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Alberto Manguel era un ragazzino di 16 anni di Buenos Aires, letteralmente malato di libri. La sua più grande aspirazione era vivere immerso tra la

carta e, per questo, trovò un lavoretto doposcuola in una libreria del centro. Ecco, un bel giorno entrò Borges. Voi immaginatevi di essere in libreria a spolverare gli scaffali fantasticando su Bellow e Mann ed entra Borges. Con la mamma ottuage-naria che lo apostrofa: “Oh Georgie (sic), non perdere tempo con l’anglosassone, studia il latino”.

Insomma, il Maestro, ormai quasi completamente cieco, prima ordinò dei libri assurdi che nessuno, in quella libreria, aveva mai sentito nominare e poi, apprez-zandone lo zelo, chiese ad Alberto se voleva essere il suo lettore serale, “perché la mamma si stanca subito”.

Da quel momento cominciò un’avventura fantastica per Alberto, ravvivata co-stantemente dall’intelligenza rivoltante di Borges che si faceva leggere tantissi-mi libri, li rimescolava mentalmente e arricchiva il giovane volenteroso di perle impagabili e, letteralmente, inaudite su Kipling, Henry James, Heine e chissà chi altro.

Manguel, nel tempo, è diventato un grande scrittore e saggista. Grazie, direte voi, anch’io se avessi avuto Borges che mi faceva la lezione serale e che, in un certo senso, pendeva dalle mie labbra sedicenni, qualcosa di buono con la letteratura avrei combinato. Certo, dico io, e grazie a questa –diciamocelo – immeritata for-tuna, l’ex-ragazzino ha prodotto libri notevoli tra i quali Una storia della lettura, da poco ripubblicato da Feltrinelli, in cui sembra trasparire un’idea degna del suo –diciamocelo – immeritato mentore.

In breve Manguel dice che non si legge semplicemente Delitto e castigo ma an-che quel Delitto e castigo, quella edizione, la ruvidezza o la morbidezza della car-ta, la macchiolina di caffé o l’improvvida orecchia d'un segnalibro mancante. Un libro ha una sua storia da raccontare al lettore in quanto oggetto, a prescindere dalla storia che effettivamente racconta. Il lettore, dal canto suo, ha una lettura “cumulativa e […] in progressione geometrica: ogni nuova lettura posa su ciò che il lettore ha letto prima” (p.28). Allora anche il lettore ha una sua storia da raccon-tare, a prescindere dalla storia che racconta.

Due mondi che si incontrano, libro e lettore, ognuno con la sua storia persona-le, e la dinamica di questo incontro è teorizzabile, quindi raccontabile anch’essa. Si potrebbe pensare allora a una vera e propria teoria della letteratura senza par-lare di letteratura.

E Borges sarebbe orgoglioso del suo figlioccio e, forse, anche un po’ di noi che l’abbiamo letto e che ci siamo battezzati in suo onore.

The GodfatherAlberto Mangueldi JACOPO CIRILLO

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Sommario

Visto che in questo numero succedono tantissime cose non ci perderemo nei soliti giochetti iniziali.

Benvenuti a Finzioni numero dieci, il primo in doppia cifra. Inizia una nuova rubrica, Donne & Compressori, di Alex Grotto, un metro-bookreader totalmente disorien-tato e confuso quando si trova a dover acquistare un og-getto di largo consumo che non gli è mai interessato parti-colarmente, un libro. Tuttavia, grazie a Finzioni, riuscirà a trovare la strada in questo diario/reality show che, pre-sto, porterà molte sorprese, come dire, multimediali.

Inizia un'altra nuova rubrica, Corrispondenze note-voli, di Greta Travagliati, dove si raccontano gli scambi epistolari tra scrittori famosi e persone totalmente scono-sciute che possono permettersi di essere arroganti e sup-ponenti con le menti più brillanti della storia.

Inizia un'altra nuova rubrica, Megaviaggi!, di Alessan-dro Pollini e Davide La Rosa, un'integrazione dell'ormai classico Viaggi con le vignette di questa gran bella perso-

Editorialena che, pensate, disegna i fumetti senza saper disegnare.

Basta, basta direte voi. Tutte queste novità in un colpo solo potrebbero paradossalmente farci perdere interesse nelle novità stesse, inducendoci a darle per scontate. E invece no. Concludiamo con orgoglio annunciando, ono-rati, un ospite d'eccezione, Alessandro Bonino (quello di Phonkmeister, quello di eiochemipensavo, quello di Spi-noza), che racconta del grande Learco Pignagnoli.

Mai come adesso non ci si può permettere di non legge-re Finzioni. Da questo mese in doppia cifra.

La Redazione

La citazione del mese 5

Le vite ortogonali 6

Libri (quasi) mai letti 7

Mitomania 8

Corrispondenze notevoli 9

Letterature Involontarie 10

Pillole di Scienza 12

Me lo copre il prezzo? 13

Oh, Scena! 14

Donne & Compressori 15

Megaviaggi! 16

La lettera che muore 17

Mattoni 18

Biografie edulcorate 19

I ferri del mestiere 20

La posta dei lettori 21

Metaletterari di carta 23

Ghost World 24

Iperboloser 25

Contributi da 26

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Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual emi-nenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di trovar modo di comunicar i suoi più reconditi pensie-ri a qualsiasi altra persona, benché distante per lun-ghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che sono nelle Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati? E con quale facilità, con l'accosta-mento di venti caratteruzzi sopra una carta.

Galileo Galilei

Aaaah, scrivere: che passione! Noi di Finzioni lo sappiamo

bene, anche se siamo più o meno tutti autodidatti. C’è invece chi dello scrivere ha fatto un mestiere e, contrario al vecchio adagio che recita “chi sa fare fa e chi non sa fare insegna”, ci ha guadagnato sopra.

Esatto, con i manuali di scrittu-ra (creativa). I manuali di scrittura creativa sono un po’ come il Grande Fratello o Uomini e Donne: tutti li snobbano, tutti negano di guardarli (i programmi) o di leggerli (i ma-nuali) ma se continuano a produrli (entrambi) significa che la doman-da e l’interesse ci sono, eccome.

Il manuale che pare sia conside-rato il migliore ce lo suggerisce Ste-phen King, dicendo che “la maggior parte dei libri sulla scrittura sono pieni di scemenze. Una rispettabile eccezione […] è The Elements of St-yle” di William Strunk jr. In questo libretto, per il quale bisogna rende-re merito soprattutto al curatore e

traduttore italiano, rispettivamen-te Mirko Sabatino e Stefania Rossi, si parla di tutte le possibili regole compositive, grammaticali, sintat-tiche e stilistiche per scrivere bene e correttamente. Come mettere le virgole, che termini usare e che termini dimenticarsi, quali segni d’interpunzione vanno usati dove e così via. Probabilmente Stephen King è così affezionato al manuale perché non si spinge troppo in là nella creazione della storia: si li-mita alla correttezza, lasciando la creatività a chi scrive. Non dice, per esempio, cosa si dovrebbe fare per inventarsi una trama o, ancora peg-gio, come si fa a creare personaggi credibili.

Per rispondere a queste doman-de dovete guardare dentro di voi, oppure leggere la Trilogia della città di K. di Agota Kristof. Che sembra un romanzo ma in realtà è un ma-nuale di scrittura creativa roman-zato. E, come tale, è tetragono alle critiche comuni di cui si parlava.

Senza raccontare troppa trama e rovinare la sorpresa, diciamo che il protagonista del libro è quello che scrive il libro stesso dall’interno, prendendo il nome e tratti del ca-rattere delle persone della sua vita e, a partire da loro, inventandosi dei personaggi e una storia che gli gira-no letteralmente attorno, come se delimitasse il proprio spazio vitale attorno al romanzo liberamente ispirato alla sua vita, romanzo nel quale lui è dentro fino al collo.

Allora forse questo insegnamen-to, un po’ complicato a dire il vero, sminuisce tutti i tentativi di descri-vere la scrittura creativa da fuori. L’idea di un romanzo che parla del-la propria genesi scritta all’interno del romanzo stesso, innescando dunque una matrioska da cui co-stitutivamente non si può uscire, abolisce la narrazione come pratica e la reifica in quanto pasta stessa dell’esistenza.

La citazione del meseElementi di stile nella scrittura e Trilogia della città di K.di JACOPO CIRILLO

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Plutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome

di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cer-cò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esa-minare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze.

Humbert Humbert

Come biasimare gli editori che rifiutarono di raccontare le gesta di Humbert Humbert? Humbert, sce-gliete voi se chiamarlo con nome o cognome, è il professore protago-nista di Lolita di Nabokov. Consi-derato un paria da buona parte dei lettori contemporanei, si invaghi-sce di un’adolescente, poi di lei si innamora, poi non può più resistere un giorno senza la sua Dolores e im-pazzisce. Così pazzo che dalla cella deve raccontarci la sua storia.

Humbert Humbert il pedofilo. In

Le vite ortogonaliHumbert Humbert vs Grenouilledi JACOPO DONATI

realtà è Humbert Humbert l’osses-sionato, l’Humbert che vive la storia d’amore più sincera della letteratu-ra, che non ci pensa due volte —e forse neppure una— prima di cac-ciarsi in qualcosa che non può che procurargli dei guai. Il suo proble-ma si rivela proprio il non riuscire a resistere a un’ossessione e a una passione travolgenti. Lui, pur ren-dendosi conto di quanto male sta facendo alla piccola Dolores Haze, non riesce a lasciarla andare, ad al-lentare la presa.

Alla fine la perde, la sua Dolores. E in quelle pagine dimostra che il sesso era qualcosa di secondario, qualcosa che in poco tempo è sfu-mato e scivolato in secondo piano.

Grenouille

La vita di Grenouille è spesso quella di un semplice spettatore, di uno che guarda gli eventi dall’ester-no. Süskind lo descrive nel Profumo come un giovane insignificante, e privo di odore ma dotato di un ol-fatto straordinario.

Impara a “costruire” profumi che lo facciano passare inosservato,

che attirino su di sé l’attenzione o che solletichino corde afrodisia-che negli animi di chi li assapora. Dopo aver percepito un profumo divino provenire da una ragazza, Grenouille decide di creare il pro-fumo perfetto. Comincia ora la lunga carneficina che lo porterà ad avere le “note” essenziali per la rea-lizzazione del suo progetto. Grazie alle sue doti di profumiere non solo riuscirà a farsi perdonare per i suoi crimini, ma indurrà chi lo circonda ad amarlo.

Portato a termine il suo scopo, Grenouille scopre che il suo proget-to non gli ha portato che la consa-pevolezza di non poter essere ama-to per quello che è davvero. Tornato a Parigi, in mezzo a un gruppo di barboni, si rovescerà addosso l’in-tera fiala di profumo e la passione suscitata da quell’odore lo farà let-teralmente sbranare da quanti sa-ranno nelle vicinanze.

Nella vita di Humbert Humbert, così come nella vita di Grenouille, l’ossessione fa da padrone: il tar-lo di Humbert sarà la bella Lolita, mentre quello di Grenouille sarà la creazione del profumo perfetto. Entrambi finiscono per compiere atti orribili pur di mantenere viva la propria ossessione, ma se Gre-nouille non mostrerà mai un rimor-so vero, il povero Humbert Hum-bert, riemergendo per un istante dalla sua follia, riconoscerà di aver privato Lolita dell’infanzia che ogni bambino merita.

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Temporeggiano, attendono, sbadigliano, s’impigriscono

senza ingiallire, marciscono sen-za maturare. Per quanto sparsi nel tempo e nello spazio, compongono una piccola folla, si chiamano con un unico nome: sono i quasi mai letti libri di poesia. I miei. Mangiati dalla mia indifferenza e resi invisi-bili, inservibili.

Non è che non ci provi: li cer-co, li compro, ne sono attratta. Poi però mi si polverizzano in mano fino a sparire. È un effetto strano e inconsulto, poco coerente e molto lontano dalla mia religione della pagina scritta. E i sintomi sono al-larmanti: mi accadono tutte le cose più terribili che possa fare o non fare chi si trova per le mani un libro di poesie. Salto quelle più lunghe; alla terza o alla quarta mi sembra-no tutte uguali; o tutte belle; o tutte brutte; non ne ho mai copiata una su un quaderno (tranne forse due eccezioni, al liceo) o dedicata una a qualcuno in una lettera; non ho mai letto per intero un libro di po-esie; non ho un poeta preferito; che siano versi di Shakespeare o versi di Baudelaire, provo all’incirca le stes-se sensazioni. Resto imperdonabil-mente distratta e distante, annoiata (dall’autore) e delusa (da me).

Le Odi, Orazio, Nel cerchio di un pensiero, Alda Merini, Todo el amor, Pablo Neruda, Dietro la por-ta, Emily Dickinson, Tutte le poesie, Montale, I sonetti, Shakespeare,

Libri (quasi) mai lettiGli indifferenti. Quando Alda Merini è uguale a Oraziodi MARIA GIOVANNA ZICCARDI

I fiori del male, Baudelaire (due edizioni, per essere sicura), Elogio dell’ombra, Jorge Luis Borges (spu-tiamo sul piatto in cui mangiamo), Mappamondi e corsari, Gian Luca Favetto, l’Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters, Poesie d’amore e dell’esilio, Ovidio.

Non sono poi molti in fondo, e anche se li ho contati e messi nero su bianco restano lì senza giustifi-cazioni, senza distinzioni, senza spiegazioni. L’unica cosa che so dire è che non c’è niente che non mi affascini nella poesia in sé per sé. In sé per sé, un verso ben fatto sintetizza tutto quello che la paro-la scritta può essere: è architettura di suono e immagine, assonanza e pienezza, può colpire o sfiorare, evocare o scolpire, così come sa tra-durre in metafora sa parlare senza mezzi termini. Ma è proprio l’in sé per sé il problema: datemi un con-testo! Agenti, riferimenti. Storie, una storia. Parole abbracciate da un inizio e da una fine, messe in cam-mino, coordinate in un senso che si moltiplica con altri sensi. Altrimen-ti, non trovo né totalità né mordente e mi annoio.

Così, finisce che la poesia la tiro fuori dalla prosa…sono tante le pagine di saggi e romanzi in cui ho trovato il senso e il gusto della poesia più perfetta. Quasi a dire che la prosa più perfetta è anche la poesia più perfetta, al punto che la differenza tra l’una e l’altra si scio-

glie e tu arrivi là dove si annullano etichette, endecasillabi, trame, fi-losofie, e restano soltanto l’essen-za stessa, la forza misteriosa della parola.

Può funzionare come scusa? Non funziona, ma è un bel fraintendi-mento e mi basta. Mi basta inciam-parci così nella poesia, rubarla dove si non va a capo.

Un’ultima nota: c’è un libro che non ho messo in elenco perché è l’unico che ho letto da cima a fondo. Ma non vale, perché l’ha scritto Ni-cole, che è una mia amica, e l’ha ap-pena pubblicato per una casa edi-trice di Rovereto, ed è bellissimo. E non vi dico il titolo, ché non sembri tutto una trovata pubblicitaria.

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dell’animale; poi prese le ossa e le camuffò sotto uno strato di gras-so profumato e lucido. Presentò a Zeus i due pacchetti chiedendogli di scegliere. Zeus optò per il gras-so e rimase fregato dal contenuto. Come al solito si infuriò parecchio, imprecò, lanciò le sue saette con-tro Prometeo, il quale se la rideva soddisfatto con i suoi amici uomi-ni credendo di essere stato molto scaltro. C’è da dire che l’ira di Zeus era dovuta più all’affronto subito da parte del titano che per aver vinto le ossa, di per se stesse molto preziose (si diceva contenessero il principio vitale); gli uomini quindi, che fino ad allora condividevano con gli dei l’immortalità, ma non l’eterna giovinezza, e si nutrivano senza fa-tica sedendo a tavolate intermina-bili che spuntavano dalla terra già imbandite di ogni prelibatezza, si erano auto condannati ad una vita da mortali, schiavi della loro stes-sa fame, costretti alla fatica della caccia e dell’agricoltura per poter sopravvivere. Ma liberi artefici del proprio destino. “Mangiassero pure le bistecche”, pensò Zeus, “ma cru-de”, e tolse il fuoco agli uomini.

La disputa poteva così conclu-dersi, se non fosse che l’amore di Prometeo è talmente sconfinato da spingerlo a rubare, con un altro inganno, il seme del fuoco a Zeus e riportarlo sulla Terra. Ennesima mancanza di rispetto che stavolta viene punita dal re degli dei con una delle sue trovate più sadiche: incatena Prometeo ad una rupe e manda un avvoltoio a divorargli il fegato, un supplizio eterno poiché

Non possiamo non voler bene a Prometeo, è come il fratel-

lo maggiore che tutti noi avremmo voluto: è più sgamato di noi (lo dice il nome stesso “colui che conosce prima”), è coraggioso, intelligente, astutissimo, insomma ha tutte le skills migliori. E’ anche bello come un semidio (è figlio di una ninfa e di un titano) ma non se la tira per niente: ci aiuta con i compiti di greco; ci insegna a contraffare la firma della mamma sul libretto del-le giustificazioni…ma cosa più im-portante di tutte, ci difende sempre dalla collera di nostro padre sfrut-tando l’ascendente che ha su di lui.

Ritornando ai tempi e luoghi del mito narratoci da Eschilo, Prome-teo è uno che è entrato nel giro giu-sto, ha guadagnato la stima di quel-li che contano servendo al fianco di Zeus nell’epocale guerra per la so-vranità sull’universo, combattuta contro la sua stessa gente, i titani. Ma, come dicevamo, è rimasto con i piedi per terra, anzi sulla terra. I contatti che ha nell’Olimpo gli sono serviti per civilizzare l’umanità: ha insegnato agli uomini la matemati-ca, la medicina, l’architettura etc…

La sua passione per la nostra raz-za ha destato più di una volta il ner-vosismo di Zeus. Come quella volta che gli uomini stavano decidendo quali parti di un toro sacrificare agli dei e quali tenere per sé stessi. Prometeo si intromise e pensò di raggirare Zeus con un trucchetto di magia spiccia: nascose le par-ti più gustose del toro dentro un involucro costituito dalle budella

MitomaniaChi te l’ ha fatto fare, Prometeo?di VIVIANA LISANTI

l’organo è destinato a rigenerarsi di continuo. Prometeo soffre terri-bilmente ma non rinnega mai ciò che ha fatto, continua a proteggere gli uomini e continua ad opporsi al dispotismo crudele di Zeus; anche quando gli si offre la possibilità di essere liberato, il titano non scende a compromessi e afferma il primato della sua libertà interiore.

Facile immaginare come questo eroe, benefattore del genere uma-no, abbia ispirato per secoli a veni-re la letteratura mondiale. C’è un poeta però che ne parla in termini diversi, ribaltando il punto di vista sulla vicenda. E’ Giacomo Leopar-di che nel 1824 scrive un’operetta morale dal titolo La scommessa di Prometeo. Immagina che ad un concorso bandito per designare la più importante delle invenzioni messe a punto dagli dei, vincano a pari merito Bacco per il vino, Mi-nerva per l’olio e Vulcano per un modello super trendy di pentola in rame. Prometeo si sente offeso: è certamente il genere umano la scoperta più lodevole, ed è lui a me-ritare il premio per aver lottato per la loro esistenza, emancipazione e progresso. Scommette con l’amico Momo, che tanto convinto non è, e gli propone di scendere in alcuni punti della Terra, a caso, per dimo-strare la somma perfezione degli umani. La disfatta del titano è tota-le: i due amici incontrano prima un uomo che sta banchettando con la carne del proprio figlio, poi una ve-dova esaltata che si da fuoco e infi-ne un padre di famiglia che ha mas-sacrato i propri cari in preda alla

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CorrispondenzenotevoliA suon di segni di GRETA TRAVAGLIATI

anni, dal 1903 al 1911, momento in cui probabilmente uno dei due, di-strutto, ha deciso di cambiare casa e sparire nel nulla per concludere questo strazio epistolare.

Fatto sta che non è ancora certo quanto la semiotica di Peirce deb-ba a questa signorina inglese che aveva in qualche modo deciso che la semiotica potesse al massimo essere una branca del Significs, e scrive a Peirce: “Sia ben chiaro, sono pienamente consapevole del

fatto che questa che voi chiamate “Semiotica” potrebbe anche esse-re considerata come una sorta di traduzione scientifica o filosofica della disciplina che, spero, verrà conosciuta con il nome di Significs. Ma non credo dovreste disperarvi del fatto che la vostra disciplina sia riconosciuta come qualcosa di più astratto, logicamente astruso e filo-soficamente profondo.”

Peirce si potrebbe essere offeso, al punto da “rubare” l’idea dello svilupparsi triadico del senso a Lady Welby? Peirce è abbastanza chiaro su questo: non le deve pro-prio nulla, anzi fa il gradasso e ba-nalizza le idee dell’amica. “Nulla di nuovo nel Suo sviluppo triadico del Significs: corrisponde grossomodo ai tre momenti del pensiero” (tra parentesi, grossomodo è una delle rare parole che i francesi preferi-

Charles Sander Peirce, noto filosofo e semiotico del 1900,

non era certo l’unico ad occuparsi, all’epoca, di studio dei segni. Da notare, fra tutti, la tenace Victoria Welby, che per avvalorare il suo pensiero scientifico si era inventata una terminologia su misura.

La sua teoria del significato si chiama infatti Significs (in italiano, “significo”, ma fortunatamente non siamo francesi, quindi possiamo risparmiarci le più azzardate tra-duzioni, quanto meno per i termini che non esistono.)

Colui che pratica la Significs, è il Significian. E via dicendo.

Di certo c’era di che strabuzzarsi gli occhi sulle lettere che si man-davano Peirce e Lady Welby: una corrispondenza durata ben nove

scono non tradurre. Si vede che gli piace molto. Solo che spostano gli accenti, come sempre, così diven-ta grossòmodò). Poi Peirce si sente un po’ in colpa, e decide che è me-glio mettere in chiaro una volta per tutte la relazione tra la sua filosofia e quella di Lady Welby. E’ stato in-fluenzato da questo Significs, che insiste sulla matrice pragmatica, contestuale, esperienziale del sen-so? Giunge presto ad una risposta formale: “Credo di no. Ma non pos-so che riconoscere il nostro accor-

do, né nascondere di aver letto ed apprezzato il vostro libro”.

Così, il mistero si infittisce. Gli esperti giurano che, da una parte, Lady Welby capisse poco o nien-te di quello che Peirce le scriveva. Ad un certo punto iniziò a parlare delle connessioni tra pragmatica e senso materno, ed il discorso filoso-fico si incagliò. Dall’altra parte, c’è chi giura che le due filosofie siano davvero troppo simili perché non si siano reciprocamente influenzate.

E la battaglia resta aperta.

noia esistenziale. A questo punto, mentre Momo lo sbeffeggia soddi-sfatto, Prometeo decide di non in-fliggersi ulteriori umiliazioni, paga pegno e se ne va. E la domanda re-torica che mi era sorta spontanea fin dal principio, leggendo Eschilo, si ripropone in tutta la sua portata: Chi te l’ ha fatto fare, Prometeo??

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Impara a stare al mondo. Il pic-colo Martin sente questa frase

di continuo. Suo padre, probabil-mente, non gli dice altro. Quando Martin impara a pedalare senza tenere il manubrio, quando scrive il suo nome nella sabbia con la pipì, quando diventa tutto rosso per un bacione della maestra e quando, la notte seguente, ha la sua prima polluzione, il padre lo aspetta al varco, pronto a tarpare quella vita insolente che in varie forme tenta di affiorare in suo figlio: “Impara a sta-re al mondo, Martin. Impara a stare al mondo”. E così Martin impara, o almeno ci prova. Ma più che altro studia. Studia e scrive. E scrive così tanto che a un certo punto si ferma e dice: “Cazzo è venuto fuori un li-bro”. Allora si palleggia in mano quel gran blocco di fogli e, valutan-done il peso, comincia a fantasti-care su un possibile titolo. Di get-to, ma non saprebbe dire perché, vorrebbe scrivere “Impara a stare al mondo”. Suo padre, che nel frat-tempo ha avuto un ictus e lo guarda ammutolito dalla poltrona, si limita a brandirgli il proprio indice seve-ro. “Mah – conclude Martin . pro-viamo con «Essere e tempo» e ve-diamo come va”. È solo a quel punto che Martin diventa Heidegger, il professor Martinheidegger. Ai suoi studenti ama ripetere che al mondo non si impara a stare perché, se sì è,

non si può che essere già al mondo. Esserci, dice il professor Martinhei-degger, significa essere-nel-mondo. L’essere dell’esserci è l’in-essere, cioè l’essere-nel-mondo. Gli stu-denti lo guardano un po’ basiti, ma hanno un esame da superare e così studiano, assimilano, nel peggiore dei casi mandano a memoria. Non possono immaginarsi il piccolo Martin che con grande perizia ori-na nella sabbia per disegnare il pro-prio nome. E così, dopo tre o quat-tro appelli, nasce l’esistenzialismo.

Il trapezismo lessicale di cui vi-brano le pagine di Essere e tempo tende a sdoganare l’idea che Hei-degger sia un cervellone per pochi eletti. In realtà la sua filosofia (rilet-ta a debita distanza dai suoi massi-mi esperti) è un clamoroso invito a vivere senza “menarsela troppo” o, per dirla ancora con i giovini d’og-gi, a “sciallarsi”. In questo consiste infatti la nozione di “appagatività”, con la quale Heidegger intende af-francare l’uomo dall’assillo della conoscenza (nonché dalla cono-scenza degli assilli), dicendogli in parole povere che il mondo non sarà dei secchioni che vogliono conoscerlo ma di chi vi si rilascia come a ciò che da sempre già si è: “Il mondo è già scoperto prelimi-narmente, anche se non temati-camente, in tutto ciò che in esso si

Letteratureinvolontarie“Sciallati”,disse Heideggerdi EDOARDO LUCATTI

incontra”. Insomma: esserci signifi-ca essere-nel-mondo ed essere-nel-mondo significa, in qualche modo, esserne appagati. E se qualcuno non avesse capito bene la faccen-da, never mind: “Questa familiarità con il mondo – dice infatti Martin – non richiede necessariamente una trasparenza teoretica dei rap-porti che costituiscono il mondo in quanto mondo”. In altre parole: rilassati, non c’è molto da capire. Non subito, almeno. Non ora. Poi si vedrà. Cazzo facciamo sta sera?

È proprio qui che insorge il nerd, l’essere votato alla tematizzazione di tutto ciò che incontra, uomo che nega l’esserci, esterno a ciò cui gli altri sono interni, adeso – piutto-sto - all’esservi, all’esservi cioè co-stitutivamente di fronte, strumenti di misurazione alla mano. Quan-do si ammala di se stesso, il nerd diventa Sheldon Cooper, un fisico teorico affetto dalla sindrome di Asperger, forma di autismo che impedisce alla mente di aggan-ciarsi alla realtà esteriore, di leg-gere fra le righe, di interpretare la mimica facciale altrui. Sheldon è un genio, ma il suo sconcer-tante quoziente intellettivo può approcciarsi a cose e persone solo estensiva-mente, solo cioè per come esse si mostrano effet-tivamente. Una vita, per così dire, i n t e g r a l m e n t e alla lettera, che non conosce sar-casmo. Al vec-chio Heidegger, secondo cui capi-re conta il giusto e l’importante è

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Verbosometro

Ritaglia il verbosometroe attaccalo sulla schiena

del tuo amico verboso

sentirsi dentro al mood della not-te, Sheldon – i cui unici amici (212) sono tutti su myspace – preferisce Cartesio, per il quale l’unica via di accesso genuina alla realtà è l’in-tellectio. Il conoscere, insomma e - come ridacchia Martin sbragato sul divano – “il conoscere fisico-matematico. Per Cartesio è auten-ticamente ciò che la matematica conosce. Ciò che in un ente si rende accessibile attraverso la matemati-ca, ne costituirebbe l’essere. Ah ah ah.”. Se Sheldon numera, incasel-la e categorizza ogni cosa, Martin gli dice che lo può fare solo perché tutte le cose che numera le ha già incontrate nel loro con-esserci. Sheldon inorridisce, il solo uso dell’avverbio “con” lo raggela. Il dott. Cooper, come scrive Martin “conta gli altri senza contare su di loro seriamente e senza voler avere a che fare con loro”. E questo per-ché al mondo ci sono altri e Altri. Quando Sheldon pensa agli altri

ragiona per superfici di separazio-ne, pensando a come tenere gli altri lontani dal suo divano, dalla sua tazza, dal suo laboratorio. Quando Martin pensa agli altri, invece, ra-giona per volumi di coinvoluzione: non si riferisce cioè a “coloro che re-stano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche. Il mondo dell’esserci – appunto – è con-mon-do”. Resse, orge e feste, insomma. Tutto Essere e Tempo, in definitiva, può essere letto come la negazione della nerditudine, e tutta la ner-ditudine può essere letta come la negazione di Heidegger: “L’Esserci ha una tendenza essenziale alla vi-cinanza”, scrive Martin. “Avvicinati e nuclearizzo l’area”, gli risponde Sheldon.

Ma se vi lasciassimo così, l’avremmo fatta troppo facile. Per-ché per quanto Martin finga di sciallarsi, l’indice severo del padre che gli intima di imparare a stare al mondo non cessa di tenere banco e di rinfacciare al figlio la sua inetti-tudine. Heidegger, infatti, ammette che l’Essere-con, “innanzi tutto e per lo più, si mantiene nei modi di-fettivi, o almeno indifferenti, cioè nell’estraneità del trascurarsi reci-proco”. Insomma, quella tendenza essenziale alla vicinanza non ci esime dalla fatica di fare davvero conoscenza l’uno dell’altro, ren-dendocela piuttosto improrogabile. “E quando poi la conoscenza reci-proca si perde nella modalità della dissimulazione, della reticenza e della simulazione – dice Martin - l’essere-assieme richiede particola-ri procedimenti per avvicinarsi agli altri e «penetrare» in essi”. Esat-tamente la condizione di Sheldon che, vedendo un uomo sorridere e trovandosi intrappolato nelle pro-prie ipotesi, chiede conforto a un amico che gli siede accanto: “Sa-rebbe gioia quella lì?”.

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Verbosometro

L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di

verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e

l’avvolvere.

Da 0 a 5 espressioni verbose.Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire.

Da 5 a 10 espressioni verbose.Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana.

Da 10 a 15 espressioni verbose.Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa.

Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce - per ovunque - si dissipa.

Più di 20 espressioni verbose.Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo.

Ve l’ho già detto: la scienza è bella e la bellezza influenza

la scienza. Questioni di simmetrie e di gusti. A volte aiutano, per il buon vecchio Einstein fu così, come ab-biamo già visto. Ma non è sempre domenica, diceva un prete svo-gliato. C’è infatti chi, pur avendo ottime intuizioni, si fa prendere da idee bizzarre e “carine” prendendo cantonate colossali.

Il migliore di questa categoria fu senza dubbio il grande John New-lands, che passò alla storia per la sua “teoria delle ottave”, un’inter-pretazione errata di una grande ve-rità, e per essere stato uno dei mille

di Garibaldi. Mica male!

Costui fu il primo a notare un an-damento periodico degli elemen-ti, osservando che le proprietà di questi si ripetevano ad intervalli di otto. Piccola doverosa digressione: gli atomi sono formati da un nucleo (positivo) attorno al quale orbitano gli elettroni (negativi). Il numero degli elettroni è tale da bilanciare le cariche positive del nucleo. Que-sti elettroni orbitano attorno al nu-cleo su orbite ben precise, con delle “traiettorie” che si vanno a ripetere ogni otto elettroni, cambiando solo la distanza che li separa dal nucleo. È così, se non vi fidate studiatevi la meccanica quantistica, che è una bella scienza.

Ora, le proprietà degli elemen-ti dipendono essenzialmente da come questi elettroni stanno at-torno al nucleo, e quindi ogni otto elettroni le caratteristiche degli atomi tendono a riproporsi. Men-deleev razionalizzò questi compor-tamenti nel sistema periodico degli elementi: la tavola periodica che tanto fa penare chi studia chimica ma che al suo interno contiene tan-ta sostanza, anche se difficilmente visibile.

Newlands invece di razionaliz-zare questi andamenti di otto in un diagramma che fece? Un bel paral-lelismo tra gli andamenti periodici

degli elementi e le ottave musicali. La teoria delle ottave. Fu ovvia-mente deriso da tutti gli scienziati nel giro dell’uno. Che ci azzecca-no le note musicali, anzi, le ottave musicali con gli andamenti delle proprietà degli elementi chimici? Nulla!

Ma accostare le due cose non era male... era tutto sommato bello, per un garibaldino a cui piaceva la mu-sica poi! Una specie di new age ante litteram...

Pillole discienza1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8.di FABIO PARIS

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Me lo copre il prezzo?Confessioni stra-ordinarie di unvetrinista fallitodi LICIA AMBU

mento morale, tanto per dire. Si po-trebbe spararsi una semiotica della vetrina e cercare d’inferire quali meccanismi la abitano così che poi ci si regolerebbe di conseguenza. Tipo se il morbo è cromatico niente più fila di supercoralli:

- Vorrei il libro che è in vetrina.- …- Quello lì mi sembra verde, forse

di cucina.

Per una tacita legge, comunque, pare che in vetrina ci debbano an-

Fare la vetrina è complicatis-simo. Tanto per cominciare

o hai troppa roba nuova da voler mettere oppure non c’è uno strac-cio di novità. La cosa, in verità, è più spirituale, si pretende in effetti di voler dare un qualche messag-gio subliminale o meno. Su una scala da 1 a 10 può andare dal ecco guardate, questo è ciò che il mercato editoriale ha prodotto nell’ultimo quarto d’ora, al più semplice abbia-mo messo questo perché è dovere di un qualche ordine metterlo e spe-riamo sinceramente di trovarvi una ragione, però accanto ci sono titoli bellissimi che abbiamo scelto noi. La maggior parte delle vol-te temo la crisi epilettica nel dover stare dietro a tanti titoli diversi alla ri-cerca di un senso che non sempre è palese. Consi-derando che succede a me che i libri in vetrina ce li infilo, non oso im-maginare i voli pindarici che toccano ai curiosi. Mi dico che ci vorrebbe un quarto d’ora e uno sga-bello per guardarli tutti e soprattutto il punto di fondo è che il mio senso non è universale, tanto meno univoco, quando c’è. Però, se ci fosse, allo-ra ognuno potrebbe trar-ne quel che vuole un po’ come una parabola, sen-za l’obbligo del discerni-

dare le novità, a volte le quantità e perciò spesso i potenti. La questio-ne si fa più difficile, metafisicamen-te parlando. Altra roba, insomma. Resta che io non lavoro da Feltri-nelli, con i commessi del quale con-divido solo l’aspirazione al titolo di libraio e null’altro, lavoro in una libreria indipendente sicché doma-ni non mi chiamerà Mondadori per comprarsi un terzo del mio spazio su strada, che detto fra noi sarebbe si e no un metro per due, e perciò nemmeno tanto conveniente; al massimo riceveremo qualche stra-

na richiesta

- Libreria buongiorno- Buongiorno signori-

na, sono un vostro cliente- Prego, mi dica- Vorrei fare il taglian-

do della mia Opel E allora pensando-

ci, in vetrina, preferirei metterci due tizi enormi seduti a fumare la pipa che leggono un libro pri-vo di sovraccoperta e si spaccano dalle risate così che poi chi passa possa decidere se entrare op-pure sedersi all’esterno, per guardare due tizi enormi che leggono men-tre fumano la pipa, nella vetrina di una libreria. Indipendente, sia detto.

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sono abbeverato dalla fonte di Pi-gnagnoli, poiché il conoscere pre-vede normalmente una presenza, una presenza che Pignagnoli non può e non vuole dare: Pignagnoli è un autore che non c’è, e se esista o se non esista non è dato saperlo, ma quel che è importante è che non c’è, dato che ha eletto a sua filosofia l’Assenzialismo, che consiste es-senzialmente nel non esserci come pratica.

Se si prova a telefonare a uno dei novantuno Pignagnoli presenti sul-le pagine bianche, concentrati per-lopiù in provincia di Reggio Emilia – io ho provato – vi risponderanno che lì non c’è nessun Learco, e che non lo conoscono. Diventa chiaro, telefonando, ed è un’esperienza che consiglio a tutti – telefonare a dei Pignagnoli a caso in provincia di Reggio Emilia chiedendo di Le-arco – diventa chiarissimo che il tentativo è inutile: Learco non c’è e non ci sarà mai, e non è casuale che esista un’immagine di J.D. Salinger, autore autorecluso scomparso di recente, non è casuale che ne esista una di J.D. Salinger che spinge tutto incazzato un carrello della spesa e che non ne esista nemmeno una di Learco Pignagnoli. E non è casuale che si facciano convegni e letture di e su Learco Pignagnoli, alle quali lui non partecipa mai. E non è ca-suale che io, in questo momento, stessi cercando il libro delle Opere Complete di Learco Pignagnoli, sen-za riuscire a trovarlo per almeno una decina di minuti. Perché Pi-gnagnoli non c’è, e sfido chiunque a provare il contrario.

Se non c’è niente da ridere vuol dire che non c’è niente di tragico, e se non c’è niente di tragico, che

valore vuoi che abbia.

(Opera n. 161)

Salve, sono simone rossi. Questo mese non ho scritto Oh, Scena! per-ché ho scritto un libro nuovo (http://phonk.it/sbrisolonando). A pro-posito di phonk, questo è un pezzo gentilmente concessoci da Alessan-dro Bonino, cioè Phonkmeister, cioè eiochemipensavo, cioè Spinoza (insieme a Stark, Luca Barbareschi e un sacco di altra gente). E niente, io quando ho visto la storia dello scrittore che non esiste mi sono inna-morato, e dovreste proprio innamo-rarvene anche voi. Al mese prossimo, giuro.

“Learco Pignagnoli, ammes-so che esista, è filosofo e

maestro di tutti noi”.

Ho conosciuto Pignagnoli nel 2004, a Torino, era maggio: Paolo Nori aveva letto alcune delle opere, che poi sarebbero state raccolte da Daniele Benati nel volume Opere Complete di Learco Pignagnoli, edi-to da Aliberti nel 2006; Paolo Nori aveva delle fotocopie, tutte scara-bocchiate, e sulla prima c’era scrit-to soltanto Learco Pignagnoli, e poi sotto Opere Complete. Ho detto che ho conosciuto Pignagnoli, ma avrei potuto usare una metafora come mi

Si dice nell’introduzione alla raccolta delle Opere Complete che la sua biografia “resta per ora del tutto incerta, avendo egli trascorso gran parte della vita da uomo schi-vo e solitario, apolitico e anarchico, senza famiglia e senza falsi amici. Come è stato detto, Learco Pigna-gnoli brilla di luce propria nel cam-po della nostra letteratura contem-poranea, perché la sua presenza corrisponde radiosamente ad una massima assenza”.

Questo libretto piccolo e nero ricorda molto un breviario da pre-ti, e se uno andasse in giro con il libro delle Opere Complete di Le-arco Pignagnoli potrebbe essere facilmente scambiato per un prete in borghese, e uno lo guarderebbe, penserebbe Che strano questo pre-te, che magari uno mentre legge le Opere Complete ha su un giubbotto di pelle, o un eskimo, e magari sotto il giubbotto ha una maglietta colo-rata, o di qualche gruppo musicale un po’ underground, e magari degli anfibi, o delle scarpe da ginnastica; avrebbe senso, per il passante non avveduto, scambiare il lettore di Pignagnoli per un prete, per uno strano prete: leggere Pignagnoli è un atto trasformativo che rende immediatamente adepti del culto, leggere Pignagnoli in pubblico è come partecipare a una messa paz-za. Per me, le Opere Complete di Le-arco Pignagnoli sono un po’ come la Bibbia; io, se cerco delle risposte, in quel libro lì le trovo, invariabilmen-te. E chiedersi se Pignagnoli esista o non esista, è un dubbio che è molto simile al chiedersi se esista o non esista Dio.

Oh, Scena!Oh, Learco!di ALESSANDRO BONINO

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avvicina sempre più a tutte quelle situazioni di inadeguatezza adole-scenziale che inesorabilmente si-gnificano fallimento, come quella volta che non potei pomiciare con Clara della terza B perchè lei voleva parlare solo di Asimov, Baudelaire e Murakami, ma io la bloccai dicen-do che i loro dischi mi mancavano: grezza figura, clamorose pive nel sacco e lezione sull'utilità sociale-trasversale della Letteratura appre-sa.

Lancio un'occhiata a chi sta die-tro il bancone, a chi di gente come me ne vede a ondate da anni: lui sa che io non so e farà qualcosa per farlo capire anche agli altri, quel-li che mi derideranno per la totale assenza di gusto letterario e per aver invaso, con il mio accento da lettore potenziale mai realizzatosi, la sacralità del luogo in cui si ven-de la parola stampata. Inizio a gri-dare “Se fossimo in un negozio di dischi, vi farei vedere io! Vi sisteme-rei tutti!” mentre nella mia mente viaggiano scene di Daniel San che minaccia biondini cotonati col ki-mono nero. In realtà tutto ciò che mi esce sono grugniti mentre cerco l'uscita.

Forse l'origine del mio problema è legata all'humus umano di cui mi circondo: non ho una guida spiri-tuale che mi indirizzi sulla giusta via, magari con la più variegata verbosità possibile. Non frequento individui colti, nè lettori accani-ti a parte un tizio appassionato di audiolibri, ma superati i ventanni e senza disfuzioni debilitanti l'au-

Io sono un lettore potenziale, o metro-bookreader, come ose-

rebbe etichettarmi qualche gior-nalista ossuta di Cosmopolitan tra uno Zoloft e l'altro, magari in un articolo che parla di quei tizi che leggono libri quindici giorni all'an-no sotto l'ombrellone e usano le nozioni apprese per montare finis-sime discussioni a base di dietro-logia sui templari alla macchinetta del caffè. Io non sono così, il mio problema è più grave e si chiama “sindrome della Donna e del nego-zio di ferramenta”. E' una patologia meno diffusa della gastrite, ma più diffusa del votare a sinistra e rite-nersi soddisfatti: consiste nell'esse-re totalmente disorientati e confusi quando ci si trova a dover acqui-stare un oggetto di largo consumo che non ci è mai interessato parti-colarmente. Come un compressore per una donna o un libro per me. I sintomi appaiono evidenti al mio ingresso in una libreria; mi aggiro tra gli scaffali come gli adolescenti che cercano i pusher alla stazione, aspetto che qualche copertina mi faccia un segnale: un titolo accat-tivante, il vago ricordo del nome di un autore, va bene anche il bieco marketing di una bella illustrazio-ne.

Mi sento più fuori luogo di un tedesco in campeggio al mare, anzi no, mi sto letteralmente tra-sformando in un tedesco al mare. Cambio accento, mangio un paio di unghie, mi accorgo di indossare i sandali coi calzini, ho voglia di mu-sica dance tristissima. Il crescen-te disagio che sto avvertendo mi

diolibro è come girare in bici con le ruotine e il pezzo di cartone tra i raggi, è appagante solo se schivi i cocci dell'imbarazzo. La sola soddi-sfazione rimastami in ambito lette-rario è il rifugiarmi nel caro vecchio “mal comune mezzo gaudio”, ovve-ro la consapevolezza di non essere il solo qui fuori a provare tutto que-sto sotto la pioggia dell'ignoranza. Siamo in molti ridotti così, ma ba-sta la prima mossa di uno soltanto per salvarci tutti: da oggi il proiet-tile lo beccherò sempre io per voi e Donne&Compressori sarà il nostro ballo di fine anno dei telefilm da teen-ager, il riscatto degli sconfitti. Parlerò di libri letti a stento tramite impressioni sbagliate infarcite di pregiudizi e luoghi comuni, perso-naggi inutili che mi hanno colpito; questa rubrica sarà il diario di un giovane dalla cultura mediocre che proverà a redimersi seguendo le idee, le esperienze e i consigli di chi legge Finzioni e vuole adottare un potenziale lettore e reale fallito.

Da oggi, entrerò in libreria gri-dando “Ehi, ho qui con me un Fin-zioni Magazine e non ho paura di usarla!”

Donne & CompressoriIntroduzionedi ALEX GROTTO

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Sempre caro mi fu quest'ermo Apple, e questo schermo, che

da tanta parte de l'ultimo orizzon-te il guardo esclude. Come si può capire dall'intro leopardiano non solo adoro Giacomo Leopardi (Can-ti, Garzanti, 422 pp. 8,50 euro) ma anche il mio iBook G4, che dopo settimane di riparazione è tornato a casa. Purtroppo quel giorno in un momento di ira non ho trovato di meglio da fare che prendere a pugni tutto quello che mi passasse sotto mano. La prossima volta prendo a pugni il forno, che tanto non lo uso mai. È andata decisamente peggio alla statua del Buddha sbriciola-ta a martellate. Non che al povero Siddharta fosse andata meglio ne I vagabondi del Dharma (di Jack Kerouac, Mondadori, 272 pp. 8,50 euro): con la scusa dello zen tutti si strafacevano di canne bevendo come spugne, e dire che il buon Siddharta, almeno a quanto ci insegna La vita di Buddha nei testi del canone pali (Ed. Xenia, 192 pp. 10,33 euro) era dovuto passare da anni di ascetismo estremo prima di raggiungere il Nir-vana. Anche Hermann Hesse racconta del Buddha e ne fa un romanzo molto bello ma molto Hesse (Siddharta, Adelphi, 198 pp. 9 euro) per non parlare di chi insegna Come diventare un buddha in cinque settimane (di Giulio C. Giacobbe, Ponte alle Grazie, 136 pp. 6,20 euro). In-somma, qua mi sembra si esa-geri, non è che possiamo tutti scrivere del Buddha, oppure se lo facciamo non lamentiamoci

se poi Dio confonde gli haiku con il sudoku (Dio di Davide la Rosa, Ca-sini, 250 pp. 14,90 euro).

Una volta per provarci con una, sapendo che le piaceva il Buddha Bar, quel locale carissimo pieno di musica inclassificabile vagamente new age ed un po' elettronica, ho stampato per lei dal sito della Ca-non un Buddha cartaceo da monta-re. Povero Buddha, ridotto al rango dei Winnie the Pooh da merchan-dising estremo. Un po' come dice Margherita F. in Guide pratiche per adolescenti introversi: «Winnie the Pooh è un morbo malvagio indivi-duabile nei pressi dei corpi acerbi delle tredicenni estroverse. Giace pendulo sui loro cellulari e zaini, moltiplica la sua effige su magliet-

te e felpe, è plastico, peloso, vitreo, virtuale, gommoso, ligneo». Co-munque meglio così che ritrovarsi protagonista di un testo come Il Tao di Winnie Puh (di Benjamin Hoff, Guanda, 136 pp. Fuori catalogo). Al-tro che Buddha! Mi porto al livello di Winnie the Pooh, anzi, al livello dei Pooh, e cantando Piccola Ketty vado al Buddha Bar a Parigi come Paolo Bitta in Camera Cafè. Quan-ti caratteri mancano ancora alla fine dell'articolo? Non so, proporrò a Davide la Rosa di realizzare una vignetta più grande, tanto lui mica fa fatica, basta alzare il cielo e dise-gnarci su due nuvole!

vignetta:DAVIDE LA ROSA

Megaviaggi!Analisi Finzioni del testodi ALESSANDRO POLLINI

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è l’oralitura? Mi domanderete voi lettori fidati. Beh, l’oralitura è un ibrido mediale fra l’oralità e la scrit-tura, e il termine è evidentemente una crasi di queste due “tecnologie della parola”.

E che ce ne frega a noi dell’ora-litura? Diranno a questo punto i lettori meno fidati. Probabilmente niente, ma lasciate che vi citi un passo della tesi, a sua volta carpito da La lettera che muore del buon vecchio Frasca.

“Percepire i cambiamenti è pra-tica che necessita dei più rigorosi esercizi di estraneità. Ma i cambia-menti culturali, fortunatamente, non lasciano invariate le coinciden-ze spazio-temporali fra un punto di osservazione e un punto osservato. Le modificazioni della cultura, in-tesa come trasmissione del sape-re. Impongono una ridefinizione complessiva dello spazio fisico, un ridisegnarsi dei rapporti e una con-seguente rilettura del mondo. Le cose della cultura mutano, e sebbe-ne con maggiore lentezza di quanto l’ansia del nuovo non finisca ogni volta col desiderare, comunque sempre più rapidamente dei nomi che ne sono cancelli e custodi. Ecco perché la necessità di coniare nuovi termini per seguire gli andamenti di queste trasformazioni: per non rimanere aldilà del cancello e fermi nella strada dell’evoluzione cultu-rale”.

Ecco perché l’oralitura.

Tutto questo per dimostrare che

Questo mese ho proprio ri-schiato di non riuscire a

scrivere il mio pezzo. Se state leg-gendo, beh, sappiate che il rischio di non leggere quello che state leg-gendo è stato altissimo. E se siete dei lettori fidati, mi scuso preven-tivamente per quello che vi appre-state a leggere. Non perché si tratti di cose balorde e senza senso, ma perché il tempo che vi ho dedicato è decisamente minore di quello che voi cari lettori fidati meritereste. Mi scuso soprattutto perché quello che state per leggere è frutto di una vera e propria operazione di riciclaggio. Come vi dicevo, queste righe hanno fortemente rischiato di non vedere la luce, e il motivo essenziale è che da un paio di mesi a questa parte mi sono impegolato a scrivere una tesi mastodontica per le mie limi-tate capacità intellettuali, una tesi talmente mastodontica che sta let-teralmente assorbendo tutto il mio tempo, perciò da due mesi a questa parte non faccio altro che leggere per la tesi e scrivere per la tesi. La mia vita è la tesi, e così ho deciso di scrivere qualcosa sulla mia tesi.

Poco male, infatti uno dei testi cardine della mia tesi è proprio La lettera che muore del buon vecchio Frasca, che ha sempre un po’ di cose intelligenti da dire, e perciò gli argomenti non potrebbero essere più calzanti per questa rubrica che voi lettori fidati leggete con tanta passione che spesso io mi emozio-no.

L’argomento principale della mia tesi è l’oralitura. E che diavolo

l’ibridazione di due media può aiu-tare a riflettere criticamente sulle cose del mondo. Ma soprattutto per proseguire la strada dell’evoluzione culturale. Che per me in questi mesi è significato, tra le altre cose, legge-re alcuni libri che probabilmente non avrei mai letto senza questa tesi. Things Fall Apart di Chinua Achebe è un tragico grande Gatsby africano mescolato a un saggio di etnologia. The Palm-Wine Drinkard di Amos Tutuola è un fantastico viaggio in un carnevale africano a metà tra le novelle boccaccesche, la fantasia più oscura di Hoffmann e lo sperimentalismo linguistico di Joyce…

Detto questo concludo, e mi scu-so ancora con i lettori fidati. Spero di avervi offerto comunque qual-che spunto interessante. Vi siete accorti che ho tentato di scrivere mantenendo il più possibile uno “stile orale”? Forse no… in ogni caso questa dovrebbe essere più o meno l’oralitura. Già mi fischiano le orecchie per i commenti malevoli dei lettori poco fidati, ma non m’im-porta. Mi importate voi, cari lettori fidati, e fidatevi che dal prossimo mese tutto tornerà come prima. Il 26 febbraio consegno la tesi e poi sarò tutto vostro.

La lettera che muoreMi scuso con i lettori fidatidi MICHELE MARCON

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trattenimento (pochi ma esistono).

Opera postmoderna per antono-masia, giunta in Italia – per nulla clamorosamente, ci mancherebbe – con trentaquattro anni di ritar-do, JR soddisferà immensamente i lettori tormentati, nevrotici, inca-paci di rapportarsi pacificamente all’universo-romanzo: quei lettori che, per farla breve, non si esaltano più di tanto di fronte a una storia ben raccontata, a una trama pia-cevole e conciliante o a trovate più o meno plausibili e interessanti, ma che viceversa concepiscono la letteratura più che altro come un serbatoio di idee, motivi, tic, occor-renze stilistico/formali – i mattoni a partire dai quali si edifica la storia letteraria – da cui estrarre, anzi-tutto, arricchimento euristico: lo stesso godimento che si ricava dal-lo smontare una macchina per ve-dere come funziona il motore, più o meno. Per questi soggetti borderline puntualmente bistrattati – non ve-nitemi a dire che è socialmente ben accetto chi ammette di leggere con gusto, poniamo, L’uomo senza qua-lità – Gaddis è autore come solo po-chissimi altri capace di soddisfare questo malsano bisogno, offrendo nel corso della sua opera un vasto compendio di enciclopedismo let-terario applicato: per esempio uti-lizzando compulsivamente per tre quarti del romanzo lo strumento del dialogo, modellando certosi-namente la storia sulla falsariga dell’Anello dei Nibelunghi wagne-

Ultimamente non si fa altro che parlare di 2666 di Ro-

berto Bolaño: pare lo stia leggendo chiunque e che chiunque ne sia entusiasta – l’amante di world li-terature di cui alla scorsa puntata, figuriamoci, ne andrà matto. Sì, magari prossimamente lo leggerò anch’io, nonostante sia stato stam-pato in un formato piuttosto delu-dente e inservibile ai fini di questa rubrica – pare che anche Adelphi abbia ceduto alla moda imperante di tascabilizzare libri che invece dovrebbero pesare (e costare) tan-tissimo. Poi, ovviamente, occorrerà valutare se si tratti o meno di “mat-tone” – mi pare improbabile, visto e considerato che all’unanimità le re-censioni dicono di un libro intelli-gentissimo e brillantissimo, mentre non accennano mai a noia, smaro-namenti o a drammi della lettura, cose invece piuttosto comuni nella fenomenologia della lettura lateri-zia.

Vabbè, pazienza. Fortunata-mente quest’anno mia zia non ha ceduto all’hype e per Natale mi ha regalato JR di William Gaddis – non si sa bene perché: di solito regala sciarpe o cinture o dà la paghetta. Come sempre non avendo niente di meglio da fare, durante le feste ho deciso di leggerlo. Dio che mattone! Una cosa immensa, intendiamoci, ma pure illeggibile, sfiancante, pe-sante oltre ogni limite, tediosa, tra-gica: insomma il non plus ultra per gli amanti della letteratura anti-in-

riano – non sono stato io a notarlo eh – o abolendo la canonica suddi-visione in capitoli e optando per un unico ponderoso piano sequenza in cui si affastellano situazioni, moti-vi, decine di personaggi, tic lingui-stici, gradazioni prospettiche.

Un buon esempio di massima-lismo intransigente, insomma – astenersi romanticoni, cercatori di storie struggenti e simili, ci siamo capiti –, cui d’altra parte l’autore ci aveva già abituato con il grandioso Le perizie, un libro pesantissimo, pedante, tragico e tetragono sim-paticamente descritto da un utente di ibs come un mattone di fronte al quale «è facile che il lettore non sappia di cosa cavolo l'autore stia parlando e che muoia di noia prima della metà della quarta pagina».

Detto questo, Gaddis non manca di spiegarci due o tre cose fonda-mentali su come gira il mondo: JR, in soldoni la storia di un ragazzino undicenne che crea un impero fi-nanziario trattando in borsa dal telefono della scuola, è per esem-pio, tra le altre cose, una parabola nerissima sul mercato finanziario e sulle sue drammatiche derive: motivo per cui sarebbe ottimo leg-gerlo oggi in tempi di crisi, tempi in cui trovare qualcuno disposto a pagarti decentemente per qualsiasi prestazione offerta è cosa letteral-mente impossibile: vi prego datemi un lavoro o inviatemi dei soldi, dico sul serio, ne ho bisogno.

Mattoni"JR" di William Gaddis, Peso: 2,7 kgdi FILIPPO PENNACCHIO

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cia e di disperazione. O forse no. Ma comunque.

Al bando! Quando la City Lights Bookstore di San Francisco, pro-prietà di un certo Lawrence Ferlin-ghetti, poeta, pubblicò, nel 1956, il poema Howl, la benpensante opi-nione pubblica statunitense non aspettava altro: al bando. Il primo emendamento. Libertà. Di culto. Di parola. Di stampa. La censura. La galera. La galera.

Ci vollero nove (9) esperti di let-teratura. Ci volle un giudice. Ci volle il senno del giudice. Alla fine vinsero loro, i poeti.

E il beat hotel. A Parigi. Il beat ho-tel. Tutti questi beat, nelle loro stan-ze, a fumare, a bere, a vivere di ispi-razione, a scopare donne a scopare uomini a scopare tra loro, a fare la storia, a scrivere poesie, a scrivere romanzi, a scrivere cose.

Per dire, Allen ha scritto Kad-dish, a Parigi. Il poema per la ma-dre, per Naomi Ginsberg, donna pazza, donna elettroshockata, don-na internata.

E poi fu Londra, la Royal Albert Hall, i reading gratis, Bob Dylan, l'India, il Krishnaismo, il National Book Award, il cancro al fegato, la morte nel 1997.

Il verso lungo di Ginsberg è il

Ah, la beat generation! Ah, San Francisco! Ah, New York! Ah,

le psichedeliche devianze divine del Peyote! Come vorrei, anche solo per un minuto o due, essere stato lì. Con l'ebreo Allen e con Jack e con Lawrence e con Gregory e con Neal.

Cisco, anni '50. Allucinazioni uditive: un paio di palline colorate, vino, jazz, cannoni a minacciare il mio culo vergine e forse un reading alla Galleria Six. Ah!

Perchè, perchè bisogna sapere che Allen Ginsberg la sua allucina-zione uditiva, che io non avrò mai e tu nemmeno, l'ha realmente avuta: Harlem, anno del Signore 1948: leg-gono una poesia di William Blake: Allen è in estasi: Allen sente la voce di Dio: Allen sostiene di non essere fatto. Ah!

Insomma io, io della beat gene-ration potrei stare qui a scrivere giorni, settimane. Ma non è que-sto. E' che Allen Ginsberg ha scritto una roba che, che mi ha turbato per mesi, che mi turba oggi, ancora.

Cisco, ottobre 1955.

"I saw the best minds of my ge-neration detroyed by madness, starving hysterical naked, dragging themselves through...".

Infinito, inarrivabile, inegua-gliabile urlo di disagio e di denun-

BiografieEdulcorateAllen Ginsbergdi ANDREA MEREGALLI

figlio buono del verso lungo di Whitman. Con la differenza che Ginsberg è immagini. E' immagi-ni. E' musica psichedelica. E' gior-nalismo gonzo in versi. E' sfaccia-tamente frocio. E' dannatamente beat. E' decisamente hippy. E' follia. E' Peyote. E' lingua parlata.

"...O victory forget your underwe-ar we're free..."

Brividi.

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I ferri del mestiereBestseller. Definitelo voidi AGNESE GUALDRINI

Qualche settimana fa ero in treno. Davanti a me c’era

una coppia; un ragazzo e una ra-gazza suppergiù della mia età. Per tutto il viaggio si sono chiamati con nomignoli mielosi e si sono sussur-rati frasette d’amore a tratti ero-tiche. Il viaggio è durato circa tre ore e io per tutto il tragitto non ho potuto fare altro che vederli e, mio malgrado, ascoltarli (ovviamente sono scesa anche con un certo sen-so di fastidio). La situazione, di per sé molto comune, era però caratte-rizzata da una strana coincidenza: entrambi gli innamorati parlavano con una voce stranissima, a tratti soffocata. Probabilmente entrambi avevano una malformazione al pa-lato, tipo, e pertanto uscivano dal-le loro labbra parole aspirate, mal pronunciate e arrancate.

Bene. Questa storia potrebbe es-sere il canovaccio tipico per un best seller (non la mia di coatta spetta-trice, ma la storia ipotetica di questi due: emarginati dai compagni di classe, scelti per ultimi per formare le squadre delle partite di calcio e pallavolo. Poi un giorno si incontra-no capiscono di non essere più soli e si innamorano ecc. ecc.).

Ora, a parte gli scherzi, il best-seller è una categoria a posteriori e non un genere letterario. Esso indica semplicemente un libro che ha venduto moltissime copie e così, tanto Gomorra quanto il Codice Da Vinci, sono bestseller. Indubbio. E prendiamolo per assodato – se non altro perché vero.

Tuttavia… per una volta conce-detemi di dilettarmi affidandomi ai classici luoghi comuni; perché cer-te trame più di altre, e certi stili più di altri, sono portati per vocazione al bestseller inteso come genere (del resto il bestseller è un libro tal-mente scritto male da sembrare già un film, si dice).

Alcune idee?

In un libro davvero spassoso Luca Ricci elenca alcuni tipici cli-ches:

“Il diario in cui una nonnina mo-ribonda rivela alla nipote che la sua famiglia è composta da degenerati responsabili di ogni abiezione, tipo aver brevettato la shoah;

la partita a scacchi tra un poli-ziotto e un serial killer (il poliziotto è appena stato lasciato dalla moglie e il serial killer uccide perché ha su-bito un forte trauma nell'infanzia);

uno zoppo e un'anoressica si amano perché si scoprono simili nelle loro apparentemente diverse storie di handicap, salvo poi scopri-re che la vita è comunque tregenda e solitudine.”

Come si noterà c'è sempre di mezzo l'infanzia, un segreto svelato e sentimentalismo a frotte.

Ora, al di là di questi giochetti divertenti, la casa editrice in cui lavoro (thanks God) non va alla ri-cerca del bestseller inteso come ge-

nere. Tuttavia, quando si fanno le riunioni editoriali la caccia alla tesi forte c’è sempre…perché il colpo di scena, la rivelazione shock, fa gola,: è tutta questione di audience. (Dia-logo tipo tra un editor e l’editore: il primo vuole convincere il secondo a pubblicare una monografia su Carlo V. Il secondo non è convinto perché il libro non dice nulla di sen-sazionale. È solo una monografia su Carlo V. Messo alle strette l’editor azzarda: “Beh, editore, se vuole le dico che Carlo V era gay e lo mettia-mo anche come titolo!”).

Dunque serve mistero. Escamo-tage che pare essere stato captato anche dagli aspiranti scrittori che ci mandano i loro manoscritti. Po-chi giorni fa abbiamo ricevuto un’e-mail che ci ha davvero tenuti con il fiato sospeso: lo scrittore ci invitava a prendere visione della presenta-zione del suo libro aggiungendo che il titolo ce l’avrebbe “svelato” solo se ci fossimo rivelati davvero interes-sati a pubblicarlo. “Per il momento dovrete accontentarvi del sottoti-tolo”.

Chapeau.

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La Posta dei Lettori di Matteo Bettolidi MATTEO BETTOLI

Carissimo Bettoli, lei parla di libri come ne potrebbe

parlare il mio lattaio, uomo sim-patico ed alla mano, per carità, ma lattaio. Proprio con lei, outsider dell'editoria, ciarlatano incom-preso, responsabile della rubrica meno rappresentativa della rivi-sta solo perché possessore di foto compromettenti del caporedattore Jacopo Cirillo in gita & sotto la doc-cia, ecco, vorrei parlare dell'Ama-zon Kinder (sic, ndr) e dell'Apple iPad. nuova frontiera del libro, utilizzimi accessori per sfoggiare titoli indie e fuori catalogo nel pal-mo di una mano. L'editoria è boc-cheggiante, in Italia molti leggono solo lo scontrino del supermercato per controllare che non gli abbia-no fottuto dei sordi, e caspita però sarebbe utilissimo leggere tomi su uno schermetto con inchiostro digitale e bullarsi col compagno di pendolarismo scandendo “io Zan-na Bianca di Jack London lo leggo sull'iPad”.

Scettico sulle nuove tecnologie tangenziali all'editoria,

Campobasso

Scettico, anche io sono scetti-co riguardo a 'ste cagate. Pure

Jobs, mentre presentava l'iPad, ha detto che “i quattro libri che l'americano medio tiene in casa qui nell'iPad ci stanno tranquil-lamente, in alta definizione”, ma l'ha detto sottovoce, e tossendo. I responsabili di Garvin Ltd, prin-cipale casa editrice americana, hanno alzato la mano in quel mo-mento, quasi a salutare la platea. Nessuno li ha considerati o rico-

nosciuti. Molti hanno sputato per terra. Dopo questo bel momento, Jobs ha continuato “passiamo alle cose veramente appassionanti, ora” illustrando la bussola integra-ta nell'iPad. Il pubblico è esploso in un boato, memore delle giovani marmotte. L'Amazon Kindle (non Kinder) è un po' più serio e un po' più tristo e un po' più orientato alla lettura vera e propria, quindi sarà un flop assordante e verrà ricordato insieme al laserdisc ed a Microsoft Bob. Insomma. L'entusiasmo di chi saluta questi prodotti come il futu-ro dell'editoria verrà tacitato e tor-nerà la modestia e la misura. I fan del book crossing, dopo aver fatto un rapido conto e realizzato che -contro 10 libri lasciati in giro- ne avevano trovati e raccolti 2 (e zozzi) in un anno, hanno lasciato perde-re, si sono detti disillusi. Vedremo stavolta, nel frattempo quaggiù si continua a leggere Zanna Bianca in versione cartonata.

•Gentile Bettoli, gli affitti nel-

le grosse città italiane han-no assunto tinte fosche e preoccu-panti. C'è chi dice che è tutta una trovata dei bamboccioni per con-tinuare a stare divanati, le camicie stirati, il gatto coccolati, i jeans la-vati e le bollette pagati in casa coi genitors e chi invece esclama che non si può, sbotta contro il cartello dei padroni di casa, insorge contro il sistema immobiliare e si agita. Il mio babbo è padrone di diverse villette a schiera in Costa Brava e

quindi seguo la querelle con di-stacco, ma solidarizzo coi dispe-rati dell'affitto, giovanotti che vorrebbero uscirsene di casa ma trovano un postolétto a 500 sacchi in nero, colore che contraddistin-gue anche i sanitari e gli infissi un tempo candidi di melanconiche monostanze nei sobborghi. Squat 'til you drop (ed. Risciò) raccon-ta storie di squatters, gente come l'autore Jean Michel Roviel ed i suoi compagni di bevute a spas-so per l'Eurasia in case di vecchi nobili rimbambiti. Interessante pure Couchsurfing senza mai dare il couch (ed. Lungomare) vergato dalla penna di Massorini e indi-rizzato a chi è passato dal divano di mammà a quello di persone a random.

Giovanniello, Castel Guazza

Caro Giovanniello, avere casa senza ereditarla da un anzia-

no zio ligure è sempre più compli-cato. Capita così di distrarsi trami-te esperienze che *sanno* di casa, tipo dormire nei bed & breakfast o applicare il principio asimmetrico del couchsurfing: bere come spu-gne a casa di sconosciuti con cui non c'è niente da spartire per poi stramazzare al suolo. Il couchsur-fing in particolare è un fenomeno divertente perché mi ricorda certe catene di Sàntantònio che giravano su internet qualche anno fa, quelle che invitavano a infilare 5 dollari in 5 buste e a spedirle a 5 persone che figuravano in una lista in cui, se la catena aveva attraversato un po' d'Italia, figurava sempre Turba-to Thomas da Godo. Si sarebbe poi

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aggiunto il proprio nome in fondo alla lista e altre persone avrebbe-ro inviato fiumi di banconote da 5 dollari pure a te. Senz'altro. Que-ste catene avevano il solo scopo di arricchire le prime persone della lista, mentre gli altri ci avrebbero rimesso 25 bei dollaroni. C'era poi chi raccoglieva i tappi di plastica o i codici a barre che iniziavano con l'8, ma questa è un'altra storia. In-somma, Massorini ci spiega che nel couchsurfing sono pochi i fenome-ni che dormono a sbafo e molte le anime pie che vedono il proprio di-vano IKEA occupato da anarcoin-surrezionalisti una notte si e quella dopo pure. Il frigo svuotato. Il gatto scalciato. L'inventore del couchsur-fing ha una casa blindata in cui non ospita nessuno, senza divani. Non è un caso.

•Finzioni si è imborghesito

e non apre alla letteratura contemporanea, quella che si fa a Berlino in università libere, oppu-re in Nuova Caledonia su spiagge dorate. Lettera ad un maiale mai nato, Benoit di Günter Moeller (ed. Neubauten) parla di animali-smo con la leggiadria che ho rico-

nosciuto solo in Milly Fanilli o in Leandro Van Persie. L'autore im-magina lo spleen di un ragazzino che sente in tv che George Clooney c'ha un maialino da compagnia e ne richiede uno per Natale ad un genitore ottuso che gli vieta que-sta soddisfazione perché gretto e avaro. Dormi come un antipatico di Rodolfi (ed. Eisenauer) raccon-ta la storia di Genoveffa e del suo compagno, che sprofonda regolar-mente in sonni antipatici invece di dedicarle attenzioni. La solitudine del prigioniero è invece l'opera ma-gna di Gustavo Isegnus (ed. Ludo-vico) ed è divenuta celebre nell'en-clave di Melilla perché composta esclusivamente dall'anagramma della frase *all'inizio avevo sonno e stavo bene prigioniero, ora ne ho abbastanza*.

Hans, Rovigno

La letteratura contemporanea di cui parla non trova spazio

su riviste serie, figuriamoci questa. Hans, lei deve avere pazienza. I li-bri di rottura non possono essere facilmente decodificati e richiedo-no un certo distacco. Finzioni non c'ha una lira e l'unico distacco che conosce è quello della luce, perché non paga le bollette. Le edizioni Neubauten pubblicano i propri libri

(tra cui pure il da lei citato Benoit) su carta velina con costa dorata. Li accoppiano a 45 giri pressati in Giappone contenenti il libro letto dalla sorella dell'autore. Li fanno pagare 67 euro. Mandano lettere all'antrace ai critici che parlano male dei loro autori. C'è chi non si prende sul serio, ma questi eccedo-no sul versante opposto. Le edizioni Eisenauer sono di proprietà del ti-zio di American Apparel e mettono sempre in copertina gente coi baffi, chiedendo per questo 30 euro a vo-lume. Le edizioni Ludovico pubbli-cano libri probabilmente composti da nerd informatici tramite algorit-mi in Turbo Pascal: anagrammi ri-petuti per 200 pagine, palindromi, haiku che non significano niente e sono pure meno graziosi degli origami. Utilizzano nomi di opere quotate. Svalvolano recensioni en-tusiastiche di riviste inesistenti. 45 euri in economica. Se li tengono. La cultura costa, ma la nemesi della cultura costa pure di più, e la scuola di Berlino è qui per ricordarcelo.

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Metaletterari di cartaLeggo per legittima difesadi LICIA AMBU

Beduina (Alicia Erian, Adelphi 2008, pp.349, 12 euro) è un

libro intrigante. Il titolo richiama l’appellativo onorifico, nonché di-spregiativo, con cui Jasira, la prota-gonista, si sente chiamare da quel-lo stuolo di adolescenti imbecilli che popolano la sua scuola. Jasira ha tredici anni, quando la madre, un’irlandese dall’isteria galoppan-te, accortasi delle attenzioni che il suo compagno dedica alla figlia, decide di spedirla a vivere con l’ex marito, libanese, scienziato nasa e precetti educativi dediti alla mano facile. Data l’età e il nuovo ambien-te, la questione è un guazzabuglio di stimoli continui tra amicizie, discrimini razziali, sviluppi fisici e soprattutto sesso. E anche le botte. Questa piccola lolita non riesce a distinguere le attenzioni degli uo-mini adulti da preoccupazioni di ordine paterno. Non comprende i meccanismi fisiologici naturali di un corpo in divenire, dell’eccitazio-ne, dell’orgasmo. Il mondo sembra passarle addosso senza concederle il dono di accorgersene. Allora ar-riva la vicina di casa che, comprese le difficoltà di orientamento, decide di andare incontro alla spaesata fanciulla.

Dunque, le compra un libro. Pe-dagogia allo stato puro. Un testo che in termini scientifico-com-prensibili, illustri e spieghi tutto quello che occorre sapere. L’abc, per capirci. Così che la multiforme e ingestibile realtà diventi più dut-tile e la sbarbina tredicenne possa difendersi. La scoperta dell’acqua calda, in effetti. In verità, però, il

contesto della storia è la guerra del golfo, non bisogna poi andare secoli indietro, eppure il libro è il mezzo che meglio comunica, che meglio si rende utile nella gestione della situazione. Permette di essere consultato come, quando e dove si vuole. Senza, nel caso, l’imbarazzo di affrontare argomenti delicati.

Questo fa un libro. Nel momento in cui ti insegna qualcosa, nel mo-mento in cui ti porta altrove evi-tandoti il pesante fardello del dover pensare. Perfettamente sintonizza-to e/o partecipe di alcuni mecca-nismi del reale (ammesse declina-zioni al passato, presente e futuro). Non si tratta di acculturarsi in un senso fine a sé stesso, la cosa è dif-ferente. Si tratta di trovare risposta ad una necessità, utile o futile conta poco, si tratta di riceverne qualcosa (che nel migliore dei casi diventa un input). Scrive Harold Bloom nel suo La saggezza dei libri (Bur 2007, pp.288, 12 euro): “I libri, da soli, nutrono il pensiero, la memoria, e la loro fitta rete di interazioni nel-

la vita della nostra mente. La sola lettura non basterà a salvarci o a renderci saggi”, ma senza è decisa-mente peggio. Senza melanconiche prose d’amore è proprio constata-zione imprescindibile: ne ho neces-sità, mi cibo del libro. Un sillogismo impeccabile per Firmino (Einaudi 2008, pp.184, 14 euro) pare, lettore accanito il cui tasso nutrizionale si fa proporzionale alle eroine com-mestibili. Quando si dice leggere per vivere (Flaubert in tempi non sospetti)… E insomma, in qualche modo questi due esuli del mondo, estranei al ciclo – ciclotimico – de-gli eventi, a modo loro si sono rifu-giati nei libri. Per apprendere, per campare, per fare entrambe le cose, comunque sia, in contesti più che odierni hanno fatto del libro il loro cavallo di battaglia. A dispetto del-la sospirata ed inflazionata (verbal-mente s’intende) convergenza mul-timediale e tutto il resto. Lo diceva anche Allen Woody che lui leggeva per legittima difesa. Così fan tutti. Forse.

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Conosco almeno un paio di critici e giornalisti che trag-

gono piacere dal remare contro-corrente, cosa che si traduce nello scrivere o recensire prodotti cul-turali in maniera opposta rispetto alla maggioranza. Non posso dire di non capirli, almeno in qualche misura: del resto, distruggere è li-beratorio ed esiste una perversa vo-luttà nel fare valere le proprie idee a dispetto del rischio di essere ad-ditati come dei rincoglioniti. Perciò non vogliatemene se in questa sede lo farò anche io.

Dunque: Jimmy Corrigan di Chris Ware. Un mattonazzo assur-do in cui vignette e didascalie si in-trufolano sotto le ascelle, nelle na-rici e sotto il palato e che tutti, per anni, mi hanno spacciato per un li-bro della madonna. Orbene, a mani basse, lo è sotto tutti i punti di vista; ma a me non è piaciuto per niente. O forse, semplicemente, lo rifiuto. Mi sono mossa negli ingorghi logici delle sue almeno mille pagine con fatica morale e fisica, consumando-mi gli occhi su testi microscopici e chiedendomi perché non provassi nulla tranne irritazione. Ho pro-vato a volere bene al ragazzino più intelligente del mondo, ma, niente, non ci sono riuscita per quanto mi sforzassi .

Jimmy Corrigan è il bambino in-

Graphic Novel"Jimmy Corrigan, The Smartest Kid On Earth"di Chris Waredi MARINA PIERRI

ventato, appunto, da Chris Ware, autore cresciuto con i Peanuts, le paperdolls e i diorama, poi “adot-tato” dal maestro Art Spiegelmann. Avendo a che fare con il protagoni-sta del libro, vi troverete a pensare immediatamente a una via di mez-zo tra le strisce di Schulz e Stewie (il bambino saputello dei Griffin). Poi lo vedrete agire all’interno di linee geometriche rigide e seve-re – dentro e fuor di metafora - che chiudono la sua anima e ostacola-no ogni sua impresa. Conoscerete molti Jimmy. Uno, quello reale, at-tuale, presente: bolso, autistico e terribilmente inespressivo, eppure straordinario sognatore - è lui il soggetto profondo della storia e la sua fantasia strabordante che ne è il motore; un altro, il “piccolo” Jimmy, attraverso dei flashback; infine an-cora altri due, che non sono proprio Jimmy, ma proiezioni legate alla sua terribile famiglia e, soprattutto, alla figura paterna.

Di racconto, nel senso conven-zionale del termine, ce n’è molto poco: il personaggio principale in-contra un padre estraneo per la pri-ma volta nella sua vita. Ma non im-porta. La trama, infatti, è poco più che una scusa per costruire attorno a Jimmy un mondo fatto di perio-di ipotetici esplorati con un solo pensiero e viaggi fugaci in mondi paralleli che si dissolvono nell’arco

di un battito di ciglia. C’è magia, in questo universo storto, e c’è anche poesia; ma non c’è nulla di magico e nulla di poetico a ben guardare. Questo succede perché la materia di cui sono fatte le “allucinazioni” di Jimmy è il dolore: uno così sordo e intransigente che non permette al lettore di entrare mai nel perso-naggio, bloccando il meccanismo empatico.

Se accettiamo la teoria per cui, attraverso l’identificazione, il frui-tore diviene attore, allora il lettore di Ware resta sempre e solo uno spettatore, un uomo che guarda, un voyeur. Costretto, peraltro, ad assi-stere a una vita talmente misera e sbagliata da fargli desiderare di di-stogliere lo sguardo, chiudere il li-bro, correre altrove ed essere qual-cun altro. Non discuto sul fatto che, in molti, possano trovare geniale la messa in atto di un congegno simile in una graphic novel (il cinema, al contrario, ne è piuttosto avvezzo), specie che quest’ultima si piega su se stessa e si rompe, si frattura nel momento stesso in cui, leggendola, si arriva a provare qualcosa. Non io, che ho trovato Jimmy Corrigan un libro brutale. E, come dicevo, l’ho rifiutato.

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Ci sono due modi per raccon-tare storie: la noiosa veri-

tà e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una cari-catura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accen-to su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assim-metria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria te-sta. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinami-ca: è divertente e fa lavorare il cer-vello. Fa ridere e fa pensare.

Ci sono poi due ruoli che si al-

Nel 1909 il signor James H. McGraw e il suo compare

John A. Hill unirono gli sforzi e cre-arono The McGraw-Hill Publishing Company, Inc., uno degli imperi editoriali più grandi al mondo.

Il signor McGraw, uomo semplice e di ingegno, quando dovette deci-dere il suo successore per la pol-trona non era convinto di abdicare seguendo il suo albero genealogico. “Al comando ci va chi se lo meri-ta, non chi è nato con il mio stesso cognome” soleva ripetere quel vec-chio brontolone.

Al momento tutti gli dicevano “sì sì, va là, non preoccuparti” ma poi, alla fine, tutti i figli, nipoti e

IperboloserHarold McGraw IIIdi JACOPO CIRILLO

ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia succes-so quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa.

Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tira-re acqua al loro mulino, si raccon-tano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti ogget-tivi. Trovano la verità dentro di sé,

non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.

E la verità soggettiva è infinita-mente più interessante: come di-ceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di an-noiarvi ancora di più), con sogget-tivo non si intende un attributo re-lativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me.

In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Wal-ter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti.

parenti alla lontana si azzuffarono per prendere il posto del vecchio, instaurando una tradizione con-sanguinea di oltre 50 anni.

Tutto andò bene fino a che non si è issato sul ponte di comando Harold McGraw III detto Terry, un uomo con un taglio di capelli irri-spettoso per le lesbiche (cit.).

Proprio il giorno prima del lancio dell’iPad della Apple, dunque il 26 gennaio, il buon Terry, partner edi-toriale dell’azienda informatica, ha pensato bene di andare alla CNBC e sputtanare Steve Jobs, raccontando un sacco di cose che dovevano ri-manere segrete per altre 24 ore per preservare la suspance della pre-

sentazione ufficiale.

Per questo Jobs, il giorno dopo, ha tolto la McGraw-Hill dalla slide di presentazione dei partner edito-riali dell’iPad, che com’è noto sarà un reader molto potente per gli e-book, dileggiando il vecchio Terry e, in sostanza, eliminandolo dal giro d’affari che, presumibilmente, dominerà il mondo editoriale dei prossimi anni.

E la morale è: ascoltare sempre i vecchi, soprattutto quelli che han-no fondato un impero editoriale.

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Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semioti-ca, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fonda-tore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge.

Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiun-to traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno con-cesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.

Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo conti-nuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guar-dare il mondo le sembra a testa in giù.

Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamici-tà. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 te-levisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre pae-si è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto.

Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il po-sto a nuove manie.

Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sba-gliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissi-mo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi.

Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di gia-no bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valuta-zione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violente-mente stonata.

Sono Davide La Rosa e faccio i fumetti anche se non so disegnare (so che questa cosa potrebbe far strabuzza-re lo strabuzzabile ma avrei potuto fare il chirurgo senza saper nulla di medicina). Sono nato il 23 giugno del 1980 e un giorno morirò ma non so darvi una data precisa. Una volta morto, comunque, voglio essere caramellato. Vabbè non c'è molto altro da dire su di me. Chi voles-se leggere i miei fumetti può trovarli qui: http://www.lario3.splinder.com/

Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e stu-dia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna cono-scenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”.

Contributi da:

n. 10 / Febbraio 2010

[email protected]

www.finzionimagazine.it

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Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo-rante. Performer di incauta protervia, aruspice della si-gnificazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico.

Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presen-ta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’au-tenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamen-te dalla nascita.

Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo in-ternazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali.

Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in acce-zione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’invia-to da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie.

Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe perso-nale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, fre-quenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leg-gendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conse-

guenza, alle volte si annoia tantissimo.

Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la fi-glia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi.

Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del por-tale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane.

Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è gi-rata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chom-sky, ma non si vedono da un po’.

Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera.

Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barca-mena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.

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Page 28: n...6 P lutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cer-cò

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