridondante e

    tautologica) facendo insorgere i segni profani con-tro il sistema dei simboli sacri”7.

    Nella loro brevità di bozzetti comici solo apparen-temente idealistici ma, come vedremo, sostenuti dall’at-tenzione etnografica del loro autore, i Mimi siciliani ciparlano, ad esempio, di un ragazzo che fece carte falsepur di recitare il ruolo di Cristo sulla croce e “con aifianchi una fascia di carta velina per nascondergli le ver-gogne”, nella sacra rappresentazione del Venerdì santoche si svolge ogni anno a Santa CaterinaVillermosa (Cal-tanissetta). E ciò non per assolvere chissà quale scopopenitenziale, devozionale, rituale ma per rivelare le suegrandi qualità di attore a Mariagrazia, ragazza compae-sana di cui s’era invaghito e che recitava il ruolo di Mad-dalena ai suoi piedi, sotto la croce, “con le trecce discioltee il petto aperto che c’era l’abbondanza, e se lo stracciavaper il dolore”. Alla fine “non potendone più, per pauradi guasto, le gridò di lassù: –Mariagrà nasconditi lemamme, se no la carta velina si straccia!”8 Ne Il vino a tresoldi Lanza svela poi i retroscena della parata del Cristorisorto allestita ogni anno, in coda alla messa del Sabatosanto, nella chiesa tardobarocca di Assoro, vicino Enna.

    “Il sabato santo, per maggior pregio, gli assaresifecero venire il paratore di Leonforte, ch’era famoso.Quello salì sull’altare col fiasco appeso alla cintura,e dietro la tenda acconciava il Cristo risorto; gli misenella dritta la canna con la pezza, la raggiera d’oronelle reni, e tutt’intorno le candele accese, ch’era unbel vedere.

    ANTROPOLOGÍAI GIORNI INVASI. FRANCESCO LANZA E LA PASSIONE NELLA SICILIA LETTERARIA

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    Valguarnera (Enna).Casa natale dello

    scrittore FrancescoLanza (disegno di Marcella

    Tuttobene).

    5 Ibidem, p. 64.6Oltre alle descrizioni della festa prodotte dai folkloristi italiani

    tra Otto e Novecento, ci riferiamo, in particolare, a studi antropo-logici a noi più vicini quali quelli di PaoloToschi, Ernesto de Mar-tino, Vittorio Lanternari, Annabella Rossi, Roberto De Simone,Clara Gallini, Antonino Buttitta, Alfonso Di Nola, Luigi M. Lom-bardi Satriani che hanno sottolineato, nell’analisi di specifici ambiti

    cerimoniali, i caratteri fondativi, rigeneranti, rassicuranti, terapeu-tici, catartici, salvifici connessi a cicli e teatri festivi quali quelli delCapodanno, dell’Epifania, del Carnevale, della Settimana santa, delMaggio, del Natale, dei santi patroni.

    7 CALVINO, I., “Introduzione” a LANZA, F.,Mimi siciliani, p. XIV.8 LANZA, F., “Il Cristo di Santa Caterina”, ibidem, p. 105.

  • Nel mentre venutogli da bere, si tolse il fiasco e selo succiò tutto; e non avendo ove metterlo, percomodo lo appese alle tre dita aperte che il Cristolevava in alto alla manca; e continuò il fatto suosenza pensarci più.Intanto nella chiesa il brusio era grande, e i preti incappa magna cantavano messa a squarciagola. Arri-vati alla resurrezione, il sagrestano si fece sotto, e gligridò: Spicciatevi, spicciatevi, che il Cristo sta resu-scitando e ho da tirare la tenda.Il leonfortese non se lo fece dire due volte, e scese aprecipizio la scaletta; e come le campane discioltesonavano a gloria, il sagrestano tirò il laccio, eapparve il Cristo trionfante in un nugolo di luci ed’incenso, con la bandiera nella dritta e il fiascoappeso alla manca.–Viva il Cristo!– strillarono tutti, e chi si batteva ilpetto, e chi si teneva le braccia; e vistogli il fisco alletre dita aperte, facevano a coro: - Lo vedete che dice?Che il vino quest’anno ha da andare a tre soldi”9.

    Il tema della precarietà contadina contrapposta aglieccezionali sfarzi della festa torna ne L’acitano, mimodedicato all’abitante di Acireale (Catania), che nel

    “giorno di Santa Venera, con la pentola piena dicarne cotta e di ossicini, andava gridando: –Il para-diso nella caldaia! Il paradiso nella caldaia!Un tale, di dietro, ficcava ogni tanto la mano nellapentola, e trattone un osso se lo spolpava come cosasua.Ma l’acitano lo colse con la mano dentro, e gli sivoltò inviperito: –Santissimo e santissimo, che statefacendo?E quello: –Cercavo l’anca di San Giovanni Battista”10.

    Nell’ottica di una filogenesi storico-letteraria taliesempi richiamano certo lo sfrenato culto delle reliquiee la trasgressione scatologica già attestata –da studiosiquali Henry Irénée Marrou, Michail Bachtin, GiorgioAgamben,Tito Saffioti, Carlo Ginzburg, Cesare Segre–nella poesia trovadorica e in molti cicli epico-cavallere-schi d’epoca medievale, come nelle loro più tarde rivisi-tazioni rinascimentali e romantiche: da Chrétien deTroyes a Ludovico Ariosto, da Miguel de Cervantes airomanzi d’appendice dei siciliani Giusto Lodico e GiuseppeLeggio11 fino a John R.R.Tolkien. Si pensi, ad esempio,

    alle contraddizioni sollevate da Orlando, primo pala-dino di Carlo Magno e della cristianità che già la Chan-son de Roland, intorno al 1060, non esitò a chiamare“Cristo armato”, la cui spada Durlindana custodivaentro la lama un capello della Madonna e nella croce,incastonato tra elsa e spada come arma magica, un pezzodella stessa croce di Cristo. Proprio per questo l’eroe,dalla parte avversa considerato assassino dei mori, sulfinale della Chanson accenna a un pentimento in fin divita non a caso ripreso dal poeta siciliano Ignazio But-titta che, ne A disfatta di paladini, avanza seri dubbi sul fattoche il cosiddetto “Cristo armato”, impositore della pacecristiana, possa essere davvero accolto a braccia apertenel regno dei cieli: “Cu lu sapi vi dumannu / lu misteru di lamorti? / Cu lu sapi s’iddu ncelu / ci grapèru tutti i porti?”12.

    Si pensi, in tal senso, anche all’ignoto autore delpoemetto Audigier –manoscritto del XIII secolo– cheripropone la logica trasgressiva delle antitesi attingen-dola liberamente dal repertorio dei tópoi epici per spro-fondarli in una gigantesca palude di vivaci trovatecomico-scatologiche di bachtiniana memoria. Audigierè, infatti, eroe alla rovescia o, meglio, eroe senza corazzache agisce all’insegna del grottesco e della beffarda auto-critica, non perdendo occasione per deridere se stesso egli stereotipi morali della cavalleria di cui è parte. SeOrlando “nobile ha il corpo e gagliardo e possente, / hail viso chiaro ed il contegno fiero; / dopo cavalca bensaldo sulla sella”, Audigier “il viso pallido, la testa nera,/ grosse le spalle, più grossa la pancia”, e il suo cavallonon è “l’agileVegliandino”ma il macilento, antidestrieroAudigon, sul quale Audigier si avventurerà per vendi-carsi della “brutta, vecchia e schifosa più del demonio”Grinberge, colpevole di aver defecato nel fumier (“leta-maio”) dove si celebrava la sua solenne iniziazione allearmi (adoubement). Clima d’inversione che qui punta asmascherare la rete simbolica su cui s’edificano i poteriregali, feudali e clericali e non esita a contornare di mia-smi escrementizi funzioni religiose, riti, feste e sacra-menti quali il battesimo di Audigier, nato “accanto adun porcile” daTurgibus “signor di Cocuzza” e da Rein-berge “guercia e tignosa” e “dalla bocca bavosa”13. Asimili prospettive, per tornare alla letteratura siciliana,

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    9 LANZA, F., “Il vino a tre soldi”, ibidem, pp. 53-54.10 LANZA, F., “L’acitano”, ibidem, p. 51.11 Si tratta dell’ampio rifacimento romanzesco dei poemi epico-

    cavallereschi del Rinascimento operato, nell’Ottocento, da scrittorisiciliani quali Giusto Lodico e Giuseppe Leggio e che costituironoi principali sostegni narrativi del Teatro dei Pupi. In partiolare, dal1856 al 1860, la Storia dei paladini di Francia di Lodico venne pubbli-cata a dispense settimanali corredate dai disegni di Mattaliano cheriprendono xilografie rinascimentali e barocche. In dodici volumi,l’opera è stata poi ristampata a cura di Felice Cammarata nel 1972,dall’editore Celebes. Al filone del romanzo cavalleresco d’appendiceappartengono poi le numerosissime opere di Leggio di cui un’anto-logia è stata realizzata dal figlio Antonino col titolo L’opera dei pupiattraverso gli scritti di Giuseppe Leggio, Roma, Manzella, 1974.

    12 Traduzione: “Chi conosce vi domando / il mistero dellamorte? / Chi lo sa se in cielo / apriranno lui ogni porta?”. Assiemea La pazzia d’Orlannu, A disfatta di paladini è un episodio inedito di un’in-compiuta Storia dei paladini di Francia, scritta nel 1977 dal poeta Igna-zio Buttitta per la voce del cantastorie sicilianoVito Santangelo. Cfr.Santangelo V., La mia vita di cantastorie. Vicende autobiografiche di Vito San-tangelo curate e introdotte da Mauro Geraci, Brescia, Grafo, 2006.

    13LAZZERINI, L. (a cura di), Audigier, vv. 143-182, 257-258. Inproposito si veda anche il saggio di Mauro Geraci, “Dalla chanson degeste alla ragion degli uomini. L’umanizzazione dell’eroe nella lette-ratura epico-cavalleresca dei cantastorie”, pp. 163-192.

  • possono ricondursi le Novelle saracene di Giuseppe Bona-viri, scrittore nato nel 1924 a Mineo (Catania), che sisvolgono in una Sicilia mitologica da ‘mille e una notte’,in cui le storie di un Gesù saraceno s’intrecciano conquelle del figlio di un nuovo Dio Macone –Giufà,maschera d’una fiabistica popolare rivisitata anche daLeonardo Sciascia 14– e con quelle di Orlando, Rinaldoe di un Re Federico che qui è stupor mundi per un’irreale,nefanda tirannia. In un paese dove il Giovedì santo “siusava mettere in croce, come fosse stato Gesù, un con-tadino saraceno”, ne La zucca la sacra rappresentazionescivola così in un mare di risate laddove viene scelto persbaglio un predicatore girovago che, quel giorno, ospi-tato per carità da un contadino, aveva fatto scorpacciatadi fave, fagioli e zucchine novelle che gli erano stateofferte per pranzo:

    “Lo legarono, con apposita corda di fibre d’agaveunite a cordelle, a una croce fatta d’ulivo. Era costu-manza. Per il giovedì santo. Quello non abituato amangiare cocuzza, pativa, si sentiva storcere lo sto-maco. [...] La popolazione non capiva, gioconda lucedel giorno entrava d’ogni parte in chiesa. Prima ibambini, poi gli uomini, in ultimo le donne –comepunti da mosche ridoline che in sottili voli vanno–sbottarono a ridere. Che risate, che cachinni! Chesuoni in rubini e perle uscivano dalle bocche delledonne! Il monaco impigliato con corda in croce, piùforte si lamentava: ‘Scendetemi, scendetemi! / chétutta la pancia mi sento abbuttare!’”15.

    Ogni spiegazione filologica del grottesco praticatoda Lanza e Bonaviri non si lega, però, alla memoria auto-biografica da cui i narratori siciliani tendono a recupe-rare il discorso su una festa spesso presentata nella suadissociazione dai problemi della vita materiale, dalleconflittualità sociali, politiche, sentimentali che essalascia perennemente irrisolte, inevase, pur sovrapponen-dovisi temporaneamente nei giorni invasi da solennimesse, processioni, paramenti, fuochi, campane, bande.Distanza tra la festa e le contrastate reti sociali del restocentrale nel prototipo dei racconti fin qui esaminati:Cavalleria rusticana di GiovanniVerga.

    Comparsa per la prima volta nel 1880 nella rac-colta Vita dei campi, in cui anche la novella emblematica-mente intitolata Guerra dei santi punta ai rapporti tra festae conflitto, Cavalleria rusticana solo tre anni dopo vennetrasposta per le scene teatrali da Verga stesso e rappre-sentata per la prima volta aTorino nel 1884 con inter-preti del calibro di Eleonora Duse, Flavio Andò, CesareRossi, Tebaldo Checchi. Poi i librettisti Giovanni Tar-gioni-Tozzetti e Guido Menasci ne riadattarono il testoper il celebre dramma musicale di Pietro Mascagni rap-presentato per la prima volta alTeatro Costanzi di Roma

    nel 1890. Al di là delle differenze che contraddistin-guono la novella dalle versioni teatrali, come Giorno difesta, Cavalleria rusticana, secondo quel verismo letterario dicui Verga assieme a Luigi Capuana fu massimo espo-nente, si svolge in un paese contadino della fine del XIXsecolo, nel mattino di Pasqua.Turiddu (diminuitivo dia-lettale di “Salvatore”), tornato dal servizio militare,apprende che Lola, di cui era innamorato, è andata insposa al carrettiere Alfio. Cerca così di vendicarsi con-solandosi con Santuzza ma, dopo averla sedotta, l’ab-bandona. Accecata dalla gelosia e dal dolore, Santuzzaallora si vendica rivelando ad Alfio che Lola gli è infe-dele e che mentre lui gira il mondo a guadagnarsi il panecome carrettiere e a comprar regali per la moglie, que-sta “gli adorna la casa in malo modo”, presa com’è dal-l’amore perTuriddu. All’uscita della chiesa, in pieno ritopasquale,Turiddu invita gli amici al consueto brindisi elì Alfio, rifiutandosi di partecipare, lo provoca in unduello per lui mortale.

    Cavalleria rusticana, che solo un giudizio superficialeoggi considererebbe animata da stereotipie morali, alcontrario, nel suo impianto conoscitivo, è pervasa da un

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    Francesco Lanza,fototessera.

    14Cfr. SCIASCIA, L., “L’arte di Giufà”, in CORRAO, F.M. (a curadi), Giufà, pp. 7-15.

    15 BONAVIRI, G., “La zucca”, in Novelle saracene, p. 61.

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    realismo definito da Verga stesso del “guardare da unacerta distanza” e con ironia a quello stesso apparato ste-reotipico che, proprio perchè posto a distanza critica-mente, finisce per dispiegare sulla scena intuizioniantropologiche sorprendentemente moderne circa ledinamiche festive. Intuizioni che hanno a che fare con gliusi linguistici, retorici, simbolici, relazionali del restosubito colti da una vastissima critica qui neppure rias-sumibile16. Intuizioni, per quanto ci riguarda, chemostrano come gli stereotipi borghesi della Sicilia popo-lare –il tradimento connesso al forzato allontanamentodel servizio militare, la gelosia, l’onore familiare, l’ami-cizia, il sangue, la vendetta, l’omertà, la festa, il duellorusticano– in Verga diventino strumenti ancora unavolta tesi a rappresentare le incolmabili discrepanzelasciate aperte dai giorni invasi dalla Passione e dai suoiriti. Discrepanze subito evidenziate da un sistema diseparazioni spaziali e visive presenti già in un’appositaapertura scenografica:

    “La piazzetta del villaggio, irregolare. In fondo asinistra, il viale alberato che conduce alla chiesuola,e il muro di un orto che chiude la piazzetta; a destrauna viottola, fra due siepi di fichidindia, che si perdenei campi. Al primo piano a destra, la bettola dellaGnà Nunzia, colla frasca appesa all’uscio; un pan-chettino con su delle ova, pane e verdura, in mostra;e dall’altra parte dell’uscio una panca addossata almuro. La bettola fa angolo con una stradicciuola chemette nell’interno del villaggio. All’altra cantonata lacaserma dei carabinieri, a due piani, collo stemmasul portoncino. Più in là, sulla stessa linea, lo stal-latico dello zio Brasi, con un’ampia tettoia davanti.Al primo piano, a sinistra, una terrazza con pergo-lato. Poscia una stradicciuola. Infine la casetta dellazia Filomena”17.

    Tra molteplci separazioni abitative e architettoni-che fatte di siepi, muretti, panche, filari di alberi, tredominano lo spazio scenico verghiano: 1) la chiesa dovenon si mostra mai il rito pasquale che all’interno sisvolge; 2) la piazzetta, punto di confluenza di viali estradine abitate; 3) la caserma dei carabinieri. Nella ver-sione teatraleVerga mantenne esplicitamente la casermacome riferimento a un’arma nazionale pensata come‘piemontese’, cioè ancora distante dall’ordine pubblicocosì com’era gestito nel regno borbonico in vigore solotrent’anni prima e da quello feudale che, proprio nel-l’anno in cui va in scena Cavalleria rusticana, trovava l’uf-ficiale abolizione nel nuovo assetto giuridico dell’Italia

    unita. Distanza che, alla fine del dramma, i due carabi-nieri segnano attraversando di corsa il palcoscenico versoun luogo del delitto che rimane in un fuoricampo dove,s’intuisce, la coppia militare avrà da negoziare con le logi-che omertose dei duellanti. Il luogo del duello e dellamorte come quello della chiesa al cui interno Cristomuore e risorge, pur centrali nell’impianto verista del-l’opera, sulla scena rimangono però sempre separati e maimostrati: il primo richiamato solo alla fine col celebregrido fuoriscena di una donna –“Hanno ammazzatocompare Turiddu!”–; il secondo con una serie di velocientrate e uscite dei personaggi, suoni rituali quali quellidelle campane che ne rimarcano la morale distanza dallavita delle case, dei cortili, delle strade, della piazza. Così,ad esempio, nelle parole di Santuzza quando si confidacon Gnà Nunzia, madre diTuriddu:

    “Non dubitate, in casa non entrerò. Non mi scac-ciate anche dalla porta, gnà Nunzia, se volete farecome il Signore misericordioso, che andate a pre-gare in chiesa. Lasciatemi qui, vi dico! Lasciate cheparli con lui quest’ultima volta, per l’anima deivostri morti!”18

    Così lo Zio Brasi, lo stalliere –“Vedete, io facciocome il campanaro, che chiama la gente in chiesa, ma luise ne sta fuori”– e il dialogo tra Turiddu, Gnà Lola eSantuzza:

    “Gnà Lola. –Mi disse: vado dal maniscalco per baioche gli manca un ferro, e subito ti raggiungo inchiesa. Voi, che state a sentire di qua fuori le fun-zioni di Pasqua, facendo una conversazione?Turiddu. –Comare Santa qui, che stava dicen-domi…Santuzza. –Gli dicevo che oggi è giornata grande; eil Signore, di lassù, vede ogni cosa!Gnà Lola. –E voi che non ci andate in chiesa?Santuzza. –In chiesa ci ha da andare chi ha lacoscienza netta, gnà Lola.Gnà Lola. –Io ringrazio Iddio, e bacio in terra”19.

    Per quanto vi s’intreccino, i segni della festa trovanodifficoltà a interferire fattivamente con le azioni che ipersonaggi compiono sempre in una scena ‘silenziosa’20,cioè che punta a mettere in primo piano il sottile giocodelle allusioni, delle allegorie, delle metafore, delle poli-tiche di cui viene mostrata l’alterità, la separazione daun’invasione festiva che, non a caso, Verga rappresentacontenuta entro le mura di una chiesa che mai s’apre adialogare con l’esterno. Richiami alla chiesa e alle cam-pane pasquali giocati ancora come pretesto daTuridduche abbandona Santuzza per Lola:

    16 Nel ricordare almeno i nomi di Luigi Russo, Gaetano Rago-nese, Adriano Seroni, Gino Raya, Alberto Asor Rosa, Renato Lupe-rini che hanno prodotto fondamentali analisi critico-letterariedell’opera di Verga, rinviamo, per un quadro d’insieme, al lavoro diGiorgio Santangelo, Storia della critica verghiana, Firenze, La Nuova Ita-lia, 1969 (I ed. 1954).

    17 VERGA, G., “Cavalleria rusticana”, in Teatro, p. 9.

    18Ibidem, p. 15.19 Ibidem, pp. 15, 18.20 Per un’analisi antropologica delle articolazioni retoriche e

    simboliche del silenzio nei diversi ambiti poetico-narrativi del fol-klore siciliano si v. di Mauro Geraci, Il silenzio svelato. Rappresentazionidell’assenza nella poesia popolare in Sicilia, Roma, Meltemi, 2002.

  • “Santuzza. –Non mi lasciare,Turiddu! Senti questacampana che suona?Turiddu. –Non voglio essere menato pel naso,intendi?Santuzza: Tu puoi camminarmi coi piedi sulla fac-cia. Ma essa, no!Turiddu. –Finiamola! Me ne vado per troncare que-ste scenate!Santuzza. –Dove corri?Turiddu. –Dove mi pare…Vado a messa.Santuzza. –No, tu vai a far vedere alla gnà Lola chem’hai piantata qui per lei; che di me non t’importa!Turiddu. –Sei pazza!Santuzza. –Non ci andare! Non andare in chiesa afar peccato oggi! Non mi fare quest’altro affronto difaccia a quella donna. […]Turiddu! Per questo Dioche scende nell’ostia consacrata adesso, non milasciare per la gnà Lola!”21.

    In uno studio dell’impianto conoscitivo dell’opera,già avviato da Antonio Gramsci nelle note pagine sugliintellettuali siciliani22, la rappresentazione della Pasquain Cavalleria rusticana è sostanzialmente diversa da quellain uso presso i numerosi folkloristi siciliani come Giu-seppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino, LionardoVigo,Serafino Amabile Guastella, Francesco Pulci attivi neglistessi decenni in cui operò il drammaturgo23. Certo,comprese già Ugo Ojetti, parte del successo dell’operaverghiana fu dovuto “all’esotismo, alla violenta rarità estranezza dei tipi, così che per molto tempo e per moltementi superficiali tutta la Sicilia parve fotografata nelgesto di Turiddu che morde l’orecchio a compareAlfio”24 per invitarlo, silenziosamente e fuori dalle scenefestive, al finale duello. L’insieme delle funzioni pasqualiinVerga tuttavia non sembra essere ripreso solo per quelgusto borghese e aristocratico del “buon selvaggio”, perun esotismo rusticano da assecondare in zuccherate sce-nette di folklore locale; né quale insieme rituale di unaperformance folklorica da inscenare per assecondare curio-sità tipologiche, filologiche, elencative, descrittiviste,sulla falsariga degli studi demologici che riempivano iltardo romanticismo siciliano. L’assunzione della Pasquain Verga non coincide cioè con le coeve descrizioniriportate dai demologi, spesso con fonti di secondamano e, come in questoVenerdì santo ad Aidone (Enna)descritto da Pitrè, concentrate esclusivamente sugliapparati visivi, teatrali della festa:

    “Durante tutta la Settimana di Passione, ogni sera lacattedrale di Aidone è piena di popolo. Le donneda un lato, sono sedute sulle sedie portate da casa;

    gli uomini dall’altra parte all’impiedi; i ragazzi innumero grandiosissimo, stanno arrampicati sullecolonne, si accovacciano nella pila dell’acquasanta eaccompagnano, a suon di nacchere e tabelle, laparola del predicatore, che pochi ascoltano e nes-suno capisce.La sera del Venerdì Santo la predica si converte inrappresentazione. Sull’altare maggiore è innalzatauna grande croce con un crocifisso mobile. Attornofanno la guardia i civili del paese, incappucciati dibianco; da un lato le Marie in carne e ossa piangonoe si disperano. A un certo punto il predicatore sivolge ai civili e grida:–Abbassate quel braccio che condanna i Filistei! Edil braccio è staccato dalla croce e pende lungo iltronco. Quindi il predicatore continua a parlare epoi esclama:–Abbassate l’alto braccio, che condanna i Giudei.Ed il secondo braccio è lasciato pendere lungo ilcorpo.Finalmente il predicatore ordina che tutto il corposia staccato dalla croce e posto in una bara di cristallo.E i civili eseguiscono l’ordine, mentre la banda muni-cipale, suonando la marcia funebre, penetra nellachiesa dalla porta principale e la bara è sollevata daicivili, che la portano in processione”25.

    L’uso retorico della Pasqua in Verga è, cioè, moltodiscordante rispetto a quello spettacolarista in voga negli‘idilli di religiosità popolare’ prodotti dalla demologiasiciliana della quale, per riportarne un altro stralcio,entrò a far parte ilVenerdì santo di Isnello, sulle Mado-nie, vicino Palermo, così descritto nel 1899 da Cristo-foro Grisanti:

    “[…] la processione ha luogo dalla prima ora dinotte in poi, e parte essa dalla chiesa di S. MicheleArcangelo, dove ha sede la pia Congregazione chene ha cura. La processione, circa l’ave, ti vieneannunziata dagli squilli lamentosi di una tromba edai tum-tum cupi e alternati di un tamburo, chet’ispirano malinconia, dalla piazzetta di quellachiesa.[…] Questa processione però non sempre si eseguecolla medesima solennità. Se si conduce l’immaginedi Gesù in croce, steso sur una bara portata da ottoalabardieri vestiti all’antico costume romano, che ilpopolino chiama lapardei, e quella dell’Addolorata,essa, perché semplice e modestissima, viene detta nica(piccola) o della sulità; se poi per mezzo di persone,tutte in costume orientale si rappresentano i princi-pali fatti e i più importanti misteri del NuovoTesta-mento, a partire dall’Annunziazione della Vergine

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    21 Ibidem, pp. 19-20.22 GRAMSCI, A., Passato e presente, pp. 281-282.23 Per una complessiva ricostruzione documentaria del clima

    intellettuale in cui operarono i demologi siciliani di fine Ottocentorinviamo ai lavori di Giuseppe Cocchiara e di Giovanni BattistaBronzini.

    24 OJETTI, U., “Il teatro di GiovanniVerga”, p. 185.25 PITRÈ, G., Cartelli, pasquinate, canti, leggende del popolo siciliano, pp.

    229-230.

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    alla morte di Gesù, allora la processione vien dettagrande o casazza, perché davvero ci è il bisogno dimolta gente, di molte cure e di molte spese per riu-scirvi.[…] E già la chiesa, dond’essa dee partire, è pienadei personaggi, che, ben vestiti e truccati, vi si sonocondotti dalle case loro per vie men frequentate; cia-scuno dei rettori ha chiamato lo appello dei com-ponenti il gruppo suo; il direttore in capo li havisitati ed approvati; ha già dato gli ordini; vengonosparati dei grossi mortaretti di avviso; la trombasquilla lamentosa, il tamburo vi associa i suoi colpigravi e malinconici; ed eccoti, secondo l’ordine cro-nologico stabilito nella sua famosa tragedia in treatti: Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cri-sto, detta volgarmente Mortorio, da Filippo Orioles.[…] Preceduti da una stella luminosa e raggiante,vengono tosto su magnifici cavalli, in mancanza didromedari, e per offrirgli i loro doni i tre Magi dal-l’aspetto diverso, cui sieguono, a piedi e su cavalli emuli anch’essi riccamente bardati, e guardie e paggie valletti; indi Erode ed i rabbini consultanti i libridei profeti, e conturbati; la fuga della Santa Famigliain Egitto; la cruda strage degli innocenti; il ritornodi Gesù, Maria e Giuseppe dall’Egitto; Gesù e laSamaritana al pozzo di Sicar; Gesù e la resurrezionedi Lazzaro; l’entrata solenne di Gesù co’ suoi Apo-stoli in Gerusalemme fra turbe di fanciulli cantantiil pio osanna al Figliuolo di Davide; il Consigliodegli Scribi e de’ Farisei, che, sotto la presidenza delsommo sacerdote Caifas, dichiara Gesù degno dimorte; Gesù con gli Apostoli nell’orto degli ulivi;Gesù tradito da Giuda, arrestato dalla soldatesca eincatenato; condotto innanzi a Caifas, ad Anna, adErode, a Pilato; Gesù legato alla colonna, flagellatoe contornato di spine, quale re da burla mostrato alpopolo da Pilato e condannato a morte; Gesù fra idue ladroni, sotto il peso della croce aiutato dalCireneo; incontrato da Giusa, dalla Veronica fraschere di soldati, che, preceduti dalle bandiereromane e scortati da un manipolo di cavalieri, i qualistanno ai cenni del loro prefetto e delle trombe, loincalzano, respingendo coi loro numerosi flagelli laMadre di lui e le pie donne, al Calvario sino a farlocadere, a quando a quando, per la feroce ebbrezza,a terra sotto il peso della croce.Che scena commovente non è quella! Gli animi tuttivengono scossi senza volerlo, e il popolo, commossoe piangendo, grida ogni volta:Viva la misericordia diDio!Sieguono indi Giuda impiccato a un albero, cuiintorno tripudiano parecchi demoni; Gesù in croce,cui seguono Longino ed il Centurione ravveduti epentiti; indi in aspetto orribile la Morte e il Demo-

    nio, che schizza fiamme, rabbiosi e incatenati ai pièdi una croce sorretta da un angiolo; Gesù depostosulla bara preceduta dal clero e portata da dodicialabardieri; Maria con l’apostolo Giovanni e le santedonne; Giuseppe e Nicodemo portanti gli unguentie gli aromi colla sindone per ungerlo, avvolgerlo eseppellirlo; da ultimo l’Addolorata, cui sieguegrande calca di popolo”26.

    No. L’inaspettato successo di Cavalleria rusticana fudovuto a qualcosa di diverso da una semplice ripresa delteatro folklorico di Pasqua. A dimostrarlo è il fatto che,come s’è visto, le appariscenze della Settimana santa edel duello, che qualsiasi folklorista romantico nonavrebbe perso occasione di porre al centro delle proprieetnografie e che Verga avrebbe potuto inscenare in unacolorata, esotizzante ed esaltante rappresentazione sce-nografica della Pasqua in Sicilia per di più compiacenteai dettami scientifici della demologia, in tutto il drammarimangono paradossalmente sempre fuori da un camposcenico dove, invece, i personaggi si muovono in frettatra luoghi pubblici di mezzo: la chiesa, la piazza, lacaserma. Dimensione di mezzo, architettonica e conosci-tiva, che, quale tratto decantato dal verismo, poi dallascepsis pirandelliana, dal realismo letterario siciliano, certoaffascinòVerga ma che in Cavalleria rusticana sembra voleralludere ancora a qualcosa di diverso anche dal generaleprivilegio dato ai luoghi dell’estraniamento critico, dellariflessione pubblica e peripatetica, della maieutica,insomma di quel “guardare da una certa distanza” cheVerga pur cercò di perseguire nei suoi lavori27. Nellasciare fuori scena gli spettacoli di Pasqua e del duellovendicativo, quali stereotipi di un ‘Oriente’ sicilianoassieme folkloristico e demologico, lo scrittore si con-centra, invece, sulle dicerie, sulle retoriche partecipazionidei personaggi al rito pasquale, sul morso all’orecchio,sull’abbraccio tra Alfio e Turiddu che, come riportal’amico Federico De Roberto, autore de I Vicerè, Vergaebbe modo di scoprire da bambino assistendo senzacomprendere a una sfida dal balcone della sua casa cata-nese avvenuta tra il figlio del portiere e un tale con cuilitigava. L’abbraccio nel pieno della lite sembrò al bam-bino di pacificazione: seppe poi che era di sfida mor-tale. E non si tratta neppure di un’attrazionedocumentaria per i tipi sociali simile a quella cheVergaebbe anche modo di ereditare da Capuana come dallaCommedia dell’Arte, dalla commedia all’improvviso diffusanella Sicilia del Settecento, dal “Teatro del Mondo” diCarlo Goldoni come dal più tardo teatro dialettale bor-ghese di Nino Martoglio e Giovanni Girgenti. Se pas-sava dallo studio accurato della mimica, della gestualità,

    26 GRISANTI, C., Folklore di Isnello, pp. 65-68.27 Le implicazioni socioculturali connesse ai luoghi ‘di mezzo’,

    cioè destinati all’esercizio di un sapere auto-critico e di una pubblicariflessione - dalle prospettive aediche, tragiche e sofistiche nella Gre-cia antica ai quelle dei griot in Africa sub-sahariana, fino alla piazza

    nella canzone narrativa dell’Europa contemporanea – sono stateindagate da una copiosa letteratura storico-antropologica. Qui cilimitiamo a segnalare lavori quali quelli di Marcel Detienne, MeyerFortes e Robin Horton, Bruno Gentili, Mauro Geraci, RobertoLeydi, Allardyce Nicoll, Rudolf Schenda, Paul Zumthor.

  • della presa di contatto tra i personaggi di testi teatralidialettali quali I mafiusi di laVicaria di Giuseppe Rizzottoe Gaetano Mosca28, Verga ricerca comunque una rap-presentazione differente da quella macchettistica dellacommedia delle maschere.

    Sorprendentemente puntata sulla rimessa in discus-sione di tipi e tradizioni che la nascente demologia aveva alcontrario bisogno di attestare, classificare e conservareuna volta per tutte in voluminose biblioteche di folklore,il verismo diVerga non s’arresta agli stereotipi che, unavolta segnalati, vengono, al contrario, sgombrati via dallascena critica, così come sgombrato viene il teatro ritualedi Pasqua, tutto relegato all’interno gremito di unachiesa che non si vede, che non esercita alcuna funzionecatartica, espiatoria, propiziatoria nell’evitare il duello, ildelitto, la morte. Nello stesso tempo la piazza, da ste-reotipo dello stazionamento paesano si fa luogo fugacedi attraversamento da parte di uomini e donne che, concontraddittorie allusioni, svelano il loro codice ‘silen-zioso’ di comportamento di cui viene così fortementemarcata la distanza, la separazione, la distinzionerispetto ai cori giubilanti e invasivi imposti dalla Pasqua.I personaggi di Cavalleria rusticana disegnano, in altreparole, un varco d’azione intermedio tra la ritualitàpasquale che dilaga in paese e il groviglio irrisolto delletensioni sentimentali che ne resta interamente al di fuori.Al contrario delle opere di Lanza che descrivono ilfestivo assedio delle strade, qui l’invasione della festa èresa tramite un paradossale ritiro dalle scene, arginatacom’è tra le mura di una chiesa che mai esplode e s’aprealla vista di uno spettatore che, così, può esplorarne il difuori, da quella posizione terza ricreata da Verga, con lasua rete di sottintesi, silenzi, slittamenti di senso, crip-tiche allusioni, gesti mafiosi che diventano il vero centroesplicativo e la vergogna vera del dramma o (per ripren-dere l’espressione del poeta dialettale siciliano AlessioDi Giovanni, amico dello stesso Verga) dell’”infernosiciliano”29.

    Tale distanza antropologica, negli stessi anni Ventiin cui comparvero le opere di Lanza, è rilevata anche daFrancesco Perri, narratore non siciliano ma nato aCareri, vicino Reggio Calabria, nel 1885, da una fami-glia di agricoltori e che, sin da bambino, ebbe modo difrequentare i luoghi delle feste seguendo il padre Vin-

    cenzo, organista e cantore, nonché compiendo i primistudi nel seminario vescovile di Gerace prima di laure-arsi in giurisprudenza con una tesi sulle colonie italiane.Pubblicati, con l’apprezzamento di Benedetto Croce, ilpoema Rapsodia di Caporetto e il primo romanzo I conqui-statori, in cui denuncia l’illegalità della repressione fasci-sta, per partecipare al premio Accademia Mondadoribandito nel ‘27 Perri scrive Emigranti, romanzo costruito,affermò, su “un materiale che conoscevo da bambino eche avevo nel cuore”, cioè sui ricordi delle feste popolarie della sua partecipazione alle lotte per la rivendica brac-ciantile dei beni demaniali per le quali subì una con-danna a due mesi di carcere. Pubblicato nel ‘28, levicende di Emigranti si situano nella lezione memorabileche le fasce contadine di Pandore –“i pandurioti senzasangue”– avevano deciso di infliggere ai “galantuomini”,cioè ai

    “Grossi proprietari di Platì, di S. Ilario e di Sidernoche avevano, in altri tempi, con l’inganno, la vio-lenza, e valendosi delle magistrature e delle influenzepolitiche, usurpate quasi tutte le terre demaniali delComune, e per colmo del dispetto si servivano oradi braccia forestiere per coltivarle. Ancone, il Car-ruso, i piani di Angelica, Flavia, i Baronali: tuttaterra usurpata, sangue dei poveri, beni collettivi delComune, che poteva essere il più ricco della provin-

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    Contrada Cafèci(Valguarnera, Enna).Casa di campagna di

    Francesco Lanza (foto diFerdinando Scianna).

    28 Scritta nel 1863 dai palermitani Giuseppe Rizzotto, attentoattore popolare, e dallo scrittore Gaetano Mosca che aveva anchecompiuto studi giuridici, la commedia I mafiusi di laVicaria ebbe note-vole successo in molte città italiane e costituisce uno dei primiesempi di teatro dialettale siciliano. Ambientata nelle antiche pri-gioni di Palermo (Vicaria) il successo dell’opera fu dovuto al fattoche portava in scena l’intreccio complesso e ambivalente che legavail mondo dei quartieri popolari palermitani a quello di una mafia quiancora intesa come malavita, come ‘malandrineria’ di cui vengonodescritte le forme di vita, il gergo, le abitudini, le retoriche, la mora-lità, il vestirsi, l’atteggiarsi.

    29 Composti dal noto poeta e drammaturgo dialettale AlessioDi Giovanni intorno al 1895, i sonetti raccolti sotto il titolo di‘Nfernu veru (“Inferno vero”) dovevano costituire una sorta di grandepoema dedicato allo sfruttamento e ai drammi sociali dei carusi, gio-vani minatori delle zolfare siciliane. Il progetto ambizioso non fumai portato a termine ma alcuni sonetti furono pubblicati sparsi inriviste e altre raccolte poetiche. Per una lettura integrale dei sonettisi veda il puntuale lavoro curato da Aurelio Grimaldi, con un saggiointroduttivo di Vincenzo Consolo, ‘Nfernu veru. Uomini e immagini deipaesi dello zolfo, Roma, Edizioni Lavoro, 1985.

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    cia e invece era tra i più poveri, e doveva mandare isuoi figli in America, in un altro mondo, a procac-ciarsi un tozzo di pane. Il paese, chiuso in un cerchiodi ferro da quei vasti latifondi, passati, non si sapevacome, nelle mani dei signori forestieri, non respiravase non per quel tanto che piacesse ai padroni di farlorespirare. Per far legna, per pascolare, per coltivareun po’ d’ortaglia, per seminare un pugno di granobisognava passare il lustrissimo ai signori, i quali sidavano l’aria di proteggere e beneficare il Comune,mentre si nutrivano del suo sangue e si godevano isuoi beni. E ciò senza contare qualche acconto innatura, prelevato di quando in quando tra le ragazzepiù belle del paese.Altre volte si era tentato di rivendicare quei bene-detti terreni demaniali, e molti erano stati gli agentidelegati a risolvere l’annosa quistione; ma alla resadei conti non si era mai concluso nulla. I signori ave-vano sempre trovato il modo di eludere la legge, sepure qualcuno si era mai proposto veramente diapplicarla: perché, a guardarci bene in fondo, tuttiquei magistrati che venivano da lontano, e dimo-stravano, a parole, tante buone intenzioni verso gliinteressi del popolo, erano poi d’accordo con gliusurpatori per gabbarlo. E il Governo, beato lui!teneva mano”30.

    Già nella prima parte del romanzo, incentrata sullelotte contadine per la defeudalizzazione delle terre vis-sute come ultima spiaggia prima della forzata emigra-zione, la rivendicazione della giustizia sociale è subitoassociata ai paradigmi della Passione, laddove moltimanifestanti vennero arrestati come sediziosi:

    “Rocco Blèfari legato diceva lui –come Gesù Cri-sto, e innocente come lui, con sulle spalle la giaccadalle maniche rigonfie che gli penzolavano e gli sbat-tevano sui fianchi, in mezzo ai carabinieri armati,avanzava come a tentoni, annichilito. Le tracollebianche, le giberne, le strisce rosse dei pantaloni, igrandi cappelli a due corni, i sottogola, gli facevanoricordare le figure dei giudei, di quei soldati romaniintorati e muscolosi, che venivano esposti la setti-mana santa nel Sepolcro, ai lati del piccolo Cristolivido e sanguinante. Come quel Cristo egli venivacondotto davanti ai Tribunali! E la Giustizia? Ah!Quella bella signora dalle poppe prosperose e dallabilancia! –L’ho detto io, che era una bottegaia… unaspecie di Porzia Papandrea!” 31.

    I braccianti sperimentano così l’estraneità verso ogniforma di potere e a Rocco Blèfari.

    “I pensieri gli s’ingarbugliavano, dubitava di tutto,della giustizia, dell’autorità, del Governo: tutto glisembrava falso, precario, inutile, e si vedeva ingan-nato da ogni parte, lui povero contadino ignorante,che non sapeva farsi le proprie ragioni, perché nonsapeva leggere e scrivere. Un grande sconforto lo

    invadeva, lo sconforto dell’uomo davanti all’ingiu-stizia. Si sentiva oppresso da una paurosa solitudine,la solitudine dell’ignorante che in ogni potere vedeun’insidia e odia tutti i poveri”32.

    La dimensione festiva tuttavia compare soprattuttonella seconda parte del romanzo, in relazione alle con-dizioni del ritorno in Calabria dei braccianti che le con-giunture politiche ed economiche avevano di fattocostretti all’espatrio negli Stati Uniti d’America, inquella che, ai primi del Novecento, si rivelò come laprima, massiccia ondata migratoria degli italiani. Dopouna “letizia pasquale” rotta dai pianti, dalle “alte grida”,dal “corrotto lamentoso” di tutto un paese che una let-tera, appena giunta dal Massachusetts, aveva informatodella morte di Peppe Liano, minatore rimasto “schiac-ciato in una galleria di carbone”, la dimensione festivaricompare una mattina di domenica, quando la bottegaiaPorzia Papandrea, sulla scalinata di una chiesa, maledicepubblicamente la figlia Vittoria, colpevole di avereinfranto il patto matrimoniale stretto con Pietro Blèfariprima che questi partisse per gli Stati Uniti, unendosicon lo squallido latifondista massaro Bruno Ceravoloche, dopo la morte della moglie, “consumava le sue ren-dite nelle bettole e nei suoi numerosi amori vedovili”. Ilpellegrinaggio al santuario della Madonna di Polsi, aipiedi dell’Aspromonte, prosegue poi l’attenzione diPerri nei confronti di uno scenario festivo che qui vienetanto minuziosamente esposto nei suoi più effervescentiaspetti simbolici e coreutico-musicali, quanto presen-tato come sordo alle richieste di grazia e alle impellenzelavorative dei braccianti. Mariuzza, in particolare, nono-stante vi fosse stata condotta dal marito Gesù Blèfari (ilnome non è casuale) con la speranza ultima di un mira-coloso intervento della Madonna, morirà stroncata dauna tremenda malattia venerea che Gesù stesso le avevainoculato, avendola a sua volta contratta in un rapportooccasionale con una prostituta avuto in Pennsylvania.Nel quadro festivo della Madonna di Polsi, in cui l’al-tisonanza del rito corrisponde alla sua “impassibile”sordità rispetto ai bisogni sociali, Perri colloca pure l’in-tervento omicida del massaro Bruno Ceravolo che, conuna coltellata, uccide Pietro avendolo scorto, tra lemasse processionali, baciare Vittoria, colei che (in unritorno dello schema verghiano) Pietro avrebbe dovutosposare come stabilito prima della sua partenza inun’America da cui era tornato da soli due giorni.

    “–Accorrete, accorrete, cristiani! Si ammazzano!La via davanti al mulino rigurgitava di gente che pre-cedeva la statua della Madonna. LaVergine era a unacinquantina di passi. Portata a spalla da venti pelle-grini robustissimi ondeggiava lentamente su quelmare di teste, tutta luccicante di ori e di sole, col

    30 PERRI, F., Emigranti, pp. 9-10.31 Ibidem, pp. 30-31.

    32 Ibidem, p. 32.

  • suo sorriso impassibile e il suo occhio fisso sulpopolo”33.

    Emigranti culmina, infine, nell’alba tragica di unVenerdì santo in cui la morte del Gesù Nazareno nellasacra rappresentazione corrisponde a quella del brac-ciante Gesù Blèfari, che “peggiorava ogni giorno” sem-pre a causa della letale malattia americana. Tema delGesù-contadino che, del resto, diverrà un motivo cen-trale nel Novecento letterario meridionale, dal Cristo si èfermato ad Eboli di Carlo Levi a Contadini del Sud di RoccoScotellaro, fino al Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali,poema scritto da Buttitta che così presenta una Passionein cui a morire come Cristo, sotto i colpi dei mafiosilatifondisti, è il bracciante Salvatore Carnevale, sindaca-lista socialista assassinato a Sciara (Palermo) nel 1955:

    “Ancilu era e non avia alinon era santu e miraculi facia,ncelu acchianava senza cordi e scalie senza appidamenti nni scinnia;era l’amuri lu so capitalie sta ricchizza a tutti la spartia:Turiddu Carnivali numinatue comu a Cristu muriu ammazzatu.

    […] Sidici maggiu, l’arba ncelu luci,e lu casteddu àutu di Sciarataliàva lu mari chi stralucicomu n’artaru supra di na vara;e fra mari e casteddu una gran crucisi vitti dda matina all’aria chiara,sutta la cruci un mortu, e cu l’aceddilu chiantu ruttu di li puvireddi”34.

    Tema, questo, che Buttitta riprende in A crucifissioni,Ncuntravu u Signuri e Un cristu ncruci dove il “campanilealto” mai s’abbassa ad ascoltare i drammi di un“popolo” silente, addormentato da secoli di sottomis-sione e sfruttamento, votato all’attesa vana e rassegnatadi un giorno in cui Cristo, scendendo davvero dallacroce, farà sì che il prete non avrà più bisogno di diremessa e il sagrestano di suonare le campane; o in Mafiae parrini dove, nella sotterranea stretta di mano tra mafiae clero, se la chiesa “alza la croce” la mafia “punta espara”, se la chiesa “minaccia inferno”, la mafia “lalupara”35. In modo simile, nel finale di Emigranti, l’an-nuale rappresentazione della Passione dove Gesù muorema risorge, rimane sorda al dramma di un altro Gesù,

    più vero di quello recitato sul Calvario: Gesù Blèfari,bracciante, emigrante calabrese che si spegne per semprein un silenzio domestico ancora invaso e sopraffatto daimaestosi canti, esterni ed eterni, delVenerdì santo e dellesue folle rigurgitanti.

    “La mattina del venerdì santo volle scendere dalletto per vedere la processione. Lo misero sopra unasedia vestito alla meglio, lo coprirono con un man-tello di orbace, perché l’aria della mattina era ancorafresca parecchio, specie prima del levarsi del sole, elo portarono sulla strada.All’alba del venerdì di passione a Pandore si fa unaprocessione che è come una specie di rappresenta-zione sacra. Si finge il trasporto del Corpo Santo alsepolcro. La chiesa quella mattina rigurgitava digente.Tutto il popolo, come di consueto, era conve-nuto alla mesta cerimonia quando appena imbian-cava il crepuscolo. Allor che apparve sull’altare lacroce, un’immensa croce piatta di legno, con unlungo sudario appeso alle braccia, la Palamara, colsuo vocione baritonale, intonò un inno maestoso alsegno della redenzione: Evviva la cruci surgenti di gloria...Poi la processione uscì dalla chiesa diretta a una col-lina chiamata il Calvario. Quando giunse in fondoalla Ruga Grande il sole non era ancora spuntato sulmare. Come un’immensa aureola di luce era nelcielo, una luce argentea, nella quale tremolavano leg-germente le cime degli olivi. In testa alla processioneera la croce che ondeggiava funerea, nell’aria limpidadella mattina, in mezzo alle piccole case tristi cheparevano anch’esse in lutto. Seguiva il Cristo morto,un piccolo Cristo di legno, come un adolescente didodici anni, portato a spalla da otto giovani che ave-vano in testa grosse corone di spine. Aveva i ginoc-chi e i gomiti scorticati, le membra livide e i capellie la barba impastati di grumi di sangue.Dietro il Cristo veniva una piccola comitiva di can-tori: Don Gianni Cùfari, Don Gialormo il capoguardia, il Galeoto e pochi altri tra i più celebribestemmiatori del paese. Leggevano in certi libric-cini manoscritti una serie di distici che cantavano avoce spiegata. A essi rispondeva il popolo in coro.Dopo i cantori era una grande statua della MadonnaAddolorata, con un ampio panno nero sul mantelloturchino, un piccolo crocifisso snodato sulle braccia,e le sette spade nel petto. Il popolo mesto seguiva acapo scoperto salmodiando. Dicevano i cantori: Gesùmio, con dure funi, / le tue mani chi mai legò? Rispondevail popolo picchiandosi il petto: Sono stato io, l’ingrato!/ Gesù mio, perdono e pietà.

    ANTROPOLOGÍAI GIORNI INVASI. FRANCESCO LANZA E LA PASSIONE NELLA SICILIA LETTERARIA

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    33 Ibidem, p. 104.34 Traduzione: “Angelo era e non aveva ali / non era santo e

    miracoli faceva, / saliva in cielo senza corde e scale / e senza soste-nersi ne scendeva; / era l’amore il suo capitale, / questa ricchezza atutti la spartiva: / Salvatore Carnevale nominato / e come Cristomorì ammazzato. […] Sedici maggio, l’alba in cielo splende, / e ilcastello alto di Sciara / guardava il mare che luceva / come un altaresopra di una bara; / e tra mare e castello quel mattino / una grandecroce si vide all’aria chiara, / sotto la croce un morto, e con gli uccelli

    / il pianto dei poveri a dirotto”. Buttitta I., “Lamentu pi TuridduCarnivali”, pp. 105, 111. Riguardo alla genesi e alla diffusione pressoi cantastorie del Lamentu pi Turiddu Carnivali che costituisce una dellepiù alte pagine della poesia dialettale siciliana v. Geraci M., Le ragionidei cantastorie, pp. 42-52.

    35 BUTTITTA, I., “A crucifissioni”, in Io faccio il poeta, pp. 94-101;“Ncuntravu u Signuri”, ibidem, pp. 79-81; “Un Cristu ncruci”, in Lapeddi nova, pp. 133-137; “Mafia e parrini”, in Lu trenu di lu Suli, pp.77-78.

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    Il canto saliva in mezzo alle case silenziose, triste,lugubre come un lamento, e più triste lo rendeva ilbisbiglio dei passeri che negli intervalli si udivavenire dai tetti. Le finestre erano socchiuse, le porteserrate, i volti erano tutti mesti. Sembrava che quelpopolo povero, che aveva negli occhi e nei vestititanti segni di sofferenza e di miseria, si accusassecon un lamento corale della passione del Dio-Uomo. Dicevano i cantori: Gesù mio, d’acute spine / iltuo capo chi incoronò? Rispondeva il popolo: Sono stato io,l’ingrato! / Gesù mio, perdono e pietà.Gèsu guardava la processione avanzare, con un leg-gero tremito nelle mani, gli occhi già quasi senzasguardo, emaciato come un’ombra. Ricordavaappena, in quel residuo crepuscolare di vita che glirimaneva, i giorni quando egli andava in chiesa acantare, quando la sua bella voce tenorile scandivaper le vie del paese il distico doloroso. Rocco si erainginocchiato alla sua destra, e Mariuzza alla suasinistra. Si picchiavano il petto e lacrimavano silen-ziosamente. Il popolo che passava li commiseravanelle pause del canto. La Madonna, col suo bel voltoaffilato e dolente, due grosse lacrime immobili sulleguance, pareva guardasse il malato e dicesse: “Nonvedi che piango anch’io, non vedi che soffro anch’io?Tutto è dolore nel mondo”.[…] Giusa si avvicinò al fratello, e osservando chela testa gli era caduta pesantemente sul petto, glimise una mano sulla spalla e lo chiamò con dol-cezza. La bocca del malato era aperta in modomacabro, e un filo di bava gli scendeva sul petto. Gliocchi erano socchiusi ma senza sguardo.–Pa’... o pa’..., - fece Giusa spaventata, a bassa voce,- venite qua, mi pare sia morto.Rocco si avvicinò e si chinò sul malato.–È morto, figlio benedetto, è morto! Non gridareche non oda quella poveretta –e accennava aMariuzza. –Aiutami a portarlo in casa.E mentre il padre e la figlia portavano a braccia ilpovero morto su per la scala, il canto espiatorioveniva da lontano con l’aria fresca della mattina.Dicevano i cantori: Gesù mio, di fiele e aceto / letue labbra chi abbeverò? Il popolo rispondeva: Sonostato io, l’ingrato! / Gesù mio, perdono e pietà”36.

    Il motivo di un’invasione festiva parallela, compre-sente ma al tempo stesso disgiunta dal piano dei con-flitti e della morte sociale, torna, a circa un secolo dalleopere diVerga e Perri, oltre che in Lanza e Bonaviri nelladescrizione della semana santa andalusa che Sciascia, conl’apporto fotografico di Ferdinando Scianna, proponenel diario di viaggio Ore di Spagna, “in una sorta di tra-sversale giuoco di specchi, la Sicilia si riflette nella Spa-gna e la Spagna nella Sicilia”37. L’incombenza dellaritualità pasquale qui è equiparata a quella della guerracivile spagnola combattuta dal 1936 al ‘39 fra i nazio-

    nalisti antimarxisti (nacionales) ed i republicanos compostida truppe governative e sostenitori della Repubblica spa-gnola. Guerra sanguinosa, terminata con la sconfittadella causa repubblicana che portò alla dittatura fran-chista. Sciascia, in particolare, fa riferimento alla presadi Siviglia condotta dal generale Gonzalo Queipo deLlano che, col massiccio sostegno della radio e dei mili-tari inviati dall’Italia fascista e dalla cavalleria mora,invase la città adoperando gli stessi circuiti propagandi-stici e processionali della semana santa:

    “Di ‘settimane sante’ luttuosamente fastose, cupe,isteriche (e con una più o meno celata contropartedi esplosione vitalistica, liberatoria, quasi orgia-stica), a un siciliano della mia età non solo nonmanca memoria, ma gli basta fare qualche chilo-metro, e specialmente verso i paesi dell’interno, perritrovarne qualcuna non ancora guastata da inter-venti innovatori o di pseudo-restauro. […] Intanto,è da dire che la ‘semana santa’ andalusa dura pro-priamente una settimana, dalla domenica dellePalme al sabato della Resurrezione. Processioni chesi dipartono da ogni quartiere, girano per la cittàdal primo pomeriggio a notte alta, si sfiorano, siintersecano, sembrano cercare un punto di con-fluenza al tempo stesso che invece se ne diramano.A guardare dall’alto la città percorsa dalle proces-sioni, è da credere si avrebbe l’impressione di uncontinuo movimento centripeto e centrifugo, dacaleidoscopio. E a Siviglia, stando al centro dellacittà, che è come dire al centro del vortice delle pro-cessioni, viene da pensare che il generale Queipo deLlano si sia servito dell’itinerario che le processionipercorrono nella ‘semana santa’ per impadronirsisubito, la stessa notte dell’alzamiento dei militari,della città: con la trovata di far girare per tutta lanotte i pochi carri di cui si disponeva e dando l’im-pressione di averne tanti da poter subito abbattereil sollevamento popolare. Avrà avuto una cinquan-tina di carri; ma i cittadini avranno creduto neavesse una miriade, per cui intanati in casa se nesono stati quelli che in altri luoghi della Spagna,con diversa fortuna, sono invece scesi a combatterenelle strade. Così a noi sembra di assistere a unamiriade di processioni; e forse sono meno di cin-quanta. Ma sono già tante; e durando un’intera set-timana sembrano moltiplicarsi. Sette giorni, unoappresso all’altro: e ogni giorno tutto si acquietaall’alba, e per poche ore; ore in cui le strade sonoinvase da alacrissimi nugoli di spazzini cheraschiano lo strato di cera che le migliaia di candelehanno sgocciolato e dissolvono il forte sentore diammoniaca che vicoli e cortili esalano, restituen-doli all’ineffabile profumo delle zagare38 .

    L’associazione tra semana santa e guerra torna anchequando Sciascia descrive la processione armata della

    36 PERRI, F., Emigranti, pp. 107-110.37 TEDESCO, N., “Nota”, in Sciascia L., Ore di Spagna, p. 121.

    38 SCIASCIA, L., Ore di Spagna, pp. 33-34.

  • polizia che a Granada, con lo stesso passo, si svolge con-testualmente a quella della Passione:

    “Tra il fercolo col Cristo confortato dall’Angelo (econ San Pietro che dorme discosto) e quello dellaMadonna – un cono di spumeggiante ricamo biancoed oro con al vertice una testa di bambina – la poli-zia sfila interminabilmente, generale e ufficiali cheaprono la sfilata, ciascuno portando quella specie dialabarda che in Sicilia è delle confraternite artigiane.I lunghi fucili, nuovi o ben lubrificati, inclinati sullaspalla destra, la canna verso l’alto; le mitragliettecorte e leggere impugnate invece dalle donne-poli-ziotto, il dito sul grilletto. E sono tante, le donne indivisa e mitraglietta. Davvero ce ne sono tante nellasola Granada? Ma un po’ rassicura, di queste donne-poliziotto armate e quasi tutte prive di dolcezza nelvolto e nel corpo, il passo ondulante che accentuaquelle forme che la divisa nasconde: il passo che ten-gono tutti quelli che vanno in queste processioni –due laterali, uno a destra e uno a sinistra, uno inavanti– ma che in loro acquista un che di avanspet-tacolo, quasi un ricordo della ‘mossa’ che gli spetta-tori dei café-chantant una volta invocavano. Questopasso, che è anche dei portatori dei fercoli, dà amomenti il sospetto che appunto per loro sia statoinventato, a nascondere l’ubriachezza che ad un certopunto non può non prenderli, considerando i fiaschidi vino che quasi ad ogni fermata entrano sotto i fer-coli. Stanno, sotto ogni fercolo, cinquanta portatori,nascosti da cortine: e se ne vedono i piedi, scalzi ocalzati di scarpe come da tennis. La fatica, l’aria irre-spirabile, il vino, rendono necessario, ogni paio d’ore,il cambio. Ed è pensando al loro numero, e allalegione di incappucciati che seguono ogni fercolo,che ci chiediamo se sono venuti anche da loro i tantivoti che il Partito Socialista ha avuto”39 .

    Nella narrativa sciasciana, inoltre, gli aspetti poli-tici e bellici connessi alla festa costituiscono un argo-mento di riflessione inaugurato ben prima del 1988 incui esce Ore di Spagna. Già ne L’antimonio, racconto del ‘58aggiunto nel ‘61 a Gli zii di Sicilia, Sciascia si era infattisoffermato sulle connessioni, non solo riconducibili almito giudaico-cristiano, che continuano a legare la Set-timana santa alla guerra, la Spagna alla Sicilia, narrandol’evoluzione spirituale di un giovane minatore sicilianoil quale, per sfuggire al lavoro pericolosissimo nelle cavedi zolfo, si fa arruolare nelle truppe italiane che fian-cheggiano l’esercito franchista e parte per combattere inSpagna contro i repubblicani. Man mano che com-prende le congiunture internazionali della guerra civile,s’accorge di essere dalla parte sbagliata rischiando la vitaper ideali contrari agli interessi della propria classesociale. La marginalità estrema in cui il protagonista dicolpo si ritrova corrisponde, così, a un doloroso ma libe-

    ratorio risveglio intellettuale dove la distanza dalla Sici-lia migliora anche la sua capacità di giudicare i mecca-nismi del paese da cui proviene e quindi di maturareun’assoluta posizione antifascista rispetto a “tutte lecose del mondo”. Non è un caso come, ancora unavolta, Sciascia collochi la trasmutazione politico-ideo-logica del personaggio proprio nei pressi di una chiesaoccupata, come quella verghiana, dal cerimoniale diPasqua. “Seduto sulla scalinata di quella chiesa, hocapito tante cose della Spagna e dell’Italia, del mondointero e degli uomini nel mondo”, commenta il soldatomentre, più avanti, così finisce di meditare: “ma dallaguerra di Spagna, dal fuoco di quella guerra, a me paredi avere avuto davvero un battesimo: un segno di libe-razione nel cuore; di conoscenza; di giustizia”40. Presa didistanza maturata sulla scalinata di una chiesa parata afesta e usata, ancora una volta, come metafora letterariadell’invalicabile, del lontano, di un’invasione mitico-rituale che arriva ogni anno per segnare abbandoni sto-rici e cosmici. Distanza tra storia e festa che, in Neròmetallicò del 1994, in una delle brevi favole scritte daVin-cenzo Consolo, scrittore di Sant’Agata di Militello(Messina), troviamo ancora evocata da un presepe chedue monaci di passaggio, ospitati dai briganti, scoprononel fuliginoso sotterraneo di un castello zeppo d’armi,assieme a una botola e a una scala scura e infernale cheli avrebbe fatti sbucare, la notte di Natale, “proprio die-tro l’altare della chiesa del convento nel solennemomento in cui, nella gran luce dei ceri, il padre Guar-diano, a polmoni pieni, sulle note dell’organo, solenne-mente intonava: Gloria in excelsis Deo…”41.

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    Cimitero diValguarnera (Enna).

    Tomba diFrancesco Lanza.

    39 Ibidem, pp. 34-35.40 SCIASCIA, L., “L’antimonio”, in Gli zii di Sicilia, pp. 185, 233-

    238.

    41 CONSOLO,V., “Il presepe naturale”, in Neró metallicó, p. 55.

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    A Vigata, immaginario paese dell’entroterra sici-liano, è ancora una botola, sul palcoscenico dell’annualesacra rappresentazione della Passione, che, ne La scom-parsa di Patò di Andrea Camilleri, separa analogamente igiorni invasi della Passione dalle quotidiane tensioni. Pub-blicato nel 2000, il romanzo sviluppa una cronacarichiamata da Sciascia nel finale di A ciascuno il suo, doveil protagonista, professor Laurana, essendo giunto a unpasso dal provare l’intrigo delle coperture sentimentali,mafiose, statali relative a un duplice omicidio, per ciòstesso viene fatto sparire così come

    “Cinquant’anni prima, durante le recite del ‘Mor-torio’, cioè della Passione di Cristo, Antonio Patò,che faceva Giuda, era scomparso, per come la partevoleva, nella botola che puntualmente, come già uncentinaio di volte tra prove e rappresentazioni, siaprì: solo che (e questo non era nella parte) da quelmomento nessuno ne aveva saputo più niente; e ilfatto era passato in proverbio, a indicare misteriosescomparizioni di persone o di oggetti”42.

    Sulla scomparsa di Patò e del Giuda da lui imper-sonato nel Mortorio di Vigata del 1890, il realismo fan-tastico di Camilleri costruisce un esilarante dossiercronologico e comparativo dei documenti prodotti nellecircostanze: a parlarci da sole, porgendosi quali testi-monianze di punti di vista, categorie, interessi, conni-venze di tipo diverso, sono, cioè, lettere anonime diminaccia, cronache e interventi sui giornali locali di per-sonalità del mondo politico-intellettuale, denunce e ver-bali di polizia e carabinieri, atti ministeriali, pareriespressi da criminologi, sociologi, medici, avvocati. Iro-nica finzione e, al tempo stesso, amara ricostruzionedelle retoriche della burocrazia e del potere che Camil-leri però lega anche ai voluminosi scritti del Marchese diVillabianca, noto diarista della Palermo del Settecento,di Pitrè e di quanti altri studiosi della Settimana santahanno attestato nel Mortorio la presenza della botola dacui, al momento del suicidio, Giuda e chi lo interpretaviene fatto scomparire nel sottopalco della sacra scena,come fosse risucchiato dagli inferi.

    Al di là dei presunti ‘archetipi’ della caduta, delladiscesa, della morte e resurrezione che qui lasciamo alleprospettive classiche dello strutturalismo simbolico ostorico-religioso43, in Camilleri la botola segna unasoglia netta, precisa, visibile tra la dimensione teatrale,alta della performace e l’intreccio, divertente ma basso eoscuro, delle supposizioni elaborate dalle diverse partisociali circa la scomparsa defintitiva di Patò, dal palco-

    scenico come dalla vita. Scomparsa che, il realismo let-terario di Camilleri, riprende anche da una casistica diattori effettivamente scomparsi o defunti sulle sceneinvase della Settimana santa. Tra tutte, quella del venti-treenne geometra Renato Di Paolo, uno dei trentatrèfiguranti della rituale Passione di Camerata Nuova, traLazio e Abruzzo, morto ilVenerdì santo del 2000, sottogli occhi di familiari, amici, compaesani, videoamatori,ricercatori che non si sono accorti di nulla; che scivolavadallo sgabellino rimanendo impigliato nel nodo scor-soio da lui stesso preparato per recitare la parte di Giudache, pochi giorni prima, aveva preso in cambio di quelladi Barabba, ceduta a un ragazzo più corpulento e idoneoal ruolo44. Nel romanzo, allo stesso modo, il ragionierPatò, direttore della Banca di Trinacria di Montelusa(altro paese immaginario), qualche giorno prima dellarappresentazione aveva accettato la parte offertagli dalmaestro di scuola Erasmo Giuffrida che, a sua volta,aveva preso quella del Redentore a patto che fosse Patòa impersonare Giuda.

    Al di là delle pregnanti coincidenze che, in un“Trionfo della Morte”45, vedremo ricomparire nella vitastessa di Lanza, la scomparsa di Patò e quindi del Giudache il Mortorio impone “come da copione”, nel romanzomette paradossalmente in estremo risalto non il cultodella performance, coi suoi costumi, i suoi carri proces-sionali, i suoi pianti funebri, i suoi cortei tanto cari amolti storici delle tradizioni popolari, ma il prima e ildopo di essa, al momento in cui Patò più non torna e lascomparsa da copione diventa de facto. Il fatto che Patò, allafine dello spettacolo, non ricompaia più da quella stessabotola che lo ha visto sprofondare nei panni di Giuda,dà luogo a un vortice di domande sulle cui pungentiimplicazioni antropologiche Camilleri gioca, interro-gandoci per tutto il romanzo. Dov’è finito Patò? Se èmorto, com’è morto? Si tratta di incidente, sequestrooppure omicidio? E, in tal caso, chi ha potuto commet-terlo e perchè? E se si fosse nascosto? Una fuga? E seavesse preferito morire nell’inferno suicida di Giudapiuttosto che in quello, ben più vulcanico, diVigata, delsuo parentame e dell’‘isola felice’? E quali sono le ragioniche hanno spinto un funzionario irreprensibile, maritointegerrimo e padre amoroso come Patò a eclissarsi persempre dalla vita domestica e sociale? Siamo di fronte auna scomparsa subita o voluta? Ed è strumentale l’usodella Settimana santa da parte del ragioniere Patò o dichi ha tramato per la sua definitiva uscita di scena?Vor-tice di domande cui fa eco un vortice di azioni, reazioni,

    42 SCIASCIA, L., A ciascuno il suo, p. 134.43 Per una ragionata sintesi delle prospettive strutturaliste così

    come si sono sviluppate negli studi storico-religiosi e in quelli antro-pologici rinviamo al volume di Furio Jesi,Mito, Milano, Mondadori,1980.

    44RONCONE, F., “Muore recitando Giuda allaVia Crucis”, Cor-riere della Sera, 25 aprile 2000, p. 17.

    45 E’ questo il titolo attribuito a un celebre dipinto della metàdel XV secolo, di autore anonimo, si pensa catalano o provenzale,esposto nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo.

  • informazioni, testimonianze rilette come indizi da variuffici, vari interpreti in competizione tra loro. Vorticedi supposizioni che, nel groviglio delle pendenze intrat-tenute da Patò nel prima e nel dopo del teatro sociale, enon nell’ora delVenerdì santo, cercano spiegazioni pos-sibili alla sua scomparsa. Scomparsa di volta in voltaletta: 1) come ritorsione rispetto alla restituzione di unprestito bancario di cui il ragioniere avrebbe negato ladilazione al beneficiario; 2) come momentanea perditadella memoria che Patò avrebbe subito cadendo nel sot-topalco, costringendolo a vagare senza riuscire a ritrovarela via del ritorno; 3) come l’omicidio cui alludono ano-nime lettere, scritte murali, la ballata di un “fantomaticocantastorie” che, però, non svelano mai il movente; 4)come sequestro per un regolamento di conti connesso aiprestiti bancari che Patò era costretto a elargire “inobbedienza agli ordini del politico consanguineo che aquel posto l’aveva voluto”, che ne possedeva il 51% eche per questo usava servirsi della banca “come tascapropria, affranto com’è a elargire favori a dritta e amanca, sempre coll’intento d’ottener un consentaneopopolar consenso”; 6) come reincarnazione di Giudache il “Signor Iddio Onnipotente”, indignato per lestrabilianti capacità mimetiche di Patò, avrebbe volutosubito cancellare dalla faccia della terra o che il “Mali-gno” avrebbe accolto a braccia aperte tra le fiammeinfernali; 7) come sequestro operato da malviventi perimpossessarsi delle chiavi della filiale “onde potervipenetrare indisturbati e a bell’agio nottetempo, ope-rando un furto”; 8) come simulato rapimento cui Patòsarebbe stato consenziente per far sparire dalla Banca diTrinacria, oltre ai denari, “tutte le carte compromet-tenti” relative ai traffici coi politici potenti; 9) comeincidente che Patò avrebbe subito scendendo la scala dilegno posta sotto la botola, di cui un gradino si sarebbespezzato e, secondo l’archeologo inglese Michael Chri-stopher Enscher, avrebbe trasformato quella del Morto-rio nella scala perpetua scoperta dal matematico RogerPenrose che non dà possibilità di risalita e per la qualePatò starebbe ancora scendendo. La fantasiosa ironia diCamilleri partorisce, infine, una lettera inviata da Ali-stair O’Rodd, astronomo reale della Corte inglese, alsindaco di Vigata per spiegare come Patò, secondo lui,sarebbe caduto in uno degli intervalli che, secondo unarecente “Teoria degli interstizi”, di tanto in tanto ven-gono a crearsi nel continuum spazio-temporale, e che con-sentono di “risalire verso il Passato o precipitarenell’Avvenire”. Anthony Patow sarebbe, così, scomparsoal momento della fucilazione dalla guerra di secessioneamericana per ricomparire in Francia, ai tempi di Napo-leone III, come Antoine Pateau, soldato francese messoal muro perchè disertore. Così prosegue l’astronomo

    camilleriano:“Trovatomi nei giorni passati in Montelusa perarcheologico diletto, seppi da un valletto dell’al-bergo della scomparsa di tale Antonio Patò mentrerecitava, e perciò di tutti alla vista, in uno spettacoloreligioso.Adunque Anthony Patow, mutando nome inAntoine Pateau e quindi in Antonio Patò continuava(sia pure non più in panni militari) il ciclo delle suecadute da interstizio a interstizio!Precipitatomi inVigata, ho potuto lungamente esa-minare parte del palcoscenico e sovratutto la scalasulla quale Antonio patò era caduto subito dopo ilpassaggio attraverso la botola.Non havvi possibil dubbio, incertezza alcuna: ilfenomeno si è novellamente ripetuto!Siccome è assodato che il Patow è caduto in avantiall’interno dell’interstizio, tanto è vero che è riap-parso anni dopo come Pateau, anche lui caduto inavanti dato che si è ripresentato come Patò, è asso-lutamente essenziale conoscere se quest’ultima voltail Patow-Pateau-Patò sia caduto medesimamente inavanti o sia all’indietro precipitato.In questo secondo caso il Patò avrebbe interrotto ilciclo interstiziale verso il Futuro per intraprendereil ciclo di segno inverso e quindi risalire nel passato.E’ fondamentale conoscere questo. Occorre saperlo.Basterebbe l’attenta consultazione degli Archivi sto-rici dell’Isola per evincere tutti i fenomeni di scom-parsa accaduti nel passato, in particolar modo diindividui dal nome e cognome assonante con Patow(esempio: Patù), con Pateau (esempio: Papò), conPatò (esempio: Palò).Io la impetro, Signor Sindaco, e non mi sforzod’usar anadiposi, arditamente tale ricerca iniziare:Ella diverrebbe il Benemerito della Scienza e dellaUmanità!”46.

    Camilleri, in definitiva, prosegue nell’assunzionedella festa un orientamento rappresentativo come s’èvisto già in uso presso altri, precedenti narratori sicilianie che, adesso, occorre osservare più da vicino.

    C’è un filo, nel repertorio letterario qui esemplifi-cato, che lentamente si dipana a disegnare una Passioneche, minuziosamente rievocata nella sua palpabile spet-tacolarizzazione o confinata negli allusivi retroscena ver-ghiani, diviene fulcro che ratifica trame sociali edesistenziali perennemente esterne, lontane, invariabili.Distante dalla funzione salvifica e teatrale tendenzial-mente esaltata dai demologi, la Passione, nella letteraturasiciliana, figura come concentrato di forze dense, pesanti,invasive. Concentrato di simboli, di referenti morali, ideo-logici, religiosi, di obblighi rituali, di strumenti retorici epolitici, di tradizioni tutt’altro che rassicuranti e additaticome fonte di obblighi, insoddisfazioni, schiacciamenti,abbandoni, scomparse. La festa, qui, è oggettivazione

    ANTROPOLOGÍAI GIORNI INVASI. FRANCESCO LANZA E LA PASSIONE NELLA SICILIA LETTERARIA

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    46 CAMILLERI, A., La scomparsa di Patò, pp. 141-142.

  • La Semana SantaANTROPOLOGÍA Y RELIGIÓN EN LATINOAMÉRICA II

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    letteraria di una ritualità cultuale e culturale sempredistante, che, proprio perché s’impone quale alta pretesadi risoluzione, marca, sul terreno umano, ferite cherestano aperte e sanguinanti. Quello della Passione let-teraria in Sicilia è il racconto dell’uomo solo che, nel-l’imminenza della morte, fa appello alla memoria(privata, culturale, storica, mitica) nel tentativo di rico-noscere un’identità che invece non trova e non riesce adare un senso neanche alla propria scomparsa, a queltrapasso che tutto dovrebbe essere meno che casuale esilenzioso e poi, malauguratamente, lo diventa. “Signore,mi fa male la vita”, esclama l’io narrante de Voci di piantoda un lettino di sleeping-car di Gesualdo Bufalino47, impor-tante scrittore di Comiso (Ragusa), che in un articolointitolato La Passione secondo noi, torna a sottolineare ilcarattere invasivo dei riti della Settimana santa che asse-condano quasi una Passione, non solo letteraria, per lesconfitte.

    “Un intreccio fra festa e teatro esiste, com’è noto,sempre e dovunque, ma è soprattutto in Sicilia,durante la Settimana Santa, ch’esso si svela con lapiù straripante e invasiva evidenza. Congiurano a taleeffetto il gusto della dismisura proprio del carattereisolano; il tempo dell’evento, che è la primavera, sta-gione di metamorfosi, la natura stessa del rito, incui, come in un cuntu dell’Opera dei Pupi, la zuffadel male col bene si combatte in termini di inganno,doglia e trionfo. Appunto la Passione, Morte eResurrezione del Cristo, al di là delle originarieragioni della pietà religiosa, sembra con le sue vicis-situdini fornire il copione ideale a una gente ches’appassiona alle sconfitte e quasi le cerca, tutte levolte che crede di poterne spremere il piacere soli-tario di una rivincita.[…] Questo non smentisce, naturalmente, chi amascorgere nella vicenda pasquale una metafora dellaterra in rigoglio dopo il letergo d’inverno, come inquel mito greco (ma altrettanto siciliano che greco)di Persefone rapita a Demetra e a lei restituita ognianno al tempo delle rinascite vegetali.Sarà vero, ma agli occhi del siciliano su ogni impli-cazione mitico-magica fa premio lo strazio dellamadre offesa, il suo pianto carnale, mentre nascondesotto lo scialle la faccia e si sente penetrare settevolte la spada nel cuore. E’ qui che vibra la piùautentica partecipazione popolare alla festa: in que-sto nodo cruciale di solidarietà con la donna orbatain cerca della sua creatura perduta.Mater e matriarcadolorosa, essa s’accampa su una platea di teste a gri-dare la sua pena; eroina e primadonna, al cui con-fronto lo stesso Figlio, nelle ceree polpe delle suenudità mortuarie, risulta subalterno”48.

    Ancora, in una ripresa bufaliniana delle Metamorfosikafkiane, la Passione siciliana per le sconfitte ritorna inVincenzino La Grua, il protagonista de L’uomo invaso daun giorno all’altro posseduto non dal diavolo bensì daun angelo ‘benefico’ che s’impadronisce del suo corpo,del suo cervello. Come la Passione che irrompe in undramma sociale concepito come impermeabile ai poterifestivi, l’irruzione dell’angelo in La Grua punta a inva-derlo dall’interno di una purezza ancestrale che corri-sponde al ripristino di uno stato zero, alla totaleliberazione del suo “io” dalle convenzioni, dai pesirituali, dalle ossequiosità di tradizioni imposte e subiteda anni, da secoli. Dopo che un dolore sanguinante faesplodere dall’interno del suo corpo piume ed ali, l’an-gelo, anche qui, finisce per riconsegnare il corpo invaso diLa Grua ai “caroselli del traffico”, allo squallore ange-lico di una routine che lo vedrà “annunciare maternitàbenedette di porta in porta con un giglio nel pugno;vegliare col dito sulle labbra davanti alle camere deimoribondi”49.

    Si tratta di una Passione forse diversa da quella cheoggi, opportunamente, l’antropologia tende sempre piùa cogliere nei ruoli retorici e simbolici che essa svolgeentro reti sociali e politiche affatto restringibili alla solasfera folklorica50. La letteratura, daVerga in poi, cogliepiù che altro l’immagine paradossale dell’inutilità sto-rica, dell’evanescenza effettiva contrapposta alle preteseliturgiche, sfarzose, propiziatorie, catartiche abitual-mente attribuite agli eventi festivi. E’ uno sguardo, quellodegli scrittori, che smaschera l’efficacia sociale del ritofestivo, la finzione sacrale della rappresentazione, quelpotere tremendo e salvifico delle immagini di una viacrucis che qui, invece, abbiamo visto scorrere alte e paral-lele sul continuum feriale dei conflitti o del tutto subal-terne ai progetti materiali, sessuali, relazionali dei mimidi Lanza o Camilleri, pronte a svelare finzioni, masche-ramenti, silenzi, scomparse, le mortali invasioni cheemergono dagli sfondi, tanto iridescenti quanto assenti,delle festive rappresentazioni. Come i personaggi del suoGiorno di festa, per ironia della sorte Lanza finisce perprovare su di sé la distanza festiva, in una breve tragediabiografica che qui vale la pena di ripercorrere passopasso, dati i sorprendenti addentellati che rivela rispettoa una poetica che ha cercato di dipanarsi tra la disposi-zione verista, maturata in ambito letterario, e quellademo