Morire di piombo per non morire du fame

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Morire di piombo per non morire di fame Zolfo e scrittura in Sicilia Sintesi panoramica di Eugenio Giannone Con le sue luci (poche) e le sue ombre (molte) il mondo ctonio della zolfara ha attratto scrittori, drammaturghi, poeti colti e popolari e artisti di vario genere (dalla pittura alla musica, dalla scultura alla macchina da presa,al canto), non lasciando nessuno indifferente ma costringendo a prendere posizioni che si fecero più intransigenti e politiche, soprattutto dopo la tragedia di Marcinelle (Belgio), dove l’8 agosto 1956 si consumò una delle catastrofi minerarie più tragiche della storia dell’Europa occidentale con la morte di 262 minatori, di cui 136 siciliani, provenienti per la maggior parte dal bacino solfifero dell’Isola. L’unico modo per descrivere quel mondo senza luce, vero inferno dei vivi, rischiarato solo dal lustro di una fioca acetilene e ingentilito all’esterno dal giallo pallido della ginestra , e fatto di sfruttamento e di indicibili sofferenze per le condizioni subumane cui erano costretti i lavoratori, -che a mansioni simili si acconciavano spinti da una fame e da una povertà secolari,- era ricorrere alla metafora dell’inferno, come fece GUY DE MAUPASSANT, che, nel capitolo dedicato alla Sicilia de “La vie errante” (1890), scrive: “Se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, in cui fa bollire i dannati, è in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio”; e così continua: “Le vallate grigie, gialle, pietrose recano il marchio della riprovazione divina”, per concludere che lo sfruttamento minorile (dei carusi) era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere. L’accenno ai minori ci richiama immediatamente alla mente la splendida e tragica figura del Ciàula di LUIGI PIRANDELLO, accanto alla quale può solo collocarsi quella di Rosso Malpelo, la più bella e scabra figura di vinto del Verga novelliere.

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Morire di piombo per non morire du fame

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Morire di piombo per non morire di fame

Zolfo e scrittura in Sicilia

Sintesi panoramica di Eugenio Giannone

Con le sue luci (poche) e le sue ombre (molte) il mondo ctonio della zolfara ha attratto scrittori, drammaturghi, poeti colti e popolari e artisti di vario genere (dalla pittura alla musica, dalla scultura alla macchina da presa,al canto), non lasciando nessuno indifferente ma costringendo a prendere posizioni che si fecero più intransigenti e politiche, soprattutto dopo la tragedia di Marcinelle (Belgio), dove l’8 agosto 1956 si consumò una delle catastrofi minerarie più tragiche della storia dell’Europa occidentale con la morte di 262 minatori, di cui 136 siciliani, provenienti per la maggior parte dal bacino solfifero dell’Isola. L’unico modo per descrivere quel mondo senza luce, vero inferno dei vivi, rischiarato solo dal lustro di una fioca acetilene e ingentilito all’esterno dal giallo pallido della ginestra , e fatto di sfruttamento e di indicibili sofferenze per le condizioni subumane cui erano costretti i lavoratori, -che a mansioni simili si acconciavano spinti da una fame e da una povertà secolari,- era ricorrere alla metafora dell’inferno, come fece GUY DE MAUPASSANT, che, nel capitolo dedicato alla Sicilia de “La vie errante” (1890), scrive: “Se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, in cui fa bollire i dannati, è in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio”; e così continua: “Le vallate grigie, gialle, pietrose recano il marchio della riprovazione divina”, per concludere che lo sfruttamento minorile (dei carusi) era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere. L’accenno ai minori ci richiama immediatamente alla mente la splendida e tragica figura del Ciàula di LUIGI PIRANDELLO, accanto alla quale può solo collocarsi quella di Rosso Malpelo, la più bella e scabra figura di vinto del Verga novelliere. Ciàula e Rosso: due reietti della società, due parìa, assetati di aria e di affetti, che dai picconieri e dagli altri lavoratori della miniera e della cava vengono accarezzati a calci. Il drammaturgo agrigentino, che pure doveva la sua condizione di agiatezza allo zolfo, è tra i più convinti denunciatari delle condizioni di vita e di lavoro, di miseria e di perdita della dignità umana degli zolfatari. Ne parla diffusamente, oltre che in Ciàula scopre la luna, nel grande affresco della Sicilia di fine ‘800 (la Sicilia dei Fasci) che è il romanzo I vecchi e i giovani (1913) e in parecchie altre novelle come Il fumo, Il no di Anna, Fuoco alla paglia, Lontano etc. Alle tragedie che si consumavano in zolfara, il grande romanziere catanese GIOVANNI VERGA dedica il dramma Dal tuo al mio (1906), dove una visione personalissima e conservatrice non gli impedisce di testimoniare con onestà i sintomi della ribellione e i giusti motivi della lotta dei minatori, cogliendo il clima di quel momento storico (la stagione dei Fasci siciliani, strozzati nel sangue e che nulla sortirono per i minatori, come gli scioperi degli anni successivi). Altro figlio di proprietari di zolfare che alle reali condizioni dei “pirriaturi” e “carusi” dedicò, condividendone in Cristo e S. Francesco i patimenti, pagine altamente drammatiche fu il ciancianese ALESSIO DI GIOVANNI, considerato il più grande poeta dialettale del 1° Novecento. Parecchie le sue opere che ritraggono senza fronzoli, in maniera asettica ma potentemente incisiva, quel penoso mondo di sofferenze, soprusi, privazioni e stenti: il dramma in tre atti “Gabrieli, lu carusu” (1908), le poesie della

zolfara inserite poi in “Voci del feudo” (1938), i versi dell’ode “Cristu” (1905), di “A lu passu di Giurgenti” (1902) e di “Nni la dispensa di la surfara” (1910). Altro grande poeta, da poco scomparso, che s’è fatto paladino degli attori della zolfara è il sancataldese BERNARDINO GIULIANA del quale vogliamo ricordare il componimento “Cristu surfararu”. Ma sono tanti i poeti, dialettali e non, che a quel mondo si sono ispirati: Mario RAPISARDI, Serafino LO PIANO, Angelo RIZZO, Placido D’ORTO, Ignazio BUTTITTA, Agostino D’ASCOLI, Pasquale ALBA, solo per citarne alcuni. Il maestro ed attore GIUSEPPE GIUSTI SINOPOLI percorreva, recandosi ad insegnare a Nissoria dal suo paese, lunghi tratti di strada a piedi accanto agli zolfatari dei quali conobbe ”le misere condizioni economico-sociali” e ritrasse la pericolosità del lavoro in galleria, sempre pronta a crollare, nel dramma in tre atti “La zolfara” (1896), che, seppure non annoverabile tra i capolavori di questo filone di letteratura e pur non riuscendo sempre a saldare in maniera organica il privato e il sociale, è tuttavia una testimonianza di quella temperie. La riflessione sulle sofferenze umane è presente nell’opera di NINO SAVARESE e in quella di ANTONIO ANIANTE, che sulla miniera scrive “La rosa di zolfo” (1958). E’ del 1955 il libro “Le parole sono pietre” di CARLO LEVI, che ad una vicenda realmente accaduta a Lercara Friddi, unico paese “zolfataro” della provincia di Palermo, dedica pagine al cui confronto altre di diversi autori impallidiscono. Siamo già agli anni di LEONARDO SCIASCIA, che ebbe ad affermare che “senza lo zolfo in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere”. Alla zolfara (in una, all’inizio della sua attività lavorativa, lo scrittore di Racalmuto faceva il contabile) Sciascia ha dedicato pagine indimenticabili. E’ sufficiente ricordare il lungo racconto “L’antimonio” (in “Gli zii di Sicilia”, 1958), in cui narra la vicenda d’un minatore che, per sfuggire l’abbrutimento della zolfara, preferisce arruolarsi volontario per la guerra di Spagna, andando a sparare contro altri connazionali che, nella penisola iberica, s’erano schierati con i rossi. La povertà, l’indigenza, la negazione della dignità umana avevano indotto molti proletari a morire “in Spagna di piombo per non morire di fame in Italia”. PIER MARIA ROSSO DI SAN SECONDO, scrittore d’avanguardia nisseno, alla zolfara ha dedicato, analizzando, col suo pessimismo e la sua amarezza, i grandi temi esistenziali, il dramma La bella addormentata (1919). E’ di Grotte (AG) il giornalista e scrittore MATTEO COLLURA, autore di Baltico (1988), “ampio affresco della vita degli zolfatari siciliani, delle loro lotte e delle loro sconfitte, della loro minuta e spicciola cronaca quotidiana e paesana nella quale incombe e irrompe la storia nazionale”. Nella seconda metà del secolo testé trascorso gli scrittori di zolfara abbondano ed è difficile ricordarli o accennarli, anche se brevemente, tutti. Citiamo solo qualche nome: Angelo PETYX (La miniera occupata, 1952; rist. CL, 2002),Vincenzo CONSOLO, Aurelio GRIMALDI (’Nfernu veru, 1985), Antonio RUSSELLO (La luna si mangia i morti, 1960, rist. TV 2003), Andrea CAMILLERI con la sua consueta perizia ed ironia (Un filo di fumo, PA 1997), Sebastiano ADDAMO (Zolfare di Sicilia, PA 1989), Mario FARINELLA con la sua indignazione e il suo impegno militante (Tabacco nero e terra di Sicilia, 1951); Marina DORIA, prematuramente scomparsa, con la sua straordinaria delicatezza (Il conto delle lune, 2000), infine, ultimo solo in ordine temporale, Salvatore Di MARCO (Sopra fioriva la ginestra, 2006). Molti degli autori menzionati, nella loro produzione, introducono altri temi legati alla condizione socio-economica della nostra Terra, scrivendo pagine esaltanti e tragicamente belle: emigrazione, disagio esistenziale, indigenza, mafia, emarginazione etc tutti riconducibili ad un unico filo: la povertà. Non volendo citare storici, sociologi e altri operatori culturali nonché le numerose riviste che al tema hanno dedicato ampio spazio,

ricordiamo, per chiudere questo breve intervento, che sulla zolfara esiste una ricca messe di poesie e canti popolari di straordinaria bellezza, dovuti spesso all’estro degli stessi zolfatari rimasti anonimi e raccolti dal PITRE’ e da Lionardo VIGO. Qualcuno vi inserisce, addirittura, il famosissimo “Vitti ’na crozza”, dandone condivisibile motivazione.