Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

349
MORALE SOCIALE 2008 – 2009 1

Transcript of Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Page 1: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

MORALE

SOCIALE

2008 – 2009

1

Page 2: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

INTRODUZIONE

Teologia, teologia morale, teologia morale sociale

Cos’è la teologia per un cristiano?Per una parte la teologia è pensiero della fede, nel duplice senso di fides qua

e di fides qae. Pensiero "serio", com’è serio o scientifico il pensare ciò che si ama, ciò a cui si tiene profondamente. Serio è il pensare del credente a riguardo degli eventi della salvezza ed a riguardo dell’atto stesso della fede. Mediante l'atto della fede il credente si sporge verso quegli eventi e si determinando in rapporto ad essi nel momento in cui "crede".

Per altra parte, la teologia è ascolto dei pensieri degli uomini. Non solo e non subito per convincerli della bontà e verità del suo credere ma, prima, per dialogare con essi, condividerne il linguaggio o apprenderlo se risulta sconosciuto. Tale dialogo rientra nei compiti della teologia, in quanto, dialogando con gli uomini nei loro diversi linguaggi, il cristiano incontra la sua stessa umanità ed è ricondotto a se stesso, ai suoi limiti e possibilità, al suo peccato. Nel dialogo con gli uomini, il cristiano vede rispecchiata la sua vicenda di credente; vicenda spesso tormentata ma anche segnata dalla presenza dello Spirito.

Altra cosa ancora è dire, agostinianamente, che l'uomo incontra se stesso solo in Dio o che l'unica vera via all'uomo è Dio. Agostino si riferisce al mistero ultimo del destino umano, il quale non può essere svelato grazie alle risorse delle culture o al dialogo tra uomini. La prossimità umana non svela il destino ultimo, ma le forme pratiche nelle quali l'uomo cerca il senso del suo destino e mediante le quali si apre o si chiude ad una possibile salvezza. Se è vero che la salvezza può solo essere rivelata, è altrettanto vero che un credente, o una comunità cristiana, chiusi in se stessi, nella propria vita religiosa, sono esposti al rischio di illudersi su se stessi e di costruirsi un mondo a misura dei loro bisogni e magari poco corrispondente alla stessa rivelazione cristiana.

Non è, dunque, possibile separare le due facce della teologia: quella rivolta a Dio e quella rivolta ai fratelli uomini o alla comune condizione umana. La ricerca di Dio e la ricerca del dialogo con gli uomini si rinforzano reciprocamente, convalidano l’una i risultati dell’altra.

Ci sono buone ragioni per diffidare di una teologia che intenzionalmente intenda dedicarsi solamente a Dio e non all’uomo. Essa rischia di fallire l’incontro sia con l’uno che con l’altro.

Le due istanze hanno trovato espressione teologica in due grandi autori del ‘900: Barth e Rahner. Il primo ha riproposto con forza il principio della Rivelazione, secondo il quale al discorso umano su Dio può dar avvio solamente Dio. Il secondo

2

Page 3: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

ha mostrato come ogni discorso, compreso quello su Dio, non possa essere fatto se non in modo umano e come il discorrere umano su Dio sia il primo segno di Dio stesso (l'apertura o la trascendenza come costituzione dell'essere).

Nell’ambito del sapere teologico, la morale è la disciplina che si interroga sul senso dell’agire umano e sugli specifici doveri, alla luce della Rivelazione di Dio. Si interroga, possiamo dire in altro modo, sull’esperienza morale propria di ogni uomo, a procedere dall’esperienza della fede in Gesù Cristo e quindi dalla conoscenza credente della sua vicenda di uomo, di crocifisso e risorto.

Anche per la morale valgono i due versanti della ricerca sopra ricordati: quello che conduce verso la Rivelazione di Dio a riguardo del destino dell’uomo e quello che conduce l’esperienza umana del bene e del male, del dovere e della colpa.

La teologia si interroga, dunque, su che cosa sia l’esperienza morale e lo fa guardando ai vissuti umani dal punto di vista cristiano e cioè dal punto di vista che gli eventi cristiani hanno reso disponibile per ogni uomo che crede.

La morale sociale non si aggiunge alla riflessione sull’esperienza morale in quanto tale; non è un capitolo che si aggiunge alla morale fondamentale. La dimensione sociale, infatti, come del resto quello sessuale o della vita, sono le forme specifiche dell'esperienza morale in quanto tale. Per esigenze didattiche, siamo costretti a dividere i diversi profili e considerare l'esperienza morale in generale (cosa significa agire? Quando e come tale esperienza acquista un senso morale? In che modo il volere si rapporta a tale senso morale? A quali condizioni lo si può considerare un volere libero? …) e poi i contenuti o ambiti specifici di tale esperienza: quello sociale, quello sessuale.

Il nostro corso si occupa di mostrare i contenuti specifici dei doveri cristiani verso la società o le forme di vita cristiana, in rapporto alla dimensione sociale del vivere e le istituzioni che la reggono.

Nelle cose fin qui dette è già apparso un primo "principio" del nostro corso di morale sociale: la società non va intesa come ambito sul quale agire ma, prima, come condizione della stessa coscienza morale del cristiano e della Chiesa tutta. La socialità è forma della coscienza prima che ambito del suo agire e dunque dei suoi doveri.

La riflessione sulla questione sociale, nei suoi vari aspetti, deve muovere da tale principio e muoversi con tale consapevolezza.

Il tema della cultura, ad esempio, va affrontato non subito e solo in termini di missione e cioè intendendo la cultura quale terreno di azione per il cristiano. Prima, bisogna che il cristiano capisca che cosa è successo in quel terreno e in che modo i fatti di cultura lo riguardino.

A tal proposito è illuminante, a mo’ di esempio, l’articolo di SEQUERI P., La spiritualità nel postmoderno, "Regno-attualità" 18 (1998) 637-643 e l’analisi della questione sociale lì prodotta.

La crisi di spiritualità dell’uomo moderno è vista, in detto articolo, non subito e solo come questione che riguarda la religione e la chiese. Non segnala solo e semplicemente un terreno perduto da parte delle istituzioni religiose, le quali si sono lasciate portar via la gente. La crisi di spiritualità è crisi che riguarda la società in quanto tale e dunque anche le sue istituzioni culturali, economiche e politiche.

3

Page 4: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

L’uomo sempre più povero di spiritualità è anche l’uomo sempre più debole nella sua identità civile e dunque sempre meno motivato all’impegno civile. È il burocrate o l'arrivista cinico.

Detto questo, Sequeri va sul piano storico e denuncia una rimozione della spiritualità nella cultura moderna. Le forme del vivere civile sono state cioè sottoposte ad una epurazione di ogni manifestazione religiosa e, più generalmente, spirituale. L’uomo è certo considerato soggetto di diritti e tra questi c’è anche il diritto alla libertà religiosa.

Ma la società non può limitarsi a concedere spazi ai diritti, senza riconoscerne in alcun modo la qualità morale, le ragioni di pertinenza e di verità. Non basta riconoscere giuridicamente (fa quello che vuoi, purchè non arrechi disturbo agli altri), ma anche riconoscere il merito delle esigenze e delle istanze morali espresse dalla persona. La spiritualità è, tra le esigenze, quella che ha bisogno di minor tutela giuridica e di maggior riconoscimento.

Qui sta l’ambiguità della società moderna: la tutela della libertà individuale si risolve in una inibizione della libertà stessa, dal momento che essa è profondamente legata al riconoscimento della qualità spirituale dell’essere umano. La forma concreta in cui tale ambiguità si esprime è la burocratizzazione economicista del vivere sociale, per cui tutti i rapporti umani, compresi quelli familiari, vengono regolati sul modello della contrattazione mercantile.

L’analisi del Sequeri è un esempio di come l’istruzione della questione della fede, del cristianesimo, richieda una lucidità sociale, una competenza culturale. In caso contrario faremo le crociate contro il materialismo e non ci accorgiamo di sottostare anche noi, come Chiesa, all’ideologia da cui ricava la sua forza e cioè la privatizzazione del fatto religioso.

Le attuali difficoltà della Chiesa sul piano sociale

Sappiamo che la morale cattolica è stata per lungo tempo legata al confessionale, ai casi di coscienza. È anzi nata come disciplina teologica in questo modo e lo è rimasta fino a vent’anni fa. Possiede dunque una consistente tradizione casistica.

Tra le caratteristiche di tale tradizione figura l'individualismo. Non una forma di egoismo, ma un individualismo teorico, quello cioè che pensa la società a procedere dagli individui e non viceversa. I doveri sociali sono perciò intesi come doveri di giustizia tra individui, come una questione di giusta retribuzione.

La lacuna di tale tradizione, ma non solo di essa bensì della stessa tradizione biblica, sono i doveri dell'individuo verso la società o lo stato. L'individuo è ritenuto responsabile verso il suo simile e anche verso i governanti, ma non verso la struttura sociale in quanto tale. Della struttura sociale si occupa chi governa, i potenti.

La circostanza non ci deve stupire, dal momento che in regimi variamente autoritari, l'idea di una responsabilità del cittadino verso lo stato è impensabile o addirittura sovversiva. Quindi, non è possibile comprendere tale profilo della morale senza comprendere il senso delle rivoluzioni democratiche.

4

Page 5: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Siccome le democrazie sono regimi relativamente giovani, e sono state osteggiate dalla chiesa fino in tempi recenti, si capisce la difficoltà della teologia morale ad affacciarsi a tale aspetto di cittadinanza e svilupparlo adeguatamente. Noi abbiamo una tradizione morale che copre la dimensione di prossimità, ma non quella civile.

Non a caso, tale tradizione appare fortissima sul piano della sessualità e sguarnita sul piano della socialità. Infatti, ancor oggi, se un confessore si interroga sui "casi" di coscienza riguardanti il sociale, si trova in difficoltà. Non tanto perchè non sappia come giudicare tali casi ma perchè non sa quali siano i "casi" di morale sociale.

Proviamo a chiedercelo noi stessi: quali sono i casi di coscienza in materia sociale, oggi? Non più il voto politico; e allora le tasse? Il furto? La corruzione? L'attaccamento al denaro o al lavoro o ai beni materiali e l'educazione che vien data in famiglia a riguardo di tali cose? Oppure sono i casi più sofisticati come i conflitti coscienza di un bancario cristiano o di un imprenditore o di un medico? Ma la gran parte di tali situazioni sembrano sottrarsi al responsabilità individuale ed invocare piuttosto l’intervento del sociologo o del politico o del rivoluzionario o del profeta.

L’imbarazzo del confessore che cosa denuncia? Una astrattezza evasiva della teologia post-manualistica? Oppure la crisi dei criteri di giudizio della materia sociale?

Quali dovrebbero essere tali criteri di giudizio? Dovrebbero circoscrivere la materia e mostrarne la rilevanza morale. Dovrebbero cioè dare un’idea della società e mostrare quali doveri derivano all’uomo in generale, ed al cristiano in particolare, dal fatto di vivere in società.

La difficoltà in cui versa oggi il pensiero morale cattolico, sul versante della socialità, dipende in buona misura dal vuoto di pensiero; dal fatto cioè che i cristiani, la Chiesa, hanno continuato a pensare la socialità in termini medievali, mentre la società mutava radicalmente. Hanno continuato a pensarla come realtà omogenea mentre si stava profondamente differenziando, come realtà da ricondurre ad un unico principio di ordine sociale mentre essa diveniva pluralista, come realtà ideale mentre le sue vicissitudini avevano come motore i fattori materiali, economici e così via.

Comunque, occorre anche notare un altro fatto e cioè che il problema della morale sociale si è allargato. Esso non riguarda più solamente il singolo cristiano e le norme relative al suo comportamento in società; riguarda anche l’agire della Chiesa, il suo modo di essere presente in società ed il suo modo di gestire il rapporto con le istituzioni sociali.

I doveri del cristiano verso la società – la morale 'civica', potremmo dire – non possono essere chiariti separatamente dall’altra più generale questione del rapporto che la Chiesa deve avere con le istituzioni sociali. Certo, la condanna del furto valeva ieri e vale oggi, qualsiasi sia il contesto sociale. Tuttavia, anche in merito da tale comandamento il mutamento del contesto sociale ha il suo peso. Pensiamo al dovere i pagare le tasse e al furto che è l’evasione fiscale. Tale dovere va certamente proclamato e tuttavia la Chiesa non può non tener conto del sistema fiscale dello Stato dentro il quale predica il dovere morale di pagare le tasse. Può limitarsi a predicare tale dovere oppure deve anche contribuire alla riforma del sistema, se necessario?

5

Page 6: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Ecco il legame tra le questioni 'casistiche', relative al cristiano singolo, e le questioni 'politiche', che coinvolgono la Chiesa come collettività, come istituzione.

La difficoltà di cui si sta dicendo è ancor oggi presente nella Chiesa. La si può cogliere, ad esempio, a procedere dal gran parlare di profezia, che si è fatto in questi anni. Più che di profezia c’è oggi bisogno di idee politiche ed economiche. O per lo meno c’è bisogno di entrambe.

Quali possono essere i soggetti maggiormente abilitati a dar vita ad un’operosità sul piano politico ed economico? Non certo il clero o i religiosi. La morale sociale è strettamente congiunta con il rilancio del laicato, nel compito che gli è proprio e cioè la testimonianza della propria fede nel mondo, nel secolo.

La morale sociale deve dunque tener conto della concretezza delle situazioni umane e dell’esigenza di chiarificazione morale che le attraversa.

La morale sociale sconta due carenze della tradizione teologica: - quella relativa al retroterra antropologico e teologico non più coltivato da secoli.

Senza tale retroterra non si può nemmeno fare la casistica (se questo è ancora compito del teologo...). Si tratta, per quanto riguarda la morale sociale, di pensare il rilievo della dimensione "sociale" del vivere umano; pensarne il rilievo ed insieme precisarne il significato. Non chiaro, infatti, cosa significhi "sociale" e come si differenzi dagli altri ambiti del vivere (politico, economico, familiare, religioso…?)

- quella relativa ai temi propri del comportamento e dell’impegno sociale del cristiano. L’impegno sociale è relativo alla società in cui si vive; al tipo di società, alle situazioni che in essa si creano. La morale sociale deve, dunque, godere di una sufficiente competenza culturale, altrimenti non può evitare il rischio del moralismo (prendiamo come esempio l’obbedienza all’autorità costituita, la giustizia retributiva, la difesa della proprietà privata, il giudizio sulla forma miglio di governo ecc.). I principi morali devo formularsi a procedere dalla comprensione della situazione e non precederla.

Se andiamo a vedere la vecchia casistica, essa aveva certamente il pregio della concretezza; rischiava però di tener conto dei "casi" solamente sotto il profilo giuridico. Data la legge si trattava di vedere se il caso particolare vi rientrava o meno. Ma oggi il problema è proprio quello della legge, non della sua applicazione. La morale ha potuto dare per scontata la legge fino a quanto il mondo cristianizzato ha goduto di una sostanziale omogeneità culturale, possibile in una situazione sociale statica.

Mutando le situazioni (pensiamo al prestito ad interesse oppure al mercato o alla democrazia o alla libertà religiosa) anche le leggi devono essere ripensate e talvolta cambiate anche nella sostanza. Il rischio di inseguire i cambiamenti oppure di rimanere fissi rigidamente al passato è sempre grande e l’equilibrio nel mutamento non può far ricorso semplicemente al buon senso del pastore; è necessaria anche una intelligenza dei fenomeni e dei cambiamenti. È necessario saper distinguere ‘in tempo reale’ la sostanza etica dalle sue espressioni culturali e sempre mutevoli e sapere comprendere il rapporto tra le due (i valori non solo trovano espressione nei costumi ma vengono anche modificati o prodotti da questi; i valori non esistono in natura nè sono corpi celesti immutabili).

6

Page 7: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La tradizione cristiana si è ben poco affinata nell’intelligenza della cultura, intesa in quest’ottica e cioè come l’insieme della circostanze psicologici e sociali della coscienza. Diverse sono le ragioni che hanno determinato tale astrattezza del pensiero cristiano, come vedremo nello studio della storia della morale. Fu un difetto fatale a partire dall’epoca moderna e cioè dall’irrompere tumultuoso dei cambiamenti nell’Europa cristiana.

Le circostanze psicologiche e sociale sono infatti istruttive al fine di comprendere non solo la responsabilità del soggetto ma il soggetto in quanto tale. Ma la nozione stessa di "soggetto" è frutto della modernità, del progressivo affinamento della sua consapevolezza storica e del correlativo superamento di una mentalità dottrinalista.

Nei quattro secoli di casistica, si fa ad esempio sistematicamente riferimento alla coscienza introducendo una radicale novità rispetto alla tradizione tomista; ma ben poco si riflette su cosa sia la "coscienza", a cosa tale parola corrisponda nel vissuto di una persona, nella sua evoluzione, nelle sue scelte. La coscienza è subito sequestrata all’istanza giurisdizionale: se eri consapevole di ciò che facevi e della malizia dell’atto, sei responsabile. Ma la coscienza è anche altro; essa è figura del mistero stesso dell’uomo e della sua soggettività.

L’astrattezza giuridica della morale determinò la sua progressiva estraneazione culturale; al moralista venne progressivamente a mancare la "materia" su cui esercitarsi, perchè i casi contemplati o non si davano più oppure di davano secondo modalità radicalmente mutate.

Il ritardo della teologia nel recepire le 'rivoluzioni' moderne fu infatti notevole: quasi due secoli dopo la rivoluzione industriale e quella liberale, ed un secolo dopo l'avvento del comunismo, i trattati di morale sociale dei Seminari facevano solo fugacemente cenno al problema dello sciopero e si accontentavano di ribadire le condanne contro liberalismo e socialismo; il problema economico era ricondotto al rispetto dell'altrui proprietà e quello politico al rispetto dell'autorità, nell'ambito del quarto comandamento; più o meno come faceva Tommaso 700 anni prima.

Ci si spiega allora perché la morale si sia defilata sotto il profilo della casistica, impegnandosi sul terreno della riflessione antropologica, in dialogo con le scienze umane, col rischio di diventare essa stessa "teoria" soltanto.

D’altra parte il compito di una intelligenza del mondo, della sua evoluzione culturale (secolarizzazione, diritti umani, pace, emancipazione della donna) e istituzionale (rivoluzione liberale dello Stato; totalitarismi socialisti e democrazia) e la loro interazione (ad esempio la cultura imprenditoriale del nord-est e la riforma federalista dello Stato), non poteva essere ulteriormente eluso.

Tale impresa ha mobilitato le migliori energie del cristianesimo già dal secolo scorso, incontrando grande cautela ed a volte opposizione nel magistero. Ha dato alcuni frutti nel Concilio ma si è fatta poi molta altra strada nella direzione indicata dalla Concilio stesso.

Che si sia trattato di un compito vitale per la Chiesa lo dimostra l’animosità che lo ha accompagnato. La lettura critica della modernità (chiamiamola così) ha spesso riscaldato gli animi dei teologi perché non è solo questione intellettuale ma

7

Page 8: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

possiede una rilevanza grandissima sulla pastorale e sul destino stesso della Chiesa in occidente.

La ragione di tale centralità dell'intelligenza è facilmente comprensibile: l'evoluzione moderna ha modificato il terreno di azione sotto i piedi della Chiesa (dal parroco di campagna al Papa) in modo tale che questa si è trovata ad operare in un contesto del tutto diverso, in un paesaggio radicalmente mutato. Tale mutamento ha sortito l'effetto di spingere ai margini della vita sociale la Chiesa; e non anzitutto per una pressione di tipo ideologico bensì per il legame tra la Chiesa e i territori o le culture destinate a divenire marginali (il legame tra l'assolutismo monarchico e il centralismo ecclesiastico...il connubio tra civile e religioso in riferimento all'autorità pubblica; il legame tra la civiltà contadina e la cristianizzazione della società; tra la staticità sociale e la solidità della dottrina e così via). La frana repentina dell'organizzazione sociale tipica dell'ancien régime ha travolto anche forme consolidate di presenza della Chiesa nel sociale.

Purtroppo la consapevolezza di tale fatto è stata tardiva e difficile, anche per varie circostanze storiche; non ultima il fatto che il mondo 'nuovo' nasce anticlericale.

Il lavoro di aggiornamento dei moralisti fu anticipato dai pronunciamenti del Magistero; fenomeno questo che riguarda non solo la morale sociale ma anche quella sessuale; il Magistero si espose a tal punto, da porre in essere una vera e propria dottrina sociale. Guardando alla tradizione cristiana, è un fatto nuovo il quale, almeno in prima battuta, si spiega con la contestuale assenza della riflessione e dunque anche della pubblicistica teologica (limitata ai libri di scuola e assente dai dibattiti moderni sulla forma di Stato, sui diritti civili, sull'autodeterminazione dei popoli, da una parte, e quelli relativi alle rivoluzioni scientifiche e tecniche, destinate a rivoluzionare i modi di vivere della popolazione occidentale).

In ogni caso il Magistero, per quanto ricco com'è quello attuale, non può coprire il vuoto lasciato dal lavoro dei teologi; di questo possiamo rendercene conto anche oggi, guardando alle esperienze politiche dei cattolici ed alla situazione della pastorale sociale e del lavoro, in particolare.

Possiamo dunque tener ferma un prima idea sulla morale sociale: essa è la riflessione sull'agire della Chiesa nei mutati e mutevoli contesti sociali, e non solo sugli atti del singolo cristiano; il suo compito specifico non è certo quello fare la teoria della società o dell'uomo bensì di determinare i doveri del cristiano e delle comunità cristiane nei contesti sociali odierni. In quanto "morale" deve dunque arrivare a delle indicazioni normative.

Per introdurci adeguatamente al corso dobbiamo chiarire alcune cose: 1. Inizieremo dall'explicatio terminorum, la quale ci permetterà di risalire

all'interrogativo della fede che sta alla base del corso.2. Chiariremo poi quale sia lo status qaestionis del trattato il quale ha,

ovviamente, una sua storia anche se breve e poco consistente.3. Infine faremo l'indice del nostro corso.

8

Page 9: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Explicatio terminorum. L’esigenza di una fenomenologia del "sociale".

Il nostro corso si fa carico dell'interrogativo fondamentale della morale cristiana, che in termini evangelici suona: "che dobbiamo fare, Signore?", riferito però al "sociale".

Come potrebbe essere completato tale interrogativo, una volta riferito al sociale? "Che dobbiamo fare, Signore, nella società?" oppure: "a livello sociale?" oppure: "in quanto cittadini?". Come possiamo notare già da queste prime battute, la declinazione del dovere morale dal punto di vista del "sociale" presenza qualche imbarazzo; non è né immediata né univoca. Ciò sta a dire la poca maturità del pensiero cristiano a riguardo di tale tema.

Dobbiamo quindi chiederci cosa significhi "sociale", cosa lo caratterizzi essenzialmente.

Si può procedere cercando di distinguere l’ambito del sociale da quello privato, e cioè dall’ambito delle relazioni spontanee o immediate, per poi chiederci quale interazione ci sia tra i due.

In secondo luogo, si può vedere come il sociale si distingua dal "politico" (vedi la distinzione tra società civile e società politica) e come entrambi interagiscano con "l'economico" (all’economico va riferita anzitutto l’effettualità del vivere o dei mutamenti che in esso accadono).

Solo chiarendo in tal modo i termini della questione sarà possibile far luce anche sull’interrogativo che a noi preme: quanto ed in quali modi la Chiesa ed i cristiani singolarmente presi debbano impegnarsi socialmente e politicamente. Non possiamo, infatti, darci una risposta soddisfacente all'esigenza di sapere cosa dobbiamo fare dal punto di vista "sociale" (in campi 'tecnici' come la riforma dello stato sociale ma soprattutto in campi culturali quali la scuola o la formazione in generale o la famiglia), se non abbiamo compreso in cosa esso consista, come si articoli e si innesti nel complesso della nostra vita ed interagisca con le dimensioni più intime di essa, compresa la fede o l’esperienza religiosa in generale1.

1 . La scelta di un unico trattato per produrre la considerazione sintetica della società, prima dell'esame delle sue parti (economia, politica) ho lo scopo di mettere a fuoco l'idea sintetica di società, prima di applicarsi ai diversi contenuti.C'è difficoltà nei manuali attuali a produrre questa considerazione sintetica. La ripartizione dei trattati subito per "parti " si mostra connessa ad una impostazione ancora individualistica: si parte dall'individuo per poi incontrare la società con i doveri che richiede ed i problemi che presenta.Vediamo questa affermazione in alcuni dei trattati oggi in circolazione:J.M.AUBERT parte dalla prospettiva della dottrina sociale e di una teologia che la giustifichi; dà lo spazio quasi totalmente al problema economico.G.MATTAI e E.CHIAVACCI hanno distinto i trattati per l'economia e la politica. Chiavacci ha una pubblicazione dedicata ai "Principi di morale sociale" ma ben lontana da una considerazione sul piano storico e fenomenologico del fatto sociale.GOFFI-PIANA vanno anch'essi subito ai contenuti di una ipotetica morale sociale: le virtù richieste nel rapporto sociale, matrimonio e famiglia, economia, politica. Tra le prime due e le seconde due un capitolo dedicato all' etica sociale cristiana che però in modo evasivo puntualizza il rapporto sociale, la cui centralità risulta del resto smentita dall'impostazione globale del corso.

9

Page 10: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La tradizione teologica ha già riflettuto, ovviamente, su tale questione, in particolare nell’epoca medievale. L’attenzione fu però quasi esclusivamente rivolta all’aspetto politico-istituzionale e di tale aspetto interessava la questione del potere (giustificazione teologica e giustificazione pratico-politica del potere del monarca o dello Stato in generale). La realtà sociale ben poco era visibile e ben poco dava da riflettere. Quando poi, con il crescere dell’attività mercantile, con il frantumarsi dell’unità ideale e politica, il fiorire dell’industria la realtà sociale si ispessì divenendo fenomeno sempre e più complesso e politicamente decisivo (si pensi appunto all’ascesa della borghesia quale classe rivoluzionaria) e dunque maggiore era il bisogno di riflessione, la teologia morale perdette progressivamente il contatto con i fatti sociali, come vedremo.

L’ambito sociale, va perciò conosciuto nella sua complessità storica; il che significa anche nel suo significato antropologico. Ciò è particolarmente importante per la morale cristiana. Essa infatti non ha modelli propri di società da proporre; deve invece assicurare il fermento di una riflessione che costantemente riporti il "nuovo" alle esigenze fondamentali del vangelo ed insieme dell’essere umano. Ma non può limitarsi ad enunciare in termini escatologici - o 'profetici' come oggi si ama dire - tale novità; deve anche incarnarla e cioè produrne delle mediazioni.

Ora, l’incarnazione della novità evangelica non si produce certo a tavolino; non corrisponde certamente all’ideazione di un ennesimo “progetto pastorale”. Essa si attua nella spontaneità dell’agire cristiano, sotto l’impulso dello Spirito, nelle più varie situazioni; dobbiamo però chiedersi quanto tale spontaneità non porti in sè un’esigenza di riflessione teologica o, in altri termini, non richieda anche una maturità intellettuale. Occorre diffidare degli 'impulsi' profetici subito insofferenti verso ogni riflessione critica.

Il senso del "sociale" non è dunque scontato. Provando a definirlo ci troviamo infatti in difficoltà; se andiamo a vedere i testi di sociologia scopriamo che si studiano i fenomeni sociali ma non si riflette sul "sociale" come dimensione dell'essere umano; se infine osserviamo l'agire dei cristiani in società scopriamo come spesso manchi di tale intelligenza.

Il riferimento alle "virtù" fa da ponte tra individuo che si interroga sulle sue responsabilità morali e società come uno dei luoghi di tale responsabilità.A.GUNTHOR segue lo schema dei "doveri" (verso Dio, verso il prossimo) e deriva l'impianto dalle "virtù" sociali (amore, giustizia) che determinano le varie "responsabilità" sociali del cristiano all'interno delle "comunità fondamentali" che compongono al società (matrimonio, famiglia, stato, chiesa).Il manuale dei francesi B.LAURET-F.REFOULE segue anch'esso la ripartizione subito per contenuti tuttavia dedica nella morale fondamentale un capitolo al rapporto tra ethos e norma, tema certo di carattere fondamentale ma anche speciale, in quanto l'ethos struttura il rapporto sociale.M.VIDAL pur dedicando un capitolo introduttivo all'"interrogativo etico sulla società" e prevedendo una prima parte di morale sociale fondamentale mostra i limiti della sua impostazione quando parla del sociale come il necessario "al di là del personalismo etico", smascherando in tal modo la concezione ancora individualista della persona. I contenuti trattati, poi, sono appunto visti come principi da applicare alla realtà sociale o responsabilità da acquisire.R.SPIAZZI, Principi di etica sociale, parte dalla concezione della persona come "individua sostanza", vedendo nella irrelatezza di questa il principio dell'unità, e poi fondando nel dato della comunanza di natura tra individui il rapporto sociale. Questo viene poi inteso come necessità indotta dai bisogni dell'individuo.Il risultato è di concepire la realtà sociale secondaria rispetto alla "sostanza" individuale (questa è posizione tomista????) e studiabile in modo solo fenomenico in quanto scaturente dai bisogni individuali.

10

Page 11: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Noi non cercheremo subito un chiarimento del senso antropologico del sociale, lo faremo alla fine, dopo aver percorso la storia ed aver ascoltato la Bibbia. Fin d'ora però sappiamo della carenza di riflessione e della necessità di produrla non solo dal punto di vista sociologico (per imparare cioè ad agire con maggior efficacia sul piano sociale e politico) ma da quello della stessa fede.

La stessa Storia della salvezza si colloca infatti nel contesto della realtà umana in tutte le due dimensioni; Cristo, quando parla ed agisce, non lo fa in "privato", a tu-per-tu, ma assume fin dall'inizio un ruolo pubblico, una valenza politica, anche se non cercata espressamente. Il Vangelo predicato in privato non è più il Vangelo di Gesù; scomparirebbero gli eventi fondamentali della vita di Gesù, compresa la sua morte e Resurrezione.

La riflessione teologica sul sociale concorre dunque alla comprensione stessa di Cristo e all’autocomprensione della Chiesa. E’ infatti evidente che la crisi del rapporto tra Chiesa e mondo moderno, scoppiata con l’avvento dello Stato liberale e poi del socialismo, non riguardò semplicemente i rapporti politici tra la Chiesa e lo Stato ma l’identità stessa della Chiesa. Mai come in questi due ultimi secoli infatti si sentì il bisogno di una riflessione ecclesiologica.

Cercando la risposta all'interrogativo morale noi sappiamo allora di poter e di dover avvalerci certo delle competenze "laiche" ma sappiamo che sui temi sociali è in gioco l’identità della Chiesa e dunque tale risposta deve scaturire dalla fede e dalla Parola di Dio. Ecco la necessità di guadagnare una impostazione “teologica” della questione sociale, non semplicemente sociologica.

L'interesse della morale sociale cristiana non è solamente quello che ci accomuna ad ogni uomo di buona volontà (desideroso di giustizia e di pace) o ad ogni "cittadino" democratico (custode della democraticità della vita politica) ma deriva dal nostro essere cristiani, dal nostro dovere di annunciare integralmente Cristo ed il suo Vangelo. Il Magistero infatti ha strettamente congiunto, dal Concilio Vat. II in poi, il tema dell’impegno sociale e politico dei cristiani a quello dell’evangelizzazione. Si tratterà di precisare tale legame.

Di che cosa si deve, dunque, occupare la morale sociale? Quali sono le questioni sociali, oggi, ed in che modo si dà una riflessione su di esse?

Guardiamo, anzitutto, le indicazioni che ci vengono dalla tradizione. In essa vediamo presenti due questioni fondamentali.

La prima è quella del rapporto tra cristiani e società o di come i cristiani devono stare nella società in cui vivono. Pensiamo alla lettera a Diogneto alla celebre immagine dell’anima nel corpo che in essa viene usata per dire il rapporto tra cristiani e società. Come l’anima non costituisce una realtà a se stante, ma si fonde nel corpo e lo fa vivere, così i cristiani nella società.

La seconda questione è quella dei rapporti tra Chiesa e Stati. A differenza della prima, essa non si pone fin da subito, nella storia cristiana, ma solo a partire dal momento in cui le Chiese cristiane vengono riconosciute dallo Stato romano e divengono sue interlocutrici. I rapporti che si vengono a creare sono vari, a seconda delle epoche storiche e degli Stati, e trovano regolazione giuridica.

La novità che l’avvento dei regimi democratici ha portato con sé riguarda l’introduzione di un terzo soggetto politico, accanto a quelli tradizionali di Chiesa e Stato: il popolo.

11

Page 12: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Le due dimensioni sociali fondamentali - cittadino con cittadino e Chiesa con Stato – si sono dunque intrecciati, mentre una volta costituivano due binari paralleli, come testimonia la ripartizione tridentina secondo il VII e IV comandamento.

Ciò comporta una duplice estensione dei doveri sociali: da un lato i cittadini sono detentori del potere ed hanno perciò una responsabilità politica; dall’altro, le Istituzioni non possono limitarsi a dialogare tra loro, ma devono tener conto anche del terzo soggetto. Oggi, la politica addirittura dipende dall’opinione pubblica, creando talvolta dei circoli viziosi che indagheremo.

Il cristiano, dunque, non ha solo doveri verso gli altri cittadini, ma anche verso lo Stato, poiché questo democratico. D’altra parte, la Chiesa e gli Stati hanno come interlocutore anche la società civile, con le sue organizzazioni e con le sue espressioni (pensiamo alla vicenda della Sapienza di Roma, o al rapporto con i mass media o con il mondo dell’economia). La Chiesa deve, oggi, capire e definire i propri rapporti anche con le realtà sociali.

Le ragioni di inadeguatezza della tradizione manualistica hanno chiesto un grande sforzo di ripensamento della dottrina sociale, nella Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa ne costituisce l’esempio più evidente ed importante. Dovremo capire in che modo siano stati recepiti i cambiamenti a cui sopra abbiamo accennato e che risposte siano state date.

Possiamo fin d’ora affermare che le risposte non sono ancora ottimali. Rimangono aperte alcune questioni relative ai due aspetti di novità. I cristiani hanno assunto una piena coscienza democratica, o si aspettano ancora tutto dall’alto? Nell’edizione precendente del corso parlavo dell’undicesimo comandamento.

Nel rapporto con le realtà sociali contemporanee – dagli imprenditori alle associazioni gay – come deve atteggiarsi la Chiesa? Deve vestire i panni di S. Francesco o di Gregorio VII? In che modo deve oggi rendersi manifesta la dignità della Chiesa e la verità cristiana?

Viene subito alla mente l’annosa questione, per certi aspetti tutta italiana, del rapporti tra laici e cattolici.

La questione morale o etica, come oggi si preferisce dire, costituisce uno dei versanti cruciali di tale rapporto e motivo più frequente di conflittualità. Gli scontri non avvengono sulla dottrina trinitaria, ma sul matrimonio, sull’aborto, sulla fecondazione e così via.

La posizione cattolica si giustifica in ordine a due fondamentali assunti: la vita umana è sacra e l’ordine morale del vivere umano è corrotto dal peccato, per cui non ci può essere una morale autonoma, puramente razionale e, in tal senso, laica. L’uomo continua ad aver bisogno di Dio perché è sua creature ed è schiavo del peccato.

Ultimamente, certe correnti del pensiero liberale, si sono la questione etica in modo radicale, interrogandosi cioè sul fondamento dei valori umani, se stiano in piedi da soli o se abbiano bisogno della religione.

Alcuni di loro, riconoscono storicamente il sostegno ai valori umani fondamentali – specie quelli relativi all’ambito privato - offerto dalla Chiesa cristiana e dalle religioni in generale. In qualche modo riconoscono che l’etica pubblica ha in qualche modo bisogno dell’apporto della religione.

12

Page 13: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Se la tradizione laica riconosce una sua difetto, quella cristiana deve anch’essa riconoscere i propri difetti, quelli che abbiamo sopra indicato e che ora possiamo esemplificare, a titolo introduttivo. Intendo sostenere la tesi di coloro che vedono nel confronto con il liberalismo il nodo cruciale della questione cattolica, più che nel confronto con i totalitarismi o la cultura di sinistra.

Nell’800 la Chiesa ha ben poco elaborato un confronto con il liberalismo politico, non essendoci le condizioni di serenità per farlo. Il rapporto ha assunto toni di contrapposizione, come ben sappiamo.

Nel ‘900 il liberalismo scompare e la scena viene occupata dal socialismo e dalle sue derivazioni totalitarie. La Chiesa istituisce anche con il socialismo un confronto che presenta forse momenti più dialogici che non quello con il liberalismo

Quindi, un confronto sereno con il liberalismo ha tardato alquanto a venire, come testimonia la storia della DC, pensata in funzione anticomunista, ma afona dal punto di vista liberale.

Il ritardo della Chiesa nel recepire le 'rivoluzioni' moderne è stato notevole. Ne è prova il fatto che, dopo quasi due secoli dalla rivoluzione industriale e quella liberale ed un secolo dall'avvento del comunismo, i trattati di morale sociale dei Seminari facevano solo fugacemente cenno al problema dello sciopero e si accontentavano di ribadire le condanne contro liberalismo e socialismo; il problema economico era ricondotto al rispetto dell'altrui proprietà e quello politico al rispetto dell'autorità, nell'ambito del quarto comandamento; più o meno come faceva Tommaso 700 anni prima.

Ciò spiega anche il ritardo dell’evoluzione della mentalità cristiana di base, in ambito di responsabilità democratica. Paradossale è il fatto che l’Italia abbia una politica familiare più arretrata di altri stati europei, nonostante il cattolicesimo sia stato al potere per 40 anni. Mancava il senso della famiglia ai politici cristiani e alla gerarchia ecclesiastica? No, mancava piuttosto il senso democratico o la capacità di capire i modi di sostenere la famiglia dal punto di vista legislativo, in un contesto laico e pluralista. Si sono difese le dottrine, più che la famiglia reale.

Il compito di una intelligenza del mondo, della sua evoluzione culturale (secolarizzazione, diritti umani, pace, emancipazione della donna) e istituzionale (rivoluzione liberale dello Stato; totalitarismi socialisti e democrazia) e la loro interazione (ad esempio la cultura imprenditoriale del nord-est e la riforma federalista dello Stato), non può essere eluso.

Tale impresa ha mobilitato le migliori energie del cristianesimo già dal secolo scorso, incontrando grande cautela ed a volte opposizione nel magistero. Ha dato alcuni frutti nel Concilio ma si è fatta poi molta altra strada nella direzione indicata dalla Concilio stesso.

È perciò ancora attuale la domanda su quali condizioni un regime liberale possa moralmente sostenersi. Se un’etica pubblica sia compatibile con l’affermazione radicale dei diritti individuali e con un’etica cristiana.

L’esempio dei paesi anglosassoni, di più radicata tradizione liberale, sembra dimostrare che un’etica pubblica (senso dello stato, del rispetto dei diritti altrui, delle regole) è possibile in un regime liberale; al contrario, l’esempio dell’Italia sembra dimostrare che la presenza massiccia della chiesa e di una cultura cristiana non sostiene automaticamente un’etica pubblica.

13

Page 14: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il corso non può dunque limitarsi ad assumere una teoria sociale ma deve comprendere il "sociale" alla luce del Vangelo e da tale esercizio ermeneutico trarre le indicazioni pratiche.

Parlo di "ermeneutica" dal momento che nel Vangelo non troveremo indicazioni pratiche espressamente indirizzate al "sociale". Il Vangelo ha un linguaggio tutto suo per dire i doveri del cristiano, un suo modo di interagire con la Legge veterotestamentaria e con le tradizioni del tempo, che va interpretato e non semplicemente applicato. Ebbene, ciò vale tanto più per la morale sociale la quale, più di ogni altra, è esposta al duplice pericolo del fondamentalismo biblico o dell'ideologia e cioè rispettivamente al pericolo di far valere alcune affermazioni evangeliche come principi di morale sociale (caso tipico è la non-violenza o la pace o il perdono) e a quello di ‘tradurre’ il Vangelo in una prospettiva ideale totalizzante.

Lo status quaestionis del trattato di morale sociale

Nella tradizione teologica non troviamo "un capitolo istituzionalmente distinto, consensualmente definito" dedicato alla morale sociale e neppure esiste "una tradizione dottrinale consolidata" nella teologia protestante 2. Ci ritroviamo quindi con una tradizione teologica povera.

Le vicende recenti del trattato possono essere così riassunte:a. Dal '600 al '900 la morale, nel suo complesso, fu strutturata secondo il

Decalogo. Tale scelta metodologica era raccomandata dal consenso di cui ovviamente godeva quella figura biblica3 e dallo scopo pastorale che si prefiggeva la morale; era infatti concepita a servizio del confessore e doveva offrire la soluzione dei "casi".

Il trattato di morale sociale era intitolato De justitia ed jure e riferito al settimo comandamento e al quarto, per quanto riguarda i doveri verso le autorità politiche4.

Si distinguevano tre forme di giustizia:- distributiva, che riguarda il rapporto tra Stato e cittadini ed era rivolta ai

principi e non al singolo cristiano appartenente al popolo;- legale, e cioè l'obbligo di pagare le tasse o, più in generale, di obbedire alle

leggi, tranne il caso di manifesto contrasto con la morale cristiana,- commutativa, che riguarda il rapporto tra individui o gruppi. Questo era

l'aspetto di gran lunga più sviluppato del trattato con esclusivo riferimento ai beni materiali e al problema del furto (appunto il VII comandamento) 5.

2. ANGELINI G., Introduzione all'etica sociale, Ut unum sint, Roma 1977, p. 53. Dal '500 in poi tutti i catechismi assumono lo schema dei dieci comandamenti. 4. Il Chiavacci porta un sommario di alcuni dei manuali di teologia morale speciale maggiormente diffusi nei Seminari dall'inizio del secolo fino agli anni'50. Teologia morale, 3/I, Cittadella, Assisi 1990, pp. 14-18,5. Che la morale sociale sia ristretta al problema del furto dei beni materiali è certo molto limitante in un contesto culturale come quello della società moderna. Non vedrei però il nesso così immediato tra tale materialità e l'assolutizzazione del problema della proprietà privata, che sostiene il Chiavacci. La ristrettezza di cui si parla è relativa al contesto socio-economico pre-moderno, non centra il diritto alla proprietà privata.

14

Page 15: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il difetto di tale impostazione era duplice. Da una parte l'attenzione accordata al vissuto soggettivo o alle disposizione del soggetto (passioni, vizi, virtù) è quasi nulla e con essa viene anche a mancare ogni stimolo ad una riflessione antropologica fondamentale; dall'altra manca la conoscenza della dimensione che oggi vien detta di "macro economia", o di strutturazione della vita economica e quindi delle scienze economiche e politiche che già dal '700 la studiavano e la teorizzano. La giustizia viene pensata come problema di rapporto tra individui in relazione al possesso e all'uso dei beni materiali.

b. L'inizio del '900 fu caratterizzato da vari tentativi di rinnovare la vecchia manualistica, specialmente sotto l'impulso della ripresa della filosofia di S.Tommaso, promossa da Leone XIII. Diversi autori sostituirono allo schema del Decalogo quello delle "virtù". Ma furono tentativi destinati a lasciare solo tracce sporadiche nella manualistica recente, non riuscendo ad offrire un nuovo impianto.

c. La stagione post-conciliare è stata caratterizzata da due fondamentali direttrici di ripensamento della teologia morale. Da una parte c'è stato un incremento dell'attenzione alle questioni fondamentali, a scapito dei tratti "speciali", dall'altra una spinta all'aggiornamento culturale della teologia, spesso però catturato dalla croncaca e quindi poco incline ad una riflessione sui problemi di fondo della cultura attuale e poco capace di elaborare quei criteri antropologici che sono necessari per la valutazione dei problemi.

L'esito è stato la frammentazione della morale sociale, il cui sintomo è ad esempio la preferenza accordata a "manuali" a più voci, la cui unica preoccupazione sistematica è quella di coprire le varie aree tematiche, oppure la proliferazione di pubblicazioni dedicate a temi particolari di ben poco impegno e spessore teologico, funzionali alle esigenze attuali del mercato.

Il primo problema del trattato è allora quello di guadagnare un fondamento e cioè di essere adeguatamente articolato con la morale fondamentale 6.

Se la MF pensa l'agire umano solo nell'ambito degli "atteggiamenti e comportamenti per individui", la MS soffrirà inevitabilmente di infondatezza con l'esito di ridursi alla giustizia commutativa, come abbiamo visto nei manuali passati, oppure di accostare dualisticamente le due dimensioni7.

Il primo compito della morale sociale è allora quello di verificare se a suo fondamento ci sia un'antropologia capace di pensare la socialità come dimensione originaria dell'essere personale e non introdurla successivamente e quindi fatalmente ridurla a condizionamento dell'agire individuale da cui difendersi o di cui prendere consapevolezza. Non c'è rapporto umano che non abbia, ad esempio, una dimensione giuridica ed in quanto tale richieda a suo servizio l'Istituzione giuridica; non c'è rapporto umano, anche quello più intimo, che non abbia un significato sociale, irriducibile a quello "privato", e perciò chieda di essere pubblicamente riconosciuto, "istituito" (vedi il rapporto uomo-donna).

6. Vedi l'articolo BONANDI A., Sui rapporti tra morale fondamentale e morale sociale, in “Teologia” 4 (1990) 305-332.7. Giustamente Bonandi rileva tale rischio anche nella teologia della liberazione, là dove essa contrappone il senso politico dell'esperienza umana a quello interiore e alla fine anch'essa riduce l'etica sociale all'amore al prossimo pensato come rapporto immediato io-tu. Lo stesso Chiavacci sembra soccombere a tale concezione individualistica dell'etica nella misura in cui pensa l'imperativo morale in termini individuali e poi lo applica alle strutture economiche. Vedi arti. cit. p. 307- 309.

15

Page 16: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Tale consapevolezza della dimensione originaria del sociale assicurerà quelle categorie di pensiero che permetteranno di cogliere in modo più corretto la valenza sociale della stessa Bibbia.

Il cammino della Chiesa dal Concilio ad oggi offre alcune indicazioni al riguardo.

La Gaudium et spes, che tratta delle questioni dell'uomo contemporaneo e quindi anche dei problemi relativi alla morale sociale, ha infatti un modo di procedere nuovo, rispetto ai manuali tradizionali. Le indicazioni sui comportamenti umani non sono subito ricavate dai precetti già formulati ma passano attraverso una riflessione antropologica attenta ai fatti sociali. La riflessione non procede dunque da schemi prefissati (i precetti o le virtù) ma si elabora grazie ad una riflessione sui fatti sociali che scaturisce dal Mistero stesso di Cristo (teologia fondamentale e morale fondamentale) ed è insieme esperta di essi.

In tale impostazione c'è un problema a cui dar risposta, quello di mantenere l'equilibrio tra l'identità misterica della Chiesa e la sua appartenenza operosa alla storia degli uomini, tra evangelizzazione e promozione umana, tra libertà cristiana e liberazione politica. La vicenda della Chiesa nel post-concilio fino ad oggi è segnata da tale questione; su di essa ci soffermeremo appositamente nel capito dedicato al Magistero sociale.

Non possiamo chiudere lo status quaestionis senza accennare allo straordinario sviluppo del Magistero sul campo sociale, a partire dalla fine del secolo scorso. Varie sono le sue figure ed i suoi profili. All'ormai classica figura della "Dottrina sociale" si affianca il Magistero delle Conferenze episcopali e delle loro Commissioni, e poi i documenti dei Sinodi (ad esempio l'ultimo sull'Europa).

Occorre anzitutto rendersi conto che si tratta di un fatto straordinario e in quanto tale ha delle ragioni storiche precise.

Lo studio della DS cercherà di chiarirle ed insieme chiarire i rapporti, spesso conflittuali, che sono intercorsi tra tale Magistero e le teologie politiche, in particolare la teologia della liberazione.

L'indice del corsoIl corso si struttura nelle classiche tre parti e relativo ordine di successione:

storica, biblica e sistematica.La parte storica si svolgerà in quattro capitoli:1. il pensiero politico nell'antichità (greci e romani)2. la tradizione cristiana:

+ i padri+ la Scolastica+ i manuali in epoca moderna+ la Dottrina sociale della Chiesa+ il Magistero CEI

3. il pensiero politico moderno4. la ripresa dell'etica nel pensiero politico contemporaneoLa parte biblica studierà:

16

Page 17: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

+ le istituzioni politiche che via via si formano nell'esperienza ebraica e la relativa coscienza sociale degli ebrei.

+ la valenza sociale degli atteggiamenti e parole di Gesù, sia in riferimento alle autorità politiche romane che a quelle giudaiche.

Nella parte sistematica, svolgeremo:+ Una riflessione antropologica fondamentale sulla dimensione sociale+ Tematizzeremo le tre figure della società civile, economica e politica+ Affronteremo alcuni problemi attuali di morale sociale: pace, non-

violenza, obiezione di coscienza, pena di morte ecc.

17

Page 18: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

PARTE STORICA

Iniziamo un lungo percorso attraverso i due millenni e mezzo di storia "politica" del nostro mondo occidentale. Una storia in larga misura segnata dalla presenza dei cristiani e perciò interessante ed anche impegnativa sotto il profilo teologico8.

La cesura fondamentale della storia della presenza politica dei cristiani sta tra il medioevo e l'epoca moderna. Prima il cristianesimo si confronta con la visione politica tipica dell'antichità, con modalità profondamente diverse lungo i vari periodi storici, e per tanti versi si ritrova condizionato da essa. I primi tre secoli presentano, infatti, modalità di confronto con la cultura politica antica radicalmente diverse da quelle del XIII sec., della grande scolastica.

Poi l'avvento della modernità rivoluziona i modi di vivere, gli equilibri politici e il modo stesso di concepire la società e lo Stato. La Chiesa è tutt’oggi fortemente coinvolta nel confronto con la cultura moderna e con i suoi esiti politici (cultura del benessere e crisi morale dei regimi democratici; divario tra ricchi e poveri; nazionalismi; problemi ambientali e demografici; confronto inter-etnico ecc.) ed è lecito attendersi, tra i frutti derivanti da esso, modi nuovi di presenza attiva di cristiani in politica.

8. Val la pena di sottolineare l'impertinenza di quelle letture storiche contemporanee che pretendono di affrontare l'attuale crisi dell'impegno politico dei cristiani senza farsi carico di una lettura teologica dei fatti e senza l'ampiezza che tale lettura esige. La crisi che il partito dei cristiani sta attraversando si colloca, ad esempio, nel travaglio che la Chiesa ha vissuto con l'avvento degli Stati liberali e non è possibile comprenderla e ipotizzarne gli sviluppi senza tener presenti i profondi mutamenti maturati nella Chiesa durante tale periodo, come vedremo più avanti.

18

Page 19: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

L’EPOCA ANTICA

1. Pensiero e vicenda civile nella po\lij greca

Il primo dato da recepire è che il pensiero sociale dell'antichità classica è subito ed esclusivamente pensiero politico.

La società è cioè subito identificata con l'organizzazione politica di essa. Non si accorda spazio nella riflessione teoretica alla società intesa come complesso di rapporti fattuali, normati dall'esercizio delle più varie forme di potere concreto, non idealmente giustificato, né giuridicamente codificato. La "società" è di fatto data come ovvia.

Il fatto non deve meravigliare se pensiamo alle condizioni di vita di quel tempo; condizioni destinate a durare grosso modo invariate, fino all’epoca moderna. La realtà sociale era di ridotte dimensioni: non esisteva commercio nè strutture produttive di un certo rilievo.

Il lavoro non costituiva alcuna ragione di merito sociale, anzi; la classe lavoratrice era costituita dagli schiavi, mentre il cittadino era colui che, senza problemi di sussistenza, poteva dedicarsi liberamente all’attività politica.

La poca attenzione dedicata al "sociale" nella riflessione colta di allora corrispondeva alla realtà e ai costumi di quel tempo. Non deve dunque nemmeno meravigliare la tendenza di quella riflessione ad identificare il bene in senso etico - il bene che ciascuno ricerca e può liberamente scegliere come il bene per sé - con il bene comune in senso politico, ossia il bene sancito come tale dalla norma civile.

1.1. Le risorse culturali per la costruzione dell’unità della po\lij

Nella po\lij greca ritroviamo dunque una condizione sociale molto diversa dalla nostra per quanto riguarda il rapporto tra individuo e società. Era un rapporto molto più assorbente o che non prevedeva alcuna autonomia ideale dell’individuo, nè tanto meno materiale. In tal senso, era una società unita.

L’unità di cui qui si parla va compresa storicamente a partire dalle radici poetiche - in particolare omeriche - della cultura morale greca, in special modo per quanto riguarda l’idea di virtù. L’eroe omerico è considerato personaggio eccellente, degno della massima fiducia presso il popolo, per la grandezza delle sue imprese ma anche perché il suo destino è intimamente legato al destino del suo popolo. «Nella società eroica – afferma MacIntyre - etica e struttura sociale sono di fatto una cosa

19

Page 20: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

sola» e «le questioni assiologiche sono questioni di dati di fatto sociali» 9. L’idea di "dovere" è congiunta a quella di “essere in debito” e “essere imparentato”10. I concetti morali di bene, virtù, giustizia ecc. sono impensabili al di fuori del contesto sociale della po\lij e delle sue tradizioni.

Sempre secondo MacIntyre, l’e)/qoj greco appare strutturato attorno a tre punti fondamentali: una valutazione dei ruoli sociali richiesti agli individui, una concezione del telos a cui l’uomo è chiamato, la consapevolezza che ogni suo atto avviene a procedere da una condizione di fragilità e vulnerabilità.

1.1.1. L’esperienza politica e la nascita del pensiero filosofico

L’esperienza della po\lij greca va compresa anche sullo sfondo della nascita del pensiero critico nella cultura greca e cioè di un pensiero sistematicamente coltivato e teso alla conquista di un sapere affidabile, di una e)pisth/mh capace di superare la superficialità della do/xa. La conquista di un assetto democratico della vita civile trova in tale esercizio del pensiero un contributo di fondamentale importanza. Esso permette, infatti, la costituizione di un’opinione pubblica su basi critiche o razionali e non semplicemente emotive, anche se non si può pretendere una sua diretta trasposizione del piano politico, come pensava e voleva Platone.

La do/xa è il sapere relativo all'atteggiamento naturale verso il mondo, il quale è limitato all'interesse immediato, per lo più di tipo strumentale11. L' e)pisth/mh è invece esercizio critico nei confronti della do/xa e consiste nel superamento della sua limitatezza nella visione del mondo; nasce dalla «scoperta dell'unità del mondo in contrapposizione alla limitatezza della do/xa»12. L'oggetto dei due saperi è lo stesso ma cambia il modo di rapportarsi ad esso, cambia l'atteggiamento. Nel primo caso l’individuo è chiuso nel suo mondo, nel secondo ne esce e si accorge dell’esistenza di molteplici 'mondi' e di molteplici sguardi sul mondo.

La questione della do/xa e dell’e)pisth/mh non è solo teorica, dal momento che alle diverse forme del pensiero corrispondono diversi atteggiamenti esistenziali. Per tale ragione, l’episteme ha valore politico ed anzi risulta essere il fondamento di una vita politica democratica. La do/xa esprime l’atteggiamento dell’individuo chiuso sul suo piccolo mondo, incapace di cogliere l’esistenza di altri mondi e quindi di porsi l’interrogativo sul cosmo o sull’uno. Non è possibile accedere al problema dell’uno o del fondamento se non passando attraverso la scoperta del limite del proprio mondo. È questo allargamento dell’orizzonte l’elemento politicamente rilevante e fecondo.

La scoperta dell'uno implicito nel molteplice viene fatta risalire al momento in cui «Eraclito fa la sua comparsa come critico della historie13 e, di conseguenza, ponendo in discussione il modo in cui il molteplice indagato nella historie coappartenga all'unità ordinata dell'unico ko/smon. Egli rivolge l'attenzione del pensiero a questa unità, che definisce «il comune», to koino/n, e solo dopo di ciò la filosofia compie il primo passo per differenziarsi da tutto il resto della scienza»14

9. MACINTYRE A., Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988 (1981) p.151.10. Ibid., p. 14911 . Ci riferiamo a HELD K., La fenomenologia del mondo e i greci, Guerini, Milano 1995, pp. 12 ss.12 . Ibid, p. 14.13 . Termine con il quale Eraclito denomina la molteplicità irrelata delle tradizioni culturali; non ha il significato preciso della nostra "storia", ma quello più generale di ricognizione, di studio. 14 . Ibid, p. 29

20

Page 21: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La scoperta filosofica di una "unità", al di sopra della molteplicità irrelata dell’esperienza spontanea, avviene in un primo momento per riferimento al cosmo, all’ambiente naturale (vedi la ricerca dei principi primi dell’essere nei primi filosofi naturalisti), ma poi va a fondare l’esperienza della po\l la quale prende il sopravvento su quella relativa al rapporto con l’ambiente naturale e le necessità primarie (lasciate agli schiavi).

In Aristotele, la po\lij non costituisce più una sorta di principio primo dell’essere, ma è al contrario l’esito di un percorso, di un’attività di composizione, è arte architettonica. L’unità può essere colta ed esibita attraverso il lo/goj (il rendere ragione della propria opinione di fronte agli altri) ed è rappresentata dal no/moj15 (la legge sostituisce gli elementi primi dei naturalisti).

In tal modo, l'esercizio del pensiero (il dialogo e la dialettica) viene a rivestire una responsabilità politica in quanto da esso viene a dipendere l'unità della po\lij; nel dar conto infatti delle proprie ragioni, in quanto ragioni dell'intero o della po\lij, si determina il destino stesso della vita politica, in quanto da quell'esercizio dipende «l'apertura di un mondo comune, che viene plasmato grazie al rendiconto autoresponsabile»16

Nel senso ora richiamato, la po\lij costituisce l'orizzonte di senso anche della filosofia pratica di Aristotele; essa costituisce il rimando ultimo del suo pensiero e, per tale ragione, le categorie fondamentali, la giustizia in primis, non sono mai radicalmente pensate. Il significato della parola giustizia sussiste, infatti, nel sentimento comune dei cittadini. Non ha senso produrre delle ragioni per giustificare il fatto che chi fugge davanti al nemico è da ritenersi un codardo degno di biasimo. La riflessione procede da tale "evidenza" pratica condivisa.

Il riferimento alla po\lij funziona nell’etica in senso inverso rispetto alla metafisica. In questa svolge la funzione di attivare l’attività critica (hisorie) in quella di assicurare un 'cielo' di valori morali mai teoricamente approfondito.

Non si deve con ciò pensare che la visione etica greca sia omogenea. Ci sono almeno quattro concezioni diverse di virtù: quella dei sofisti (la virtù diviene mezzo per perseguire l’interesse individuale), quella di Platone (la virtù diviene cosa puramente interiore, dal momento che dalla politica non ci si può aspettare granché di buono), quella di Aristotele e quella dei poeti tragici (che si alimentano al dualismo platonico tra virtù e realtà politica)17. Tuttavia la po\lij rimane per tutti il contesto comune in cui praticare le virtù.

1.1.2. La funzione conservatrice della grande filosofia

Quanto abbiamo detto non vale per tutta la cultura e storia greca ma soprattutto per la città-stato e per la grande stagione filosofica di Platone e Aristotele. Quell’esperienza mostra come la grande filosofia morale greca abbia avuto origine dall’esperienza politica, rispecchi un determinato contesto politico.

Detta stagione politicamente felice o ideale, almeno come appare a noi oggi, si affermò sconfiggendo lo scetticismo sofista, come ora vedremo, il quale manteneva la distanza tra istanze morali e leggi giuridiche.

15 . Entrambe queste figure sono espressione di attività umane e non di realtà naturali.16 . Ibid. p. 4517. Ibid., p. 165 ss.

21

Page 22: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

In tal senso, il grande pensiero filosofico di Platone e Aristotele ha svolto una funzione che oggi potrebbe essere detta conservatrice.

La stessa figura dell’eroe tragico avrebbe subito una sorta di addomesticamento per scopi pedagogici. Prima di essere rappresentazione educativa, la tragedia era, infatti, strettamente legata al rito religioso e agli avvenimenti della vita. Rappresentava non un ideale civico di uomo ma l’urto proprio del destino effettivo dell’individuo, dei pericoli che lo sovrastano. Pericoli nei quali incorre quanto più pretende di andare oltre le consuetudini ed i modi collaudati del vivere.

La grandezza dell’eroe deriva appunto da tale sua eversività, alla quale è legata anche la sua colpa. Colpa sancita senza convinzione, per necessità. È infatti attribuita al capriccio degli dei e, più radicalmente, all’impossibilità di superare l’ordine stabilito che li vede dominatori del destino umano. Tuttavia, l’eroe è tale agli occhi del popolo, proprio perchè ha osato.

Nel contesto aristotelico, l’eroe diviene invece ideale di virtù civile, figura destinata ad alimentare l’ethos comunitario. Non è più il trasgressore dell’ordine stabilito o colui che si avventura oltre i confini dell’ordine.

Il sentimento del tragico viene in tal senso normalizzato e reso rappresentazione edificante. In tal contesto va collocata la polemica con i sofisti.

1.2. Lo scetticismo sofista e l’idealismo platonico

Nel V secolo a.C. i greci ebbero occasione di venire a contatto con popoli stranieri (guerre persiane) e la diversità di consuetudini e religioni indussero l’idea di una relatività delle norme morali. A ciò si aggiunga l'esperienza di instabilità politica e istituzionale che le città greche subirono in questo periodo, la quale alimentò ulteriormente il distacco critico dalla legge civile, la quale non appariva più quel punto di riferimento assoluto, quell'istanza suprema a cui l’uomo greco aveva dato il suo assenso.

Ma come giudicare della legge? Del nuovo clima culturale e degli interrogativi che lo animano si fecero

interpreti i sofisti. Essi dettero questa risposta all’interrogativo sopra citato: l'istanza superiore alla legge, in rapporto alla quale essa può e deve essere giudicata, l'istanza che non muta, che è sottratta all'arbitrio e alle convenzioni degli uomini, proprio per questi suoi caratteri, è la « natura ».

E’ interessante notare, in proposito, come la sofistica abbia per un verso fornito a Platone ed Aristotele la categoria fondamentale delle loro teorie etico-politiche e cioè l’idea del «giusto per natura», e per altro verso l’abbia messa in crisi insinuando l’idea che la legge promulgata si sovrapponga arbitrariamente a tale «giusto per natura»; insinuando cioè l’idea che possa esserci un "giusto" solo per legge e non per natura.

Platone ed Aristotele ripresero dai sofisti la teoria del «giusto per natura» usandola però per rafforzare la legge civile, argomentandone l’identità. In tal modo essi evitano di affrontare il problema sollevato dalla sofistica e cioè quello del possibile conflitto tra giustizia vera e giustizia di comodo o tra giustizia e potere.

22

Page 23: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Sta di fatto, comunque, che il concetto di «giusto per natura», e quindi la teoria successiva del diritto naturale che la tradizione romana e cristiana sviluppò prevalentemente in funzione di conservazione sociale, nacque dalla sofistica con intenti polemici o eversivi; come categoria, cioè, mediante la quale si problematizzava o addirittura si negava la giustizia degli imperativi giuridici vigenti.

Con la sofistica matura, dunque, la distinzione tra natura e legge ed è con ciò insinuata l’idea che la legge abbia solo un valore convenzionale. In tal modo viene anche stabilito il presupposto da cui procedere per interrogarsi circa l'origine, i caratteri, il valore da dare alla convenzione civile.

Prende vita una critica sociale che attinge alle persuasioni proprie dell’individuo e anticipa in qualche modo il soggettivismo moderno. L’individuo può affermarsi facendo appello ad una norma naturale che è antecedente la società ed in forza della quale egli può trascendere le istituzioni stesse.

Va precisato che anche per la tradizione sofistica non si può pensare a qualcosa di unitario e concorde. L’immagine del sofista scettico, che mette in dubbio ogni norma stabilita, non copre l’intera tradizione sofistica. Tale immagine è quella che fu tramandata grazie alla critica platonica e corrisponde, certo, a verità. Antigone per esempio afferma che tutte le leggi sono contrarie alla natura18, e che « naturale » è solo l'egoismo, l'affermazione del proprio interesse. In prospettiva simile dovette porsi Glaucone, al quale nella Repubblica è attribuita una concezione contrattuale dello stato, quale composizione ragionata degli interessi; o anche Callicle, che nel Gorgia afferma essere la legge una barriera innalzata dai deboli contro la prepotenza dei forti. L’idea “giusto per natura” non è solo espressione di scetticismo; con essa introduce certo la differenza tra giustizia e potere19, ma non in nome di un disordine soggettivistico.

Il dibattito con i sofisti permette di cogliere un primo dato fondamentale della vita sociale e cioè il fatto che non esista legge civile che non sia sostenuta da un potere e non sia anche in qualche modo ad esso funzionale. La legge civile quale pura espressione dell’istanza morale è illusione. D’altra parte, se così fosse, se cioè il legislatore non avesse alcun potere di imporre la legge promulgata, la vita sociale cadrebbe nell’arbitrio del più forte.

La legge civile ha bisogno, al contrario, di un potere costituito a latere rispetto all’esame di pertinenza morale della legge stessa. La riflessione sul potere avrebbe dovuto conseguentemente costituire un aspetto essenziale della riflessione etica sulla società; ciò non accade nella cultura greca e non accadrà in quella cristiana antica e medievale.

La riflessione sul potere costituirà uno dei motivi sui quali si affermerà la modernità (pensiamo anzitutto al Macchiavelli).

La reazione anti-sofista di Platone e Aristotele non aiuta a cogliere tale problematica. I due filosofi riaffermarono con intransigenza il carattere «naturale» della società, meglio della polis o della comunità umana politicamente organizzata,

18. Cf. G. H. SABINE, Storia delle dottrine politiche, Ed. Comunità, Milano 1955, p. 25. 19. Caratteristica testimonianza di questo conflitto è l'atteggiamento di Antigone nei confronti di Creonte, nella tragedia di Sofocle: Antigone, vv. 450-457.

23

Page 24: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

opponendosi alla visione convenzionalista dei sofisti ma senza cogliere il problema del potere ad essa sotteso.

Si dedicarono a teorizzare la forma ideale e naturale di tale società, che dal loro punto di vista corrispondeva semplicemente alla forma ideale di costituzione politica. La reazione anti-sofista dei due grandi filosofi è all’origine di un pensiero forte il quale si produce in un contesto politico caratterizzato dal degrado delle istituzioni.

Lo stato veniva identificato con la struttura giuridica e la struttura giuridica era commensurata al diritto ideale; non veniva presa in considerazione la distinzione tra stato e società - divenuta del resto esplicita solo nel moderno pensiero illuminista20 - e quindi non poteva essere adeguatamente affrontato il problema dei rapporti tra stato (struttura giuridico-politica, che intende riflessamente se stessa come una struttura di ordine normativo) e società; così come non poteva essere affrontato il più generale problema della società quale complesso di rapporti che di fatto si impongono al comportamento dei singoli (pensiamo ai comportamenti di un imprenditore nel campo economico, o di un banchiere nel campo finanziario, oggi).

Le considerazioni svolte valgono in maniera più evidente per Platone, mentre richiederanno qualche precisazione per Aristotele.

C'è un testo auto-biografico di Platone che illustra magnificamente il suo atteggiamento spirituale a proposito dell'argomento politico; egli sta parlando della sua personale esperienza politica, prima nell'Oligarchia del 404 e poi nella restaurata democrazia:

Il risultato fu che io, che dapprima mi sentivo pieno di entusiasmo per la vita politica, quando m'avvidi del turbine di tale vita e del movimento incessante che agita le correnti mutevoli, mi sentii alla fine stordito... e vidi, alla fine, chiaramente, che per quanto riguarda gli stati attualmente esistenti, tutti i loro sistemi di governo, senza eccezione, sono cattivi... Le loro costituzioni sono quasi irrimediabilmente guaste, a meno che non intervenga qualche miracolo accompagnato dalla buona sorte. Pertanto, fui spinto a dire che la vera filosofia offre una posizione dominante, donde possiamo discernere in ogni caso ciò che è giusto per le comunità e per il singolo, e che, quanto all'umana specie, essa non sarà libera dai suoi mali fin tanto che, o il gruppo di coloro che seguono con giustizia e sincerità la filosofia non acquisti il potere politico, o la classe che ha il potere sulla città, non sia spinta da qualche decreto della provvidenza a divenire un gruppo di veri filosofi21.

L'abbandono della politica da parte di Platone, il suo giudizio pessimista sulla totalità delle istituzioni politiche esistenti, l'appello al miracolo e alla buona sorte perché le cose mutino, o anche - è la precisazione del miracolo di cui si tratta! - l'appello al governo dei filosofi, danno l'immagine esatta del carattere puramente astratto della filosofia politica di Platone.

20. Per una ricostruzione dell’idea di “società civile” è utile il libro di A.SELIGMAN, L’idea di società civile, Garzanti, Milano 1993 (Usa 1992). In esso si mostra la lunga storia dell’idea - vale a dire «il concetto di una entità collettica che esiste indipendentemente dallo stato» (p.15) - le cui radici «affondano nella riflessione cristiana sulla legge naturale, mentre l’articolazione che essa ha subito nell’illuminismo scozzese, all’inizio dell’era moderna, ha fornito lo spunto per un suo recupero all’interno di dispute a noi più vicine. Resuscitato negli anni ‘70, in occasione delle lotte fra il Movimento dei lavoratori polacchi e l’apparato statale, negli ultimi anni il concetto ha avuto un ruolo centrale nel dibattito politico dell’Europa orientale e occidentale, nonchè in quello statunitense», p. 7. Nelle pur diverse prospettive teoriche da cui viene guardata tale vecchia figura della teoria politica occidentale, l’elemento comune è la sua valenza di armonizzazione ed unificazione e dunque anche di ordine sociale. 21. Epimonide VII, 325d-326b.

24

Page 25: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Manifestano, insieme, la mira profonda del filosofo Platone, che non è quella di ritirarsi a contemplare ma di agire politicamente. Anzi, l’unico veramente abilitato a far politica è il filosofo.

Prendiamo brevemente in considerazione la Repubblica22. Per prima cosa, occorre osservare che lo scritto di Platone non sarebbe oggi

classificata come un trattato di scienza politica ma di morale. Il problema affrontato è quello dell'uomo buono e della vita buona, dei mezzi per conoscere e realizzare l'uno e l'altra.

Almeno inizialmente, si tratta di una riflessione che definiremmo etica; sebbene poi vi si discuta di ogni aspetto della vita umana, sia individuale che sociale. L’elemento teorico che tiene unito il discorso è di natura etica e cioè il 'modello' di “uomo buono”, al punto che essere uomini buoni e buoni cittadini, è la stessa cosa.

Ciò non impedisce a Platone di affrontare, poi, i temi prettamente politici riguardanti la forma dello stato e l’interrogativo su quale delle possibili forme sia la migliore. Il criterio mediante il quale stabilire la migliore è sempre di natura etica. La forma migliore di governo è quella che permette all’uomo di essere un uomo buono.

Alla fine del I libro è posta esplicitamente la domanda: “che cosa sia la giustizia”. Socrate dichiara di non saperlo ma, all’inizio del II libro, invita a considerare lo Stato quale entità che, essendo «più grande e più facile a discernersi», agevola la ricerca. Dallo Stato si passerà poi all'individuo, «procedendo dal più grande al più piccolo e stabilendo un'analogia».

Platone non nota un salto tra l’etica e la politica, tra le questioni poste dall’interrogativo sul bene e quelle poste dalla gestione della vita pubblica. La giustizia individuale si commisura alla norma della vita sociale senza soluzioni di continuità, per cui l’uomo buono è il buon cittadino dentro uno stato ideale.

Se e come sia possibile essere buoni e giusti nello stato in cui tocca di vivere e come lo stato possa e debba organizzare la vita e le risorse - che è poi il problema vero di un'etica politica - non è detto.

Anche sotto il profilo antropologico, tra individuo e stato non c’è soluzione di continuità, come sarà per tutta la tradizione cristiana. Lo stato nasce dai bisogni dell’individuo, precisamente dalla necessità di collaborare tra individui per produrre i beni necessari alla vita, per produrre e maneggiare gli utensili richiesti dal lavoro, per svolgere l’attività commerciale. Lo stato è espressione naturale degli individui o della natura sociale degli individui.

Questo è vero. La vita umana presenta tuttavia un salto tra l’ambito privato e l’ambito pubblico? I bisogni sociali degli individui sono solamente di natura materiale oppure anche di altra natura?

Per quanto riguarda l’organizzazione sociale dello stato, l’esigenza prima è quella della difesa. Si munisce allora di "guardiani" che difendano il territorio. Tali guardiani richiedono una educazione, la quale può essere svolta mediante la letteratura (insegna a distinguere il vero dal falso e ad imitare le persone giuste mediante la tragedia, la commedia e la poesia), la musica e la ginnastica. Non c’è bisogno della filosofia per i guardiani; ad essì è sufficiente ed anzi più appropiata l’educazione della sensibilità. La filosofia servirebbe invece ai politici.

22. Nelle opere della vecchiaia, il Politico e le Leggi, l'idealismo utopistico di Platone stempra un poco la sua perentorieià e fa qualche concessione all'esperienza.

25

Page 26: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Lo stato si fonda su quattro virtù fondamentali: la sapienza (capacità di dare giusti consigli), il coraggio (la capacità di mantenere le proprie posizioni), la temperanza (l’ordine, la continenza e la concordia) e la giustizia (la costanza nel mantenere i principi e l’ordine sociale).

Il pensiero politico di Platone e la sua idea di stato è storicamente condizionata dall'esperienza politica delle città-stato greche, anche se è da lui riflessamente rappresentata come universale e scaturente dalla natura stessa dell'uomo. In ciò egli si dimostra "idealista".

In seguito muteranno le forme dell'esperienza politica concreta e, assieme ad esse, muteranno anche gli ideali, a testimonianza dello stretto rapporto che lega circostanze effettuali e pensiero ideale.

La teoria politica prevalente continuerà a manifestare lo stesso vizio di Platone ed a rappresentare gli ideali politici come universali e senza rapporto alla situazione storica concreta ed a pensare che i mutamenti effettuali molto dipendano dai mutamenti delle idee. Il pensiero cattolico con maggior fatica si emanciperà da tale ideali.

1.3. Il maggior realismo politico di Aristotele

Per il pensiero politico di Aristotele occorre fare, come dicevamo sopra, alcune precisazioni. Anche se l'impostazione di partenza è quella di Platone, quella cioè della descrizione dello stato ideale, appare evidente in Aristotele un'evoluzione, nella direzione di una maggiore attenzione alle condizioni materiali.

Lo sviluppo della critica a Platone e la maggiore attenzione ai fatti che sorregge tale critica, lo conducono poi progressivamente a mutare l'impostazione stessa del problema ed in particolare ad abbandonare la pretesa di costruire il modello di uno stato ideale.

I momenti successivi di tale evoluzione sarebbero testimoniati, secondo l’opinione di W. JAEGER23, dai due (o tre) stadi distinti di redazione della Politica. I libri II, III, VII, VIII24 corrisponderebbero ad un primo progetto del libro, ancora molto

23. Aristotele: Fundamentals of tbe history of his development (trad.; l'originale tedesco è del 1923), Oxford 1934.24. Il libro è suddiviso in otto capitoli. Il primo affronta il tema dell’origine della città. La città è una comunità e, come ogni comunità, si costituisce proponendosi per scopo un qualche bene. Più il bene perseguito è comprensivo, più la città è tale, cioè comunità politica, unione delle parti. Le parti da unire sono due: maschio e femmina, padrone e schiavo; poi le varie piccole comunità quali le famiglie e il villaggio, le quali trovano nella città, in quanto essa è autosufficiente, la loro perfezione. Il maggior bene per una città è infatti l’autosufficienza, la capacità cioè di far fronte a tutti i bisogni dei cittadini. Di tale autosufficienza fanno parte le leggi e la giustizia; queste si connettono al fatto che l’uomo, a differenza degli animali, ha la “parola” e dunque sa indicare l’utile e il dannoso, il giusto e l’ingiusto, oltre a dar "voce" al piacere e al dolore (2). I rapporti di comando-obbedienza tra uomini sono fissati dalla natura e sono un bene, in quanto condizione del bene operare (4,6). All’interno del paragrafo dedicato alla crematistica (l’attività relativa al procurarsi i beni, diversa dall’economia, realtiva all’uso di essi) si distingue tra l’uso e lo scambio dei beni (5).Il secondo capitolo tratta dello stato ideale, partendo dal presupposto che la città non può essere pensata secondo il modello della comunanza familiare, altrimenti diverrebbe famiglia; va dunque rispettata la proprietà privata dei beni, il cui uso può essere comune e vanno continuamente rinnovate le leggi. Il terzo capitolo introduce il tema della relazione tra il cittadino e la città e la distinzione tra uomo dabbene (virtuoso) e buon cittadino (osservante delle leggi); quindi si interroga sulla costituzione. Il capitoli IV-VI indagano le diverse forme di costituzione per scegliere la migliore; infine gli ultimi due affrontano il tema dell’idea della vita cittadina e dell’educazione politica.

26

Page 27: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

idealistico e rimasto peraltro incompiuto, ed i libri IV-VI sarebbero stati aggiunti in un tempo successivo. In questi ultimi, l’attenzione va agli aspetti politici più concreti quali le diverse forme possibili degli stati, le cause della loro decadenza, il diverso modo di strutturarsi in rapporto all’attività economica25, i modi ed i mezzi per dar stabilità alle istituzioni politiche.

L’ultimo libro ad essere aggiunto, ad opera ormai conclusa, sarebbe il primo.

Aristotele si allontana quindi dalla prospettiva ideale di Platone, dedicando maggiore attenzione alla tradizione politica, ai costumi, alla saggezza accumulata dai secoli e trasfusa nelle leggi. La sapienza del migliore dei governanti, sostiene, non vale quanto la migliore delle leggi possibili.

La spaccatura tragica tra la realtà effettuale e la norma ideale, denunciata dalla Repubblica di Platone, si rimargina e cede il posto ad una valutazione più ottimistica della politica. La virtù morale non è un bene da perseguire fuggendo dalla vita politica bensì costituisce la forza che muove il processo sociale. Essa si concretizza anzitutto nei costumi e nelle consuetudini di un popolo, poi nelle leggi.

Nel momento in cui riconosce l’importanza dei costumi e delle consuetudini, Aristotele deve anche modificare il modo di procedere della riflessione teorica. Deve adottare un pensiero meno astratto, meno razionalistico e deduttivo, e far posto alla rilevazione del «senso comune», degli ideali politici di fatto esistenti. Un tale modo di procedere è esplicitamente formulato nell’Etica nicomachea, ad esempio.

Gli ideali politici costituiscono una delle componenti fondamentali della realtà sociale; essi costituiscono il contesto dentro il quale l’individuo può esercitare la sua libertà di cittadino. L’attività del cittadino si muove dentro un contesto culturale dal quale si sente legittimata. Per Aristotele, infatti, il consenso dei cittadini è un ingrediente essenziale per assicurare e per determinare la bontà di una legge e di un regime politico.

Oltre ai costumi, alle consuetudini, agli ideali politici, in Aristotele trova spazio e considerazione il potere. Trova spazio, cioè, quella riflessione politica che prendere in considerazione lo stato nella sua realtà effettiva, con le sue necessità e i suoi limiti, e diventa scienza (o arte) proprio in ragione di tale sua aderenza all’effettuale; scienza ed arte del saper scegliere il meglio nelle circostanze determinate (come esplicitamente dichiarato all’inizio del IV libro).

Un terzo segno della sensibilità prettamente politica di Aristotele è il suo distinguere tra ideale etico (uomo buono) e identità politica (buon cittadino). La distinzione la troviamo esplicitamente affermata in almeno due occasioni26. Essa segnala il divario che esiste tra le leggi dello stato e la norma morale; divario che Aristotele realisticamente riconosce e dal cui riconoscimento trae la conclusione che l’educazione dell’individuo non può immediatamente riferirsi alle leggi politiche.

I passi qui riportati a dimostrazione della maggior avvertenza politica di Aristotele non sovvertono tuttavia l’impostazione di fondo che rimane platonica. Il fine

25. Nel libro IV è inserita una classificazione degli stati, secondo le classi sociali che li compongono: quindi, in realtà, una classificazione delle società, e non degli stati. 26. Inizio del libro III della Politica, e pagine conclusive dell’Etica e Nicomaco.

27

Page 28: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dello stato è ancora, anche per Aristotele, quello di fare dei buoni cittadini e l’etica viene normalmente identificata con la politica.

Inoltre occorre tener presente che la ripresa cristiana di Aristotele fatta da Tommaso, valorizzerà ed accentuerà gli elementi platonici presenti nel suo pensiero. Il procedimento essenziale del pensiero di Tommaso sarà infatti quello che va dal diritto naturale (il giusto in astratto) alla promulgazione della legge da parte del principe, il quale deve ispirare le sue leggi a quel principio ideale. Tra la legge e la coscienza degli individui non si pongono difficoltà di raccordo.

Non si avverte cioè la necessità di rapportare il giusto in astratto, espresso nella legge, al concreto "sentire" dei cittadini o alla coscienza individuale e dunque alle consuetudini di fatto vigenti, in riferimento alle quali si esercita poi l'arte del governare.

1.4. Lo stoicismo e la naturalizzazione delle istituzioni politiche

L'eredità più decisiva lasciata dallo spirito greco all’occidente cristiano, in materia politica, come anche in materia etica generale, non fu quella di Platone e Aristotele bensì quella dello stoicismo.

Il pensiero politico dei due grandi pensatori fu eminentemente aristocratico, e per di più legato ad un'esperienza storica concreta - quella della polis greca - giunta alla fine dei suoi giorni già durante la vita di Aristotele. Esso esercitò un'influenza decisiva solo in tempi successivi e unicamente sul piano dottrinale; il loro pensiero fornì ai pensatori cristiani una prospettiva speculativa e alcune categorie concettuali essenziali per riflettere sul fatto politico.

Viceversa, lo stoicismo fu un movimento di pensiero non accademico, che plasmò la coscienza di larghi strati di popolazione, e che fornì anche alla giurisprudenza e poi alla produzione legislativa criteri e orientamenti, incorporandosi nel sistema giuridico latino e medioevale.

Lo stoicismo è per eccellenza la filosofia della crisi politico-culturale greca e divenne poi filosofia del periodo di crisi, fino all’impero romano.

L'impero macedone prima, quello romano poi misero a contatto culture diverse, con il risultato di evidenziare la particolarità e la contingenza di ciascuna di esse. La creazione di queste grandi unità politiche trasformò poi profondamente il significato e il valore della dimensione politica. Le città-stato greche differivano di molto sia dalla Roma repubblicana, sia dal piccolo stato nazionale ebraico, che peraltro conobbe il trauma dell'impero cosmopolita già dal 587 a.C.

Nella città greca, esisteva una appartenenza politica capace di sostenere l’identità del singolo cittadino, mentre la partecipazione alla vita pubblica assicurava l'orizzonte unitario del suo impegno etico. La concentrazione di un enorme potere nelle mani di pochi, come accadde per l’impero romano, l'estraneità spirituale dell'imperatore nei confronti dei suoi sudditi, la diversità di religione e tradizione, l'instabilità ed il mutamento rapido e spesso arbitrario dei princìpi e delle leggi, erose il significato della politica. Nello stesso tempo, ridusse le differenze sociali di nazionalità e di classe, costituite dal possesso pieno dei diritti politici, accomunando tendenzialmente tutti in una condizione più essenziale e previa rispetto a quella politica: la condizione umana.

28

Page 29: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Sotto tale profilo, l’istanza dello stoicismo appare simile a quella agitata dai sofisti; entrambi fanno appello alla natura. Per la sofistica tale appello aveva il valore di semplice principio critico, dentro un ordine costituito che funzionava. Per lo stoicismo, l’appello alla natura vien fatto valere quale fondamento di una nuova identità. Assume perciò una rilevanza maggiore, più radicale.

In questo clima spirituale la «filosofia» stoica si propone con successo crescente quale sostituto della più antica «religione» politica. Non dimentichiamo che, tutte le istituzioni politiche fondavano il sistema delle pene su motivazioni religiose. Questo sarà vero anche per l'impero romano, anche se in forme sempre più nominalistiche e al prezzo di un'ipocrisia pubblica sempre più clamorosa.

Con lo stoicismo, accade perciò che la «filosofia» sostituisca la «religione», che un'istanza di ragione sia ritenuta superiore all'autorità delle tradizioni sacre e delle leggi patrie. L’esito è il costituirsi di un'etica individuale che soppianta l'etica politica.

L'istanza superiore posta a fondamento dell'etica individuale stoica è una ragione naturale e cioè una legge cosmica, di «natura» la quale governa l'universo e costituisce l’unico elemento realmente divino nel mondo. L’universo stoico non è più il "cosmo" dei greci, nel quale unità delle cose e unità della vita sociale si ritrovavano assieme. È un universo puramente naturale il cui ordine è accessibile al singolo in quanto dotato di logos (o ratio). È principio insito nell'anima umana ed insieme norma obiettiva che pervade tutte le cose.

Così il fine è dato dalla vita che segue la natura, la quale non è solo la nostra natura specifica, ma la natura dell'universo; una vita in cui non facciamo nulla che sia in contrasto con l'universale, cioè con la giusta ragione che pervade tutte le cose, ed è simile a Zeus, guida e rettore dell'universo. (Diogene Laterzio).

La filosofia stoica consiste nella conoscenza di questa recta ratio, ad esclusivo uso dell’individuo e non più della vita politica.

La filosofia nient'altro è che questo: la retta norma del vivere (recta vivendi ratio); la scienza del vivere onesto (honeste vivendo scientia); l'arte di condurre una vita retta (ars rectae vitae agendae). (Seneca).

Quali sono le conseguenze di questa rifondazione meta-politica dell'etica, sul piano politico? Astrattamente sono possibili due atteggiamenti: quello che sottolinea la continuità tra legge naturale e legge civile, e quello che, al contrario, ne sottolinea la discontinuità e dunque la convenzionalità o arbitrarietà della seconda.

Entrambi gli atteggiamenti ebbero rappresentanti nello stoicismo, sebbene quello prevalente sia stato decisamente il primo. D'altra parte, anche il secondo atteggiamento - importante per la parentela spirituale che ebbe con un certo filone cristiano (Agostino) - non concludeva alla necessità della rivoluzione politica, ma ad una rassegnazione tragica, «stoica» appunto, nei confronti del potere. La debolezza o impotenza della ratio di fronte al potere politico era considerato anche questo fatto appartenente alla legge della natura.

Il primo atteggiamento propiziò l'infiltrazione e l'influenza sostanziale dello stoicismo sulla tradizione giuridica romana.

Le tappe fondamentali sono le seguenti. Negli anni 150-125 a.C. l’influenza stoica è possibile ravvisarla nell'opera dei giuristi romani del circolo di Scipione

29

Page 30: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Emiliano. La figura del Praetor peregrinus, in particolare, e cioè il giudice nelle cause tra cittadini appartenenti a diversi ordinamenti giuridici, ricorre al principio dell'equità inteso in senso stoico e cioè come uno ius gentium, diritto non scritto ma vigente universalmente come una legge di natura. Tale figura preparerà la nozione, concettualmente più elaborata, di ius naturale.

Fu Cicerone - ed è la seconda tappa - a dare sistemazione organica a tale fondamentale principio stoico di una “legge di natura” che precede quella politica:

Vera legge è la ragione, che è conforme alla natura ed è diffusa tra tutti gli uomini. Col suo comando invita al dovere, con la sua proibizione distoglie dall'ingiustizia... invalidare questa legge con leggi umane non è lecito..., né il senato né il popolo romano possono sciogliercene, e non si deve cercare chi ce la spieghi e interpreti, poiché non è una a Roma e un'altra ad Atene, una legge oggi ed una diversa domani, ma una sola legge eterna ed immutabile... (Repubblica, III, 22).

Ecco ormai acquisito il concetto di “diritto naturale”, che così durevolmente influenzerà la storia dell'etica sociale. La «legge naturale» stoica è ormai anche principio giuridico, che vale cioè nell’ambito del «diritto», e si pone a sia dell’etica e sia della politica.

La definizione che Cicerone dà delle istituzioni politiche, è eloquente in proposito:

Lo stato dunque è la casa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi gruppo di uomini, messo insieme in qualche modo; ma l'associazione di un numero considerevole di uomini, uniti da un accordo comune circa la legge ed il diritto e dal desiderio di partecipare alla comune utilità (Repubblica, 1, 25).

Una definizione questa che fa riposare l'istituzione politica non sul semplice contratto a scopo utilitaristico, ma sul riconoscimento etico di ciò che è «giusto», possibile per tutti gli individui in quanto dotati di ragione.

L'opera dei giuristi del II e III secolo, poi raccolta nel Digesto per incarico di Giustiniano (533) e trasmessa così a tutto il medioevo, costituisce la terza importante tappa della penetrazione di idee stoiche nell'ordinamento giuridico romano. Propria di questi giuristi (Ulpiano, Papiniano, Marciano, ecc.) è la distinzione sistematica tra ius civile, ius gentium e ius naturale. Cicerone usava ancora come sinonimi il secondo e il terzo; essi invece li tengono distinti, giungendo a ipotizzare la divergenza tra consuetudine comune e diritto naturale. Nel caso della schiavitù, ad esempio, lo ius naturale fa tutti gli uomini liberi e uguali ma non altrettanto lo ius gentium.

L'opera di questi giuristi, se da un lato promosse l'equità del diritto vigente, mediante l'interpretazione giusnaturalistica, d'altro lato lo consacrò come «naturale» e quindi dotato di una imperatività propriamente etica.

Il filone stoico pessimista è quello rappresentato ad esempio da Seneca, Marco Aurelio, Epitteto. Esso separa gli ideali etici dalla norma giuridica. La legge naturale, avente dignità di legge etica, era legge sociale soltanto in una mitica età dell'oro, da cui ci separa una decadenza storica fatale. Proprietà privata e schiavitù in particolare, che pure appartengono al diritto delle genti, non sono giuste dal punto di vista del diritto della natura, la quale non ha previsto alcuna divisione dei beni naturali, tra gli uomini. Lo stato è quindi interpretato come uno strumento coercitivo, inevitabile nella presente condizione per rendere sopportabile la vita; ma le sue leggi sono private della dignità di leggi etiche.

30

Page 31: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2. La tradizione cristianaLa tradizione cristiana, così come giunge a noi attraverso il sedimento dei

manuali di teologia morale o le encicliche sociali dei pontefici, appariva, almeno fino a non molti decenni fa, anacronistica, incapace cioè di offrire punti di riferimento significativi per la riflessione cristiana contemporanea sui problemi posti dalla presenza responsabile alla vicenda sociale in atto.

Un momento di cambiamento importante fu il Vaticano II. Su tale anacronismo e sulle vie del suo superamento occorre anzitutto riflettere.

Per comprendere a fondo il valore e il significato della tradizione dottrinale cristiana, e cattolica in particolare, occorre risalire ai maestri più autorevoli: ad Agostino, a Tommaso, ma anche a Lutero. Il mondo protestante ha obiettive responsabilità, nel bene e nel male, in rapporto alla genesi della coscienza moderna. Solo chiarendo il pensiero di tali maestri è possibile intendere il messaggio che quella tradizione porta con sé e discernere gli elementi perenni da quelli caduchi.

Il testo sacro lo interrogheremo solo successivamente, alla luce della coscienza del fatto sociale che avremo acquisito recensendo la storia del pensiero occidentale, cristiano e non. La necessità di chiarire a noi stessi il problema o la domanda, prima di interrogare la Bibbia, è maggiore per il tema sociale, dal momento che esso risulta esplicitamente tematizzato in nessuno degli autori sacri. A dire il vero, risulta ancora poco presente anche nell’attuale ricerca esegetica.

Iniziamo dunque la trattazione della tradizione cristiana, dagli orientamenti fondamentali in materia di comportamenti sociali, di fatto presenti nella Chiesa, già a partire dai primissimi anni. L’intento non è esegetico ma storico.

2.1. Cenno alle dottrine sociali del Nuovo Testamento

La predicazione etica di Gesù interessò in maniera esplicita soltanto - o quanto meno, soprattutto - i rapporti «brevi». I rapporti cioè affidati alla libera scelta personale, appartenenti all’ambito dell’esperienza immediata, al di fuori e al di là delle regole socialmente sanzionate.

Gesù si imbatte, però, subito nelle maglie del potere. Appare sbarrata la via che identifica il messaggio cristiano a procedere dalle

esigenze sociali e politiche di un popolo, per quanto siano drammatiche27. La giustizia che Gesù è venuto a portare ed ha egli stesso predicato, non è subito quella che la forma di uno Stato e le sue leggi possono assicurare.

27 . Vedi in tal senso di tentativi di interpretazione politica del vangelo, compiuti da varie parti negli anni ’60. Significativo per la chiarezza con cui esprime l’intento perseguito, quello di BELO F., Una lettura politica del vangelo, Claudiana, Torino 1975 (1974). Essi esprimono, nonostante l’evidente forzatura e gli scarsi risultati obiettivamente ottenuti, un’esigenza fondamentale, che sarà espressa in termini teologicamente più pertinenti da G.B. Metz, autore che considereremo più avanti. Si tratta della necessità di tematizzare il rilievo sociale e politico, od anche più generalmente 'pubblico', nell’evento cristologico; preferisco usare l’espressione “evento cristologico”, piuttosto che messaggio evangelico o messaggio di Gesù, volendo con l’espressione intendere la totalità di ciò che riguarda Gesù, sia sul piano storico sia sul piano misterico.

31

Page 32: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Altrettanto vero è l’altro fatto, che Gesù fu ucciso non per motivi che oggi diremmo umanitari, ma per motivi politici, per questioni di potere.

In che rapporto stia questa nuova giustizia con quella così chiamata dagli uomini, espressa mediante leggi e consuetudini, non è detto sinteticamente da Gesù; è tutt'al più solo lasciato intendere con il suo comportamento concreto o con qualche fugace sentenza.

Nel suo comportamento concreto Gesù non si oppose ai poteri stabiliti, non fu infatti zelota e non si oppose in linea di principio al potere di Cesare; neppure condivise lo spirito settario degli esseni, e cioè non si sottrasse alle competenze di governo delle istituzioni giudaiche, del Sinedrio in particolare. Benché - e qui sono rilevanti poche sentenze - abbia più volte censurato il comportamento dei capi giudei e pagani.

I discepoli di Gesù, diventati pastori delle comunità cristiane, furono indotti dal loro stesso ministero e dai problemi nuovi che la diffusione del cristianesimo creava a prendere più esplicitamente posizione sul problema. Pur rimanendo i rapporti «brevi» quelli più importanti e qualificanti nella conversione cristiana, proprio perché le comunità apostoliche non vollero essere sette separate, si ponevano ineluttabilmente i problemi connessi all'inserimento in una struttura sociale, la quale era intesa come normativa dalla coscienza comune, ma insieme era pagana quanto alle sue origini e giustificazioni esplicite.

L’esigenza di cui qui parliamo presenta un duplice aspetto. Da una parte essa riguarda il rapporto tra le neonate realtà ecclesiali e la società con le sue istituzioni ed il suo potere; dall’altra riguarda la vita quotidiana dei cristiani, nel senso che la Chiesa nascente, per poter promuovere una vita di fede reale, doveva avere la capacità di indicare quale fosse lo stile cristiano della vita, a procedere dalla concrete circostanze dell’esistenza quotidiana di quel tempo.

La linea fondamentale della parenesi apostolica sui rapporti sociali fu tutt’altro che rivoluzionaria; anche perché era palpabile il rischio che le comunità cristiane apparissero come una delle tante organizzazioni sovversive. Gli apostoli predicano perciò l'obbedienza alle istituzioni politiche e alle leggi dell'impero.

La giustificazione di tale comando fa però esplicito appello all’unica e sovrana volontà di Dio. Il cristiano presta obbedienza ai poteri costituiti ma distinguendo ormai nettamente tra l’amministrazione politica del potere e l’origine prima del potere stesso. In tal distinzione va ravvisata la prima radice della secolarizzazione del potere politico, che avrà in Agostino la più esplicita ed imponente formulazione. La secolarizzazione del potere la intendiamo come riduzione del suo profilo morale alla funzionalità sociale. I governanti rappresentano certamente Dio ma solo in vista del bene del popolo. Da una parte, quindi, l’obbedienza politica è sottomessa a quella dovuta a Dio; dall’altra, anche l’operato dell’imperatore va criticamente valutato per rapporto al bene del popolo.

Le categorie mediante le quali gli apostoli esprimono i doveri del cristiano verso l’autorità pubblica sono molto spesso mutuate dal linguaggio dello stoicismo e del giudeo-ellenismo. Dunque, sono poco pensate teologicamente, come del resto accade per la morale in generale.

32

Page 33: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Nel cristianesimo primitivo va riconosciuta, tuttavia, anche una seconda tendenza; di minoranza e complementare a quella già menzionata. Una tendenza meno «conformistica». Alludiamo all’atteggiamento che trova espressione nell’apocalittica e nel giudizio che in essa viene pronunciato sui poteri di questo mondo e sulla società pagana, nel suo insieme28.

Il linguaggio e le categorie di pensiero proprie di tale seconda tendenza appartengono maggiormente all’ambiente ebraico e alla stessa tradizione vetero testamentaria; sono più 'cristiane' delle prime, potremmo dire, o per lo meno, sono meno pagane.

Tuttavia, la novità del cristianesimo rispetto alla tradizione giudaica, relativizza anche questo tipo di argomentazione. Può darsi, infatti, che certe forme stoiche risultino più vicine a Cristo, di altre forme ebraiche. Bisogna distinguere tra il messaggio biblico veterotestamentario e il giudaismo del tempo di Gesù.

2.2. I primi tre secoli

I primi due secoli costituiscono la fase apostolica del cristianesimo; esso si diffuse prima tra gli ebrei, poi nel bacino del Mediterraneo, entro i confini dell’Impero romano.

Le classi dapprima interessate furono quelle popolari; poi, nel corso del secondo e terzo secolo, ci furono conversioni anche tra le classi colte, tra i retori e i giudici.

La sua diffusione fu certo osteggiata dalle autorità ma non solo da esse; talvolta il popolo costituì ostacolo maggiore29. Alle ragioni religiose dei giudei, si aggiungeva, infatti, l’avversione ai cristiani per motivi sociali, quale, ad esempio, l’atteggiamento di favore tenuto nei confronti degli schiavi e il rifiuto della religione di stato.

In tale periodo del cristianesimo si prolungano sostanzialmente i due filoni già presenti nel Nuovo Testamento e in latente tensione reciproca.

L’atteggiamento «conciliante» nei confronti della società pagana, delle sue istituzioni e anche in certa misura della sua cultura ufficiale, è rappresentato emblematicamente dai Padri Apologisti.

Prima di parlare di atteggiamento conciliante o meno, e dunque di una qualche forma di 'strategia' politica, occorre prendere atto di un più fondamentale atteggiamento che la Chiesa primitiva matura nei confronti della sua condizione storica o della sua presenza nel mondo. Al di là del fatto che occorra difendersi o collaborare, i cristiani cercano di capire quale sia la loro collocazione nella realtà mondana, a seguito della fede in Cristo.

Il documento più importante e più celebre in proposito lo troviamo nella Lettera a Diogneto (fine II sec.; paragrafo VI) nel quale troviamo le affermazioni più volte rivisitate dal cattolicesimo politico conciliare o post-democristiano:

«I cristiani sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo: anche i cristiani sono disseminati nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo: anche

28. Cf. in particolare Apoc. 18; le descrizioni catastrofiche della società pagana sparse un po' in tutto l'epistolario paolino (specie Rm 1, 18-32) orientano nello stesso senso.29. Risulta infatti che l’opinione pubblica pagana era «animata da una profonda animosità anticristiana», BARZANO’ A., I cristiani nell’impero romano precostantiniano, Àncora, Milano 1990, p. 71.

33

Page 34: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

i cristiani abitano nel mondo, ma non provengono dal mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; anche i cristiani si sa che sono nel mondo; ma la loro pietà rimane invisibile. La carne odia l’anima e le fa guerra, senza averne ricevuto ingiuria, ma solo perché le proibisce di godere dei piaceri: anche il mondo odia i cristiani, che non gli hanno fatto alcun torto, solo perché essi s’oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne, che l’odia, e le membra: anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa stessa sostiene il corpo: anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma essi stessi sostengono il mondo. L’anima immortale abita una tenza mortale: anche i cristiani dimorano come pellegrini tra le cose che si corrompono, in attesa dell’incorruttibilità dei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande, l’anima si fa migliore: anche i cristiani, puniti, si moltiplicano di giorno in giorno. Tanto alto è il posto che a essi assegnò Dio, né è loro lecito abbandonarlo.

Nel brano qui riportato, possiamo constatare una precisa consapevolezza della rilevanza 'sociale' del cristianesimo, dal momento che lo si pensa come il principio vitale della società romana del tempo e del mondo in generale.

Pensa tale rilevanza con schemi teologici, senza la preoccupazione e l’esigenza di precisare le forme dell’interazione tra cristiani e società, sui diversi piani della vita sociale. D’altra parte l’intento era fondamentalmente apologetico ed il contesto ancora quello di una chiesa di minoranza e perseguitata.

La difesa della religione cristiana prodotta negli scritti apologetici ha come destinatari le autorità giuridiche ma anche il popolo, e le dicerie che in esso serpeggiavano30. Si estende poi, con molte sfumature, alle concezioni religiose presenti a quel tempo, le quali erano spesso accomunate e mischiate tra loro in un atteggiamento sincretistico.

E’ chiara dunque la preoccupazione di fondo che ispira i padri apologisti: in un ambiente per molti aspetti istintivamente ostile nei confronti del cristianesimo, essi vogliono mostrare la falsità dei pregiudizi contro i cristiani, vogliono dimostrare come i cristiani debbano essere considerati non solo leali, ma ottimi cittadini. L'ostilità popolare nei confronti del cristianesimo, si comprende considerando la stretta solidarietà che legava le comunità e il riserbo (l'«arcano») di cui esse si circondavano agli occhi dei pagani; i cristiani infatti non partecipavano a quelle manifestazioni della vita pubblica che comportavano riferimenti religiosi pagani; ancora, le comunità cristiane, con l'abolizione delle distanze sociali e la diffusione prevalente presso le classi umili potevano apparire - a chi le considerasse dal di fuori - come un movimento eversivo ed ostile nei confronti dell'ordinamento sociale pubblico e giuridicamente sanzionato.

Clemente Alessandrino, ad esempio, nel primo libro degli Stròmata afferma: «l’arte regale comporta una parte divina: quella, ad esempio, per cui il re si conforma a Dio e al suo santo Figlio» (I, 158,2). Egli assume l’idea stoica della legge vale a dire la concezione di legge come recta ratio e dice: «Si ha dunque ragione di affermare che la legge è un dono di Mosè, poiché essa è norma del giusto e dell’ingiusto. E io la chiamerei volentieri con il termine qesmo/j (=legge, statuto; no/moj significa invece costume), perché essa ci è stata data da Dio, attraverso Mosè» (I, 167, 1).

Si fa strada l’idea di un’autorità ministeriale, non assente nel mondo antico, ma ora giustificata teologicamente (Barbero, 491).

L’atteggiamento invece critico nei confronti dell’Impero si manifesta nell'obiezione di coscienza nei confronti del culto all'imperatore, nella proibizione di

30. Vedi in proposito SIMONETTI M., Letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni-Accademia, Milano 1969, pp. 57-58.

34

Page 35: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

partecipare a spettacoli pubblici, a riti religiosi di qualsiasi genere che solennizzavano la vita pubblica, nella proibizione di esercitare professioni come quella di pittore, scultore, attore, maestro di scuola, lottatore, mago, o indovino.

Secondo alcuni, l'incompatibilità si estendeva anche ad altri ambiti: per esempio al servizio militare31 o di accettare funzioni pubbliche. In taluni casi addirittura l'incompatibilità diventa l'atteggiamento spirituale di fondo, e l'obbedienza all'autorità pagana è soltanto tollerata: si veda Tertulliano («l’immagine di Cesare, quella che è impressa sulla moneta, e a Dio l’immagine di Dio, quella che è nell’uomo, cioè, il denaro a Cesare e se stessi a Dio» De Idolatria, 15, 3) e vari cristiani eterodossi, filo-gnostici, che auspicavano la ricostruzione dal nulla di una società su basi evangeliche32. Assieme a Tertulliano è un po’ tutto il cristianesimo africano a presentare un atteggiamento critico verso l’Impero.

Una prima forma di tale opposizione è quella che potremmo chiamare dell'utopia cristiana. Essa propone un programma di riforma, che ha alla sua base la conversione dei cittadini, e - soprattutto - dei prìncipi e di tutti coloro che hanno potere nella società (ricchi, proprietari fondiari, giudici, ecc.): pensiamo per esempio alla predicazione e all'opera sociale di Basilio e di Giovanni Crisostomo33, pensiamo al «comunismo» e alla condanna intransigente della ricchezza propria di Pelagio34. E’ un atteggiamento questo che per natura sua fu caratteristico dei primi tempi dell'esistenza pubblica del cristianesimo, quando si poteva ancora sperare che l'opera pastorale dei vescovi, fondata sul ministero della parola e sulla disciplina sacramentale, potesse indurre i cristiani a cambiare la società.

Più tardi, quando ormai la legittimazione ecclesiastica dell'ordine sociale stabilito poteva essere considerata un fatto acquisito, l'atteggiamento di evangelismo sociale divenne ineluttabilmente un atteggiamento di critica ecclesiastica, che metteva in discussione il modello sociologico realizzato dalla chiesa cattolica, e proponeva il modello alternativo della «setta», non compromessa con la società stabilita.

E’ stato soprattutto E. Troeltsch35 che, quale discepolo di M. Weber e sulla traccia del suo metodo storico ideal-tipico, elaborò sistematicamente la distinzione tra il tipo sociologico «chiesa» e il tipo sociologico «setta», e impiegò tale distinzione nello studio della storia delle dottrine sociali. Caratteristica della «chiesa» è la convinzione che la salvezza di Cristo abbia fondamentalmente un'esistenza storico-

31. Vedi l’episodio della recluta Massimiliano: «Io non milito nell’esercito di questo mondo; appartengo alla milizia del mio Dio…Io sono cristiano e non mi è lecito portare al collo il marchio di piombo dopo di aver ricevuto il sigillo salutare del mio Signore» (Mart. Massimiliani, I, 6; cit. in Barbero 493) Sul servizio militare, la prima presa di posizione avviene nel 314, durante il Concilio di Arles, nella quale si scomunicano i disertori (Barzanò, o.c., p. 134). Ciò non toglie che esistesse una sensibilità per la pace ed il rispetto della persona capace di concretizzarsi anche in vere e proprie obiezioni di coscienza; la più vivace sotto tale profilo appare la Chiesa africana tra il III e IV secolo (vedi TANZARELLA SERGIO, Rifiuto del servizio militare e della violenza nel cristianesimo africano, in “Agostinianum” XXXIV 12 (1994) 455-465.32. Per esempio, Epifane figlio di Carpocrate. Cf. G. BARBERO, Il pensiero politico cristiano. Dai Vangeli a Pelagio, UTET, Torino 1962, pp. 151 ss; l'opera del Barbero - un'antologia di testi, ciascuno dei quali ha una breve presentazione e un corredo bibliografico esauriente sull'autore - è uno dei migliori strumenti per l'accostamento del pensiero politico cristiano nell'epoca patristica.33. Vedi una scelta di testi dei due Padri in G. BARBERO, Op. cit., rispettivamente pp. 325 ss. e 503-50834. Ibidem, pp. 555-619.35. L'opera che interessa è Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, La Nuova Italia, Firenze 1969, specie il I vol. (il II è interamente dedicato alla tradizione protes.tante); la caratterizzazione del tipo-ideale «setta» è data alle pp. 463-535.

35

Page 36: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

obiettiva, incarnata in istituzioni (ministeri sacri, sacramenti), la cui verità ed efficacia non è immediatamente legata alla santità soggettiva di coloro che ne sono responsabili. Mentre della «setta» è caratteristica la convinzione che la presenza storica della salvezza sia sempre legata all'avvenimento incerto e personale della conversione. Sicché il cristianesimo, nella sua realizzazione sociologica, può condurre soltanto alla piccola comunità fervente, in costante atteggiamento di tensione nei confronti della società ufficiale.

Un primo esempio storico di come l'evangelismo sociale di fronte ad una chiesa compromessa conduca allo spirito della «setta» fu il donatismo: in esso peraltro l'istanza evangelica si combinava con motivi di polemica etnica e culturale. Nel medioevo rappresentarono questo atteggiamento settario di radicale riforma sociale i Patari lombardi, i Catari filo-manichei di origine orientale, il movimento valdese, e in generale molti movimenti pauperisti di riforma ecclesiastica. Il radicalismo evangelico si espresse insieme come esigenza di riforma ecclesiastica e di insubordinazione civile in G. Huss, che perseguì un programma di ricostruzione della società secondo i princìpi della lex evangelii o lex naturae, da lui identificate. Possiamo ricordare ancora nello stesso senso il Vescovo Muentzer e il movimento della rivolta dei contadini (1524-1525), in polemica con il quale si precisò il pensiero sociale di Lutero.

Tuttavia l’atteggiamento prevalente fu quello conciliante e corrispose ad una fondamentale continuità tra il messaggio cristiano e l’ambiente culturale di allora36.

Tale atteggiamento trovava giustificazione in due fatti: la forte tensione escatologica delle prime comunità cristiane e la continuità culturale con la morale diffusa nell’ambiente romano di allora, lo stoicismo in particolare.

Il primo fatto, la tensione escatologica, induce ad un atteggiamento conciliante in quanto distoglie dall’oggi, dalle preoccupazioni economiche e le ambizioni politiche. Il tempo che si è fatto "breve" rende irrilevante il durare delle cose mondane e degli interessi o delle ansie che le accompagnano. Non rivestono interesse gli interrogativi sulla durata del potere giudaico o di quello romano, sulla durata delle persecuzioni, su come debba reagire la Chiesa e così via.

Il cristiano che aspetta come imminente l’incontro ultimo con Cristo non avverte in sé la propensione per l’impegno nelle realtà terrene; né per un impegno pratico e neppure per un impegno teorico. Sia la condizione sociale, sia la condizione matrimoniale sono viste solamente alla luce del destino ultimo dell’uomo e valutate come buone o cattive in quanto avvicinano o distolgono dall’unione con Dio.

Pensiamo alla figura del martire e del vergine e al rilievo che essa ebbe nei primi tre secoli della Chiesa, sotto il profilo spirituale ma anche morale.

Nello stesso tempo, la polarizzazione escatologica della coscienza estremizza la visione e il giudizio sulla realtà storica; i poteri politici, le grandi città, divengono simbolo del male cosmico che si oppone a Cristo. In realtà con quei poteri e quelle città i cristiani dovranno fare i conti e diverranno parte attiva in essi.

Il mutamento che fece del cristianesimo una forza socialmente riconosciuta avvenne in modo tale da assegnare all’autorità ecclesiastica un ruolo politico sostitutivo e in ogni caso di primissimo piano. Ciò avvenne al seguito di una particolare forma di vita cristiana, erede della primitiva tensione escatologica: il monachesimo. Non avvenne dunque in forza di una presenza cristiana radicata nel

36. Anche SABINE G. sostiene questa tesi (o.c., p. 137).

36

Page 37: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

territorio ma di una spiritualità che aveva come programma di vita la fuga dal mondo. Fu il mondo monastico a dare alla Chiesa le personalità più forti ed eminenti; fu il 'mondo' monastico a costituire un luogo di sopravvivenza della grande tradizione giuridica e letteraria romana e, almeno in parte, greca, nel tempo delle invasioni barbariche; fu ancora per tanta parte all’origine del movimento evangelizzante, crogiuolo di una 'inculturazione' delle popolazioni barbariche.

In Origene, ad esempio, la legge dello Stato è considerata obbligante, a meno che non contrasti con la legge divina: «Poiché due sono le leggi fondamentali, quella naturale, di cui è autore Dio, e quella scritta, che è formulata nei diversi Stati. Ora, quando la legge scritta non è in contrasto con quella di Dio, conviene che i cittadini la osservino e la antepongano alle leggi straniere; ma quando la legge di natura, cioè la legge di Dio, ordina cose contrarie alla legge scritta, bada se la ragione ti consiglia di abbandonare di buon grado le leggi scritte e la volontà dei legislatori e di obbedire unicamente alla legge di Dio» (Contra Celsum 5,37).

Afferma poi che il cristiano appartiene alla Chiesa la quale è per lui «la patria secondo Dio», la quale vive dentro gli Stati offrendo alla vita politica il contributo della preghiera. L’uomo spirituale, infatti, sta certo sottomesso all’autorità politica ma non ne avrebbe, di per sé, motivo, per il fatto che egli non nutre più interesse verso le cose materiali. L’autorità dello Stato viene dunque riferita, come farà poi Agostino, alle cose materiali.

Distingue i due ordini, mediante la distinzione tra anima e spirito. La legge dello Stato garantisce il primo grado dell’ordine morale, corrispondente all’anima, mentre la vita spirituale è sostenuta dalla legge di Dio.

Al potere politico Origene assegna poi la responsabilità anche per il popolo: «i governanti saranno giudicati non solo per le loro colpe personali, ma saranno ugualmente tenuti a dimostrare che non è per colpa loro se il popolo avrà peccato» (In Num. hom. 20, 4; Barbero 495).

La posizione di Origene, come quella rivoluzionaria di Tertulliano, o quella pessimista di un Cipriano (il potere politico origina sempre dalla violenza) manifestano non solo un pensiero cristiano sulla realtà politica, ormai elaborato, ma anche una consapevolezza di Chiesa già forte al punto da potersi misurare con lo Stato.

2.3. L'avvento di Costantino: atteggiamenti contrastanti

L’editto di Milano «segna il momento di equilibrio che si viene a stabilire fra le due forze storiche dell’Impero e della Chiesa e pone l’esigenza di una revisione globale dell’atteggiamento fino allora tenuto dai cristiani nei confronti dello Stato»37.

Segno della svolta secondo la quale la Chiesa passa dalle persecuzioni ai tentativi di strumentalizzazione politica, è il Concilio di Arles, convocato dall’imperatore (agosto 314, convocato per risolvere la questione della contestazione, da parte dei donatisti, dell’elezione a vescovo di Ceciliano; è il concilio del quale si condanna la diserzione). Costantino "ordina" anche il concilio di Nicea contro l’arianesimo. Egli intende far valere l’immagine di sé come imperatore-

37 Barbero 496

37

Page 38: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

vescovo; immagine che trovò in Eusebio di Cesarea (263-339) il suo cantore e teologo, per il quale l’impero e il cristianesimo coincidono. Eusebio è il primo storico della Chiesa; alla base della sua visione politica è l’idea della provvidenzialità dell’Impero, propria di Origene. Rispetto ad Origene egli introduce elementi di più stretta unione tra impero e cristianesimo: il legame tra monoteismo e potere universale, tra monoteismo e potere monarchico, per cui la diffusione del cristianesimo diviene compito anche dell’imperatore («come Cristo ha vinto i demoni, così l’imperatore vince i nemici della verità» De laudibus Costantini 16, Barbero 499). Oltre ad Origene, in Eusebio operano le idee di Filone.

Basilio, successore a Cesarea di Eusebio, propugna una riforma della vita pubblica, ad immagine di quella delle api, operose e ben ordinate sotto la guida di un re. Il fratello, Gregorio di Nissa, condanna per primo la schiavitù e prende vita un umanesimo cristiano.

Dopo Costantino, l’indirizzo politico non cambia, anzi, si accentua il legame tra Impero e Chiesa.

Il 3 agosto del 379 i due imperatori proibiscono con un editto tutte le eresie; il 27febbraio dell'anno successivo lanciano il famoso editto in cui si dice di volere unificare la Chiesa secondo la dottrina di Nicea: «Noi vogliamo che tutti i popoli governati dalla clemenza nostra seguano la religione che il santo apostolo Pietro rivelò ai Romani e che il pontefice Damaso e il Vescovo Pietro d'Alessandria professano. Noi crediamo che il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo formino un sola divinità sotto un'eguale maestà e una pia trinità. Pertanto ordiniamo che tutti quelli che seguono questa fede si chiamino Cristiani cattolici, e, poiché crediamo che gli altri siano dementi e insani, vogliamo che essi subiscano l'onta dell'eresia e che i loro conciliaboli non abbiamo più il nome di chiese. Oltre la condanna della divina giustizia, essi riceveranno le severe pene che la nostra autorità, guidata dalla celeste sapienza, vorrà infliggere loro ». Il 10 gennaio del 381 dichiarano la confessione nicena la sola ortodossa; nel maggio del 381 è convocato un concilio di centocinquanta vescovi dell'Oriente, che riconferma il simbolo di Nicea e assegna alla chiesa di Roma il primo posto e il secondo a quella di Costantinopoli; un altro concilio è tenuto nello stesso anno ad Aquileia, che condanna il vescovo ariano Ursicino, quelli della Mesia e della Dacia e impone al clero cattolico di pregare ogni giorno per gli imperatori.

Per assicurare il trionfo del Cattolicesimo vengono presi altri provvedimenti: si proibisce agli eretici di tenere assemblee e predicare le loro dottrine, si vieta agli Ariani d'innalzare chiese, e si toglie il diritto di intestare ed ereditare beni agli apostati. Ai provvedimenti contro i Cristiani che non professano il Cattolicesimo seguono quelli contro il paganesimo. Verso la fine del 381 si minacciano pene a chi compie cerimonie o professa culti pagani. Nel 382 si fa togliere dal Senato di Roma l'altare della Vittoria, che dopo la battaglia di Azio Ottaviano aveva fatto innalzare nella Curia. Si sopprimono le rendite di cui godono i templi pagani, se ne confiscano i beni, si vietano i legati in loro favore e ai sacerdoti e alle vestali si tolgono i privilegi. Gli imperatori lasciano il titolo e la carica di pontefice massimo.

La tutela imperiale ebbe ovvii risvolti negativi, quali le conversioni fatte per paura dell’imperatore e la subordinazione degli interessi propri della Chiesa - in particolare la difesa della fede dalle eresie, in particolare quella ariana, che seppe procurarsi il favore imperiale - a quelli politici. Il sostegno imperiale accordato all’arianesimo comportò grandi sofferenze per la Chiesa; pensiamo alla lotta sostenuta da Atanasio e Ambrogio.

38

Page 39: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La storia delle dottrine cristiane in materia socio-politica successivamente alla pace costantiniana è dunque influenzata in maniera determinante dai rapporti nuovi che vennero ad istituirsi tra chiesa e società.

Non si tratta più di affermare la Chiesa come città celeste dentro la città terrena ma di marcare le reciproche competenze, tra Chiesa e Stato.

Per capire il mutamento di prospettiva giova ricordare che Teodosio, nel 416, ordina che siano ammessi nell’esercito solo i cristiani.

Teodosio fu protagonista di un altro fatto, ben più clamoroso, nel quale molti vedono il segno definitivo della svolta nei rapporti tra impero e Chiesa.

A Tessalonica, nel 390, la popolazione si era ribellata per i soprusi ingiuriando il governatore Boterico, Questi, in previsione dei giochi annuali, volle vendicarsi e con il pretesto dell'ordine pubblico non fece scendere in lizza gli atleti della città. Nacquero discussione, poi tumulti, ci furono scontri sempre più incontrollabili, fin quando si passò alle vie di fatto, e messe le mani su Boterico, qualcuno gridò "a morte", gli inferociti gli saltarono addosso e messogli una corda al collo lo impiccarono a un albero e con lui qualche altro malcapitato della milizia.

Teodosio informato ordinò una rappresaglia (senza specificare come e in quale misura) e le milizie, forse perché erano stati uccisi dei loro colleghi , andarono forse sopra le righe di quell'ordine e, con un pretesto di una gara di bighe, fecero entrare nel grande circo quasi tutta la popolazione della città, poi sbarrarono le porte e si misero a fare la strage dei Tessalonicensi. Si narra che le vittime furono 7.000, l'arena trasformata in un lago di sangue.

Ambrogio venuto a sapere l'efferato delitto "barbarico" di Teodosio, prese a pretesto una indisposizione e partì da Milano per destinazione ignota, non volle più ricevere ne' più incontrarsi con Teodosio. Ambrogio era affranto, angosciato, sconvolto, travolto da uno sdegno che lo mortificò nel profondo dell'anima per giorni e giorni. Fin quando prese penna e calamaio e scrisse di proprio mano una lettera privata all'imperatore. Esigeva che a un tale crimine dovesse seguire un profondo e sincero pentimento pubblico. E fino a quel giorno - gli scrisse Ambrogio – in presenza sua non avrebbe mai più celebrato il sacrificio della Messa.

Teodosio in effetti stava già soccombendo perché l'orrendo delitto stava offuscando il suo prestigio imperiale e perfino la sua dignità di uomo, in ogni angolo dell'impero. Capì che non c'erano altre alternative. Alla fine di dicembre del 393 si recò quindi a Milano con il suo seguito, si spogliò della porpora, entrò nella Cattedrale di Milano con i vestiti di un comune cittadino, si avvicinò all'altare dove c'era Ambrogio si prostrò umilmente ai suoi piedi e gli depose sui gradini le sue insegne.

Questo evento sancisce d'ora in avanti il potere morale della Chiesa sul potere temporale. La sottomissione di Teodosio è emblematica: il gesto di umiltà preteso da Ambrogio affermava l'autorità della Chiesa cristiana, così come l'aveva concepita Ambrogio. La sua non era una insubordinazione all'autorità politica: più semplicemente voleva affermare che la legge morale deve presiedere qualsiasi azione, anche le attività politiche e le decisioni dell'Imperatore; un uomo che per Ambrogio non aveva nessun potere nel decidere la vita e la morte di un uomo; questo appartiene per diritto solo a Dio.

Quella sottomissione fu dirompente nell'immaginario collettivo e sconvolse gli equilibri del potere. Non era mai accaduto prima, né tanto meno era accaduto al vertice dell'impero. Teodosio inginocchiandosi al cospetto del popolo, sulla soglia

39

Page 40: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

della cattedrale, recitò le parole del Salmo: « L'anima mia giace nella polvere. Signore, confortami secondo la tua parola». A confortarlo non c'era di persona Dio ma c'era il suo ministro: Ambrogio. Ambrogio in precedenza ogni volta che voleva imporre la sua autorità a quella dell'imperatore, seguitava a ripetergli "L'autorità non è mia, io sono un nulla, sono solo il ministro di Dio".

Dopo il suo pentimento, Teodosio emanò un provvedimento di assoluto divieto del culto pagano prima a Roma, poi lo estese l'anno dopo a Costantinopoli.

Ben presto venne, però, affermandosi l’esigenza di coordinare il potere della Chiesa e quello dello stato. Già con papa Gelasio I (492-496, dunque sessant’anni dopo la morte di Agostino) trova affermazione quella tendenza che, distinguendo tra auctoritas (del Papa) e potestas (dell’imperatore), porta ad una articolazione gerarchica tra le due; la potestas infatti per essere tale deve attingere all’auctoritas38.

Nel 494 Gelasio scrisse una lettera all’Imperatore Anastasium nella quale riconosceva due fondamentali poteri, quello sacro dei vescovi e quello temporale dei re. Nella lettera scriveva così all’Imperatore:

Di questi due poteri il ministero dei vescovi ha maggior peso, perché essi devono render conto al tribunale di Dio anche per i re dei mortali. [...]Ti è pure noto che per partecipare ai divini misteri hai bisogno di adempiere ai precetti della religione, che a te non è lecito di stabilire, perché in tali cose dipendi dal giudizio dei ministri del santuario che non puoi piegare a compiere il volere tuo. [...]. Nelle cose temporali, invece, riguardanti lo Stato, anche i preposti al culto di Dio prestano obbedienza alle tue leggi, perché sanno che per divino potere ti fu data la potestà imperiale affinché nelle cose temporali ogni resistenza venisse esclusa. [...]. E se conviene che tutti i fedeli si sottomettano ai vescovi, i quali rettamente dispensano le cose sacre, quanto maggiormente è necessario procedere con il capo di quella sede che Dio ha preposto a tutte le altre e dalla Chiesa universale fu sempre venerata con devozione filiale39

La teoria di Gelasio fu detta anche teoria della divisio gladiorum o delle due spade e sua una terminologia già collaudata dal diritto pubblico romano: l'ufficio laico era indicato con il termine potestas (con valore eminentemente giuridico), mentre l'ufficio ecclesiastico era indicato con il termine auctoritas (con valore tipicamente morale).

Gelasio affidava, dunque, al potere religioso una funzione più alta di quella civile, dal momento che «nessuno può, in alcuna occasione e per alcun pretesto umano, pensare di porsi al di sopra dell'ufficio di colui che per ordine di Cristo è stato posto al di sopra di tutti e di ciascuno e che la Chiesa universale ha sempre riconosciuto come guida». Solo la Chiesa poteva dunque legittimare il potere concesso al sovrano40.

Tra le dottrine che accettano questa distinzione e che tentano di spiegarla, possiamo ancora distinguere due linee divergenti: l'una ottimista, l'altra pessimista; l'una che coordina gerarchicamente giustizia sociale e giustizia cristiana, l'altra invece che riconosce la tensione o contraddizione reciproca, ma vi si rassegna come di fronte ad una necessità tragica.

Semplificando un po' le cose, potremo dire: l'uno è l'atteggiamento cattolico, l'altro quello protestante. Semplificando: perché - sebbene l'affermazione sia largamente verificata dalla dottrina prevalente rispettivamente della scolastica cattolica e luterana - se consideriamo singolarmente gli autori dell'una e dell'altra

38. Vedi Barbero, o.c., pp. 529-535. 39 . Il documento di Gelasio si può leggere in Rahner H., Chiesa e struttura politica nel Cristianesimo primitivo, Milano, 1990, pp. 176-179.40. Vedi Barbero, o.c., pp. 529-535.

40

Page 41: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

confessione, specie i più grandi, siamo costretti ad aggiungere molte riserve. Senza contare che anteriormente ai tempi della Riforma, i due atteggiamenti erano entrambi presenti nella tradizione cattolica, pur dovendosi riconoscere che il primo atteggiamento (pensiamo a Tommaso e alla tradizione dottrinale che a lui si rifà) dimostra una indubbia preminenza.

Veniamo, ora, alle dottrine, prima delle quali è quella espressa dal grande Agostino, discepolo di Ambrogio.

2.4. Agostino e la formazione di un primo modello di pensiero cristiano sullo Stato

Com'è noto, Agostino trattò dell'argomento politico soprattutto nel De Civitate Dei, scritto in polemica con i pagani, i quali, all'indomani del sacco di Alarico, accusarono i cristiani di essere la causa delle disgrazie dell'impero41. Agostino cita il detto a quel tempo diffuso: «Non piove: è colpa dei cristiani»42

Occorre anche tener presente, sullo sfondo della riflessione agostiniana, la figura di Ambrogio (339-397), assertore «dell’autonomia delle due istituzioni»43, sostenuto in ciò «dalla lunga esperienza di governatore romano e dall’attività diplomatica svolta come amico e consigliere di tre imperatori»44. Ambrogio fu soprattutto difensore dei diritti della Chiesa, anche contro l’imperatore, come abbiamo visto.

2.4.1. Visione affettiva del legame sociale

Prima di considerare l’opera agostiniana dedicata alle “due città”, occorre richiamare alcuni punti del suo pensiero sul fatto sociale.

Il legame sociale Agostino lo considera fondamentalmente come un fatto affettivo, come condivisione di interessi profondi in forza dei quali si stabilisce una simpatia reciproca tra le persone. Egli porta l’esempio dello spettacolo teatrale, nel quale gli spettatori non si conoscono tra loro. Il comune interesse ed il comune piacere per lo spettacolo crea tra loro un legame e li spinge a coinvolgere altri nella stessa esperienza.

La società si fonda sul comune amore verso un oggetto. Il legame tra cittadini si crea spontaneamente ed ogni società si differenzia dall’altra in base alle cose amate. «Vi sono tante città, quanti sono gli amori collettivi»45.

A procedere da tale punto di vista Agostino rende ragione della differenza tra una società cristiana ed una non cristiana. La prima sarà costituita dall’unico amore verso Dio.

41. L'opera classica sulla dottrina agostiniana - l'« agostinismo politico », che per altro non può essere senz'altro definito come dottrina di Agostino - è quella di H. X. ARQUILLIÈRE, L'augustinisme politique. Essai sur la formation des tbéories politiques du Moyen-Age, Paris 1934. Una sintesi chiara e pertinente del pensiero di Agostino mi pare quella di S. COTTA, La città politica di S. Agostino, Comunità, Milano 1960. Bibliografia più ampia sull'argomento si può vedere per esempio in H. VON CAMPENHAUSEN, I padri della Cbiesa latina, Sansoni, Firenze 1969, p. 284.42 . De civitate 11,343. Troncò ad esempio le relazioni con quei vescovi che avevano fatto giustiziare dall’imperatore Massimo un eresiarca, Priscilliano. 44. BARBERO G., Il pensiero politico cristiano. Dai Vangeli a Pelagio, Torino, UTET 1962, p. 510. 45 . Ibid, p. 199.

41

Page 42: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

«È un tratto notevole della dottrina di s. Agostino considerare sempre la vita morale come implicata in una vita sociale», afferma il Gilson 46. La dimensione morale della vita pubblica scaturisce dal legame che lega tra loro gli individui. Scaturisce dall’amore, possiamo dire, prima e più che dalla norma.

2.4.2. Visione strumentale dello Stato

Poste queste premesse di carattere generale, comprendiamo per quale via Agostino giunga all’affermazione delle due città: civitas Dei e civitas hominis. Corrispondono ai due fondamentali amori: amor Dei e amor sui o alle cose temporali. Oppure corrispondono anche alle due dimensione antropologiche: pneuma e sarx.

La lettura del fatto politico non si differenzia da quella più generalmente antropologica. Lo schema interpretativo della condizione umana (carne e spirito, peccato e grazia) è, infatti, usato anche per interpretare le forme della vita politica.

Troviamo in Agostino il difetto tipico di tutto il pensiero antico che pensa la politica come pensa la metafisica; o meglio, la deduce dallo schema metafisico ed in tal senso si può affermare che nella sua interpretazione dei fatti, quale ad esempio la caduta di Roma, è assente la dimensione storica. Tutto è trasportato subito negli schemi teologici relativi alla storia della salvezza.

Nel De Civitate Dei, Agostino, profondamente colpito dal crollo dell’impero, si accolla l’onere di dare una giustificazione storica dell’accaduto, fondandosi sui presupposti antropologici ora richiamati. Vedremo che, nell’eseguire tale progetto, introdurrà nella mentalità cristiana il senso della relatività e della caducità di ogni struttura politica e civile, rispetto alla realtà nuova della Chiesa di Cristo o della Città di Dio.

Egli interpreta teologicamente la storia universale come conflitto tra due «città», quella di Dio e quella di Satana, riconoscendo esplicitamente in Roma una delle massime espressioni della città di Satana. Le due Città riproducono l’antitesi tra pneuma e sarx, amor Dei e amor sui presente in ogni uomo. La città terrena è principio di litigio ed egoismo esattamente come accade per l’uomo carnale ed è espressione dell’amore per le cose terrene.

Il potere politico è pensato a procedere da tale visione negativa dell’ordine terreno. Così come è necessario ridurre a schiavitù le passioni, per tenerle a bada, così il principe o il re deve usare il potere coercitivo per tenere a bada gli egoismi che si manifestano nella città terrena.

Scrive nel Commento al vangelo di Giovanni riferendosi alle lotte con i donatisti e alla persecuzione che essi, cristiani, sollevano contro i cristiani:

«Appaiono [i donatisti] preoccupati per l’intervento dell’autorità. Che cosa può farti l’autorità se sei buono? Certo, se sei cattivo, hai motivo di temerla: Non senza ragione infatti porta la spada, dice l’Apostolo. Non sguainare la spada contro Cristo. Che cosa perseguiti in un cristiano, tu che sei cristiano? Che cosa ha perseguitato in te l’imperatore? Ha perseguitato la carne; ma tu nel cristiano perseguiti lo spirito. […] È noto a tutti. L’autorità è invisa perché è legittima; è inviso chi agisce secondo la legge; non è inviso chi agisce fuori della legge» Città Nuova 1968 n° 12 pp. 107.

Per tale motivo per la città degli uomini egli vede necessario un potere tanto forte da assicurare il massimo ordine possibile e la pace. «Ogni società infatti vuole la pace» e la sua condizione fondamentale è l’ordine.

46 . Introduzione allo studio di s. Agostino, Marietti 1983, p. 199.

42

Page 43: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La condizione fondamentale della pace è, dunque, l’ordine e l’ordine sociale è inteso a procedere da una visione organicistica della società. Come in un organismo la vita ed il benessere sono assicurati dal buon funzionamento di ogni singola parte, così è per la società. Ogni singola parte deve ben funzionare ed essere coordinata alle altre; deve stare al suo posto.

Anche a tal proposito, occorre distinguere tra un ordine delle cose terrene, del corpo, ed un ordine delle cose celesti, o della grazia. L’uno non è presupposto dell’altro, come sarà per Tommaso, ma sono in opposizione. L’ordine delle cose terrene, infatti, è dettato dall’amore di sé e dunque è solo ordine apparente, imposto dal più forte, dal tiranno.

La 'violenza' della legge è dunque una necessità e, dal momento che essa assicura una pur relativa ed imperfetta pace sociale, procura dei vantaggi anche alla vita cristiana delle persone; in ciò sta la dignità dell’ordine politico, nonostante si fondi sulla coercizione.

Le due città si differenziano per il regime richiesto ai fini di assicurare l’ordine e la pace. Per la città degli uomini è necessario un potere violento, per quella di Dio al contrario tale potere non serve, essendo composta da uomini ormai convertiti.

Occorre poi aggiungere che l’ordine politico, oltre a fondarsi sulla forza della coercizione e della paura, è anche solo apparente, come apparente è ogni virtù imposta con la forza, invece che essere maturata dalla persona47.

Per Agostino, dunque, lo Stato è fondamentalmente rimedio alla violenza arbitraria dei singoli; rimedio poco efficace, dal momento che l’unica vera soluzione al problema della violenza sarebbe la conversione cristiana.

La Stato vale dunque come strumento di contenimento del male che affligge l’umanità schiava del peccato e lontana da Dio e come tale va considerato.

Il Barbero48 sostiene che Agostino usa con una certa imprecisione il termine civitas: «talvolta impiegato nell’accezione generale e mistica di “popolo degli uomini il cui fine è Dio”, talvolta in quello particolare e immediato di “società”, e, più raramente in quello giuridico di “Stato”»; sostiene, inoltre, che tale imprecisione è all’origine delle controversie sul valore positivo o negativo attribuito allo Stato.

È comunque chiara la riduzione utilitaristica dello Stato, anche se tale riduzionismo non vale sul piano teorico - Agostino mostra infatti di avere grande considerazione per i problemi del governo49 - ma corrisponde alle constatazioni storiche di Agostino.

La visione strumentale della politica è già ravvisabile nel modo in cui Agostino assume da Cicerone l’idea di res pubblica.

In De civitate Dei II, 21, Agostino dà una definizione della res publica, valendosi delle parole stesse del De republica di Cicerone, il quale fa parlare in proposito Scipione (il dialogo ciceroniano si immagina tenuto dopo la distruzione di Cartagine, per opera appunto di Scipione e dopo la morte di uno dei Gracchi).

La definizione muove da una similitudine: come negli strumenti musicali ed anche nel canto un determinato accordo è prodotto da vari suoni e risulta armonico e proporzionato per la regolata intensità di suoni di diversa altezza che lo

47. GILSON o.c., p. 210-202.48. O.c., p. 515.49. Barbero cita il passo del De ordine nel quale Agostino fa menzione dell’alta considerazione in cui Pitagora teneva l’insegnamento sull’arte di governare lo Stato; ibid., p. 514

43

Page 44: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

compongono, così la civitas risulta armonica dall’accordo provocato in moderata proporzione da ordines alti, bassi e medi; ciò che nella musica è l’armonia, nella civitas è la concordia, che in ogni res publica è il più importante tra i vincoli di sopravvivenza, e che assolutamente non vi può sussistere senza la giustizia (iustitia).

Seguendo ulteriormente il pensiero ciceroniano, egli identifica la res publica con la res populi, cioè con il "bene del popolo" (o "lo stato del popolo") e definisce che cosa secondo l’opinione di Cicerone sia il populus: non un qualsiasi gruppo di individui, ma un gruppo associato dal consenso del diritto e dalla comunanza degli interessi (coetus iuris consensu et utilitatis communione sociatus) (Cicerone, De republica I, 25, 39; III, 37, 50).

Di qui, osserva Agostino, Cicerone ha dedotto che si ha la res publica, ossia la res populi, solo quando si governi bene e con giustizia (cum bene et iuste geritur) da parte del monarca o di pochi ottimati o del popolo stesso.

È chiara la tesi che il vescovo di Ippona vuol dimostrare per respingere l’affermazione pagana secondo cui il cristianesimo avrebbe provocato la fine delle virtù civiche e quindi la rovina di Roma: stando alla definizione stessa di Cicerone la res publica romana fin dal tempo precristiano non fu giusta, non fu res populi, come affermò proprio Cicerone e con lui Sallustio.

In De civitate Dei XIX, 21 ss. in un contesto differente - non più di carattere apologetico, ma speculativo - e in un tempo seguente, Agostino ritorna sulla medesima questione prospettandola però in maniera nuova, più conveniente alle proprie categorie di pensiero e più rispondente alla dimostrazione che vuol condurre. È utile osservare che egli parte dalla definizione ciceroniana ripetendola alla lettera (cf. De civitate Dei XIX, 23, 5); poi aggiunge che il termine populus si può definire in un altro modo, come gruppo d’individui ragionevoli associato dalla concorde comunanza delle cose che ama (coetus multitudinis rationalis rerum quas diligit concordi communione sociatus) (De civitate Dei XIX, 24).

Con facilità si scorge che al iuris consensus e alla utilitatis communio è sostituita quella che potremmo dire la rerum dilectarum communio, la comunanza delle cose amate. Non si può dimenticare che, secondo Agostino, "l’amore è la massima forza aggregante della vita, in quanto è fonte di concordia e di unione; perciò quell’unitaria formazione sociale che è il popolo, non può non trovare in esso il proprio principio costitutivo e aggregante" (cf. S. Cotta, Introduzione a Sant’Agostino, La città di Dio, I, Nuova Biblioteca Agostiniana V, 1, Roma 1978, p. CXLVI). Né si può dimenticare che intorno all’idea di amore è da lui costruito l’intero edificio della "città di Dio": "Due amori diedero origine a due città, alla terrena diede origine l’amore di sé fino all’indifferenza per Dio, alla celeste l’amore di Dio fino all’indifferenza per sé" (Fecerunt...civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui).

La "comunanza delle cose amate", la rerum dilectarum communio consente dunque che si costituisca e viva un popolo, nel senso politico del termine: la condizione necessaria e sufficiente è che esso abbia per scopo quello di raggiungere determinati obiettivi. La definizione agostiniana di populus permette quindi - a differenza di quella ciceroniana - di affermare che il popolo romano è effettivamente un popolo e la sua senz’altro una res publica e con ciò di sostenere che il "politico" ha propria autonomia, una propria struttura, laddove vi sia una dilectio di qualcosa di comune da parte di un coetus composto di una multitudo rationalis. In tal senso, osserva Agostino, si può con pari legittimità parlare di populus e di res publica

44

Page 45: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

anche a proposito di Atene o di altre città greche, a proposito dell’Egitto, della primeva Babilonia d’Assiria e di quante altre entità politiche hanno retto piccoli o grandi imperi.

Ma qui interviene il criterio capace di individuare la vera giustizia, la iustitiae veritas di un corpo sociale. Dice infatti Agostino che ciascun popolo è tanto migliore quanto migliori sono le cose in cui è concorde, e tanto peggiore quanto queste sono peggiori (populus...tanto utique melior, quanto in melioribus, tantoque deterior, quanto in deterioribus concors). A me pare non sia difficile indicare che cosa nella visione agostiniana rappresenti il populus melior e che cosa rappresenti il populus deterior: il primo ha il proprio modello nella civitas Dei; il secondo nella civitas terrena.

E ciò accade per due precisi motivi: il primo è tratto dalla definizione stessa che Cicerone mette sulla bocca di Scipione nel De republica, ripresa più volte nelle pagine del XIX libro del De civitate Dei (cf. 21, 1; 23, 5 ecc.). Il iuris consensus, la conformità del diritto vuole che si amministri una res publica con giustizia (geri sine iustitia non posse rem publicam); poiché non vi può esser diritto dove non è giustizia vera (ubi ergo iustitia vera non est, nec ius potest esse). L’atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia, mentre è impossibile che si compia secondo il diritto l’atto che si compie contro la giustizia. Ed a scanso d’ogni equivoco Agostino definisce che cosa sia la giustizia, la virtù che dà a ciascuno il suo (iustitia...ea virtus est, quae sua cuique distribuit) (De civitate Dei XIX, 21, 1).

Il secondo motivo è mutuato dall’applicazione della nozione giustizia così delineata a Dio uno e sommo, creatore dell’uomo e di tutte le cose, vale a dire al Dio dei cristiani, quale è rivelato dalla Sacra Scrittura. Nota Agostino: il sottrarre l’uomo al Dio vero e renderlo sottomesso ai demoni infedeli (come fa il paganesimo), non è dare a ciascuno il suo, non è quindi coltivare la giustizia (cf. De civitate Dei XIX, 21, 1).

Ma secondo un tale procedimento logico si deve concludere che là dove non c’è un tale tipo di giustizia (e pertanto, considerando le cose storicamente, in tutti gli imperi e i regni che si sono succeduti), non c’è il popolo, in quanto gruppo associato dalla conformità del diritto e dalla comunanza degli interessi, e di conseguenza non vi è res publica, poiché non si ha il bene del popolo se non vi è il popolo (cf. De civitate Dei XIX, 23, 5). Proprio per superare questa difficoltà - che, direi, non regge all’esperienza della storia - Agostino sembra proporre la diversa definizione di "popolo", a cui ho fatto cenno in precedenza, la quale gli dà modo di indicare una gradualità nell’adesione delle res publicae, quali si sono realizzate nella storia, ai modelli delle "due città" intorno a cui si sviluppa tutto il discorso della sua opera. Gradualità che dipende anche dalla qualità del complesso unitario delle norme - non solo quali sono enunciate, ma anche quali sono effettivamente attuate che regolano la struttura basilare della res publica e i suoi rapporti con i cittadini, cioè dalle costituzioni vigenti presso i diversi popoli. In altre parole, quanto più il "popolo" è unito da una costituzione "giusta" (nella quale sia enunciato e sia attuato il dare a ciascuno il suo), tanto più quel "popolo" è civile.

Secondo Cicerone50, perché vi fosse «repubblica» occorreva che vi fosse un popolo, e perché vi fosse un popolo occorreva che vi fosse coetus multitudinis... iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Ossia, l'elemento assiologico obiettivo

50. De Republica, V, citato in De Civ. Dei, 11, 21.

45

Page 46: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dello iuris consensu - accordo nel riconoscere ciò che è giusto - era per lui un costitutivo essenziale del popolo, accanto e più che l'aspetto utilitaristico fattuale (utilitatis communione).

Agostino è del parere che, se valesse la definizione di Cicerone, non esisterebbe alcuna vera repubblica, se non quella cuius conditor rectorque Christus est (II, 22). Ma invece, secondo probabiliores definitiones, l'impero romano fu repubblica, nonostante non avesse la giustizia come suo fondamento. Dunque, a realizzare l'idea di repubblica basta l'elemento utilitaristico e fattuale: coetus mutitudinis rationalis, rerum quas diligit concordi communione sociatus (XIX, 24; cf. XIX, 23). L'aspetto «razionale» allude al perseguimento consapevole dei fini comuni, quali sono appunto definiti dalle cose concordemente «amate», a prescindere dal loro valore etico. Di fatto, Agostino pensa che l'amor sui stia a fondamento del consenso che coagula la società civile.

Agli stessi risultati condurrebbe l'analisi della trattazione agostiniana sul tema della pace, che pure è il fine comune di ogni società.

Anche la città terrena che non vive secondo la fede, desidera fortemente la pace terrena e ripropone la concordia dei cittadini nel comandare e nell’obbedire, nel far sì che ci sia una certa armonia delle volontà degli uomini riguardo ai problemi che toccano la vita mortale. La città celeste invece, o piuttosto quella parte di essa che è pellegrina in questa condizione mortale e vive secondo la fede, necessariamente si serve anche di questa pace, finchè non passi la condizione mortale alla quale tale pace è necessaria. Perciò[…] non esita ad obbedire alle leggi della città terrena»51

C'è una pace - quella appunto garantita dagli ordinamenti civili - che non è un fine dotato di dignità assiologica, ma solo uno strumento indispensabile nella condizione presente dell'umanità:

anche la città celeste... si serve necessariamente di questa pace, finché non sarà finita quella condizione mortale alla quale una siffatta pace è necessaria. Perciò, finché conduce nell'ambito della città terrena la sua vita prigioniera di pellegrina... essa non evita di obbedire alle leggi della città terrena, dalle quali sono regolate le cose necessarie alla vita mortale, (De civitate, XIX, 17, tutto il libro XIX verte sul tema della pace).

In questa prospettiva utilitaristica52, il diritto che sta a fondamento dell'ordine sociale non è inteso come un'incarnazione della lex aeterna, che è soltanto quella della libertà e della carità; ma è inteso come quella realtà provvisoria (lex temporalis) la quale stabilisce che

i beni che nel tempo possono dirsi nostri, siano posseduti, quando gli uomini li bramano e vi si attaccano, in base a quel diritto da cui sono salvaguardate, nella misura possibile in questo campo, la pace e l'ordine sociale.53

Netta dunque è la distinzione tra legge etica e divina da un lato, e leggi umane contingenti dall'altro; le ultime sono un povero compromesso - o «patto sociale», come dice il Barbero54 - di cui gli uomini cattivi hanno bisogno per sopravvivere, il quale si regge sulla coercizione55.

51 . De civiatate XIX, 1752. L'utilitarismo di Agostino (cf. la centralità della categoria dell'«uti» nel suo pensiero) è strettamente legato al suo platonismo cristiano, per il quale la relazione dell'anima con Dio è immediata e sola ha dignità di fine; ogni altro rapporto dell'uomo (con la realtà creata) è accessorio e strumentale rispetto a questo.53. De libero arbitrio, I, 15, 32: tutto il trattato è rilevante per l'argomento del diritto.54. O.c., pp. 516-517.55. Agostino accettò a malincuore l’intervento dello Stato contro i Donatisti, ne riconobbe però la necessità (Retractationes, II, 5). Lo stesso pessimismo sulla condizione sociale dell’uomo lo spingerà ad accettare senza riserve la schiavitù, quale istituto necessario al mantenimento dell’ordine (vedi Barbero, o.c., pp.

46

Page 47: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Lo stato di "natura" è dunque segnato dal peccato; la legge di Cristo, che Agostino chiama «la verità» si pone al di sopra sia della «legge degli Ebrei» sia di «quella delle genti» o naturale56. Nonostante questo è indicata quale fonte di un nuovo ordine civile da considerarsi “cristiano”. Per Agostino i due ordini rimangono distinti, anche se mai separati57.

2.4.3. Il rapporto tra le due città

Definite le rispettive nature delle due città, Agostino si chiede se e come possano convivere insieme. L’interrogativo già ci informa sul fatto che per Agostino le due città non si pongono in termini concorrenziali, nonostante il vantaggio dell’una sull’altra appaia incommensurabile.

Queste due città sono certamente confuse e unite insieme in questo mondo, finchè non le separi l’ultimo giudizio; e ciò che penso di dire sulla loro origine, sul loro sviluppo e sulla loro rispettiva fine […] lo esporrò a gloria della città di Dio, che dal confronto con quanto le si oppone potrà risplendere con maggior fulgore.58

Le due città possono convivere perché non si pongono sullo stesso piano. Le leggi dei cristiani non si pongono sul piano politico e viceversa. «Agostino non ha mai raccomandato l’adozione di una determinata forma di governo civile» 59 e la proclamazione della città di Dio fa riferimento a strumenti diversi da quelli del potere politico, tanto più in quanto considerato nella sua forma puramente coercitiva.

La città di Dio non costituisce una realtà alternativa a quella politica vigente e Agostino sfugge all’alternativa costituita dal perseguimento di una società cristiana o dalla sua negazione.

Si pone, di conseguenza, anche la questione del diritto di proprietà: è giusto che i cristiani posseggano dei beni, non è per principio contro il vangelo e l’ordine della grazia? Agostino non sostiene una posizione pauperistica e sposta la questione dal piano giuridico a quello spirituale e cioè sui modi di possedere e di usare dei beni. Il modo giusto di possedere non è solamente quello corrispondente ad un ideale di giustizia distributiva bensì quello che fa dei beni posseduti mezzi per raggiungere la comunione con Dio. Il possesso dei beni si giustifica solo in forza del loro valore si strumenti in vista della beatitudine eterna.

L’idea di una equa distribuzione dei beni trova Agostino piuttosto freddo, in quanto la ritiene impossibile, nella città degli uomini. Le due città hanno un ordine proprio ed i reciprochi confini sono invalicabili. La vera giustizia sarà possibile solo quanto regnerà la città di Dio.

2.5. Il Medio evo

La caduta di Roma del 410 è fatto che segna, per non in modo netto, la fine di un'epoca, quella romana, e l'inizio di una nuova epoca, che sarà denominata "medio

524-525).56. Contra Faustum Manichaeum, 19,2; citato in Barbero, o.c., p. 522.57. Gilson nega che si possa «considerare Agostino come colui che ha definito l’idea medievale di una società civile sottomessa al primato della Chiesa, nè come colui che ha condannato in anticipo una tale concezione», o.c., p. 210.58 . De civitate I,3559 . Gilson, p. 207.

47

Page 48: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

evo", solo in tempi relativamente recenti, da una storiografia impregnata dello spirito illuminista.

Secondo tale storiografia, ancora molto diffusa in Europa, come testimoniano anche le attuali vicende relative alla carta costituzionale europea e al dibattito sulle radici cristiane, l'Europa nasce con la modernità e si radica nell'umanesimo latino. Il medioevo cristiano è, in tal modo, tagliato fuori dal processo di formazione dell'Europa.

La più recente storiografia - Le Goff, G. Vinay, R.S. Lopez, B. Gemerek, P. Zerbi … - ha rivalutato il Medioevo, grazie al diffuso interesse per quest'epoca, poco conosciuta. Alla luce di tale storiografia, la nascita dell'Europa risulta legata all'intreccio tra cristianesimo e popolazioni barbariche, piuttosto che all'Impero romano. La società romana cade. Ciò che in seguito succede non è ad essa riconducibile, come forma di sopravvivenza. Si forma, invece, una società nuova, formata da popoli diversi tra loro e diversi dal ciò che fu la cultura romana. Nel processo di formazione di tale società, il cristianesimo ebbe una funzione determinante. Attraverso l'evangelizzazione dei popoli pagani e attraverso l'azione sui loro capi il cristianesimo costruì una unità spirituale di tali popoli, attorno alla cultura cristiana.

Alla fine del sesto secolo, è possibile cogliere in Gregorio Magno l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica verso i re barbari. Siamo ormai a due secoli di distanza dal sacco di Roma e alla fine del tentativo bizantino di riconquista dell'Impero. I Longobardi sono scesi lungo la dorsale appenninica, fino alle porte di Roma e il legato Bizantino a mala pena riesce a difendere Ravenna. In alcune sue lettere, Gregorio si rivolge ora all'Imperatore, ora ad alcuni re barbari convertiti; il tono è totalmente diverso: umile e deferente verso Bisanzio, imperativo dall'altro. Il re barbaro convertito assume la figura del ministerium regis.60

L'atteggiamento del papa è spiegabile alla luce della situazione creatasi dopo la caduta dell'Impero. I popoli barbari non erano in grado di assumere la cultura letteraria e la struttura amministrativa propria dell'Impero romano. Le autorità ecclesiastiche si vedono costrette ad assumere le responsabilità amministrative e governative; dalla questione alimentare, all'esercito e alla giustizia. Una volta assunto tale ruolo, vescovi e papi entrano, poi, a far parte della struttura amministrativa creata dai re barbari. Ancor più, la chiesa si trova a supplice all'educazione dei giovani. Le scuole romane cadono e sorgono altre scuole, vicino alle sedi episcopali e alle case dei presbiteri. Presso tali scuole vengono formati anche i figli dei re barbari.

La formazione che viene impartita dai vescovi o dai presbiteri è spesso di buon livello letterario e filosofico, ma è soprattutto cristiana e "di chiesa". In tal modo, si crea quella nuova società che dà vita al Medioevo e che ha nel cristianesimo la sua anima e la sua unità.

2.5.1. Tommaso e la dottrina cristiana sulla giustizia.

Nell’accostare il pensiero di Tommaso, occorre tener presente la situazione sociale nella quale egli vive, profondamente diversa da quella di fine impero, propria di Agostino.

60 . Danielù J.-Marrou, H., Dalle origini a S. Gregorio Magno, in Nuova storia della Chiesa, Marietti, Torino, p. 512.

48

Page 49: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Al tempo di Tommaso non esiste un Impero ma piuttosto tanti signorotti ognuno con la sua zona di influenza. L’unità dei popoli europei, idealmente stretti attorno al sacro romano impero, è più ideale che reale, culturale più che politica e amministrativa. L’elemento che unisce è la religione.

I signori feudali sono tutti cristiani e tale credenziale è a quel tempo decisiva per il loro stesso potere politico. Molti di essi appartengono al clero e alle alte gerarchie.

Si capisce perché, allora, il pensiero sociale e politico di Tommaso ruoti attorno al tema della "giustizia", piuttosto che a quello dello Stato e del rapporto tra Stato e Chiesa.

La "giustizia" è intesa non come mera esigenza giuridica ma come fatto cosmico, come ordine che riguarda l’essere stesso delle cose e dell’universo. La vita degli uomini, l’ordine morale e politico che essa esige, deriva da tale ordine cosmico. Tuttavia, l’ordine a cui Tommaso si riferisce, quando parla della giustizia, è quello che potremmo definire politico o giuridico, vale a dire l’ordine che deriva anzitutto da una legge che sia promulgata e dal principio del rispetto del diritto di ciascuno: dare ad ognuno ciò che è suo diritto. Una legge pensata per regolare i rapporti tra cittadini più che quelle tra cittadini e istituzioni.

L’ordine politico è assicurato dalle consuetudini e dalle leggi promulgate, prima che dalle istituzioni. Il rapporto tra potere politico e potere religioso non si dà in termini di rapporto conflittuale fra due entità, perché uno stato che stia di fronte al papa non esiste e il gioco politico si svolge nel rapporto con molteplici signorie.

In Tommaso, l’idea di giustizia acquista un prevalente significato sociale e così la userà la Chiesa in seguito.61

La riflessione sugli aspetti pratici, e dunque anche su quelli politici, avviene sempre nel contesto di una teologia 'naturale' che deduce l’ordine sociale da quello cosmologico (creazione, redenzione, vita eterna).

Per quanto riguarda l’aspetto politico, Tommaso assume anche le categorie aristoteliche ed l’ottimismo politico che le pervade. Per ottimismo politico intendo il felice rapporto tra individui e città, per il quale l’attività politica diviene la massima espressione dell’uomo e della sua razionalità e per il quale, l’ordine politico rappresenta, senza soluzioni di continuità, la verità morale dell’uomo. Etica e politica non si differenziano, con la differenza che ora la po\lij è entità solo ideale.

Vediamo allora l’idea di giustizia in Tommaso. Occorre procedere da quella di diritto naturale o legge naturale.

L'assunzione del concetto di diritto naturale all'interno della dottrina cristiana sulla società avvenne già in epoca patristica, sotto l'influenza del pensiero stoicheggiante, soprattutto di quello latino (Cicerone) e di quello entrato a far parte della tradizione giuridica romana62. Ma la rigorizzazione di questo concetto, la sua distinzione logica dalla legge evangelica, quale entrò a far parte poi della tradizione

61. GRATSCH E. J., Manuale introduttivo alla Summa Teologica di Tommaso d'Aquino, Piemme, Casale Monferrato 1988 p. 209.62. Per la storia della dottrina cristiana sul diritto naturale, vedi G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, vol. I, Il Mulino, Bologna 1965; H. ROMMEN, L'eterno ritorno del diritto naturale, Studium, Roma 1965, pp. 3-135.

49

Page 50: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

scolastica e dello stesso magistero sociale recente, risalgono a Tommaso e alla sua rielaborazione cristiana del pensiero aristotelico63.

La riflessione sulla legge64 porta chiaro il segno della dottrina aristotelica: ossia della fondamentale identità che Aristotele insieme a tutto il pensiero greco stabiliva tra diritto e norma etica, tra politica e morale. L'identità peraltro, almeno per l'aspetto che attribuisce valore di espressione della volontà divina alle leggi umane, era ampiamente confermata dalla storia teorica e pratica del cristianesimo, e più prossimamente dal sistema sociale sacrale della cristianità medioevale.

Tommaso definisce un concetto generale di legge, sotto il quale comprende le quattro leggi: eterna, naturale, umana e divina. In realtà non si tratta di un concetto universale, realizzato univocamente dalle quattro specie indicate; ma di un concetto analogo, e di una specie di analogia piuttosto complessa. La tradizione linguistica delle auctoritates, che conosceva i quattro impieghi del termine lex (e altri ancora, come quelli di lex vetus e lex nova), impone un'unificazione logica, che peraltro appare problematica quando si dia di lex la definizione piuttosto rigorosa adottata da Tommaso: quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata (un comando della ragione ordinato al bene comune, promulgato da chi è incaricato di una collettività; I-II, q. 90 a. 4 c).

È chiaro come la realtà sulla quale la definizione si plasma sia principalmente quella della legge umana, della legge in senso giuridico: è piuttosto imbarazzante definire a quale communitas si riferisca la lex aeterna, o come possa essere configurato quale ordinatio rationis il comandamento della carità; alla fine Tommaso esce da queste incongruenze in maniera piuttosto artificiosa. Ma ciò che soprattutto importa dal nostro punto di vista è l'inevitabile avallo alla legalizzazione della morale e alla sacralizzazione etica del diritto che questa sistemazione comporta.

2.5.1.1. Legge evangelica e legge naturale.

Vediamo innanzitutto come si configurino i rapporti tra morale evangelica e imperativi sociali alla luce della sintesi tomista sulla legge. La lex humana - come subito vedremo - è concepita quale semplice determinazione più concreta della lex naturalis: sicché in fin dei conti i rapporti tra lex evangelii e lex humana sono determinati da quelli più fondamentali tra lex divina e lex naturalis65.

Richiamiamo sinteticamente il pensiero di Tommaso in proposito. Secondo la definizione generale di legge, essa è ordinatio rationis, e cioè

ordinamento delle cose e delle azioni in vista del raggiungimento del fine adeguato alll’uomo.

63. Tommaso commentò l'Etica a Nicomaco e la Politica di Aristotele, le due opere principali in cui è esposta la dottrina etico-politica del filosofo. Noi ci rifaremo all'esposizione della Summa, che è opera della maturità, la quale quindi integra in sistema organico gli apporti forniti a Tommaso dal Filosofo e dalla tradizione cristiana.64. Per una conoscenza minima della dottrina tomista sulla legge, vedi Ia, Ilae, q. 90, aa. 1-4; q. 91, a. 2; qq. 95-96.65. Tommaso ha per primo chiaramente distinto la « lex naturalis » dalla « lex aeterna », definendola « partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole » (q. 5p1, a. 2). La definizione di Ulpiano (« quc>d natura omnia animalia docuit ») allude alla legge cosmica, così come la legge naturale di cui parla il Timeo (molto popolare nel XII secolo); sicché prima di Tommaso legge naturale e legge naturalistica erano confuse.

50

Page 51: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il fine ultimo è per natura sua unico ed è la beatitudo aeterna, «la quale sorpassa le capacità naturali dell'uomo» (q. 91 a.4) ed è tuttavia inscritta nella natura umana o nella legge naturale. Sicché legge in senso eminente è quella che disciplina gli atti umani in ordine alla vita beata. Tale legge è la legge divina, legge rivelata da Dio, perché come il fine supera la facoltà naturale dell'uomo, così accade anche della legge corrispondente.

L’ordinamento dell’uomo alla beatitudo non è dunque distinto dal più generale ordinamento delle cose al bene, a cui provvede la lex aeterna. Lex naturalis e lex divina sono infatti riferite alla lex aeterna per partecipazione; la seconda non fa altro che "rafforzare" l’evidenza del bene già presente nell’ordine creaturale.

Tale rafforzamento è visto in funzione della trascendenza del fine proprio dell’uomo, rispetto al più generale ordinamento delle cose al bene, assicurato dalla lex naturalis e dalla lex humana. Tuttavia esso non toglie il fatto che anche la lex divina è inserita in quella eterna e quindi l’ordinamento dell’uomo al bene che essa assicura non si distingue dall’ordinamento delle cose al bene. Non è colta, in altri termini, la peculiarità del rapporto tra la legge ed il volere umano; rapporto ovviamente diverso da quello tra la legge e le cose. Anche l’agire umano viene così reificato, colto principalmente nel suo profilo esteriore.

Esiste, certo, la lex indicta la quale interessa sia il profilo naturale della legge sia quello rivelato. Tuttavia essa è pensata come semplice auxilium alla ragione, dunque al "compiere" dell’uomo (auxilium ad implendum; I-II, 106, 1). Il profilo soggettivo del volere rimane nell’ombra.

Del resto, il volere ha per Tommaso il valore di movente; l’intelligenza del fine è infatti derivante interamente dalla ragione. Conseguentemente la legge incontra il volere solo nella fase operativa, là dove si tratta non di vedere e comprendere ma di muoversi.

Da ciò la tendenza a sopprimere la differenza tra legge promulgata e legge sentita nel cuore, vicina appunto al volere del soggetto; corrispettivamente non distingue tra legge civile - promulgata, appunto - e legge morale, espressione del bene “da volere”. L’impatto civile del Vangelo e del suo radicalismo lo si coglie invece proprio a partire da quest’ultima forma della legge, dalla sua vicinanza al soggetto e al suo volere.

Riferita ai profili esteriore dell’agire, la legge deve subito misurarsi con il possibile; la riflessione sul fine dell’uomo in quanto tale, non può tenersi lontana da quella politica sul bene comune. In tal modo assottiglia lo spazio dell’interrogativo evangelico a riguardo del bene comune o dell’assetto giuridico della vita sociale.

Ordinare ad finem e ordinare ad bonum commune vengono a coincidere, come accadeva nel pensiero greco:

poiché ogni parte è ordinata al tutto come l'imperfetto al perfetto, e poiché l'uomo singolo è parte della comunità perfetta, è necessario che la legge riguardi l'ordinazione alla felicità comune66 (I-II q. 90 a.2 c)

In Tommaso, infatti, i “consigli evangelici” non trovano "luogo" nella sua sistemazione morale e giuridica; essi son fatti valere quali azioni supererogatorie,

66. Come nella q. 90, a. 2, così nella q. 91, a. 4 (che è espressamente dedicato alla legge divina) il riferimento della legge al fine ultimo della beatitudine avviene senza verificare come esso si accordi con il riferimento al bene comune.

51

Page 52: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

quali vie privilegiate ma eccezionali alla salvezza e non invece quali espressione - certo carismatica - di esigenze ineludibili per ogni conversione cristiana.

L’appiattimento della legge morale su quella civile produce l’effetto di soffocare la rilevanza sociale del radicalismo evangelico.

La moralità naturale è infatti tendenzialmente identificata alla moralità dell'Antico Testamento, e quindi anche sotto questo profilo distinta e contrapposta alla moralità evangelica. Tommaso distingue nella lex vetus tre classi di precetti: morali, cerimoniali e giudiziali; la prima classe è ripetutamente identificata quanto al suo contenuto materiale alla legge naturale (oportet tria praecepta legis veteris ponere; scilicet moralia, quae sunt de dictamine legis naturae ... ; I-II q, 99, a.4). Addirittura, alla q. 91 a.5, il bene comune a cui si riferisce la legge antica (ossia la legge naturale) è descritto come «bene sensibile e terreno» ed è quindi contrapposto al «bene intelligibile e celeste» inteso dalla legge nuova; è così indirettamente confermata la tendenziale sovrapposizione di legge naturale e legge sociale ordinata alla convivenza temporale.

In conclusione, legge divina e legge naturale hanno il compito comune di ordinare l'uomo al suo fine. Ma tra il fine ultimo gratuito e il fine connaturale all'uomo a cui si riferisce la legge naturale, non è indicato un rapporto esplicito. Certo, Tommaso non parla di due fini dell'uomo, e non se ne parlerà fino alla sistemazione scolastico-barocca del tema «natura pura», nel contesto della polemica contro Baio e Giansenio. Ma Tommaso ha posto le premesse di una tale dicotomia, così come di quella strettamente conseguente tra morale naturale e morale cristiana.

La dicotomia d'altra parte già si manifesta in Tommaso, come appare da molti indici. Il primo è appunto la tendenza a far coincidere la morale naturale, meglio - per rispettare la terminologia di Tommaso - la morale corrispondente alla legge naturale, con la morale civile, ossia con l'obbedienza alle norme di comportamento sanzionate dalle leggi e dalle consuetudini ufficiali della società. Infatti con il concetto di legge naturale Tommaso intende formalizzare e dare rigore al patrimonio normativo tradizionale conosciuto come jus naturale67, che storicamente ebbe origine da una distillazione dello ius gentium, ossia dalla armonizzazione dei princìpi giuridici dei diversi popoli confluiti nell'impero romano, e poi nel Sacro Romano Impero.

La dicotomia in questione rende tendenzialmente irrilevante la legge evangelica nei confronti dei rapporti sociali; addirittura la rende irrilevante del tutto come «legge», ossia come norma imperativa assoluta. Tommaso infatti indica come contenuto della legge nuova principalmente l’interiorizzazione della legge antica (vedi la I-II, qq. 107 e 108, passim); per quanto riguarda gli atti esterni, ossia i comportamenti obiettivi socialmente rilevanti, la legge nuova prescriverebbe soltanto i sacramenti, o pochi altri comportamenti confessionali, ossia immediatamente legati alla confessione della fede in Cristo (q. 108, a.1 e 2); mentre per i comportamenti morali non cultuali (moralia praecepta) nulla sarebbe aggiunto alla legge antica68. Sarebbero invece aggiunti semplici consigli: i tre classici che sostanziano lo stato

67. Il concetto di « jus naturale » è esplicitamente introdotto da Tommaso nel contesto della discussione sullo «jus» come oggetto della virtù di giustizia (II-III, q. 57, a. I e 2); ma la giustizia non è una virtù speciale, essa è la virtù generale (II-III, q. 58, a. 5), in quanto - ordinando gli atti dell'uomo al «bonum commune» - dà ad essi l'orientazione formale che li fa buoni (la parte è ordinata al tutto come mezzo al fine, sicché il bene comune è il fine necessario di ogni atto buono). Rispetto dello «jus naturale» e della «lex naturalis» risultano dunque coincidere: in tal senso la giustizia generale è definita come «justitia legalis».

52

Page 53: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

religioso, ma anche i consigli che occasionalmente ciascuno può con libertà seguire in singoli comportamenti. Citiamo un esempio:

Quando qualcuno non segue la propria volontà in un gesto che potrebbe lecitamente fare, in quel caso segue un consiglio: poni il caso di colui che fa del bene ai nemici quando non è obbligato, o di colui che rimette un'offesa della quale potrebbe giustamente rivendicare la compensazione (q. 108, a.4c).

Tommaso dunque contrappone alla giustizia stretta (licite, tenetur, iuste) un comportamento più perfetto, supererogatorio, non strettamente imposto, ma solo consigliato dal vangelo. In questo capitolo del « consigli » andranno progressivamente a rifugiarsi nella storia successiva della morale tutti i comportamenti schiettamente evangelici, tutti quegli aspetti che rendono nuova e «impossibile» la morale del discorso della montagna. Per questa via sarà rafforzata la tendenza generale della morale strettamente imperativa a modellarsi sulla «giustizia legale», ossia su quella giustizia che ha origine storica e logica dall'esperienza della società.

A noi qui non interessa approfondire il pensiero di Tommaso, indicare quindi le molte sue affermazioni che correggono la dicotomia pure già operante a livello di impostazione complessiva. Ci interessa affermare che comunque la dicotomia operò in maniera esiziale nella storia della morale cattolica come disciplina distinta: avallò da un lato la trattazione razionalisticheggiante dei doveri cristiani, che mutuava largamente i suoi modelli alla tradizione giuridica; e relegò d'altra parte i paradigmi caratteristici del discorso della montagna al rango di «consigli» per natura loro operanti soltanto nei rapporti «brevi» e inefficaci nei confronti dell'ordine sociale esistente.

2.5.1.2. Legge etica naturale e legge giuridica positiva.

Il secondo aspetto della morale tomista che interessa rilevare è quello che potremmo definire come moralizzazione del diritto. In termini tomisti, si tratta del rapporto che sussiste tra legge umana e legge naturale, ossia tra legge giuridica e legge morale. Tale rapporto69 è descritto da Tommaso in termini molto intellettualistici ed astratti: la legge umana si rapporta alla legge naturale così come le conclusioni particolari si rapportano ai princìpi comuni della ragione pratica70. Dal momento che i princìpi comuni sono per sé noti a tutti, mentre le determinazioni più precise della legge morale non sono immediatamente evidenti, occorre appunto la mediazione della legge umana, la quale opera il passaggio speculativo dai princìpi alle conclusioni e quindi promulga queste ultime. La legge umana appare cosi concepita quale opera della ratio (necesse est quod ratio humana procedat ad aliqua magis particulariter disponendo, q. 91, a.3).

68. Testo classico: «Il retto uso della grazia consiste nelle opere della carità. E queste, in quanto sono atti indispensabili alla virtù, appartengono ai precetti morali, inculcati già nell'antica legge. E quindi da questo lato la nuova legge non doveva aggiungere nulla a quella antica riguardo agli atti esterni» I-II q. 108, a. 2c.69. Tommaso con il termine generico di legge umana si riferisce indistintamente alla legge civile e alla legge ecclesiastica positiva. Questo modo di procedere si comprende alla luce della comune cultura medievale, che vede nella «civitas christiana» un unico organismo, gerarchicamente ordinato mediante i due poteri paralleli (le «due spade») del sacerdozio e dell'impero, entrambi procedenti da Dio. Tuttavia, come risulta tra l'altro dalle auctoritates prevalentemente citate (Aristotele, Cicerone e Isidoro), la trattazione sulla legge umana ha presente in maniera prevalente la legge civile.70. Si vedano gli articoli I Il p. 91, a. 3; q. 94, a. 2.

53

Page 54: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La distinzione tra ius gentium e ius civile all'interno del diritto positivo71 è istituita alla luce di questa concezione razionalistica della legge umana. Le leggi umane possono derivare dalla legge naturale per modum conclusionum, ossia con procedimento puramente sillogistico: in tal caso si ha il diritto delle genti, che ha valore semplicemente dichiarativo rispetto alla legge naturale72. Oppure le leggi umane possono derivare per modum determinationis, ossia in modo tale che la legge umana specifichi quanto la legge naturale dispone soltanto genericamente: esempio classico sono le leggi penali, che precisano le sanzioni dei vari delitti. In ogni caso la legge umana così concepita svolge un ruolo ministeriale nei confronti della legge naturale, che è la legge morale intesa a condurre l'uomo verso il suo fine.

Anche l'aspetto della coercitività e quindi del potere, intrinsecamente connesso alla legge umana, è giustificato da Tommaso in prospettiva pedagogico-individuale: la perfezione della virtù non può essere raggiunta senza disciplina, e rispetto ad essa l'uomo (specie giovane, precisa Tommaso) non è facilmente sufficiente a se stesso: «perciò è necessario che gli uomini ricevano tale disciplina, mediante la quale giungere alla virtù, da un altro» (I-II, q. 95, a.1). In tale prospettiva pedagogica si giustifica appunto la sanzione: «dal momento che si trovano uomini ostinati e inclinati al vizio, che non si lasciano muovere facilmente dalle parole, fu necessario trattenere dal male mediante la forza ed il timore»; il riferimento alle necessità della convivenza sociale (ut... aliis quietam vitam redderent) interviene quasi per inciso.

Anche in questo caso occorre notare che Tommaso, nella trattazione analitica, mostra il suo abituale senso della concretezza, e tempera in molti modi questa concezione pedagogica della legge umana, fino a porsi in contraddizione con le premesse indicate. Per esempio, egli considera ad un certo punto (I-II, q. 96, a.3) il bene comune come un criterio limitativo della competenza legislativa degli uomini: l'atto virtuoso può anche non essere ordinato né ordinabile al bene comune e in questo caso non deve essere imposto da una legge umana. Evidentemente l'atto virtuoso è ordinato al fine ultimo, e il fine ultimo è rappresentato teoreticamente da Tommaso sempre come bene comune; egli dovrebbe quindi precisare la sua affermazione distinguendo tra bene comune temporale e fine ultimo dell'uomo; ma in tal caso verrebbero smentite le sue affermazioni circa il compito della legge di rendere l'uomo virtuoso.

Ancora, Tommaso afferma: «la legge umana non proibisce tutti i vizi... ma soltanto i più gravi, quelli da cui è possibile trattenere la maggior parte degli uomini, e soprattutto quelli che nuocciono agli altri, e la cui proibizione è indispensabile alla conservazione della società umana» (I-II, q. 96, a.2). Ecco dunque come in concreto Tommaso fa posto alla coscienza morale media e alla utilità comune, come a condizioni da cui la legge umana non può prescindere; la definizione razionalistica astratta è ancora una volta superata.,

Ma quello che interessava notare era l'impostazione di fondo: essa divenne esemplare per la lunga tradizione del giusnaturalismo cristiano, che spesso presumerà giudicare la legislazione umana concreta in nome di un diritto naturale astrattamente determinato, in nome quindi della semplice legge etica. Questo modo

71. «Jus positivum » (espressione coniata da Abelardo in correlazione a «jus naturale») è usato da Tommaso come sinonimo di «lex humana»; per la distinzione cui si allude nel testo vedi q. 95, a. 2 e 5.72. In IV Sent. d. XXXIII, q. 1, a. 1 ad 2m, afferma esplicitamente che tali concessioni non hanno valore precettivo (perché non immediatamente evidenti) finché non vengono promulgate dalla legge umana oppure (!) dalla legge divina.

54

Page 55: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

di procedere è molto semplicistico ed ottimista: presuppone - in maniera più o meno espressa - la sostanziale giustizia dei rapporti sociali disciplinati dalla legge vigente e la sensibilità del legislatore all'argomentazione morale. Il problema della legge giusta diventa semplice problema conoscitivo, e la competenza del magistero ecclesiastico è ovvia. Mentre in realtà il problema della legge giusta è anche e soprattutto problema di potere: il conflitto degli egoismi, che genera la necessità di una normazione giuridica, genera anche gli equilibri di fatto raggiunti; e nel conflitto, è la forza che prevale. Certo, la forza di tutti i generi: del denaro, delle armi, e anche della ragione e dell'evidenza; nella misura però in cui questa evidenza diventa patrimonio sociale, e per questa via si impone come fattore rilevante nel conflitto. Il giudizio etico sui rapporti sociali non può prescindere dall'esame di questa complessa rete di rapporti, non può prescindere dalla considerazione storica della società come complesso di rapporti di fatto strutturati da una determinata distribuzione del potere.

2.5.1.3. Il tema "giustizia" nella Summa

S. Tommaso diede una sistemazione organica e distinta alla trattazione del tema della giustizia nella Secunda Pars della Summa, estesa circa quanto la metà della intera opera .

Il contributo decisivo che Tommaso offrì con questa trattazione alla storia della teologia morale è costituito dalla II-II ossia dalla antropologia teologica che è posta a fondamento di ogni singolo dovere morale; anche molte parti della I-II peraltro continuano la riflessione sui fondamenti generali della morale. Ma la II-II nel suo complesso intende «studiare ciascuna [cosa] singolarmente: infatti le considerazioni generiche in campo morale sono meno utili, perché le azioni [umane] sono particolari» (Prologo).

Com'è noto, il criterio di articolazione della morale speciale adottato da Tommaso è composito: egli tratta prima dei doveri relativi alle singole virtù (teologali e cardinali), e poi i doveri relativi ad alcuni carismi e stati di vita particolari.

La trattazione di ogni virtù si estende anche alla considerazione dei vizi ad essa opposti, dei doni dello Spirito Santo e dei precetti ad essa corrispondenti. Le corrispondenze così istituite tra virtù, vizi, doni e precetti appare spesso macchinosa: per esempio, tutti i precetti del decalogo vengono considerati come relativi alla virtù della giustizia, la quale perde in tal modo ogni specificità. Lo spazio accordato alle singole virtù è molto disuguale: alle 60 questioni dedicate alla giustizia corrispondono 10 questioni dedicate alla prudenza.

Nel complesso pare si possa affermare questo: Tommaso tenta di trovare nell'organismo delle virtù, elaborato nella I-II, il criterio sistematico di trattazione dei singoli doveri, ma l'attribuzione di uno di tali doveri all'una piuttosto che all'altra virtù appare alquanto arbitraria.

Tommaso distingue tra giustizia legale e giustizia particolare. La prima interessa il legislatore, «in quanto dirige l’attività dei cittadini in modo da assicurare il bene comune»73.

Essa è concepita come virtù «generale», ossia come virtù che dà la forma ad ogni altra virtù. Il bonum commune oggetto della giustizia legale è infatti

73 . Gratsch, p. 211.

55

Page 56: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

gerarchicamente sovraordinato ad ogni bene particolare, e ne determina appunto la ragione formale di bene. Sicché rendere il dovuto alla società e rendere il dovuto a Dio quasi si confondono:

La giustizia generale ha il compito di fare il bene dovuto in ordine alla collettività o a Dio, e di evitare il male contrario (q. 79 a. I).

Determinante sotto questo profilo è la dipendenza da Aristotele: i rapporti del singolo con la comunità vengono concepiti come rapporti della parte al tutto, del mezzo al fine:

Siccome ogni parte è ordinata al tutto, come ciò che è imperfetto alla sua perfezione; ed essendo ogni uomo parte di una comunità perfetta, è necessario che la legge riguardi l'ordine alla comune felicità (I-II q. 90 a. 2).

Le questioni relative alla giustizia commutativa sono le 62-78. In essi si trovano questioni eterogenee tra loro, suddivise secondo lo schema delle virtù e dei vizi.

L’atto caratteristico della giustizia commutativa è la "restituzione" e cioè rendere all’altro ciò che gli appartiene.

I peccati contro la giustizia commutativa sono l’omicidio, anche se Tommaso ammette la pena di morte e l’uccisione dell’aggressore ingiusto; il suicidio il quale viola i diritti di Dio e della comunità; il furto e la rapina (Tommaso ammette la proprietà privata in quanto garanzia di ordine sociale); la calunnia e maldicenza; nelle compere e nelle vendite; nella richiesta di interessi sui prestiti.

Ci sono poi i peccati relativi ai procedimenti giudiziari, riferiti ai diversi personaggi del processo: il giudice (deve basarsi sulle prove), l’accusatore (l’accusa deve essere veritiera), l’imputato (deve dire la verità e non deve resistere alla pena), il testimone (deve prestarsi alla testimonianza) l’avvocato (deve difendere sempre e solo una causa giusta).

Tommaso considera poi la tradizione evangelica, irriducibile all'impostazione etico-politica greca. A seguito di ciò egli introduce quale fine ultimo dell'uomo, una aeterna beatitudo che non si vede come si coordini con il bonum commune perseguito dalla legge naturale.

Alla beatitudine eterna corrisponde la virtù teologale della carità.In che rapporto stanno le due virtù ed i due ordini? Interrogativo di grande

attualità ma non presente in Tommaso, per il quale, l’ordine divino della grazia prolunga quello umano della giustizia.

Succede però, che non ponendo a tema il rapporto tra i due ordini, come fece Agostino, la carità diviene una realtà certo superiore alla giustizia ma, nello stesso tempo, posta al di fuori di essa; al di fuori cioè delle esigenze di rispetto degli uomini tra loro sia sul piano delle relazioni individuali, sia su quello delle istituzioni.

L’amore di Dio, il perdono dei nemici, la misericordia sono opere che non possono essere richieste per legge e dunque riguardano la morale sociale. Riguardano la morale religiosa o i carismi religiosi.

Eppure, Tommaso elenca gli effetti sociali della carità, tra i quali spicca la pace. Dunque, delle opere di carità occorrerebbe trattare anche in sede di ordine sociale.

Tale esigenza ha due versanti. Da una parte riconoscere la valenza sociale della vita evangelica, dall’altra articolarla con l’esigenza della giustizia, mostrando

56

Page 57: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

come la carità non possa sopravanzare o assorbire in sé la giustizia. L’amore non sospende il riconoscimento del diritto altrui ma, al contrario, lo presuppone e lo esige.

Occorre dunque riconoscere che Tommaso, in questo ineluttabilmente legato alla realtà sociale contemporanea, non pone il problema specifico di una morale sociale cristiana: ossia il problema di come si articolino reciprocamente l'obbedienza immediata alla volontà «originaria» e radicale di Dio imposta dal vangelo, e l'atteggiamento nei confronti delle molteplici norme (giuridiche e non) imposte dalla società storicamente esistente.

57

Page 58: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

L’EPOCA MODERNA

1. La dottrina luterana dei due Regni74

Prima di considerare il pensiero teorico di Lutero, è opportuno richiamare il quadro storico in cui avvenne la "riforma", almeno per sommi capi.

Il primo elemento è proprio il diffuso sentimento della necessità di una riforma della chiesa, molto diffuso tra gli intellettuali di mezza Europa, alimentato da:

- la situazione della chiesa: si dice, ad esempio, che in Germania, a quel tempo, solo una parrocchia su quattordici avesse un prete residente»75. Il papato era da non molto uscito dalla triste vicenda del grande scisma (1378-1417) e, prima, dalla cattività avignonese.

- Dal distacco della dottrina dal popolo. La teologia scolastica, appariva ben poco diffusa nella popolazione; fu dall’inizio una teologia d’elite, ma ora aveva preso consistenza un pensiero religioso popolare, il quale rendeva ancora maggiore il distacco con la teologia di Chiesa. Lutero, infatti, contesterà la scolastica; lo farà usando i suoi stessi mezzi, dal momento che lui l’aveva studiata. La sua critica era preceduta da quella degli umanisti, i quali rifiutavano la scolastica «perché inintelligibile e poco elegante nello stile»76.

L’idea di riforma prese la via di un ritorno alle origini, alla integrità dei primi secoli. La presero per mano dei riformatori e fu sostenuta dall’umanesimo.

Il sentimento della necessità di una riforma religiosa si intrecciò con alcune istanze politiche del tempo, senza le quali la riforma "protestante" - nata come movimento accademico, in un’oscura università tedesca, Wittenberg, senza che i suoi propugnatori sospettassero minimamente lo sviluppo che avrebbe avuto – non avrebbe avuto l’esito che tutti conosciamo. Va anche detto che la riforma non è solamente Lutero; Zwingli e Calvino, in Svizzera, percorsero una loro strada, diversa anche sul piano dottrinale, oltre che nelle circostanze storiche. Ancora diversa è la corrente più radicale anabattista. L’intreccio tra componenti religiose-dottrinali e componenti politiche risulta dai diversi percorsi compiuti dalla Riforma.

Le istanze politiche a cui ci riferiamo furono di natura autonomistica ed avevano come riferimento il papato. Il potere del papa si era indebolito, mentre

74. Gli scritti di Lutero più rilevanti sotto il profilo della sua dottrina politica sono stati editi in traduzione italiana: Scritti Politici, a cura di G. PANZERI SAIJA, UTET, Torino 1959; un'utile esposizione della sua dottrina può essere trovata nel II vol. dell'opera di H. TROELTSCH già citata; o più sinteticamente in D. CANTIMORI, Scritti politici di Lutero, in «Studi di storia», Torino 1959. L'argomento per altro - specie all'indomani della tragica esperienza nazista e della connivenza del luteranesimo con essa - ha suscitato un enorme complesso di contributi: per un primo orientamento si può vedere Eglise et Société, Labor et Fides, Genève 1966, I vol., che contiene le relazioni tenute all'omonima sessione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, sul tema della responsabilità del cristiano di fronte alla società.75 . MCGRATH A. E., Il pensiero della riforma., Claudiana, Torino 19952 (1988), p. 1176 . Ibid, p. 91.

58

Page 59: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

aumentava quello degli stati nazionali o locali. La riforma vede i suoi propugnatori alleati con questi poteri regionali.

La riforma ebbe, infatti, successo soprattutto nelle grandi città tedesche. Forse perché aiutò a restaurare un sentimento di identità comunitaria, fortemente indebolito dalla crescita di tali città all’inizio del secolo e dalle conseguenti difficoltà economiche e sociali. O forse perché il pensiero di Lutero fu sentito come forza capace di liberare dalla «pressione psicologica esercitata dal sistema penitenziale tardo-medievale»77. Oppure, la riforma risultò utile politicamente ai principi di queste città ingrandite, per governare l’agitazione sociale.

La vicenda di Lutero è certo maggiormente interpretabile in questo modo, rispetto ai riformatori svizzeri. Egli proveniva da una piccola città sassone rigidamente governata dal principe locale e tendeva a separare le idee religiose dalla vita sociale e politica. Per gli svizzeri, al contrario, l’oggetto della riforma era la città, la collettività, e la dimensione religiosa era posta in continuità con quella politica.

Dal punto di vista culturale, va ricordata l’invenzione della stampa (1454), la quale ebbe anch’essa importanza nelle vicende dei riformatori. I migliori conoscitori del pensiero di Lutero negli anni trenta del ‘500, ad esempio, era gli inglesi e ciò sarebbe stato impensabile, prima dell’invenzione della stampa. La stampa ha reso possibile la pubblicazione, nei primi anni del ‘500, di parecchie opere patristiche, tra cui l’opera ommia di Agostino, in undici volumi, destinata ad avere un influsso decisivo nel pensiero di Lutero.

Sotto il profilo teologico, il punto fondamentale è l’idea di giustificazione, come ben sappiamo. Lutero era stato formato con l’idea scolastica della "grazia", secondo la quale essa era intesa come una "sostanza" sovrannaturale che Dio infonde nell’anima per renderne più facile la redenzione. Era una sostanza e non un atteggiamento di Dio. La dottrina della grazia, poiché la concepiva come sostanza posta nell’uomo da Dio, poco poteva dire dei rapporti tra l’uomo peccatore e Dio salvatore. Rimaneva inevasa la domanda su che cosa dovesse fare l’uomo per salvarsi, come l’uomo doveva vivere il suo rapporto di figlio prodigo, di peccatore.

Nel giovane Lutero era forte il senso dell’indegnità umana e della impossibilità di fare qualcosa per ottenere la salvezza ed il rapporto tra uomo e Dio era declinato in senso oppressivo. L’intuizione che segnò la svolta nel suo pensiero teologico, fu che all’uomo basta invocare la grazia, per ottenerla, ed essere salvo. L’invocazione pura e semplice pone Dio nella condizione di concedere la grazia all’uomo.

Nella visione di Lutero, al di là dei contenuti di merito, acquista rilievo la relazione tra uomo e Dio ed i rispettivi atteggiamenti. La questione della salvezza non è pensata a procedere dalla presenza o meno di una 'cosa', che è la grazia, ma da una relazione. La grazia è il ripristino della relazione interrotta dal peccato. La parte spettante all’uomo tanto piccola, quanto determinante.

A questa intuizione ne seguì un’altra, secondo la quale la giustizia di Dio non andava intesa in senso giudiziale – come imparzialità – ma come volontà capace di giustificare il peccatore che chiede la grazia; non tanto di rendere giustizia, ma di rendere giusti. La giustizia è dono più che giudizio.

Il dono della grazia è inteso in questo senso e cioè come dono gratuito della giustificazione. Basta che l’uomo “ci creda”; ecco la sola fide.

77 . Ibid. p. 31.

59

Page 60: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Queste idee teologiche ebbero una rilevanza politica, certamente imprevista dal loro stesso autore.

La concezione della giustificazione per sola fide metteva fuori gioco tutta la prassi penitenziale, a cui era connesso il sistema delle indulgenze ed il suo significato di vassallaggio nei confronti di Roma. Metteva in crisi la mediazione ecclesiastica, in ordine alla giustificazione: non occorreva più passare attraverso il prete, per ottenere il perdono, ma era sufficiente la fiducia in Dio.

Le istituzioni in generale subivano un ridimensionamento a favore della gestione intima o privata dell’esperienza religiosa, ma poi più in generale della propria identità. Lutero ha alle spalle la dottrina medievale dei due stati o due regni, secondo la quale, Dio ha conferito alla Chiesa il potere sulle cose spirituali e allo stato quello sulle cose materiali. Il potere politico non deve ingerirsi nelle cose spirituali mentre la Chiesa lo può fare. L’unico soggetto abilitato ad agire, anche in vista di una riforma, era dunque il clero.

Lutero abbatte questo "muro", come egli lo chiama, affermando il sacerdozio comune dei fedeli, secondo il quale, le differenza tra clero e laici sono solamente di ordine funzionale e non di stato.

La rottura dell’alleanza fra i due poteri si correla ad una visione strumentale dello Stato, vicina alle posizioni di Agostino. Lutero, infatti, riconosce all’autorità politica un mandato divino, quello di imporre l’ordine in modo tale che sia mantenuta la pace e sia represso il peccato.

Il potere politico è, dunque, visto in funzione coercitiva, a seguito della natura decaduta dell’uomo. In ciò Lutero è ancora medievale, anche se, la funzione del principe, non appartiene più all’ordinamento universale delle cose, ma è solamente rimedio del peccato, il quale rende impossibile pensare che gli possano essere tutti governati mediante il vangelo.

Lo Spirito e la spada devono coesistere. La società mondana conosce la presenza simultanea di giusti e di peccatori. La ribellione dei secondi alla volontà di Dio minaccia la stessa sopravvivenza della compagine sociale; per consentire la vita dell'umanità peccatrice Dio stesso ha quindi disposto - e qui interviene il secondo profilo, quello che intende il Regno come dominio divino - l'istituto dell'autorità temporale con l'ufficio di imporre coattivamente l'osservanza della legge. L'obbedienza a tale legge, coerentemente alla funzione che essa ha, si misura dall'opera obiettiva ed esteriore, prescinde invece dalla libertà (intesa qui come spontaneità interiore) dell'obbedienza stessa. È questa obbedienza che definisce la «giustizia civile», la quale non giustifica di fronte a Dio, e in rapporto ad essa si parla di un «uso politico» della legge.

Questo discorso sull'origine e la funzione dell'autorità civile e della sua legge lascia ancora impregiudicato il problema del contenuto materiale della giustizia civile. Di questo problema Lutero non si interessa a fondo; accenni sparsi danno per scontata l'esistenza di un diritto naturale, a cui l'autorità deve conformarsi. Ma non è in rapporto con il diritto naturale che definisce formalmente la legge civile come tale; in tal senso la tradizione luterana abbandona la categoria di diritto naturale senza tradire ci sembra di poter dire - lo spirito di Lutero. L'aspetto caratterizzante sotto il profilo formale, e che determina alla fine anche i contenuti materiali della legge civile, è la coercitività, e dunque la sanzione del potere: l'autorità civile è l'autorità che porta

60

Page 61: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

la spada, al fine di consentire in qualche modo la convivenza umana altrimenti impossibile.

La conseguenza di tale fondazione del potere civile è l'assolutismo teocratico: «l'autorità viene da Dio ed è indiscutibile». Il testo di Romani 13 costituisce il cavallo di battaglia di Lutero. Dal momento che la società umana senza l'uso della spada sarebbe selvaggia e impossibile, una legge deve esserle imposta estrinsecamente, e quindi con l'autorità insindacabile da parte dei sudditi.

Accanto alla società umana temporale c'è la società dei «giusti»; o meglio, c'è una signoria di Dio che mira a rendere gli uomini giusti e pii. Lo strumento di questa signoria è unicamente la Parola, e non la spada. La parola in questione è poi quella del vangelo, del discorso della montagna; la Parola che impone l'amore incondizionato dell'uomo per l'uomo, il perdono, la non violenza. L'obbedienza alla Parola, ossia la fede operante mediante la carità, non può che essere obbedienza interiore e libera.

Questo Regno «della mano destra di Dio», o anche Regno di Cristo, trova la sua espressione nella chiesa, e quindi nel governo dei vescovi, i quali dunque devono assolutamente rinunciare ad ogni strumento di potere e di coercizione: il ministero della Parola è l'unica loro arma.

Il discorso obiettivo sui due regni è soltanto la premessa teologica per il discorso morale, fatto dal punto di vista del singolo cristiano e dei suoi doveri. Si profila una doppia morale, specie per il cristiano che svolge funzioni pubbliche. Egli deve passare da una morale coercitiva ad una della libertà nello Spirito; la prima valida per il suo ruolo pubblico, la seconda per la sua vita privata.

Il cristiano singolo è membro della chiesa, e quindi suddito di Dio alla seconda maniera: a lui si impone la legge nuova dell'amore. E tuttavia continua anche ad essere suddito di Dio alla prima maniera; in questa misura conserva vigore per lui la legge antica, la «legge» in senso proprio, quella in cui il principio obiettivo dell'ordine prevale sul principio soggettivo della libertà.

Sotto il profilo della legge “alla maniera antica”, Lutero riassume la morale cristiana ricorrendo alla dottrina degli «ordinamenti», che sono fondamentalmente quello economico, quello politico e quello del sacerdozio. La terminologia luterana in proposito peraltro è alquanto fluida. Questi «ordinamenti» sono considerati come divini e sopratemporali, seppure non naturali ma connessi alla concreta condizione storica e peccatrice dell'umanità. La morale «professionale» (ossia, che si riferisce ai comportamento del cristiano all'interno degli ordinamenti) non coincide con la morale del discorso della montagna, la quale viene così relegata alla sfera dei rapporti privati, alla sfera dei rapporti dell'amico con l'amico. Si giunge così a conclusioni paradossali, quali quella che tra padre e figlio (rapporto disciplinato dall'ordinamento «economico», che vuol dire appunto relativo alla casa) non vige la legge evangelica del perdono e dell'amore: il padre non può perdonare al figlio, ma deve punirlo ed educarlo con lo strumento rigido e inflessibile della «legge».

Notiamo i meriti della riflessione di Lutero: si tratta di un primo chiaro tentativo di distinguere la sfera dei rapporti essere-prossimo dalla sfera dei rapporti essere-socio, dei rapporti cioè in cui l'obiettiva struttura sociale interviene come mediazione essenziale. È per questo motivo che nella tradizione protestante la distinzione tra

61

Page 62: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

morale individuale cristiana e morale sociale assume un'importanza sistematica decisiva, sconosciuta alla morale cattolica.

Sono peraltro evidenti i limiti del tentativo: i rapporti sociali vengono semplicemente sottratti ad una qualsiasi soggezione nei confronti del discorso evangelico, e viene così potentemente incoraggiata la «privatizzazione» del cristianesimo. Si dice (Gogarten) che Lutero sia il promotore della conversione del cristiano alla secolarità, all'impegno mondano, all'obbedienza nei confronti di Dio al di fuori del monastero. Può essere anche vero. Ma rimane l'interrogativo: quanto l'evangelo accompagna il cristiano in questo esodo verso la città terrena?

Il sedicesimo secolo è dominato dalle guerre di religione le quali costituiscono anche motivo di riflessione teologica sulla realtà politica sia da parte dei protestanti che dei cattolici.

Da parte protestante, la separazione tra regime politico e morale cristiana è all'origine del clamoroso conservatorismo politico e sociale del luteranesimo ed ancora più del calvinismo, al seguito della teoria della “obbedienza passiva” già elaborata da Calvino e secondo la quale il governante – il magistrato in primis – doveva essere considerato vicario di Dio (posizione realista).

Tuttavia, accanto alla teorizzazione del diritto divino dei re, l’ambito protestante vide anche la nascita di teorie cosiddette «antirealiste» che teorizzavano l’origine del potere dal popolo e che videro come propugnatori gli ugonotti, il quali si fecero perciò oppositori del potere assoluto, teorizzando anche l’opposizione al tiranno.

Posizioni contrarie al potere regio assoluto furono sostenute anche in campo cattolico dai gesuiti, i quale argomentavano non a procedere da presunte tradizioni rappresentative delle forme di governo medievali, ma da una rinnovata affermazione della supremazia del potere spirituale e del papato. Bellarmino sosteneva che il papa, pur non detenendo un potere temporale diretto, lo esercitava indirettamente, ad esempio nel caso di un sovrano eretico, che avrebbe dovuto poter deporre.

Il movimento di maggior rilievo fu il progressivo distacco della filosofia politica dalla teologia, a partire dai primi decenni del XVII secolo.

2. La manualistica cattolicaLa nascita della teologia morale come dottrina distinta78 può essere fatta

coincidere, con buona approssimazione, con la organizzazione post-tridentina degli studi seminaristici e con la correlativa apparizione delle prime Institutiones morales.

Nel periodo immediatamente anteriore, e cioè verso la metà del XVI secolo, ebbe inizio nella cattolicissima Spagna un movimento dottrinale (la «seconda scolastica» o «scolastica barocca»), che determinò più tardi (XVII secolo) l'orientamento dominante della teologia anche nel nord Europa, e cioè in Germania e

78. Per una breve sintesi della storia della teologia morale ci si può riferire a G.ANGELINI- A.VALSECCHI,

Disegno storico della teologia morale, EDB, Bologna 1972; mancano invece opere espressamente dedicate alla storia della morale sociale; vedi però per l'etica economica G.B. GUZZETTI, Cbiese e società. Disegno storico, Marietti, Torino 1972.

62

Page 63: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

nei Paesi Bassi. La caratteristica fondamentale del movimento è il ritorno - quanto meno intenzionale - alla teologia di Tommaso, la cui Summa teologica sostituì le Sentenze del Lombardo come testo scolastico; sicché la forma letteraria in cui si esprime il pensiero dei maestri domenicani e gesuiti in questo periodo è quello del Commento alla Summa. L'attenzione accordata ai problemi morali in genere, e in particolare a quelli economici, giuridici e politici, fu enorme. Imponevano una tale attenzione le circostanze storiche: la nascita degli stati nazionali, l'inizio dell'opera colonizzatrice e quindi un traffico commerciale e finanziario internazionale. Tali circostanze determinarono uno sviluppo estensivo clamoroso del commento alla sezione della Secunda Secundae dedicata alla virtù di giustizia, fino ad imporre l'enucleazione di questo commento come trattato separato: il De iustitia et iure, appunto.

I commentari De iustitia et iure - semplificati e sfrondati secondo il criterio della utilità per il ministero pastorale della confessione - fornirono alle Institutiones morales il quadro complessivo di trattazione e il materiale per il tema economico-politico. La sistemazione così raggiunta rimase sostanzialmente immutata fino a pochi decenni fa nei manuali di teologia morale adottati nelle scuole teologiche.

2.1. Il «De iustitia et iure»

I teologi domenicani (De Vitoria, M. Cano, D. Scoto, B. De Medina, D. Bañez) e gesuiti (Molina, Gregorio e Gabriele Vasquez, Suarez, Lessio) della seconda scolastica non si proposero in alcun modo il problema della organizzazione sistematica della morale speciale: la forma del commentario alla Summa li esonerava automaticamente da tale compito. Le qq. 67-68 della I-II offrirono loro con tutta naturalezza un punto di partenza per porre e risolvere le nuove questioni economiche e politico-internazionali a cui già accennavamo: l'edificio crebbe a dismisura acquistò indubbiamente un'organicità e un ordine ancora assenti nella trattazione di Tommaso, ma le basi non furono messe in questione.

A quelle basi sappiamo essere poco presente la questione della giustizia distributiva, ossia il complesso di questioni riguardanti il rapporto del potere civile con il popolo e l'autorità ecclesiastica. La mutata situazione politica (cristianità divisa, superamento della frantumazione politico-economica feudale e comunale con la nascita degli stati nazionali assoluti; dunque il darsi di un’unità non più simbolico-religiosa ma politico-militare ed economica) rendeva sempre più problematico il «diritto divino» dei re; e di fatto la scolastica barocca teorizzò l'origine contrattualistica della investitura dei poteri: è il popolo che determina convenzionalmente le forme di governo e le persone a questo deputate.

Ma i diritti e i doveri del sovrano poi non sono fissati per contratto; sono al contrario imposti per legge divina: lo ius naturale diventa legge costituzionale d'ogni stato e legge per la società delle nazioni.

Allo sviluppo analitico-deduttivo di esso, in rapporto alle questioni più diverse (guerra giusta, diritto di colonizzazione, ecc.), si dedicano con grande impegno i moralisti. La soggezione del principe al diritto naturale diventa fondamento della teoria (Bellarmino) che assegna al Papa una potestas indirecta (ratione peccati) sui sovrani e nell'ambito temporale in generale.

63

Page 64: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Permane in forma nuova la situazione di «cristianità», di fusione intenzionale tra legge in senso giuridico e legge in senso morale; permane la presunta coordinazione gerarchica tra ius naturale e ius positivum esistente. È soltanto al di fuori dalla chiesa cattolica (Lutero), che verrà risuscitato con violenza il problema della contraddizione tra legge evangelica e legge civile: la soluzione suggerita peraltro apparirà alquanto insoddisfacente.

2.2. Dalle « Institutiones morales » ai manuali recenti

All'origine del nuovo genere letterario, progenitore prossimo dei manuali di teologia morale universalmente diffusi ancora nella prima metà del nostro secolo, furono le disposizioni del Concilio di Trento. Il Decreto sulla Penitenza (Cf. DS 1689 e 1707) aveva affermato la necessità iure divino di confessare tutti e singoli i peccati mortali, comprese le circostanze tali da mutare la specie degli stessi. Lo stesso Concilio aveva poi auspicato la creazione di istituti di formazione per i futuri sacerdoti; la realizzazione dell'auspicio fu affidata soprattutto ai gesuiti, che ebbero l'incarico dell'insegnamento in molti seminari. In questo contesto l'insegnamento della teologia morale ebbe soprattutto un intento pastorale, di abilitazione all'esercizio del ministero della confessione secondo le esigenze del decreto tridentino.

La mole enorme dei commentari universitari alla Summa, la disposizione poco pratica delle diverse materie in essa, indussero ad una semplificazione e ad una rifusione, dalle quali emersero le Institutiones theologiae moralis. La prima opera del genere fu quella di Giovanni Azor (1559-1603); le due più illustri che poi si affermarono furono quelle di De Lugo (1583-1660) e di Busembaum (1600-1688); quest'ultima in particolare offrì lo schema di fondo alle opere di S. Alfonso, di Gury (il manuale più diffuso all'inizio del XX secolo), di Ballerini.

Le caratteristiche più notevoli delle Institutiones, dal punto di vista della impostazione generale, sono la concentrazione in poche pagine di tutte le questioni di morale generale e fondamentale, e - connesso alla caratteristica precedente - l'abbandono dello schema delle virtù a favore di quello dei comandamenti, schema quest'ultimo che meglio serviva ad organizzare la trattazione casistica esigita dallo scopo pastorale.

Comunque, l'argomento della morale economica, fatto rientrare ora sotto il titolo del VII e X comandamento, mantenne lo schema del trattato De iustitia et iure. L'argomento politico, costretto nei limiti dei doveri verso l'autorità fu trattato all'interno del IV comandamento, come caso particolare dell'obbedienza dovuta ai superiori. La trattazione - com'è evidente - non affronta da capo i problemi fondamentali della società, dei rapporti tra norme sociali e norme etiche; non prevede una responsabilità attiva del semplice cittadino in ordine alle istituzioni e all'evoluzione della società. Ma, richiamati i principi generali tradizionali (e cioè medievali), esamina i conflitti di obbedienza che caso per caso possono insorgere per l'individuo.

Verso l'inizio del XX secolo alcuni autori, soprattutto di lingua tedesca come Lehmkuhl (1884) e Vermeersch (1937), tornarono allo schema tomista delle virtù: questo ritorno si accompagna ad un tentativo complessivo di restaurazione tomista, inteso a superare la frammentarietà della trattazione casistica e anche il conseguente legalismo morale, che a quel tipo di trattazione facilmente si accompagna.

64

Page 65: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il rinnovamento interessa in qualche misura anche la trattazione dell'argomento etico-sociale. Ma nel frattempo tale argomento - in rapporto alla vicenda storica generale della società europea e nord-americana - assume una gravità ed una complessità tale, da trovare difficilmente trattazione adeguata entro lo schema sia pure rinnovato di un De iustitia et iure. È significativo il fatto che anche i manuali recenti e universalmente apprezzati - come quello dello Häring (La legge di Cristo, 1954) - accordano all'argomento etico-politico uno spazio assolutamente irrisorio (30 pagine su 1700 complessive, nella traduzione italiana del manuale citato).

Il ritardo accumulato dalla teologia morale dei manuali è ormai tale da far apparire impossibile un recupero. La riflessione sul tema della società emigra in opere di carattere monografico, libere da intendimenti sistematici e comunque emancipate dall'impostazione tradizionale. Ma significativo sintomo di questa ineluttabile inadeguatezza dei manuali è l'insorgere di un filone dottrinale nuovo, la cosiddetta «dottrina sociale della chiesa», che non ha trovato modo d'inserirsi nella trattazione istituzionale classica della teologia morale.

65

Page 66: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

LA RIFLESSIONE MODERNA E

CONTEMPORANEA SULLA SOCIETÀ

Inoltriamoci nella riflessione politica dell’epoca moderna con una precisazione metodologica.

L’epoca moderna porta con sé, tra altri fattori, la distinzione sempre più pronunciata tra aspetti materiali e aspetti ideali, tra fattori economici e ideologie politiche.

Nel medioevo e in tutta l’epoca antica, la differenza tra i due generi di fattori della vita sociale, materiale e ideale, appariva in modo meno marcata a causa della poca rilevanza sociale degli aspetti materiali. L’economia non andava oltre lo scambio dei beni primari, necessari alla sopravvivenza ed ogni attività materiale era considerata una incombenza da schiavi o da servi, come vedremo.

Allo studioso moderno serve, dunque, una adeguata avvertenza a riguardo della dinamica tra fattori materiali e ideali dello sviluppo sociale e degli accadimenti politici. Il "materialismo storico", alla Marx, non è sufficiente per spiegare la "storia" ma nemmeno lo è un idealismo o intellettualismo politico, che vede gli accadimenti sempre e solo come effetti di un sistema di pensiero, di una ideologia, di una "eresia" dottrinale. Il mondo cattolico viene da una tradizione che ha conferito importanza primari all’aspetto ideologico o dottrinale, mancando di sviluppare una proporzionale attenzione ai fattori di ordine materiale. La fortuna di eretici e riformatori, ad esempio, non dipende solo dalle innovazioni dottrinali ma dal significato sociale che esse rivestono presso le diverse classi sociali del tempo (vedi l’analisi fatta per la riforma luterana).

Dal punto di vista storico, i mutamenti di ordine “ideale” (emancipazione dall’auctoritas religiosa sia sul piano scientifico che politico, l’affermazione dell’identità particolare sia sul piano politico sia su quello del pensiero filosofico e del sentimento diffuso, l’idea di libertà ed autonomia del soggetto, l’idea di ugualianza e così via) maturarono in concomitanza con i cambiamenti di ordine materiale.

Il complesso di eventi che trasformò profondamente la problematica sociale in epoca moderna si coagula intorno a due «rivoluzioni» epocali: quella liberal-borghese e quella industriale; la prima è di ordine politico-culturale, la seconda di ordine economico e dunque si pone su un ordine di cose materiale.

Questo due grandi eventi sono stati preceduti e preparati da altri eventi di minor rilievo e che ora brevemente riassumiamo.

Anzitutto, un avvenimento che va ricordato per capire la storia sociale dell'Europa è la grande peste del 1347, la quale svuotò città e campagne, prima sovrappopolate e diede avvio ad un nuovo impulso economico, in particolare nei commerci, contribuendo a creare la cesura tra epoca medievale ed epoca moderna.

66

Page 67: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Pensiamo, poi, ai cambiamenti materiali introdotti a seguito del passaggio da un'economia agricola ad una mercantile, già nel tardo medioevo. Nella prima forma di economia si produceva in vista del consumo diretto dei beni o al massimo per uno scambio di beni ‘in natura’ (vedi i rapporti di vassallaggio o simili); nell’economia di mercato, invece, lo scambio viene mediato dalla moneta per cui sparisce sia il riferimento al bene materialmente prodotto, sia il riferimento alla persona e alle circostanze concrete della sua vita – alla sua identità – quali la salute o la malattia, il benessere o la povertà, il potere o la debolezza. Il rapporto con i beni cessa di essere un luogo di incontro tra persone; povertà e ricchezza divengono elementi estranei all’attività economica, semplici effetti di essa. Le appartenenze ideali (il casato, la religione, la classe sociale) non sono più l’elemento determinante per il destino individuale, dal momento che il denaro è un potere più forte di esse; non solo, tali appartenenze risultano essere impedimenti per l’attività economica, la quale chiede di poter considerare tutti sullo stesso piano e cioè come potenziali clienti. Gli affari si devono poter fare con un cristiano o con un ebreo o con un mussulmano, senza che le differenze "ideali" pongano barriere.

L’economia di mercato tende, per sua natura, ad estenuare le identità, le identità culturali e religiose ma anche le identità individuali, senza peraltro offrire nulla in cambio, se non l’estensione dell’attività economica stessa.

Dunque, l’avvento del mercato, fenomeno che appare del tutto innoquo sotto il profilo ideale o dottrinale o ideologico, introduce mutamenti di una portata tale che nessuna eresia o rivoluzione filosofica avrebbe mai potuto provocare79.

L’avvento di una economia mercantile avviene in concomitanza della crisi dell’omogenità culturale del medioevo, con l’emergere dell’idea di individuo e soggetto, fino alle espressioni politicamente mature del liberalismo politico. Non avrebbero potuto prendere forza i mutamenti materiali se la "mente" degli uomini di allora non fosse stata pronta per mutare la visione del mondo. I fattori ideali mettono un grande potere, nelle mani di chi li rappresenta. Pensiamo alla vicenda clamorosa di Galileo. I fattori ideali poterono inibire efficacemente, e per un tempo proporzionalmente lungo, mutamenti del metodo scientifico, fondati su un’evidenza di ordine materiale (l’osservazione mediante un cannocchiale).

Grande rilievo ebbe l’evoluzione della "città". Il panorama sociale medievoale e rinascimentale era caratterizzato dal binomio città-campagna. La città era sinonimo di ricchezza e sicurezza, il villaggio di povertà e precarietà. Bastava che il raccolto andasse a male che si profilava un inverno di fame, malattia e morte.

Le città del '500 erano indipendenti quasi totalmente; indipendenti economicamente e soprattutto politicamente. «I cittadini non giuravano fedeltà al principe lontano né si consideravano tanto Tedeschi, Italiani o Spagnoli quanto cittadini di Norimberga, Rotterdam, Valencia»80.

La città si governava da sé, anche sul piano militare, giuridico, finanziario. I borghesi, normalmente, si dedicavano alla difesa; ospedali e ospizi erano affidati a cittadini eminenti. Gli affari venivano fatti alla domenica. La vita era scandita come in un collegio e organizzata attorno alle corporazioni, le quali includevano la maggior parte dei cittadini, esclusi i poveri che non avevano un mestiere. Tutti i residenti

79 . Vedi sul "mercato", Concilium 2 (1997); n° monografico.80 . HUPPERT G., Storia sociale dell'Europa, nella prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1990 (1986), p. 53.

67

Page 68: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

erano comunque inclusi nei rioni e nelle contrade, organizzati per fini fiscali e per combattere gli incendi o per manifestazioni pubbliche.

La crisi delle città iniziò con l'entrata dell'eresia, con l'immigrazione e con l'ingerenza delle corti81. Soprattutto la seconda contribuì al disfacimento della comunità cittadina, facendo valere la ricchezza quale criterio di rilevanza sociale e politica. I governanti rappresentarono sempre meno la realtà cittadina nelle sue articolazioni ma semplicemente il potere economico (nella cittadina inglese di Convetry, ad esempio, nel 1580 i 15 membri del consiglio possedevano già il 9% della ricchezza totale, distribuita su 1541 famiglie; nel 1646 la percentuale era già salita al 30%. Tra i ricchi sempre meno figurano artigiani e commercianti; viene reciso il legame tra governo cittadino e corporazioni. I nuovi ricchi erano quelli che vivevano delle rendite (terra e immobili urbani) e non del proprio lavoro; «i valori medievali del comune erano stati completamente sovvertiti»82.

Accadde poi che i ricchi cittadini trovarono vantaggioso trafficare con l'erario regio, facendo in tal modo nascere «una relazione particolare e reciprocamente vantaggiosa tra le élites urbane e i governi centrali»83. Nacque un nuovo impiego, alquanto redditizio, quello dell'esattore delle tasse in nome del re, affidato ai creditori del re. Divenne vantaggioso lavorare per il re. Nel giro di tre generazioni nacque una classe di capitalisti a servizio del re, istruiti e senza più legami con l'attività lavorativa della città e della campagna. Una classe diversa sia dalla borghesia, dal vecchio mercante, che dalla nobiltà; interessata alle cariche pubbliche, interessata all'istruzione e all'espansione delle scuole.

Le condizioni generali delle città peggiorarono; la frangia dei poveri, che giungevano dalla campagna affamati, salì in casi non rari fino al 20% in una città di media grandezza.

Si determinò in seguito a tutti i fattori qui elencati la fine di una cultura caratterizzata, nel suo nocciolo, dal primato della società rispetto all'individuo, dall'esistenza di un forte consenso sociale, dall'attribuzione di una dignità sacrale (naturale, religiosa) all'organizzazione sociale, e quindi dal riconoscimento di un carattere etico ai diritti e ai doveri assegnati dallo status sociale. L'appartenenza al corpus sociale era all'origine dell'identità soggettiva e della sicurezza del singolo: egli prendeva coscienza di sé, dei suoi compiti, dei suoi diritti, delle sue possibilità, a procedere dalla sua integrazione sociale, sempre mediata dall'appartenenza familiare.

Viceversa, nella nuova cultura il singolo acquista coscienza di sé innanzi tutto come individuo uguale ad ogni altro individuo. Una gerachia sociale continua ad esistere ma è giustificata in termini solo funzionali e non più 'ontologici'. Sul piano dell’essere si è tutti uguali; sul piano delle funzioni si è diversi. Si è uguali su piano del "diritto", diversi sul piano del "potere".

La parola «diritto», che una volta aveva significato oggettivo e definiva appunto l'ordine sociale di fatto esistente e giudicato in linea di principio giusto, acquista significato soggettivo, e diventa attributo del soggetto individuale. «Naturali», indiscussi, normativi per il complesso dei rapporti sociali, sono soltanto i diritti del singolo.

81 . Ibid., p. 67.82 . Ibid. p. 72.83 . Ibid. p. 74.

68

Page 69: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Le regole che disciplinano i rapporti tra individui appaiono, invece, per un verso meri fatti, discutibili e contestabili, e per altro verso scelte collettive la cui legittimità dipende dalla convenzione, dall'accordo, dal contratto, dalla volontà positiva e convergente espressa dai cittadini.

La trasformazione culturale di cui abbiamo parlato e al cui centro troviamo la distinzione tra fattori ideali e fattori materiali dei mutamenti storici o dei fatti sociali, la possiamo esprimere anche nei termini più familiari di stato e società. Della dinamica tra economia e forme ideali della cultura, il pensiero moderno ha colto i due profili che corrispondono alla detenzione del potere ed al suo uso (lo stato), e all’insieme dei fenomeni di rilevanza pubblica che hanno nei "bisogni" la loro motrice (la società).

Nel pensiero politico moderno, la società costituisce l’elemento "naturale" del vivere umano e lo stato quello convenzionale. La società, in altri termini, esisterebbe anche a prescindere dall’opera umana e precisamente dal consenso tra gli uomini, mentre lo stato è creatura degli uomini, per fini determinati.

La società è realtà "naturale" ma non in quanto polis, e cioè come sistema politicamente organizzato e sanzionato, bensì come pura e semplice risultante delle scelte libere dei singoli, a fronte dei bisogni vitali (di sopravvivenza, di sicurezza o di pace). Essa rappresenta anche la dimensione fattuale o effettuale della realtà umana; il "volto" di una determinata società, in un determinato luogo e tempo, non dipende da nessuno. È così e basta. In tal senso, va intesa come realtà "naturale".

Lo stato viene dopo, per rispondere ai bisogni indotti dal vivere sociale e dalle sue trasformazioni. Viene dopo la società ed è opera degli uomini. Esso, fondamentalmente, nasce per assolvere al compito di disciplinare le zone di interferenza delle libertà individuali e di rendere sicura, pacifica, giusta la convivenza civile.

La rivoluzione culturale così tratteggiata, all’alba dell’età moderna, ha visto come protagonista una classe sociale, la borghesia. La borghesia è espressione della nuova pratica economica, il mercato prima e poi l’industria, e possiede anche una sua identità intellettuale o, meglio, ideologica. Alla borghesia fa capo il movimento filosofico che diede la prima espressione compiuta alle nuove idee ed al quale successivamente si riferiranno anche i movimenti pratici di riforma o di rivoluzione sociale. Parliamo dell'illuminismo.

L’epoca moderna non è solo l’illuminismo e la ragione cartesiana o kantiana. L’epoca moderna contiene al suo interno anche un movimento che è tutt’altro che razionalista. Pensiamo ai vari movimenti religiosi che prendono vita al di fuori dell’ortodossia scolastica ufficiale, tra i quali la riforma luterana, come abbiamo visto. Pensiamo al romanticismo del secolo scorso. La corrente più forte è senz’altro quella razionalistica, ma non è l’unica.

Nell’ultimo scorcio del ‘900 ha poi preso forza l’idea di una fine dell’epoca moderna e l’inizio di una post-modernità, al cui centro ritroviamo la crisi della ragione moderna; di questa ci occuperemo in un successivo capitolo.

69

Page 70: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

1.Lo Stato moderno e la “ragion di stato”Uno delle prime espressioni della modernità politica è il pensiero del nostro

Macchiavelli. Uomo geniale, diplomatico più che teorico della politica, grande conoscitore della complessa trama di poteri che caratterizzava l’Italia tra il XV e XVI secolo, divisa in cinque grandi stati (Napoli, Milano, Venezia, Firenze, Pontificio).

Merito di Macchiavelli è quello di aver introdotto un’ottica nuova nel pensare l’azione politica – la quale, ripeto, era per lui anzitutto azione diplomatica – secondo la quale il successo di detta azione implica una emancipazione dai principi morali e religiosi. Il suo interesse non è ideologico e cioè relativo ad una emancipazione dall’influenza della morale cristiana. Anzi. Il suo è un pensiero che si sviluppa attorno all’interesse teorico relativo al nascere ed al conservarsi degli stati. Da questo punto di vista egli afferma «l’indifferenza nell’uso di mezzi immorali per fini politici e la convinzione che il governo si fondi in gran parte sulla forza e sulla violenza»84.

La tesi ha due aspetti. Da un lato si propunga l’indifferenza morale dell’azione politica, dall’altro la natura coercitiva o addirittura violenta del governo.

Per quanto riguarda la prima tesi non si deve però confonderla con una concezione immorale della vita sociale. Macchiavelli ritiene che lo stato guadagni moltissimo grazie alla moralità dei sudditi. Un popolo preda dell’immoralità rende impossibile il buon governe. La sua tesi dell’indifferenza morale riguarda esclusivamente l’azione politica e si giustifica alla luce dei meccanismi di potere che sanciscono il successo o l’insuccesso del principe.

Tuttavia è evidente l’influsso di un presupposto antropologico di tipo pessimistico e cioè la convizione che l’uomo è fondamentalmente un essere segnato dall’egoismo e per tale ragione è sempre in lotta con i suoi simili e deve essere fronteggiato non con le armi della persuasione ma con quelle della coercizione.

Macchiavelli insegnò comunque a pensare lo "stato" secondo l’uso moderno del termine e cioè come forza organizzata, sovrano nel territorio, in competizione con altri stati.

La cosa che va ancora una volta evitata è la riduzione di questo come altri personaggi del tempo a propugnatori di una diversa moralità o di immoralità o di una diversa visione del mondo e dell’uomo. Si tratta invece di studiosi attenti ad un aspetto della realtà e ben poco impegnati sul piano delle grandi rivoluzioni ideologiche come noi siamo stati abituati a pensare dall’illuminismo e dal marxismo.

2. La critica illuministaL'illuminismo è un movimento complesso, i cui confini cronologici non è

possibile fissare univocamente85: ma basti ai nostri fini caratterizzarlo come il movimento culturale che ebbe sviluppo soprattutto nel XVIII secolo e nella prima

84 . {SABINE G.H. 1955 #136} p. 25885. Notizie storiche sull'Illuminismo possono essere facilmente trovate su ogni manuale o enciclopedia di storia della filosofia. Dal punto di vista ideale, una significativa caratterizzazione dell'illuminismo è quella tracciata da E. KANT, Risposta all'interrogativo: Cbe cosa è l'illuminismo, del 1784. Tra la letteratura recente, fondamentali sono le opere di E. CASSIRER, La filosofia dell'illuminismo, Firenze 1935; B. GROETHUYSEN, Le origini del pensiero borghese in Francia, Milano 1964. Dal nostro punto di vista interessante è la riflessione sui programmi politici illuministi svolta da L. GOLDMANN, L'illuminismo e la società moderna, Einaudi, Torino 1967, specie alle pp. 11-64.

70

Page 71: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

metà del XIX secolo, quale espressione caratteristica del nuovo ceto che si accingeva ad assumere l'egemonia nella società: il ceto borghese. La borghesia di cui si parla non è quella tardo-medievale, quale classe che si impone tra l'aristocrazia e la nobiltà, bensì in senso moderno, come la classe detentrice del capitale e dei mezzi di produzione.

2.1. Le idee generali

Questo nuovo ceto, protagonista dell'economia cittadina e di mercato, incontrò nell'assetto sociale tradizionale (ancien régime), sanzionato dall'autorità di un re governante per diritto divino e dall'autorità della chiesa, un impedimento per la sua attività: pensiamo ai privilegi feudali dei ceti aristocratici ed ecclesiastici, agli impacci che le antiche corporazioni costituivano per il libero mercato, alla inferiorità quanto a diritti politici di cui i ceti borghesi stessi ancora soffrivano.

Ma più a fondo, era tutta la cultura sociale tradizionale - gerarchica, sacrale, corporativa - che si scontrava con la mentalità nuova delle classi borghesi. Chi vive all'interno di una società feudale, dà senso alla sua attività riferendola all'architettura organica della società ambiente. Chi vive in città e produce per il mercato, non ha bisogno di alcuna giustificazione corporativa della sua attività: il prezzo di scambio è l'unico criterio che dà valore all'opera. L’individuo, il singolo cittadino, si concepisce come soggetto autonomo, capace di giustificare individualisticamente il proprio lavoro, riferendolo alla realtà «convenzionale» del mercato. Chiamiamo «convenzionale» tale realtà, in quanto i rapporti che in essa si realizzano sono rapporti « contrattuali », affidati alla libera determinazione delle parti86, sulla base di elementi del tutto indifferenti alle identità culturali dei contraenti. Non importa se l’acquirente è nobile o volgare, chierico o laico, cristiano o ebreo o musulmano, bello o brutto, basta che paghi.

L'opposizione pratica e teorica, politica e culturale della borghesia all'ancien régime ebbe l’effetto di distinguere le istanze politiche da quelle economiche, l’identità culturale e religiosa dalle faccende quotidiane di povertà e ricchezza. Ebbe l’effetto di rompere, in maniera definitiva, il connubio tra stato e società, che con varie vicende si protraeva dal tempo dell'antica Grecia, e da prima ancora.

Si ruppe cioè quel connubio in forza del quale un popolo si costituiva non tanto in forza della sua potenza economica bensì delle istituzioni politiche: le sue leggi, la sua classe dominante, le sue tradizioni, la sua cultura. Non esisteva, ancora, una società, potremmo dire, ma subito e solo un popolo, una nazione, riunita attorno alle sue bandiere.

Le istituzioni politiche erano poi legittimate, presso il popolo, da un pensiero religioso, il quale inseriva le vicende particolari di quel popolo, in un contesto universale e cosmico. L’autorità esercitata dai re veniva fondata sull’autorità stessa di Dio.

L'autorità pubblica si pone, poi, in stretta continuità con il regime familiare, nel senso che il re godeva, presso i sudditi, di un’autorità analoga a quella del padre in famiglia.

86. L'opera di L. GOLDMANN, citata, pp. 27-37 fa una breve analisi, ma molto lucida, dell'intrinseco legame tra economia di mercato e cultura illuminista (individualismo, razionalismo, empirismo, egalitarismo, universalismo, tolleranza, libertà sono collegati all'ethos proprio del mercante).

71

Page 72: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Le istituzioni politiche costituivano l’unica entità "pubblica", che stava sotto gli occhi di tutti, che serviva come punto di condensazione delle identità individuali. La forza della sua funzione pubblica derivava dal fatto che essa era a servizio dei popolo ma non sottomessa ad esso. Godeva di un’autorità che non proveniva dal popolo; proveniva da Dio ma nello stesso tempo apparteneva alla realtà delle cose, alla "natura" della cose, così come vi appartiene la famiglia e l’autorità del padre in essa.

Gli illuministi registrarono la rottura di questo connubio tra individuo e istituzioni, tra vicende private e vita pubblica, introducendo come prima e unica entità "naturale" l’individuo. All’inizio, potremmo dire, ci sta l’individuo con i suoi bisogni e la sua attività; poi viene lo stato con le sue leggi ed il suo potere.

Da cosa nasce lo stato, se è vero che esso viene "dopo" gli individui o la realtà sociale? Non può provenire che dalla volontà degli individui stessi e dunque dai loro bisogni.

L’idea di «contratto sociale», che è alla base dello stato moderno, sancisce appunto la convenzionalità dello stato ed il primato della società, pensata a procedere dall’individuo e dai suoi bisogni ed interessi.

Con il contratto sociale gli individui si costituiscono in comunità (pactum unionis), e stabiliscono delle norme e dei funzionari incaricati di tutelare la vita comune (pactum subiectionis). Ricorrono all'idea di contratto sociale - per nominare alcuni dei maggiori - Pufendorf, Hobbes, Locke, Wolff, Rousseau e Kant. Ma le rispettive concezioni hanno in comune praticamente soltanto l'istanza dell'autonomia individuale, intesa come un diritto naturale dell'uomo; tale istanza spiega perché l'obbligazione sociale - ossia, la soggezione del singolo ai suoi simili o a norme eteronome - possa sorgere soltanto in forza di una decisione previa dei singoli. Per il resto, mentre Pufendorf e Wolff (giusnaturalisti moderni) pensano che il contratto sociale abbia lo scopo di dare vigore ad un «diritto naturale» obiettivo, Hobbes e Kant pensano che il contratto sociale abbia come unica norma il perseguimento razionale del fine ch'esso si propone: "razionale", ma con riferimento ad una ragione ch'è ormai soltanto «ragione strumentale»87.

Soffermiamoci su questa idea di «contratto sociale». Anzitutto chiariamone le origini.

L'idea di contratto sociale ha radici molto remote, se è vero che può essere ravvisata già nei sofisti greci. Anche nel diritto romano troviamo l'idea di un’origine contrattuale dell'autorità (lex regia de imperio) connessa ad una visione ormai decadente della legge, intesa come funzione meramente giuridica, irrilevante sul piano pratico.

Anche nella teologia cristiana, in particolare nella seconda scolastica, era presente una corrente convenzionalista, la quale riteneva che le forme del governo, ma non il contenuto delle leggi, fossero del tutto arbitrarie e conseguenti ad un accordo sociale.

L’idea di "contratto" assume il suo significato più radicale solo con il passaggio dal giusnaturalismo teologico a quello laico moderno e cioè con il passaggio dal

87. La definizione e la critica del concetto di «ragione strumentale» - uno dei temi prediletti della scuola di Francoforte - è svolta in particolare in M. HORKHEIMER, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969.

72

Page 73: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

diritto naturale, inteso come ordinamento etico obiettivo, ai diritti naturali, intesi come diritti inalienabili ma legati alla persona del singolo.

L'introduzione della categoria del contratto sociale, nel suo senso moderno e più radicale, comporta la distinzione tra la società intesa come stato naturale degli individui, legati assieme dai loro bisogni, e la società "civilizzata" mediante le istituzioni politiche.

La distinzione fu talora intesa come distinzione puramente logica (Pufendorf, Locke, Rousseau, Kant), talvolta come distinzione corrispondente ad una reale evoluzione storica (Hobbes); in ogni caso, di carattere logico e non storico, sono le caratteristiche attribuite ai due "stati" sociali, quello “di natura” e quello conseguente al «contratto sociale».

Per pensare lo «stato di natura», gli illuministi procedono per astrazione; cercano cioè di immaginare come sarebbero (oggi) i rapporti tra gli uomini, se non ci fossero leggi e governanti. L’idea del «contratto sociale», invece, viene elaborata mediante un processo di razionalizzazione della politica, mediante il quale sono estromesse tutti gli aspetti non riducibili ad un "contratto" tra uomini e cioè ogni fondazione religiosa o metafisica della politica. Parlare di contratto sociale significa, cioè, due cose: che lo stato ha origine dalla volontà degli uomini e che, per tale ragione, non può essere una realtà divina o metafisica.

Il programma illuministico è appunto quello pratico-pedagogico di condurre ogni uomo ad esercitare un discernimento critico verso le credenze religiose, a uscire dalla «minore età» in cui egli colpevolmente viveva sotto l'ancien régime.

Ma se comuni risultano i procedimenti, mediante i quali vengono elaborate le nozioni in questione, diversi sono i contenuti concreti delle nozioni stesse.

Soffermiamoci sulle diverse versioni dell’illuminismo politico, a procedere dai contenuti concreti del “contratto sociale”.

Possiamo, schematizzando alquanto, individuare tre fondamentali orientamenti, dei quali rappresentanti emblematici sono Hobbes, Rousseau e Locke.

2.2. Il pessimismo antropologico ed il totalitarsimo di Hobbes.

Per Hobbes l'aspetto «ragionevole» delle istituzioni politiche è innanzitutto il potere. L’affermazione può apparire contraddittoria, dal momento che la ragione sembra dover essere invocata per correggere i tendenziali eccessi del potere.

Hobbes, però, ragiona avendo davanti l’esperienza delle guerre di religione e cioè una società fortemente conflittuale, nella quale, proprio le istituzioni tradizionalmente deputate al mantenimento dell’ordine e della pace, risultano essere la fonte del conflitto.

L’unica risorsa politica è, dunque, un potere abbastanza forte per imporsi alle diverse fazioni in lotta e capace di giustificarsi a prescindere dalle appartenenze religiose.

Nella conflittualità sociale Hobbes non vede però un semplice fatto congiunturale. Le lotte di religione sono solo una variante della perenne lotta che si ha quando la convivenza umana è allo «stato di natura»; stato di vita sociale caratterizzato dallo scontro degli opposti egoismi e dalla lotta per la sopraffazione reciproca. Allo stato di natura si contrappone la "società civile" o politica. La figura di

73

Page 74: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

"società civile" nasce dunque per indicare il nuovo spessore assunto dalla problematica sociale, o della convivenza sociale, ed attinge alle radici culturali del giusnaturalismo88.

"Naturale" «è ciò che specifica l’essenza dell’individuo prima e contro i rapporti sociali […] il problema fondamentale della politica diventa quello di determinare il 'modo' e la 'misura' in cui gli individui possano divenire 'comuni'. La natura è intesa come un che di srelato, perché la società è intesa come un costrutto»89.

Perché il potere politico possa mettere ordine nel selvaggio «stato di natura», deve essere assoluto, insindacabile, del tutto sottratto ad un vincolo di mandato da parte dei cittadini: ogni riserva di potere nelle loro mani sarebbe infatti una falla nel sistema, attraverso la quale irromperebbe da capo lo stato di natura.

Il «contratto sociale» deve perciò costituire una alienazione totale della libertà individuale. I cittadini si impegnano a rimettere nelle mani del sovrano il diritto illimitato di autogoverno che possiedono individualmente («naturalmente») per ottenere, in cambio, la pace sociale e la sicurezza per i propri possedimenti:

Io concedo ed affido il mio diritto di autogoverno a quest'uomo, o a questa assemblea, a condizione che tu gli conceda anche il tuo e ne autorizzi del pari tutte le azioni. Questa è la generazione del grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con maggior riverenza) del Dio mortale, cui noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, (Leviatban, cap. 17).

Il prezzo della «pace» (questo è il nome che Hobbes predilige per il bene pubblico) è, dunque, alto: la libertà nella sua interezza. La pace diviene l'opera umana per eccellenza; l'opera che trasforma lo stato naturale in stato «legale»: «siccome il mantenimento della pace non è reperibile in natura, ma in quella costruzione artificiale che è lo Stato […] la politica reperirà il suo atto fondativo non nell'intimità della natura ma nell'intimità con la legge (come vuole l'etimologia di "legittimo" dal latino legi-intimus), che diventa il luogo dove la violenza originaria che è in natura si trasforma in potere legittimo riconosciuto e pubblicamente accettato» 90.

L’idea di "contratto" sviluppata da Hobbes lascia in ombra la sua più profonda intenzionalità, quella di «ricondurre la legittimazione del potere all’idea di popolo»; il contratto nasce per raccordare la realtà naturale, pre-politica, a quella artificiale dello Stato. Non necessariamente il contratto conduce ad una visione totalitaria dello Stato o del potere politico. Può fungere anche da «principio regolatore del rapporto tra governanti e governati» come accade in Locke e Kant91, il quale prevede una reversibilità.

Gesuiti e ugonotti già si richiamavano all’idea di contratto per limitare i diritti del sovrano, ottenendo al popolo di destituirlo in caso di inadempienza ai suoi doveri.

Rousseau ed Hegel lo considereranno esattamente in modo opposto ad Hobbes e cioè uguale allo stato di schiavitù o di "alienazione", dal momento che si è costretti a vendere la libertà per aver salva la vita.

In ogni caso, il contratto sociale, sia esso visto in forma assolutistica o liberale, testimonia come la realtà politica abbia bisogno di ciò che la precede, dello stato di natura. «L’istanza del contratto coincide con l’istanza di riconoscere un’invarianza

88 . SELIGMAN A., L'idea di società civile, Garzanti, Milano 1993 (1992) p. 29.89 . AA.VV., Identità naturale e finalità politica, RIZZI, L.(curatore), Piemme, Casale Monferrato 1989 p. 22.90 . GALIMBERTI U., Psiche e techne. L'uomo dell'età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999 p. 444.91 . Rizzi, op. cit. p. 23-24.

74

Page 75: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

naturale e di riconoscersi in una medesima misura, sia essa l’utile, Dio o la ragione»92; tale invarianza naturale è l’antropologia, l’etica o la morale, le quali costituiscono il presupposto non contrattabile del contratto. Non è concepibile uno Stato che si giustifichi come pura e semplice macchina istituzionale, come sarà per la concezione positivistica, anche se la visione dell’uomo non sia più quella metafisica ma sia ormai meccanicistica. Un uomo mosso dalle passioni, dall’interesse, dagli egoismi. Tuttavia, tale stato di natura precede e fonda il contratto sociale.

La dottrina politica di Hobbes è, in ogni caso, evidentemente conservatrice. L’unico potere legittimo è quello vigente, per il solo fatto che è vigente. Il potere tende, dunque, ad autoconservarsi.

La razionalità politica riguarda, poi, solo il contenimento della violenza e non la regolazione della vita quotidiana o pacifica. È uno stato pensato per far fronte allo stato di guerra, di guerra civile, non per gestire uno sviluppo pacifico.

Al centro ritroviamo, certo, la volontà individuale ma solo quello di chi ha interessi da difendere ed al quale torna utile un regime totalitario.

2.3. L’utopismo politico: Rousseau e la riduzione della politica all'etica.

All'estremo opposto, rispetto ad Hobbes, troviamo l'idea di contratto sociale elaborata da Rousseau, al quale possiamo accostare - dal nostro punto di vista - le varie espressioni del socialismo utopistico.

In Rousseau il contratto sociale è una categoria ideale, più che di potere e di interesse economico, come in Hobbes. Rappresenta l'ideale di un potere che deve continuamente riformarsi per divenire giusto o conforme a ragione.

Andiamo per ordine. Anzitutto, Rousseau ha un’idea negativa del potere politico di fatto esistente. Il presupposto logico di tale giudizio negativo è la convinzione che la libertà sia una qualità troppo importante per potervi rinunciare. Infatti, ogni contratto fatto in stato di schiavitù è nullo; le parole «schiavo e diritto, sono contraddittorie », perché la libertà è con-naturale all'uomo. Se non c’è libertà non ci può nemmeno essere “contratto sociale” e l’idea di un contratto sociale per rinunciare alla libertà è assurda.

D'altra parte, la schiavitù è un fatto. Non esiste solo la schiavitù dichiarata tale ma esistono anche molteplici forme di schiavitù dovute al potere politico vigente e legittimo. Sotto questo profilo Rousseau condivide il pessimismo politico di Hobbes.

Tuttavia, non è questa la condizione "naturale" dell'uomo e bisogna operare perché sia ripristinata tale condizione naturale.

Rousseau pensa dunque ad uno «stato di natura» ideale, il quale si sarebbe successivamente corrotto. Lo stato dovrebbe operare nel senso di riportare gli uomini allo stato di natura iniziale.

Tale stato di natura è rappresentato come convivenza armonica ed idilliaca tra gli uomini93. La lotta dell'uomo con l'uomo è giudicata come decadenza, alla cui origine sta l'appropriazione dei beni.

92 . Ibid., p. 24.93. Così nel Discorso sull'ineguaglianza; nel Contratto sociale al contrario scompare l'idea di uno stato ideale logicamente anteriore alla società: soltanto nella società emergente dal «contratto» - così come Rousseau lo vuole - l'uomo raggiunge la sua condizìone veramente umana.

75

Page 76: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Alle necessità emergenti da questa condizione decaduta (materialmente identica a quella descritta come «naturale» da Hobbes) provvede lo Stato attuale o vigente; vi provvede operando in modo tale da salvaguardare gli interessi dei ricchi, per cui «diritto» stabilito sancisce l'ineguaglianza e l'usurpazione da cui esso stesso ebbe origine.

Come dev’essere allora lo stato? Lo Stato veramente legittimo, quello che restituirà agli uomini la libertà che naturalmente loro compete, deve risolvere questo difficile problema:

Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e rimanga altrettanto libero come prima, (Contratto Sociale, 1, 6).

Rousseau usa l’espressione «contratto sociale», per designare, appunto, tale forma di associazione, capace di conciliare la volontà individua con quella comunitaria, o generale, come dirà.

Nel contratto sociale l’uomo deve perdere qualcosa; ciò che perde non è la libertà ma una forma scadente di essa, quella che Rousseau chiama «libertà naturale e diritto illimitato a ciò che lo tenta e che egli può raggiungere». Deve perdere non tanto la libertà ma l’istinto a possedere ed a possedere in concorrenza con gli altri.

Nel contratto, poi, l’uomo guadagna qualcosa, la vera libertà e cioè «la libertà civile», la libertà che è nello stesso tempo propria e di tutti.

Che la vera libertà sia solamente quella "civile" lo si può vedere dal fatto che la «libertà naturale» è limitata estrinsecamente dalle forze dell'individuo, mentre la libertà civile gode delle forze di tutta la comunità civile.

In secondo luogo, la libertà naturale si pone in antagonismo rispetto alla volontà della comunità o «volontà generale», dal momento che questa le deve porre necessariamente dei limiti.

La vera libertà è, al contrario, raggiunta quando la volontà dell’individuo si ritrova in sintonia o in continuità con la volontà generale. L’individuo non "possiede" più i beni anche se rimane "proprietario" dei beni. Rousseau distingue cioè tra "possesso" e "proprietà", intendendo con il secondo termine una sorta di possesso comunitario, possesso in comune delle cose.

Cosa intende Rousseau per «volontà generale»? Essa non costituisce semplicemente la somma delle volontà individuali o il compromesso tra loro. È invece espressione di un «interesse comune»e di un «accordo mirabile»:

Ciascuno si sottomette necessariaiamente alle condizioni che impone agli altri: accordo mirabile dell'interesse e della giustizia, (Ibidem, Il, 4)

La libertà vera è quella che vede il cittadino animato dalla volontà generale e non da quella individuale. La «volontà generale» è la volontà vera del cittadino, secondo la quale egli vuole secondo giustizia e non secondo la suggestione immediata dell'interesse privato.

76

Page 77: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il «contratto sociale» corrisponde, per Rousseau, al processo secondo il quale l'uomo privato - il bourgeois, dirà Hegel - si converte in citoyen94. Esso è possibile solo a questa condizione: che la libertà dell’uomo venga promossa e non tolta.

In conclusione, la visione politica di Rousseau concorda con quella di Hobbes nel ritenere lo stato di vita organizzato e istituzionalizzato superiore a quello della pura e semplice spontaneità; la diversità tra i due va ravvisata nel diverso modo di intendere il superamento del livello "naturale" della vita ad opera della "civiltà". Per Rousseau la "città" porta a compimento ciò che già è presente come aspirazione nella "natura" umana; per Hobbes, al contrario, la civiltà deve limitare, contenere, ciò che nella natura umana contrasta con una civile convivenza.

La teoria politica di Rousseau, qui sommariamente presentata, viene ritenuta «utopistica». È da ritenersi tale non tanto per l’idealità del suo concetto di società bensì per il fatto che essa ignora quel profilo della vita politica, secondo il quale il potere, e cioè forme coatte di rapporto umano, non sono mai interamente superabili. Il rapporto tra cittadino e istituzioni politiche non si risolverà mai in un processo di identificazione, di formazione dell’identità, secondo il quale la società rappresenta le istanze profonde dell’individuo e l’individuo perviene a se stesso, riconoscendole.

Tale processo appartiene certo alla vita politica e ne costituisce un elemento fondamentale, ma non è il solo elemento né può esso stesso venire risolto in termini puramente ideali. Al processo di identificazione appartengono, infatti, dinamiche di potere e interessi materiali o economici. L’identificazione di una persona e di un gruppo sociale comprende interesse materiali e facilmente si afferma con metodi violenti.

Lo stato non deve riportare ad uno stato ideale di pace ma gestire i conflitti. Non può tuttavia assolvere a tale suo compito, se non è in grado di rappresentare non solo degli interessi ma un’ideale di giustizia.

Rousseau riconosce la realtà del potere, e più precisamente del potere economico legato alla proprietà, anche se poi l'analisi è estremamente astratta, fondata sulla riflessione psicologica più che sull'analisi delle forme storiche effettive del potere nella società in genere, e nelle sue connessioni con il potere politico in particolare. Il difetto del suo pensiero politico sta nella contrapposizione tra la situazione effettuale e l’ideale di una convivenza la cui unica forza è l'evidenza etica.

In tale contesto, la politica è ridotta all’etica; la riforma sociale fa affidamento sulla pedagogia e sulla predicazione dei nuovi pastori dell'umanità. Questo «idealismo» astratto è la debolezza non solo di Rousseau, ma - prima di lui - tendenzialmente di tutti i riformatori sociali del «secolo dei lumi».

94. Tra i molti aspetti della dottrina di Rousseau sui quali sussiste una divergenza tra gli interpreti, è questo: esistono diritti «inalienabili», i quali non entrano quindi nell'oggetto del contratto sociale (limitato sotto questo profilo agli usi della libertà che hanno una rilevanza per la comunità) oppure nulla sfugge a questo contratto? Nella prima eventualità, l'«uomo» (per esempio, quale membro di una famiglia, quale lavoratore) avrebbe un'esistenza privata indipendente dal contratto sociale: è questa l'interpretazione «liberale» del pensiero di Rousseau. Nella seconda eventualità (interpretazione «di sinistra», proposta da G. Lukàcs, E. Bloch, per esempio) sarebbe tutta l'esistenza del singolo («borghese») a morire nel contratto sociale e a rinascere come esistenza del «cittadino» o dell'«uomo». Le convinzioni esplicite di Rousseau sembrano avallare la prima interpretazione, mentre la logica incoativa del Contratto sociale parrebbe condurre alla seconda interpretazione; cf. per questo: J.L. ARANGUREN, Etica e politica, Morcelliana, Brescia 1966, pp. 123 ss.

77

Page 78: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2.4. Il liberalismo, ossia l'ottimismo dell'individuo circa l'armonia degli interessi

Se possiamo caratterizzare la linea di pensiero contrattualista, espressa da Rousseau, come «democratico-rivoluzionaria», la terza dev'essere detta «liberale» o «liberal-riformistica».

È la linea per la quale è più difficile trovare una teorizzazione rigorosa: Locke, che abbiamo indicato come maestro emblematico di tale linea, non è un pensatore molto rigoroso, e in più è possibile rilevare un mutamento di dottrina dall'una all'altra sua opera. Kant stesso - che pure è pensatore rigoroso - appare alquanto incoerente in materia socio-politica. E tuttavia la linea di pensiero in questione è indubbiamente la più rappresentativa del pensiero politico del XVIII secolo, e - più a fondo - degli ideali della borghesia, che allora assurgeva a classe egemone nella società.

Per caratterizzare questa terza concezione del contratto sociale, ci riferiremo inizialmente a Locke, il maestro indiscusso della tradizione liberale; e più precisamente al Locke dei Due trattati sul governo95, scritti in trasparente polemica nei confronti di Hobbes, nel 1680, quando ancora vigeva la restaurazione assolutistica degli Stewart96, seguita alla guerra civile. Poco dopo (1688) avvenne quella che è consuetudine chiamare la «rivoluzione liberale» inglese - e l'opera di Locke non fu presumibilmente senza influenza in proposito -. Questo è detto per sottolineare i legami concreti di Locke con l'idea liberale.

Lo «stato di natura» secondo Locke è fondamentalmente una condizione buona, ragionevole, che già conosce la legge: la «legge di natura», appunto, identica alla ragione stessa. Non è lo stato di guerra teorizzato da Hobbes, ma:

uno stato di perfetta libertà, nel regolare le proprie azioni e nel disporre dei propri averi e della propria persona come si crede opportuno, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere licenza o dipendere dalla volontà di qualsiasi uomo (II, 4).

Da notare l'espressione mediante la quale Locke caratterizza la libertà dell'uomo naturale: libertà di disporre del «proprio». La categoria della «proprietà » ha un uso estremamente esteso in Locke:

L'uomo [...] ha per natura il potere di conservare la sua proprietà, e cioè la propria vita, libertà e fortuna (II, 87; cf. Il, 123 nello stesso senso).

Il diritto di proprietà privata è il diritto «naturale» (pre-politico) per eccellenza, quello che offre ad ogni altro diritto dell'inviduo nei confronti della società lo schema concettuale fondamentale97. L'individuo è «proprietario» della sua persona, delle sue energie, del suo lavoro e - quindi - delle cose che con il lavoro fa sue. Il rapporto

95. Trad. it. di L. Pareyson, in Classici politici, UTET, Torino 1960. Come già abbiamo accennato, Locke ha conosciuto un'evoluzione di pensiero abbastanza complessa e non del tutto chiara; per un'informazione essenziale vedi G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna 1968, vol. Il, pp. 190-223; per lo stato della discussione critica vedi N. BOBBIO, Studi lockiani, in Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1965, pp. 75-128.96 . L’Inghilterra approdò allo Stato parlamentare attraverso un secolo, quasi, di lotte e di guerra civile tra le nuove classi borghesi e la nobiltà terriera, stretta attorno alla corna. Il primo coflitto vide come capo dei 'ribelli' Oliver Cromwell il quale scofisse Carlo I (Naseby, 1645) il quale fu poi decapitato nel 1949, anno di proclamazione del Commonwealth (libera repubblica). Lo stesso Cromwell dovette adottare misure molto rigide e restrittive per far fronte alla ancor forte opposizione al regime parlamentare; mantiene comunque il potere fino alla morte, avvenuta nel 1659. Dopo meno di un anno, Carlo II ritorna sul trono, grazie al comandante dell’esercito scozzese, generale Monk. Il successore, Giacomo II, odiato per le sue repressioni filo cattoliche, è costretto all’esilio e nel 1689 viene proclamata la dichiarazione dei diritti che sancisce il carattere parlamentare del governo inglese. 97. È stata coniata l'espressione «individualismo possessivo» per descrivere la teoria politica di Locke: cf. C. B. MACPHERSON, The political tbeory of possessiv individualism, recensito da N. Bobbio, op. cit., pp. 108-116.

78

Page 79: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

sociale si costituisce nella forma di uno scambio tra queste originarie proprietà individuali ed è soggetto alle norme («naturali») connesse al «diritto» delle proprietà stesse.

Il “contratto sociale” - che dev'essere distinto dai molti contratti dai quali è costituita la società «naturale» - interviene in un secondo momento, unicamente per dare sicurezza alla società naturale e ai diritti già riconosciuti in essa.

"Sicurezza" è un termine che appare con molta frequenza nel linguaggio di Locke e possiede fondamentalmente un significato giuridico. La figura centrale del suo pensiero è infatti quella del giudice.

La sicurezza è data dalla certezza del diritto; certezza relativa al poter giudicare, prima che al poter punire. Prima del patto sociale lo «stato di natura» è precario; lo è per mancanza di un diritto efficace e di giudici autorevoli. Nello stato di natura, qualora uno violi la norma naturale, si instaura ineluttabilmente lo stato di guerra e ciò accade «per mancanza di leggi positive e di giudici forniti di autorità a cui appellarsi, lo stato di guerra, una volta cominciato, continua» (II, 20).

Di qui la concezione di contratto sociale, e di stato civile conseguente, proprie di Locke:

Perché gli uomini sono per natura uguali e indipendenti, nessuno può essere sciolto da questa condizione, ed assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. L'unico modo in cui ciascuno si spoglia della sua libertà naturale e si addossa i vincoli della società civile, è l'accordarsi con altri uomini per congiungersi ed unirsi in una comunità al fine di vivere comodamente, sicuramente e pacificamente l'uno tra gli altri in un godimento sicuro delle loro proprietà e con una maggiore sicurezza nei riguardi di ogni estraneo (11,95).

Non accade dunque che la società civile rinasca dal nulla, che gli uomini si convertano totalmente e mutino le loro volontà individuali divenendo citoyens - come voleva Rousseau -; e neppure è accade che ogni diritto sia trasferito nelle mani dello stato e solo da esso derivi graziosamente al singolo - come voleva Hobbes.

Lo stato naturale sopravvive con sicurezza soltanto sotto la protezione del contratto sociale, la cui efficacia politica dipende essenzialmente dall’efficienza del diritto, delle leggi.

In tale contesto va collocato il tema della tolleranza e del rapporto tra confessioni religione e potere politico, tra coscienza privata e legge.

Le confessioni religiose fanno problema, dal punto di vista politico, perché non sono riconducibili a idee e comportamenti certi e stabili, e cioè determinabili non in forza della coscienza individuale (credenze) ma di elementi esteriormente apprezzabili. Sulle credenze di un individuo non si può fare affidamento in quanto generalmente variano e soprattutto presentano un miscuglio tra vera fede e interessi materiali o politici non dichiarati.

Non si può tuttavia pensare alla loro eliminazione né ad un futuro superamento di esse. La soluzione sta nella diversificazione dei piani della vita sociale: il piano della coscienza individuale ed il piano della vita civile. Il criterio per distinguere i due piani è la rilevanza pubblica o sociale delle idee e dei comportamenti.

Un’idea ed una pratica religiosa possono essere tollerati finchè non interferiscono con altre idee e pratiche («disturbare lo stato o recar danno al vicino» Lettera sulla tolleranza) e finchè non pretendono di imporsi come legge dello Stato e cioè con la forza. D’altra parte, osserva Locke, le stesse pretese delle religioni non

79

Page 80: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

sono veritiere, nel momento che si presentano come diritto della Chiesa in se stessa ma in realtà difendono i diritti di una Chiesa particolare.

La vera Chiesa non può non riconoscere come suo stesso principio la tolleranza, dal momento che Gesù stesso ha proclamato l’amore ai nemici ed ha usato come strumenti di diffusione della verità la persuasione e l’amore, non la coercizione e la forza. Dunque, la tolleranza deve essere tenuta in maggior conto dell’ortodossia; iniquità, malizia e fornicazione sono peccati peggiori di «qualsivoglia erronea obiezione di coscienza contro le decisioni dell’autorità ecclesiastica o distacco dalle pubbliche manifestazioni di culto, purchè vi si accompagni una vita incolpevole»98. La Chiesa dovrebbe «dedicarsi con non meno cura e zelo a sradicare quei vizi che ad estirpare le sètte».

Dato lo stato delle cose, per quanto riguarda la Chiesa, è necessario distinguere la competenza delle due autorità, civile e religiosa. Lo stato ha competenza sugli interessi civili, che sono «la vita, la libertà, l’integrità e immunità del corpo e il possesso degli oggetti, come terra, denaro, suppellettili ed altro» 99, e non deve entrare nelle cose religiose. La chiesa è associazione volontaria costituita «al fine di onorare pubblicamente Iddio nella forma ch’essi ritengono a Lui ben accetta ed efficace per la salvezza delle anime loro»100. Anch’essa, come ogni comunità, deve avere le proprie leggi; queste devono però scaturire dalla libera volontà dei fedeli che ad essa hanno dato vita.

Locke, tra parentesi, si dichiara contrario ad ogni forma di autorità nella Chiesa ed ad ogni regola dottrinale, che non sia quella già contenuta nelle Scritture.

La chiesa può scomunicare un suo membro ma deve però evitare ogni brutalità e deve evitare di ledere i diritti che quel suo membro possiede in quanto cittadino.

D’altra parte, nessun magistrato ha il diritto di entrare in scelte di natura religiosa, appartenenti a questa o quest’altra chiesa, nemmeno nel caso di comportamenti idolatri; se infatti l’idolatria è un peccato, non per questo deve essere punita dal magistrato. Il magistrato non ha nemmeno diritto di imporre cose che appaiono sì neutrali – né cattive né buone - ma non necessarie all’utilità comune.

È importante notare questo: sono i rapporti economici a realizzare l'idea di stato naturale, in quanto precedenti alle strutture politiche e da queste protetti contro ogni pretesa ideologica di natura religiosa. Questa è appunto l'anima liberale - nel senso economico-politico oggi divenuto corrente - del pensiero lockiano; è questo l'aspetto per cui la dottrina di Locke s'incontra con quella dei «fisiocrati», secondo i quali «società naturale» è appunto la società economica contrapposta alla società politica; e si incontra ancora con gli economisti classici inglesi, che pure trattarono le leggi del mondo economico come «leggi naturali».

Il rilievo accordato agli aspetti materiali non conferisce però un significato materialistico al pensiero di Locke. Essi costituiscono l’elemento su cui è possibile costruire una giurisdizione certa e cioè applicabile sempre e dovunque, di fronte alla quale tutti hanno gli stessi diritti.

Se si riflette, non si può non vedere come l'ottimismo individualistico di Locke implichi un postulato, esplicito poi nella dottrina degli economisti (A. Smith in

98 . Lettera sulla tolleranza, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 5.99 . Ibid., p. 9.100 . Ibid., p. 15.

80

Page 81: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

particolare), esplicito a tratti anche nella dottrina dei filosofi (Kant, come accenneremo): il postulato dell'«armonia prestabilita», dell'automatica realizzazione del massimo bene per tutti a partire dalla ricerca individuale del massimo tornaconto, a condizione, certo, che tale ricerca sia rispettosa del diritto altrui. Tale armonia prestabilita si fonda sull’esistenza di un diritto di proprietà, riconosciuto naturalmente da tutti e sul quale farebbe leva il diritto legale o dello Stato. Esistenza la cui postulazione smaschera un idealismo ingenuo presente anche in Locke.

Non è poi prevista l'ipotesi che l'uomo abbia necessità della comunità non solo per proteggere i diritti individuali (vita, incolumità, autodeterminazione, proprietà), ma anche per emanciparsi da condizionamenti o schiavitù generate dallo stesso sistema sociale. La vita collettiva non è, in altri termini, un meccanismo da mettere a punto e, una volta raggiunto l’ottimo, c’è stabilità. La libertà deve essere continuamente riguadagnata e difesa, assieme a strutturazione nuove degli apparati economici e politici.

Quando un'ipotesi del genere venga sollevata, i «liberali» rispondono postulando l'armonia miracolosa degli egoismi individuali (vedi la «mano invisibile» di Smith).

3. Hegel: la società civile e lo stato

3.1. Al di là della visione individualistico-liberale

La concezione individualistico-liberale dei rapporti individuo-società portava in sé la distinzione tra stato e società, intesi rispettivamente come realtà convenzionale, l’uno, e naturale, l’altra. Il limite di detta concezione stava proprio nel naturalismo dell’idea di società, della socialità anteriore ad ogni normazione politica. Pensare che esista una socialità naturale anteriore a quella civile significa postulare l’individuo quale elemento primo della realtà globalmente intesa; significa pensare che "prima" della società esistono gli individui e che essa deriva dal loro spontaneo associarsi.

La visione qui riassunta ha le sue radici nella tradizione teologica e precisamente «nella riflessione cristiana sulla legge naturale»101 la quale conobbe una rinascita «nel quadro dei grandi dibattiti europei sulla costituzione della sovranità nello stato» ad opera soprattutto di Ugo Grozio il quale ne operò una razionalizzazione e cioè rifondò l’idea di legge naturale sulla ragione piuttosto che sulla Rivelazione102.

Risulta ignorato il fatto che la stessa coscienza individuale è plasmata dalla tradizione collettiva, dalla consuetudine, dalle realizzazioni civili via via caratteristiche di una determinata società, dalle tecniche produttive, dai sistemi di insediamento, e da tutte le altre realtà integranti nel loro complesso la civiltà di un popolo. Più precisamente risulta ignorata "l’effettualità" del rapporto formativo è cioè il fatto che

101 . SELIGMAN A., L’idea di società civile, Milano Garzanti 1993, p. 7; 102 . «La legge di natura è dettata dalla ragione giusta, per la quale un atto, secondo che sia o non sia conforme alla natura razionale, ha in sé una caratteristica di fondamento morale o di necessità morale; di conseguenza, questo atto sarà probito o prescritto dal creatore della natura, cioè da Dio» De juri belli ac pacis Libro I, cap. 1, sex. X, p. 1; cit. in Seligman, o.c. p. 31

81

Page 82: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

l’incidenza del comportamento dell’adulto sulla coscienza del minore risponde a dinamiche per lo più spontanee, non idealmente volute e programmate.

L’azione educativa più incisiva, in altre parole, è spesso quella che avviene nei momenti in cui il genitore non si propone alcun compito educativo. Da tale circostanza deriva la parzialità di un approccio subito precettistico alla questione educativa. A formare la coscienza del minore sono le forme obiettive di vita familiare più che gli 'ideali' predicati o imposti. A tal riguardo, le condotte genitoriali ripropongono in famiglia costumi propri delle tradizioni culturali a cui appartengono.

Merito decisivo della riflessione hegeliana è quello di avere ripreso e superato la rigidezza della distinzione illuminista tra stato e società, riconoscendo alle due un rapporto dinamico ed un reciproco costituirsi.

Di Hegel è l'espressione divenuta ormai tecnica e di generale impiego, di «società civile»; con essa non è più designato uno stato in sé autonomo rispetto a quello politico bensì un momento della vita sociale globalmente intesa e che per sua natura rimanda al momento politico.

L’espressione «società civile» indica il complesso strutturato dei rapporti umani in un determinato momento storico, così come si presenta a prescindere dalla sua strutturazione politica, e tuttavia già tesa a quella strutturazione. Vediamo di approfondire tale concetto.

La riflessione di Hegel sulla società deve essere inquadrata nel più generale programma della sua riflessione filosofica, che è quello di superare le scissioni caratteristiche della cultura occidentale moderna, tipicamente della cultura «cartesiana» e illuministica: la scissione religiosa tra uomo e Dio, la scissione metafisica tra soggetto e oggetto, la scissione antropologica tra spirito e natura, la scissione sociale tra individuo e società. Lo strumento costante impiegato per il superamento di tali scissioni è quello della dialettica: e cioè, quello consistente nel sottrarre gli estremi divisi delle singole scissioni al loro isolamento statico, per riscoprirne il rapporto reciproco e quindi la dinamica messa in atto da tale rapporto.

Per intendere le leggi del divenire storico della società civile interessano in misura preminente due dialettiche, che sono oggetto dell'analisi hegeliana: quella realizzata dal lavoro che supera la contrapposizione dualistica tra natura e spirito, e quella realizzata dall'esperienza sociale, che supera la contrapposizione dualistica io-altri, individuo-società.

3.2. La dialettica del lavoro

Il pensiero di Hegel va apprezzato anzitutto per la genialità sul piano metodologico. Per primo egli comprende che le grandi questioni metafisiche, qual è quella della libertà, si decidono sul piano delle dinamiche concrete del vivere prima e più che nelle grandi affermazioni di principio. È questa l’intuizione che lo porta a inaugurare uno stile di riflessione che egli stesso definisce "fenomenologica", la cui peculiarità consiste nel concepire l’universale come l’esito di una dialettica tra due poli opposti. L’uomo è certamente spirito “per natura” e tuttavia per esserlo realmente deve attuare la sua natura spirituale "negando" la parte di sé che gli è contraria. Lo "spirito" sussite nell’attiva negazione della natura e solo in questo modo dialettico – e cioè attivo, dinamico – può realmente affermarsi per quello che è.

82

Page 83: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

In quest’ottica genialmente intuita, Hegel si interessa di realtà fino ad allora del tutto trascurate dalla filosofia, quali il lavoro. Capisce che dello "spirito" si può parlare a procedere dal concreto agire dell’uomo, anzitutto dall’agire che vede l’uomo impegnato nella trasformazione della natura.

Vediamo in che modo Hegel svolge tale fenomenologia del lavoro.

L'uomo è per un verso «natura» e per altro verso «spirito». Natura per Hegel vuol dire particolarità, materialità, fissità, finitezza. Che l'uomo sia natura significa che è sottomesso a bisogni materiali, fissi, che lo pongono sullo stesso piano delle forme naturali di vita.

Tuttavia, nell’uomo l’esperienza del bisogno non si risolve nella pura e semplice soddisfazione materiale. Essa assume forme diversificate e già nelle forme mediante le quali gli uomini soddisfano i propri bisogni vitali appare la superiorità dell'uomo rispetto all'animale; appare il suo essere universale o spirituale.

L'uomo infatti sa "negare" – e cioè avvertire il bisogno come differente da sé, dal proprio io e in forza di ciò può anche sospendere o reprimere il bisogno - l'immediatezza del bisogno, invece di lasciarsi condizionare immediatamente da questo, anche se poi il bisogno si ripropone e egli è di fatto costretto a vivere in una perpetua schiavitù nei confronti del bisogno.

Le forme umane della soddisfazione del bisogno corrispondono al "lavoro". Lavorare, infatti, significa per Hegel produrre lo strumento o l'utensile atto a procurarsi in modo più agevole ed efficace la soddisfazione del bisogno. La produzione di uno strumento implica una capacità di procrastinare la soddisfazione del bisogno e realizzare con esso – con il bisogno e con le cose atte a soddisfarlo – un rapporto che trascende la particolarità di esso. L’invenzione dell'utensile in tanto è possibile in quanto l'oggetto con cui l'uomo entra in rapporto viene universalizzato.

Si esce cioè dal corto circuito tra la fame che ora mi morde e la mela e, invece di mangiare immediatamente la mela, penso a come coltivarla. Allora la mia fame diventa la fame, il mio bisogno diventa il bisogno in generale, questa mela diventa la mela, con le sue caratteristiche universali di essere cibo e di poter essere ottenuta in questo o in quest'altro modo103. Il problema di soddisfare la fame si pone così in termini universali.

Lo strumento è l’oggetto la cui peculiarità consiste nell’attitudine ad offrire lo stesso servizio, un numero indeterminato di volte (la mela mangiata e basta e la mela coltivata). Tale attitudine rappresenta l'universalità del concetto, incarnata in una situazione particolare. Essa costituisce la negazione della particolarità e cioè della natura in quanto oggetto di consumo immediato; la natura non differenziata dal soggetto.

Certo, anche la creazione dello strumento è mossa - dal punto di vista della psicologia individuale - dal bisogno, ma la creazione dello strumento obiettivamente sporge rispetto all'ordine della realtà biologica per cui è possibile affermare che lavorando l'uomo produce qualcosa in più e di diverso rispetto a ciò per cui il lavoro è nato:

103. Per Hegel, la creazione del linguaggio stesso è indissolubilmente legata all'atto di dominio dell'uomo sulla natura, è «l'atto attraverso il quale Adamo per la prima volta ha posto le basi del suo dominio sugli animali, e ha dato loro un nome, vale a dire li ha annientati in quanto esseri esistenti e li ha trasformati in qualche cosa di ideale (Jenenser Realphilosophie).

83

Page 84: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dall'azione degli uomini risultano cose diverse da quelle che essi si aspettavano o credevano di raggiungere: essi realizzano i loro interessi, ma con ciò si realizza qualche cosa di nascosto, di cui la loro coscienza non si rendeva conto e che non era nelle lóro intenzioni, (La Ragione nella storia).

L’agire umano è così fatto che in esso appare qualcosa di più di quanto intenzionalmente perseguito dall’agente ed in tal senso “fa storia”. Ogni atto umano è in tal senso fecondo ed insieme ambiguo; fecondo perché genera per se stesso qualcosa che il suo stesso ideatore non aveva pensato; ambiguo perché il qualcosa in più rimane impensato e quindi oscuro. È universale, e quindi «spirituale», ma non coscientemente inteso come tale. Lo è oggettivamente e cioè il suo significato spirituale sussiste nell’opera a prescindere dal riconoscimento del soggetto; l’opera può sussistere come reificata ed estranea di fronte a lui.

Il processo relativo al lavoro è fondamentale per intendere ogni forma di «alienazione» dell'uomo104, cioè ogni possibilità che l'uomo diventi schiavo della sua opera; schiavo di quello spirito oggettivo che è incarnato nelle opere della civiltà, che è radicalmente umano e che pure può sussistere autonomamente come «cosa» al di fuori della coscienza soggettiva dell'uomo.

Paradigmatica sotto questo profilo è l'analisi che Hegel fa della «macchina»: in Germania siamo agli inizi del processo di industrializzazione e la macchina si accinge a sostituire sempre più l'utensile artigiano. Della macchina Hegel fa innanzi tutto un'apologia quasi religiosa: essa è «l'inquietudine del soggettivo, del concetto, posta al di fuori del soggetto» (Sistema della moralità); non è soltanto materia negata nella sua particolarità e fissità, ma è insieme attivamente negatrice della materialità; essa è l'oggettivazione dell'attività spiritualizzante dell'uomo, è il lavoro dell'uomo che sussiste al di fuori di lui.

Insieme però la macchina è qualche cosa che, sussistendo come natura al di fuori dell'uomo, asservisce l'uomo a sé, gli impone compiti precisi che ignorano la soggettività creatrice dell'uomo stesso. Nelle Lezioni di Jena (1803-1804) Hegel descrive i mali dell'industrializzazione, del lavoro operaio, in termini che anticipano sorprendentemente quelli di Marx:

Il lavoro diventa ogni volta più assolutamente morto... L'abilità degli individui si fa ogni volta infinitamente più limitata, e la coscienza degli operai si abbassa fino alla più estrema ottusità; la connessione tra le singole specie di lavoro e tutta l'infinita massa dei bisogni diventa del tutto inafferrabile, e una cieca dipendenza fa sì che una lontana operazione impedisca improvvisamente il lavoro di tutta una classe di uomini, che in tal modo non può più soddisfare i suoi bisogni, e rende questo lavoro inutile e superfluo.

Come si vede, già l'analisi della dialettica uomo-natura diventa rilevante per intendere la realtà sociale. L'emergenza inconsapevole dell'opera umana rispetto al movente individuale - il «bisogno» - che l'ha prodotta si manifesta anche nel fatto che la connessione tra lavoro individuale e bisogno individuale diventa inafferrabile. L'opera dell'uomo crea delle interdipendenze che si presentano all'uomo stesso come fatali e incomprensibili. Occorre che l'uomo si riappropri della sua opera, impari a rapportarsi ad essa non più come soggetto biologico del bisogno individuale, ma come artefice della umanizzazione universale della natura. Il postulato liberale

104. Il termine «alienazione» - nella cultura successiva più noto attraverso l'uso che ne fecero Feuerbach e Marx - è introdotto in filosofia (mutuandolo dalla economia) da Hegel; egli lo usa per descrivere il processo di oggettivazione e di successiva appropriazione mediante il quale lo Spirito giunge alla coscienza di sé: cf. la breve sintesi di A. CORNU, L'idée d'aliénation cbez Hegel, Feuerbacb et Marx, in "La pensée" 2 (1948) 65-75.

84

Page 85: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dell'armonia prestabilita degli egoismi individuali è messo, incoativamente almeno, in crisi da questa analisi della macchina105

3.3. La dialettica individuo-società

All'analisi della dialettica individuo-società Hegel dedica per altro una considerazione distinta, seppure in qualche misura raccordata alla dialettica dell'analisi economica106. Per comprendere nella sua completezza tale analisi della dialettica sociale, occorre prendere le mosse dalla coppia servo-padrone.

Il rapporto spirito-natura avviene nel contesto del rapporto spirito-spirito; l’autocoscienza, infatti, è solo «in quanto è qualcosa di riconosciuto»107.

Questo secondo rapporto presenta fin dall’inizio una forma conflittuale; assume i tratti di una «lotta per la vita e per la morte». Ciò è dovuto al fatto che l’io non può affermarsi che nella negazione della propria esistenza determinata e cioè della propria vita; solo rischiando la vita può affermare la propria libertà. Tale negazione riguarda non solo la propria vita, ma anche la vita dell’altro, per cui il «dar prova di sè» può avvenire solamente «mediante la lotta per la vita e per la morte» 108. Tuttavia, è solo grazie a tale lotta che l’individuo prende coscienza di sé:

L’individuo che non ha messo a rischio la propria vita potrà pure essere riconosciuto come persona, ma non avrà raggiunto la verità di questo riconscimento, non verrà cioè riconosciuto come un’autocoscienza autonoma.109

La coscienza che esiste per sé in quanto ha affermato la sua libertà o infinità, ponendo a repentaglio la vita, è il signore; al contrario, lo schiavo è la coscienza ancora legata alla sua condizione naturale. Il signore è “per sé”, il servo è ancora “per altro”, per la vita in cui è naturalmente posto.

Succede poi qualcosa che può ribaltare le posizioni. Il padrone utilizza il servo come fosse una cosa e si trova in tal modo nella condizione di smarrire il rapporto lavorativo con la natura ed insieme il rapporto con un’altra autocoscienza. Il servo invece mantiene il rapporto lavorativo con la natura e continua ad avere nel padrone che comanda il polo dialettico della sua coscienza. Il servo si trova nella condizione di emanciparsi dalla sua coscienza servile.

La dialettica qui descritta va collocata nella diagnosi che Hegel fa della società borghese110, alla luce della storia politico-ideale dell'occidente, per esplicitarne quindi la valenza critica ai confronti di quella stessa forma di società.

105. L'aporetica posta a proposito della macchina nelle Lezioni di Jena non sarà poi ripresa nelle opere sistematiche dell'ultimo Hegel. Lo spirito del «sistema», l'opzione dogmatica in favore dell'ineluttabile identità tra reale e razionale, condurrà Hegel a scegliere sempre più faziosamente tra i fatti, e a trascurare quelli che sfuggono alla sua sintesi razional-escatologica.106. I rapporti economici costituiscono il primo e fondamentale strato della società civile, definita come «sistema dei bisogni», cf. Filosofia del diritto, §§ 189-208.107 . Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, p. 275108 . Ibid. p. 281109 . Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, p. 281110. Il termine bürgerlicbe corrisponde, insieme, agli italiani «borghese» e «civile»; Hegel usa però volentieri anche il termine francese bourgeois, in un senso che decisamente si avvicina al nostro «borghese». Bourgeois comunque diventa termine tecnico, per indicare d'individuo mosso dai suoi interessi privati, e il riferimento ad una epoca e ad una classe sociale diventano piuttosto tenui.

85

Page 86: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

All'inizio della sua evoluzione spirituale Hegel aveva condiviso gli ideali illuministi e l'entusiasmo incondizionato per la Rivoluzione Francese. Aveva condiviso l'ammirazione «mitica» per l'antica Polis greca: in essa - egli dice - l'etico e il politico coincidevano, l'opera del singolo trovava nell'opera comune il suo collocamento, il suo onore ed il suo significato, non sussisteva tensione tra individuo e società:

L'idea della patria, dello stato, era per il cittadino antico la realtà invisibile, il bene supremo per il quale lavorava, era lo scopo finale del mondo e lo scopo finale del suo mondo, (Scritti teologici giovanili).

In questa prospettiva, il cristianesimo viene considerato negativamente; esso è sinonimo di miseria, è detto da Hegel la «miseria tedesca». Lo è in quanto principio di una scissione tra il singolo e lo Stato. La reificazione di Dio sortisce infatti quest’effetto, dal momento che un Dio «reificato» (il termine che Hegel usa è la «positività» di Dio: ossia, un Dio oggettivamente posto al di fuori dell'uomo e quindi ineluttabilmente in alternativa rispetto al «bene supremo» che era prima fatto coincidere con la società umana) si offre all’immediato consumo religioso e svuota di ogni valore 'soteriologico' lo Stato.

Successivamente111 l'apprezzamento del cristianesimo e del suo significato nella storia della società, diventa meno illuministico e negativo. Il cristianesimo è apprezzato quale portatore dei valori della coscienza soggettiva, della libertà, della «personalità» dell'uomo. L'emergere di tale coscienza soggettiva produce in un primo tempo una tensione tra singolo e società e non poteva essere altrimenti; in ciò viene ravvisato il rilievo culturale del cristianesimo nel contesto della cultura occidentale:

Intere parti del mondo... non hanno mai posseduto questa idea (=libertà) e neppure oggi la posseggono; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele e similmente gli Stoici non l'ebbero; essi hanno saputo al contrario semplicemente che l'uomo è realmente libero attraverso la nascita, la forza del carattere, la cultura o la filosofia. Quest'idea è venuta al mondo ad opera del cristianesimo, per cui l'individuo in quanto tale ha un valore infinito, essendo oggetto e scopo dell'amore di Dio, e quindi destinato ad avere un rapporto assoluto con Dio in quanto spirito ed a possedere in se stesso questo spirito, (Enciclopedia, 5 482).

La Polis greca viene rivista e cessa di essere l'ideale politico. Essa rappresenta, al contrario, uno stadio ancora immaturo del rapporto tra soggetto e oggetto, tra libertà e realtà, tra individuo e società. Immatura perché inconsapevole della mediazione sociale di quel rapporto.

La scoperta di tale mediazione è contemporanea a quella della libertà individuale, la quale - divenuta consapevole di se stessa – patisce l’estraneità della società e delle sue leggi e rivendica nei confronti di essa i propri diritti.

In tal modo è nato l'ideale individualistico, che pone la coscienza dei «diritti dell'uomo» a fondamento del patto sociale; è nata la Rivoluzione Francese, frutto maturo e un po' tardivo dello spirito cristiano. I meriti di tale Rivoluzione e dello spirito borghese in generale sono quelli di erigere la libertà del volere razionale ad artefice supremo della società. Certo, la società - non solo l'apparato giuridico-statuale, ma il complesso delle strutture economico-sociali - è sempre stata opera dell'uomo. S'è

111. La prima concezione del cristianesimo è quella rappresentata dagli Scritti teologici giovanili (anteriori al 1800; pubblicati per la prima volta da H. Nohl, Túbingen 1907); mentre la concezione che introduciamo ora nel testo appare prima nella Fenomenologia dello Spirito (1807, trad. it. E. De Negri, Firenze, 1933-36 e 1963), ed è poi sostanzialmente conservata nella sintesi sistematica della Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817, trad. it. di B. Croce, Bari 1907, riedizione del 1967).

86

Page 87: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

trattato tuttavia, come nel caso dello strumento e della macchina, di un'opera per lo più inconsapevole, estraniata rispetto a chi l'ha compiuta.

Nel momento in cui il «borghese» divenne consapevole dei suoi diritti, avvertì i rapporti sociali come opachi ed oppressivi nei confronti di tali diritti; pretese allora di far rinascere la società dal nulla, rifondandola in forza del contratto tra liberi cittadini. In tale prospettiva, lo Stato si ridusse a strumento di compromesso tra gli individui, con il compito di garantire la composizione dei loro rispettivi interessi. Nella visione politica borghese non c'è propriamente una volontà comune al fondamento dello stato, ma soltanto una coincidenza estrinseca ed esteriore delle volontà individuali.

Hegel è convinto che occorra superare la concezione liberale dello Stato; bisogna che il singolo, senza rinunciare alla coscienza di sé come «infinita libertà», sostituisca alla «rappresentazione» di sé come bourgeois il «concetto» di sé come citoyen. «Rappresentazione» è detta la prima, perché corrisponde all'autocoscienza ancora immatura dell'uomo mosso dal bisogno, dell'uomo che è ancora soltanto "natura"; è invece detto «concetto» il secondo, appunto perché corrisponde all'autocoscienza dell'uomo come spirito, e quindi come entità universale o «persona». Soltanto mediante tale conversione dal particolare all’universale, la società borghese (o civile) si trascenderà nello Stato, espressione suprema dello Spirito, sintesi di Spirito soggettivo ed oggettivo.

Società civile e Stato non costituiscono soltanto due momenti storici successivi, nel pensiero di Hegel ma anche e soprattutto due momenti permanenti della dialettica sociale112. Questa permanenza della società civile corrisponde alla struttura generale del pensiero hegeliano, secondo il quale tesi e antitesi non vengono tolte, ma innalzate (Aufhebung) nella sintesi. Lo Stato, dunque, non si afferma sulla rovina e l'annientamento della società civile, ma la innalza in una sintesi superiore. Lo Stato sottrae la società civile alla sua affermazione formalistica dei diritti soggettivi, riconciliando la coscienza soggettiva con l’opera oggettiva. In tal senso lo Stato realizza l'istanza dell'eticità, ossia la riconciliazione suprema della soggettività universale dell'uomo con l'oggettivazione sociale della sua opera.

Come già abbiamo accennato, la società civile113 è per Hegel una realtà pluristratificata. A suo fondamento stanno gli individui con i loro bisogni e le loro attività volte al soddisfacimento degli stessi. L'autonomia che ciascuno (bourgeois) rivendica in tale attività è protetta - ed è questo il secondo livello della società civile -

112. Interessano a questo proposito soprattutto vari paragrafi degli Scritti di filosofia del diritto (1802-1803, trad. it. di A. Negri, Bari 1962); cf. K. LOEWITH, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1949, pp. 389-396 «Hegel: società borghese e Stato assoluto»).113. L'espressione «società civile» ha assunto diversi significati nella storia della filosofia politica: li riassume bene N. BOBBIO, Gramsci e la società civile, in Gramsci e la cultura contemporanea, Ed. Riuniti, Roma 1969, I vol., pp. 75-100. Per la tradizione giusnaturalistica laica «società civile» equivaleva a società politica, mentre la società pre-politica era indicata come «stato naturale» ed era materialmente identificata con il sistema di rapporti economici; per Hegel «società civile» è la realtà tendenzialmente identica a quella che prima era chiamata «stato naturale», con la differenza che vengano inclusi in essa il diritto privato, le funzioni di polizia proprie dello stato liberale; per Marx «società civile» è il sistema dei rapporti sociali (rapporti di produzione) legati allo sviluppo delle forze produttive: dunque ancora - tendenzialrnente - lo «stato naturale» degli economisti classici, con esclusione (a differenza da Hegel) delle sovrastrutture giuridiche e politiche di ogni genere. Gramsci muta l'uso di Marx, e identifica la «società civile» con una realtà che è sovrastrutturale, dal punto di vista marxiano: per lui infatti «società civile» è l'insieme delle istituzioni socio-culturali mediante le quali la classe dominante esercita la sua egemonia occulta; mentre «società politica» è l'insieme dei rapporti di dominio diretto.

87

Page 88: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dalla convenzione sociale di tipo liberale: dal diritto privato e dalle funzioni di polizia e di amministrazione dello stato. Non solo, ma è protetta anche dalle convenzioni minori («corporazioni») intermedie tra l'individuo e lo Stato.

Questa creazione complessa della libertà Individuale si oggettiva in un sistema sociale, che non è inteso né conosciuto immediatamente da nessuno dei protagonisti della società civile. Per tale ragione lo Stato, nel momento in cui realizza il superamento del formalismo soggettivo, sfugge al dominio consapevole dei soggetti. Indicando nello Stato il superamento etico della società civile, Hegel intende appunto proporre la riappropriazione da parte dell'uomo universale o citoyen, di ciò che l'uomo privato non può controllare.

3.4. Alcune valutazioni sintetiche

L'elevazione dello stato a soggetto assoluto della storia, e quindi il riassunto di tutta l'etica nel principio della conversione del bourgeois in citoyen, sono strettamente connessi alla più generale concezione hegeliana dell'Assoluto come Risultato, come termine del processo storico. Sono connessi dunque alla figura di messianismo secolarizzato che è propria della filosofia hegeliana.

Il modello ideale del bourgeois, ossia dell'uomo che agisce spinto dal bisogno individuale, si adegua in linea di massima al comportamento dell'individuo anche ai nostri giorni. Sicché il modello hegeliano di società civile ci aiuta a capire anche l’attuale articolazione, e spesso tensione, tra società e Stato, tra coscienza individuale e istituzioni politiche.

Dobbiamo però rilevare un difetto della visione hegeliana, derivante dal fatto che la società civile, pure risultante dall'agire individuale e individualisticamente orientato, non può essere intesa come accumulo atomistico e disordinato di azioni dissociate, alla cui frammentazione pone rimedio la statalizzazione. La vita sociale degli uomini si produce già in forma strutturata e le strutture in questione sono una realtà di fatto, preterintenzionale, non corrispondente ad alcun proposito deliberato degli uomini (pensiamo all’attività economica).

Gli uomini producono effettualmente nel loro agire collettivo più di quanto essi consapevolmente si propongono, come Hegel insegna, ma non c’è una separazione così netta tra l’immediatezza del sociale e l’universalità del politico.

Una precisazione di tal genere comporta un approccio diverso alla fattualità sociale; un rapporto sotteso da una intenzione ermeneutica prima che di trascendimento universalistico.

Da tale approccio consegue una diversa impostazione del rapporto tra realtà effettuale e instanze etiche universali. L’istanza della giustizia, ad esempio, non si impone dall’alto alla società civile ma trova prefigurazione già nei rapporti immediati, nel sentire comune, nei costumi di un popolo. Lo Stato non è depositario dell’idea di giustizia ma ha il compito di riconoscere e giudicare le espressioni presenti nella società civile e praticamente mutarle in conformità al giudizio su di esse formulato; in questi termini può essere formulato il compito etico-politico corrispondente alla conversione del bourgeois in citoyen.

In realtà, non si tratta mai di una «conversione» totale, e ciò per un duplice ordine di motivi. Innanzi tutto anche il bourgeois, e cioè il cittadino operante all'interno della società civile per il perseguimento dei propri interessi individuali, conosce già norme di giustizia - tipicamente quelle espresse dal diritto privato - che

88

Page 89: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

esprimono la sua coscienza politica, il suo riconoscimento di un bene comune preminente rispetto agli interessi individuali. E d'altra parte la coscienza politica, la conoscenza e il perseguimento pratico collettivo del bene comune della società civile, non si sostituisce mai di fatto e neppure deve sostituirsi in linea di diritto al perseguimento degli interessi personali da parte del singolo o da parte di raggruppamenti sociali parziali, non identici alla società civile nel suo complesso.

La «conversione» che deve essere perseguita del bourgeois in citoyen appare sotto tale profilo semplicemente come l'inveramento di quella coscienza politica che - seppure in maniera astratta e inefficace (cf. le formule astratte del diritto privato) - da sempre caratterizza la società civile.

Tale inveramento può prodursi soltanto a condizione che la società politica assuma il controllo teorico e pratico della società civile e del suo effettivo strutturarsi. I problema che così insorgono sono per un verso quelli della conoscenza dei determinismi che di fatto reggono lo svolgersi dei fatti sociali, e per altro verso quelli del potere capace di imporsi a tali determinismi e correggerli nel senso del «giusto» (potere legittimo).

Senza diventare il soggetto assoluto della storia, lo Stato - o più genericamente il potere politico - deve assumere nell'epoca moderna la responsabilità ultima nei confronti dello svolgimento complessivo delle strutture del vivere civile. L'apporto positivo e ormai imprescindibile che dobbiamo accogliere dalla riflessione hegeliana è quello che sollecita nel senso del passaggio da una concezione idealizzante e statica dello stato ideale, ad una concezione che vede l'istituzione politica in rapporto storico, diveniente e determinato con la società civile di cui è espressione.

4. Marx: la societa' civile come sistema di produzione

Il contributo decisivo offerto dalla riflessione di Marx alla conoscenza della realtà sociale consiste essenzialmente nello sviluppo sistematico delle virtualità già implicite nella definizione che Hegel diede della società civile come «sistema dei bisogni». In un testo famoso, che merita una lettura completa, Marx riassume la parabola del suo pensiero; in esso egli descrive così la prima sintési della sua ricerca:

La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici ,quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del sec. XVIII, sotto il termine di « società civile »; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica » (Prefazione a Per la critica dell'economia politica).

Agli occhi stessi di Marx dunque la comprensione della società come fondamentalmente istituita dai «rapporti materiali», la comprensione di come le altre istituzioni sociali si risolvono nella struttura economica, appare come il risultato più cospicuo della sua ricerca. Sotto questo profilo esiste un'obiettiva e profonda

89

Page 90: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dipendenza di Marx rispetto ad Hegel, nonostante i suoi rapporti con il maestro appaiano da molte sue affermazioni alquanto polemici114.

Ma insieme agli sviluppi ricchissimi, vengono alla luce nella riflessione di Marx anche le contraddizioni insuperabili di una concezione che riduce la società a «sistema dei bisogni».

Vediamo distintamente gli uni e le altre.

4.1. Il rinnovamento della scienza dell'economia politica

Accenneremo poi ai presupposti concettuali «liberali» dell'economia politica classica. Hegel conobbe le prime espressioni di questa scienza, e ne utilizzò i contributi soprattutto negli scritti del periodo di Jena (1801-1807)115. Le sue analisi della dialettica uomo-natura e della dialettica servo-padrone, come in genere la qualificazione di «società civile» data a ciò che gli economisti chiamarono «società naturale», costituiscono implicitamente una confutazione dei dogmi dell'economia classica; ma Hegel non trattò esplicitamente l'argomento.

Viceversa, la polemica nei confronti dell'economia politica costituisce una delle matrici fondamentali del pensiero marxiano116. Tale scienza, afferma Marx, rileva i meccanismi operanti nei rapporti economici e li cristallizza come rapporti «naturali». Ossia, si rassegna di fronte alle leggi empiriche dell'economia, quasi esse fossero leggi indisponibili allo stesso titolo delle leggi biologiche.

A questa rassegnazione si oppone da un lato l'indignazione etica di Marx di fronte ai mali insopportabili che il sistema capitalistico stava producendo in Inghilterra; d'altro lato la stessa riflessione hegeliana la quale aveva presentato la società civile come prodotto della libertà umana e non come fatto ineluttabile.

Il carattere obiettivo, «reificato», a prima vista sottratto alla decisione dell'uomo, delle leggi dell'economia non costituisce un argomento sufficiente per affermare che esse non sono un prodotto dell'opera dell'uomo. È infatti legge costante della storia che l'opera dell'uomo, una volta oggettivata, sfugga alla disponibilità immediata dell'uomo stesso e si imponga a lui come estranea. Ma questa non-disponibilità non è definitiva né ineluttabile; al contrario essa impone agli uomini il compito di riappropriarsi della loro opera. Per far ciò occorre comprendere la connessione tra l'opera oggettiva e la libertà. Il compito di chiarire tale connessione, già chiaramente delineato nei Manoscritti del 1844, verrà esaurientemente svolto nell'opera economico-politica più matura, che è il Capitale.

La tesi essenziale sostenta da Marx è quella che afferma un legame necessario tra «forze produttive» e «rapporti di produzione»; ossia, tra le modalità tecniche del lavoro umano e i rapporti sociali che in esso si generano, o «rapporti di

114. I rapporti tra Hegel e Marx sono materia molto dibattuta nella letteratura di questo secolo. Inizialmente la storiografia seguì le indicazioni esplicite di Marx, ed espose una visione dei rapporti come polemici. Dopo la pubblicazione degli scritti giovanili di Marx (anni '30), ci fu chi sostenne la tesi di un Marx hegeliano o addirittura di un Hegel pre-marxista: cfr. in quest'ultimo senso soprattutto G. LUKACS, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948), Torino, 1960.115. L'osservazione è di G. LUKACS, Op. Cit.; cf. la presentazione dell'opera di Lukàcs in N. BOBBIO, Studi hegeliani, in Da Hobbes a Marx, op. cit., p. 204.116. Le opere nelle quali è sviluppata la critica dell'economia politica sono i Manoscritti economico-politici del 1844 (trad. it. N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1968), Introduzione a «Per la critica dell'economia» (1857, mai pubblicato da Marx) e Per la critica dell'economia politica (1859) (i due ultimi scritti sono pubblicati in trad. it. di E. Cantimori, sotto il titolo del secondo, Ed. Riuniti, Roma, 1969).

90

Page 91: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

produzione». L’essere degli uomini e «il processo reale della loro vita» sono interamente compresi dentro il binomio qui delineato e cioè le forze produttive ed i «rapporti di produzione»; nel lavoro gli uomini non si procurano solo il pane ma avviene «la produzione sociale della loro esistenza».

Ciò che ruota attorno al lavoro costituisce la «infrastruttura» della realtà umana, alla quale si sovrappone («sovrastruttura») ogni altra realtà spirituale. Vi si aggiunge come immagine riflessa. È questo l'aspetto che definisce il «materialismo storico» di Marx.

A quale tipo di sviluppo è soggetta l’infrastruttura? Le «forze produttive» si sviluppano a seguito del progresso scientifico e tecnologico; il mutare delle forze produttive non può non indurre proporzionali mutamenti nei rapporti di produzione:

Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze si erano per l'innanzi mosse. Questi rapporti, da forze di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura... Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano sviluppate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. (Prefazione a Per la critica dell'economia politica).

Il Capitale si propone appunto di portare alla luce tale divenire storico; vuole indicare i mutamenti avvenuti nelle forze produttive sviluppatesi all'interno della società capitalistica e i conflitti con i vecchi rapporti di produzione.

Non ci interessa a questo punto entrare nel merito della nuova economia politica elaborata da Marx; ci interessa soltanto mettere in evidenza la struttura concettuale nuova rispetto agli economisti classici: da una scienza statica delle leggi economiche si è passati ad una scienza storica del processo economico-sociale; e il modello di sviluppo adottato è quello «dialettica»117, ossia il modello che individua nella contraddizione, e quindi nella lotta, la via attraverso la quale evolve il sistema economico-sociale.

4.2. La critica alle ideologie

Come già si è accennato, per Marx l’esistenza umana è in radice frutto delle forze che ruotano attorno all’attività produttiva.

Vediamo come Marx concepisce gli altri fattori, definiti fenomeni sovrastrutturali:

L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in modo generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza (Prefazione a Per la critica dell'economia politica).

Nel complesso dei fattori sovrastrutturali, Marx distingue con una certa chiarezza due livelli, quello delle istituzioni giuridico-politiche e quello della coscienza

117. Com'è noto, mentre lo stesso Marx qualificò come «materialistico, e quindi scientifico» (Capitale) il suo metodo di analisi, il termine «dialettica» fu introdotto soltanto da Engels, unicamente a concezioni non del tutto marxiane circa i rapporti uomo-natura: cf. le pezze giustificativi di queste affermazioni in P. D. DOGNIN, Introduzione a Marx, Città Nuova, Roma, 1972, pp. 144-205; e la discussione critica di N. BOBBIO, La dialettica in Marx, in op. cit., pp. 239-264.

91

Page 92: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

individuale, al quale tra l'altro appartengono le convinzioni religiose. L'uno e l'altro svolgono una funzione comune, quella di legittimare la struttura economica e sociale esistente e cioè il potere costituito.

All'origine di questa tesi fondamentale sta la critica alla filosofia hegeliana del diritto la quale costituisce la matrice fondamentale del suo pensiero. In realtà, più che alla filosofia di Hegel118, la critica è rivolta alla filosofia illuministica e alle dichiarazioni dei diritti dell'uomo ed ai grandi principi egalitari che hanno costellato la storia della rivoluzione borghese. Affermazioni come le seguenti:

la comunità politica viene abbassata dagli emancipatori politici [evidentemente i teorici delle libertà borghesi] addirittura a mero mezzo per la conservazione di questi cosiddetti diritti dell'uomo, pertanto il citoyen viene considerato come servo de l'homme egoista... L'uomo come bourgeois viene preso come l'uomo vero e proprio (La questione ebraica)

valgono sostanzialmente se riferite alla teoria del contratto sociale di Locke o di Kant, o più in generale all'ideologia liberal-borghese predominante; meriterebbero invece molte precisazioni se riferite ad Hegel.

Naturalmente, Marx ha buon gioco nel mostrare come la condizione di citoyen, d'uomo libero, sia una pura astrazione per l'operaio, una realtà puramente immaginaria e convenzionale, senza rilevanza concreta nella sua vita. Viceversa, ciò che conta per lui è il lavoro quotidiano ed in esso si annidano le sue schiavitù:

il lavoro è esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l'operaio si sente presso di sé solo fuori del lavoro; e si sente fúori di sé nel lavoro (Manoscritti economico-filosofici del 1844).

Marx ha ancora buon gioco nel mostrare a chi convenga questo sdoppiamento tra l'uomo reale e l'astratto uomo politico:

L'uomo nella comunità politica e di eguali autorizza se stesso a comportarsi nella società civile come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene un trastullo di forze estranee (La questione ebraica).

Conviene evidentemente a chi queste «forze estranee» controlla, a chi rapportandosi agli altri come «privato» può renderli mezzo per sé e non divenire mezzo per loro.

Le conclusioni sono drastiche, diventano una tesi generale a proposito dei rapporti tra interesse economico e affermazione ideale (giuridica, etica, religiosa):

Quegli stessi uomini che stabiliscono i rapporti sociali in conformità della loro produttività materiale, producono parimenti i princìpi, le idee, le categorie in conformità dei loro rapporti sociali. Onde, queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto le relazioni che esprimono. Esse sono prodotti storici e transitori (Miseria della filosofia).

Marx insegna ad esaminare le espressioni ideali da dietro, alle loro spalle; insegna a non fermarsi a ciò che esse affermano, bensì ad interrogarsi sul ruolo che esse svolgono a beneficio delle classi sociali che di esse si fanno portavoce.

È merito innegabile di Marx avere posto chiaramente la necessità di una critica di tal genere, da lui definita critica «ideologica», ed avere offerto un primo decisivo contributo a questa nuova scienza.

Ma la critica ideologica che Marx fa della filosofia liberale e del diritto privato sotto il profilo dell'interesse non assolve al compito di illuminare la funzione delle espressioni ideali nel contesto della vita sociale globalmente intesa. Tale funzione non può essere ridotta ad epifenomeno dei rapporti di potere. Le espressioni ideali

118. Che per altro non è univoca e conosce momenti diversi; Marx interpreta il pensiero di Hegel alla luce dell'atteggiamento politico reazionario dell'ultimo Hegel, delle opere sistematiche.

92

Page 93: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

mostrano una loro peculiare funzione che va riconosciuta accanto agli altri elementi "strutturali" della vita sociale; non sono perciò riconducibili agli interessi di potere delle classi dominanti. La critica alle ideologia non può risolversi in una «ermeneutica del sospetto»119.

La riduzione pregiudiziale di ogni affermazione ideale ad affermazione di un interesse abolisce, in primo luogo, la possibilità stessa che categorie come «giusto», «ingiusto» abbiano un senso e quindi anche lo spazio di una critica sociale; viene a mancare, infatti, il punto di vista da cui esercitare tale critica, essendo la ragione ridotta a semplice strumento di razionalizzazione del potere.

Secondariamente, la riduzione pregiudiziale di ogni espressione ideale all'interesse ch'essa vorrebbe legittimare non rende ragione neppure del processo di legittimazione o di «giustificazione» di cui è imputata. Non si comprenderebbe perché l'interesse debba paludarsi sotto la maschera (sovrastruttura) del «giusto», qualora tale categoria non avesse una sua consistenza, una sua ineluttabile evidenza, previa rispetto ad ogni interesse. L'interesse può – con gli strumenti del potere, e quindi del linguaggio e della cultura - tentare di appropriarsi dell'attributo del «giusto»; ma non può «produrre» la categoria del «giusto». Mentre appunto questo soltanto è il rapporto che Marx istituisce tra rapporti materiali di produzione e affermazioni ideali: egli usa i termini di «produrre», di «determinare» per descrivere il rapporto tra struttura e sovrastruttura.

4.3. La Rivoluzione: un compito etico o un processo ineluttabile?

Abbiamo affermato di sfuggita che l'indignazione etica di fronte ai mali della proletarizzazione delle masse fu una delle matrici fondamentali della riflessione marxiana.

Di fatto, la dimensione etica - anche se non esplicitamente la terminologia etica - è presente chiaramente nel primo pensiero di Marx, quello degli anni 1843-1844, in cui per la prima volta egli giunge a proclamare il programma rivoluzionario comunista. Se allora Marx giudica l'uomo «alienato», «asservito», «estraniato», se nota con indignazione che «ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale»120, ciò in tanto è possibile in quanto Marx riconosce una dignità e un onore dell'uomo; o - detto in altri termini - un dover-essere dell'uomo.

Tale concezione non è soltanto intuitiva e irriflessa; Marx è condotto dalla logica stessa della sua argomentazione a precisarla. Egli ha conosciuto la vergogna dell'uomo innanzi tutto nell'abiezione della condizione operaia: la condizione di colui che produce un lavoro servile, puramente materiale, fatto per essere venduto in cambio del denaro da spendere per soddisfare i bisogni biologici. Il lavoro dell'uomo non può essere questo, se l'uomo - pur essendo natura e biologia - si distingue dall'animale proprio per il fatto di lavorare. Già Hegel, come abbiamo visto, aveva

119. L'espressione è di P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 1970; egli accomuna sotto questa denominazione la scienza marxiana della cultura concepita come sovrastruttura dell'economia e la scienza freudiana della cultura come sovrastruttura delle pulsioni inconscie; nell'un caso e nell'altro è preterito il problema veritativo, il problema posto dal significato intenzionalmente inteso, il quale sopporta soltanto il giudizio di vero o di falso, e non si lascia «ridurre» a fattori non intenzionali.120. L'espressione è presa dai Manoscritti del '44 (ed. cit., p. 75).

93

Page 94: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

svolto un'analisi del lavoro come attività spirituale, come esercizio della libertà dal bisogno: spiritualità e libertà consisterebbero secondo lui nel carattere «universale» del rapporto stabilito con la natura (particolare) mediante il lavoro. Marx riprende fedelmente questa analisi:

Certamènte anche l'animale produce... Solo che l'animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé e per i suoi nati; produce in modo unilaterale [ossia, produce in modo tale che il circuito della produzione si chiude tra il suo bisogno individuale e il bene materiale che lo soddisfa], mentre l'uomo produce in modo universale [ossia, rapportando l'essere «generico» o universale dell'oggetto lavorato alla natura pure «generica» del bisogno umano]; ... produce anche libero dal bisogno fisico immediato, e produce veramente solo quando è libero da esso; l'animale riproduce soltanto se stesso, mentre l'uomo 'riprcìdúce l'intera natura (Manoscritti economico-filosofici del '44).

Sulla traccia di tale definizione di lavoro, Marx trova facile l'appropriazione della definizione feuerbachiana di uomo come «essenza», ossia come essere capace di rapportarsi a se stesso come «essenza», anziché come individuo. Ne risulta la nota definizione marxiana di uomo come Gattungswesen («essere generico»):

L'uomo è un essere generico non solo perché della specie [Gattung, per rispettare l'omonimia tedesca, dovremmo tradurre "del genere"], tanto della propria quanto di quella delle altre cose, fa teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche perché si rapporta a se stesso come alla specie presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un essere universale e perciò libero » (Ibidem, sottolineatura mia).

«E perciò libero»: questo è il punto essenziale, che preme a Marx. La libertà del lavoro - ossia, l'autonomia, la coincidenza tra opera voluta e opera imposta dall'inserzione sociale - è l'esigenza che muove tutta la sua riflessione.

Si potrebbe notare che già qui è presente in nuce il materialismo di Marx: la capacità universalizzante della ragione tecnica (la ragione che crea lo strumento!) è posta tutta al servizio del bisogno biologico; bisogno che non diventa più nobile per il fatto di diventare bisogno dell'uomo in generale, invece che bisogno soltanto mio.

Certo, non neghiamo che anche il lavoro acquista una dignità etica, sotto il semplice profilo della sua attitudine a liberare l'uomo dal condizionamento biologico, e ciò appunto mediante l'attività universalizzante e tecnica della ragione; ma in tanto esso acquista tale dignità, in quanto sia possibile assegnare alla libertà dell'uomo una determinazione positiva, che vada al di là della semplice liberazione dalla necessità biologica.

Si può dunque discutere e dubitare del fondamento che Marx stabilisce per il conseguente imperativo rivoluzionario, di «rovesciare tutti i rapporti in cui l'uomo è degradato, assoggettato, spregevole». Ma quello che a noi qui interessava rilevare era la necessità concretamente riconosciuta da Marx di porre affermazioni «ideali», irriducibili agli interessi in conflitto, a fondamento dell'imperativo rivoluzionario.

Successivamente Marx è condotto, dalla sua stessa opzione «materialistica», a escludere almeno intenzionalmente questi residui «idealistici» dalla sua sintesi. Il concetto astratto e «ideale» di uomo come Gattungswesen è costituito con il concetto empirico di «ensemble dei rapporti sociali»121; parallelamente, la concezione metafisica di lavoro, derivata da Hegel, diventa quella puramente biologica di «produzione riproduzione della vita immediata», ossia come Marx stesso esplicitamente parafrasa - «della vita materiale»; l'immediatezza cui si allude è quella degli istinti, dei bisogni biologici122. Rimane certo l'istanza collettivista; ma non più fondata sull'affermazione «ideale» della genericità dell'essenza-uomo, ricondotta

121. «L'essere (Wesen) umano non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà esso è l'ensemble dei rapporti sociali », VI Tesi su Feuerbacb.

94

Page 95: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

piuttosto al naturwüchsiges Gemeinwesen, ossia ad un istinto scritto nell'essere biologico dell'uomo.

Il Capitale, l'opera matura di Marx assumerà ormai la fisionomia di una «fisica sociale»; l'aspetto etico e valutativo non vi sarà certo del tutto espunto (cf. la definizione della futura società comunista, come «regno della libertà»), ma rimarrà ormai appoggiato soltanto alla fede postulata ed arbitraria, che i rapporti della società borghese siano l'ultima realizzazione di una società antagonistica. Siamo qui all'aspetto più ingenuo, goffo e caduco della dottrina marxìana.

Tuttavia, va riconosciuto un fatto fondamentale e di grande significato per la vicenda culturale occidentale e cioè la concomitanza metodo di analisi sociale ed etica. L’assunzione di un punto di vista empirico non ha solo una portata sul piano epistemologico, ma anche sul piano etico. Permette cioè di suscitare una nuova coscienza civile su aspetti della condizione umana, prima passati inosservati.

5. Le scienze socialiI brevi cenni alla storia della riflessione teologica e filosofica sulla realtà

sociale ci hanno permesso di rilevare alcuni fatti. Anzitutto, tale riflessione si concentra, fino all'Illuminismo, sulle istituzioni

giuridico-politiche nelle quali si esprime la realtà sociale. In secondo luogo, tende a fondare eticamente l'ordine sociale a procedere dall'antropologia, da una concezione generale dell'uomo e della sua condizione universale.

Dopo la critica illuministica si afferma sempre più nettamente la distinzione tra società e Stato ed il pensiero politico si incentra sul rapporto tra le due realtà.

L'idealismo e tutta la filosofia successiva studiano la configurazione storica della società, procedendo dal presupposto di tale distinzione; studiano la struttura concreta della società, al di là delle forme giuridiche secondo le quali si rappresenta.

La consapevolezza nuova la possiamo così enucleare. La società - ossia il complesso di strutture sovrapersonali che di fatto modellano i rapporti umani - è realtà che si differenzia dalle istituzioni politiche e culturale; essa rappresenta l'immediatezza del vivere umano, lo spontaneo suo strutturarsi in forme e dinamiche. In secondo luogo, la società non è una realtà sovratemporale bensì una realtà che si costituisce nel tempo, come l'esito di una molteplicità di fattori non immediatamente evidenti; è dunque una realtà storica e non invece un ordine metafisico delle cose avente subito e di per se stesso valore etica. Tale nuova consapevolezza apre necessariamente il fatto sociale alla competenza di forme nuove di sapere, diverse dalla speculazione metafisica caratteristica della filosofia e teologia antiche ma diversa anche dalla filosofia moderna, sia illuminista che idealista.

Il marxismo è pensiero ancora ideologizzato ma, nonostante ciò, apre la strada verso un approccio materiale o empirico ai fatti sociali. Un approccio cioè ormai avvertito della rilevanza che le condizioni materiali dell'esistenza umano hanno sul prodursi dei fatti della storia. Un approccio che presto sarà definito "scientifico",

122. Il mutamento di questi due concetti è ricostruito da C. LUPORINI e indicato come il nocciolo della (pretesa) «svolta epistemologica» intervenuta nel pensiero di Marx a partire dal 1845; vedi l'introduzione all'ed, it. di L'ideologia tedesca, Ed. Riuniti, Roma, 1967; o anche l'articolo Problemi filosofici ed epistemologici, in Marx vivo, Mondadori, Milano, 1970, I vol., pp. 286-299.

95

Page 96: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dove la qualità corrispondente al roboante termine "scienza" è pensata non tanto per riferimento alla "materialità" – un'interpretazione di tale genere sarà formulata non prima della seconda metà del '900 – quanto piuttosto alla necessità. L'oggettività su cui si basa il nuovo approccio ai fatti sociali poggia sulla convinzione che tali fatti siano retti da una necessità in qualche modo analoga a quella operanti sui fatti naturali. Le scienze sociali si pensano, infatti, come analoghe a quelle naturali.

In prima approssimazione possiamo dire che le nuove forme di sapere sono quelle della storia e delle scienze empiriche della società. Dico in prima approssimazione, perché definire esattamente queste due forme del sapere sociale, e quindi precisarne la distinzione, non è affatto cosa agevole. Come sempre accade le scienze nuove nascono di fatto senza consapevolezza precisa dei propri limiti 123; quindi rischiano facilmente di diventare pseudo-filosofiche, di pretendere per se stesse il ruolo di scienze universali.

L'interesse storico per la società ha inizio con lo storicismo romantico, soprattutto di lingua tedesca (Herder); l'interesse empirico per la società o - se si accetta questa sinonimìa - la sociologia iniziò con il positivismo di Compte («scienza positiva della società»).

Le due prospettive intesero, all'inizio, nel progetto dei rispettivi fondatori, valere come prospettive assolute e quindi alternative al sapere filosofico e non come apporti parziali e complementari. Questa loro pretesa si accompagnava all'altra: quella di essere l'unica istanza competente per la determinazione di un'etica sociale - sempre che si conservasse qualche significato alla dimensione etica dell'uomo.

Ma nonostante la prevaricazione metodologica, è indubbio che le conoscenze concrete accumulate da questi indirizzi di ricerca possono e debbono essere acquisite come utili per il nostro compito, di giungere all'elaborazione di un'etica sociale.

La pietra d'inciampo di tale impostazione "positivista" non tarderà a mostrarsi sul cammino delle nuove scienze; essa è costituita dalla irriducibilità dei comportamenti umani ad un qualsiasi determinismo, al determinismo dei bisogni, in primis. Gli uomini agiscono non solo spinti dai bisogni ma anche in conformità ad un ideale da essi stessi liberamente assunto. La pietra d'inciampo è la libertà e la sua manifestazione prima, costituita dalla coscienza morale.

La seconda generazione di sociologi è ben avvertita della rilevanza della morale nei comportamenti umani e dunque anche nei fatti sociali. Essi tentano allora l'operazione di ripensare il tipo di necessità insita nei comportamenti umani. Ne indeboliscono il concetto, rispetto alla necessità propria delle scienze naturali, affermando che si tratta di necessità non di natura fisica (i bisogni) ma adattiva. L'individuo risulta sottoposta ad una necessità quando l'obbedienza alla legge morale del proprio gruppo di appartenenza, è condizione per la sua stessa permanenza nel gruppo.

Consideriamo ora più analiticamente i passaggi che hanno portato da un iniziale positivismo sociologico ad una visione più accorta, anche se mai soddisfacente, del profilo morale dei fatti sociali.

123. Cf. per esempio quanto già s'è detto della critica ideologica di Marx, che può essere considerata la prima sociologia del sapere, ma che ebbe la pretesa di essere addirittura la scienza del sapere.

96

Page 97: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

5.1. Rilevanza etica dell'argomento

Anzitutto sono necessarie alcune considerazioni introduttive sulle ragioni per le quali si giustifica l'attenzione alle nuove scienze sociali nel contesto della riflessione teologica.

Si tratta di un complesso di materie che il moralista non può ignorare e a proposito delle quali occorre innanzitutto che egli si faccia qualche idea precisa, a prescindere dalla possibilità o meno di una loro immediata utilizzazione costruttiva nello svolgimento materiale di un'etica sociale124.

Non è a caso che lo stesso Paolo VI nell'Octogesima Adveniens (n. 40) abbia dedicato un intero paragrafo alle scienze umane e al «sospetto» che esse esercitano nei confronti della libertà umana, ponendo in luce sempre nuovi condizionamenti sociali. Paolo VI afferma che le scienze umane hanno un compito determinante nei confronti della morale sociale:

Potranno anche aiutare la morale sociale cristiana, che vedrà restringersi certamente il suo campo, allorché si tratta di proporre certi modelli sociali, mentre la sua funzione di critica e di superamento diventerà più forte mostrando il carattere relativo dei comportamenti e dei valori che tale società presentava come definitivi e inerenti alla natura stessa dell'uomo.

Il senso complessivo del testo - che pure meriterebbe una spiegazione più analitica - è chiaro: le scienze sociali, che mettono in rilievo i molteplici condizionamenti sociali dell'uomo, impediscono il procedimento razionalistico e deduttivo consueto nella morale cattolica di una volta; ma d'altra parte, riconducendo alla società e quindi all'uomo stesso condizionamenti che in altri tempi avevano potuto apparire «naturali», ampliano lo spazio delle responsabilità su cui deve esprimersi il giudizio etico.

Lo schema storiografico divulgato dalla cultura illuministica attribuisce ai letterati del Rinascimento il merito di aver risvegliato l'occidente dal sonno dogmatico, e di aver inaugurato l'interesse per l'investigazione sperimentale, nel campo delle cose umane così come nel campo dei fenomeni naturali (cfr. il Discours préliminaire alla Encyclopédie del D'ALAMBERT). Lo schema storiografico in questione, pure non poco semplificato o irrigidito dalla faziosa polemica anti-medioevale dell'illuminismo, corrisponde nei tratti essenziali alla consapevolezza della cultura rinascimentale e alla direttiva verità storica.

Sorge appunto nel Rinascimento una storiografia non più concepita come teologia (resoconto delle gesta Dei corrispondente a schemi religiosi preconcetti), ma come osservazione analitica e interpretazione dell'evidenza empirica (cfr. F. Guicciardini, J. Bodin, N. Macchiavelli). Nascono inoltre discipline più particolari, che articolano l'interesse sperimentale per la realtà umana: la filologia, la geografia, l'etnografia, l'anatomia. Ma si tratta ancora soltanto di un atteggiamento intellettuale, di una curiosità inquieta dello spirito, non invece della consapevole codificazione di nuove ed autonome scienze sperimentali dell'uomo e della sua esistenza storico-sociale.

124. S'è parlato - con un po' di esagerazione - di una funzione ancillare della sociologia nei confronti della teologia, analoga a quella svolta in altri tempi dalla filosofia. È vero che si produce - a proposito dei rapporti tra teologia e sociologia - una dialetticá simile a quella generale tra fede e ragione; ma la chiarificazione essenziale di questa dialettica si produce, anche oggi, a livello di sapere filosofico - non sociologico - come vedremo al termine di questa lezione.

97

Page 98: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Le discipline che abbiamo nominate continueranno a condurre un'esistenza distinta, relativamente autonoma, fino ai nostri giorni mescolando, spesso inconsapevolmente, metodi e categorie di carattere sperimentale a presupposti ideologici generali che fondazione sperimentale non possono avere. In ogni caso non è a quelle discipline che ordinariamente ci si riferisce con la dizione «scienze sociali»125.

Una frattura paragonabile a quella che segna il passaggio dalla cosmologia aristotelica all'astronomia galileiana si produce - nel campo della realtà umana e sociale - soltanto nell'epoca illuministica. E si produce fondamentalmente in rapporto alla nascita della «sociologia». Di essa innanzitutto qui ci interesseremo.

Ancora oggi non manca chi considera (ma forse più prudentemente dovremmo dire: non manca chi nominalmente definisce) la sociologia come la scienza sociale più comprensiva, di cui ogni altra scienza umana sarebbe solo branchia speciale.

Così ad esempio G. GURVITCH definisce:

La sociologia è la scienza della libertà umana e di tutti gli ostacoli che questa incontra e supera parzialmente. Le altre scienze umane (si chiamino esse economia, diritto, scienze dei costumi, antropologia, geografia umana, demografia, ecc.) non si distinguono dalla sociologia che per la limitazione della direzione del loro sforzo e per la scelta corrispondente dell'ostacolo da superare; (la definizione è citata in G. GUSDORF, Introduzione alle scienze umane, Il Mulino, Bologna 1972, p. 798.

Contemporaneamente alla nascita della sociologia ad opera soprattutto degli «ideologi» (e cioè: pretesi scienziati delle idee) francesi, prendeva corpo in area anglosassone una scienza sociale destinata a sviluppi più lineari e sicuri: l'economia politica.

Ad essa già si è accennato, in rapporto alla critica che ne fece Marx. Come scienza regionale e semplicemente descrittiva - delle «leggi» del mercato - l'economia politica pone meno gravi problemi di fondazione rispetto a quelli sollevati dal progetto di una scienza generale della società ricalcata sul modello delle scienze della natura.

Il modello della ricerca ipotetico-deduttiva, proprio di queste ultime scienze, pare, infatti, adattarsi abbastanza bene alla ricerca delle leggi di mercato: si tratta, infatti, di «leggi» direttive, che nulla hanno immediatamente a che fare con le intenzioni soggettive degli uomini. Ma di molti aspetti della vita sociale è impossibile intendere la logica, senza rivolgersi al fattore «coscienza», «intenzionalità», che qualifica essenzialmente il comportamento umano e lo differenzia dal fatto di natura. In ogni caso dedicheremo un cenno all'economia politica, in connessione alla figura «positivistica» della sociologia

5.2. La nascita della « sociologia » nel clima del positivismo

Il termine «sociologia» fu coniato da A. COMTE nel suo Corso di filosofia positiva126. Anche autori come Saint-Simon e Proudhon - poco prima di Comte - tentarono di definire una scienza autonoma dei fatti sociali. Già nel secolo

125. Sulla storia delle scienze umane in genere, intese quali scienze che hanno come oggetto l'uomo e come metodo quello sperimentale si può utilmente consultare G. GUSDORF, Introduzione alle scienze umane, Il Mulino, Bologna 1977.

98

Page 99: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

precedente (XVIII) in pieno clima illuminista era iniziato il tentativo di individuare le leggi «scientifiche» del mutamento della società e della cultura ( cf. Montesquieu, Cordoncet, Hobbes e Locke). Ora, ciò che accumuna tutti questi pensatori, e che in Comte trova l'espressione più rappresentativa, è l'apologia incondizionata della «scienza» in polemica con la teologia e la metafisica tradizionali. La scienza in questione - quella del terzo stadio di sviluppo dell'umanità, secondo Comte - era concretamente rappresentata dalla «scienza positiva», quella che possedeva nelle scienze naturali e nel loro prodigioso progresso cumulativo la propria carta di credito.

Fu appunto il modello scientifico-sperimentale che costituì la forma ideale della nuova scienza della società teorizzata da Comte come scienza suprema; le leggi di tale scienza suprema sono le più difficili, perché dipendono da quelle astronomiche, fisiche, chimiche, biologiche: ma sono anche le più importanti. La conoscenza di queste leggi avrebbe dovuto occupare nella nuova era il posto egemone, prima occupato dalla religione, poi dalla filosofia. La conoscenza di queste leggi avrebbe costituito il principio del progresso dell'umanità nell'ordine appena sopra indicato.

Di fatto, la teoria sociologica che Comte svolse a realizzazione del nuovo programma scientifico - e che non interessa qui richiamare - ha come suo fondamento, oltre all'osservazione empirica, molti principi e pregiudizi. A noi comunque interessa solamente segnalare l'ideale scientifico che egli propone per la sociologia, e non la sua concreta sociologia.

La dipendenza della scienza della società dalle scienze naturali - la biologia nella fattispecie - è evidente anche nel secondo grande pioniere della «sociologia del sistema», ossia in H. SPENCER. Egli tentò di rendere ragione dei fatti sociali, assumendo l'organismo biologico quale modello. Esso si costituisce gradualmente, passando dal semplice aggregato di individui (cellule) ad una differenziazione di funzioni (tessuti) e quindi ad una interdipendenza organica degli stessi (organismo vivente).

Il pensiero di Spencer giunge a maturazione pochi anni prima che appaia il Saggio sulle origini delle speci (1859) di C. H. DARWIN, ma il contesto culturale è lo stesso. Dopo Darwin si svilupperà un filone di studiosi della società che si ispireranno al darwinismo, detti appunto, «darwinisti sociali», i quali sono anche continuatori dell'organicismo di Spencer.

Se le scienze sperimentali, con l'entusiasmante testimonianza dei loro progressi e quindi della loro «oggettività»127 forniscono il modello epistemologico fondamentale alla sociologia incipiente, essa tuttavia non può prescindere dal ricorso a considerazioni di natura psicologica, a considerazioni cioè che vertono sull'aspetto cosciente dell'agire umano che soggiace ai fatti sociali, sulle motivazioni di tale agire. La logica stessa delle scienze naturali (biologiche) induce a questo: le leggi degli aggregati fisici o biologici sono ricondotte alle leggi elementari delle entità individuali

126. Penso di dover osare, di qui in poi, l'uso di questo nuovo termine esattamente equivalente alla mia espressione di physique sociale, già introdotta in precedenza, allo scopo di designare con un unico termine questa parte complementare della filosofia naturale relativa allo studio delle leggi fondamentali che sono proprio dei fenomeni sociali; Cours de pbilosopbie positive, Paris, 1830-42, t. IV (1839), p. 252 nota.127. La filosofia al contrario - è l'obiezione tradizionale che il positivismo le rivolge - non ha sviluppo, ma soltanto contrapposizione sterile di teorie che rimettono sempre in discussione tutto dalle fondamenta: dunque, non sono «oggettive», ma legate a opzioni del soggetto.

99

Page 100: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

che compongono l'aggregato. L'atomo o la cellula dell'aggregato sociale è costituito dall'individuo e la sua psicologia deve, almeno incoativamente, fornire la spiegazione di tutti i fatti sociali.

Ora, la psicologia soggiacente alla riflessione di questi autori è quella individualista e utilitaristica tipica dell'illuminismo. Il modello dell'azione individuale è quello dell'adeguazione razionale dei mezzi al fine, il quale fa coincidere la ragionevolezza con l'efficienza, la ragione con la ragione strumentale. In ciò, l'ideale illuministico coincide con quello scientifico.

Tuttavia, il fine di cui si postula l'esistenza, non è mai fatto oggetto di determinazione scientifica, ma è tacitamente identificato con i bisogni che presiedono all'agire economico dei cittadini. La razionalità strumentale procede da una visione che tacitamente conferisce il primato ai bisogni materiali e dunque al fatto economico; conferisce il primato sul piano delle motivazioni pratiche dell'individuo.

Abbiamo rilevato nel capitolo precedente come una solidarietà tra pensiero politico e primato all'economico fosse già presente nell'ideologia liberale, in forza della quale le leggi sociali venivano fatte scaturire dalla composizione meccanicistica delle azioni individuali. La giustificazione della loro necessità si fondava su una necessità di ordine pratico (la composizione degli interessi) piuttosto che su un'istanza di ordine ontologico (come in Hegel).

Anche nella nuova sociologia, il presupposto materialista o positivista impedisce di porre attenzione a quel tipo di condizionamento sociale che avviene attraverso la coscienza, attraverso la introiezione inconsapevole dei modelli di comportamento oggettivamente iscritti nelle istituzioni sociali e vissuti come normativi dalla coscienza del singolo. Manca una riflessione su questo fenomeno e sarà la sua evidenza empirica a determinare la crisi del «sistema» positivistico in autori che pure partono da premesse epistemologiche positivistiche come Marshall, Pareto, Durkheim.

5.3. L'economia politica

Le considerazioni svolte per l'incipiente sociologia positivista valgono in particolare per l'economia politica, la quale - nella sua prima edizione classica rappresentata da A. SMITH, D. RICARDO, J. S. MILL128 - costituisce il tipo di scienza sociale che più si accosta, quanto a presupposti epistemologici, alla sociologia positivistica.

Essi proclamano, infatti, le leggi «naturali» dell'economia, in sintonia con l'idea liberale dell'armonia prestabilita. Successivamente ci si rese conto che tali leggi si potevano migliorare, ma ciò non valse a produrre un mutamento radicale dell'atteggiamento metodologico. L'economia politica rimase la scienza naturalistica che studia i rapporti economici della società alla stessa stregua dei fatti naturali.

La nozione di «bene» e «male» economico è surrettiziamente derivata dalla logica

128. Quest'ultimo autore - insieme economista e sociologo, primo divulgatore delle idee di Comte in Inghilterra - costituisce il punto d'incontro caratteristico tra l'economia politica inglese e la sociologia francese. Per una prima elementare introduzione alla storia dell'economia politica si può vedere R. GILL, Il pensiero economico moderno, Il Mulino, Bologna, 1970 con bibliografia sistematica concepita per il lettore italiano.

100

Page 101: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

5.4. La crisi del positivismo

Verso la fine del XIX secolo la tradizione positivista della sociologia conobbe un'evoluzione decisiva, descritta dagli storiografi come passaggio dalla «sociologia del sistema» ad una sociologia più discreta, più consapevole dei propri limiti, attenta a problemi analitici più che alla spiegazione universale del fenomeno sociale.

Seguendo l'indicazione di T. PARSONS129, indichiamo come rappresentanti emblematici di tale evoluzione tre autori: A. MARSHALL, W. PARETO e E. DURKHEIM.

Soprattutto i primi due, degli autori citati, partono dalla prospettiva dell'economia classica, e quindi dall'impostazione positivistica di questa scienza, ma poi ne superano i confini, sollecitati dalle sue insufficienze intrinseche. C'è un aspetto dei fatti sociali, dei quali la scienza, positivisticamente intesa, non riesce a rendere conto.

MARSHALL130 ritiene improponibile una teoria sociale che si basi su un modello di azione individuale alla cui base ci siano solamente i bisogni biologici. Nell'attività economica stessa agiscono fattori diverso da quello biologico, quali la qualità del prodotto nella quale si rispecchiano il carattere e le doti personali del produttore; tali fattori sono essenziali per la massimizzazione della soddisfazione individuale. Marshall perviene alla convinzione che esistano in ogni società, valori non spiegabili in termini di bisogno, Concretamente egli pensa ai valori tradizionalmente qualificati come morali.

Tuttavia, il ragionamento di Marshall rimane ad uno stadio soltanto germinale rispetto all'impianto positivistico da lui stesso assunto; è comunque posta l'esigenza di superare il modello utilitaristico dell'economia politica. L'economia diventa soltanto una scienza parziale, subalterna ad una più generale scienza della società, che per altro Marshall non elabora.

Anche W. PARETO131 parte dal modello di comportamento utilitaristico («azione logica», nella sua terminologia), scientificamente determinabile. Anch'egli individua tuttavia, elementi «non-logici» dell'azione; si tratta di elementi teleologici della coscienza del soggetto agente (aspettative, desideri, progetti e quindi sentimenti) che sfuggono alla determinazione scientifica. Egli ne svolge la classificazione empirica, sulla quale noi non sostiamo.

Oltre ad elementi non-logici presenti nelle azioni, egli riconosce l'esistenza di azioni umane che nel loro complesso non corrispondono al modello mezzi-fine (per esempio le azioni «rituali»), le quali non possono essere studiate con un modello strumentale ma ricorrendo alla relazione simbolica, che è relazione ambigua e mai univocamente determinata.

Il conflitto tra impostazione positivista e fatti sociali emerge con maggior chiarezza in E. DURKHEIM, il quale non perviene tuttavia, neppure lui,

129. La struttura dell'azione sociale, Il Mulino, Bologna 1962, Parte II.130. L'opera principale di A. Marshall, che è anche la più rilevante sotto il profilo del suo pensiero sociologico, è: Princìpi di economia, UTET, Torino, 1950.131. L'opera principale di Pareto, alla quale si riferiscono gli accenni del testo, è il Trattato di sociologia generale, Barbera, Firenze 1916, 3 vol.

101

Page 102: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

all'elaborazione di una diversa metodologia. Già nei suoi primi studi132 Durkheim è consapevole dell'esistenza di aspetti «oggettivi» dell'azione umana, non riconducibili alla natura biologica e neppure alla volontà razionale dell'uomo. Egli cerca una spiegazione nei «fatti sociali», concepiti tuttavia come "cose" e cioè nella loro bruta materialità. Sotto tale profilo, essi risultano «esteriori» rispetto all'intenzionalità soggettiva, e «coercitivi».

Fin qui la caratterizzazione dei fatti sociali è soltanto negativa, dettata dalla preoccupazione di distinguere la realtà in questione sia dai fatti organici (eredità biologica, ambiente naturale), che dalle scelte soggettive del singolo. Procedendo oltre, Durkheim definisce i fatti sociali in termini di «coscienza collettiva» o anche di «somma delle rappresentazioni collettive». In tal modo egli tenta di tenere insieme il profilo soggettivo ed oggettivo di tali fatti.

La coercitività è intesa in senso morale133 e distinta dalla pressione esercitata sul singolo dall'«interesse» egoistico ed ha una funzione aggregante. L'«anomia» di un individuo - ossia, l'assunzione di valori dissociati rispetto a quelli del gruppo – produce, infatti, la disgregazione dell'individuo stesso. L'integrazione sociale si realizza mediante un processo che ha come esito - nei confronti del singolo - l'imposizione di una norma per così dire «introiettata»; l'individuo stesso non potrebbe neppure custodire l'integrazione della propria personalità, al di fuori della soggezione a tale norma.

L'introduzione di questi elementi rende improponibile il modello utilitaristico della sociologia è definitivamente affossato. Tuttavia, Durkheim non studia il processo di elaborazione di tale «coscienza collettiva» ma solo i suoi risultati e cioè i diversi «tipi» sociali, o tipi di consenso, che presiedono all'unità delle varie culture; la trattazione ineluttabilmente si frammenta.

In questo quadro Durkheim s'interessò delle diverse forme di vita religiosa134, del rapporto tra valore sociale e azione rituale, e così via.

L'evoluzione del pensiero di questo autore ci permette di constatare con maggior chiarezza, rispetto agli autori precedenti, come l'impostazione positivista impedisca di rendere ragione del processo di coesione sociale135 o dei processi relativi alla mediazione sociale della formazione dell'identità individuale. Questo aspetto è correlato ad un altro e cioè alla difficoltà di rendere ragione del profilo morale dei fatti sociali. La «morale» è epifenomeno dell'oggettività sociale che non lascia spazio alla libertà individuale. Oggettivismo empirista e determinismo sociale paiono ineluttabilmente legati.

Possiamo accostare al tipo di sociologia teorizzato e praticato da Durkheim l'abbondantissima letteratura sociologica dei primi anni del '900, specie americana, che si esercita su problemi di dettaglio («microsociologia»), lavorando magari su commissione, evitando comunque di affrontare le questioni metodologiche fondamentali.

Possiamo accostare questa letteratura al programma di Durkheim per due motivi: innanzitutto per la dispersione regionale della ricerca e poi per la prospettiva

132. De la division du travail social (1893) e Le suicide (1897) tradotti in italiano rispettivamente da F. Airoldi Namer, Comunità, Milano 1962, e da A. Cavalli, Torino 1969. 133. Il risultato più maturo di tale evoluzime è rappresentato da L'éducátion morale (1925), trad. it. di A. Cavaffi, Torino 1969.134. Les formes élémentaires de la vie réligieuse (1912), trad. it. di C. Cividali, Comunità, Milaano 1963, con introduzione di R. Cantoni.135. Che cosa sono questi «fatti» esteriori e sopraindividuali, dei quali per altro si può parlare soltanto riferendosi ai loro effetti sulla psicologia del singolo (norma morale)?

102

Page 103: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

prevalentemente statica, la quale suppone un equilibrio sociale solo marginalmente disturbato da fatti anomali.

Non è fortuito il fatto che questo tipo di microsociologia descrittiva sia violentemente entrato in crisi nel periodo successivo al 1929, quando il sistema sociale cominciò a traballare (grande depressione) e s'impose la necessità di riflettere sul suo destino136, e quindi di orientare la ricerca sociologica alla luce di interessi e di interrogativi più fondamentali, implicanti la concezione complessiva del destino della società.

5.5. La sociologia tedesca dell'inizio del secolo e le scienze storiche

In Francia e parzialmente in Inghilterra, sollecitati dall'evidenza dei fatti sociali irriducibili ai modelli del positivismo, si giunse ad una ricerca sociologica empirica, meno dogmatica e più analitica.

In Germania al contrario, lo studio dei fatti sociali rimase ancorato ad una diffidenza preconcetta nei confronti di ogni pretesa di spiegazione naturalistica dei fatti sociali e umani in genere, remotamente alimentata da Kant. Predominante, nel pensiero tedesco del XIX secolo, è l'attenzione all'aspetto intenzionale dell'agire umano.

Sotto questo profilo le possibilità che si davano, e che di fatto si realizzarono, erano due: o la riduzione ad uno storicismo puramente descrittivo, convinto dell'impossibilità di superare l'essenziale individualità dei fatti spirituali, e quindi l'esclusione di ogni scienza sociale; oppure il tentativo di superare la frammentarietà dei fatti individuali, non mediante la generalizzazione astraente ma piuttosto mediante il riferimento ad un sistema significativo, ad una Gestalt, ad un Geist (= spirito), che nei fatti singoli troverebbe la propria oggettivazione e articolazione137.

Esempio di scienza sociale di questo secondo tipo è la scuola storica del diritto di F. K. VON SAVIGNY, o la critica dell'economia politica classica svolta da ROSCHER, HILDEBRANDT e KNIES, secondo i quali il comportamento umano può essere compreso soltanto nel suo divenire storico e nella sua connessione organica con il resto dei fenomeni sociali, o con lo «spirito del popolo» di cui è espressione.

Verso la fine del secolo (1883) esplose la Methodenstreit (conflitto dei metodi), appunto a partire dal tema economico. I dibattito riguardava la possibilità di una scienza economica ipotetico-deduttiva autonoma rispetto alla ricostruzione storica degli eventi individuali.

La prospettiva peculiare del pensiero tedesco era, in ogni caso, costituita dalla connessione tra scienze sociali e conoscenza storica. Il problema metodologico era quello di definire - su basi diverse da quelle proprie delle scienze naturali - la possibilità di una conoscenza generalizzante e oggettivamente valida dei fatti sociali.

136. Il saggio di R. S. LYND, Knowledge, for what? (= Conoscenza, a che scopo?) del 1939 è indicativo di questa consapevolezza nuova che nasce nella sociologia «positiva» (quella che vuol lasciar parlare i fatti) della necessità di una scelta che orienti la ricerca. Il rappresentante più autorevole di questa svolta verso una sociologia «impegnata» fu in America T. Veblen.137. I due indirizzi sono definiti rispettivamente «oggettivismo» e «intuizionismo» da A. VON SCHELTING e - al seguito di lui - da T. PARSONS, La struttura dell'azione sociale (cit., pp. 713-726). Il termine «intuizionismo» si giustifica ricordando che l'«intuizione» costituisce appunto il modo secondo cui i protagonisti della vita storica e lo stesso storico «comprendono» il sistema significativo in questione; si veda l'analoga funzione dell'Erleben diltheyano, di cui sotto si parla.

103

Page 104: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Le posizioni più significative furono quella di Dilthey e di Windelband e Rickert.

W. DILTHEY138 accomuna le scienze storico-sociali alla psicologia e le concepisce come «scienze dello spirito»; a tali scienze si contrappongono le «scienze della natura» sulla base del diverso rapporto che in esse si instaura tra soggetto conoscente e realtà conosciuta. Nello studio della natura il soggetto rimane estraneo alla realtà studiata mentre ciò non è possibile nelle scienze dello spirito. In queste, infatti, il fondamento della conoscenza è costituito dall'esperienza immediata (Erlebnis) vissuta dallo studioso e non semplicemente da un oggetto che gli sta di fronte. I fatti storici che lo studioso in prima istanza incontra come realtà esteriore non potrebbe essere da lui compresi e studiati se non avesse avuto anch'egli un'esperienza storica, o un "vissuto" analogo a quello contenuto di quei fatti.

Il procedimento qui indicato viene definito comprendente (verstehen), mentre quello delle scienze della natura è esplicativo (erklären).

WINDELBAND e RICKERT parlano di scienze ideografiche e scienze nomotetiche; non per riferimento alla specificità dell'oggetto (natura o spirito), ma allo scopo conoscitivo. Le prime intendono conoscere il fatto nella sua individualità concreta, le seconde intendono ridurre il fatto ad una uniformità legale della quale esso è espressione.

5.6. Le scienze storico-sociali secondo Weber

Uno dei massimi contributi alla travagliata storia della nuova e incerta disciplina139 è quello dato da M. WEBER.

Gli estremi che guidano la riflessione epistemologica di Weber sono fondamentalmente due: (a) rispettare la specificità dei fatti umani nei confronti dei fatti naturali, specificità che consiste nella libertà dell'agire dell'uomo, ossia nel riferimento cosciente delle sue scelte ad istanze ideali, a giudizi di valore, in rapporto ai quali soltanto esse possono essere comprese; (b) definire per altro alcuni canoni metodologici che permettano di fare delle scienze storico-sociali scienze vere e proprie, ossia - nella concezione di Weber - scienze che non coinvolgono quelle opzioni di valore, per le quali non è in alcun modo possibile una fondazione obiettiva.

Detto in altri termini, il problema di Weber è quello di definire la possibilità di una scienza obiettiva (b) ma non naturalistica (a) dei fatti sociali.

La soluzione del problema così prospettato è cercata da Weber nella direzione di una sintesi tra «comprensione» (verstehen) e «spiegazione» causale (erkláren). Vediamo come.

138. La prima opera epistemologica di Dilthey, rilevante sotto il nostro profilo, è del 1883: Introduzione alle scienze dello spirito (Torino, 1947); vedi anche Critica della ragione storica, Torino 1954.139. Gli studi sociologici di M. Weber riguardano tre temi principali: l'effetto delle idee religiose sull'attività economica (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965); i1 rapporto tra convinzioni religiose e stratificazione sociale (Economia e società, Comunità, Milano 1961, 2 voll.); le caratteristiche della società occidentale in generale (piccolo esempio è il saggio Parlamento e governo nel nuovo ordinamento in Germania. Critica della burocrazia e vita dei partiti, Laterza, Bari 1919). Per quanto riguarda la riflessione epistemologica, possediamo nella traduzione italiana le opere più significative: il I capitolo di Economia e società, cit.; la raccolto di saggi Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1968; i due saggi sulla scienza e la politica contenuti in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1971.

104

Page 105: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Weber introduce la distinzione tra «relazioni di valore» e «giudizio di valore». Le prime sono un elemento imprescindibile dei fatti sociali in quanto relazioni che costituiscono la specificità intenzionale dei fatti stessi. Vale a dire: i fatti sociali accadono in un contesto ben preciso, costituito dalle relazioni sociali tra gli individui, le quali sono costituite non solo da un movimento intenzionale reciproco ma anche dalla natura morale dell'intenzionalità, dove per "morale" non si intende ancora il giudizio di valore sull'altro e sulle cose ma semplicemente il riferimento ai valori. Potremmo dire: nelle "relazioni sociali", che per Weber costituiscono l'unità elementare delle formazioni sociali, sono in gioco apprezzamenti che debbono essere considerati di natura morale, anche se non si pongono sul piano del giudizio. Appartengono più al gusto e alla sensibilità che non al giudizio e tuttavia sono alla base dell'unità di un gruppo sociale, o, in termini weberiani, della possibilità che un gruppo possiede di agire in conformità. Lo studioso non può esimersi dal considerare tale intenzionalità etica o di valore, presente nei comportamenti umani.

I giudizi di valore sono invece un'operazione ulteriore la quale si fonda non sulla qualità dei fatti ma sulle convinzioni dello studiosoe da questi lo scienziato può e deve astenersi.

La distinziona tra relazioni di valore e giudizi di valore la possiamo meglio comprendere se la collochiamo nel contesto dell'altra fondamentale distinzione di Weber, quella tra una "razionalità secondo il valore" ed un "razionalità secondo lo scopo". Solo la seconda forma di ragione è passibile di un chiarimento razionale pieno; la seconda, al contario, sfugge a tale chiarimento e non è suscettibile di un approccio scientifico inteso alla stregua delle scienze naturali. I significati morali dei comportamenti umani vanno studiati con un metodo che è ancora tutto da precisare. Vedremo cosa proporrà Weber.

Per approssimarci alla proposta metodologica di Weber, teniamo presente la sua affermazione sul fatto che i valori entrano non solo nei fatti sociali ma anche nello studio di essi, in quanto da essi dipendono le scelte relative alla ricerca scientifica. L'«orientamento soggettivo dell'interesse», come lo definisce Weber, presiede alla scelta degli aspetti del fenomeno storico ritenuti significativi per la ricerca.

Non si possono perciò definire disinteressate le scienze storico-sociali. Non potranno neppure essere considerate esaustive, dal momento che lo studio privilegerà sempre alcuni aspetti a scapito di altri.

Come si svolge concretamente lo studio? Ecco la proposta metodologica del nostro autore.

Lo studioso costruisce un processo ipotetico attraverso il quale si appura, per esclusione, l'importanza dei diversi fattori in gioco. La divergenza del processo ipotetico, penalizzato dall'esclusione dell'elemento prescelto, dal processo reale misurerà il grado di «causazione» - meglio diremmo il grado di condizionamento - esercitato dal fattore intenzionalmente escluso.

La descrizione del procedimento di «verifica» delle scienze storico-sociali ci introduce ad una delle dottrine più caratteristiche di Weber, quella dei «tipi ideali».

Con la dicitura "tipi ideali", Weber indica i fattori costanti, equiparabili alle "leggi" dei fenomeni naturali, responsabili della forma o qualità secondo cui il l'agire sociale si presenta – forma e qualità che assicurano la coerenza interna al l'agire

105

Page 106: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

stesso - ed in forza della quale può essere assunto quale oggetto di indagine da parte di una scienza. Il "tipo ideale" rappresenta la consistenza dei fatti sociali, la quale permette di definire il comportamento stesso come «dotato di senso».

Per fare un esempio, quattro tipi ideali descritti da Weber140 sono: l'atteggiamento «razionale rispetto allo scopo», quello «razionale rispetto al valore», quello «affettivo» e quello «tradizionalistico».

Ora, i tipi ideali coniati da Weber costituiscono uno strumento della scienza storica, e cioè della conoscenza della realtà umana nella sua individualità. Essi presuppongono, però, un sapere di tipo morale, «nomotetico». Infatti, lo sviluppo della sociologia tedesca a lui contemporanea indusse progressivamente Weber141 a riconoscere l'opportunità di sviluppare una sistematica dei tipi ideali142, mettendone in luce le connessioni reciproche, le quali fanno riferimento ad elementi morali quali i valori e le norme.

In che modo i diversi "tipi sociali" di comportamento si accorpano formando unità più vaste, coerenti al loro interno? Weber fa riferimento alle categorie di «relazione sociale», di «costume», di «ordinamento legittimo»; categorie che a loro volta sono usate per la classificazione delle diverse forme di società143. La «società», per Weber, è infatti sempre istituita a partire dal tipo ideale di comportamento umano che sta al suo fondamento e che già caratterizza una "comunità" di persone.

In conclusione, ci pare di poter affermare che la riflessione epistemologica di Weber sia stata il tentativo più cospicuo di liberare la sociologia dal suo peccato originale, ossia la dipendenza succube dal modello delle scienze naturali.

Anche la sua riflessione non riesce però ad emanciparsi del tutto da tale peccato originale. Il punto maggiormente problematico è costituito dalla morale, dal profilo morale dell'agire umano e dei fatti sociali in generale.

Lui esclude dalla competenza delle scienze storico-sociali i "valori" di fronte ai quali non sarebbe possibile altro che la scelta insindacabile della «fede»; una scelta d'altra parte che è scelta «tragica», nella misura che i diversi «valori» si ignorano reciprocamente («politeismo» dei valori) e sono in potenziale conflitto. Ne risulta un conflitto insanabile tra «etica» e «politica», tra etica della responsabilità (quella che considera rilevante il risultato obiettivo della scelta soggettiva) e etica della coscienza (quella che deriva i suoi criteri dalla semplice commisurazione delle «intenzioni» soggettive ai valori ideali)144.

5.7. Parzialità dell'approccio sociologico

Giunti al termine della nostra rassegna, possiamo trarne alcune conclusioni di massima.

140. Vedi Economia e società, I vol., pp. 21-23.141. Cf. soprattutto l'articolo del 1913: Alcune categorie della sociologia comprendente, in Il metodo delle scienze... , op. cit., pp. 239-307.142. Alla definizione di «agire in società» sono dedicate le pp. 262 ss dell'articolo citato.143. I concetti fondamentali della sociologia sono elaborati con una certa organicità in Economia e società, I vol., pp. 3-305.144. Vedi per queste dottrine di Weber, Il significato della « avalutatività » delle scienze sociologiche ed economiche, in Il metodo delle scienze..., op. cit., pp. 325-333, e Il lavoro intellettuale..., op. cit., pp. 106-121.

106

Page 107: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La prima è costituita da una riflessione generale sul rapporto fra la teologia morale e queste nuove scienze dell'uomo. Un rapporto necessario, dal momento che tali scienze illuminano l'uomo e la società nella loro concretezza storica e nella loro effettualità. Un rapporto però anche problematico, per i difetti insiti nel metodo o nel modo di rapportarsi dello studioso ai fenomeni che analizza. La prima conclusione è dunque la problematicità relativa all'uso di tali scienze umane.

La seconda coclusione riguarda il chiarimento, per quanto oggi possibile, dei problemi metodologici insiti nel rapporto con il sapere sociologico. Il limite fondamentale di tale sapere va ravvisato nel fatto che non viene considerato l'aspetto intenzionale dei comportamenti umani. La scelta metodologica in questione è certo legittima, ma deve essere consapevole. Essa permette di giungere alla rilevazione di uniformità, di misure, di correlazioni empiriche, le quali però postulano una successiva comprensione. Il problema è appunto tale comprensione del significato antropologico dei fatti sociologicamente rilevati.

Per esempio, la ricerca empirica mostra una certa correlazione tra il passaggio da un'economia degli investimenti ad un'economia dei consumi ed il passaggio da un ethos sociale «puritano» ad un ethos «permissivo»145. Il fatto così rilevato appare subito interessante; fa intravedere un nesso tra fatti di costume moralmente e religiosamente rilevanti e fatti di natura prettamente economica; un nesso tra fatti di coscienza e mutamenti strutturali della società. Tuttavia, la pura e semplice rilevazione sociologica non fa ancora capire nulla; suggerisce una direzione e cioè quella che porta a riflettere sui fatti economici considerandoli rilevanti in ordine all'agire consapevole del singolo (suggestioni della pubblicità, diffusione del fenomeno emulativo in una società anonima priva di rapporti brevi, diminuzione di possibilità offerte all'intrapresa privata, ecc.).

I termini che vanno studiati insieme per comprenderne la correlazione sono: trasformazioni sociali, morale e istituzioni politiche. Fra i tre fattori, quello che oggi continua a sfuggire all’analisi e alla teoria è il secondo, la morale146.

5.8. Società e cultura. L'idea di cultura.

L'UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura) ha recepito lo schema che distingue tre scienze sociali di base: l'antropologia culturale, la psicologia (sociale) e la sociologia147.

Siamo tuttavia ancora lontani da un chiarimento dei rispetti metodi di tali scienze, come abbiamo potuto vedere diffusamente per la sociologia. Per la psicologia la questione è molto più incerta, dal momento che in essa non è nemmeno avvenuto un serio dibattito epistemologico.

Nota G. GUSDORF:

la natura della psicologia e il senso e della sua unità non sono affatto certi, e non ci si può che stupire di fronte all'indifferenza serena della maggior parte degli specialisti, tranne alcune onorevoli eccezioni nei

145. Vedi per esempio, con riferimento al fenomeno nella società inglese ma insieme con qualche indicazione bibliografica sul problema generale, A. DE LA PRFSLE, Evoluzione della società in Inghilterra, "Aggiornamenti Sociali" 21 (1971) 325-344.146 . Vedi AA.VV., Legittimazione e società, CIPRIANI R.(curatore), Armando, Roma 1986.147. Tale tripartizione, naturalmente, ha i suoi fautori - prima che nell'UNESCO - tra alcuni dei più autorevoli cultori di scienze sociali (R. LINTON, T. PARSONS, P. SOKORIN,... ); cfr. T. TENORI, Antropologia culturale, Studium, Roma 1976, pp. 13-20 (l'opera del Tentori costituisce una buona e sintetica introduzione all'antropologia culturale, con diffusa bibliografia sistematica, alle pagg. 227-246).

107

Page 108: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

confronti delle questioni fondamentali riguardanti lo statuto della loro disciplina (G. GUSDORF, op.cit. alla nota 3, p. 767).

Non entriamo nella questione della psicologia. A noi interessa mettere a fuoco la categoria di "cultura", così rilevante nel pensiero cattolico degli ultimi decenni ed anche nei programmi pastorali della Chiesa.

Il termine « cultura » è antico: risale alla letteratura latina (cultura animi di Cicerone), che con esso esprime un concetto analogo al greco paideia; concetto questo che ebbe un rilievo centrale nella grecità classica148. Il significato antico del termine ebbe una ripresa nel sei e settecento, e a partire dalla seconda metà del sec. XVIII si estese dalle lingue neolatine alla lingua tedesca.

Il termine «cultura» in questa secolare tradizione indica il processo di formazione della personalità umana ed il grado raggiunto in tale processo. La «cultura» appare dunque un attributo del soggetto e - almeno parzialmente - del singolo. Possiamo aggiungere che di tale processo formativo il termine «cultura» coglie tradizionalmente gli aspetti conoscitivi, pur intesi in senso lato e non ristretto al sapere oggettivante e specialistico.

Il significato moderno o «scientifico» del termine «cultura» è quello immediatamente connesso alla nascita dell'antropologia culturale, ed è meno univoco di quanto non fosse il significato tradizionale. Possiamo in prima istanza, affermare che il termine moderno di «cultura» designa primieramente un attributo del gruppo sociale e non del singolo, il quale determina la peculiarità di quel gruppo. Il termine un designa più necessariamente un valore acquisiti ma una forma effettuale del vivere sociale, come nel caso dei popoli primitivi o barbari, che la tradizione precedenti definiva «incolti».

Tale idea moderna di cultura è strettamente connessa alla fine dell'etnocentrico europeo.

Non seguiamo le vicende dell'antropologia culturale ma ci limitiamo ad indicare gli elementi fondamentali dell'idea di cultura e le ultime intepretazioni.

Taylor, il primo antropologo culturale, dà questa definizione: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso ampio etnografico, è quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società (da Primitive culture, 1871)».

Tale definizione è stata criticata in quanto astratta (Johnson H.M.); essa considera i «modelli astratti» del vivere di un popolo e non i «prodotti culturali» concreti.

La distinzione tra cultura e prodotto culturale è stata ripresa da Malinowski, il quale considera questi ultimi come l'aspetto materiale della cultura.

Boas ha introdotto la distinzione tra l'eredità biologica e l'eredità sociale, nel complesso della trasmissione culturale.

Fin qui gli "elementi" posti in luce dalle diverse definizioni cultura. Bisogna anche illuminare l'aspetto dinamico della cultura e cioè il suo prodursi ed il suo continuare nel tempo, grazie al recepimento di essa da parte degli individui e delle nuove generazioni.

Le recenti riflessioni indagano la funzione sociale della cultura più che la sua dinamica psicologica ed insieme etica. Accenno a due teorie. Quella di E. Morin,

148. Cfr. il fondamentale studio di W. JAEGER, Paideia, La Nuova Italia, Firenze 1959, 2 vol.

108

Page 109: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

secondo il quale la cultura va intesa come «un sistema che fa comunicare (dialettizza) una esperienza esistenziale e un sapere costituito»; quella di P. Bourdieu, secondo il quale la cultura è un campo dove si strutturano specifici «valori arcaici» e «valori moderni» tra loro conflittuali149.

Rimangono in ombra, ancora una colta, gli aspetti propriamente morali del fenomeno "cultura" e quelli religiosi.

Sono questi gli aspetti sottesi al discorso che oggi fa la Chiesa sulla cultura, nella prospettiva della nuova evangelizzazione ed alla trattazione di questo tema rimandiamo la precisazione di tali aspetti. Occorre rilevare come l'azione della Chiesa non sia oggi supportata sul piano scientifico. In tal situazione dovrebbe essere riconosciuto un ruolo importante alla teologia, alla teologia nel suo profilo prettamente scientifico e non solo come risorsa didattica o come discorso "profetico" a sostegno di un determinato indirizzo pastorale. La teologia dovrebbe supportare la coscienza credente offrendo gli strumenti necessari per pensare l'evangelizzazione e la cura pastorale con categorie adeguate all'attuale contesto sociale.

Conclusioni

L’excursus storico sul pensiero sociale e politico moderno e 'laico' (nel senso che si è sviluppato al di fuori dell’ambito del clero) ci ha offerto dei dati importanti che dobbiamo assumere in vista della riflessione sistematica sui doveri sociali della Chiesa e dei cristiani.

Divideri tali dati in due categorie; dati strutturali e dati di contenuto.I primi riguardano la struttura del vivere sociale degli uomini e cioè il suo

configurarsi a seguito dell’azione di fattori che anticipano la consapevolezza degli uomini e tendono a sfuggire al loro sapere.

I secondi riguardano i significati che il vivere sociale assume nelle diverse epoche storiche e nei diversi ambiti culturali.

I dati strutturali li possiamo così elencare: - la distinzione tra società e istituzioni politiche- la società costituisce l’aspetto di immediatezza del vivere sociale mentre le

istituzioni politiche quello di mediazione- l’immediatezza del vivere sociale è certo determinata dal bisogno e dalla

volontà di relazione delle persone tra loro; ma tale volontà libera si colloca in un contesto già formato. Il fattore che risulta essere il primo è l’attività economica.

- Occorre dunque considerare la realtà sociale non subito e solo dal lato delle teorie o delle dottrine ma da quello dei mutamenti materiali, il più delle volte prodotti non dalla natura ma dall’attività umana con scopi economici (dar risposta ai bisogni fondamentali e non solo l’arrichirsi).

- I mutamenti indotti dai bisogni e dall’attività economica hanno rilevanza morale in quanto sono in qualche modo accolti dalle persone, in quanto cioè incidono sulla coscienza; così considerati possono essere chiamati "costumi". Spesso l’azione sulla coscienza è muta, quasi inconscia; tuttavia si forma una sensibilità, un ethos.

149 . Vedi Dizionario di sociologia, Paoline 1987, p. 640-741.

109

Page 110: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

- Le dottrine politiche e gli assetti istituzionali vanno compresi a procedere dal loro rapporto con il vivere sociale, nella sua immediatezza. Il primo elemento da chiarire è la dinamica tra società e Stato.

- Occorre tuttavia chiarire che cosa si debba intendere con il termine "istituzioni"; se con tale termine si vogliono indicare le forme nelle quali si esercita un potere legittimo bisognerà non limitarsi allo Stato e ai classici tra poteri. I mezzi di comunicazione pubblica e la finanza costituiscono oggi forme rilevanti, se non prioritarie, del potere.

- Le istituzioni non svolgono solo una funzione di rappresentanza del potere; essere hanno anche un significato antropologico e svolgono una funzione formativa, in dialettica con i costumi e le espressioni culturali della coscienza collettiva.

- La cultura costituisce perciò un ulteriore dato strutturale del vivere sociale. La cultura nelle sue forme immediate e nel suo strutturarsi in istituzioni culturali (le scienze).

- Sotto il profilo formativo, le istituzioni portano con sé il problema religioso dal momento che, volenti o nolenti, le confessioni religiose costituiscono una istituzionalizzazione del vivere sociale di grande rilievo, anche dal punto di vista politico.

Dal punto di vista dei contenuti che cosa è emerso?- la centralità della questione religiosa in quanto rapporto tra poteri o tra

istituzioni potenti; connessa a tale questione è la laicità dello Stato e gli integrismi.

- La questione dell’alienazione della persona nel contesto moderno dell’attività produttiva. Alla classica questione del rapporto tra persona e legge si aggiunge quella tra persona e sistema economico.

- Il problema non è costituito solo dalle ingiustizie subite ma dal costituirsi di una forma del vivere che occulta le evidenze etiche in maniera sempre più radicale; oppure anche di una forma del vivere che rende sempre più instabile e inefficace la famiglia. Segno di tale circostanza è la violenza urbana, frutto dell’emarginazione ma anche di una erosione della coscienza morale, sulla quale pesa la vicenda familiare.

- Le istituzioni sono chiamate in causa non tanto a difesa di interessi di parte ma di un bene comune, o della società in quanto tale, messo a repentaglio. Il bene comune non si identifica più in un popolo ma nell’intera umanità.

- Vedi le frontiere dell’ecologia, dei diritti umani, del commercio mondiale, del rapporto tra macro istituzioni e micro istituzioni (famiglia, scuola).

I questo contesto i cristiani e la Chiesa sono chiamati a reintepretare il vangelo e la loro testimonianza.

110

Page 111: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

6. DS e teologiaLa DS, come abbiamo visto, racchiude in sè due significazioni: è magistero dei

papi ed anche "dottrina" della Chiesa. Sono due profili che possono benissimo convivere, ovviamente, nello stesso

documento ma che conviene mantenere distinti, in quanto la "dottrina" non è solo espressione del magistero ma attinge anche ad altre fonti, in particolare "l'opera dell'intelligenza teologica" 150.

La figura della DS chiama perciò in causa il teologo e chiede un chiarimento del rapporto tra il suo carisma e il Magistero.

Sinteticamente possiamo dire che il Magistero ha il diritto e dovere di prendere la parola su tutti i temi della vita cristiana e tuttavia i suoi pronunciamenti non possono non evidenziare la carenza di riflessione teologica, là dove questa ci sia, anche se può in qualche modo colmare il vuoto da questa lasciato. Tale carenza si manifesta come inadeguata "istruzione riflessa dei temi e dei problemi trattati". I pronunciamenti dicono, ovviamente, la Verità evangelica ma in un modo non adeguato all'oggettivo articolarsi della problematica a cui ci si riferisce.

E' vero, ad esempio, che il potere viene, in ultima analisi, da Dio e tuttavia il problema che lo Stato liberale pose alla coscienza credente non era tanto questo ma quello delle forme di governo più corrispondenti al mutato ordine sociale. E' vero che la società necessita di un fondamento morale e tuttavia la Chiesa non è depositaria di esso nei termini di una "dottrina" già stabilita a monte dei mutamenti sociali. E così via.

Ma la riflessione sul rapporto tra teologia e Magistero sociale ha una sua consistente vicenda a cui riferirsi. Intendiamo il conflittuale rapporto tra Magistero e teologie politiche.

Le teologie politiche si sono sviluppate in tre successivi indirizzi: la teologia della secolarizzazione, la teologia politica di Metz e quella latino-americana della teologia della liberazione.

6.1. La teologia della secolarizzazione

La prima espressione di un nuovo interesse della teologia per i fatti sociali e per la questione politica la troviamo nel nord America, negli anni '60 in autori come il vescovo protestante J.A.T. Robinson (Dio non è così, Firenze 1965) o i teologi della morte di Dio come W.Hamilton e Th.Althizer o nel più celebre H.Cox, autore del saggio La città secolare (Firenze 1968).

Ad accomunare questi autori è la constatazione che l'uomo si è fatto refrattario al linguaggio che parla di Dio, si è "secolarizzato". Di fronte a questo fatto, tali teologi si muovono in due direzioni: da una parte sviluppano la critica alla cultura che ha portato alla morte di Dio, dall'altra, però, cercano di costruire una teologia adatta all'uomo secolarizzato. Sul primo punto si trovano in buona compagnia, dal momento

150. ANGELINI G., La dottrina sociale della Chiesa, op. cit. p.74

111

Page 112: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

che la critica agli esiti nichilisti della cultura tecnico-scientifica è stata condotta da numerosi grandi pensatori del '900; pensiamo ad Husserl, Jaspers, Heidegger, Adorno, Horkheimer ecc.) dai quali questi teologi dipendono, come dipenderà anche Metz. Sul secondo punto, la proposta va nella direzione di "secolarizzare" il discorso cristiano, sulla scorta di tre grandi teologi del passato. Da Barth viene presa la critica alla religione e l'opposizione che lui instaura tra religione e fede; da Bultmann il programma demitizzante, nell'intento di rendere più vicino il Vangelo all'uomo della scienza e della tecnica; da Bonhoeffer il tema, già bartiano, di una cristianesimo "non religioso" 151. La convinzione, alquanto dubbia ed in ogni caso ingenua nella valutazione positiva del fenomeno, che muove questa revisione della teologia è quella che vede nella secolarizzazione un movimento di crescita della stessa fede cristiana, un suo prodotto, nel contesto della nuova civiltà tecnico-scientifica.

Certo, il problema che la secolarizzazione pone è "teorico", come ben dimostra l'impegno dei filosofi sopra citati ma non è questo il versante che più deve preoccupare del fenomeno. Teoricamente, infatti, è facile averla vinta sull'ideale scientista della cultura occidentale. A produrre gli effetti sul piano etico-religioso è però la straordinaria efficacia che tale modello ha avuto sul piano antropologico e sociale. Il fatto, cioè, che si sia imposto come modo di pensare se stessi e come riferimento anche sul piano del senso della vita e delle conseguenti scelte morali.

Si tratta, quindi, di una questione pratico-pastorale che investe i modi di essere della Chiesa e il suo linguaggio. Il teologo dovrebbe sostenere la Chiesa nella difficoltà a riproporsi in un contesto sociale secolarizzato, che è diverso dal secolarizzare, semplicemente, il cristianesimo in nome di una presunta opposizione tra religione e fede, o cristianesimo.

In campo cattolico possiamo notare una certa tendenza secolarizzate nello stesso Concilio Vat. II, precisamente nella Gaudium et spes, là dove la spinta provvidenziale al superamento della vecchia contrapposizione apologetica alla modernità, rischia spesso di risolversi in una ricezione irenica dei valori mondani o secolari. Ovviamente non si poteva chiedere ai padri conciliari una capacità di giudizio critico sulla modernità, che non esisteva in assoluto nella teologia cristiana.

L'autore, comunque, che più ha sviluppato in ambito cattolico il tema della secolarizzazione è J.B.Metz (Teologia del mondo, Queriniana 1969). Nel suo pensiero, il tema costituisce il primo passo verso il tentativo di elaborare una teologia politica, di cui parleremo tra poco.

Egli riprende e sviluppa l'interpretazione che tende a valorizzare la secolarizzazione, o "mondanizzazione", dell'uomo contemporaneo come momento di crescita della stessa fede cristiana. Cristo, infatti, ha assunto pienamente la "mondanità del mondo" nella sua incarnazione e, in forza di ciò, non ha bisogno di far valere la verità cristiana in modo estrinseco rispetto alla storia, ma dal di dentro, come verità della storia stessa. In tal senso il cristiano non può distaccarsi con sospetto dalla mondanità ma cercare in essa le vestigia Dei.

151. Vedi l'articolo di G.ANGELINI, "La vicenda della teologia cattolica nel secolo XX" in Dizionario teologico interdisciplinare, Marietti Milano, 1977, vol. III pp. 647-666.

112

Page 113: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

6.2. La teologia politica di J.B.Metz

A queste posizioni sul tema della secolarizzazione consegue il compito di considerare le implicanze "storiche" della salvezza (e dell'impegno della fede) cristiana che Metz 152 si assume e cerca di assolvere.

Il pensiero politico di Metz è però debitore nei confronti di un altro grande teologo protestante che in questi anni cerca di ricomprendere la teologia a partire dal tema della speranza (J.Moltmann, Teologia della speranza, 1964).

Moltmann parte da una concezione della Rivelazione come "promessa". Dio si fa presente nella storia umana come parola che annunzia un futuro ed in quanto tale è capace di muovere l'uomo, di fare storia. Lo annuncia e nel momento in cui lo mostra possibile, anche lo richiede all'uomo come comandamento, per cui questo "impone ciò che la promessa propone".

La Rivelazione sfugge, quindi, ogni tentativo di "adeguazione" intellettuale ed ha come sua fondamentale caratteristica quella di aprire l'esperienza umana ad un orizzonte escatologico.

Ma come la "promessa" di Dio può farsi impegno storico dei credenti? Come può tradursi in un'etica sociale?

E' questo l'interrogativo che rimane aperto nella prospettiva di Moltmann e, vedremo, anche in quella di Metz.

La TP non va intesa come teologia della rivoluzione. Non vuol essere una teologia che "fa politica", o un'etica politica, e si rifiuta di sviluppare un programma politico-sociale. Il suo intento è teologico e si propone di riconsiderare gli enunciati teologici nella loro rilevanza sociale, partendo dalla convinzione che la "società" è l'orizzonte più vasto dell'uomo e quindi quello adeguato ad interpretare correttamente la rilevanza salvifica della fede, i cui contenuti devono quindi essere interpretati in modo tale da essere rilevanti nei confronti della società (=in modo tale che aiuti la società nella ricerca della salvezza).

Non vuol essere, quindi, nemmeno un ambito specifico della teologia, ma una nuova impostazione globale del pensiero teologico. E' una teologia fondamentale o il tentativo di recepire il problema della rilevanza sociale della fede come problema di teologia fondamentale. Si tratterebbe di spostare le categorie teologiche da schemi "interpersonali", tendenzialmente privatizzanti, per integrare nella riflessione cristiana il momento pubblico e così affermare la portata universale della missione cristiana.

La TP parte, dunque, dall'assumere seriamente il problema della rilevanza della fede cristiana nel mondo contemporaneo, o in altri termini della rilevanza di fronte alla ragione illuministica. Si chiede infatti quale può e dev'essere il contributo della fede cristiana nella società di oggi e trova una prima risposta in una critica negativa alla maniera con la quale comunemente le teologie interpretano il messaggio cristiano, proponendo di sostituirle una interpretazione politica. Critica

152 Nato nel 1928 ad Auerbach (Germania); ordinato sacerdote nel 1954; dottore in filosofia e teologia, docente di teologia fondamentale a Muenster. Oltre ai due volumi interessati alla teologia politica, in italiano sono editi: Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1981. Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988. Passione per Dio, Queriniana, Brescia 1992.

113

Page 114: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

infatti sia la metafisica della teologia scolastica cattolica, sia l'interpretazione esistenzialistica della teologia protestante.

La metafisica della scolastica è considerata sorpassata perché si avvale di una visione che l'uomo moderno non condivide e neppure riesce a comprendere. Nella visione metafisica infatti sia la realtà in genere, sia la verità dell'uomo hanno carattere statico, mentre l'uomo moderno le intende in modo dinamico. Essa153, dunque, fallisce nel suo tentativo di apologetica della fede contro l'illuminismo e non poteva non fallire dal momento che "si sottrae alla sfida dell'illuminismo", che è quella di contestare alla fede cristiana ogni rilevanza pubblica, nel momento stesso in cui si propone come filosofia sociale piuttosto che come critica alla società che viene dalla fede. Non è in forza di principi metafisici che può diventare presenza critica dentro la società ma in forza della sua "riserva escatologica" 154.

Denuncia, infine, quel naturalismo che porta a vedere la realtà come una sorta di natura "preformata" e così trascurare il fatto che essa è per buona parte determinata dall'azione umana ed è mediata socialmente.

La teologia esistenzialistica (di Bultmann e Tillich in particolare), poi, comporta una "privatizzazione" inammissibile della rivelazione biblica. Essa, infatti, resta prigio-niera di una forma idealistica dell'uomo e della società, nel momento in cui il problema fondamentale è quello del rapporto tra teoria e prassi e in cui risulta evidente il fatto che una fede, priva di dinamismo sociale, è sterile. Inoltre non corrisponde alla prospettiva biblica: Gesù non è un personaggio privato, come non è privata la salvezza che egli ha portato.

Nella sua diagnosi storica, Metz afferma che l'illuminismo ha costituito, per il cristianesimo, e per la prima volta, un momento di crisi di identità. La fede cristiana è stata chiamata a "rendere conto di sè di fronte alla ragione" 155. A tale crisi della "coscienza" si accompagna la progressiva separazione tra religione e società sul piano politico.

Ma, a prescindere dalla vicenda storica, occorre rilevare che il singolo cristiano e la chiesa, prima ancora di ogni singola presa di posizione o azione politica, si trova già in un campo di riferimento sociale e politico. La fede cristiana pertanto, se non vuole essere indebitamente sovraccaricata di ideologie politiche, non può evitare una riflessione critica sulle implicanze politiche di tutti i suoi enunciati e decisioni pratiche.

In tal senso, la fede deve considerare i rapporti teoria-prassi, deve porsi "in relazione con la storia della libertà della società moderna" 156. Per Metz, infatti, "la categoria del politico si identifica con quella della libertà" 157.

In un secondo momento della sua riflessione, stimolato anche dal confronto critico, Metz si preoccupa di mettere in luce che il suo intento è sì quello di accettare il confronto con la ragione illuminista ma non dal punto di vista filosofico bensì teologico. Egli vuol fare una teologia e quindi partire dalla rivelazione come risorsa critica nei confronti della società.

153. Anche la DS vien fatta appartenere al cosiddetto "fronte apologetico".154. Ibid. p. 46155. COLOMBO G., La Dottrina Sociale della Chiesa, op. cit. p. 141.156. M.XHAUFFLAIRE, Introduzione alla «teologia politica» di J.B.Metz, Queriniana Brescia, 1974, p. 39157. Ibid. p.40

114

Page 115: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Rielabora quindi il proprio progetto in senso più spiccatamente teologico, impegnandosi in una interpretazione del messaggio cristiano che ne metta in luce il profilo sociale e politico.

1. La fede cristiana è una forma di prassi, che ha origine in una storia, non in un'idea, ma nella storia di Gesù e nella sua croce.

La storia di Gesù è la storia dell'identificazione di Dio con i poveri, è la storia della promessa di libertà. Come avvenne per molte altre storie, anche questa si conclude con l'assassinio del liberatore, ma la resurrezione proclama che questa storia non è una tragedia, perché Dio ha risuscitato Gesù dalla morte: egli è vivo e porta il suo messaggio di liberazione alle vittime che soffrono per le ingiustizie di oggi.

Il cristianesimo ricorda allora il passato in vista del futuro: la memoria del passato diventa essa stessa un principio di critica del presente alla luce del futuro promesso (memoria pericolosa, escatologicamente orientata).

Centrale in questa riflessione la memoria passionis (mortis et resurrectionis) di Gesù Cristo che diventa memoria critica per il presente, in quanto richiama un evento del passato che però è anticipo del futuro, fa parte dell'eschaton, e proprio per questo diventa critica per il presente (riserva escatologica).

La Chiesa diviene istituzione posta a servizio di tale risorsa critica della fede cristiana, "istituzione di critica sociale" 158.

2. Proprio perché fondato su questa "memoria" l'annuncio cristiano si presenta attraverso la narrazione. La teologia non dev'essere un'argomentazione che ricerca una verità metafisica ma che si misura con la prassi ed in tal senso cerca la mediazione tra l'indole escatologica ed insieme politica della fede. Tale mediazione sarà l'etica, intesa come umanizzazione dell'uomo, critica delle sue alienazioni storiche e quindi impegno, ad esempio, di solidarietà con i poveri, con le vittime dell'alienazione sociale.

3. Un terzo principio è, dunque, quello della solidarietà. Le moderne culture illuministiche, dominate da un pensiero razionale-

strumentale, sono basate sul principio di scambio. In realtà questo significa: 'io mi occupo dei tuoi interessi se tu badi ai miei'. È chiaro che una tale base per la società è in realtà una forma di reciproco egoismo. Il comandamento dell'amore resta escluso.

Il fondamento cristiano della società dovrebbe essere piuttosto basato sulla solidarietà, cioè sui bisogni dell'altro. Questa solidarietà si estende a tutte le vittime dell'ingiustizia e rifiuta la visione evoluzionistica del progresso secondo la quale i singoli individui possono esser sacrificati al progresso.

La solidarietà si estende a tutti, facendo sì che tutti possano essere "soggetti" (contro la riduzione dell'illuminismo alla borghesia), raggiungendo perfino "i morti".

Insieme ad apprezzamenti, da parte di chi condivide la preoccupazione che ha mosso questo tentativo, di mostrare attraverso la riflessione la dimensione pubblica e pratica della fede, vi sono stati parecchi che hanno criticato la posizione di Metz.

Essi hanno messo in rilievo che la dimensione sociale della teologia politica appare un punto di partenza troppo angusto (cf. alcuni termini di riferimento quali preghiera, sacramenti, che qui non sembrano trovare immediatamente il loro

158. Ibid. p.72

115

Page 116: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

significato più pieno) e si richiede, perciò, un punto di partenza teologico più ampio. Questo può essere dimostrato mediante l'accenno a due argomenti, uno più di tipo filosofico, l'altro più di tipo teologico.

a) Da una parte occorre riconoscere che la libertà della persona ha condizioni politiche ben precise. E' possibile là dove non viene oppressa da un'altra libertà e presuppone, quindi, diritto e istituzione. Tuttavia non è la società a produrre la libertà: la persona ha un'eccedenza e un valore proprio. Quindi tra persona e società vi è una tensione permanente e la società non risulta essere l'orizzonte più ampio della realtà.

b) Dall'altra si deve ammettere la presenza di alienazioni che non possono essere tolte mediante lo sforzo politico-sociale, come ad esempio il dolore, l'estraneità, la solitudine, la morte. Queste non possono essere tolte mediante il cambiamento delle condizioni sociopolitiche, poiché sono date con la stessa finitezza dell'uomo. Il tentativo di toglierle attraverso la società porta, anzi, alla violenza e al totalitarismo. In tal senso la salvezza dev'essere una grandezza sottratta sia al singolo che alla società e abbracciare entrambe. Dunque ad un inizio indeducibile, che sta oltre la dimensione sociale.

c) La teologia politica di Metz fallisce sul piano della mediazione tra escatologia e prassi politica. L'etica a cui rinvia non trova, infatti, modo di articolarsi, nel pensiero del nostro autore. Ciò mette in evidenza come il punto nevralgico della riflessione teologica sul fatto politico sia, appunto, la possibilità della fede di porsi sul piano del giudizio storico-concreto.

6.3. La teologia della liberazione

L'opera prima in assoluto della TL è la "Teologia della liberazione" 159 di G.Gutierrez, ritenuto unanimemente il padre della TL, nella quale è ripreso e sviluppato una conferenza da lui tenuta in Perù nel 1968 e nella quale per la prima volta viene usato il termine "TL".

E' comunque da escludere che all'origine della TL ci siano dei teologi ed anche sono da escludere le comunità di base (venute dopo, negli anni '70-'80). I teologi sono venuti dopo. Inizialmente la TL è un orientamento di pensiero proprio di gente impegnata pastoralmente, o nella pastorale universitaria o nella pastorale di base. In un secondo tempo ha coinvolto i teologi e, in un terzo tempo, ha visto i teologi emigrare negli ambienti popolari. Si è allora passati da una teologia per i poveri, ad una teologia che scaturiva dalla "scuola dei poveri".

Le radici della TL sono, quindi, nelle vicende del popolo latino-americano, scandita da tre fondamentali tappe: la teoria dello sviluppo (anni '50), la teoria della dipendenza (a partire dalla morte di Kennedy, 1963) ed infine la teoria della sicurezza nazionale; in quest’epoca si situano gli eventi ecclesiali delle Conferenze episcopali di Medellin e Puebla. Gutierrez critica aspramente la teoria dello sviluppo e denuncia il fatto che una certa idea di "cristianità", viva anche in America Latina, ha finito per farne da supporto ideologico, soprattutto attraverso la Dottrina sociale della Chiesa. L'idea maritainiana, infatti, professa "la separazione netta tra il sociale e il politico" ed in tal modo espone la Chiesa ad una presenza conservatrice nella società, proprio perchè non ne viene tematizzato il significato politico.

159. Queriniana, Brescia 1972.

116

Page 117: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il limite di tale visione risiede nella insufficiente articolazione del rapporto tra fede e cultura (ancora idealistico); manca, infatti, il riferimento alle scienze umane e quindi un'impostazione scientifica.

Gutierrez concepisce la sua riflessione di teologo come espressione delle "esperienze di uomini e donne impegnati del processo di liberazione" 160 nell'America latina. Naturalmente una riflessione che si fonda sul Vangelo. Nel far questo egli è anche convinto che la teologia tout cour dovrebbe essere fondata sul Vangelo ed esprimere un impegno pratico di liberazione da parte dei cristiani verso cui si rivolge.

In tal senso la TL vuol essere una ripensamento radicale della teologia la quale è, per Gutierrez, una interpretazione del significato del cristianesimo e della missione della Chiesa. Ma perché tale interpretazione sia secondo il Vangelo, occorre che scaturisca da una fede che è impegno pratico di liberazione.

Quindi, per prima viene la fede intesa come prassi di liberazione - solo così è vera fede - "poi" viene la riflessione che ne interpreta il significato. La fede si riferisce alla "realtà" del popolo e della liberazione cristiana, la teologia agli enunciati di essa.

La teologia ha, in altri termini, solo una funzione interpretativa nei confronti della "fede liberazionista"161. Questa, cioè, ha già in sè il suo fondamento, o la sua "verità"; non si tratta di discuterla o verificarla ma di porsi al suo servizio. Infatti, Gutierrez, non si sente tanto impegnato a verificare teologicamente la prassi di liberazione, quanto a difenderla dai sospetti delle "altre" teologie.

Il significato della TL è quello di legare la riflessione teologia alla prassi, di giustificarla come servizio alla prassi, per cui il teologo può concepirsi come una sorta di "intellettuale organico" alla Gramsci 162 la cui funzione è quella di assicurare all'impegno pratico del cristiano l'aggancio al Vangelo, mettendone in luce la valenza politica.

Gutierrez indica i fattori che hanno propiziato questa conversione della teologia all'impegno di liberazione: la riscoperta della carità come centro della vita cristiana e del valore dell'impegno nel mondo; l'attenzione agli aspetti antropologici della Rivelazione; l'emergere della vita stessa della Chiesa come luogo teologico; la teologia dei segni dei tempi. Riconosce poi l'influsso del pensiero marxista e di Blondel, e la riscoperta della dimensione escatologica 163.

Per potere essere teologia della prassi ecclesiale, della carità che si esprime nell'impegno per la liberazione, la teologia deve distanziarsi dalla filosofia e avvicinarsi alla scienze umane, dal momento che da queste possono derivare conoscenze utili alla prassi dei cristiani. Dal sodalizio filosofia-teologia occorre passare a quello nuovo, tra teologia e scienze umane.

Due anni dopo la pubblicazione dell'opera di Gutierrez appare una seconda importante opera dedicata alla TL. Autore è H.Assman il quale è più preciso di Gutierrez nell'indicare le fondamentali articolazioni della TL.

Egli denuncia, nella teologia tradizionale ma anche in quelle correnti, "un'inclinazione fondamentale all'idealismo" contro il quale la TL propone di privilegiare la dimensione politica e quindi della prassi, riconoscendo in quest'ultima, che è poi la "situazione" concreta in cui il cristiano si trova a vivere, il fondamentale

160. Ibid. p.6161. G.COLOMBO, "La teologia della liberazione" in Teologia, 2/1987 p. 170162. Gutierres op. cit. p.23163. Colombo, op. cit. p. 172

117

Page 118: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

"luogo teologico" 164. Il Vangelo, la fede, la Rivelazione, non esistono come realtà in sè ma sono sempre mediate storicamente e devono perciò essere colte mediante l'interpretazione della storia e quindi della prassi.

La conoscenza della storia, nella sua praticità, è frutto delle scienze umane, per cui la teologia non basta a se stessa ma deve affidarsi alle scienze umane. Mediante esse, la teologia può esercitare la sua funzione di ermeneutica della prassi al fine di evidenziare la verità cristiana in essa operante.

Ma qual è questa "verità" della prassi? E' ciò che rende efficace l'azione politica in vista della liberazione dell'uomo. E' l'efficacia pratica che testimonia la "verità" dell'impegno e della fede stessa. Occorre sostituire alla vecchia e astratta analysis fidei, la concreta interpretazione della prassi di liberazione.

Il versante della critica verso la teologia accademica, od occidentale, troverà espressione nell'opera di un terzo significativo autore della TL, J.L.Segundo165

(Liberazione della teologia), il quale insegna ad Harvard ed è mosso non tanto dall'interesse per l'impegno pratico della Chiesa ma dall'intento polemico verso la teologia tout court.

La teologia accademica è caratterizzata da un orientamento fondamentale verso il passato, per cui manca di prendere il considerazione il presente, trascura il fatto che la Parola di Dio "ci è rivolta qui e ora". Per lo stesso motivo essa è dalla parte dell'oppressione, perchè è conservatrice, mentre la TL sfugge a tutto ciò in quanto si rivolge al presente.

Metodologicamente, rivolgersi al presente significa svolgere una riflessione ermeneutica di tipo circolare, mettere in atto il "circolo ermenutico" grazie al quale la teologia esce dalla sua a-storicità per farsi carico dei compiti politici del presente.

Il circolo ermeneutico si svolge in quattro momenti:+ problematizza la tradizione;+ problematizza la teologia tradizionale come forma di ideologia;+ si rapporta alla Bibbia con un sistematico "dubbio esegetico";+ sviluppa la nuova ermeneutica teologica nella quale appare evidente che la

teologia nasce da un impegno umano pre-teologico, deve farsi carico di comprendere i meccanismi della società in cui opera, deve essere un'arma a servizio dell'ortoprassi, cerca di far sprigionare la libertà della Parola di Dio che si esprime in modi diversi nelle diverse situazioni.

In tal senso la teologia non può non tener conto della politica perchè, che lo voglia o no, è ad essa legata ed, anzi, deve partire da essa e cioè dall'impegno pratico per mutare le situazioni. Gesù, infatti, rivoluziona anche i modi di pensare teologici perchè opera praticamente, perchè modifica la società.

Non possono esistere affermazioni teologiche assolute nè direttive pratiche di questo tipo, in quanto la verità cristiana è sì presente nella storia ma non può mai essere colta "in se stessa". Rimane, sotto questo profilo, una specie di noumeno.

La teologia della liberazione ha conosciuto, a partire dalla metà degli anni '70, una fase di ripensamento, di cui il protagonista sembra essere Cl. Boff il quale si assume esplicitamente il compito di ripensare la TL, superando quanto di ideologico in essa è presente.

164. Ibid. p.175165 . Sacerdote gesuita.

118

Page 119: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

I problemi da chiarire, a tal scopo, sono quelli già fatti notare negli autori precedenti, e cioè il rapporto della TL con le scienze umane, a partire dal legame della teologia con la prassi, da un lato, e con la Bibbia, dall'altro.

Boff non smentisce il primato della prassi di liberazione rispetto alla riflessione teologica, o critica, la quale viene sempre "dopo". Tuttavia, precisa, la prassi non può entrare direttamente nella elaborazione teologica, quasi che l'impegno dei cristiani per la liberazione potesse risolversi immediatamente in visione teologica. E' inevitabile la mediazione della teoria che offre una conoscenza elaborata della situazione concreta. Tale teoria è notoriamente costituita dalle scienze umane.

Tuttavia, tra queste e la teologia non è possibile stabilire un sodalizio come quello che intercorse nel passato con la filosofia. Le scienze umane, o più in generale la ragione pratica moderna, si risolvono nella comprensione della prassi e nella sua modificazione mentre la teologia deve riferirsi alla verità assoluta e incondizionata e quindi deve trascendere l'orizzonte delle scienze umane, nel momento in cui dipende da esse per il contatto con la realtà storica.

Dall'altro lato, a riguardo cioè del problema dell'ermeneutica biblica, il primato riconosciuto anche da Boff alla prassi, porta con sè una certa idea di teologia. Essa viene "dopo" l'impegno pratico della Chiesa a favore dei poveri e suo compito non è quello di criticare tale impegno ma di "legittimarlo" alla luce della Bibbia. Mostrare, in altri termini, che tale "prassi" cristiana è conforme all'ermeneutica teologica della Rivelazione e cioè, in altri termini, che non esiste differenza tra la comprensione della Bibbia che spontaneamente scaturisce dalla prassi di liberazione con quella "critica" operata dalla teologia.

Il punto centrale di tale ermeneutica è che il nucleo della Bibbia è la carità nella quale la fede si incarna e si realizza e viene anche costituita in prassi.

Ma, ovviamente, la tradizionale prassi cristiana della carità non ha mai ricevuto una determinazione politica così precisa come vogliono i teologi della liberazione. Non è sufficiente affermare che già il Vangelo è stato scritto con un "interesse" politico, perché ciò è vero solo in senso molto generale, in quanto cioè ogni azione umana ha una sua intrascendibile valenza politica. Il Vangelo, infatti, ha l'interesse più ampio e profondo che è quello "dell'attesa veterotestamentaria, riletta in chiave cristologica"166 e che è un interesse "religioso" prima e più che politico.

La "carità" resiste, quindi, ad una sua riconduzione al politico e chiaramente risulta che la "prassi" cristiana ha una sua specificità che va riconosciuta e che, certo, non la isola dalla storia e dalla politica, anzi, ma costringe a comprenderla teologicamente e non politicamente.

I punti nevralgici della TL, che rimangono problematici anche dopo il tentativo di ripensamento del Boff, sono due: il rapporto tra la riflessione teologica e le scienze della prassi o della storia, da un lato, la funzione della teologia in rapporto alla prassi ecclesiale, dall'altro.

Le due Istruzioni 167 della Congregazione per la dottrina della fede, dedicate alla TL, li mettono in evidenza. Da una parte in esse si riconosce che "il Vangelo di Gesù Cristo è un messaggio di libertà e una forza di liberazione" e che "l'irresistibile aspirazione dei popoli a una liberazione costituisce uno dei principali Segni dei tempi che la Chiesa deve scrutare" (G. et Spes 4), ma, dall'altra, si ricorda che la liberazione cristiana è innanzitutto liberazione dal peccato, dal quale scaturisce ogni

166. Colombo, in Teologia 1/1988 p. 12167. Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione, 1984; Libertà cristiana e liberazione, 1986.

119

Page 120: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

altra forma di schiavitù. Non si può ricondurre la Bibbia, ad esempio l'Esodo, ad un'ottica politica nè restringere il campo del peccato al cosiddetto "peccato sociale" o alle "strutture" economiche, sociali e politiche. Trascurando la responsabilità personale e la dimensione personale della perfezione cristiana, si soffoca l'idea stessa di persona e si distrugge l'etica.

L'aspirazione dei popoli alla liberazione è dunque un grande segno dei tempi e una teologia della liberazione è pienamente legittima, occorre però che essa muova da un concetto cristiano di libertà, come si dedica a chiarire la seconda Istruzione. Una libertà mediata dalla verità, fondata sulla conoscenza dell'immagine di sè che è Dio a dargli e che non può quindi essere confusa con le forme di auto-liberazione dell'uomo.

In tale prospettiva, la libertà umana non può non evidenziare la realtà del peccato, alla cui radice c'è la presunzione di soddisfare da sè la propria "sete di infinito", utilizzando le risorse economiche e politiche.

Conclusione

Ciò che è comune alla tradizione cattolica e a quella protestante è una certa sacralizzazione dell'ordine sociale, un certo «patriarcalismo», che cerca il fondamento dei poteri e delle leggi sociali nella disposizione divina; e prescinde dalla considerazione della società storica concreta con la sua dinamica e le sue rnutevoli caratteristiche. Questo carattere comune non può essere semplicisticamente messo sul conto del carattere «teologico» di tali dottrine. Esso è evidentemente legato all'esperienza storica che sottende la riflessione di Tommaso e di Lutero, come degli altri. l'esperienza di una società sacrale, in cui, pur esistendo due poteri distinti (l'ecclesiastico e il civile), essi erano esercitati in nome di un'unica autorità trascendente, universalmente riconosciuta dall'unica fede e dall'unica cultura della società; l'esperienza di una società statica, le cui norme e i cui rapporti sociali non mutano, o comunque mutano con una lentezza tale da poter essere ritenuti momento per momento come immutabili e quindi «naturali».

Questi due presupposti vengono meno all'inizio dell'epoca contemporanea: paradigmaticamente potremmo dire: con la Rivoluzione francese e la critica illuministica viene meno il primo presupposto, con la rivoluzione industriale viene meno il secondo. Da allora ha inizio una riflessione sull'imperativo sociale, che da un lato cerca il fondamento prossimo di esso nella volontà degli uomini (per quanto, eventualmente, volontà eticamente normata, e non arbitraria) e nelle necessità della loro vita comune, al di là delle diverse credenze religiose; d'altro canto, una riflessione che considera storicamente e dinamicamente la società e il suo rapporto con le istituzioni, mediante le quali essa si dà una struttura ed un ordine.

A tale riflessione contemporanea dedicheremo il capitolo seguente.La divergenza di orientamenti invece da noi qui rilevata - cattolico e

protestante tomista e agostiniano, ottimistico e pessimistico nella valutazione del significato degli ordinamenti giuridici e politici della società - è espressione di un problema obiettivo, storicamente mai risolto in maniera soddisfacente, e probabilmente mai risolvibile in formule chiare e distinte, che non scompare con l'avvento della nuova problematico. È il problema costituito dall'essenziale inerenza dell'attributo del potere all'autorità politica quale di fatto essa si configura nell'esperienza sociale universale; l'attributo del potere, prima d'essere proprio

120

Page 121: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dell'autorità politica, è proprio dei rapporti interumani, e in tale contesto può essere ad esso assegnato un nome più esplicito: il potere è sopraffazione, è egoismo, è affermazione prevaricante del proprio essere e del proprio avere in concorrenza con l'essere e l'avere dell'altro. Da questo «peccato originale» scaturiscono anche i rapporti strutturanti le società civili, che sono rapporti resi certi dal continuo ricorso al ricatto del potere, pensiamo per eccellenza ai rapporti commerciali, regolati dallo scambio del denaro, oggettivazione razionale e calcolabile del potere rispettivo dei singoli.

121

Page 122: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

IL MESSAGGIO BIBLICO

SUI RAPPORTI SOCIALI

Antico Testamento: dall'Israele etnico all'Israele escatologico

Come accostarsi ai testi biblici, dal punto di vista della morale sociale? Sono testi diversi da ogni altro testo fin qui considerato; sono testi per la fede,

anzitutto, e non solo per lo studio.

Con quali domande ci accingiamo a leggerli? Che cosa immaginiamo di trovarvi, per quanto riguarda il nostro tema?

Gli interrogativi con cui vogliamo accostarli sono quelli emersi dall’itinerario storico compiuto e riguardano il rapporto tra l’evento divino ed il suo contesto storico. La Bibbia attesta l’evento ed insieme attesta il suo contesto storico.

Seguiremo la consueta scansione cronologica, anche se dal punto di vista teologico si dovrebbe leggere l'Antico Testamento a procedere dall'evento cristiano. Ma non sono ancora maturi i tempi.

Organizziamo la nostra lettura dell’A.T. secondo lo schema dei tre grandi generi letterari: legge, profezia e sapienza. Essi coprono ciascuno un a delle tre principali epoche della storia di Israele e precisamente l'epoca fondativa, l'epoca del fallimentare esperimento monarchico ed infine quella della trasformazione della coscienza del popolo eletto a seguito della definitiva rottura dell'ideale etnico.

La tesi ermeneutica che ci guiderà nella lettura del testo sacro è quella che vede l’intera storia del popolo eletto come storia della dissociazione tra regno di Dio e regni terreni e cioè come progressiva purificazione dell'idea di elezione dall'iniziale significato politico o terreno.

122

Page 123: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

1. L'Allenza e la legge. Il "diritto" nella tradizione mosaica.

Il primo e fondamentale momento della storia della salvezza è quello dell'Alleanza mosaica. Elemento essenziale di questa Alleanza è la Legge di Dio: questa legge nel suo significato «religioso»168 è definita interamente dalla vicenda storica attraverso la quale si costituisce l'Alleanza, ma nei suoi contenuti materiali deriva largamente dal diritto consuetudinario dell'antico oriente, preesistente all'Alleanza mosaica, e di questo patrimonio segue l'evoluzione anche nell'epoca posteriore a Mosè. Sicché, attraverso la combinazione dei due aspetti, prende forma un giudizio, una interpretazione di quella realtà - il diritto consuetudinario - che sta a fondamento dell'esperienza sociale di Israele169.

Precisiamo dunque innanzitutto il significato religioso della legge. Com'è noto non sussiste ancora un accordo degli studiosi circa il momento e le circostanze in cui l'Alleanza divenne quadro sintetico di riferimento della coscienza di Israele come popolo di Jahveh170. Ma è comunque convinzione comune che la Legge compaia nella tradizione biblica soltanto entro il quadro dell'Alleanza, che ne definisce quindi il senso.

Ora, dell'Alleanza fa parte strutturale un preambolo storico, come risulta dal testo biblico e come risulta dall'analisi dei trattati di vassallaggio ittiti, dai quali sembra derivare il modello formale dell'Alleanza stessa171: la legge appare come il complesso di comportamenti a cui il vassallo è tenuto per mantenersi sotto la protezione del sovrano, il quale lo ha beneficato per il passato. Passato e futuro, azione di Dio già compiuta e promessa sono gli estremi entro i quali si stabilisce il patto tra Dio e il popolo.

Al di là dello schema tecnico dell'Alleanza è possibile rilevare alcune costanti nella rivelazione di Dio dell'Antico Testamento. Dio si manifesta come colui che promette e promettendo chiama. Chi Egli è si manifesterà compiutamente nel futuro attraverso la sua fedeltà alla promessa172.

Ciò che Dio promette è semplicemente la vita dell'uomo: la discendenza, i pascoli, una terra fertile, la casa, una vita lunga, e così via. I gesti potenti mediante ì

168. Il termine «religioso» non gode di buona fama oggi, ed è consueto per una certa letteratura (secolarizzante) contrapporre la religione alla fede; senza entrare nella discussione, usiamo qui «religioso» nel senso generico di inerente ai rapporti tra Dio e gli uomini.169 . JAEGER N., Il diritto nella Bibbia. Giustizia individuale e sociale nell'Antico e nel Nuovo Testamento, Pro Civitate, Assisi 1960. Testo valido dal punto di vista contenutistico più che della problematica generale da noi qui affrontata. 170. Cf. gli accenni alle tesi sostenute dai più autorevoli studiosi (protestanti) in VINK, In jahveh nostro Dio è la salvezza,in "Concilium" III/70 (1967) 73-83 (le concezioni dell'autore - cattolico - sono alquanto discutibili). Secondo G. VON RAD (Théologie de l'A.T., Labor et Fides, Genève, 1963, I vol., pp. 19 ss. 26 ss. 166 ss.) la pericope del Sinai sarebbe una tradizione inserita in un secondo momento nell'originario credo storico d'Israele (come appare per es. in Deut 26); all'origine di tale inserzione starebbe la federazione (di Sichem?) tra le tribù israelitiche nel periodo cananaico.171. Cf. K. BALTZER, Das Bundesformular, Neukirchen, 1960: gli elementi strutturali del berith sarebbero: preambolo storico, presentazione delle parti, contenuto dell'alleanza per il futuro, disposizioni particolari (= legge, nell'alleanza sinaitica), maledizioni e benedizioni.172. In questa luce va letta la pericope della rivelazione del nome di Jahveh, Es 3, 13-15, secondo l'interpretazione per esempio di G. VON RAD, Op. cit., pp. 159-165. Per l'argomento « rivelazione » - e quelli strettamente connessi di « avvenimento salvifico » e « promessa » - si può utilmente vedere la rassegna di tesi teologiche svolta da J. MOLTMANN, Teologia della sp«anza, Queriniana, Brescia 1970, pp. 95-121.

123

Page 124: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

quali Egli opera nella vita dell'uomo (liberazione dall'Egitto) sono il pegno della sua fedeltà, l'antefatto dell'Alleanza da Lui offerta ad Israele.

Di fronte a questa rivelazione, intesa come promessa, sta la fede vissuta come affidamento a Dio e alla guida che Lui assicura nel cammino futuro. Fede che si esprime in primo luogo come risposta ad un imperativo preciso: «Esci da questo paese...» (Gn 12, 1); «Ora va', ti mando dal Faraone... » (Es 3, 10); « Ho deciso di farvi salire dall'Egitto, dove siete oppressi, verso il paese dei Cananei... » (Es 3, 17).

Non si tratta di imperativi morali ma di indicazioni pratiche precise, dalle quali è fatta dipendere la possibilità della salvezza dalla schiavitù egiziana.

Solo in un secondo tempo, a liberazione effettuata, Dio imporrà al popolo una legge morale. Essa si esprimerà nel consueto linguaggio dei precetti e dei divieti ma manterrà lo stesso significato di quelle indicazioni pratiche da cui scaturì la liberazione dall'Egitto. Le leggi che Dio da al popolo indicano come proseguire il cammino a cui l'uscita dall'Egitto ha dato inizio. Cammino di libertà e di vita.

Il significato fondamentale della Legge è strettamente correlato con l'evento della liberazione o con la promessa divina. I suoi contenuti materiali sono invece derivati dal diritto consuetudinario delle tribù di Israele: non tutti i suoi contenuti, ma una parte cospicua di essi; precisamente si tratta dei comandamenti della seconda tavola, per riferirci allo schema del decalogo.

Per avere un'idea della parentela tra legge mosaica e diritto consuetudinario antecedente è opportuno leggere il Codice dell'Alleanza (Es 21-23): le sue enunciazioni casuistiche, estremamente analitiche, non lasciano dubbi.

Che importanza ha tutto questo per il nostro argomento? Importanza enorme: la legge è il primo strumento che connette la storia particolare della salvezza con la storia umana universale, la prima forma mediante la quale la storia di Israele diventa interpretazione dell'esperienza sociale di tutti i popoli. Il diritto, che tradizionalmente strutturava e custodiva il vivere sociale, è riconosciuto anche come esigenza di Dio nei confronti del suo popolo, e cioè come la strada che conduce il popolo verso la promessa. Certo, in questa reinterpretazione il diritto ha conosciuto, e sempre più conoscerà in seguito, anche correzioni e complementi: ma più significativo dei successivi apporti materiali della tradizione mosaica è il riconoscimento di massima che nel diritto si esprime un'istanza divina, quella della fedeltà tra Dio ed il suo popolo.

Il primo legame istituzionale tra le tribù di Israele pare costituirsi appunto sulla base di tale «diritto sacro». Segno della forza di tale consapevolezza è il relativo ritardo dell'approdo ad una organizzazione politica monarchica e cioè un'organizzazione abbastanza forte da permettere il confronto militare con i popoli vicini. Per svariati decenni Israele è stato governato dai "giudici" (Gdc 10, 1-5; 12, 7-15; 1 Sam 7, 15 ss) i quali rappresentarono l'unica istituzione politica in Israele.

2. La monarchia davidicaL'istituzione politica fu, dopo quella giuridica, la seconda fondamentale realtà

sociale integrata nella storia della salvezza; divenne anch'essa struttura di Israele come popolo di Dio, mediazione quindi della signoria di Dio stesso. La monarchia davidica non nacque, infatti, come esecuzione di prescrizioni miracolisticamente

124

Page 125: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dettate dal cielo, ma fu il risultato di un giudizio e di una scelta di Israele nei confronti dell'organizzazione politica degli altri popoli.

Le due istituzioni politiche - giuridica e monarchica – ebbero valutazioni alquanto diverse in Israele. Entrambe costituiscono una sorta di 'secolarizzazione' dell'evento religioso che sta alla base dell'identità di Israele e tuttavia l'assunzione mosaica di modelli giuridici non comportò una reazione come invece accadde per l'assunzione del modello politico. Non esistono testi biblici nei quali si esprima un giudizio critico nei confronti del diritto degli altri popoli.

È invece presente la diffidenza, e addirittura la condanna, nei confronti del potere politico, della sovranità di un uomo sugli altri uomini. Si vedano a questo proposito la parabola di Iotam (Gdc. 9, 8 ss. La parabola degli alberi) contro Abimelek e la sua pretesa di farsi protettore dei figli di Israele; la condanna del censimento voluto da David (2 Sam. 24), un tipico atto di sovranità politica secondo i modelli esistenti; e soprattutto la versione antimonarchica che I Sam (8; 10, 17-24; 12) dà dell'istituzione della monarchia, presentato come un peccato, un'insubordinazione del popolo nei confronti di Jahveh.

Non tutti i testi sono di tale tenore; ma anche i testi che presentano la monarchia quale istituzione voluta da Jahveh per il suo popolo (II Sam 5, 1-5, da leggere a confronto con Giosuè 24, e cioè il patto di Sichem) pongono l'accento su alcuni aspetti che distinguono nettamente la monarchia davidica da quella degli altri popoli. Il re è «unto da Jahveh» (1 Sam 10, l; 24, 7.11 ... ) e rimane soggetto alla legge (vedi il ritratto ideale in Dt 17, 14-20)173, soggetto all'istruzione del profeta (vedi il ripudio di Saul).

Di questa monarchia jahvistizzata si manifestano immediatamente le contraddizioni fatali relative ad un re che governa per sé e non per Dio e per il bene del popolo; contraddizioni che risultano essere troppo radicalmente iscritte nell'istituzione politica in generale, perché la monarchia di Israele se ne possa liberare.

Di fatto, già a proposito dei re Davide e Salomone - sotto molti aspetti ricordati poi come monarchi ideali - il racconto biblico deve rilevare grandi colpe: l'uccisione di Uria da parte di Davide, la contaminazione del culto jahvistico che segue alle esigenze della diplomazia e dell'harem sotto Salomone.

Non sono solo le colpe dei monarchi a determinare le contraddizioni della monarchia; è l'organizzazione sociale conseguente alla sua istituzione a costituire elemento di contraddizione con la fede in Dio e cioè le discriminazioni tra ricchi e poveri, l'esistenza di una corte, di un esercito, di un'amministrazione centralizzata le quali determinano il primato della città sulla campagna ed il conseguente sfruttamento della prima nei confronti della seconda (vedi soprattutto Is 5, 8 e Mi 2, 1 ss). La gerarchia politico-amministrativa moltiplica le possibilità di abusi a tutti i livelli: giudici, sacerdoti, capi di ogni genere diventano il bersaglio costante dei profeti, che d'altra parte contrappongono a loro quelli che sono senza potere, e cioè poveri, contadini, orfani, vedove.

173. È molto significativo: il ritratto del re ideale non è tracciato indicandone le funzioni positive, ma elencando le tentazioni dalle quali dovrà guardarsi! Della monarchia - impostasi per una necessità storico-politica - Israele avverte soprattutto i pericoli; l'ideale di essa è quello che si condenserà nelle profezie messianiche.

125

Page 126: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

In complesso dobbiamo dire che l'intera storia della monarchia davidica (1 e 2 Sam, 1 e 2 Re) costituisce un ininterrotto processo nei suoi confronti, sempre monotamente concluso con una condanna. Questa storia peraltro è stata scritta dalla tradizione deuteronomistica, e riflette il punto di vista della predicazione profetica alla quale ora dobbiamo esplicitamente riferirci.

3.La predicazione profeticaIl crollo della monarchia divisa nei due regni del nord e del sud, soprattutto il

crollo della monarchia di Giuda, divide la storia del profetismo in due periodi abbastanza nettamente distinti.

Mentre interlocutore della predicazione dei primi profeti è Israele nel suo complesso, rappresentato e condannato dalla persona del suo re e nelle sue istituzioni pubbliche, dopo la distruzione di Gerusalemme, interlocutrice diventa la comunità dei credenti, prima nella condizione di esilio, poi nell'esistenza sempre precaria del periodo giudaico.

Schematizzando un poco, potremmo così caratterizzare i due periodi sotto il profilo che ci interessa: prima dell'esilio i profeti pronunciano una condanna nei confronti del progetto di realizzare il regno di Dio con gli strumenti propri dei regni di questa terra; nel secondo periodo i profeti scoprono nel cuore stesso dell'uomo - di ogni uomo - le radici del male, e alla luce di questo giudizio sul cuore umano è espresso anche il giudizio sulla realtà storico-sociale nel suo insieme e quindi la speranza di una nuova Alleanza.

Cercheremo di precisare e documentare sommariamente questa linea interpretativa, indicandone le rilevanti conseguenze dal punto di vista che ci interessa.

3.1. I grandi profeti dell'VIII secolo

I profeti scrittori che rappresentano il primo periodo sopra delineato sono Amos, Osea, Michea e Isaia. Interlocutori di questi profeti - dicevamo - è il popolo di Israele nel suo insieme174. E tuttavia i peccati di Israele analiticamente denunciati sono, nella quasi totalità, peccati di particolari categorie di persone, quelle che hanno un potere in Israele175: potere politico (il re, e poi tutti i capi subalterni, i giudici 176) o cultuale (i sacerdoti, che praticamente erano funzionari del re177), o economico (i ricchi178).

Il significato di questa concentrazione dell'accusa sui peccati pubblici di Israele ci pare debba essere cercato nella stretta solidarietà che mediante la Legge e l'istituzione monarchica sussiste tra la realtà socio-politica di Israele e il popolo di

174. Si vedano, tra i molti testi che possono documentare questa affermazione: Am 3, 1.13; 5, 4; 9, 7; Os 1, 2.6; 2, 4; 4, I; 5, 1 ss.175. Vedi il testo sintetico e significativo di Is 3, 1-5.176. Vedi Is 10, 1-4; Am 2, 6; 5, 7; 6, 12; Is 1, 17.23; 51 20.23; Mi 3, 1-3.9-11; 7, 3 s. Anche i falsi profeti possono essere inclusi in questa categoria, come funzionari della monarchia, vedi Mi 2, 5-8; Am 7, 12. Si veda anche e soprattutto quanto verrà detto sotto a proposito della predicazione di Isaia contro Achaz e Ezechia.177. Vedi Os 4, 4-10; 6, 9; Mi 3, 11.178. Vedi per esempio Am 8, 4-8; Mi 2, 11; 6, 9-12; Is 5, 11-13.

126

Page 127: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Dio: proprio perché le istituzioni pubbliche di Israele si appellano come a loro legittimazione a quella stessa tradizione storico-salvifica che definisce l'identità del popolo di Dio, i profeti non possono non rilevare la contraddizione tra volontà di Dio e vita pubblica di Israele; non possono d'altra parte fare responsabili della vita pubblica di Israele altri che coloro i quali hanno potere e dovrebbero con il loro potere essere ministri della giustizia di Dio.

Al di là di questo o quell'abuso contingente, si fa progressivamente luce su una contraddizione radicale tra l'intenzione divina, espressa nella Alleanza e tenuta viva dai profeti, e la realizzazione storica di tale intenzione nella forma di una « teocrazia», di una società politica sacra. Di tale contraddizione sono un segno chiaro le pretese assurde che Isaia eleva nei confronti dei re di Giuda. Achaz, in occasione della guerra siro-efraimita, non dovrebbe temere, non dovrebbe difendersi altro che con la fede nella promessa di Dio (Is 7, 9. 10-25; cf. tutto il c. 7): non è chi non veda l'impraticabilità politica di questa strategia, ed Achaz è costretto dalle necessità intrinseche del conflitto di potere a cercare alleanza con la Siria. Analogamente Ezechia deve cercare aiuto in Egitto contro la Siria, ma per Isaia questo è insopportabile dal punto di vista della fede (30, 1-7); ed egli si accanisce contro i consiglieri diplomatici del re (28, 14 s. 17b-22, 29, 15-24). Indubbiamente, occorre tenere presente, per comprendere questa opposizione del profeta all'alleanza militare con paesi stranieri, la congiunzione generale tra religione e politica, caratteristica della cultura comune di allora. Ma questo non cambia i termini del problema: la sussistenza di una entità nazionale è problema di potere; e se invece la sussistenza del popolo di Dio deve essere affidata unicamente alla giustizia, alla obbedienza nei confronti di Dio, e non al potere, vuol dire che la sussistenza che Dio vuole per il suo popolo non può essere sussistenza politica. Si veda nella stessa luce la predicazione di Isaia contro i preparativi militari di ogni genere (22, 8b-14).

Viene così costituendosi una divaricazione sempre più profonda e incolmabile tra la speranza « messianica»e il futuro storico empirico del regno presente. Si leggano in questa prospettiva le profezie dell'Emmanuele (7, 10-25; 11, 1-9). Tale divaricazione porta in sé implicito il giudizio che dichiara fallita l'esperienza teocratica di Israele: non è un regno dello stesso genere dei regni di questa terra quello che può incarnare il regno di giustizia e di pace, del quale Israele va in cerca sulla scorta della promessa di Dio e in obbedienza ai suoi comandamenti. I fatti della storia sanciranno il giudizio dei profeti: con la caduta di Gerusalemme nel 587 il regno di Israele sparirà praticamente in maniera definitiva dalla faccia della terra.

3.1.1. I profeti del periodo dell'esilio

Il periodo dell'esilio fu decisivo nella storia della fede veterotestamentaria: al trauma specifico della fede connesso con la fine della monarchia davidica, si sovrappose il trauma culturale connesso al nuovo e più stretto contatto che allora si stabilì tra la tradizione jahvistica e le diverse culture, tra la fede nel Dio unico Signore della storia e i popoli che vivevano ignorando tale signoria. L'emergere più chiaro della coscienza individuale da un lato, e l'attenzione ineluttabile alla storia universale costituiscono le prospettive di fondo che le circostanze storiche imposero alla predicazione dei profeti più recenti.

Ci interessano soprattutto le figure di tre grandi profeti: Geremia, Ezechiele e lo sconosciuto autore del deutero-Isaia. I primi due contemporanei della catastrofe

127

Page 128: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

del 587, il terzo vissuto nel periodo immediatamente precedente la fine dell'esilio; tutti tre comunque sono interessati alla situazione spirituale nuova, creata dalla fine politica di Israele e quindi dalla rottura dello stretto connubio tra realtà sociologica e realtà storico-salvifica del popolo di Dio.

Geremia inizia il proprio ministero quando ancora esiste la monarchia, e nel suo libro si trovano oracoli contro il re e quelli della sua casa, del tipo visto in precedenza (cf. per esempio 22, 11-23, 5). Ma già in Geremia la prospettiva imminente della fine del regno di Giuda (per esempio, 22, 24-30; 36, 30-32) rende inattuale la predicazione della conversione rivolta ai capi: per quanto riguarda questa esistenza pubblica di Israle e unica preoccupazione diventa quella di illustrare il significato della sua fine179.

La fine del regno rende d'altra parte problematico la stessa sopravvivenza della fede jahvistica, tanto era stretto il legame tra questa fede e il destino di quel regno. Il giudizio che interpreta la caduta del regno di Giuda come castigo per il peccato rischia di apparire arbitrario e impertinente per i singoli, i quali, sono colpiti dall'evento180: a prescindere dalla loro partecipazione o meno alle responsabilità pubbliche. C'è un proverbio in Israele che suona in questo momento come una protesta contro Dio: «I padri hanno mangiato uva acerba, e sono stati i figli ad avere i denti allegati» (31, 29). Geremia nega la validità di questo proverbio, ma la sua negazione ha soltanto il valore di una promessa (31, 30) più che un'affermazione di fatto; Ezechiele sarà molto più categorico (14, 12-20; 18; 33, 10-20). Correlativa all'affermazione del principio della responsabilità individuale è la denuncia del peccato personale, del peccato che non è più colto e denunciato nelle sue dimensioni pubbliche e nei responsabili della vita ufficiale, ma nella radice immanente al « cuore»di ogni individuo181.

A questi individui appunto è rivolta ormai la predicazione dei profeti, e non più alla persona corporativa del popolo; ad essi, che vedono svanire con l'esistenza di Israele e delle sue istituzioni i punti di riferimento decisivi per la loro identità individuale, occorre ora indicare in forma nuova il senso della promessa e del comandamento di Dio.

Per quanto riguarda la forma nuova della promessa, soprattutto interessanti sono i testi sulla «Nuova Alleanza» concepita come rinnovamento dei cuori (Ger 31, 31-34; Ez 36, 24-28): interessanti dal nostro punto di vista, in quanto essi sanciscono l'insufficienza della legge antica; l'insufficienza di quella legge che consisteva materialmente in disposizioni giuridiche, e quindi interessava i rapporti sociali, era scritta «sulla pietra», controllava l'azione esterna ed oggettiva, socialmente rilevante e sanzionabile, del comportamento. Decaduta l'alleanza sotto il segno di questa Legge è anche decaduta ineluttabilmente - nonostante le illusioni del tardo giudaismo - l'edizione giuridico-politica del popolo di Dio, ossia la possibilità di porre l'alleanza con Dio a fondamento di una convivenza civile. L'affermazione è confermata dal modo di parlare della nuova Alleanza proprio del deutero-Isaia: pensiamo soprattutto ai canti del Servo. Non ha molta importanza determinare se questi canti debbano essere intesi o no come « messianici»;la terminologia messianica - liberamente

179. Oltre ai molti passi di Geremia (cf. per es. c. 2; 18, 13-17, e la sintesi della prima predicazione di Geremia in 25, 1-13), vedi le grandi parabole di Ezechiele (cc. 16; 20; 23) sulla storia di infedeltà di Israele.180. Dalla visione simbolica dei due cesti di fichi (24, 1-10, cf. in particolare v. 8) sembra addirittura che « il re e i suoi grandi » siano sfuggiti alla deportazione, sopportata invece dai «fichi buoni».181. Geremia parla di « inclinazione del cuore perverso », 7, 24; 9, 13; 13, 23; Ezechiele di «testa dura e cuore incallito», 2, 3 s; cf. anche Ez 3, 26 s; Gr 8, 21; Gs 24, 19.

128

Page 129: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

ripresa dal deutero-Isaia come da Geremia ed Ezechiele182 - non pare possa essere intesa come allusione alla ricostituzione del regno passato, ma deve semplicemente essere intesa come affermazione della fedeltà di Dio a quelle promesse che appunto nella promessa a Davide avevano trovato una prima e fondamentale espressione; sicché il riferimento o meno di questa o quella profezia al luogo classico del messianismo appare secondario183. Quello che importa rilevare è come nelle profezie del Servo si affermi che l'annuncio inerme della parola - e non l'esercizio di un potere regale in senso politico - porterà sulla terra il diritto e la verità di Jahveh (42, 1-4); la pazienza, l'umiltà, la mansuetudine, la disposizione a portare su di sé i peccati del popolo faranno sì che il Servo ottenga prerogative regali (42, 1.4; 49, 5 s; 52, 13; 53, 12), che la regalità stessa di Dio. si stabilisca sulle nazioni.

Non solo la promessa assume forma nuova agli occhi del popolo di Dio, ma anche il comandamento di Dio. Mentre la prima Legge era per Israele, e il resto dei storia era giudicato come dall'esterno, a partire dalla sua contrapposizione globale al popolo eletto, ora le pareti di Israele si spezzano e la storia universale diventa il teatro immediato dell'esistenza di ogni ebreo: su di essa diventa essenziale farsi un giudizio a partire dalla parola di Jahveh, un giudizio che permetta quindi le scelte concrete.

Un testo decisivo, dal quale risulta con chiarezza la nuova prospettiva universalistica nella quale deve essere ora vissuta la fedeltà a Jahveh, è la lettera di Geremia agli esiliati (c. 29). L'atteggiamento dei destinatari che essa presuppone è appunto quello del disorientamento e della paralisi: com'è possibile la fedeltà alla Legge di Jahveh, alla tradizione dei padri, nella nuova condizione di vita, entro strutture del vivere sociale che non conoscono Jahveh, che anzi si riferiscono a divinità che sono idoli (conformemente al nesso culturale ancora stretto tra convinzioni religiose e vita civile)! Geremia risponde categoricamente che è possibile, che anzi questa appunto è la volontà di Jahveh: che essi riprendano la vita normale, che piantino giardini e mangino, che si sposino e generino nel paese pagano, che addirittura preghino per il paese che li occupa (29, 4-7). Perché anche Babilonia sta sotto la signoria di Dio, e anche di essa può servirsi il governo di Lui in vista del bene del suo popolo. Dunque, la distinzione tra Israele e non-Israele cessa di essere la distinzione tra il partito di Dio e il partito avversario: il che evidentemente non vuol dire che non ci sia avversario di Dio nella storia, ma semplicemente che questo avversario deve essere individuato al di là di quella distinzione. Il deutero-Isaia arriverà all'incredibile attribuzione del titolo di « messia» ad un re pagano come Ciro (Is 45, 1), la cui opera è interpretata in senso storico salvifico.

Tuttavia se cade la preclusione pregiudiziale nei confronti delle nazioni, per un altro verso non cessa - ed anzi proprio a partire dal periodo dell'esilio diventa più netta - la condanna universale nei loro confronti. Non si tratta più di una condanna portata dal di fuori, dal punto di vista della sopravvivenza del popolo di Dio che si sente minacciato dagli altri popoli, ma di una condanna la quale coglie l'aspetto intrinseco di incredulità e di presunzione che sta a fondamento di ogni impero, di ogni grande costruzione civile della storia.

182. Per esempio Gr 23, 5-6; 30, 21; Ez 34, 23 ss; 37, 24; da porre a confronto con i testi che pronunciano una condanna irrevocabile della dinastia davidica: Gr 22, 24-30, 36, 30-32; Ez 22, 30.183. Significativo è i1 testo di Is 55, 3b-4, dove si passa con indifferenza dalle promesse di David alle promesse rivolte al « tu » collettivo del popolo.

129

Page 130: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

È questo il significato complessivo delle molte raccolte di oracoli contro le nazioni che figurano nei libri profetici184: il linguaggio di tali oracoli è piuttosto stereotipato, la accusa di orgoglio è quella più frequentemente ribadita 185; ma in qualche caso essa si concreta nella allusione all'inganno della prosperità, del commercio florido (Ez 27-28), che crea l'illusione della sicurezza, e l'incentivo all'inganno (Ez 28, 5, 17 s).

3.1.2. La letteratura apocalittica e le tradizioni di Gn 4-11

La condanna contro le nazioni assumerà il suo sviluppo più rigoglioso nel periodo del tardo giudaismo e della letteratura apocalittica, sullo sfondo del clima di persecuzione (Antioco Epifane): si vedano le molte visioni simboliche del libro di Daniele.

Più interessanti - sempre nella prospettiva di individuare il messaggio biblico sulla realtà sociale universale - sono i cc. 4-11 della Genesi, per intendere i quali ci sembra risulti molto illuminante l'accostamento ai due aspetti della predicazione profetica che abbiamo sopra messo in evidenza: per un verso la storia dei popoli è divinizzata, è tutta ricondotta al governo supremo e provvidente e unico Jahveh , il quale quindi non è straniero in nessun popolo; per altro verso essa è interpretata come storia di peccato. Questi medesimi punti di vista si intrecciano nella ricostruzione della storia dell'origine dei popoli nei primi capitoli della Genesi. Più precisamente, i due punti di vista sono dominanti rispettivamente nei testi delle tradizioni P e J, che in quei capitoli si intrecciano.

Le genealogie della tradizione sacerdotale (5; 10; 11, 10-27.31-32) hanno il significato di riportare i diversi popoli allora conosciuti all'unica origine divina. È significativo che nella tavola universale dei popoli del c. 10 Israele neppure figuri distintamente in mezzo alle altre nazioni: Israele non celebra miticamente i propri natali divini. Ancora - ed è l'aspetto che più interessa sotto il nostro profilo - la stessa tradizione, nonostante conosca la decadenza storica dell'umanità (cf 6, 11 s.), presenta l'ordine storico attuale (9, 1-17) come ordine provvidenziale, benevolmente disposto da Dio per venire incontro alla decadenza umana (autorizzazione a mangiare le carni animali, delega agli uomini della vendetta del sangue, delega che sta a fondamento della autorità giurisdizionale).

La seconda tradizione, quella Jahvista, sembra al contrario ispirata ad una valutazione pessimista della civiltà: le trasformazioni culturali decisive (fondazione delle città, pastorizia, musica, lavorazione del ferro e del rame) sono riferite alla discendenza di Caino e poste sotto il segno della proliferazione della violenza (cfr. il canto selvaggio di vendetta di Lamek che termina la pericope Gn 4, 17-24).

Soprattutto, il racconto deha fondazione di Babele e della sua torre (11, 1-9) è significativo: l'impresa (e la tradizione non può non riferirsi alla Babilonia contemporanea, emblema degli imperi umani) è alimentata dall'ambizione futile e assurda dell'uomo di porre un bastione contro la precarietà e l'incertezza che

184. La tradizione degli oracoli contro le nazioni risale per altro già ai profeti anteriori: cf. Am 1, 3-2, 16; Is 13-23 (dove però figurano molti oracoli successivi all'esilio).185. Cf. già Is 10, 5-18; 14, 3-21; e per quanto riguarda i profeti che stiamo considerando: Gr 46, 7 s; 48, ls.7.14.42; 49, 4; Ez 27, 3, 28, 17; Is 47.

130

Page 131: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

minacciano la sua vita (11, 4); da questa impresa nascono le divisioni e l'incomprensione tra i popoli.

3.2. Fedeltà a Dio e ricchezza

L'A.T. presenta due fondamentali atteggiamenti nei confronti della ricchezza.

Il primo è di esaltazione dei beni economici, visti come segno di benedizione divina (Gen. 13, 2; 26, 13; Deut. 8, 7-10). L'uomo giusto non è dunque biasimato nè visto con sospetto; al contrario, la sua ricchezza e segno manifesto della sua giustizia verso Dio, della sua unione con Dio.

L'ebreo mostra di apprezzare la ricchezza per il fatto che essa rende possibile autonomia e indipendenza, oltre ad un certo agio. Ai beni che la ricchezza fornisce sono tuttavia anteposte la pace dell'anima, la buona fama, la giustizia, la buona salute (Pr. 15, 15; 22,1; 16,8; Sir. 30,14) e la sapienza (1Re 3,11).

Il Pr: 30, 7-9 si chiede al Signore un "equilibrio" tra ricchezza e povertà:

Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi nè povertà nè ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario perchè, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica "Chi è il Signore?", oppure, ridotto all'indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio".

L'apprezzamento della ricchezza che alcuni testi dell'A.T. manifestano è certamente legato anche all'idea sapienziale della retribuzione terrena: il giusto è ricompensato con il benessere e l'empio con la sofferenza. La miserio del giusto costituisce infatti uno scandalo per la coscienza religiosa ebraica, come testimonia il libro di Giobbe.

Il secondo atteggiamento si rivolge non tanto alla ricchezza e alla povertà ma alla figura del povero. L'ebreo vide in esso una persona della quale Dio ha cura particolare, una persona posta da Dio sotto la sua diretta tutela.

Bisogna azitutto tenere presente che il "povero" per l'ebreo non è colui che non possiede. Alla luce dell'Esodo il povero è colui che non ha terra, non ha stabile dimora, è in schiavitù. L'attenzione al povero è dunque riferita anzitutto allo straniero e allo schiavo (Es 22,21; Deut 10,18; 24,17.21;26,12-13;27,19; Is 1,17; Ger 22,3).

E' un atteggiamento che testimonia l'avvenuta riflessione ed il superamento della logica della retribuzione e dunque della identificazione tra ricchezza e benedizione di Dio.

A partire da tale persuasione l'ebreo si sente impegnato a rispettare e proteggere, a sua volta, il povero. Angariarlo significa infatti porsi contro la volontà divina. Da ciò derivano le leggi che hanno come scopo l'eliminazione o la riduzione della povertà (Deut 15. 23. 24. 26). Per tale via si arriva all'affermazione del povero quale amico di Dio, quale giusto ed infine al povero quale strumento di salvezza (il servo di Jahvè). Principio fondamentale sembra essere il rispetto della dignità del povero, la quale si concretizza anzitutto nel diritto alla vita, alla sopravvivenza (Lv 19,9-10; deut 24,19-22). Non c'è diritto di proprietà o interesse economico che possa anteporsi al diritto alla vita (vedi l'anno giubilare nel quale vengono annullati i diritti legali sulla proprietà minima di sopravvivenza dell'individuo).

In Sof 2, 3 troviamo espresso in modo esemplare tale passaggio da un senso puramente economico e sociale del povero ad uno religioso e addirittura messianico.

131

Page 132: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

L'annuncio del Regno ai poveri si colloca in tale tradizione di pensiero e di sensibilità religiosa veterotestamentaria.

3.2. Conclusioni sull'Antico Testamento

Riassumiamo i dati fondamentali emersi.1. Iniziale orizzonte collettivistico (tribale o etnico) del popolo ebreo, dentro il quale si

colloca la Rivelazione di Dio e la sua iniziativa salvifica. Nasce così la prima edizione - «teocratica» - del popolo di Dio: edizione che sarebbe stata radicalmente impossibile qualora nelle leggi e nelle istituzioni politiche del popolo non avesse trovato espressione, pur in forma ambigua e parziale, l'esigenza di giustizia e di pace tra gli uomini, che costituisce la vocazione del popolo di Dio.

La storia delle istituzioni politiche, quelle di Israele come quelle degli altri popoli, è tuttavia segnata dalla sopraffazione e dalla violenza. Tutti i regni della terra sono destinati a cadere sotto il giudizio di Dio: sono posti sotto il segno della contingenza e dell'ingiustizia. Israele è continuamente tentato di opporsi alla forza con la forza, tradendo la sua vocazione all'Alleanza, come denunciano i profeti. L'insegnamento che la storia impartisce ad Israele non è tanto quello di confidare nel Dio degli eserciti bensì nel capire il senso dell'elezione divina, la quale non conferisce un potere politico o militare ma si pone su un piano escatologico.

2. Un passaggio fondamentale è costituito dalla comprensione del fatto che le radici del male collettivo sono nel cuore stesso degli uomini: il cambiamento di questi cuori diventa, quindi, la forma nuova della alleanza e della promessa, la quale peraltro permane "promessa" di giustizia e di pace tra gli uomini. A questo punto, il superamento del nesso prima inscindibile tra persona e collettività è già superato - ci pare - non solo di riflesso rispetto all'evoluzione culturale generale (il sapiente babilonese od egiziano è colui che ha imparato a dire « io» e a rapportarsi come individuo agli altri), ma anche sotto la sollecitazione delle esigenze intrinseche nella predicazione profetica. È l'individuo, nella sua libertà e responsabilità interpellate immediatamente da Dio, ad essere posto di fronte alla promessa ed alla legge, è lui che è chiamato a farsi popolo di Dio. L'Israele del periodo giudaico - quello autentico, destinato ad accogliere la buona notizia di Gesù di Nazareth - ha la fisionomia di una libera comunità di fede, che vive come straniera e dispersa all'interno della grande società ordinata dalle istituzioni politiche e dalle tradizioni del senso comune.

3. La figura del giusto povero e sofferente, così tipica della pietà giudaica e drammaticamente espressa nella preghiera dei Salmi, ci pare confermi questa sintesi. Il giusto si accorge come gli. empi facciano fortuna nella convivenza sociale, mentre egli è costretto a vivere nella povertà e nel dolore. Nasce dunque il dubbio: può Dio ricordarsi di me? può o non può venirmi in aiuto? Hanno valore e potere le sue promesse di fronte allo strapotere degli empi?186. La descrizione dei mali del giusto ricorre per lo più ad un linguaggio estremamente stereotipato: abbondano le «discese nella fossa» o «nel profondo delle acque» 187, vengono qualche volta elencati l'uno di seguito agli altri i mali più diversi, dalla

186. Vedi per es. Mal 3, 13-21; Sl 73, 1-16.187. Vedi Gio. 2, 4-8; Si. 30, 4; 16, 16; 32, 6; 42, 8; 69, 2 s; 88, 8; 18,5; 124, 4 s; ecc.

132

Page 133: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

malattia alla fame alla persecuzione degli uomini188. Non ci si può dunque servire della lettera per ricostruire la situazione storica soggiacente: di fatto tutte queste lamentazioni individuali trovano il loro significato complessivo nella tribolata esistenza dei pii all'interno di una società ove il potere e la ricchezza contano più della fede. Il povero e il sofferente diventano la figura emblematica del giusto. E d'altra parte è importante rilevare come anche l'espressione di consolazione, di pace ritrovata appartengono ad un linguaggio convenzionale e molto astratto: spesso è semplicemente una parola di promessa da parte di Dio che segna l'esaudimento della preghiera e il ritorno del giusto alla speranza189; oppure è la possibilità di nascondersi in Dio e «cercare rifugio» in Lui che diventa principio di consolazione190, di consolazione consistente in fin dei conti soltanto nella felicità della comunione con Lui191. Il senso di questa consolazione dunque non è il rovesciamento della situazione sociale del giusto povero ma è la riaffermazione della speranza in Dio pure all'interno dell'oppressione e della povertà. Una speranza ormai emancipata da un ideale politico. Il povero è il giusto per eccellenza192: come dire che i giusti non si trovano nella società presente dalla parte di coloro che hanno potere ricchezza. Correlativamente, l'empio per eccellenza è nei Salmi colui che con il potere della forza, dell'inganno, del denaro, viola i diritti dell'indifeso193. Ne risulta complessivamente una immagine abbastanza fosca della società, e una tensione ineluttabile tra obbedienza a Dio e successo nei rapporti con gli uomini.

Nuovo Testamentoirruzione del regno e permanenza delle

istituzioni civiliL'Antico Testamento ha fornito spesso il repertorio di testi biblici capaci di

legittimare i rapporti tra Chiesa e stato nell'epoca «costantiniana», nel lungo periodo cioè che va da Costantino alla Rivoluzione francese e che vede le istituzioni civili poste sotto il segno della fede cristiana. Pensiamo in particolare ai testi relativi a Samuele e a Davide utilizzati per legittimare i reciproci rapporti tra «sacerdozio» e «impero»: si trattava di una lettura fondamentalistica dell'Antico Testamento, che presumeva l'immediata attualità di ogni testo biblico, dimenticando che l'Antico Testamento è appunto «antico»: soltanto attraverso il complemento neo-testamentario rivela il suo carattere cristiano e permanente.

188. Cf., caratteristico sotto questo prcyfilo, il SI 22.189. Cf. per es. Si 42, 6.12; 25, 3.21; 37, 9,34; 69, 4-7; 130, 5 ss; ecc.190. Queste immagini sono la spiritualizzazione del diritto d'asilo nel Santuario per i perseguitati: cf. Si 17, 8; 57, 2; 59, 17; 61, 5; 64, 11.191. Cf. Si. 16, 2.8; 27, 4; 63, 4; 73, 25 s. Anche le immagini di abbondanza tradizionali (per esempio il grasso, Si 36, 9) vengono assunte nei salmi come immagini spiritulizzate.192. Si 9, 10; 12, 6; 14, 6; 18, 28; 35, 10; 116, 6; 140, 13; 146, 7; 149, 4.193. Si 10 ; 35, 10; 37, 14.

133

Page 134: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Qualche cosa di simile accade di nuovo oggi, quando un certo cristianesimo precipitoso ricorre con predilezione alla predicazione dei grandi profeti dell'epoca monarchica, senza le necessarie mediazioni194.

Decisiva dunque, in vista di una riflessione cristiana sulla società, è l'interpretazione del messaggio neo-testamentario. Di fatto, proprio sull'interpretazione di tale messaggio più vivace è stata in passato e diventa ancora ai nostri giorni la discussione. Già una prima lettura del Nuovo Testamento manifesta immediati contrasti: per un verso Gesù predica una morale (discorso della montagna), che supera e contraddice clamorosamente i princìpi che stanno a fondamento della convivenza sociale; per altro verso Gesù prima, gli apostoli e le comunità primitive poi, non si estraniano rispetto alle strutture della comune convivenza sociale, anzi paiono a tratti legittimarle come espressioni del governo stesso provvidente di Dio.

La spiegazione di queste tensioni costituisce il nocciolo della riflessione cristiana tradizionale sulla realtà sociale, e più in particolare sulla realtà politica.

Già abbiamo cercato di caratterizzare sommariamente i due orientamenti opposti della teologia cattolica e di quella protestante; due orientamenti che ispirano naturalmente anche l'interpretazione rispettiva del Nuovo Testamento.

Da parte cattolica la distinzione dei due «bona comrnunia» - naturale e soprannaturale - diventa con tutta naturalezza il criterio per interpretare «date a Cesare.. date a Dio». Già abbiamo indicato gli inconvenienti di questa sistemazione, soprattutto alla luce della invadenza che le relazioni sociali hanno nell'esperienza dell'uomo d'oggi: tali relazioni sono sottratte al giudizio critico dell'evangelo.

La tradizione protestante, pur rifiutando tendenzialmente il diritto naturale, sanciva per altra via l'irrilevanza della predicazione morale di Gesù per i rapporti sociali, che riteneva retti dagli ordinamenti vecchi della mano sinistra di Dio, e quindi dalla legge antica.

Il riaccendersi della discussione esegetica negli ultimi decenni ha la sua origine nella crisi della teologia politica protestante all'indomani dell'esperienza nazista e il suo avvicinamento - sotto un certo profilo alla dottrina cattolica. La dottrina luterana tradizionale parve in certa misura complice dell'acquiescenza dei «cristiani tedeschi» all'avventura demoniaca del nazismo.

In reazione a tale acquiescenza è il tentativo di Barth di portare un giudizio evangelico sulla politica. Barth mantiene vivo e anzi approfondisce l'ostracismo nei confronti del diritto naturale, e quindi nei confronti della tesi che scorge nei testi neo-testamentari il rinvio ad una evidenza etica accessibile in linea di principio ad ogni uomo. L'«analogia» ecclesiastica, la commisurazione della realtà sociale al cerchio più stretto della comunità cristiana, e quindi al Cristo, diventa per lui il criterio di giudizio politico.

Molti dei contributi più significativi dell'esegesi contemporanea sul tema politico stanno sotto l'influenza del pensiero di Barth; essi sottolineano in maniera assolutamente privilegiata il giudizio negativo portato dai testi del Nuovo Testamento sulla realtà politica (pagana) come realtà satanica, appartenente al «secolo presente» soggetto alla signoria delle «potenze» ostili a Dio195.

194. L'accusa è genericamente formulata anche da W. PANNENBERG, Fatti della storia ed etica cristiana, in « Dibattito sulla " teologia politica ", Queriniana, Brescia, 1971, pp. 160 ss.195. Ricordiamo tra questi autori KUNNETH, Politik zwiscben Dámon und Gott. Eine christicbe Etbik der Politik, 1954; 0. CULLMANN, Dio e Cesare, Comunità, Milano, 1957; H. D. WENDLAND, Tbe relevance of

134

Page 135: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Gli orientamenti più recenti, quelli secolarizzanti, della «teologia politica», non hanno finora accordato un'attenzione sistematica alle concezioni etiche del Nuovo Testamento in fatto di politica196; essi sono interessati a sottolineare l'ineluttabile dimensione politica di tutta la teologia, a partire dalla rinnovata riflessione sulla teologia della storia e sull'escatologia da un lato, e sul rapporto teoria-prassi come si configura all'indomani dell'illuminismo dall'altro. La «teologia politica» interessa più il problema generale dell'ermeneutica, che il tema speciale della politica. Comunque sia, questo orientamento non ha prodotto fino ad oggi letteratura esegetica a proposito dei tipici testi politici del Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento non contiene alcuna trattazione organica sul tema della società. Procederemo distingueremo, innanzitutto, l'insegnamento di Gesù da quello degli apostoli, dal momento che diversi sono gli scopi dell'uno e degli altri e che tale diversità è il primo elemento chiarificatone per la comprensione del messaggio rispettivo.

Distingueremo poi nell'insegnamento di Gesù i suoi "atteggiamenti" dalle sue "parole esplicite": dai primi infatti emergono pure elementi interessanti sotto il nostro profilo. Un capitolo lo dedicheremo ai conflitti di Gesù con le autorità religiose di Israele, nell'intento di cogliere tali conflitti nel loro significato politico, anche se il contenzioso riguarda temi espressamente religiosi (il sabato, la pretesa messianica, il Tempio).

Nell'insegnamento apostolico distingueremo i testi appartenenti al genere letterario parenetico da quelli appartenenti al genere apocalittico: la differenza del genere letterario introduce al superamento dell'apparente contraddizione che pare risultare dal confronto di testi come Rm 13, 1 ss. e Ap 13.

1. Gesù accetta il quadro sociale in cui vive197

Il senso dell'affermazione posta a titolo del presente paragrafo va precisato e può esserlo soltanto facendo riferimento all'identità concreta del quadro sociale di cui si parla, e all'atteggiamento che altre correnti del giudaismo contemporaneo assumevano nei confronti di tale quadro.

Il quadro sociale della Palestina ai tempi del ministero pubblico di Gesù è estremamente intricato e confuso. Il potere politico supremo è indubbiamente quello romano; da esso sono derivati i poteri subalterni sia del procuratore di Giudea, sia del re Erode Antipa di Galilea. Il potere politico romano si esercita immediatamente in alcuni ambiti (imposte, circolazione monetaria, giurisdizione almeno per alcuni crimini). Peraltro il potere romano accoglie e permette la sopravvivenza delle

Escatology for social ethics, in "The Ecumenical Review" V/4 (1953) 364-368; F. J. LEENHARDT, Le chrétien doit-il servir l'Etat? Essai sur la théologie politique du N.T., Genève et Paris, s.d., cf. anche gli scritti di H. SCHLIER, cui alluderemo sotto, a proposito dell'esegesi di Giovanni.196. Alla distinzione tra «teologia politica» ed «etica politica» dedica alcune pagine B. METZ, La «teologia politica» in discussione, in Dibattito sulla "Teologia politica" , cit., pp. 247-253; cf. nello stesso volume le riflessioni sul medesimo tema di T. RENDTORFF (pp. 137-156) e W. PANENBERG (pp. 157-178).197. È soprattutto 0. CULLMANN che in più scritti si è occupato dell'atteggiamento di Gesù nei confronti delle istituzioni esistenti; nei confronti dell'istituzione imperiale in Dio e Cesare, oo. cit.; nei confronti di ogni istituzione sociale in Gesù e i rivoluzionari del suo tempo, Morcelliana, Brescia, 1971. Cullmann suppone contatti più stretti di quanto l'esegesi più attendibile permetta di ipotizzare di Gesù con gli zeloti; per altro la preoccupazione del suo secondo scritto è soprattutto polemica, nei confronti dei moderni fautori di una «teologia della rivoluzione».

135

Page 136: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

istituzioni e delle norme tradizionali giudaiche per vasti ambiti di rapporti (cf. l'imposta del tempio, il potere giurisdizionale del Sinedrio).

Gesù accetta questo quadro sociale: paga le imposte sia a Cesare che al Sinedrio (Mt 22, 15-22; 17, 24-27). Il significato di questa accettazione può essere messo in evidenza mediante il confronto con gli atteggiamenti opposti degli zeloti innanzitutto, e degli esseni di Qúmran in secondo luogo.

L'atteggiamento zelota mette in evidenza l'innegabile compromesso implicito nella posizione farisaica. I farisei infatti continuano a concepire la legge di Dio come legge sociale per Israele; e d'altra parte non possono concepirla che come legge suprema e insindacabile. Il fatto invece che la competenza legislativa198 e giurisdizionale del Sinedrio sia solo consentita, e sia insieme condizionata, dalla superiore competenza di Roma, crea una obiettiva contraddizione; contraddizione accettata con evidente compromesso dai farisei.

Ciò che accomuna zeloti, farisei e sadducei è una fedeltà - almeno tendenziale - alla concezione «teocratica» del popolo di Dio, come entità politica.

Gesù non rifiuta l'obbedienza alle autorità gerosolimitane, adducendo come giustificazione il loro compromesso con Roma: e già sotto questo punto di vista mostra come il regno di Dio e la legge di Dio non siano da Lui concepite come concorrenziali rispetto a quelle di Roma. E neppure rifiuta l'obbedienza a Roma. Non rifiuta l'una e l'altra obbedienza in linea di principio, come invece facevano gli zeloti. Non le rifiuta d'altra parte neppure mediante la scelta settaria e non violenta della comunità dei puri di Qúmran. Gesù continua a vivere nel quadro sociale in cui si trova e invita i suoi discepoli a fare altrettanto: essi non costituiscono una società a parte, separata da quella così ambigua della Palestina di allora.

Il senso dunque di questa prima affermazione - Gesù accetta l'ordine sociale esistente - dev'essere così limitato: Gesù non trae dall'annuncio del Regno di Dio, che sta al centro della sua predicazione, la conclusione che occorre rifiutare in linea di principio l'autorità sociale esistente, che occorre opporsi violentemente ad essa mediante l'insubordinazione o che occorre sottrarsi ad essa mediante la fuga settaria nel deserto, dove ricostruire una società basata su altre strutture.

2. Gesù rifiuta ogni ministero sociale

Questa seconda tesi approfondisce quella precedente. Non soltanto Gesù ha rifiutato di trarre dall'annuncio del Regno la conclusione di un atteggiamento rivoluzionario; ma ha anche rifiutato con cura, con intransigenza assoluta di lasciassi attribuire qualsiasi compito di restauratore sociale. Ha evitato cioè ogni tentativo di fare della sua «autorità» (cf. Mc 1, 22.27) un'autorità « sociale»; vale a dire un'autorità del tipo di quella necessaria per consentire la convivenza sociale.

L'episodio più caratteristico da questo punto di vista è quello di Lc 12, 13 ss.: un uomo cerca di costituire Gesù giudice di una lite col fratello per un'eredità; la risposta di Gesù ha chiaramente il suono di una affermazione di principio: «Amico mio, chi mi ha costituito per essere vostro giudice o per regolare le vostre divisioni?». Il riferimento letterario a Es 2, 14 è abbastanza trasparente: sotto questo profilo l'autorità di Gesù è diversa da quella di Mosè. L'ammonimento che segue a guardarsi da ogni avidità non è connesso originariamente al detto precedente. L'episodio è

198. La competenza legislativa del Sinedrio è - evidentemente - soltanto declaratoria (interpretare il diritto promulgato da Dio), nelle intenzioni.

136

Page 137: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

caratteristico, proprio perché documenta l'intransigenza di Gesù nei confronti di ogni tentativo di concepire la sua autorità secondo modelli antichi199.

Ma al di là di questo episodio singolo, appare abbastanza diffusamente nei vangeli la propensione degli ascoltatori di Gesù ad assegnare a Lui compiti politico-messianici: è proprio alla luce di questa propensione generale dettata dalle concezioni correnti che si intende l'intransigenza del rifiuto che Gesù oppone ai due fratelli. Quanto alla documentazione circa la natura politica e nazionalista del messianismo prevalente ai tempi di Gesù rimandiamo alle opere specializzate200.

Lo sfondo di queste attese giudaiche si mostra ripetutamente operante nel modo di intendere l'annuncio del Regno fatto da Gesù: la domanda dei primi posti fatta dai figli di Zebedeo (Mc 10,.37) è comprensibile solo su questo sfondo; così pure lo scandalo di Pietro al primo annuncio della passione (Mc 8, 32). Questa disposizione di tutti i discepoli nei confronti del Regno annunciato dal maestro dura fino alla fine (Lc 19, 11; 22, 38; At 1, 6), nonostante le continue simentite opposte da Gesù stesso. Quanto alla più vasta opinione pubblica, significativo è il tentativo dei galilei di farlo re, dopo là moltiplicazione dei pani (Gv 6, 15); la stessa accoglienza trionfale in Gerusalemme negli ultimi giorni non pare possa sottintendere concezioni diverse (Mc 11, 10); se in quell'occasione Gesù non oppose il consueto rifiuto, ciò è presumibilmente da intendere alla luce delle circostanze particolari dell'episodio: gli strati umili della popolazione da cui veniva quel riconoscimento e il carattere pacifico della dimostrazione non permettevano ormai illusioni sulla missione di Gesù, la cui condanna era ormai decisa presso i responsabili di Gerusalemme.

La liberazione di lsràele, di cui parlano i discepoli di Emmaus (Lc 24, 21) è ancora la liberazione politico-messianica.

Dunque quando la tradizione cristiana successiva elabora il midrash delle tre tentazioni di Gesù nel deserto201, individua le tentazioni «messianiche» reali che egli dovette superare da parte della mentalità dei contemporanei durante tutta la sua vita pubblica. La terza tentazione di Matteo in particolare (seconda di Luca) è espressamente la tentazione di un messianismo concepito come potere politico: messianismo, questo, realizzabile soltanto mediante l'adorazione di Satana, ossia mediante la disobbedienza a Dio. Torneremo peraltro su questa tentazione, secondo la redazione di Luca: in essa è contenuto un giudizio esplicito sul potere e sui suoi rapporti con Satana.

È sempre nel quadro della riserva intransigente di Gesù nei confronti delle attese giudaiche, che occorre intendere l'economia del «segreto messianico», ossia il rifiuto di farsi chiamare pubblicamente «Messia». Economia che, se forse è stata in qualche misura intenzionalmente orchestrata con intenti apologetici da Marco, risale per il suo fondo al corso storico effettivo della vita di Gesù; questo risulta dal confronto sinottico e dal margine di artificiosità che mostrano tutti i tentativi di giustificare questi passi quali relazione apologetica della comunità primitiva202.

199. L'autorità dei rabbi giudaici prevedeva che si potesse loro rivolgere richieste come quella che i due fratelli rivolsero a Gesù; anche sotto questo profilo, constatiamo la differente interpretazione della funzione della Legge da parte dei rabbi giudaici e da parte del nuovo Maestro.200. Buona sintesi in R. SCRNACKENBURG, Règne et Royaume, Paris, 1965, pp. 35-45.201. Per i problemi storico-critici connessi, cf. soprattutto J. DUPONT, L'origine du recit des tentations de Jésus au desert, in "Revue Biblique" 73 (1966) 30-76.202. Com'è noto, fu W. WREDE che per primo formulò la tesi dell'invenzione del «segreto messianico» da parte dei discepoli, per giustificare la divergenza tra la fede cristiana in Gesù-Messia e il comportamento pubblico di Gesù stesso; nello stesso senso di Wrede, si orientano grosso modo R. BULTMANN, W.

137

Page 138: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Per gli aspetti descritti al punto precedente e qui, Gesù compie quel rinnovamento dell'alleanza mosaica e davidica già annunciata dai profeti dell'esilio; rinnovamento che è addirittura sostituzione della realtà nuova all'antica. Il Regno promesso al discendente ai Davide, o la terra promessa al popolo di Mosè, è qui: ma quelle realtà istituzionali, che garantivano insieme la coalescenza di Israele come popolo e la sua identità di popolo di Dio (legge, tempio, monarchia), non hanno ormai più alcun posto nel compimento.

C'è un rapporto intrinseco tra la contrapposizione della legge antica alla volontà attuale di Dio sviluppata da Gesù nel discorso della montagna da un lato, e il rifiuto di ogni condensazione sociale del Regno dall'altro. La giustizia nuova deve superare quella degli scribi e dei farisei: solo a questo patto si entra nel Regno. D'altra parte, di una giustizia come quella amministrata anche dagli scribi e dai farisei - ossia di un diritto, sia pure quello israelita - non si può fare a meno. Per questo Gesù dissocia il suo compito da quello dei responsabili giudei e romani, ma insieme non ne rifiuta in linea di principio la competenza. La critica che farà agli scribi ed ai farisei sarà una critica in nome dei diritti di Dio, non del diritto di Cesare o dell'ordinato vivere sociale. L'equivoco nascosto nella gestione civile della legge mosaica alla fine dovrà esplodere: l'esito ultimo della critica di Gesù agli scribi ed ai farisei è necessariamente la soluzione del connubio teocratico tra legge di Dio e diritto sociale; è il passaggio dalla nazione-giudea alla chiesa pellegrina in ogni nazione. Ma non è dall'esito ultimo che Gesù comincia.

3. Gesù esprime un giudizio critico sull'autorità e sulle gerarchie sociali

Se l'avvento del Regno di Dio non si realizza nella forma di rivoluzione sociale, e d'altra parte non nega la legittimità e la necessità di principio dell'istituzione sociale non si può per altro affermare che - secondo Gesù - l'avvento del Regno sia indifferente all'istituzione sociale, la consideri come irrilevante e sottratta al giudizio di Dio, che lo stesso avvento del Regno comporta.

Ciò vale per l’autorità romana ed anche per i capi religiosi del popolo di Israele. Anzi, vale più per quest’ultimi che per i primi. Gesù infatti ebbe poche occasioni di incontrarsi con Roma, ne ebbe invece moltissime con gli scribi, i farisei. I conflitti con questi ultimi, hanno certo motivi di ordine religioso e tuttavia rivestono anche un profilo politico. L’ordinamento pubblico di Israele era infatti di tipo teocratico e dunque l’autorità religiosa non si distingueva da quella politica.

3.1. L'autorità civile

Troviamo nella tradizione sinottica sporadici apprezzamenti negativi che Gesù diede delle autorità politiche del suo tempo. In Lc 13, 32 Erode è chiamato « volpe»: il termine sembra si riferisca all'astuzia, alla furberia, di Erode, che mediante l'ambasciata dei farisei (v. 31) avrebbe tentato di liberarsi della presenza fastidiosa di

BOUSSET, M. DIBELIUS. Per la tesi della storicità del « segreto» sono - oltre la generalità dei cattolici (cf. indicazioni di S. ZEDDA, I Vangeli e la critica oggi, Ed. Trevigiana, Treviso, 1970, II, pp. 184-192) - J. SCHNIEWIND, V. TAYLOR, E. SJOBERG.

138

Page 139: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Gesù. Oltre all'apprezzamento esplicito di Gesù, è appunto il comportamento di Erode, il suo sentirsi minacciato dalla presenza di Gesù - senza che Gesù lo rassicuri da questo punto di vista - che parla della rilevanza che la predicazione di Gesù aveva anche per l'autorità politica.

In Lc 22, 25 e Mc 10, 42; Mt 20, 25, è espresso un giudizio critico generale - a modo di sentenza sapienziale - su quello che fanno i « re», i «capi delle nazioni», i « magnati»: fanno pesare la loro autorità oppressiva sui sudditi (Mc=Mt) e in più si fanno chiamare « benefattori» (Lc). È un giudizio esplicito e molto negativo sulla realtà storica dell'autorità politica; e a questa realtà è contrapposto ciò che deve succedere tra i discepoli: la conversione cristiana - conversione in rapporto al mondo antico sotto il dominio delle forze ostili a Dio (cf. Lc 10, 18) - è insieme anche conversione nei confronti dei rapporti tra gli uomini realizzati mediante le istituzioni civili. La realtà storica dell'autorità civile è qui tendenzialmente coinvolta nel giudizio di condanna sull'umanità peccatrice203.

Esistono due testimonianze dei vangeli nelle quali questa interpretazione negativa del ruolo dell'autorità è approfondita sistematicamente: testimonianze della tradizione cristiana successiva - presumibilmente - ma che approfondiscono un giudizio implicito già in qualche misura nelle parole e nell'atteggiamento di Gesù. Alludiamo a Lc 4, 8 e al confronto tra Gesù e Pilato secondo Gv 18-19.

Dice Satana - secondo Lc 4, 6 - «A te darò tutta questa potenza di reami e la loro magnificenza, perché a me è stata data e la do a chi voglio ». Che dietro ai regni di questa terra stiano le potenze sovrumane contrariea Dio è un modo di vedere che compare frequentemente nella letteratura apocalittica giudaica più tarda, e che è entrato anche nel N.T. (v. infra Apocalisse). Se Luca in questo contesto esprima una convinzione del genere, oppure intenda l'affermazione come semplice menzogna orgogliosa di Satana può essere discusso204. A me sembra che non ci siano difficoltà ad intendere l'affermazione nel primo senso. In tal caso essa significherebbe che l'affermarsi del potere, nell'ordine storico presente, non va mai disgiunto da ingiustizia; su per giù come si dice (vedi infra) che il denaro è sempre denaro di iniquità. Certo, non si può disgiungere questa affermazione dall'altra complementare, circa i diritti di Cesare. Ma la composizione esplicita delle due affermazioni non è fatta nella tradizione sinottica: qui sono posti semplicemente in maniera adialettica i due estremi.

Un giudizio negativo sull'autorità civile - giudizio negativo iscritto in una generale concezione teologica della storia - sembra essere espresso da Giovanni nella recensione che egli dà del processo che Pilato fa a Gesù: processo che deve essere letto, secondo la prospettiva generale del vangelo, come episodio paradigmatico, nel quale si esprime una verità universale; o meglio una verità «ultima»: la verità del giudizio escatologico portato da Gesù nel mondo.

Il commento di Bultmann205 ha messo in rilievo come Giovanni presenti tutta la storia di Gesù come un processo tra lui e il «mondo», rappresentato dai «giudei».

203. Cullmann irrigidisce questo aspetto, fino ad intendere sistematicamente l'autorità civile come «principe di questo secolo»; potenza quindi che se non è tolta dal Cristo, non lo è soltanto perché non è ancora tolto l'eone presente.204. La prima opinione - piu ovvia - è quella comunemente tenuta (cf. SCHMID); la seconda è proposta per esempio da SCHNACKENBURG, Il Messaggio morale..., p. 106.205. Das Evangelium des Jobannes, 1941; cf. p. 59 in particolare.

139

Page 140: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Schlier206 ha sviluppato questa prospettiva generale applicandola in particolare al confronto di Gesù con Pilato: «Gli Ebrei in quanto rappresentanti del mondo, consegnano Gesù nelle mani del rappresentante politico dell'imperatore romano» (p. 90: ci si riferisce a 18, 28a); Pilato si configura innanzi tutto come autorità neutrale e tollerante, che vuole stabilire la verità (18, 29 ss.).

Ma siccome il mondo ha già deciso la condanna e vuole semplicemente vedere sanzionata la propria decisione dall'autorità civile, l'autorità tenta di sottrarsi (18, 31a); ma questa scappatoia non è lasciata aperta dal mondo (31b). Pilato è costretto al confronto con Gesù, con la «verità» condannata dal mondo, e lo fa recependo appunto l'accusa del mondo nei suoi confronti (v. 33), ma senza volerla far sua (vv. 34 ss.). Ma il confronto ineluttabile con Gesù costringe l'autorità ad ascoltare la testimonianza della verità (vv. 36 ss.).

Il tentativo di «neutralità» è ormai fallito, e Pilato - uscendo dalla riservatezza iniziale - è indotto a professare il suo scetticismo: «Che cos'è la verità?» (v. 38). «Il processo del mondo contro la verità ha fatto giungere le cose al punto che la potenza politica tollerante e neutrale, rappresentata dal procuratore romano, ha dovuto... rivelare il suo fondamento spirituale e pronunciare il suo nascosto rifiuto della verità. Con ciò però il processo ha raggiunto un punto notevole, cioè quello in cui compare il fondamento di tutte le decisioni seguenti» (pp. 102 s). Il successivo atto di Pilato di lavarsi le mani, e il silenzio di Gesù alle ulteriori interrogazioni manifestano soltanto che l'ineluttabile ormai è accaduto: non voler prendere posizione nei confronti della verità (il programma dell'autorità politica) è rifiutarla.

Le conseguenze che Schlier trae da questa esegesi circa il problema generale dei rapporti Stato e Vangelo paiono qualche volta eccessive207; tuttavia mi pare che l'esegesi stessa sia nei suoi tratti essenziali pertinente e vera: il testo di Giovanni mostra come la logica del potere - la solidarietà che il potere ha con il «mondo» che ne è il supporto - conduca l'autorità stessa a sanzionare le decisioni del «mondo», a divenirne esecutrice, al di là della vana pretesa di rimanere agnostica.

Ma come il correlativo concetto di «mondo», l'autorità civile su cui Gesù pronuncia un giudizio è un'entità storica, e non «essenziale», e «metafisica». È evidente che Giovanni non concepisce il mondo come principio cooriginario ed opposto a Dio, ma come creatura decaduta e falsa, che si nasconde alla sua verità. Analogo dunque è il valore che occorre assegnare alla dottrina giovannea sullo stato: si tratta di un giudizio sulla realtà «storica» del potere della società, che estende ad essa il giudizio generale portato sulla società («mondo»); e non di una concezione di principio dell'autorità statuale.

È alla luce del complesso atteggiamento risultante insieme dagli aspetti sopra considerati che è possibile intendere l'affermazione più esplicita di Gesù sul nostro tema: ossia la risposta da lui data all'interrogativo circa la legittimità del tributo a Cesare. L'esegesi recente ha ridimensionato l'interpretazione un poco eccessiva

206. Vedi in particolare Gesù e Pilato, in Il tempo della Chiesa Bologna, 1965, pp. 89-117; cf. nello stesso volume "Lo Stato nel N.T.", pp. 3-6. Le citazioni, sopra riportate si riferiscono al primo testo.207. Si veda L'enseignement du N.T. sur l'Etat, in Essais sur le N.T. (riedizione aggiornata dell'omonimo articolo in Il tempo della Chiesa), 1968, pp. 225-245: da Mt 10, 18 e da At 26, 22.29, l'autore sembra concludere ad un dovere dello Stato di accogliere l'evangelizzazione, di «credere» in Cristo. K. Barth in Rechtfertigung und Recht (franc.: Justification divine et iustice humaine, "Cahiers biblique de Foi et Vie" n. 5), e Christusgemeinde und Burgergemeinde (franc.: Communauté chrétienne et communauté civile, Genève 1958) che pure propone un'esegesi di Gv 18 ss. analoga a quella di Schlier, espone poi una visione dei rapporti parola di Dio-società, Chiesa e Stato chiaramente elusiva di ogni autonomia dello Stato nel suo ordine.

140

Page 141: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

consueta nella tradizione scolastica cattolica: quasi che Gesù affermasse il principio della separazione dei poteri temporali e spirituali, e «ordinasse» di pagare le tasse all'impero romano.

Innanzi tutto è da sottolineare come in questo caso - e in tutti gli altri analoghi d'altra parte - Gesù non dia una risposta immediata ed univoca al problema posto dagli interlocutori; il suo atteggiamento mira invece a smascherare la falsità che si annida nell'interrogativo. I suoi interlocutori, debbono essere condotti a riconoscere che essi sanno già benissimo come si debba rispondere alla loro domanda; o comunque non si aspettano una risposta di Gesù in proposito, avendo già deciso la questione e rivolgendo la domanda solo come alibi208.

Il gesto di Gesù - frasi mostrare da loro una moneta, tratta dalle loro tasche - mira ad evidenziare appunto come gli interlocutori accettino già di fatto la competenza di Cesare nei problemi connessi al denaro, al commercio, e quindi alle imposte: usano la moneta coniata da Cesare209. Se la forza della risposta di Cristo deriva da questo - essi hanno in tasca le monete che portano l'effigie di Cesare -, come pare indiscutibile, allora vuol dire che Gesù nella sua risposta si rimette ad un giudizio che in coscienza ciascuno già fa nella sua vita; legittima, per così dire, questo giudizio del senso comune, e semplicemente si preoccupa di togliere l'obiezione speciosa (non presa sul serio neppure dagli interlocutori, in concreto): non è questo che lede i diritti di Dio.

Potremmo parafrasare: date pure a Cesare quello che è di Cesare, questo non vi impedirà certo la cosa essenziale, che è quella di dare a Dio il dovuto. Circa il significato esatto del parallelismo per altro non c'è consenso completo tra gli esegeti. Alcuni sottolineano l'effetto ironico di questo parallelismo asimmetrico210: date pure a Cesare quello che chiede, egli è un fantoccio che non può minacciare Dio e quello che chiede non vale nulla per il Regno! Altri, pur ritenendo vera l'asimmetria, ne traggono soltanto la conseguenza che Cesare è posto all'ombra di Dio, su per giù come nella parafrasi da noi suggerita211. Quello che sicuramente occorre affermare, è che qui non si tende a dividere due ambiti attigui («paralleli»): nell'uno è signore Cesare, nell'altro Dio; ma si intende affermare che l'esigenza di Dio si colloca su un piano diverso dall'esigenza di Cesare, la quale ultima appartiene ad un ambito già ben noto agli ascoltatori, sul quale Gesù (in quanto annunciatore del Regno) non ha alcuna rivendicazione da elevare.

Dunque, nel detto di Gesù non si può neppure vedere un apprezzamento fatto in prima persona della legittimità del potere di Tiberio (l'imperatore di allora): ma solo il rinvio ovvio al giudizio già fatto in proposito dai suoi contemporanei. Comunque vadano le cose con Cesare, non è a motivo del Regno che non gli si possa pagare le tasse.

208. Cf. la domanda «Chi è il mio prossimo» in Lc 10, 28 e 37; oppure la domanda «Con quale autorità fai questo» in Mt 21, 23 ss, p.209. Cf. in questo senso 0. DA SPINETOLI, Matteo, pp. 502 ss; J. McKENZIE, Le scelte di Cristo, Cittadella, Assisi, 1969, pp. 241-259; R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale...,p. 111.210. Soprattutto M. DIBELIUS, Rom und die Cbristen, in « Sitzungberichte des Heidelb».211. Cosi, per esempio, R. HAUSER, Vangelo e politica, in Il problema del potere politico, Brescia 1964, p. 550.

141

Page 142: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

3.2. La polemica con l'autorità religiosa

Gesù dovette, fin dalle prime battute del suo ministero pubblico, affrontare un'aspra polemica con le autorità religiose del suo popolo. I Vangeli parlano di farisei, capi del popolo, sommi sacerdoti, scribi. Ma com'era distribuito il potere in Israele, al tempo di Gesù?

Jossa 212 indica tre classi sociali. Una aristocratica, a cui appartenevano i capi del popolo, i sommi sacerdoti e i

capi dei farisei e scribi, e che è per buona parte creazione di Erode e quindi poco radicata nel popolo, e trova la sua espressione istituzionale nel Sinedrio, suddiviso, appunto, in capi del popolo, anziani e scribi. I primi sono grandi proprietari terrieri o commercanti, fortemente ellenizzati e filoromani; i secondi - sommi sacerdoti - appartengono ad alcune potentissime famiglie sacerdotali di Gerusalemme, apertamente collaborazioniste; i terzi - farisei e scribi - sono i più influenti dottori della legge sul piano politico, oltre che scolastico, probabilmente esponenti della scuola di Hillel, più disponibile al compromesso rispetto a quella di Shammai. Sono quest'ultimi gli avversari prossimi di Gesù. E' un'aristocrazia non solo sacerdotale ma con componenti laiche (i maggiorenti del paese, o anziani, e i farisei e scribi.

C'era poi una classe media, composta da artigiani e piccoli proprietari, contraria alla politica mondana degli aristocratici, la quale si riconosce nella setta dei farisei (quelli non compromessi col potere).

Infine, il popolo era costituito da piccoli contadini e braccianti tra i quali serpeggiavano forti aneliti rivoluzionari che trovarono espressione nel partito degli Zeloti o in quello dei Sicari. I primi erano espressione del fariseismo, e quindi dell'opposizione religiosa al potere romano, il secondo dei movimenti apocalittici, i quali si opponevano politicamente a Roma e non solo religiosamente.

L'aristocrazia sacerdotale, quindi, apparteneva al partito religioso dei sadducei, da secoli classe sacerdotale in Israele 213, mentre i farisei solo in parte erano compromessi co potere. Essi nacquero in opposizione all'apocalittica, propria degli esseni e, prima, degli asidei 214, con l'intento di vivere e restaurare nel popolo l'osservanza della legge, di "fondare il proprio modo di essere sulla legge" 215.

Gesù si trova a confrontarsi con queste autorità religiose, più che con quelle propriamente politiche.

I romani lo hanno giustiziato per sedizione, le autorità religiose per paura di nuove sommosse messianiche, frequenti, a quel tempo, in Galilea.

Ma un'analisi approfondita dei motivi dei conflitti mette in evidenza tanti altri aspetti, politicamente significativi.

Noi ci limiteremo al vangelo di Marco e procederemo in tre momenti: l'analisi dei motivi del conflitto; l'interpretazione che del conflitto ne danno le due parti; il suo significato politico.

212. Gesù e i movimenti religiosi della Palestina, Paideia Brescia, 1980, pp. 34-40213. "Un sacerdote di nome Sadoq servì sotto Davide e Salomone; e secondo Ez. 40,46; 44,15, per esercitare legittimamente il sacerdozio era indispensabile discendere dalla stirpe di Sadoq. Dalla fondazione della comunità postesilica nel 539 a.C., il sacerdote fu sempre un sadochita" K.SCHUBERT, I partiti religiosi ebrei del tempo neotestamentario, Paideia Brescia, 1976 p.19.214. "Asideo" significa "pio" e il termine risale al tempo dell'opposizione dei Maccabei alla elenizzazione di Israele.215. Schubert, op. cit. p. 57

142

Page 143: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

3.2.1. I motivi del conflitto

Leggendo il vangelo di Marco emergono tre fondamentali motivi del conflitto tra Gesù e le autorità religiose: motivi teologici, morali e giuridici.

Motivi teologici:

Rompe con il messianismo politico:

Distrugge il simbolo del messianismo: il tempo

Matthew 24:1 Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per mostrargli le costruzioni del tempio. 2 Ma egli disse loro: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico: non rimarrà qui pietra su pietra, che non sarà diroccata».

+ Gesù perdona i peccati

- collocandosi in tal modo sul piano stesso di Dio e disorientando, alla radici, la teologica monoteistica degli ebrei:

Mc 2,1-12 Rientrato dopo alcuni giorni a Cafarnao, si venne a sapere che era in casa e vi accorsero in così grande numero che non vi era più spazio, nemmeno davanti alla porta, mentre egli annunciava la parola. Giunsero pure alcuni che accompagnavano un paralitico, sostenuto da quattro uomini. Ma non potendo avvicinarsi a lui a causa della folla, scoperchiarono il tetto sul punto ove egli si trovava e, praticato un foro, calarono giù il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, allora, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati!». Or vi erano là alcuni scribi che, stando seduti, pensavano nei loro cuori: «Perché costui parla in tal modo? Egli bestemmia! Chi può rimettere i peccati, se non Dio solo?». Ma Gesù, avendo conosciuto subito nel suo spirito che così pensavano, dice loro: «Perché pensate tali cose nei vostri cuori? Che è più facile dire al paralitico: "Ti sono rimessi i tuoi peccati", oppure dire: "Sorgi, prendi il tuo lettuccio e cammina"? Ora, affinché sappiate che il Figlio dell' uomo ha potestà di rimettere i peccati sulla terra - dice al paralitico - Dico a te: sorgi, prendi il tuo lettuccio e vattene a casa». Allora quello si alzò, prese subito il lettuccio e se ne uscì alla presenza di tutti; sicché tutti ne restarono stupefatti e lodavano Dio dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

Lc 5, 20-24 Vedendo la loro fede, Gesù disse: «Uomo, ti sono rimessi i tuoi peccati». I dottori della legge e i farisei cominciarono a discutere dicendo: «Chi è costui che osa parlare così contro Dio? Chi può rimettere i peccati se non Dio soltanto?». Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché ragionate così dentro di voi? È più facile dire: "Ti sono rimessi i tuoi peccati", oppure: "Àlzati e cammina"? Ebbene, perché sappiate che il Figlio dell' uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati», si rivolse al paralitico, dicendo: «Ti dico: àlzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua».

Lc 6 : 36 Un fariseo lo invitò a mangiare con lui. Egli entrò in casa sua e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; fermatasi dietro a lui, si rannicchiò ai suoi piedi e cominciò a bagnarli di lacrime; poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. Vedendo questo, il fariseo che lo aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta saprebbe chi è questa donna che lo tocca: è una peccatrice». Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Egli rispose: «Maestro, di' pure». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l' altro cinquanta. Non avendo essi la possibilità di restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro gli sarà più riconoscente?». Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». E Gesù gli disse: «Hai giudicato bene». Poi, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono venuto in casa tua e tu non mi hai dato l' acqua per lavare i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e con i capelli li ha asciugati. Tu non mi hai dato il bacio; lei invece da quando sono qui non ha ancora smesso di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, lei invece mi ha cosparso di profumo i piedi. Perciò ti dico: i

143

Page 144: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». Allora quelli che stavano a tavola con lui cominciarono a bisbigliare: «Chi è quest' uomo che osa anche rimettere i peccati?». E Gesù disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».

John 8:1 Gesù invece andò sul monte degli Ulivi. Di buon mattino si presentò di nuovo al tempio e tutto il popolo accorreva a lui e, sedutosi, li istruiva. Ora gli scribi e i farisei conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, nella legge Mosè ci ha comandato di lapidare tali donne. Tu, che ne dici?». Questo lo dicevano per tendergli un tranello, per avere di che accusarlo. Gesù, però, chinatosi, tracciava dei segni per terra con il dito. Siccome insistevano nell' interrogarlo, si drizzò e disse loro: «Quello di voi che è senza peccato scagli per primo una pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo scriveva per terra. Quelli, udito ciò, presero a ritirarsi uno dopo l' altro, a cominciare dai più anziani, e fu lasciato solo con la donna che stava nel mezzo. Rizzatosi allora, Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Rispose: «Nessuno, Signore». «Neppure io ti condanno -- disse Gesù. -- Va' , e d' ora in poi non peccare più».

Afferma il primato dell'interiore sull'esteriore scardinando la morale farisaica la quale si basava, appunto, sul rispetto della purità rituale.

Mc 7,1-23: Si radunarono intorno a Gesù i farisei e alcuni scribi, venuti da Gerusalemme, i quali notarono che alcuni dei suoi discepoli prendevano i pasti con mani impure, ossia non lavate. I farisei, infatti, come tutti i Giudei, non mangiano se prima non si sono lavati accuratamente le mani, secondo la tradizione ricevuta dagli antichi; e anche tornando dal mercato, non mangiano senza prima essersi purificati. Vi sono, inoltre, molte altre cose che essi hanno ricevuto e che devono rispettare, come lavature di coppe, di orciuoli e di vasi di rame. I farisei e gli scribi, dunque, gli domandarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma mangiano il pane con mani impure?». Rispose loro: «Bene di voi, ipocriti, ha profetato Isaia, secondo quanto sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano, però, mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti di uomini. Infatti, lasciando da parte i comandamenti di Dio, voi vi attaccate alla tradizione degli antichi». Diceva ancora loro: «Con disinvoltura voi abrogate il comandamento di Dio per stabilire la vostra tradizione. Mosè, infatti, ha detto: Onora tuo padre e tua madre; e: Chi oltraggia il padre e la madre sia punito con la morte. Voi, invece, dite che se uno dice al padre o alla madre: Corbàn, cioè: sia offerta sacra ciò che da parte mia dovresti ricevere, non gli lasciate fare più nulla per il padre o per la madre. Così annullate la parola di Dio per la tradizione che voi stessi vi siete tramandata. E di cose simili a questa ne fate ancora molte». Quindi, chiamata a sé di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete! Non c' è nulla di esterno all' uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo. Piuttosto sono le cose che escono dall' uomo quelle che contaminano l' uomo. Chi ha orecchi da intendere, intenda!». Quando poi fu entrato in casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogarono intorno a tale parabola. Egli disse loro: «Anche voi siete ancora privi di intelligenza? Non capite che tutto ciò che di esterno entra nell' uomo non può contaminarlo, giacché non entra nel suo cuore, bensì nel ventre per finire poi nella fogna?». Così dichiarava puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall' uomo, questo, sì, contamina l' uomo. Dall' interno, cioè dal cuore degli uomini, procedono i cattivi pensieri, le fornicazioni, i furti, le uccisioni, gli adultèri, le cupidigie, le malvagità, l' inganno, la lascivia, l' invidia, la bestemmia, la superbia e la stoltezza. Tutte queste cose malvagie procedono dall' interno e contaminano l' uomo».

Lc 11, 42-48: Guai a voi, farisei, perché pagate la decima della menta, della ruta e di tutte le erbe, ma poi trascurate la giustizia e l' amore di Dio. Queste cose sono da fare, senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, perché amate il primo posto nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. Guai a voi, perché siete come i sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza accorgersene». Allora un dottore della legge disse a Gesù: «Maestro, parlando così tu offendi anche noi». Gesù rispose: «Guai anche a voi, dottori della legge, perché caricate gli uomini di pesi difficili a portare, ma voi non li toccate neppure con un dito. Guai a voi, perché edificate i sepolcri dei profeti che i vostri padri hanno ucciso. Così facendo, voi dimostrate di approvare ciò che i vostri padri hanno fatto: essi li uccisero e voi costruite loro le tombe.

Mt 23, 23- 32: Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché pagate la decima sulla menta, sull' aneto e sul cumino e poi trascurate i precetti più gravi della legge, come la giustizia, la pietà, la fede. Queste cose bisognava osservare, pur senza trascurare quelle altre. Guide cieche, che filtrate il moscerino, e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l' esterno della coppa e del piatto, e dentro rimangono pieni di rapina e d' immondizia. Cieco fariseo, pulisci prima l' interno della coppa e poi anche l' esterno di essa sarà pulito. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all' esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni di ossa di morti e di ogni putredine. Così anche voi all' esterno apparite giusti davanti agli uomini, ma nell' interno siete pieni d' ipocrisia e d' iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché innalzate i sepolcri dei profeti e ornate i monumenti dei giusti dicendo: "Se fossimo stati ai tempi dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nel versare il sangue dei

144

Page 145: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

profeti". Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti e colmate la misura dei vostri padri!».

+ Rifiuta di prestarsi al bisogno popolare, anche se non solo popolare, del miracolo come "prova" (8,11-21).

Mt. 12, 38-42: Allora si rivolsero a lui alcuni scribi e farisei dicendo: «Maestro, vorremmo vedere da te un segno». Egli rispose loro: «Generazione cattiva e spergiura! Va in cerca di un segno! Ma non le sarà dato altro segno che quello di Giona profeta. Infatti, come Giona rimase nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti, così il Figlio dell' uomo rimarrà nel cuore della terra per tre giorni e tre notti. Gli uomini di Ninive insorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno; poiché si convertirono alla predicazione di Giona; eppure c' è qui qualcosa di più di Giona. La regina del sud sorgerà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; poiché venne dall' estremità della terra ad ascoltare la sapienza di Salomone; eppure c' è qui qualcosa di più di Salomone».

Matthew 16, 1-4 Gli si avvicinarono i farisei e i sadducei per metterlo alla prova, e chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Egli rispose: «Quando viene la sera dite: "Sarà bel tempo, poiché il cielo rosseggia"; e la mattina: "Oggi ci sarà burrasca, poiché il cielo è rosso cupo". Sapete, sì, giudicare l' aspetto del cielo, ma non sapete discernere i segni dei tempi. Generazione malvagia e spergiura! Chiede un segno; ebbene, le sarà dato, ma solo quello di Giona». E, lasciatili, se ne andò.

Motivi morali:

+ supera la legge di Mosè

Matthew 19, 1-12 Quando Gesù terminò questi discorsi, partì dalla Galilea e si incamminò verso il territorio della Giudea al di là del Giordano; lo seguirono folle numerose e lì operò guarigioni. Si avvicinarono a lui alcuni farisei per metterlo alla prova e gli domandarono: «È lecito ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore fin da principio maschio e femmina li fece, e disse: "Per questo lascerà l' uomo il padre e la madre e si unirà alla propria moglie e così i due diventeranno una sola carne?". In modo che non sono più due, ma una sola carne. Perciò, quello che Dio ha congiunto l' uomo non separi». Gli dissero: «Perché dunque Mosè comandò di dare il libello del ripudio e così rimandarla?». Rispose loro: «Mosè per la vostra durezza di cuore concesse a voi di ripudiare le vostre mogli; ma all' inizio non è stato così. Ora io vi dico: chi ripudia la propria moglie, se non per impudicizia, e sposa un' altra, commette adulterio». Gli dicono i discepoli: «Se tale è la condizione dell' uomo rispetto alla moglie, non conviene sposarsi». Egli disse loro: «Non tutti comprendono questo discorso, ma soltanto coloro ai quali è dato. Vi sono infatti eunuchi che nacquero così dal seno della madre, e vi sono eunuchi i quali furono resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si resero tali da sé per il regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda».

+ Gesù rompe le separazioni di classe basate di motivi di ordine morale.

Mc 2,15-17: Or avvenne che mentre egli stava a tavola in casa di lui, molti pubblicani e peccatori si erano seduti insieme a Gesù e ai suoi discepoli, giacché erano molti quelli che lo seguivano. Gli scribi dei farisei, vedendo che egli mangiava assieme ai peccatori e ai pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Perché mangia assieme ai pubblicani e ai peccatori?». Ma egli, udito ciò, rispose loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Lc. 5, 30-32 I farisei e i dottori della legge mormoravano e dicevano ai discepoli di Gesù: «Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?». Rispose Gesù: «Le persone sane non hanno bisogno del medico; sono i malati invece ad averne bisogno. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori affinché si convertano».

+ Dà il primato alla festa piuttosto che alla penitenza e subordina quest'ultima alla prima

Mc 2,18-22 (Lc 5,33) In quel tempo i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Allora vengono alcuni e gli dicono: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». Rispose loro Gesù: «Possono forse gli invitati a nozze digiunare mentre lo sposo è ancora con loro? Per tutto il tempo che hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Verrà il

145

Page 146: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

tempo, tuttavia, in cui lo sposo sarà loro tolto via, e allora, in quel giorno, digiuneranno. Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il panno nuovo, che è stato aggiunto, rompe quello vecchio e lo strappo diventa peggiore. Similmente nessuno mette vino nuovo in otri vecchi, ma vino nuovo in otri nuovi; altrimenti il vino fa scoppiare gli otri e così si perdono e vino e otri».

Motivi giuridici:

+ Afferma il primato del diritto alla vita, e alla salute, sul sabato

Mc. 2,23-28: Or mentre egli, di sabato, passava attraverso i campi seminati, i suoi discepoli durante il cammino si misero a raccogliere le spighe. I farisei, perciò, gli dissero: «Guarda! Perché fanno ciò che di sabato non è lecito?». Rispose loro: «Non avete mai letto ciò che fece Davide, quando si trovò nel bisogno e tanto lui quanto i suoi compagni avevano fame? Come, cioè, al tempo del sommo sacerdote Abiatàr entrò nella casa di Dio e mangiò i pani sacri, che non possono mangiare se non i sacerdoti, e ne diede pure ai suoi compagni?». E diceva loro: «Il sabato è fatto per l' uomo e non l' uomo per il sabato. Pertanto il Figlio dell' uomo è padrone anche del sabato».

Mc 3, 1-6: Entrò di nuovo nella sinagoga, nella quale vi era un uomo che aveva una mano paralizzata, ed essi stavano ad osservarlo per vedere se lo avrebbe guarito di sabato, per poterlo accusare. Dice all' uomo che aveva la mano paralizzata: «Lèvati su, in mezzo!». Quindi domanda loro: «È lecito di sabato far del bene o far del male? Salvare una vita o sopprimerla?». Ma essi tacevano. Allora, volgendo su di loro lo sguardo con sdegno e rattristato per la durezza del loro cuore, disse all' uomo: «Stendi la mano!». Quello la stese e la sua mano fu risanata. Ma i farisei, usciti di lì, tennero subito consiglio con gli erodiani contro di lui, per vedere come farlo perire.

Vedi anche: Lc. 14, 1-6; 6, 1-5; Mt. 15, 1-14; Gv. 9, 1-41

Motivi politici: l’esteriorità del potere

Vedi Mt, 23, 1- 21

3.2.2. Le interpretazioni del conflitto

Da parte delle autorità religiose non abbiamo molte reazioni al conflitto, se non quella violenta di meditare la morte di Gesù.

L'interpretazione che Marco riporta del conflitto, da parte dei farisei, è quella che vede il comportamento di Gesù come quello di un indemoniato. Essi la proferiscono come interpretazione più attendibile rispetto a quella data dai parenti, che sono venuti a prenderlo perchè "fuori di sè". Gesù rimase colpito da questa insinuazione, tant'è vero che si soffermò a confutare l’affermazione:

Mc 3, 20-30 Viene a casa e si raduna di nuovo tanta folla che non potevano neppure prendere cibo. Udito ciò, i suoi vennero per impadronirsi di lui, poiché dicevano: «È fuori di sé!». Gli scribi scesi da Gerusalemme a loro volta dicevano: «È posseduto da Beelzebùl»; e ancora: «Scaccia i demòni nel nome del principe dei demòni». Allora egli, chiamatili presso di sé, disse loro in parabole: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può sussistere. Come pure se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà sussistere. Ora se Satana è insorto contro se stesso e si è diviso, non può resistere, anzi è giunto alla fine. Piuttosto, nessuno che sia penetrato nella casa di un uomo forte può depredare i suoi beni, se prima non abbia legato quel forte. Soltanto allora potrà saccheggiare la sua casa. In verità vi dico che ai figli degli uomini saranno rimessi tutti i peccati, anche le bestemmie, per quanto abbiano potuto bestemmiare. Ma colui che avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non avrà remissione in eterno, ma sarà reo di peccato in eterno». Quelli, infatti, dicevano: «È posseduto da uno spirito immondo».

146

Page 147: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Da parte di Gesù, invece, troviamo diverse interpretazioni del conflitto che lo opponeva alle autorità del suo popolo.

Accusa i farisei di bestemmiare contro lo Spirito (Mc. 3,29), nel momento in cui si difende dall'accusa di essere indemoniato, e cioè di essere chiusi al dono della vita e, più radicalmente, alla Verità di Dio o alla manifestazione dello Spirito. Ciò a causa dell'ansia per il potere, e per la sua conservazione, ed insieme a causa del ripiegamento legalistico sulla legge. Questo ha fatto sì che la Legge stessa venga snaturata. Da Comandamento di Dio è divenuta pura e semplice tradizione umana

Mc. 7,8-13. Infatti, lasciando da parte i comandamenti di Dio, voi vi attaccate alla tradizione degli antichi». Diceva ancora loro: «Con disinvoltura voi abrogate il comandamento di Dio per stabilire la vostra tradizione. Mosè, infatti, ha detto: Onora tuo padre e tua madre; e: Chi oltraggia il padre e la madre sia punito con la morte. Voi, invece, dite che se uno dice al padre o alla madre: Corbàn, cioè: sia offerta sacra ciò che da parte mia dovresti ricevere, non gli lasciate fare più nulla per il padre o per la madre. Così annullate la parola di Dio per la tradizione che voi stessi vi siete tramandata. E di cose simili a questa ne fate ancora molte».

La lettera è rimasta tale e quale, neppure un iota o un apice è stato manomesso, eppure è mutata la sostanza. Quella che doveva servire per rendere l'uomo obbediente a Dio è divenuta strumento della disobbedienza. Caso emblematico è il sabato, ma quello forse più perspicace è il "Korban" che, in nome della legge, impedisce di obbedire al quarto comandamento (Mc 7,12).

Gesù accusa poi i farisei di ipocrisia, precisamente in occasione della domanda sul tributo a Cesare (Mc. 2,13-17).

L'ipocrisia sta nel fatto che i farisei presentano l'impegno verso Dio e quello verso le istituzioni politiche umane come fossero opposti l'uno all'altro, in modo che la fedeltà a Dio comporterebbe l'opposizione al potere politico. L'opposizione non esiste e per questo i farisei risultano falsi, ipocriti.

L'accusa di ipocrisia ha un significato che va al di là della pura e semplice "bugia"; la falsa opposizione tra Dio e Cesare serve ai farisei e non alla causa di Dio. Essi si servono di Dio per alimentare il consenso al loro potere politico. Riducono la questione del primato di Dio a strumento demagogico. In ciò la gravità della loro posizione e le ragioni della durezza di Gesù.

L'ipocrisia farisaica non ha effetti negativi solo sul piano religioso ma anche su quello sociale. Il loro potere, nel momento in cui strumentalizza Dio, diviene oppressivo per gli uomini. Strumento di tale oppressione è la legge, presentata ancora come legge "di Dio", ma di fatto non più tale. È rimasta inalterata la lettera, ma lo spirito della legge è totalmente disatteso, al punto che in essa non è più possibile ritrovare il comandamento di Dio, ma solo una tradizione umana, a servizio del potere. In seconda battuta, l'accusa di ipocrisia colpisce i comportamenti pubblici del farisei e cioè la coltivazione puramente retorica, artificiosa, della loro immagine pubblica. Il loro comportamento pubblico (Mc. 12,38-40) mostra quanto sia svilito e sviato il problema del potere politico in Israele e come l'esito di tale svilimento sia l'opposizione alla verità di Dio e alla dignità dell'uomo.

3.2.3. Il significato politico del conflitto

E' immediatamente evidente il fatto che il conflitto con le autorità religiose ha un significato che travalica i limiti del religioso per assumere un peso politico notevole e preciso.

147

Page 148: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Esso ruota attorno a due perni: il rapporto tra immagine pubblica e potere, e quello tra diritti umani e legge civile.

In merito a ciò possiamo fare alcune osservazioni:

1. Gesù si colloca, col suo ministero, là dove il potere cerca di legittimarsi presso il "senso comune" del popolo. Da tale punto di vista possiamo cogliere la distinzione tra autorità e potere e cioè tra il profilo democratico o violento del potere politico. La distinzione, infatti, vuol evidenziare il nesso tra potere e significatività della persona che lo detiene ed insieme la facile divaricazione dei due. Il potere diviene, allora, violento, nel senso che per costituirsi ed esercitarsi non richiede più il "giudizio" del popolo, non si fonda più sulla "parola", e quindi sul diritto, ma sulla forza. In realtà, proprio i potere più violenti usano la "parola" al massimo grado, la usano demagogicamente per colmare il loro vuoto di autorità e cioè il loro distacco dal popolo e dalle sue ragioni. L'ipocrisia è fisiologica, nel senso che il potere ha bisogno di colmare il vuoto di autorità con l'immagine artefatta di sè.

2. Gesù denuncia il carattere violento del potere politico in Israele, con la forza che deriva dalla sua persona, con i fatti e le parole che lui pone. L'emergere della sua "autorità" smaschera automaticamente la debolezza del potere sul piano della comunicazione pubblica e Gesù assume il significato di sovversivo, pur senza volerlo.

3. I potere è giudicato, dall'"evento Gesù", nella sua disponibilità ad essere struttura a servizio dell'uomo. Il difetto di comunicazione pubblica reale, non puramente retorica, corrisponde ad una precisa piega oppressiva del potere. Pretende di sottomettere l'uomo alla legge, e cioè i diritti "naturali" alle esigenze dello Stato, e nel far ciò ottiene dalla religione un aiuto decisivo.

4. L'autorità di Gesù, che smaschera irrimediabilmente il potere, deriva dal suo porsi a servizio dell'uomo, dall'amore per l'uomo. Non solo guarisce e sfama l'uomo ma anche, e prima, "annuncia" il Regno, e cioè la "verità" che riguarda il destino ultimo dell'uomo la quale suona come "buona notizia" per i poveri e come minaccia per i potenti o i ricchi. L'amore per l'uomo è quindi l'annuncio della verità, accompagnato dai gesti di "compassione" (1,41; 8,2) verso le sue infermità.

5. L'ipocrisia del potere agisce come schermo che impedisce anche al popolo di accogliere la testimonianza della Verità.

Il problema di Dio viene insabbiato negli interessi immediati degli equilibri politici o del culto (vedi il Tempio), fino al punto che dire la Verità diventa un comportamento destabilizzante e quindi perseguito dal potere, in nome del Bene comune, vale a dire la stabilità politica.

La retorica, poi, finisce per soffocare negli slogans la ricerca della Verità, diseducando ad essa, infrangendo e ridicolizzando la disciplina intellettuale e morale che tale ricerca richiede. Scompare la figura dell'intellettuale impegnato nell'ermeneutica della storia, lo scriba che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie, soppiantanta da quella del pubblicitario o dell'opinion's maker.

6. Svanisce, nel popolo, la capacità di cogliere le cose e i fatti come "segni" del tempo, indizi della "verità", ed al suo posto si fa strada il criterio della convenienza, della risposta ai bisogni immediati.

148

Page 149: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

In tal modo possiamo vedere, seppur in modo ancora frammentario, che i fatti cristiani hanno un peso politico che non deriva dal un'iniziativa diretta ma dal loro stesso porsi nella storia umana.

Gesù sconvolge gli equilibri politici per ciò che "annuncia" e per "come" opera a servizio dell'uomo. Non è l'opera di bene in sè che ha peso politico ma il suo diventare affermazione della dignità umana e della verità di Dio.

In tal senso il primo e fondamentale atto politico di Gesù è l'evangelizzazione.

4. Gesù e le istituzioni sociali in generale. Ricchezza e povertà

Tutto considerato, ai tempi di Gesù l'istituzione politica non è la più influente e determinante tra le istituzioni che reggono la vita associata; l'atteggiamento critico di Gesù nei confronti dell'ordinamento obiettivo dell'umanità concretamente esistente ha modo di esprimersi in maniera molto più diffusa ed articolata facendo riferimento alla distinzione degli uomini in classi, alle ricchezze, al denaro, al potere in generale.

Tuttavia il giudizio di Gesù non è mai esplicito e tematico: non c'è un solo detto di Gesù che sia un apprezzamento immediato dell'obiettiva realtà sociale, non una parola sull'«ingiustizia sociale»216.

Rimane in questo senso la validità piena di quanto affermato sopra: anzi, è proprio la preoccupazione scrupolosa di evitare l'equivoco di un messianismo sociale (una società più giusta è il Regno di Dio!) che - secondo ogni verosimiglianza - spiega la riservatezza estrema di Gesù nel giudicare le istituzioni obiettive. Lui (il Regno di Dio) giudica i «cuori»: niente di meno.

E tuttavia i «cuori» che Gesù giudica non sono cuori astratti; cuori senza rapporto alla complessa realtà sociale in cui gli uomini vivono (come l'«esistenza autentica» di R. Bultmann). Sicché il giudizio sui cuori rivela in maniera trasparente - per quanto indiretta - un apprezzamento di quella realtà e della sua rilevanza per la fede e per il Regno.

Le sei contrapposizioni («Vi è stato detto... ma io vi dico...») di Mt 5, 20-48 non comportano soltanto la proclamazione dell'insufficienza della legge mosaica per il Regno; ma - proprio a motivo dello stretto legame della giustizia degli scribi e dei farisei con la justitia civilis - la proclamazione dell'insufficienza delle norme sociali, dell'onestà civile, dal punto di vista del Regno.

Non è a quelle norme che si conforma ultimamente il discepolo: sicché egli può e deve saper fare a meno dei tribunali e del diritto di proprietà (vv. 38-42). Non solo, ma quando Gesù proclama beati i poveri, gli affamati e i piangenti217 - e in questo modo prolunga e concreta il suo annuncio fondamentale, quello del Regno 218 -

216. i rivoluzionari..., p. 35: «Gesù ha stigmatizzato l'ingiustizia sociale del suo tempo... ».217. Le beatitudini di Luca - quattro soltanto, in forma di discorso diretto riferito agli ascoltatori, senza la «spiritualizzazione» mattaica («poveri in spirito», «affamati di giustizia») - sono giudicate dagli esegeti come quelle più vicine alla forma originaria in cui esse vennero proclamate da Gesù: Cf. J. SCHMID, Matteo, Morcelliana, Brescia, 1962, pp. 105-109; O.DA SPINETOLI, Matteo, Cittadella, Assisi, 1971, pp. 104ss (con la bibliogr. necessaria).218. Il carattere «kerygmatico» delle beatitudini è trasparente in Luca, mentre in Matteo si sovrappone insistente il genere parenetico; quasi si dicesse: fatevi poveri, per entrare...

149

Page 150: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

lascia chiaramente intendere che la distribuzione di fortuna realizzata dalla società presente favorisce gli empi, coloro che saranno esclusi dal regno. Da tutto il contesto evangelico infatti appare chiaramente insostenibile la tesi che volesse spiegare le beatitudini con una concezione manichea della vita, della materia, della tavola e della gioia219: dunque, povertà, fame e pianto non vengono qui intese come modalità del rapporto uomo-beni, ma del rapporto uomo-altri; così come appare esplicito nel caso della quarta beatitudine: «Beati voi quando gli uomini vi odieranno...». È appunto il rapporto uomo-altri che - nella sua modalità paradigmatica, sanzionata dall'ordinamento complessivo della società - è tale da far sì che Gesù veda negli esclusi i candidati naturali al Regno. Si veda a conferma di ciò la parabola degli invitati nella versione di Luca (14, 15-24): i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi sostituiscono gli invitati della prima ora - i rappresentanti ufficiali del popopolo giudaico -. Anche in questo caso i notabili, quelli che contano e occupano i primi posti nella società giudaica, sono giudicati come non idonei al Regno.

Anche se è difficile che l'elenco citato risalga a Gesù stesso e pare invece che sia espressione della predilezione di Luca nel sottolineare la contrapposizione povertà-ricchezza (cf. 14, 22 con l'identico 14, 13, esclusivo anch'esso di Luca), l'accostamento tra i primi posti nella società e ricchezza (e quindi pregiudizio nei confronti del Regno) si trova anche negli altri sinottici (Mc 12, 38-40) e risale certamente a Gesù stesso: quelli che amano i primi-posti (gli scribi) sono anche coloro che divorano i beni delle vedove.

L'accostamento tra potere generico nella società (primi posti) e ricchezza, ci conduce a considerare l'insegnamento esplicito di Gesù su quest'ultima e sul denaro in particolare220.

Gesù non ha certo stabilito una distinzione manichea tra ricchi e poveri - egli stesso proveniva da una famiglia 'normale', non certo ricca ma nemmeno misera o nullatenente - né ha evitato astiosamente ogni rapporto con i ricchi: ha accettato i loro inviti (Lc 7, 36; 14, 1), s'è fatto aiutare da donne abbienti (Lc 8,3), gli stessi suoi amici di Betania (Lc 10, 38-42; Gv 11, 1 ss; 12, 1 ss.) pare fossero persone benestanti; persone come Nicodemo, Giuseppe d'Arimatea o Zaccheo capo dei pubblicanI non sono escluse per principio dal Regno.

E tuttavia Gesù ha ripetutamente parlato della ricchezza come massimo ostacolo all'ingresso nel regno (Mc 10, 23-27 ), e insieme tentazione grande per tutti e non solo per i ricchi (v. in particolare Mc 10, 26 s; e poi Mc 4,19). La ricchezza - come ogni altra forma di «sazietà» presente è oggetto di un esplicito «guaio» in Luca (6, 24). Ma l'affermazione più significativa è quella che si trova in Lc 16, 13 e in Mt 6, 24 in diverso contesto: «Non potete servire a Dio e mammona». Il termine siriano significa «ricchezza», sostanza che ha valore pecuniario; è usato anche negli scritti rabbinici contemporaneo, con o senza senso peggiorativo221.

Ma certo è originale di Gesù la sua personificazione demoniaca, che ravvisa in «mammona» un signore alternativo a Dio. La sentenza dei due padroni illustra quindi l'espressione di Luca, usata pochi versetti prima (16, 9.1 1): «denaro d'iniquità»,

219. Pare al contrario che Gesù fosse accusato di essere troppo poco asceta, di essere «mangione e beone», Mt 11, 19.220. Cf. la rapida sintesi di J. SCHMID, Marco, pp. 262-265 («L'atteggiamento di Gesù nei riguardi della ricchezza»).221. SCHMID (Matteo, p. 190) lo esclude sempre; SCHNACKENBURG (11 messaggio morale..., p. 118) pensa invece che il senso peggiorativo sia quello prevalente anche nella let. teratura rabbinica.

150

Page 151: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

ossia, denaro disonesto. Non si intende semplicemente indicare così un denaro acquistato mediante atti disonesti; ma si intende affermare che il possesso di ogni denaro va in qualche modo congiunto a disonestà, che il denaro (mammona) è un padrone che esige un'obbedienza alternativa rispetto a quella dovuta a Dio: il buon uso del denaro quindi è quello di privarsene per elemosina (cf. 16, 9; 12, 33 e Mt 6, 20-21 parallelo).

Riassumendo: Gesù vede chiaramente la ricchezza come espressione caratteristica della incredulità e dell'ingiustizia dell'uomo, e insieme sorgente di esse. Egli vede insieme il legame stretto che sussiste tra ricchezza e potere sociale (cf. giudizio sugli scribi e sui farisei); sicché la diffidenza verso la ricchezza è strettamente legata all'avvertenza di guardarsi dal cercare i primi posti. L'immagine complessiva della società che pare così sottendere l'istruzione di Gesù sul Regno è l'immagine di una società in cui l'ingiustizia è fondamento della ricchezza e del potere. L'avvento del Regno pone il credente in contraddizione con una tale società; ma non costituisce per Gesù un sovvertimento della stessa. Immediatamente il Regno rende soltanto urgente la conversione e la de-solidarizzazione da questo «mondo».

Cristiano e società nella testimonianza apostolica

Come nella predicazione di Gesù, anche nella predicazione apostolica - quale ci è nota dall'insieme degli scritti neotestamentari - manca una concezione sistematicamente sviluppata della realtà sociale dal punto di vista della fede cristiana. Esistono per altro molteplici prese di posizione parziali, iscritte entro una situazione ben caratterizzata, della quale occorre tenere il massimo conto, onde non maggiorare il valore delle testimonianze stesse e onde evitare la conclusione che le testimonianze stesse si contraddicano: è questa infatti la prima impressione che si ricava dal modo di discorrere dell'impero romano in Rm 13, 1 ss. e in Ap. 13.

Occorre inoltre tener conto della dipendenza della parenesi cristiana dai luoghi comuni dell'etica giudaica ed ellenistica, e - sotto questo punto di vista - inquadrare il tema dell'etica sociale entro quello più generale della struttura della perenesi cristiana e della sua specificità.

Infine - per interrogare il N.T. circa la sua struttura etico-sociale occorre decidere pregiudizialmente quali siano le espressioni caratteristiche della «società» - ossia quali siano le istituzioni obiettive mediatrici delle relazioni essere-socio - ai tempi delle comunità apostoliche.

Includiamo nel numero di queste espressioni innanzitutto l'istituzione politica, e più precisamente l'autorità nelle sue funzioni giurisdizionale e amministrativa. Per quanto riguarda il diritto sociale (ultimamente fondato sulla sanzione imperiale, ma non implicante un rapporto esplicito con l'autorità pubblica), prenderemo in considerazione l'istituzione della schiavitù e della proprietà privata.

151

Page 152: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

1. Relativizzazione dell'istituzione sociale

La prima riflessione che mi pare opportuno richiamare - anche se del tutto ovvia, ma proprio perché del tutto ovvia spesso non valutata nella sua obiettiva portata - è questa: la comunità cristiana primitiva, cosciente di sé come comunità escatologica di salvezza, non ritenne necessario darsi una organizzazione sociale propria; continuò al contrario a vivere, del tutto naturalmente, all'interno del quadro sociale prima giudaico, poi genericamente imperiale. Questo mi pare un fatto di grande portata storica.

Così come ogni istituzione sociale dell'antichità (e l'impero in specie) era insieme istituzione «religiosa», reciprocamente ogni «religione» era religione di stato. È vero che si possono addurre i precedenti esempi anomali costituiti dalle comunità giudeo-elleniste e dalle varie sette religiose, esoteriche e orientaleggianti, dei culti misterici. Ma queste seconde - per il loro carattere esoterico e puramente cultuale - rendevano i rapporti sociali semplicemente irrilevanti per la salvezza e solo a questo patto potevano giustapporre vita sociale ed esercizio religioso; mentre le comunità giudaiche pagavano il loro liberalismo «ecumenico» con un allentamento dei tratti specificamente giudaici (cf. attesa messianica, interpretazione della legge mosaica in generale), e d'altra parte godevano di un diritto sociale privilegiato (religio licita).

Le comunità cristiane invece continuavano a considerare i rapporti sociali come terreno rilevante per l'esercizio della loro fede (come vedremo), senza per altro sacralizzare in alcun modo tali rapporti. Non è l'autorità sacra di chi detiene il potere (pagano!) il fondamento dei doveri del cristiano, e quindi il fondamento della scocietà stessa nel suo insieme, secondo la concezione cristiana; ma è piuttosto una signoria di Dio che il cristiano conosce come operante anche nella società, e in genere nella storia degli uomini, a prescindere dalla coscienza che gli uomini ne hanno. In questa signoria di Dio il cristiano può trovare il fondamento di un'obbedienza a Cesare, che non ha più come misura ultima la volontà di Cesare.

Si comprende già da questi accenni come il modello più vicino alla prospettiva cristiana dovesse essere il modello dell'etica filosofica (e soprattutto stoica), che pure in certo modo proponeva un'obbedienza a Cesare, ma non in nome di Cesare, ma di una norma assoluta, a cui Cesare stesso era sottomesso.

Vedremo di fatto in che larga misura la parenesi cristiana sui doveri civili si sia servita dell'eredità stoica.

2. I doveri del cristiano verso l'autorità

Abbiamo affermato sopra che i rapporti sociali non sono per la comunità cristiana primitiva irrilevanti in ordine alla salvezza. Di fatto l'istruzione circa l'obbedienza ai detentori dell'autorità civile, come anche l'obbedienza ai padroni da parte degli schiavi, facevano parte della catechesi ordinaria sui doveri più fondamentali del cristiano222. Sia nelle cosiddette «tavole domestiche» delle lettere alla comunità (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-17), che negli ordinamenti per la comunità disposti nelle lettere pastorali (1 Tm 2, 1-3; Tt 3, 1-3; 3, 8) si ritorna su questo argomento.

222. Circa la presunta esistenza di un catechismo morale universale, circolante presso le diverse chiese, e al quale si riferirebbero le sezioni parenetiche delle lettere paoline ed apostoliche in genere, ef. CH. DODD, Evangelo e legge, Brescia.

152

Page 153: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il testo più esteso e più discusso è quello di Rm 13, 1-7223. Paolo invita i cristiani a sottomettersi alle autorità in carica, perché esse tutte vengono da Dio e sono stabilite da lui. Resistere all'autorità è dunque ribellarsi «all'ordine stabilito da Dio» (v. 2); d'altra parte la loro autorità orienta ad agire nello stesso senso del «bene» (morale, evidentemente, v. 3 s), sicché la soggezione ad esse non è richiesta semplicemente dal timore del castigo, ma da un «motivo di coscienza» (v. 5). L'esortazione è ripresa in conclusione con un evidente riferimento al detto di Gesù (Rendete a Cesare ... ) applicato ai doveri diversi (cf. v. 7).

Il testo sorprende un poco per l'apparente incondizionatezza del dovere di obbedire proposto, e soprattutto per la visione dell'autorità civile come ministra della pedagogia morale di Dio (v. 4). Quest'ultimo tratto accosta, obiettivamente, la funzione dell'autorità alla funzione della legge secondo Paolo (cf. Gal 4, 1-7). Tale somiglianza ha potuto offrire prima a Lutero, poi a tutta la tradizione protestante, l'opportunità di intendere i giudizi sull'autorità dati in questo passo in chiave storico-salvifica: quasi una permanenza del mondo vecchio della legge e dei suoi ordinamenti nella società (governo della mano sinistra di Dio) anche per il cristiano in certo modo (contro l'atteggiamento eversivo degli «entusiasti» con cui Lutero dovette combattere). Addirittura, l'esegesi protestante più recente ha tentato in alcuni suoi rappresentanti224 di proporre una lettura apocalittica del brano, identificando le exousìais di 13,1 con le «potenze» di questo mondo di cui si parla in Colossesi ed Efesini, e connettendo quindi 13,1-7 con 13,11-14, al di là di ogni evidenza filologica e di contesto.

L'esegesi cattolica viceversa vide il fondamento delle affermazioni di Paolo sul ministero divino svolto dalle autorità nella dottrina della «legge naturale», conosciuta anche dai pagani (Rm 2, 14-16), di cui pure Paolo parla.

L'analisi filologica del brano mostra che il linguaggio impiegato è soltanto profano-ellenistico225. Certo, non si può attribuire a Paolo una concezione semplicemente stoica e giuridico-naturale dell'autorità. Il contesto generale del suo pensiero, entro cui va collocato anche questo brano, è la concezione semitica, orientata al concreto storico e che vede in ogni accadimento il realizzarsi di un corso preordinato da Dio, al di là della consapevolezza dei protagonisti.

Questa concezione aveva già condotto - nell'A.T. (Cf. sopra) e nel giudaismo contemporaneo - ad assumere un atteggiamento positivo nei confronti dei popoli a cui Israele fu sottomesso, senza vedere in essi necessariamente potenze diaboliche, ma realtà che addirittura svolgono un incarico positivo nell'economia del governo divino, anche se incarico sempre provvisorio e subalterno.

Tuttavia a me sembra che questo contesto giudaico generale abbia costituito per Paolo l'autorizzazione ad accogliere - qui in concreto - alcuni temi caratteristici della etica popolare ellenistico-stoica226: si noti in particolare l'espressione del v. 5 (dia( ten suneidhsin) lo stesso termine di 2, 15). Ossia, la secolarizzazione della realtà politica - non immediatamente connessa alla realtà della salvezza, la quale è

223. Una rassegna delle diverse linee interpretativi è offerta da E. KASEMANN, Romer 13,1-7 in unserer Generation, ZthK. 56 (1959), pp. 316-376; o più brevemente dello stesso Grundsatzliches zur Interpretation von Romer, 13 in Exegetische Versuche und Gesinnungen, II, pp. 204-222.224. M. DIBELIUS in uno scritto del 1909 (poi mutò parere), G. DEHN, Engel und Obrigkeit, in «Theol. Aufsatze fur K. Barth», 1936, pp. 190s; K. BARTH, Recbtfertigung und Recbt, 1948, pp. 14ss; 0. CULLMANN, Dio e Cesare e altri scritti.225. Cf. la documentazione esauriente di A. STROBEL, Zum Verstandnis von Rom. 13, ZNW, 1956, 67-93.226. L'indicazione è di SCHNACKENBURG, Il messaggio morale.... p. 222. Cf. 0. KUSS, La lettera ai Romani, in loco.

153

Page 154: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

ormai sicura e non suscettibile di essere frustrata da alcuna realtà (cf. Rm 8, 31-39 e 13, 11-14) - abilita e costringe Paolo a rivolgersi alla semplice evidenza della "coscienza" per giudicare del comportamento cristiano nel tempo presente (cf. Fil 4, 8); in questo quadro, del tutto naturalmente, si fa innanzi a lui il modo di giudicare circa lo stato e i doveri civici proprio dei rappresentanti del più autorevole messaggio etico vivente all'interno dell'impero.

Rimane comunque l'impressione di un atteggiamento accentuatamente o eccessivamente ottimista nei confronti dell'impero romano, quasi un'idealizzazione dello stato, del tipo della teorizzazione che fece la speculazione giuridico-naturale stoica sul diritto romano.

Per questo aspetto Rm 13, 1 ss è da accostare al tema generale del lealismo cristiano nei confronti dell'impero, che è fenomeno con motivi storici specifici, sui quali ci soffermeremo più avanti.

In termini del tutto analoghi rispetto Rm 13 si esprime 1 Pt 2, 13-17. Ma appare qui una motivazione ulteriore, la quale conferma - in certo senso - l'interpretazione che abbiamo suggerito di Rm 13: «È volontà di Dio che facendo il bene [ossia obbedendo all'autorità] voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli insensati». Questa giustificazione suppone che il carattere «buono» dell'obbedienza costituisca un'evidenza morale anche per coloro che cristiani non sono e che hanno - per altri aspetti - motivi di diffidenza nei confronti dei cristiani. L'obbedienza civile diventa quindi quel terreno comune a cristiani e pagani, sul quale i cristiani possono e devono fondare un'apologetica pratica della loro fede.

L'esortazione al lealismo nei confronti delle autorità è tanto più notevole in 1 Pt, in quanto questa lettera conosce già alcune forme (oscure per altro) di persecuzione nei confronti dei cristiani (3, 14-17; 4, 12-19); conosce già quell'esperienza che condurrà Giovanni ad un discorso sull'impero romano in termini dualistici ed apocalittici. Sicché Pietro, se per un verso afferma: « Chi vi farà del male, se voi diventate zelanti per il bene? », aggiunge però « Beati voi, d'altra parte, quando dobbiate soffrire per la giustizia » (3, 13 s). Ossia, c'è una possibilità di intesa e di riconoscimento tra cristiani e pagani sul tema del bene (legge morale); ma

l'urgenza ultima del bene per il cristiano è sostenuta soltanto dalla fede escatologica delle beatitudini.

Le esortazioni simili di Tt 3, 1-3 e 1 Tm 2, 1-3 ribadiscono l'atteggiamento di obbedienza e di buona disposizione dei cristiani nei confronti dell'impero; il secondo brano addirittura invita a pregare per le autorità (come già si faceva anche nel giudaismo) e indica lo scopo, il bene, che i cristiani si attendono dal loro ministero: poter « condurre una vita calma e tranquilla, in tutta pietà e dignità ». Questo bene è esso stesso espressione dell'amore di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità»: è qui indicato - allusivamente e con discrezione - l'orientamento ultimo alla salvezza che dà valore anche al ministero civile delle autorità ed al comportamento civile dei cristiani in generale.

A questi ripetuti inviti all'obbedienza occorre accostare la visione dell'impero romano emergente dall'insieme degli scritti neotestamentari; voglio alludere alla tendenza nettamente irenica presente in Atti e nei racconti sinottici del processo di Gesù: anche là dove i funzionari romani si comportano in modo indebito, la relazione dell'autore cristiano tende ad attenuarne la responsabilità227.

227. Per quanto riguarda gli Atti, cf. la breve sintesi di SCHNACKENBURG, Il messaggio morale.... p. 219; per quanto riguarda invece la relazione sinottica del processo davanti a Pilato, cf. J. BLINTZER, Il

154

Page 155: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il complesso di queste testimonianze mi pare dimostri come il lealismo nei confronti dell'autorità imperiale non costituisca soltanto un'indicazione obiettiva e intraecclesiastica dei doveri che scaturiscono dalla conversione cristiana (cf. 1 Pt 2, 11 s che introduce l'esortazione relativa all'autorità); ma sia insieme un aspetto della fisionomia che le comunità cristiane come tali vogliono assumere nei confronti dell'autorità stessa: vogliono essere conosciute come comunità non eversive, come distinte dai molteplici movimenti di inquietudine ed insubordinazione civile che turbavano la vita dell'impero (v. ancora 1 Pt 2, 13 s).

Questa preoccupazione probabilmente non è stata senza influenza sul carattere apparentemente «eccessivo» che presentano le esortazioni all'obbedienza che abbiamo esaminato.

D'altra parte l'emancipazione da ogni autorità e da ogni ordinamento sociale presente non era soltanto un atteggiamento che alcune circostanze esteriori (venir meno della ridiga distinzione in classi sociali, partecipazione delle donne alle assemblee domestiche, ecc.) suggerivano di attribuire ai cristiani nel giudizio dei pagani; ma era anche una tentazione obiettiva per alcuni cristiani, una delle conseguenze che potevano essere tratte dalla coscienza di vivere ormai negli ultimi tempi, nella pienezza della conoscenza di Dio e di ogni perfezione.

Si veda l'atteggiamento degli «entusiasti» di Corinto, quale traluce sullo sfondo di 1 Cor 7,17: la vocazione della fede non è vocazione al sovvertimento delle condizioni e degli ordinamenti sociali precedenti: « ognuno rimanga nella condizione che il Signore [N.B.: la condizione "secolare" intesa come espressione di una volontà divina] gli ha assegnato, così come l'ha trovato la chiamata di Dio ».

E questo è detto nonostante la - anzi, proprio a motivo della vivissima coscienza escatologica di Paolo: « il tempo si fa corto. Resta dunque che quelli... che usano di questo mondo debbono vivere come se non ne usassero. Perché passa la figura di questo mondo » (7, 29-31).

La coscienza del carattere provvisorio e preliminare delle distinzioni sociali tra gli uomini relativizza le distinzioni stesse; sicché è possibile vivere la novità della condizione cristiana senza che ciò debba per ciò stesso ed immediatamente provocare un sovvertimento dell'ordine sociale.

L'atteggiamento che gli schiavi cristiani devono tenere nei confronti dei loro padroni - come quello reciproco dei padroni -, quale risulta dalle «tavole domestiche» delle lettere del N.T., si inserisce in questo stesso contesto: permanenza della realtà sociale esistente, ma insieme sua radicale relativizzazione.

Si veda come all'esortazione, paradossale e paradigmatica, di 1 Cor 7, 21-24: «Eri schiavo? non te ne preoccupare; anzi, anche se puoi diventare libero, metti piuttosto a profitto la tua condizione di schiavo... », segua la relativizzazione della distinzione schivo-padrone nella luce di Cristo.

Incontriamo qui le stesse aporie e gli stessi sospetti che suscita l'interpretazione mattaica della prima beatitudine: « Beati i poveri nello spirito ». Non cade il cristianesimo in uno spiritualismo astratto, che lascia le cose come sono, e le cambia soltanto in un immaginario - o comunque non storicamente esistente - ordine celeste o futuro? Il «come se» dei vv. 1 Cor 7, 29-31, o l'affermazione che lo schiavo cristiano è «liberto del Signore», in realtà non fanno riferimento ad atteggiamenti «spirituali» nel senso oggi diventato ovvio - cioè, senza concretezza storica. In

processo di Gesù, Brescia, 1967, dove si tenta una ricostruzione storica e si informa sull'amplissima letteratura in proposito.

155

Page 156: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

praticolare sembra che Paolo in 1 Cor 7, 22 intenda suggerire l'immagine di «liberto di Cristo» come immagine realistica della condizione dello schiavo cristiano: come il liberto, «manumesso» al suo padrone, continua in concreto a servire il suo antico padrone, così il cristiano continua un'aliquale servitù, ma nella condizione giuridica di chi è libero; il servizio di schiavo che lui continua a svolgere costituisce l'adempimento di un'obbedienza a Cristo, che in questa condizione lo ha chiamato e questa condizione gli ha assegnato come vocazione.

Così nelle «tavole domestiche» (Ef 6, 5-8; Col 3, 22-25) il servizio dello schiavo cristiano è esplicitamente presentato senza finzione e senza servilismo, senza desiderio di compiacenza falsa ai padroni; esortazioni di questo genere per altro si trovano già presso etica popolare pagana. Mentre Pietro (1 Pt 2, 18-25) approfondisce la motivazione specificatamente cristiana, fino a mostrare nelle angherie sopportate dai padroni «discoli» un modo di imitare il modello Gesù Cristo paziente. Le esortazioni complementari rivolte ai padroni cristiani, richiamano sempre la motivazione cristiana, e quindi la relativizzazione della distinzione tra servo e padrone, entrambi uguali di fronte al Padrone del Cielo (Ef 6, 9; Col 4, 1); ma le conseguenze concrete che ne sono tratte (dare il giusto e ragionevole agli schiavi) non vanno al di là dei temi già noti all'etica popolare pagana.

Ma se le «leggi», le direttive generali (verosimilmente derivanti da un catechismo morale fondamentalmente comune) non vanno molto al di là dell'ethos pagano, nell'unico caso in cui ci è concesso esaminare un po' più da vicino l'incidenza della fede apostolica sui rapporti servo-padrone constatiamo che in concreto le cose andavano (o potevano andare) diversamente. Alludo al biglietto di Filemone228: in esso Paolo non pone in questione il «diritto» di Filemone su Onesimo (glielo rinvia), e neppure «comanda» (come pure potrebbe, secondo quanto egli afferma) a Filemone di liberarlo (o darlo a Paolo come aiuto?); ma vuole che dalla sua fede e carità cristiana nasca concretamente e spontaneamente il rapporto nuovo (v. 16) di fraternità con Onesimo.

Dunque, se anche la predicazione apostolica non prescrive nulla sul piano giuridico, orienta ed esorti ad una trasformazione concreta e radicale del rapporto.

3. La libertà del cristiano nei confronti delle autorità

Nonostante il suono che possono dare le incondizionate esortazioni all'obbedienza che abbiamo fin qui considerato, il N.T. ci offre esempi concreti (ed evidentemente «esemplari») di comportamento cristiano disobbediente nei confronti dell'autorità.

È in questi casi che si manifesta in maniera indiscutibile come la «relativizzazione» - ossia il riferimento alla volontà ultima di Dio - dell'ordinamento presente fosse per gli apostoli ben più che un fatto spirituale e di rilevanza puramente interiore.

Tuttavia gli esempi di obiezione civile che presenta il N.T. sono tutti occasionati da prevaricazioni dell'autorità «civile» (soltanto il cristiano ha imparato a

228. PREISS, Vie en Christ et éthique sociale dans l'Epitre à Philémon, in "La vie en Christ", Neuchátel et Paris, 1951, ha tratto spunto dalla lettera a Filemone per descrivere l'aspetto dell'etica sociale cristiana da noi descritto in questo paragrafo; aspetto che però - lo vedremo - non è l'unico presente ed autorizzato del N.T.

156

Page 157: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

confinarla a questo livello) nei confronti del comportamento «religioso» dei sudditi cristiani. Ossia, non abbiamo esempi di disobbedienza motivata dall'ingiustizia «sociale» di un ordine. Ma - a considerare le cose in prospettiva storica - neppure avremmo potuto aspettarci esempi di questo genere, stante il livello di coscienza politica allora vigente. È già cosa notevole che sorga un movimento come quello cristiano, il quale - pur non rinnegando per principio l'autorità di Cesare - sappia considerarla come non «assoluta», come soggetta ad un'altra istanza superiore ed assoluta.

I casi di disobbedienza civile d'altra parte non riguardano soltanto l'impero romano e i suoi rappresentanti (cf. soprattutto Apocalisse in rapporto alle persecuzioni di Nerone o Domiziano), ma anche l'autorità giudaica. Quest'ultima - per altro subalterna rispetto a Roma - era pure riconosciuta in linea di principio dalla comunità gerosolimitana primitiva, a quanto risulta dagli Atti: neppure in Giudea i cristiani furono - dal punto di vista di sistema sociale - contestatari. E tuttavia seppero resistere senza incertezze alle imposizioni del Sinedrio, contrario alla predicazione del vangelo del Risorto (cf. 4, 5-22; 5, 17-40; mentre il giudizio di Stefano - per altro ricalcato sulla polemica di Gesù contro gli scribi e i farisei contro l'autorità giudaica - è di sapore più schiettamente profetico o storico-profetico (7, 51-53).

La disobbedienza esplicita nei confronti dell'autorità romana appare nel N.T. soltanto sullo sfondo dell'Apocalisse: il libro - negli ultimi capitoli (13-19) - è tutto intessuto di ammonizioni a non « adorare la bestia », a non prostrarsi «davanti alla sua immagine» (cf. 13, 4 ss; 14, 9.1 l; 16, 2; 19, 20), espressioni che alludono abbastanza chiaramente alla pretesa del culto dell'imperatore, che costituiva l'occasione esplicita dell'obiezione di coscienza cristiana e quindi della persecuzione229. Presumibilmente, lo stesso soggiorno di Giovanni a Patmos (Ap 1, 9) è connesso a questa persecuzione230.

4. Giudizio negativo sull'autorità politica e sulla società, in chiave storico-salvifica

È appunto nel contesto vitale dello scontro concreto che la coscienza cristiana vive nei confronti di un'autorità prevaricante che si inseriscono affermazioni neotestamentarie di tono opposto alle esortazioni all'obbedienza; affermazioni in cui l'autorità civile - o più genericamente umana è giudicata come un'incarnazione delle potenze ostili a Dio, a motivo delle sue pretese assolutistiche, e quindi della sua deificazione o comunque del suo rifiuto di riconoscere l'assolutezza della volontà (verità) divina.

Già la condanna a morte di Gesù è letta in questa chiave da parte di Giovanni, come abbiamo visto: è il mondo incredulo che fa di Pilato (dell'autorità civile) la propria espressione. Notiamo: secondo la lettura di Schlier che sopra abbiamo riassunta, Pilato è come asservito a sé - al di là delle sue pretese neutralistiche - dalla ostilità del «mondo» nei confronti di Cristo. In questo senso diciamo che

229. Indicazioni bibliografiche sul tema del culto imperiale si possono trovare in Introduzione alla Bibbia (o. c. T. Ballarini), Marietti, Torino, 1964, vol. 2, p. 454, n. 1, o in qualsiasi commentario dell'Apocalisse.230. L'accordo circa l'identità storica di questa persecuzione è incerto: Nerone o Domiziano? o addirittura altri? Cf. Introduzione alla Bibbia, cit., pp. 451 ss.

157

Page 158: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

l'autorità politica è soltanto «espressione», e non principio, delle forze ostili a Dio (demoniache, secondo la terminologia apocalittica).

Lo scontro della fede cristiana primitiva con le autorità è letto nello stesso quadro cosmico-escatologico; addirittura, in base ad At 4, 24-30, pare di poter dire che fu la persecuzione sofferta dalla comunità cristiana da parte dei giudei (ma con la connivenza romana) che condusse la stessa ad intendere il processo di Gesù come scontro escatologico. «È una lega, in verità, che Erode e Ponzio Pilato con le nazioni pagane e i popoli d'Israele hanno costituito in questa città contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai unto » (v. 27, commento al Sal. 2, 1 s. precedentemente citato). Anche in questo caso il giudizio sull'autorità è portato alla luce dalla solidarietà dell'autorità stessa con la società: l'ostilità dei giudei nei confronti di Gesù è quella che si esprime nel comportamento arbitrario delle autorità.

Paolo riesprime questa convinzione circa il valore «cosmico» - o meglio, storico-escatologico - della crocifissione di Gesù, servendosi della terminologia tardo-giudaica231 dei «principi» (1 Cor 2, 8), dei « principati e delle potestà » (Ef 3, 10; cf. 1 Pt 1, 12): costoro non hanno conosciuto la sapienza di Dio (e cioè Gesù Cristo), né l'avrebbero potuto conoscere, tant'è vero che hanno crocifisso il Signore della gloria.

Non è qui il caso di esaminare dettagliatamente la dottrina «dualistica» di cui Paolo si serve, né di dimostrarne il carattere storico e non metafisico232 di questo dualismo. Dando come pacifico il principio che in, questa forma «dualista», o meglio «drammatica», si esprime la visione escatologica della storia emergente dalla morte e resurrezione di Cristo, quello che ci interessa rilevare è come anche Paolo ponga gli atti delle autorità giudaiche e romane sul versante dell'«eone» antico e delle sue potenze, incapace di confessare la gloria di Cristo.

Dunque in Paolo, oltre all'ammissione franca della necessità e dell'autorizzazione divina a che si siano delle autorità nella società, esiste anche questo luogo teologico distinto, in cui sulla realtà storica. dell'autorità (e della società nel suo insieme) si porta un giudizio escatologico di condanna.

È a questo stesso luogo teologico che appartiene l'affermazione di Fil 3, 20, che la nostra «cittadinanza» non è di questo mondo, ma nei cieli; e l'affermazione analoga di Ebr 11, 13-16 sulla «patria» futura e celeste.

Ma l'elaborazione più esplicita e più radicale di questa prospettiva di giudizio sull'autorità imperiale e su tutta la grande società è svolta in Apocalisse. Il genere letterario stesso di questo scritto è tale da prevedere a-priori l'adozione esclusiva della prospettiva in questione: è il genere letterario per i tempi di persecuzione (cf. Daniele) ed è il genere letterario in cui i regni di questa terra e il regno di Dio si scontrano nell'ultimo confronto fatale; è il genere letterario al quale originariamente appartiene la personificazione degli imperi come forze - caduche e controllate da Dio - che svolgono un ministero di opposizione a Dio.

Secondo l'Apocalisse dunque è l'«avversario», «Satana», il Dragone (cf. c. 12, in particolare v. 9) che trasmette il suo potere alla Bestia (13, 1-10), secondo l'affermazione già propria di Lc 4, 6, che la potenza e la gloria dei regni terreni sono concesse in amministrazione al tentatore. Di fatto la «bestia» dell'Apocalisse è

231. O di derivazione gnostica? Così vuole R. BULTMANN; cf. Theol. of tbe New Testament, London, 1968, 1, pp. 173 s.232. Riconosciuto anche da Bultmann, che pure ne sostiene la derivazione gnostica, ivi. Cf. in genere sul tema dei principati e delle potestà, e la visione della storia connessa, H. SCHLIER, Principautés et Puissances dans le N.T., in Essais sur le N.T., pp. 171-185; oppure Principati e potestà, Quaestiones Disputatae, 3, Morcelliana, Brescia, 1970. Discutibile l'interpretazione personal-metafisica che l'A. propone, ma accurato e utile è il lavoro di ricostruzione e accostamento dei testi.

158

Page 159: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

identificata con l'impero romano (v. 17, 10; 12-14 e l'enigmatico numero della bestia indicato in 13, 18: comunque lo si interpreti esso si riferisce al Cesare, forse al Cesare-Dio DEISSMANN, CULLMANN, SCHLIER -, ossia all'imperatore autodeificantesi).

Il tema della Bestia si confonde poi ai cc. 17-18 con quello della Prostituta famosa, Babilonia, e cioè Roma: potere politico e società pagana sono fusi in un unico giudizio di condanna; l'elegia su Babilonia (18, 9-24) descrive la caduta futura di Roma come caduta di tutto un sistema di vita - commercio, lusso, canti - pagano, giudicato come responsabile (v. 24) del sangue dei profeti e dei santi. La persecuzione dunque non è motivo di una condanna discriminante nei confronti dei responsabili politici, ma del sistema complessivo di vita che in essi si esprime, e che li fa rappresentanti del tentatore.

5. Conclusione

La composizione dei diversi «luoghi» neotestamentari entro cui si parla dell'autorità politica e della società nella sua consistenza precristiana non avviene all'intemo del N.T. in maniera esplicita.

In particolare la tensione innegabile tra il lealismo verso l'autorità politica e la riserva dell'obbedienza a Dio darà luogo in tutta la storia della Chiesa ad atteggiamenti alquanto divergenti nei confronti della realtà politica, in specie della realtà politica non cristiana.

Possiamo qui riassumere la tensione, caratteristica dell'atteggiamento cristiano, come tensione tra il giudizio di decadenza storica portato su ogni realizzazione sociale terrena da un lato, e la convinzione che il rimedio portato da Cristo a questa condizione decaduta non elimina - collettivamente ed obiettivamente, e cioè a livello «sociale» - la condizione stessa. Sicché il cristiano rimane all'interno di questa economia decaduta (e quindi accettandone le necessarie strutture storiche, come volute da Dio) come colui che non vi appartiene: e quindi in atteggiamento critico di riserva.

L'atteggiamento critico deriva per un verso dalla convinzione che il Regno di Dio è già qui, e non abbisogna dell'incarnazione istituzionale per dispiegare la sua specifica «dunamis»; per altro verso dalla consapevolezza che la «giustizia» del discepolo dovrà essere maggiore di quella legale (« degli scribi e dei farisei ») - ossia di quella sanzionata dalle istituzioni sociali - perché lui possa entrare nel Regno.

Questa emergenza della giustizia cristiana rispetto all'ordine stabilito si esprime nel N.T. senza modificare l'ordine stesso.

Vedremo quale evoluzione storica e culturale renderà urgente per la «carità» cristiana esprimersi anche come volontà di mutamento.

159

Page 160: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

PARTE SISTEMATICA

Il percorso fatto lungo la tradizione cristiana ha evidenziato due profili del problema morale per quanto riguarda il vivere sociale, considerato nelle sue forme oggettive.

Il primo riguarda la comprensione della società moderna, degli elementi ideali e funzionali che la compongono; il secondo riguarda i modi della presenza del cristiano e della Chiesa nella società attuale.

Dobbiamo registrare un ritardo della intelligenza cristiana nel recepire le categorie da cui nasce la nuova consapevolezza di sè dell'uomo moderno e cioè la categoria di "storia" e di "società". Una efficace presenza critica e stimolatrice del cristiano nella vita civile e politica è senz’altro ostacolata da una visione anacronistica della società stessa.

Noi ci soffermeremo soprattutto sulla seconda questione, relativa ai modi della presenza del cristiano nella società, dal momento che la prima interessa ogni capitolo della teologia. Ne richiamiamo, comunque, le linee fondamentali 233.

233. Ci riferiamo, in particolare, all'introduzione di Angelini al testo di Herr, op. cit. alle pp. XXII-XXX.

160

Page 161: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

1. Ripresa della vicenda storica della

modernità

Distinguiamo, innanzitutto il mutamento relativo all'esperienza fattuale e quello relativo alle idee.

Il senso della "storicità" si produce in concomitanza con l’infrangersi dello scenario "cosmico" tipico della cultura antica. Quando ai ritmi delle stagioni si sostituiscono i ritmi dell’attività commerciale e della produzione industriale. Il rapporto tra "natura" e "società" si inverte: la prima viene ad essere momento della vita sociale. La "natura" non svolge più una funzione di orizzonte, immutabile e 'divino', del vivere umano.

Il "naturale" passa in secondo piano e la vita umana si costituisce sempre più su elementi "artificiali" (l'attività mercantile, la macchina, i ritmi della produzione e del mercato, l'alternanza lavoro/tempo libero e non feriale/festivo, la produzione dei "contratti" sociali, delle regole della convivenza...).

L'esito di tale passaggio dal "cosmocentrismo" all'"antropocentrismo", dalla natura all’artificio, è la progressiva de-moralizzazione della vita umana. Non da intendersi subito come demoralizzazione dei costumi; la vita si demoralizza nel senso che le questioni umane divengono sempre più questioni "tecniche" e sempre meno questioni "etiche".

La malattia, ad esempio, diventa "bisogno" a cui le "istituzioni" devono saper rispondere in modo adeguato e cioè in modo efficiente. In tale rapporto "funzionale" tra bisogni e istituzioni sociali viene perduto, al livello della morale pubblica o civile, il significato che l’evento malattia riveste per la coscienza del singolo. La malattia interpella l’individuo sul piano del "senso" prima che su quello dei bisogni e delle prestazioni mediche. La malattia non è problema che riguarda gli "artifici" umani ma il senso ultimo della vita; riguarda quell'orizzonte di senso che l'antichità era solita veder rappresentato nel "cosmo", inteso come metafora dell'eterno. L’artificio ha eroso la pregnanza simbolica del cosmo senza poterla sostiture.

In tal senso, l'inflessione storica dell'esperienza civile è, per un lato, espressione del progredire umano ma, dall'altro, portatrice di una deriva "tecnicista" delle grandi ed "eterne" questioni umane. Essa tende a sostituire l'interrogativo sulle verità ultime della condizione umana con l'abbandono ad una illimitata speranza riposta sul progredire storico dell'uomo. L'attesa di soluzione mediche fa dimenticare che, in ogni caso e per sempre, l'uomo deve prendere posizione di fronte alla morte, e non può vivere in modo pieno finche non sarà in grado di superarne la paura.

Il mutamento ideale dell'uomo occidentale, corrispettivo ai mutamenti fattuali sommariamente richiamati, va ravvisato nella consapevolezza di essere fautore del proprio destino, mediante l’opera collettiva e razionalmente condotta.

161

Page 162: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

L'elemento concettuale nuovo è questa idea di un progressivo "incremento" dell'opera dello spirito umano, "al di là del sorgere e svanire dei soggetti individuali". Ciò che rimane nel mutare del tempo non è solo, e non è tanto, la natura ma l'opera umana.

Il "senso" della vicenda umana viene dato dalla civiltà più che dai ritmi e dai fatti naturali. E' l'andamento della civiltà che indica il corso delle cose e orienta l'agire individuale. L'individuo si rispecchia nell'opera umana e riconosce in essa il suo fondamento, così come il "dire" del singolo riconosce nella "lingua" la sua possibilità di essere.

L'individuo si concepisce come ente "storico" appunto nel senso che il suo essere appartiene all'opera umana e da essa mutua la sua stessa direzione e significato. L’uomo poggia il suo essere sull'elemento più caduco, la temporalità.

Il mutamento ideale ora accennato, non sarebbe stata possibile senza l'avvento del sapere "scientifico" e del relativo potere "tecnico". E' quel sapere, infatti, che offre all'uomo punti di appoggio sicuri sul reale, dai quali l'opera collettiva può muovere nel suo incessante e progressivo lavorio. Quel sapere può tuttavia sostenere solamente il "fare"; non sa nulla dell'"agire" e dei doveri ad esso connessi. Le possibilità di "fare" o di "fare esperienze" possono riempire non solo una vita ma innumerevoli vite; tuttavia al termine di esse l’uomo può ritrovarsi privo di senso com’era all’inizio.

La vita civile diventa un'immenso cantiere la cui opera si sottrae sempre di più al "senso" umano e quindi anche alla valutazione etica e al controllo politico dei fini. L'individuo si sente, allora, estraneo alla civiltà, incapace di trovare in essa, e nel suo operare in essa, un'immagine di sè, una risposta al perchè vivere. Si produce un circolo vizioso, secondo il quale la "civiltà" è piegata ai bisogni individuali e questi la piegano verso forme sempre più materialistiche.

L'idea di "storia" fa quindi il suo ingresso nella cultura occidentale non senza gravi ambiguità. Il cristianesimo si è reso conto di esse in modo spesso confuso, proponendo rimedi moralistici, incapaci cioè di tener conto dell’obiettiva complessità o delle obiettive esigenze funzionali delle istituzioni sociali, a procedere dall’epoca moderna.

Le trasformazioni civili moderne sono state avvertite dal cattolicesimo come "minaccia". Così è accaduto per la "scienza" - che sembrava sconfessare il senso provvidenziale del cosmo - per la tecnica - quando, ad esempio, poté intervenire sul corpo umano - per le trasformazione economiche - il cattolicesimo si oppose all'economia capitalista, coltivando nostalgie per il vecchio corporativismo - per la politica - pensiamo all'opposizione ai nuovi ideali di libertà, alla laicità dello Stato, alla tolleranza, alla democrazia 234.

L'opposizione del cattolicesimo alla società moderna non fu senza ragioni. Oggi lo possiamo vedere con chiarezza, constatando la crisi della morale pubblica a seguito della frattura creatasi tra vita pubblica e vita privata, questioni politiche e questioni religiose. La pretesa di sostenere una morale civile sulla base di una razionalità efficiente appare oggi del tutto infondata e pericolosa.

Le ragioni del cattolicesimo non poterono trovare adeguata espressione e consenso a causa dell'atteggiamento conservatore, o da restaurazione allora

234. Ibid. pp.XXVI-XXVII

162

Page 163: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

prevalente, in parte dovuto all’assenza della riflessione teologica sui nuovi fatti di civiltà.

In tal modo si spiega la "scarsa partecipazione del movimento e della cultura cattolica all'elaborazione dei nuovi ideali civili, e più radicalmente un prolungato differimento del confronto della coscienza credente con i problemi posti dalla nuova realtà civile e dalle nuove forme del sapere" 235.

Alcune letture fatte da parte liberale 236 concordano con questa lettura della vicenda moderna e, anzi, ravvisano nel mancato rapporto tra cattolicesimo e liberismo il nodo della vicenda politica italiana. Se oggi ci troviamo ancora a difendere l'unità della nazione, esposti quindi a ideologie secessioniste, è perchè tale unità non ha mai potuto compiutamente realizzarsi, in Italia. Da una parte, infatti, abbiamo avuto un pensiero liberale che, come in ogni altra nazione occidentale, ha dato vita allo Stato, alle istituzioni liberali, dall'altra una Chiesa che permeava l'ethos popolare ma che si oppose lo Stato liberale e le categorie filosofiche da cui esso originava, non capendo le istanze "civili" a cui esso rispondeva.

In tal modo non poté realizzarsi una penetrazione popolare dello spirito delle Istituzioni o del senso dello Stato. Tant'è vero che il liberismo non ha mai avuto, in Italia, una presa a livello popolare. La sua forza gli deriva, fino ad oggi, dal fatto di identificarsi con lo Stato. Fu proprio in questa breccia tra Stato e popolo che poté insinuarsi e trovar forza sia il socialismo che il fascismo, entrambe ideologie politiche che si sono posti sul piano dell'ethos popolare.

In tale prospettiva viene auspicato l'incontro tra il pensiero politico e la morale, tra le Istituzioni e la morale cattolica.

Questa lettura è pertinente e illuminante, tuttavia risulta ancora schiava dei pregiudizi liberali; in particolare là dove si pensa al cattolicesimo come risorsa morale da poter versare sul piano politico come supporto delle Istituzioni, quando queste mostrano il loro isolamento dal popolo.

Il problema è che le Istituzioni sono state pensate a prescindere dalla morale e che la morale cattolica non è una sorta di riserva da mettere in campo per tamponare le falle. Essa, infatti, non può essere disgiunta dalla confessione di fede, per cui lo Stato liberale si trova a dover misurarsi, ancora, con la religione.

Occorre capire cosa ha significato, politicamente, pensare lo Stato a prescindere dalla morale e in che senso, oggi, la si possa, o la si debba, invocare a suo sostegno.

Una conversione liberale alla "morale" cattolica ha molto di simile agli atteggiamenti, diffusi specie nel cattolicesimo francese e nella stagione conciliare, tipici dell'aggiornamento cattolico. Alla vecchia apologetica si sostituirono apologie della secolarità e della mondanità, oppure sottolineature enfatiche della politica, celebrazioni dell'approccio "scientifico" ai problemi umani.

Al di là del problema di un dialogo con la cultura liberale al fine di colmare la frattura tra Stato e popolo, l'atteggiamento più diffuso nei cattolici fu ed è tuttora quello che pensa la Chiesa come una sorta di serbatoio di valori, capaci di farsi

235. Ibid. p. XXVII236. Ci riferiamo in particolare ad Ernesto Galli della Loggia, e al suo articolo apparso sulla rivista Il Mulino "Liberali, che non hanno saputo dirsi cristiani".

163

Page 164: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

valere sempre e comunque. Un atteggiamento idealistico che trascura il condizionamento che la Chiesa stessa subisce e la necessità di ripensare i valori, all’interno delle nuove situazioni storiche. Una sorta di ingenuità storica che pensa i "valori" in modo ancora "metafisico" e praticamente si traduce in una sudditanza politico-culturale del cristiano ai miti del tempo.

Non è possibile richiamarsi semplicemente ai "principi" perenni, non perchè non esistano ma perchè non si danno in modo astorico, ma nemmeno è pertinente adagiarsi sulle attuali espressioni dei "diritti umani" o dei "valori" quasi fossero evidenze eterne e indiscutibili.

Si è visto, infatti, che la DS trova il suo punto debole proprio nell'assunzione critica della complessità storica. La stessa categoria dei "segni dei tempi" indica l'urgenza di tale assunzione ma la risolve in modo ancora insoddisfacente e cioè come semplice acquisizione descrittiva, mentre occorre acquisire una capacità di lettura "strutturale" dei fatti di civiltà. Saper cioè tener conto delle dinamiche tipiche o "strutturali", appunto, del vivere umano nelle società attuali.

In ciò il teologo ha un compito essenziale, che è venuto a mancare per tanto tempo. Quello di rendere possibile il giudizio storico del credente, chiarendo "i concetti indispensabili" perchè tale giudizio di possa effettuale in modo efficace, e cioè aderente alla storia ma non succube di essa.

164

Page 165: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2. Per una intelligenza del sociale: gli

elementi strutturali della società

moderna

Vediamo dunque di proporre in sintesi tale lettura strutturale della società moderna. Procederemo seguendo la distinzione tra momento "civile" del vivere umano e momento prettamente "politico". La distinzione viene ricavata fenomenologicamente, mostrando cioè la dinamica che intercorre tra i due profili del "sociale" e mostrando gli elementi o i fattori che la costituiscono.

2.1. La societa' civile: sistema di bisogni e norma ideale

In prima approssimazione possiamo definire descrittivamente la società civile in maniera negativa: come l'insieme dei rapporti sociali che di fatto strutturano un determmato gruppo umano, escludendone i rapporti propriamente politici; ossia, escludendo i rapporti in cui prende forma l'esercizio diretto del potere legittimo237, del

237 . Sul "potere" Foucault (Storia della sess. Vol !, pp. 83-86) suggerisce questa fenomenologia: - che il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide, qualcosa che si conserva o che si lascia sfuggire; il potere si esercita a partire da innumerevoli punti, e nel gioco di relazioni disuguali e mobili;che le relazioni di potere non sono in posizione di esteriorità nei confronti di altri iipi di rapporti (processi economici, rapporti di conoscenza, relazioni sessuali), ma che sono loro immanenti; sono gli e:ffetti immediati delle divisioni, delle ineguaglíanze e dei disequilibri che vi si producono, e sono reciprocamente le condizioni interne di queste differenziazíoni; le relazioni di potere non sono in posizione di sovrastruttura, con un semplice ruolo di proibizione o di riproduzione; hanno, là dove sono presenti, un ruolo direttamente produttivo;che il potere viene dal basso; cioè che non c'è, all'origine delle relazioni di potere, e come matrice generale, un'opposizione binaria e globale fra i dominanti ed i dominati, dualità che si ripercuoterebbe dall'alto in basso, e su gruppi sempre piú ristretti fin nelle profondità del corpo sociale. Bisogna immaginare piuttosto che i rapporti di forza molteplici che si formano ed operano negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni, servono da supporto ad ampi effetti di divisione che percorrono l'insieme del corpo sociale. Questi effetti costituiscono una linea di forza generale che attraversa gli scontri locali e li collega; certo, a loro volta, questi procedono su quelli a delle ridistribuzioni, a degli allineamenti, a delle omogeneizzazioni, a delle disposizioni in serie e a delle convergenze. Le grandi dominazioni sono gli effetti egemonici sostenuti continuamente dall'intensità di tutti questi scontri;che le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive. Se, infatti, sono intelligibili, non è perché sarebbero l'effetto, in termini di causalità, di un'altra istanza che le 'spiegherebbe,' ma è perché sono attraversate, da parte a parte, da un calcolo: non c'è potere 'che si eserciti senza una serie di intenti e di obiettivi. Ma questo non vuol dire ch'esso risulti dalla scelta o dalla decisione di un soggetto individuale; non mettiamoci a cercare lo stato maggiore che presiede alla sua razionalità; né la casta che governa, né i gruppi che controllano gli apparati dello Stato, né quelli che prendono le decisioni economiche piú importanti gestiscono l'insieme della trama di potere che funziona in una società (e la fa funzionare); la razionalità del potere è quella di tattiche, spesso molto esplicite al livello limitato in cui s'iscrivono - cinismo locale del potere -, che, connettendosi le une alle altre, implicandosi e propagandosi,

165

Page 166: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

potere che - più o meno immediatamente - è esercitato nella società contemporanea in nome dello Stato.

Certo, una distinzione di questo genere tra «civile» e «politico» non è agevole238: non può essere intesa come divisione di due ambiti di rapporti adeguatamente distinti: in particolare nella nostra società, in cui l'interazione tra il civile e il politico è cosi stretta. Per esempio, come andrebbe classificato un contratto collettivo alla luce della distinzione indicata: come istituzione della società civile o come istituzione politica? Esso presenta simultaneamente caratteri che ne giustificherebbero la classificazione nell'uno e nell'altro senso.

La distinzione dunque dev'essere intesa come distinzione dialettica di due aspetti - eventualmente compresenti in una stessa forma di mediazione dei rapporti sociali - piuttosto che come definizione di due classi distinte di rapporti.

Società civile è il nome dato ad un complesso di fatti, genericamente caratterizzati come « rapporti sociali » La conoscenza concreta di tale realtà può essere fornita soltanto dalle scienze storiche e sociologiche.

La ratio che giustifica la definizione di società civile, come complesso strutturato di rapporti umani, ad esclusione dei rapporti politici, è appunto il carattere soltanto fattuale di tali rapporti, i quali a differenza di quelli istituiti dal potere politico, non sono scelti deliberatamente, e quindi in conformità ad un metro astratto del «giusto», comunque esso sia poi concretamente determinato.

E tuttavia i rapporti che strutturano la società civile non sono neppure accadimenti equiparabili a quelli metereologici o cosmici. Alla loro origine è l'opera

trovano altrove la loro base e la loro condizione, delineano alla fine dei dispositivo d'insieme: qui la logica è ancora perfettamente chiara, gli intenti decifrabili, eppure può darsi che non ci sia nessuno che li abbia concepiti e ben pochi che li abbiano formulati: carattere implicato delle grandi strategie anonime, quasi mute, che coordinano tattiche loquaci, i cui "inventori" o responsabili sono spesso senza ipocrisia; che là dove c'è potere c'è resistenza e che tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente "dentro" il potere, che non gli si "sfugge," che non c'è, rispetto ad esso, un'esteriorità assoluta, perché si sarebbe immancabilmente soggetti alla legge? 0 che, se la storia è l'astuzia della ragione, il potere sarebbe a sua volta l'astuzia della storia - ciò che vince sempre? Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d'appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere. Non c'è dunque rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto - anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per definizione, non possono esistere che nel campo strategico delle relazioni di potere. Ma questo non vuol dire che ne siano solo la conseguenza, il segno in negativo, che costituisce, rispetto alla dominazione essenziale, un rovescio in fin dei conti sempre passivo, destinato indefinitamente alla sconfitta. U resistenze non dipendono da un qualche principio eterogeneo; ma non sono nemmeno illusione o promessa necessariamente delusa. Sono l'altro termine nelle relazioni di potere, vi s'iscrivono come ciò che sta irriducibilmente di fronte a loro. Sono dunque, anch'esse, distribuite in modo irregolare; i punti, i nodi, i focolai di resistenza sono disseminati con maggiore o minore densità nel tempo e nello spazio, facendo insorgere talvolta gruppi o individui in modo definitivo, accendendo improvvisamente certi punti del corpo, certi momenti della vita, certi tipi di comportamento. Grandi rotture radicali, divisioni binarie e massicce? Talvolta. Ma molto più spesso si ha a che fare con punti di resistenza mobili e transitori, che introducono in una società separazioni che si spostano, rompendo unità e suscitando raggruppamenti, marcando gli individui stessi, smembrandoli e rimodellandoli, tracciando in loro, nel loro corpo e nella loro anima, regioni irriducibili. Come la trama delle relazioni di potere finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. Ed è probabilmente la codificazione strategica di questi punti di resistenza che rende possibile una rivoluzione, un po' come lo Stato riposa sull'integrazione istituzionale dei rapporti di potere.238. Di fatto il lettore attento rileverà come anche in questo capitolo dedicato alla società civile non potremo fare a meno di introdurre riferimenti all'istituzione politica: la separazione drastica dei due temi ricondurebbe alla rappresentazione illuministica, di una sooietà civile intesa come «stato di natura ».

166

Page 167: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

dell'uomo: e quindi un'opera che si propone scopi, che conosce standards ideali di valutazione, che ha un significato. La « società civile » appartiene all'ordine dei fatti umani, dunque «intenzionali», dei fatti dotati di senso; di fatti diversi da quelli di cui si interessano le scienze sperimentali; classiche, ed eventualmente anche una sociologia semplicemente «spiegante» (erklarende), e non «comprendente» (verstehende)239.

La considerazione della società civile sotto questo profilo specificamente umano e significante è premessa indispensabile per giungere alla valutazione etica, e quindi anche alla scelta responsabile nei suoi confronti.

Rimane tuttavia la specificità che si diceva di questa particolare opera umana che è la società civile: essa assume di fatto, a risultanza di molteplici scelte individuali e collettive (di gruppi minori, non identici alla società nel suo complesso, che in questo caso si realizzerebbe il passaggio alla società politica" una fisionomia non scelta intenzionalmente e deliberatamente da alcuno. L'uomo, nella sua vita associata, produce più o produce anche altro, da ciò che intenzionalmente persegue. Scopo dell'etica sociale è quello di condurre alla consapevole assunzione di responsabilità morale per questo «più» e «altro».

2.1.1. La società civile come « sistema di bisogni »

Quando indaghiamo su quale sia l'origine dell'insieme strutturato di rapporti costituente la società civile, balza subito evidente come fattore di più facile e immediata rilevazione la divisione del lavoro o più generalmente la divisione dei compiti.

La divisione dei compiti si è esasperata in epoca moderna, con l'avvento di un'economia di mercato, e quindi della moneta che rende tendenzialmente fungibili tutte le prestazioni produttive; e, inoltre, con l'avvento del modo industriale di produzione, e cioè con l'introduzione della macchina e di processi di automazione più complessi, i quali inducono un'estrema parcellizzazione e correlativa integrazione reciproca delle singole operazioni lavorative.

La divisione moderna economica dei compiti - quella cioè che introduce come universale ragione di scambio il denaro - manifesta in maniera più clamorosa il carattere «convenzionale» o «contrattuale» della struttura sociale intesa come divisione dei compiti: mentre la divisione dei compiti nella società premoderna (nobiltà, clero, famuli e classi urbane) supponeva quale sua sanzione un consenso ideale, e lo scambio delle prestazioni si produceva sostenuto dalla consapevolezza di ubbidire tutti ad un supremo ordinamento religioso, in un'economia di mercato la ragione di scambio (moneta) prescinde da un tale consenso ideale.

Nella società industriale l'interdipendenza funzionale non è fondata soltanto sul fatto che per la massima parte dei suoi bisogni l'individuo non è sufficiente a se stesso; ma anche e soprattutto sul fatto che l'individuo è insufficiente a se stesso anche per la prestazione di un compito produttivo comunque limitato. Sicché, chi disponga nella contrattazione sociale soltanto della sua eventuale prestazione lavorativa, non dispone in realtà neppure di questa: è quindi assolutamente senza potere.

239. Rimandiamo per la distinzione alla discussione sulle scienze della natura e sulle scienze dello spirito, sopra richiamata.

167

Page 168: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La presa di coscienza di questo fatto da parte degli interessati ha condotto innanzitutto all'associazionismo operaio, e quindi di riflesso all'associazionismo anche delle altre categorie produttive. La contrattazione sociale s'è fatta contrattazione collettiva, sulla base dei diversi interessi che accomunano e rispettivamente contrappongono le diverse categorie sociali. In tal modo per altro l'aspetto conflittuale dei rapporti sociali - che è di sempre, nella misura in cui di sempre è l'aspetto contrattualistico della società civile - s'è fatto esplicito ed evidente; la cronaca quotidiana dei giornali esibisce in maniera clamorosa e per molti urtante i documenti di quest'affermazione.

La conflittualità si conferma come caratteristica permanente della società civile. Il suo superamento rimane soltanto un postulato etico; esso non trova il suo fondamento nella rappresentazione prospettica di un futuro storico praticabile; ma in un'istanza di carattere ideale, la quale appare sempre e imprescindibilmente iscritta - in forma più o meno esplicita e impegnativa - negli stessi rapporti sociali conflittuali. Sotto questo profilo la caratterizzazione della società civile come società contrattuale risulta insufficiente.

Passiamo dunque a discorrere delle sanzioni ideali iscritte nel rapporto sociale.

2.1.2. I fattori ideali della coesione sociale

La riduzione della società al modello del contratto, che si regge sull'accordo materiale delle diverse volontà, le quali pure perseguono interessi e ideali divergenti, e comunque irrilevanti dal punto di vista della convivenza sociale («privati») - è prodotto ideale - e potremmo qui aggiungere pertinentemente «ideologico» - di una cultura storica determinata: quella del pensiero individualistico-liberale, soprattutto preoccupato di smantellare la troppo solenne e ingombrante sanzione religiosa che era posta a fondamento dell'ordine sociale antico.

Lo stesso pensiero cattolico, in epoca moderna ma anche - con divere motivazioni - in epoca patristica, è stato tentato di ricorrere all'argomentazione utilitaristica per fondare la pretesa «naturalità» del rapporto sociale si dice «pretesa» naturalità, perché in realtà se il rapporto sociale avesse solo necessità di mezzo in ordine alla sopravvivenza dell'individuo, mancherebbe della dignità di lex naturalis nel senso tomista240.

240. Si veda quanto detto sopra, su Agostino. Si vedano anche le ricorrenti argomentazioni «utilitaristiche» degli stessi documenti magisteriali, quali la seguente: «L'uomo è naturalmente ordinato alla società civile, perché, non potendo nelI'isolamento procacciarsi da sé il necessario alla vita e al perfezionamento intellettuale e morale, la Provvidenza dispose che egli venisse alla luce nato fatto a congiungersi e unirsi ad altri, sia nella società domestica che nella società civile, la quale solamente gli può fornire tutto quello che basta perfettamente alla vita», Immortale Dei, n. 2, Giordani, I p. 97. Un testo come questo pone la società interamente nell'ordine dei mezzi, di ciò che «serve» - certo di ciò che serve necessariamente, e perciò «naturalmente» - ma pur sempre come semplice mezzo. Questa argomentazione sembra debba condurre ineluttabilmente all'idea contrattualistica di società, come accordo che «conviene». Nei confronti di questo pericolo- di una fondazione utilitaristica della dimensione sociale dell'uomo - mette ripetutamente in guardia E. CHIAVACCI, Introduzione all'etica sociale, Studium Roma, 1965; Principi di morale sociale, EDB, Bologna, 1971 (pp. 15-21). La letteratura a proposito di « natura sociale dell'uomo » è enorme, anche se non tutta di primissima quilità; ci limitiamo a ricordare due opere più facilmente accessibili: G. FESSARD, Autorité et bien commun, Paris, 1944, pp. 51 ss; J. H. WALGRAVE, Cosmos, Personne et Société, Paris, 1968. Per una rassegna della filosofia moderna sull'argomento e un suo confronto con il

168

Page 169: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Nella cultura contemporanea le voci che parlano a sfavore di una interpretazione dei rapporti sociali in termini di semplice divisione dei compiti sono molteplici: in sede teorica sociologi, psicologi sociali, psicanalisti, antropologi culturali, filosofi si accordano nel rilevare l'incidenza decisiva di fattori d'ordine ideale simbolico, religioso, etico, nell'integrazione di ogni società.

La difficoltà di esprimere quali siano i caratteri del consenso ideale che regge una determinata società è connessa al fatto che gli elementi di tale consenso non stanno di fronte («oggetto») alla nostra coscienza come gli oggetti del mondo fisico, e neppure come le espressioni di carattere ideale di questo o quell'altro uomo o gruppo. Così come neppure la società nel suo insieme è realtà di fronte alla quale noi stiamo come spettatori.

2.1.3. La forma religiosa del consenso civile

La forma religiosa è quella più antica, caratteristica di tutte le società primitive, ma anche di tutte le grandi civiltà del passato. Dire quale sia la forma del consenso ideale nelle moderne società europee - sempre supposto che un consenso in qualche modo si dia - è meno facile. Probabilmente è connessa a questa indeterminatezza anche la esasperazione dei conflitti ideali e l'impressione che alla fine non si dia più alcun consenso.

Nelle società arcaiche il consenso sociale assume forma «religiosa», e più precisamente forma «mitica»: ossia, la forma costituita dal sacro racconto di eventi divini appartenenti ad un tempo archetipo che si pone fuori della successione cronologica dei tempi storici, e che proprio in forza di questo carattere archetipo può essere posto immediatamente a contatto con tutti gli avvenimenti della vita sociale interpretandone 1'«ordine», o la necessità, o la giustizia: in ogni caso, il carattere eticamente normativo sottratto all'arbitrio ed al caos delle volontà individuali.

Il mito politico realizza la coniugazione dell'empirico con l'assoluto (il «divino») nella forma simbolica irriflessa. In ogni caso esso testimonia quale sia la funzione dell'elemento ideale che sta alla base della convivenza sociale: riferire ad un fondamento indiscusso ed assoluto le azioni concrete in modo che esse realizzino un ordine, e non minaccino continuamente il ritorno della convivenza umana al caos.

Il configurarsi del consenso come religio comporta la necessaria conseguenza della configurazione della società come «chiesa» - intendendo qui con questo termine una società le cui pretese nei confronti del singolo sono incondizionate, «religiose». Più precisamente la natura «religiosa» della società si esprime nel conferimento di un'autorizzazione divina al potere politico: esattamente la rappresentazione mitica di tale potere realizza l'intento di conferire valore incondizionato ad una autorità la quale sia empiricamente riconoscibile ed operante. La società non si distingue dall'istituzione politica, così come il fondamento della convivenza non si distingue dal fondamento della vita individuale (religio), e quindi della morale

credo cristiano, vedi J. GIERS, Das Ens sociale und das Gottliche, in « Sapienter ordinare », Festgabe fur E. Klinedam, Leipzig, 1970, con bibliografia esaustiva. Notiamo per altro come le cose più interessanti sul tema della essenziale condizione sociale delI'uomo si trovano più facilmente nella letteratura dedicata al tema della condizione storica, anziché nella letteratura filosofica sulla «natura» dell'uomo.

169

Page 170: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Notiamo come una simile sintesi perduri per larghi tratti, sotto il profilo storico-civile, anche al di là della frattura introdotta dal cristianesimo nascente, mediante il ritorno di esso alla funzione di theologia civilis successivamente alla pace costantiniana. La frattura definitiva - e sempre sotto il profilo storico-civile - pare rimandata all'inizio dell'epoca moderna e alla nascita della coscienza borghese.

Notiamo ancora una caratteristica interessante, per il seguito del discorso, della theologia civilis: essa ignora la storia, il divenire della società e il problema etico-sociale ch'esso propone. Il mito è strutturalmente opaco alla dimensione del tempo: il senso dell'evento singolare è scorto riconducendolo immediatamente (ossia, senza mediazioni storiche) all'archetipo sempre identico. Sarà appunto la nascita della coscienza storica a determinare il definitivo affossamento della theologia civilis.

2.1.4. La secolarizzazione del consenso civile

Una prima contestazione della mitologia politica primitiva - per quanto attiene alla nostra storia occidentàle - fu quella introdotta dalla «ragione» o dal «logos» (opposto al mytos) della filosofia greca.

Il sapiente non è più - soltanto - figlio della società cui appartiene, ma si rapporta ad essa da un punto prospettico più fondamentale. Al limite, il sapiente diviene capace di contestare in linea di principio la società (e non semplicemente di ribellarsi alle sue pretese). Il consenso sociale diviene problematico e - correlativamente - il consenso individuale alle attese sociali divine criticamente mediato.

La frattura più decisiva nei confronti della forma religiosa e «mitica» del consenso civile fu indubbiamente quella introdotta dall'avvento del cristianesimo: frattura irrimediabile, anche se di fatto nella storia abbiamo dovuto registrare una incapacità della cristianità a vivere conseguentemente e fedelmente la demitizzazione del politico implicita nel Vangelo di Gesù Cristo.

La riduzione di Cesare « allo stato secolare » d'altra parte apriva un problema effettivo: quello di trovare i modi mediati attraverso i quali ricondurre l'atteggiamento nei confronti di Cesare - ma più in generale oggi dobbiamo dire l'atteggiamento nei confronti dell'imperativo sociale - all'unico metro ultimo di giudizio etico: quello costituito dal comandamento di Dio. Alla difficoltà di trovare soluzione adeguata a questo problema sono connesse le oscillazioni dottrinali tra i due estremi: la pratica risacralizzazione dell'istituzione politica, e cioè alla rappresentazione religiosa del-l'autorità dell'imperatore (significativo sotto questo profilo è il largo ricorso che la teologia politica medievale farà ai testi veterotestamentari sulla monarchia davidica per rappresentare e giudicare l'istituzione dell'imperium, nella sua distinzione dal sacerdotium) oppure la riduzione pessimistica (agostino-luterana) della res-pubblica a convenzione umana mirante unicamente a garantire la sopravvivenza in un ordine storico di convivenza segnato dall'incredulità, dall'egoismo, dall'assenza della signoria di Dio e della sua giustizia.

Tra questi due estremi la coscienza cristiana può, invece, e deve trovare una via media, le cui linee portanti sono cosi formulabili. Certamente l'istituzione politica - ma prima ancora, alla luce della moderna distinzione tra stato e società, - la società

170

Page 171: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

civile con i suoi ordinamenti sovraindividuali è opera collettiva degli uomini, e dunque sotto questo profilo opera che postula un discernimento etico ed un giudizio. In ordine a questo discernimento e giudizio, ha indubbiamente rilievo ermeneutico decisivo il dato della rivelazione biblica che afferma la radicale e originaria compro-missione della storia collettiva degli uomini ad opera det peccato (cfr. cap. 7, n. 3 c).

Ma questa convinzione della fede non esclude l'altra evidenza - espressamente riconosciuta nei documenti neotestamentari - che cioè le norme e le istituzioni pubblicamente riconosciute quali presidio della convivenza «giusta» esprimono realmente, anche se parzialmente, istanze della giustizia divina. Detto in altri termini, neppure la società dei figli di Adamo può far a meno di riferirsi a valori etici autentici, onde istituire sotto il loro presidio la possibilità della convivenza so-ciale.

Si instaura cosi un rapporto di tensione tra egoismo individuale e valori ideali consensualmente riconosciuti e incoativamente gravidi delle esigenze sconfinate della giustizia di Dio.

Sullo sfondo di questa tensione si colloca l'impegno storico-civile del cristiano: impegno inteso a dilatare lo spazio riconosciuto alle esigenze etico-ideali; ma a dilatarlo «praticamente», e cioè non a livello di semplici enunziati ideali, ma a livello di ordinamenti concretamente vigenti all'interno della società civile. Per divenire storicamente responsabile - e cioè, capace di assumere consapevolmente la responsabilità del proprio operato obiettivo a livello di società civile - l'affermazione delle istanze etico-ideali deve configurarsi come progetto storico-concreto, deve cioè «rappresentare» quelle istanze nei termini di un progetto di società praticabile, a partire dalla considerazione della società concreta nella quale il cristiano vive e dei condizionamenti ineluttabili che essa - a motivo del «potere» dei fatti sociali - impone.

Allo scopo di chiarire quest'idea di progetto storico-sociale concreto, di illustrarne per un verso le sue possibilità euristiche in ordine alla comprensione della concreta forma che il consenso ideale assume nella società moderna, e per altro verso le sue possibilità euristiche in ordine alla comprensione di un'etica sociale cristiana, appare opportuna una riflessione sul controverso concetto di «ideologia», caratteristico della cultura sociale e politica moderna.

2.1.5. La nozione spregiativa di ideologia

Al di là dei molteplici tentativi di elaborazione teorica della nozione di «ideologia» in senso critico-sociale, le ideologie costituiscono una realtà obiettiva dell'esperienza storico-culturale moderna. Intendiamo riferirci a quei sistemi ideali, variamente determinati quanto alla struttura logica, alla genesi storica e alle forme concrete nelle quali essi si esprimono, che però sempre fungono in qualche modo quali istanze di legittimazione dell'operare storico di una determinata formazione sociale.

Possiamo ulteriormente precisare questa descrizione formale indicando alcuni sistemi ideali ai quali essa si applica. Vengono in mente innanzitutto i tre sistemi classici del dibattito civile e politico tra la fine dell'800 e l'inizio del '900: liberalismo, marxismo e dottrina sociale cattolica. Ma potremmo aggiungere, con riferimento al periodo immediatamente successivo, il nazionalismo, il fascismo, il nazismo.

171

Page 172: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Alla luce dell'esperienza storica concreta, la riflessione sull'«ideologia» assume la forma di interpretazione critica della vicenda vissuta da tutti questi sistemi, che di fatto hanno svolto la funzione di catalizzatori del consenso e del conflitto sociale.

È indubbio che ciascuna delle «ideologie» sopra elencate si rapportasse alle altre secondo lo schema definito dall'accezione peggiorativa di «ideologia»: esse apparivano cioè come mistificazioni ideali prodotte dall'interesse del nemico.

Ma è pure indubbio che nell'esperienza sociale più recente è in atto - quanto meno nelle società occidentali «sviluppate» - la tendenza ad abbandonare le «ideologie» quali sistemi ideali totalizzanti che legittimano un determinato assetto sociale o che legittimano l'istanza deI suo superamento. Assistiamo cioè ad un processo di « declino delle ideologie », connesso all'esperienza di come il conflitto tra «ideologie» totalizzanti e alternative conduca alla paralisi della società non più accomunata dal consenso religioso, e di come per altro verso l'egemonia sociale di una di tali «ideologie» conduca al soffocamento della libertà.

2.1.6. Una nuova nozione di ideologia?

Nella riflessione filosofica sulla realtà sociale di parte cristiana - cattolica e no - appare presente specie nell'ultimo decennio e specie in area francese e italiana, un filone di pensiero che propone una nuova definizione del concetto di «ideologia», che ne fa l'espressione privilegiata del consenso sociale in epoca moderna, e dunque un livello di sapere storico-sociale impreteribile, che realizza la mediazione tra sapere ultimo (religioso o - sotto altro profilo - filosofico) e prassi sociale241.

Prendiamo come esempio P. Ricoeur. Il gruppo sociale avrebbe sempre alla sua origine, secondo il filosofo francese, un «atto fondatore»: gli esempi addotti sono quelli della rivoluzione francese e della rivoluzione d'ottobre per l'Unione Sovietica. Ma meglio che di «atto fondatore» si dovrebbe parlare - a nostro giudizio - di «storia fondatrice», intendendo con tale termine il complesso degli eventi storici per lo più non concentrati in un momento puntuale, che offrono al gruppo le condizioni obiettive del suo costituirsi come tale, mediante la presa di coscienza riflessa. Nella misura in cui l'«atto fondatore» si allontana, la sua attuale efficacia sarebbe mediata dalla sua rappresentazione attualizzante: questa esattamente sarebbe l'ideologia, «addomesticamento attraverso la memoria», «convenzione e razionalizzazione» (p. 332). Per conferire valore attuale alla memoria, essa dovrebbe mediare tra memoria stessa e «sistemi di pensiero... etica, religione, filosofia»; in tal senso essa realizzerebbe la « mutazione di un sistema di pensiero in sistema di credenza » (pp. 332-333).

La critica sociale comporta sempre il riferimento consensuale a categorie ideali quali quelle di «giustizia», «libertà», «eguaglianza» e cosi via.

Ma tali categorie non comportano di per sé immediatamente alcuna conseguenza determinata sotto il profilo dell'assetto sociale: al contrario, possono

241. Per quanto riguarda gli italiani, si vedano P. PRINI, Il cristianesimo e le ideologie, «Cultura politica » n. 1, Roma 1966, pp. 1-14 (con dibattito seguente, in cui intervengono V. MELCHIORRE, G. BONTADINI, G. VATTIMO, E. NICOLETTI); Ideologia e filosofia (atti del convegno di Gallarate del 1966) Brescia 1967; L. PAREYSON, Verità e Interpretazione, Mursia, Milano 1971. Ai principali rappresentanti del pensiero francese sul tema si fa riferimento poi nel testo.

172

Page 173: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

essere invocate - più o meno pretestuosamente - ad appoggio dei sistemi sociali più diversi e a contestazione dei medesimi. La «rappresentazione» della società concreta, la integrazione da essa realizzata nei confronti di aspetti parziali e per sé ambigui dell'esperienza comune, è presupposto indispensabile perché possa essere istituito in maniera determinata il rapporto tra quei valori ideali formalissimi e la prassi concreta. Anzi, la «rappresentazione» ideologica per se stessa «valorizza» l'immagine della società presente e futura, applicando ad essa le categorie ideali di cui si diceva.

Naturalmente, parlando di «rappresentazione», «immaginazione» sociale, natura «simbolica» del consenso, non si intende alludere ad un'opera di (pura) fantasia: l'«ideologia» intende interpretare e schiudere un futuro pratico ad una società che di fatto esiste, ed esiste con precise caratteristiche. La conoscenza analitica (scienze sociali) di questa società appartiene ai presupposti della produzione ideologica, e la capacità di suscitare consenso dell'«ideologia» è strettamente connessa alla sua idoneità ad interpretare e illuminare la situazione reale.

2.1.7. L’appello all’etica, oltre l’ideologia

La crisi delle ideologia sembra essersi accompagnata ad una riscoperta dell’etica. Fenomeno questo di natura anzitutto teorica o accademica e successivamente divenuto istanza posseduta dal sentimento comune, nelle democrazie occidentali.

Del fenomeno già ne abbiamo parlato in altri corsi. Ora interessa vedere come l’appello all’etica sia fatto in modo tale da prefigurare nell’etica il sostituto delle ideologie; sostituto maggiormente affidabile sotto il profilo democratico e ugualmente operante dentro i canoni della modernità, anzitutto il primato del diritto dell’individuo.

Vediamo anzitutto che cosa il termine "etica" evoca, nella cultura contemporanea. Esso evoca una serie di categorie quali: giustizia, valori, comunicazione, regole, responsabilità, coerenza, libertà, pluralismo, ugualianza e così via242. Tali categorie dovrebbero orientare la vita sociale, nel rispetto della libertà individuale, in particolare in riferimento alla vita fisica; dovrebbero in altri termini assicurare una sufficiente determinazione delle istanze che trascendono i rapporti sociali nella loro empiricità e che solo rendono possibile il coinvolgimento dell’individuo in un impegno comune.

Si riconosce dunque una trascendenza all’istanza etica ed insieme si cerca di determinarla non in modo astratto ma a procedere dalle forme concrete della vita sociale.

Come viene perseguito tale obiettivo? Nel modo di perseguirlo la riflessione contemporanea sull’etica mostra la soggezione ai dogmi della modernità: i rapporti sociali sono sempre di natura contrattuale, dunque l’accordo avverrà nell’ambito degli interessi materiali; le istituzioni svolgono una funzione organizzativa della vita sociale, assicurando un’equa distribuizione delle risorse. L’accordo viene perseguito nei termini di una ricerca del minimo comune condivisibile; manca ogni tentativo di fare dell’accordo un momento di determinazione dell’istanza assoluta da cui procede il conflitto sociale e da cui deriva l’esigenza di accordo.

242 . Ci riferiamo al contributo di L. CASATI in La Chiesa e il declino della politica.

173

Page 174: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Le categorie che sopra abbiamo elencato, ed insieme ad esse le istituzioni politiche, rimangono necessariamente ideali e astratte dalla concretezza dei rapporti sociali. Tutto ciò genera una crisi della politica, sia in chi la svolge attivamente, sia nel popolo.

Alcuni indicatori di tale crisi sono oggi evidenti nelle tendenze nazionalistiche o secessionistiche. Tali tendenze manifestano problemi obiettivi di natura burocratica o fiscale e, più profondamente, la difficoltà ad identificarsi con le istituzioni politiche a cui si è legati. Alla difficoltà di reagisce cercando nella radicazione territoriale o etnica nuove risorse di identificazione collettiva e di immaginazione sociale.

Non è certo sufficiente l’appello ai valori comuni, per dar risposta alla crisi della politica e neppure le riforme istituzionali. Più radicalmente tener conto e capire le dinamiche relative al bisogno di identificazione collettiva, il quale non corrisponde solo a questioni di ordine materiale e tuttavia trova in queste un potente motore.

In ogni caso, appare impotente sia l’idealismo moralistico dei valori comuni sia il 'realismo' di una ragione procedurale.

2.2. La società politicaAbbiamo sottolineato nella lezione precedente l'ambiguità fondamentale dei

rapporti sociali: rapporti per un verso imposti dal bisogno reciproco che gli uomini hanno gli uni degli altri e che quindi si configurano come esito di una tacita contrattazione sociale, in cui determinante risulta essere il potere di cui i singoli e i gruppi dispongono; rapporti d'altra parte che si pretendono «giusti» e che quindi cercano di giustificarsi di fronte ad un'istanza ideale, la quale non ha altro potere che la sua evidenza etica. La soggezione effettiva dei rapporti sociali alla istanza ideale che esprime il consenso sociale costituisce appunto il compito sempre incompiuto della moralizzazione della società. Dobbiamo riflettere ora sull'istituzione sociale fondamentale, alla quale è affidata la realizzazione di tale compito di mediazione tra il diritto e il fatto, tra l'ideale e il potere: l'istituzione politica.

Svolgiamo questa riflessione in un contesto culturale di crisi profonda della politica. Essa non è attribuibile solo alla degenerazione del potere e delle sue istituzioni; c'è infatti una corrispondenza tra questa degenerazione e il ripiegamento progressivo dell'uomo contemporaneo in una sorta di narcisismo che determina la fuga dal sociale243. D'altra parte occorre anche riconoscere la crescente difficoltà del governare a seguito della complessità del sociale. Purtroppo al crescere della difficoltà sembra corrisponde un declino della politica.

Alla degenerazione della politica concorre poi la crisi dei partiti, in particolare l'incapacità di svolgere il loro compito proprio: la rappresentanza delle istanze presenti nella società. Essi hanno al contrario invaso lo Stato e l'amministrazione pubblica asservendo con il potere così acquisito la società ai loro interessi elettorali. L'esito di tale processo è stata la corruzione, da una parte, e il distacco tra politica ed elettori, dall'altra.

C'è infine un persistente statalismo la cui perversità è rivelata dalla crisi dello Stato sociale, del sistema fiscale e di una istituzione vitale quale la scuola.

243Vedi appunto C.LASCH, La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1981.

174

Page 175: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Sulla crisi dello stato sociale occorre fare alcune precisazioni. Lo stato sociale è nato sotto un'istanza di giustizia sociale ma è

progressivamente degenerato in stato del benessere (Welfare State); l'attenzione si è spostata dalla povertà (lo Stato interviene solo in caso di povertà ma la natura del suo compito non è quello di provvedere ai bisogni dei cittadini) al benessere con il risultato di alimentare nei cittadini una richiesta progressiva di prestazioni; richiesta del resto strumentalizzata per fini elettorali dai partiti; di incrementare spesa pubblica e burocrazia.

La via d'uscita sembra essere quella di ridimensionare gli interventi dello Stato secondo il principio di sussidiarietà, facendo appello alla responsabilità dei cittadini e dei gruppi sociali.

2.2.1. L'«essenza» del politico

La società di tutti i luoghi e di tutti i tempi ha conosciuto qualcosa come l'istituzione politica; anzi, abbiamo visto come tale istituzione sia stata per molti secoli l'unica forma della coscienza sociale esplicita.

Ma che cos'è l'istituzione politica? Qual è il concetto di «politico» che permette di formulare l'affermazione posta all'inizio? Sono immediatamente evidenti le molte differenze di compiti e di strutturazione interna che ebbero la Polis greca, l'impero romano, l'istituzione feudale e gli stati nazionali moderni.

Qual è «l'essenza» universale che in forme così varie si realizza? Quella «essenza» che permette di affermare: di istituzioni politiche non si può fare a meno?

Possiamo esprimere tale «essenza» del politico con una formula sintetica: esercizio legittimo del potere244. Chiariamo il senso della formula. Potere è la possibilità che un uomo ha di agire su di un altro uomo senza bisogno di chiedergli il permesso, senza che la volontà contraria di quest'altro uomo possa pregiudicare l'azione del primo. Il potere è dunque l'aspetto caratteristico dei rapporti umani che costituiscono quello che sopra abbiamo con Hegel chiamato « sistema dei bisogni ». Il potere è - per cosi dire - l'aspetto di brutalità nel rapporto umano, l'aspetto per cui la società è un equilibrio di forze.

Legittimità è al contrario l'aspetto per cui un determinato modo di agire è riconosciuto come conforme ad un'istanza ideale: all'istanza che dà significato umano e giusto al modo di agire dell'uomo in rapporto all'altro uomo, all'istanza che qualifica un determinato comportamento come conforme alla dignità della persona umana.

Si noti bene: uso legittimo del potere non vuol dire uso giusto del potere, ché allora si potrebbe sempre dubitare dell'esistenza di autentiche istituzioni politiche. Ma vuol dire uso del potere riconosciuto e accettato come giusto: ossia, uso del potere che ottiene in qualche modo il consenso di una determinata società, uso del potere al quale la società riconosce la funzione di garantire la conformità dei rapporti sociali alla norma ideale della giustizia.

Se il «politico» è questo, istituzioni politiche saranno appunto quelle istituzioni mediante le quali si concreta in una determinata società l'esercizio legittimo del

244. La definizione si ispira soprattutto a quella di M. WEBER: vedi Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 19713, pp. 4ss, o più diffusamente Economia e società, Comunità Milano, 1961, Parte III in particolare.

175

Page 176: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

potere. Di tali istituzioni si dice che la società umana non può fare a meno. E questo s'intende facilmente alla luce dei due aspetti contraddittori della società civile descritti alla lezione precedente. Proprio perché il potere, che per sua natura non ha bisogno di consenso, minaccia tutti i rapporti sociali, e perché d'altra parte gli uomini per natura loro non possono non porre il consenso su di un'istanza ideale a fondamento dei loro rapporti, si rende necessario qualcosa come l'istituzione politica: ossìa, un potere superiore che agisca in nome di ciò che è giusto, e possa cosi controllare le prevaricazioni del potere non giustificato nei rapporti sociali.

La legittimità fa riferimento non ad un'istanza ideale astratta, ma al consenso storico della società; a quel consenso di cui s'è diffusamente parlato nel capitolo precedente, consenso sempre instabile e diveniente, sempre suscettibile di incremento o al contrario di logoramento; ma pure in qualche misura sempre presente. Le forme del potere nel cui esercizio consiste l'azione politica sono strettamente correlative alle forme del potere che di fatto minaccia la giustizia dei rapporti umani. Sotto entrambi i punti di vista l'istituzione politica è istituzione storica, espressione di una società determinata. Abbiamo ripetutamente rilevato corte soltanto la riflessione dell'illuminismo abbia preso coscienza della relatività dell'istitu-zione politica alla società, ed abbia tratto da questa consapevolezza conseguenze politiche precise (liberalesimo, democrazia): ma obiettivamente, al di là della consapevolezza esplicita dei protagonisti, la relatività dell'istituzione politica rispetto alla società, e anche la dipendenza di quella dal consenso di questa, è stata sempre in qualche modo una realtà.

L'origine di un determinato potere politico può realizzarsi nei modi più diversi; le forme mediante le quali tale potere ottiene il consenso della società sono pure disparate245; ma un potere non diventa «politico» finché in qualsiasi modo non ottenga tale consenso.

2.2.2. L'ambiguità di fondo del potere politico

La definizione che abbiamo dato del politico come potere legittimo ci consente di intendere la tentazione eterna delle istituzioni politiche, siano esse incarnate da persone fisiche o da complesse istituzioni burocratiche. Né soltanto di tentazione si tratta, ma di una insuperabile ambiguità di fatto di ogni potere politico esistente. Tentazione ed ambiguità sono sempre legate alla combinazione difficile dei due aspetti: il potere e la legittimità.

Innanzitutto, il fatto che non possa esserci potere politico senza potere effettivo espone l'istituzione politica alla tentazione di conquistare o conservare tale potere, non in forza del consenso sopra definito, ma obbedendo alla logica in qualche modo ineluttabile dei rapporti di potere: ossìa, mediante il compromesso, mediante la transazione, in cui ciò che conta è ciò che le parti possono reciprocamente accordarsi, e non ciò che è giusto.

Espressione caratteristica di questa tentazione è la demagogta: ottengo il consenso, e quindi il potere accordando o promettendo favori ai più o a quelli che

245. M. WEBER, Economia e società, distingue tre tipi fondamentali di potere politico, sotto il profilo della forma che assume la loro legittimazione: quello razionale (tipicamente, la burocrazia), quello tradizionale e quello carismatico. Cf. una presentazione diffusa di tale tipologia in J. FREUND, Sociologia di M. Weber, Il Saggiatore, Milano, 1968.

176

Page 177: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

rappresentano i più; il «consenso» che ottengo in questo caso non è evidentemente il consenso cui si riferisce la «legittimità» come sopra definita: non è infatti consenso accordato in forza di un'istanza ideale, ma è semplice accordo pratico al fatto che questa persona o questo gruppo gestisca il potere. Non solo la demagogia, tutte le molteplici forme di alleanza tra istituzioni politiche e poteri sociali che possono fornire alle prime il potere di cui hanno bisogno per essere tali, sono espressione della stessa tentazione del potere politico di farsi prigioniero della logica intrinseca del potere. L'altra tentazione caratteristica dell'istituzione politica, in quanto essa è gestita da uomini che sono anche «borghesi», ossia cittadini privati con loro interessi conflittuali nei confronti degli altri cittadini, è quella di usare del potere legittimo per scopi che non sono quelli dichiarati e che stanno a fondamento del consenso.

Gli esempi sono inutili, tanto è evidente a tutti questo pericolo; addirittura, secondo un luogo comune, non si tratterebbe soltanto di un pericolo, ma della verità più costante della realtà politica: « la politica è una cosa sporca » è il proverbio troppo comune che interpreta un diffuso pessimismo nei confronti dell'istituzione politica.

In tanto le due tentazioni suddette sono reali, in quanto esiste una certa opacità dei criteri reali che informano l'esercizio del potere politico rispetto all'opinione pubblica, al cui consenso tale esercizio si appella. È un'opacità che le istituzioni politiche stesse spesso creano e sfruttano, servendosi del potere di cui di fatto dispongono e senza il quale non sarebbero tali. Ecco apparire il circolo vizioso: il consenso accorda potere, ma il potere può creare il consenso. Che il potere possa essere strumento per crearsi un consenso è un'altra verità a tutti evidente che non ha bisogno di essere dimostrata.

I modi sono i più vari, secondo le situazioni storiche e culturali delle società rispettive246. Ci basterà notare una costante: il semplice fatto di disporre del potere è già per se stesso un motivo che può ottenere all'istituzione politica, il consenso e quindi il crisma della legittimità. È questa l'anima di verità della teoria di Hobbes, che vede nella prerogativa pura e semplice del potere la prima e fondamentale garanzia della funzionalità dell'autorità politica, e quindi del consenso (patto sociale) ad essa accordato dai cittadini; soltanto un'autorità potente può garantire la «pace». È questo stesso fenomeno - del potere che come tale crea consenso - che spiega l'atteggiamento conservatore e filo-governativo di coloro che sono innanzitutto preoccupati dell'ordine pubblico.

Le tentazioni del potere e l'ambiguità ineluttabile di ogni potere di fatto esistente concretano quel «volto demoniaco del potere», che già la tradizione biblica conosceva, come abbiamo visto, e su cui tutta la tradizione cristiana spesso ha insistito247. L'approfondimento di questo tema, e quindi il connesso chiarimento dei motivi che impongono la netta distinzione tra istituzione politica e istituzione ecclesiale (religiosa in genere), costituisce uno dei compiti privilegiati della teologia del politico.

246. Si puo vedere un'analisi sociologica degli strumenti mediante i quali i poteri politici possono realizzare il « processo di legittimazione » in R. MILLIBAND, Lo Stato nella società capitalistica, ILaterza, Bari, 1970, pp. 211-307.247. Cf. G. RITTER, Il volto demoniaco del potere, Bologna, 1968; o anche qualche pagina del volumetto di R. GUARDINI, 11 potere, Morcelliana, Brescia, 1963. Per quanto riguarda l'esegesi del N.T., sono soprattutto 0. CULLMANN e H. SCHLIER (le loro opere sono già state citate) che insistono sull'equazione « potenze» demoniache e potenze politiche.

177

Page 178: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2.2.3. Lo Stato nazionale moderno

Il diritto è la forma prima e più universale di assoggettamento dei rapporti sociali all'istanza ideale della giustizia: esso infatti intende assoggettare il rapporto concreto - che sociologicamente tende, a configurarsi come rapporto conflittuale - ad un paradigma generale ed astratto, che definisce i doveri e i diritti di ciascuno secondo una norma di giustizia acquisita al consenso della società in un determinato momento storico.

Nella misura in cui il diritto riesce di fatto ad avere vigore, i rapporti sociali sono sottratti all'arbitrio - e quindi al potere delle parti. Ma il diritto non può avere vigore, qualora non sussista un potere, più grande del potere privato, che si ponga al suo servizio.

L'istituzione giuridica è quindi sempre congiunta all'istituzione politica, che amministra con potere il diritto; addirittura, l'amministrazione del diritto è la prima e più universale forma di uso legittimo del potere, la prima competenza dell'istituzione politica. Lo stesso termine «legittimità» fa riferimento al diritto (alla «legge») come espressione privilegiata del consenso civile circa ciò che è giusto. La forma moderna dell'istituzione politica d'altra parte è quella dello Stato nazionale: dello Stato che intenzionalmente rivendica per se stesso il monopolio dell'esercizio legittimo del potere sopra un determinato territorio248. Poiché la legittimità dell'esercizio del potere si definisce come sua conformità al diritto, la pretesa suddetta dello Stato nazionale si configura come monopolio della statuizione e dell'amministrazione del diritto, e come assoggettamento di ogni rapporto sociale (ossìa, di ogni rapporto che s'impone al singolo prescindendo dal suo consenso) all'istanza generale dettata dal diritto.

Il termine "stato" viene fatto risalire ai politologi del '400 e '500 249; esso va a sostituire concetti quali regnum, imperium, civitas, respubblica comuni alla cultura medievale.

Gli elementi qualificanti il concetto moderno di stato sono dunque:a. il territorio b. l'idea di sovranità, sul cui sfondo si pone il monopolio della produzione

giuridica (è unicamente lo Stato che fa le leggi)c. L'idea di nazione

Che lo Stato così concepito riesca effettivamente ad attuare quella mediazione tra l'ideale espresso dalla società civile e i rapporti effettivi che strutturano la stessa società come sistema di bisogni, dipende da diversi fattori. Innanzitutto, dalla fedeltà oggettiva degli organi statali nell'esercizio del loro potere alle istanze stabilite mediante la statuizione del diritto; poi dalla corrispondenza tra il diritto stabilito dallo stato e la norma ideale espressa dalla società; infine dall'attitudine delle formule giuridiche, generali ed astratte, a prevedere e disciplinare effettivamente i rapporti sociali in cui tenta di affermarsi l'arbitrio del potere privato.

Nei tre paragrafi successivi esamineremo i tre problemi nell'ordine indicato, che corrisponde a grandi linee all'ordine della rispettiva emergenza storica, al

248. È questa rivendicazione che definisce la «sovranità» dello Stato: sul tema per altro c'è stata e dura tuttora un'accesa disputa (molte volte soltanto nominalistica, come accade talvolta ai giuristi); cf. qualche indicazione in G. MATTAI, Morale politica, EDB, Bologna, 1971, pp. 133 ss.249Vedi N.BOBBIO, Stato, governo e società, Einaudi, Torino 1985, pp. 55 ss.

178

Page 179: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

passaggio cioè dallo stato liberale a quello democratico, e da quello democratico a quello sociale250.

2.2.4. Lo Stato di diritto

Lo Stato nazionale moderno è nato come Stato assoluto251, ossia come istituzione politica in cui il sovrano godeva di un potere assoluto. «Assoluto» qui significa emancipato (ab-solutus = sciolto) da qualsiasi legge umana, e d'altra parte autore di ogni legge. Il fondamento ideale (o ideologico) di tale assolutezza era la sua pretesa di governare per diritto divino, e quindi soggetto soltanto alla legge di Dio252.

L'assolutezza del potere politico comporta - come si capisce - la massima esposizione alle tentazioni, che sopra abbiamo visto in ogni caso implicite nell'esercizio del potere stesso: la tentazione di agire per conservarsi e di agire per l'interesse privato del sovrano.

La prima garanzia istituzionale per preservare il potere politico sovrano dalla tentazione in questione fu quella teorizzata da Montesquieu253: la divisione dei tre poteri.

L'articolazione del potere sovrano in organi distinti e nel loro ambito indipendenti, preposti rispettivamente alla statuizione del diritto (potere legislativo), all'amministrazione del diritto (potere giurisdizionale) e all'amministrazione dei servizi di utilità comune (potere esecutivo), costituisce un'autolimitazione interna del potere al servizio della legittimità del suo esercizio. Nulla della competenza suprema dello Stato è perso nel complesso; ma la divisione degli organi da un lato permette un controllo reciproco (vedi la dipendenza dell'esecutivo dal legislativo e dal giurisdizionale), dall'altro impedisce alcune forme più clamorose di asservimento del potere all'interesse.

Ma al di là dell'artificio tecnico, la divisione dei poteri è una prima parziale realizzazione di un principio più fondamentale: e cioè del principio della soggezione dello stesso esercizio del potere politico a quella legge, in nome della quale («legittimità») il potere è esercitato. Arriviamo in questo modo alla nozione fondamentale della moderna teoria politica, lo «stato di diritto».

Non è più la persona del sovrano che - godendo in qualche modo del consenso del popolo, che rende legittimo il suo potere - gestisce il potere riferendosi alla sua (presunta) buona coscienza, controllato soltanto dall'eventuale ritiro del consenso stesso (insubordinazione). Ma c'è ormai una legge - quella costituzionale prima, poi quella determinata dal diritto amministrativo - nella quale si esprimono determinatamente le condi-. zioni del consenso sociale per i poteri pubblici: ossia, le concezioni della società circa i principi fondamentali della «giusta» convivenza

250. Vedi S. LENER, Lo stato sociale contemporaneo, Roma, 1966.251Precisamente nei sec. XV e XVI (stato signorile e poi nazionale); esso si costituisce attraverso un duplice processo di concentrazione e accentramento del potere nelle mani del re, il quale è sciolto da ogni legame con la legge; deve rispondere del suo operato solo di fronte a Dio (diritto divino dei re). Si costituiscono in questo periodo eserciti e apparati diplomatici stabili.252. Rappresentativo di questa concezione è soprattutto G. BODIN (1530-1596): vedi notizie e bibliografia su di lui in G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, I1 Mulino, Bologna, 1968, II vol., pp. 70-72 e 421 ss. rispettivamente.253. Cf. di lui Lo spirito delle leggi, UTET, Torino, 1965, 2 voll.; per una breve e lucida esposizione vedi J. L. ARANGUREN, Etica e politica, Morcelliana, Brescia, 1966, pp. 108-1 17.

179

Page 180: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

sociale, circa le correlative funzioni delle istituzioni politiche, circa i modi del loro esercizio, circa i modi del controllo sociale di tale esercizio. Sicché l'esercizio del potere politico non è più legibus solutus254.

2.2.5. Lo Stato democratico. Istituzioni politiche e società

Il problema politico più urgente della società contemporanea - quanto meno delle sviluppate società occidentali255 - è quello di una reale democrazia256. La soggezione dei poteri pubblici al diritto non è garanzia sufficiente della moralità politica, se simultaneamente non si realizza la soggezione del diritto e in generale delle norme programmatiche a cui si ispira l'uso del potere politico, al giudizio della coscienza pubblica.

D'altra parte questa seconda soggezione non è garantita una volta per tutte mediante l'atto costituente, ossia mediante la partecipazione di tutti «all'elaborazione dei fondamenti giuridici della comunità politica» (Gaudium et Spes, n. 75a). La migliore costituzione di questo mondo, proprio perché documento solo programmatico e orientativo, può essere di fatto elusa dalla legislazione ordinaria e dal governo effettivo prodotti dai poteri politici, pur nel rispetto formale della costituzione. La critica marxiana al diritto liberale è l'esempio paradigmatico di tale divaricazione tra principi ideali enunciati e rapporti reali che si producono in una società.

Rimanendo la costituzione di uno Stato la base ideale del consenso sociale, e quindi del consenso che la società accorda ai poteri politici, occorre al di là di questa creare gli strumenti mediante i quali il giudizio della società si eserciti determinatamente sulla politica concreta prodotta dai governanti.

Il primo di tali strumenti è l'istituto della rappresentanza, e quindi delle assemblee parlamentari, alle quali è affidata la mediazione tra giudizio sociale ed esercizio effettivo del potere politico. Tale mediazione si esercita in due modi fondamentali: innanzi tutto mediante l'aggiornamento della produzione legislativa, poi anche (e soprattutto, per quanto diremo al paragrafo seguente) mediante la fissazione degli indirizzi e dei programmi propriamente politici dell'azione di governo.

L'adeguatezza della mediazione parlamentare è problematica e discussa, per quanto riguarda l'altro estremo da mediare: il giudizio della società.

254. La Pacem in terris, n. 68, recepisce espressamente il principio della divisione dei poteri, e più in generale la concezione dello stato di diritto; più esplicitiamente ancora lo fa la Centesimus annus.255. Non tocchiamo affatto in queste lezioni il problema della giustizia internazionale che pure è uno dei problemi cruciali dell'umanità contemporanea. La preterizione è grave: d'altra parte, le questioni che si dovrebbero sollevare sono di una complessità tale da non poter essere esaurite in breve spazio. È relativamente facile esprimere giudizi etici sul colonialismo latente dei paesi sviluppati, sul circolo vizioso del sottosviluppo, abbozzare un ideale di cooperazione internazionale. Ma tutto questo riguarda ancora soltanto la promozione della coscienza pubblica sull'argomento. Il problema politico è: come conferire potere a tali giudizi etici e a tali ideali di giustizia? Notiamo che gli interventi del magistero sul tema hanno valore soprattutto al primo livello; non ha invece grande senso fare appello ai governanti, dei quali si sa in che conto tengano (o possano tenere) le raccomandazioni ideali. Fino ad oggi, la ,pressione dell'opinione pubblica si rivela come il potere più incisivo per sollecitare decisioni politiche ispirate daill'esigenza di giustizia internazionale.256. Cf. in questo senso la più volte citata Oct. Adv., n. 24.

180

Page 181: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

È sufficiente l'istituto dell'elezione e della rappresentanza a garantire che il Parlamento dia voce alla coscienza pubblica? Oggi la risposta a tale domanda spesso è piuttosto pessimistica; e ciò soprattutto a motivo del giudizio pessimistico che si esprime a proposito di un'ulteriore istituzione mediatrice: quella costituita dai partiti.

I motivi che possono essere addotti a giustificazione di questo giudizio pessimistico sono molteplici, e anche diversi in rapporto alla diversità della tradizione e del grado di sviluppo dei diversi paesi257. Una parola decisiva in proposito deve dirla la sociologia politica Ma dal nostro punto di vista possiamo fare almeno un rilievo di valore generale. I moderni partiti delle società occidentali sono innegabilmente strutture di potere; ossia strutture che nella lotta per ottenere il consenso più ampio possibile non ricorrono soltanto o prevalentemente al dibattito e alla comunicazione tramite i rapporti primari (deputato-elettori), ma - secondo la loro natura di partiti di massa - ricorrono agli strumenti della pressione sociale, della comunicazione di massa, della protezione degli interessi corporativi delle categorie tra le quali cercano le loro adesioni, e cosl via. Il rischio della rappresentanza parlamentare in queste condizioni è di ridurre il conflitto politico a conflitto di interessi, e quindi di sanzionare il distacco dell'esercizio del potere «legittimo» dall'istanza della giustizia; il riferimento a tale istanza ideale svolge infatti nei partiti un ruolo molto accessorio («ideologico» in senso deteriore)258.

Naturalmente queste considerazioni non mirano a concludere che una società democratica possa far a meno di istituzioni parlamentari e di partiti di massa; ma solo a concludere che la democrazia non è esaurientemente garantita da queste istituzioni.

Quali altri strumenti creare al servizio della democrazia?Due sono le direzioni fondamentali di crescita democratica della società

contemporanea: la prima è quella della libertà dell'informazione e della cultura, la seconda è quella del decentramento agli enti intermedi e ai gruppi minori di tutte le decisioni che a quei livelli possono essere prese.

I partiti, come organizzazioni di potere, non possono essere il luogo di saldatura tra scelte politiche e opzioni ultime circa l'uomo e la società; e d'altra parte è indispensabile che tali opzioni ultime operino in qualche modo una sorveglianza critica sulle scelte politiche. Se la garanzia dell'autenticità non «ideologica» dei principi può essere fornita soltanto dal fatto che essi vengono coltivati e proposti da raggruppamenti senza potere, sorge un problema: come potranno tali raggruppamenti, o comunque tali voci, farsi udire efficacemente nella società? In una società di massa in cui anche la comunicazione sociale è un fatto di potere?

È questa un'ennesima espressione del paradosso sociale: tutti i rapporti si rappresentano come «giusti», ma sono determinati in realtà dal potere, e la giustizia è senza potere. Appunto per questo, la garanzia della libertà della comunicazione pubblica e della cultura è un tipico ufficio del potere politico, cui è affidata la difficile mediazione che consiste nel conferire potere a ciò che è giusto. La garanzia della libertà culturale d'altra parte - nella società odierna - non può consistere

257. A. GROSSER, In nome di che? Fondamenti di una morale politica, Angeli, Milano, 1972, pp. 49 ss, espone i motivi per cui le istituzioni parlamentari e la pluralità dei partiti non sono uno strumento adeguato per la realizzazione della democrazia reale dei paesi sottosviluppati, ex-coloniali soprattutto.258. Queste considerazioni sono quelle capaci di giustificare perché Paolo VI escluda i partiti dal novero dei luoghi sociali in cui debbono essere elaborati e custoditi i principi ultimi, che ispirano poi anche il progetto politico: cf. Oct. Adv., n. 25.

181

Page 182: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

semplicemente nel laissez faire occorre positivamente disporre strumenti che permettano a tutti i cittadini - a prescindere dal rispettivo potere economico - la possibilità di intervenire nel circuito della comunicazione sociale.

Evidentemente il principio è più facile da affermare che da tradurre in progetto operativo concreto. Accenniamo soltanto a due ambiti cruciali: i mezzi di comunicazione di massa e la scuola.

2.2.5.1. La comunicazione pubblica

Il fenomeno cosidetto della comunicazione pubblica ha sempre contraddistinto ogni gruppo umano, ogni vita sociale.

Ha però assunto caratteristiche nuove nelle società moderne: trascende l'ambito delle relazioni tra persone ma risulta "mediato" in modo sempre più cospicuo e sottratto all'arbitrio del singolo (dell'utente e del comunicatore); sì è ampliata e potenziata fino a comprendere - in tempo reale - l'ambito dell'intero pianeta e contemporaneamente si è legata ad interessi economici e al potere politico.

La complessità del fenomeno pone problemi che vanno oltre l'ambito tradizionale della valutazione etica di esso, sostanzialmente sottesa dall'istanza del "dire la verità"259.

Tale istanza deve oggi misurarsi con l'inspessimento del "mezzo" a cui sopra già accennavamo e sulla sua capacità di condizionare le modalità della comunicazione e dunque comprometterne anche la veridicità. Qualcuno attribuisce a tale condizionamento un potere così rilevante da concludere che «il mezzo è il messaggio»260.

Il "mezzo" diviene dunque soggetto attivo, comunicante, nel contesto di una comunicazione sempre più impersonale.

Una prima valenza di tale comunicazione "mediale" sembrano essere quella di far valere l'immagine a prescindere dal suo legame con la realtà261 e dunque estenuare l'istanza della veridicità di ciò che è comunicato. In altre parole, l'inspessimento del mezzo audio-visivo corrisponde al più generale fenomeno di inspessimento del linguaggio nella cultura contemporanea. L'uomo sosta sul linguaggio, si ripiega su di esso, dubitando del suo rimando intenzionale alla "cosa" . La problematica del "senso" soppianta quella della "verità".

Il suggerimento dell'immagine quale "mondo" - mondo dei mass-media appunto, dell'immagine dimentica della realtà e dunque del soggetto dimentico di sè - persuasivamente avanzato dai mezzi audio-visivi è anche legato alla loro commercializzazione e all'efficacia che l'immagine riveste nell'indurre ai consumi.

Una seconda valenza sembra essere quella di dissociare il personaggio dalla persona. Il mezzo non ha scrupoli nell'impossessarsi di una vicenda personale e delicata, nel giudicare una persona prima del giudice, nel ridurre il confronto tra

259A riguardo della menzogna sono presenti due orientamenti già nella riflessione patristica; l'uno (Origene, Crisostomo, Clemente Alessandrino ed altri) ammettono in alcuni casi la menzogna se è a fin di bene, altri (Agostino e Tommaso) la escludono totalmente anche se poi distingono la menzogna vera e propria dal puro e semplice occultamento della verità. I moralisti successivi preciseranno l'idea distiguendo la menzogna dalla "restrizione mentale" riscontrabile in affermazione che pur non affermando il falso omettono di dire tutta la verità; ci si riferisce a casi di necessità di tenere un segreto. 260MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1977.261Vedi in proposito G.BETTETINI, Televisione e fantasmi della quotidianità, in "La rivista del clero" 11 (1985).

182

Page 183: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

diverse idee e convinzioni a scontro tra diversi personaggi e così via. Anche tale valenza è funzionale all'utilizzo commerciale dei mass-media.

Lo Stato italiano - ad esempio - mantiene ancora un certo controllo sullo stru-mento radio-televisivo: in questa scelta di sottrarre questo importantissimo mezzo di comunicazione sociale al conflitto degli interessi privati, è implicito un giudizio: la gestione dello strumento radio-televisivo è cosa che riguarda tanto strettamente il bene comune della società civile da essere riservata all'immediato controllo del potere legittimo. Il rischio è però che esso diventi in tal modo semplice strumento del conflitto di potere dei partiti. Nasce così il problema di creare strumenti legislativi che diano alla gestione della comunicazione radio-televisiva un assetto democratico relativamente autonomo rispetto all'assetto relativamente democratico delle as-semblee parlamentari. Trattare però il problema dell'autonomia della radiotelevisione rispetto al potere dei partiti in termine di diritto dei giornalisti alla libertà di espressione è distorcere profondamente i dati del problema. Quell'autonomia, deve infatti, essere una garanzia della libertà di espressione dell'opinione pubblica del paese, e non della libertà di opinione dei giornalisti.

Il problema diventa dunque quello di garantire l'accesso allo strumento radio-televisivo alle diverse espressioni del dibattito pubblico interno alla società civile, e non adeguatamente interpretato dal dibattito tra i partiti.

Più a monte il problema è di realizzare luoghi di elaborazione di una opinione pubblica sottratti alla manipolazione da parte dei grandi centri di potere sociale.

E d'altra parte perché escludere dal problema affrontato per la radiotelevisione l'ambito della stampa quotidiana e periodica?262

2.2.5.2. La scuola

Problemi simili pone l'organizzazione politica della scuola. Non basta - anche se è il primo e imprescindibile compito - assicurare a tutti il diritto allo studio, in modo che l'unica discriminante sia quella delle attitudini e delle scelte personali, e non quella del denaro e del potere economico. Occorre anche garantire alla scuola un assetto democratico e un'autonomia, che - ancora una volta - permetta alla scuola di non essere una semplice cinghia di trasmissione dell'egemonia dei partiti, o peggio dell'egemonia sociale di determinate categorie. La scuola, piccolo raggruppamento sociale che permette una rilevanza relativamente cospicua dei rapporti primari, offre una notevole possibilità di «democrazia diretta»; ossia, di democrazia non mediata dall'istituto della rappresentanza; democrazia alla quale dovrebbero essere interessati insieme il corpo docente, il corpo discente e (per i gradi elementari e medi) le famiglie. A queste condizioni la scuola può diventare il luogo privilegiato dell'elaborazione culturale, e quindi il luogo in cui - con il supporto non condizionante del potere politico - vengono dibattuti e proposti i principi ultimi del consenso sociale.

2.2.5.3. Il federalismo

Il rapporto tra Stato e società ha evidenziato in maniera sempre più forte i limiti del centralismo statale.

262. Cf. quanto è detto in rapporto ai mezzi di comunicazione sociale in Octogesima Adv., n. 20.

183

Page 184: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Ai pericoli insiti nello statalismo vuol ovviare la sempre più insistita riforma federalista dello Stato; riforma cioè che articoli il rapporto tra stato e società civile in modo da rispettare maggiormente l'autonomia di quest'ultima. Ciò sarebbe possibile mediante una pluralità di centri di potere, a base territoriale, ed una limitazione del potere centrale.

La federazione va distinta dalla confederazione; la prima è articolazione del potere dentro uno Stato sovrano, la seconda è invece associazione di più Stati sovrani.

Prima di essere riforma dello Stato, il federalismo porta con sè un'istanza di difesa e di valorizzazione della società e del suo pluralismo interno; dalla società viene oggi una forte esigenza di decentramento.

D'altra parte, la sovranità dello Stato-nazione sembra indebolirsi a livello mondiale a favore di strutture di governo sovra-nazionali. Pensiamo all'Unione europea e ai problemi creati dall'invasione del Kwait e del conflitto nella ex-Jugoslavia. Sempre più il governo dell'economia e dei conflitti politici - pur interni ad uno Stato sovrano - chiedono un orizzonte sovra-nazionale. Sembra dunque profilarsi una ristrutturazione politica in tre livelli: Unione europea, Stati nazionali, Regioni.

D'altra parte, molte normative, in fatto di agricoltura ad esempio, già saltano lo Stato e si riferiscono direttamente alle regioni, per cui si può dire che è già avvenuto un ridimensionamento dello Stato a favore delle regioni e che tale ridimensionamento appare ineluttabilmente congiunto con il progressivo completamento della Unione europea.

2.2.5.4. L'opposizione al potere politico ingiusto

Una prima e più semplice forma di opposizione al potere politico ingiusto è quella dell'obiezione di coscienza. In che consiste? Nel rifiuto di obbedienza all'autorità politica, quando questa imponga un comportamento contrario al giudizio della coscienza personale. Il caso classico è la disobbedienza militare, o anche la disobbedienza più radicale alla coscrizione obbligatoria263.

Notiamo che non è invece obiezione di coscienza ogni forma di disobbedienza civile: tale disobbedienza può essere scelta e pubblicizzata come strumentodi lotta politica, di pressione sociale, e svolgere una funzione simile - con i problemi specifici però impliciti nel fatto che l'altra parte è lo Stato - a quello dello sciopero nei rapporti economici. In questo caso evidentemente i criteri in base a cui valutare la liceità etica della disobbedienza sono molto diversi e più complessi che nel caso dell'obiezione di coscienza: intervengono giudizi di opportunità e di efficienza politica, che invece non hanno posto nel caso dell'obiezione di coscienza. L'obiezione di coscienza s'impone con l'incondizionatezza stessa dell'imperativo etico ed è l'espressione paradigmatica della distinzione tra questo imperativo e quello sociale.

Si comprende in questa luce come l'obiezione di coscienza nasca tipicamente da un atteggiamento religioso; o comunque da un atteggiamento spirituale che non fa di una società migliore o dell'efficienza storica il criterio supremo delle sue scelte.

263. Cf. I'accenno nella Gaudium et Spes, n. 79.

184

Page 185: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Una seconda - più clamorosa e più complessa - forma di opposizione al potere ingiusto è la rivoluzione. Intendiamo qui con questo termine l'instaurazione di un regime politico diverso da quello presente, ottenuta conmezzi «illegali», ossia con mezzi che non sono quelli che già il regime attuale prevede come strumenti di sviluppo «fisiologico», tramite la permanente dialettica stato-società. La rivoluzione è sempre «violenta», se per violenza si intende un uso della forza che non è «legittimo», ossia che non è quello autorizzato dalle presenti istituzioni politiche della società; non è invece necessariamente «violenta», se con il termine si allude all'uso della violenza fisica.

Notiamo per altro che la forza rivoluzionaria può essere «legittima» in un senso più profondo ed essenziale di quello che si riferisce alla conformità rispetto alle leggi esistenti. Può essere «legittima» nel senso che può ragionevolmente contare sul consenso della società (vedi la definizione data sopra del potere politico); consenso invece che non è di fatto accordato al potere politico esistente. In questa ipotesi il regime esistente non è «giusto»; non è tale perché gli manca il rapporto costitutivo con la società; la giustizia di un regime non si commisura infatti immediatamente ad un'istanza ideale astratta, ma a quella istanza ideale alla quale viene dato il proprio consenso dalla società. Il regime senza consenso dunque è semplice uso difatto del potere, e non uso «legittimo». In tal caso la rivoluzione è lecita ed eventualmente anche doverosa.

Il giudizio storico comunque è complesso: come conoscere il consenso potenziale della società per un regime nuovo, in regime di dittatura? Come presumere la volontà reale del popolo al di là delle mistificazioni pubbliche perpetrate dal potere arbitrario presente264?

Tuttavia oggi accade spesso che l'atteggiamento rivoluzionario sbagli, non perché erri nella difficile valutazione storica sopra delineata, ma perché inesatta è la prospettazione stessa del problema. Cosi un certo atteggiamento evangelico-rivoluzionario giudica apolitticamente la società presente - non discutiamo qui se con molta o poca ragione - alla luce del Vangelo, ma ignora la necessità che esista un consenso pubblico perché possano essere lecitamente instaurati con la forza rapporti sociali più giusti. Finché non ricorrano tali presupposti, la «rivoluzione» può essere perseguita a livello del costume, con mezzi non violenti; ma non può essere perseguita come progetto politico in senso tecnico.

Ci soffermiamo sulla obiezione di coscienza al servizio militare, vista anche la diffusione del fenomeno, oggi.

2.2.5.4.1. L'obiezione di coscienza al servizio militare

Gran parte degli obiettori, per lo meno nei primi tempi, erano mossi da motivazioni evangeliche di pace e non violenza.

264. L'ultimo pronunciamento del magistero pontificio sulla liceità della rivoluzione è in Populorum Progressio, n. 31: si tratta di un pronunciamento fondamentalmente negativo, addotto in forza dell'argomento che «l'insurrezione rivoluzionaria...è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine». È dunque pronunciamento condizionato all'effettivo realizzarsi di questi inconvenienti, e non in nome di un presunto diritto del potere stabilito. D'altra parte è espressamente prevista un'eccezione, quella di «una tirannide evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese»: un'eccezione, come si vede, non così difficile a verificarsi.

185

Page 186: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Imbracciare un'arma sembrava loro un'aperta sconfessione del Messaggio di Gesù che invitava al perdono, a porgere l'altra guancia, all'amore fraterno, e che ha portato Gesù stesso a farsi vittima innocente della violenza dell'uomo.

Si tratta allora di chiedersi se realmente l'esistenza di un esercito fa sì che quello Stato non possa dirsi cristiano e così i cittadini che vi acconsentono.

Hugo Rahner parla di un sì e di un no dei primi cristiani allo Stato: da una parte riconoscono l'autorità dell'Imperatore in quanto deputato da Dio stesso per il bene della comunità, dall'altra contestano la sacralizzazione del suo potere e rivendicano una loro libertà di coscienza.

Non sono mancate voci che esplicitamente si opponevano al servizio militare, anche se sporadiche e localizzate.

Una svolta nel rapporto Chiesa-Stato avvenne con l'avvento di Costantino. Non si deve però pensare ad un rapporto idillico che succede alle persecuzioni; la Chiesa dovette continuare a difendersi dagli Imperatori che ora non la perseguitavano più ma cercavano di assoggettarla ai loro scopi politici.

Non siamo perciò di fronte ad un immediato connubio Trono-Altare. Ci vorranno la caduta dell'Impero, il nuovo ruolo sociale che la Chiesa si trova a svolgere con i Monasteri durante le invasioni barbariche e poi le nuove vicende con l'avvento di Carlo Magno, del regime feudale e della progressiva limitazione della libertà della Chiesa nell'elezione dei vescovi e dello stesso Papa ad opera delle grandi famiglie del tempo.

E' semplicistico prospettare una Chiesa evangelica, pacifista, prima di Costantino e guerrafondaia poi. In realtà i rapporti Chiesa-Stato sono complessi e la valutazione nei confronti della guerra deve tener conto delle condizioni sociali del tempo.

Non risulta, poi, che sia sostenibile moralmente l'ingiustizia radicale della guerra, in modo che la condanna di essa possa valere in modo apodittico e non teleologico; l'argomentazione adotta, infatti, non può non riferirsi alla nuova condizione in cui l'umanità è venuta a trovarsi all'indomani dello scoppio della prima bomba nucleare ma, aggiungerei, con il velocissimo progresso dei mezzi di comunicazione e di trasporto, che hanno abbassato le barriere culturali ed economiche (certo, non tra Nord e Sud....). Ma si vuol dire che l'abbandono progressivo dell'ideologia del nemico e della guerra non è frutto innanzitutto di un mutamento ideologico ma di un mutamento delle concrete condizioni di vita tra popoli.

Il Vangelo riporta alcuni fatti della vita di Gesù i quali trattengono da ogni ottimistico, o meglio illuministico, progetto di redenzione universale o di rappacificazione universale.

l. Lc. 19, 41-44: di fronte a Gerusalemme, la Città Santa amata da ogni israelita in quanto immagine della sua profonda identità e della Promessa divina, Gesù si siede e piange vedendo ormai ineluttabile il destino di distruzione e morte. Un Dio che siede ai margini della storia di questa città e piange impotente prevedendo la catastrofe. Sembra non poter più far nulla per evitarla anche se non si tratta di pura fatalità: se avesse saputo interpretare i tempi (vedi in proposito Lc, 12,54-59), i momenti della sua storia, le occasione propizie, non sarebbe in questa situazione; ma ora le vie di pace sono chiuse per lei e la sciagura appare inevitabile; Dio stesso non può far altro che piangere sulla sua rovina.

186

Page 187: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2. Lc.21,1-4: di fronte al Tempio Gesù predice la distruzione, la predice in tono quasi sarcastico, commentando le espressione di entusiasmo rapito di chi lo contemplava, quasi a sottolineare che quell'entusiasmo non può certo fermare il destino che ineluttabile sta per abbattersi.

3. Lc. 13,1-5: quando alcuni si presentarono per riferirgli quell'episodio particolarmente angoscioso di alcuni ebrei uccisi mentre facevano i loro sacrifici a Dio Gesù risponde in modo strano: non sembra particolarmente stupito o colpito dalla notizia ed anzi approfitta dell'episodio per dire agli altri che la stessa può capitare a loro, che episodi del genere devono far riflettere sullo stato della nostra vita e della nostra persona di fronte a Dio, che se gli uomini non trovano la strada di Dio periranno tutti, quella disgrazia sarà la sorte dell'intera umanità.

Gesù non sembra quindi impegnato a rassicurare che episodi di tal genere li impedirà o che almeno saranno risparmiati a chi crede, nemmeno spende una parola per dire che bisogna lottare per impedire che succedano ancora, piuttosto mette in guardia ciascuno dalla possibilità che episodi del genere diventino il suo destino di morte.

Questi episodi mostrano un atteggiamento di fondo di Gesù molto articolato e sottile: di fronte alla storia Egli sembra riconoscere con calma una buona dose di ineluttabilità. Certe cose nemmeno Dio può evitarle all'uomo anche se lui stesso se le è volute. Il credente non può tirarsi fuori nè Gesù mostra di volergli risparmiare i pesi del dramma umano.

Di fronte alla possibilità di eventi tragici Gesù non pensa tanto a come evitarli per i suoi, per chi ha vicino e si rivolge a lui, ma rivolge in modo ancora più pressante l'invito alla conversione, quasi a dire: non pensiate che Dio vi tolga dalla violenza della storia ma sarà la prova della vostra fede. Quello che deve succedere succederà, guai all'uomo che non è preparato.

Gesù riconosce l'ineluttabilità e tuttavia piange per il destino di morte e distruzione dell'uomo, piange perchè poteva essere evitato, piange perchè ama l'uomo e la sua città. L'ineluttabilità quindi non è radicale, non porta al fatalismo, anche se non si può più evitare la distruzione violenta.

Oltre a questa serie di fatti, il tema della pace e non-violenza devono misurarsi con il significato che riveste la scelta che Gesù fece di consegnarsi alla morte. Scelta che può certo apparire come non-violenta ma della quale occorre anzitutto comprendere il significato proprio.

Anche qui sono decisive le sfumature: l'ha subita in silenzio, senza minimamente imporla ad altri come esempio da seguire o come strategia da adottare anzi preoccupandosi che i suoi venissero lasciati fuori dalla sua morte; l'ha subita non per un suo istinto di eroismo ma, come dice la lettera agli Ebrei: "imparando l'obbedienza dalle cose che patì" e quindi senza vedere granché a riguardo dell'utilità della sua morte, in tal senso deve obbedire.

Egli sceglie la via della vittima, dell'agnello muto di fronte ai suoi tosatori, soffrendo fino in fondo però la misteriosità di tale via; essa è autorizzata dal Padre e non da una sua ideologia sulla salvezza del mondo, da una teoria sull'efficacia del martirio per la causa degli uomini.

La morte di Cristo rimarrà fino alla fine del tempi racchiusa in questa misteriosità impenetrabile alla ragione umana, per questo non è possibile generalizzarla come scelta del cristiano, come imperativo evangelico. Certo, Gesù ha

187

Page 188: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

predicato la necessità di dare la vita e di porgere l'altra guancia, ma di fronte alla Croce si incammina da solo e ben si guarda dal coinvolgere i suoi. Dovranno arrivarci da soli, quando sarà il loro momento.

Sul dare la vita, sul reagire alla violenza con la mitezza c'è di mezzo qualcosa di misterioso che riguarda la libertà di ciascuno e l'incontro con Dio, per cui alla fine risulta violenta ogni pressione alla non-violenza che voglia imporre al cristiano il sacrificio di sè. Quella di dare la vita è una scelta che il singolo deve maturare in piena libertà e che solo Dio può autorizzare nell'intimo della persona.

La volontà di pace del cristiano sembra quindi passare per atteggiamenti complessi che attingono non solo alla doverosa distinzione tra fede e politica, sempre più richiesta in una società democratica, ma al mistero stesso della Salvezza di Dio.

Sappiamo che sul politico pesa la responsabilità di ottenere e difendere le migliori condizioni di vita per tutti nell'oggi, nelle possibilità effettive che l'oggi offre. Porsi sul piano delle scelte politiche significa render conto degli effetti delle proprie posizioni e su questo piano è chiamato a misurarsi chiunque voglia proporre qualcosa sul piano politico.

Ogni guerra manifesta delle terribili responsabilità umane, questo però non toglie che per principio sia possibile evitarla. A riguardo delle responsabilità il cristiano deve lasciarsi interrogare dal Vangelo, la possibilità di evitarla è invece un giudizio politico di cui chiunque deve prendersi la responsabilità su quel piano e non solo su quello dell'idealità. Sul piano politico non basta condannare la guerra, bisogna avere anche alternative ad essa praticabili oggi.

Interessante mi sembra, infine, la proposta di allargare di fronte al fenomeno dell'obiezione di coscienza il concetto di "difesa".

"La difesa non è necessariamente legata all'idea di guerra e di protezione armata" può realizzarsi in attività civili e soprattutto coltivando le relazioni di amicizia e di scambio culturale tra popoli.

Non è questo, forse, il modo più efficace per allontanare prospettive di aggressione e di inimicizia tra popoli?

Su questo piano bisogna lavorare; e non mi sembra necessario esasperare la tensione tra la difesa armata tutt'oggi politicamente insuperabile anche se avviata ad un cospicuo ridimensionamento e altre forme di difesa. Importante che da entrambi i lati si lavori per superare le condizioni di ogni conflitto violento tra popoli.

2.2.5.4.2. L'obiezione fiscale

Oltre all'obiezione di coscienza al servizio militare viene talvolta praticata la cosidetta obiezione fiscale. Ci si rifiuta cioè di versare una quota di ciò che è prescritto dalla legge fiscale corrispondente all'utilizzo in alcuni settori o secondo alcune modalità ritenute ingiustificate (ad esempio in armamenti). Tale quota viene versata a favore di enti di servizio sociale a direttamente al presidente della Repubblica. Non si tratta quindi di evasione; non si tratterebbe a dire il vero neppure di obiezione; il versamento del denaro allo Stato non implica infatti contrasti con la coscienza religiosa; è la decisione politica del suo impiego a far problema. Più che di obiezioni di dovrebbe parlare quindi di disobbedienza civile.

188

Page 189: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il tema dell'"obiezione fiscale" è presente ben poco nel Magistero. L'espressione è del tutto assente nei testi classici della Dottrina sociale della Chiesa e poco la si ritrova in altri.

La riflessione teologica si divide tra chi sottolinea il valore profetico della scelta e chi ne mette in luce l'ambiguità politica.

Due sembrano essere i rischi di tale gesto: + quello di avvallare atteggiamenti individualistici che si sottraggono ai doveri

relativi al bene comune, il quale in una democrazia rappresentativa è salvaguardato anche dalle regole.

+ Quello di favorire la frammentazione delle decisioni e dunque estenuare la coscienza civile.

2.2.6. Dalle garanzie giuridiche alla pianificazione sociale: politica ed economia.

Il terzo interrogativo a cui ci eravamo proposti di rispondere - per appurare l'attitudine dello Stato inteso come potere che amministra il diritto a garantire la soggezione dei rapporti sociali alla norma della giustizia - era il seguente: riescono le formule giuridiche, generali ed astratte, a prevedere e disciplinare le molteplici situazioni sociali, nelle quali un potere di fatto si esercita ingiustificatamente sulla libertà dei singoli e dei gruppi sociali minori?265

La risposta a questo interrogativo è per molti aspetti negativa; ma essa può quindi essere soltanto genericamente enunciata, mentre la documentazione relativa è soprattutto quella emergente dall'analisi storica degli attuali rapporti tra economia e società, da noi svolta brevemente al prossimo capitolo undicesimo.

I1 diritto - la sua statuizione e la sua applicazione giurisdizionale - non è più la forma unica, o anche solo la più rilevante (almeno dal punto di vista dell'incidenza quantitativa) in ordine al controllo del potere legittimo, ossia politico, sui rapporti civili. Più incisiva è un'altra forma di controllo del potere arbitrario che minaccia la giustizia dei rapporti sociali: la forma consistente nella pianificazione deliberata dello sviluppo della società, il che vuol dire principalmente dello sviluppo economico.

Le strutture economiche sono, infatti, quelle che più pesantemente intervengono nell'attribuzione dei ruoli sociali, e quindi di potere o di servitù. Soltanto a questo livello si può garantire la realizzazione concreta di quelle istanze formali (diritti dell'uomo) che la critica illuministica ha enunciato.

La violazione della libertà altrui che può essere perpetrata dal singolo nei rapporti individuali - quella appunto che tipicamente può essere prevista e perseguita dal diritto - non è la minaccia più grande di cui soffra oggi la libertà dei cittadini. Molto più grave è la minaccia che viene alla libertà dalle scelte economico-produttive, dalla manipolazione degli strumenti di comunicazione sociale. Dunque, nel controllo di questa minaccia consisterà principalmente la fedeltà del potere politico alla sua missione, di supplire col potere legittimo alla mancanza di potere di cui soffrono istanze pure giuste all'interno dei rapporti sociali.

265. Sui limiti delle statuizioni giuridiche a garantire la effettiva realizzazione dei diritti fondamentali della persona attira l'attenzione anche l'Oct. Adv. n. 23, ma per dedurne l'indispensabile funzione di un'educazione umana alla solidarietà.

189

Page 190: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2.3. Economia e societa'Occorre mantenere, come la storia ci ha insegnato, la distinzione concettuale

tra l'economico e il politico: solo a questo patto è possibile prendere in consi-derazione il nesso strettissimo che nella nostra società s'è stabilito tra i due ambiti, senza per questo fare del conflitto economico l'unico fronte della lotta politica e del proletariato auto-imprenditore l'immagine messianica della società giusta.

2.3.1. L'attività economica

Il problema economico è il problema emergente dalla sproporzione tra il bisogno dell'uomo e le risorse «naturalmente» disponibili per la soddisfazione di tale bisogno. Il bisogno cui qui si allude dovrà essere inteso come bisogno specificamente umano, e non come semplice bisogno biologico, come pare intendere Marx quando parla dell'attività economica - per lui è l'essenza della libertà umana - come di «produzione e riproduzione della vita immediata dell'uomo». Cosa vuol dire bisogno specificamente umano? Vuol dire che, essendo l'uomo essenzialmente spirito, ossia coscienza e libertà, e appartenendo quindi a quest’ordine i «beni» che hanno per la sua libertà dignità di fine, egli è contemporaneamente natura, ed è quindi sotto questo profilo iscritto nell'ordine dei condizionamenti bio-fisici che fanno di lui un essere solidale con la natura cosmologica.

È comunque certo che - a partire dal momento in cui l'uomo di fatto appare nel cosmo - il processo di asservimento della realtà cosmica alla libertà dell'uomo è affidato all'iniziativa dell'uomo stesso. Il compito è realizzato mediante il lavoro, che qui intendiamo come sinonimo di attività economica.

La «laboriosità» del lavoro - quell'esperienza universale di cui Genesi 3 dà un'interpretazione storico-teologica266 - è appunto l'espressione della sproporzione tra il bisogno dell'uomo e la natura, tra essenziale intenzione di dominio della libertà umana e schiavitù biologiche che l'uomo deve subire da parte di una natura non (ancora, interamente) fatta per lui. Questa sproporzione è quella che fa del rapporto uomo-natura non semplicemente un rapporto fruitivo, ma anche rapporto laborioso: il rapporto economico appunto.

2.3.2. Economia e rapporti sociali in genere

La sussistenza del problema economico e della corrispondente laboriosa attività dell'uomo ha interessato da sempre e profondamente anche i rapporti interumani: li ha interessati positivamente e negativamente. Positivamente, in quanto la supplenza reciproca nel rapporto uomo-natura - dei genitori nei confronti dei figli, dell'uomo nei confronti della donna, del contadino nei confronti dell'artigiano, e così via - è una delle espressioni più fondamentali della solidarietà sociale dell'uomo; la

266. Un'interpretazione soddisfacente del passo - che al di là della forma primitiva del racconto storico-eziologico, individui il messaggio che ne emerge per l'uomo d'oggi circa i rapporti tra penosità del lavoro e peccato - non la si trova facilmente. I1 problema per altro è comune a tutti i «castighi» di cui in Gn 3. Si veda una prima sommaria informazione e un tentativo di sintesi teologica sul tema nella nostra voce «La-voro», in Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Roma, 1977, pp. 701-725.

190

Page 191: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

divisione del lavoro nella più vasta comunità urbana è una delle fondamentali sorgenti della coesione sociale.

Ma il problema economico esercita da sempre anche un'influenza negativa e determinante sui rapporti umani: la scarsezza dei beni economici ingenera la concorrenza reciproca, fa apparire l'altro come una minaccia nei confronti della felice soluzione del mio rapporto con la natura. Hegel fa nascere una delle istituzioni fondamentali della vita sociale dell'antichità - quella della schiavitù, e quindi della forma più elementare di divisione del lavoro - dal conflitto economico: lo schiavo vende la libertà per aver salva la vita, supplisce il padrone nel rapporto laborioso con la natura, perché il padrone lo supplisca (come guerriero) nel rapporto pericoloso con gli altri uomini.

I problemi caratteristici di cui si occupava la morale economica cattolica tradizionale erano appunto quelli emergenti dal rapporto tendenzialmente conflittuale che il problema economico instaura tra gli uomini. Affermata in linea di principio la destinazione universale dei beni267, venivano affermati i diritti della proprietà privata, le norme che regolano le transazioni commerciali, e che avrebbero dovuto proteggere i beni di dominio privato dall'usurpazione ingiusta.

2.3.3. L'economia oggi: la « socializzazione »

Ma l'intreccio di rapporti tra economia e società è diventato decisamente più fitto, a partire da quel mutamento qualitativo nei rapporti uomo-natura che fu la rivoluzione industriale.

Non è qui il caso di accennare neppure di sfuggita ad una descrizione storica di tale rivoluzione268 e dei suoi successivi sviluppi (automazione). Senza preoccuparci della successione storica, cercheremo invece di richiamare brevemente gli aspetti salienti della connessione economia-società seguendo un ordine logico.

Alla base di tutto sta la parcellizzazione dei compiti che l'introduzione della macchina comporta. Parcellizzazione dei compiti all'interno della singola impresa produttiva, e parcellizzazione dei compiti tra le diverse imprese. La macchina non ha l'elasticità dell'utensile del contadino o dell'artigiano: la macchina è sempre concepita in vista di un prodotto molto preciso e specializzato. Proprio per questo motivo la produzione industriale crea un'interdipendenza molto più stretta di quanto

267. Chiaramente l'affermazione compare nei documenti magisteriali: Pio XI, Quadragesimo Anno, n. 19, Giordani I, p. 448; Pio XII, Radiomessaggio del 1.ó.1941, Giordani I, p. 723; Gaudium et Spes, n. 69a e rinvii indicati in nota; e poi nell'insegnamento di G.P.II. Il Calvez (Economia, uomo e società, Città Nuova, 1991, p. 97) osserva che la Chiesa afferma non tanto il «diritto di propritetà» (che riguarda le proprietà esistenti) quanto invece il «diritto ad acquisire una proprietà» per realizzare la propria condizione di soggetto di fronte alle cose. Per questo, come ricorda sempre Calvez, la Chiesa suppone che "le istituzioni della proprietà siano abbastanza flessibili perché la proprietà non si concentri definitivamente in poche mani, ma circoli in maniera sufficiente". E ancora, per quanto riguarda le imposte, "la Chiesa ritiene che non debbano essere eccessive, pena lo svuotamento della proprietà di ogni suo contenuto" (Ibid., p.123). Sul rapporto tra diritto naturale di proprietà e destinazione universale dei beni riscontriamo una progressiva insistenza sulla seconda, già a partire dalla Quadragesimo anno (n. 50); Radiomessaggio del 1941, n. 12-13; Mater et magistra n.43; Pacem in terris n.22-23; Gaudium et spes n.69). L'istruzione Libertà cristiana e liberazione dichiara esplicitamente la subordinazione del diritto di proprietà al principio della destinazione universale dei beni (n° 87); così la Laborem exercens n. 14,2; Sollicitudo n. 39. La Centesimus annus evita il termine subordinazione.268. Si veda per un primo orientamento e per un'informazione bibliografica abbondante J. M. AUBERT, Pour une théologie de l'Age industriel, Du Cerf, Paris, 1971, specie pp. 81-146.

191

Page 192: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

richiedesse la produzione pre-industriale tra le singole iniziative produttive. Per l'elaborazione delle materie prime, degli impianti, dell'energia, dei servizi generali, l'iniziativa singola dipende dall'attività di mille altri settori produttivi. E d'altra parte coloro che lavorano in una fabbrica dipendono per tutti i loro consumi dall'attività di coloro che operano in tutti gli altri settori produttivi.

Non solo, ma all'interno della fabbrica stessa l'autonomia della prestazione del lavoratore singolo è minima: essa è determinata in ogni suo particolare dall'organizzazione dell'insieme, dalle leggi meccaniche della macchina stessa in primo luogo, quindi dai compiti seriali complementari imposti ad ogni altro lavoratore.

Sotto entrambi i profili, la produzione industriale è un potentissimo fattore di socializzazione, nel senso che rende estremamente fitta la rete di rapporti precostituiti rispetto all'iniziativa del singolo; esaspera quindi la dipendenza del singolo dalla società e diminuisce correlativamente lo spazio lasciato all'auto-determinazione privata.

2.3.4. Socializzazione come compito

La socializzazione come fatto obiettivo, che accompagna ineluttabilmente l'industrializzazione, crea un corrispondente compito269: il compito appunto di sottrarre lo sviluppo del sistema economico - e quindi sociale - al deterrninismo casuale e arbitrario dell'incontrollato combinarsi delle scelte imprenditoriali private.

Il compito in questione fu affermato prima con vigore da parte di coloro che vedevano i mali che il sistema sociale procurava al lavoratore (cf. collettivismo marxista, socialismo perseguito da gran parte del sindacalismo europeo); ma più recentemente fu riconosciuto in qualche misura come compito ineluttabile anche da parte delle categorie imprenditoriali e da tutte le parti politiche.

In complesso possiamo dire che oggi non c'è alcuna parte politica - nelle società sviluppate - che non riconosca un compito attivo di intervento del potere pubblico, e quindi della decisione collettiva, nello sviluppo del sistema economico. La base di questo riconoscimento è appunto la consapevolezza che il sistema economico non possiede in se stesso misteriosi automatismi capaci di garantire che dalla stretta interdipendenza che lega tutte le iniziative economiche private (produttive, commerciali, finanziarie) risulti miracolosamente un equilibrio, e soprattutto un equilibrio ottimale. Ma la misura e i criteri dell'intervento auspicato - la misura dunque della «socializzazione» politica dell'economia - sono molto diversi.

L'atteggiamento neo-capitalista accetta soltanto un controllo politico sulle quantità aggregate (livello dei prezzi, liquidità finanziaria, tassi di sconto,

269. Il termine «socializzazione» è piuttosto ambiguo, nel senso che ha significati diversi nell'uso delle diverse discipline. I sociologi lo hanno adottato come termine tecnico per indicare il processo di appropriazione da parte dei singoli del ruolo (o dei ruoli) sociale che le istituzioni assegnano loro; cf. la seguente definizione: «Il termine socializzazione è usato per descrivere il processo mediante cui gli individui apprendono la loro cultura, sia nella forma più generale, sia per quanto riguarda il suo riferimento a ruoli speciali»; A. INKELES, Introduzione alla sociologia, Il Mulino, Bologna, 1967, p. 135. Nella letteratura politica, e in particolare etico-politica, si oscilia invece tra due significati, entrambi diversi da quello dei sociologi «socializzazione» come fenomeno storico obiettivo caratteristico della società industriale, e «socializzazione» intesa in invece come compito politico imposto dal fenomeno precedente. I1 primo senso è quello che Giovanni XXIII ha adottato nella Mater et Magistra, e da allora divenuto più corrente; per altro lo stesso magistero (Pio XII) aveva prima usato il termine nel secondo senso: cf. per tutto questo J. M. AUBERT, op. cit., n. 216.

192

Page 193: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

investimenti, occupazione e cosi via), capace di garantire il «funzionamento» del mercato, ossia i processi di auto-regolazione di quel mercato, al quale per altro verso viene lasciata la determinazione qualitativa del tipo di sviluppo economico perseguito dalla società. L'intervento ammesso - in altri termini - è quello minimo esigito per evitare le manifestazioni patologiche (inflazione, recessione, disoccupazione, e cosi via) del sistema economico. Non è invece un tipo d’intervento che trasferisca alla collettività (e quindi alla sua espressione democratica che è l'autorità politica) la deci-sione ultima sugli obiettivi complessivi dello sviluppo economico.

2.3.5. L'urbanesimo

La produzione industriale è all'origine del fenomeno dell'urbanizzazione delle masse lavoratrici. Possiamo distinguere due momenti di questo rapporto causale tra industria e città.

Innanzitutto l'industria porta con sé la concentrazione della mano d'opera, e quindi la necessità di una rete di servizi ausiliari che provveda alle necessità della mano d'opera attratta dalle campagne in città. Secondariamente, le installazioni industriali possono realizzare delle «economie d'ambiente» concentrandosi in zone relativamente ristrette; in modo da poter usufruire di servizi generali comuni (trasporti, fonti di energia,...), di facilitare gli interscambi esigiti dalla stretta interdipendenza tecnica delle diverse iniziative.

È questo delle economie di ambiente il fenomeno che spiega quanto sia difficile una distribuzione industriale non sperequata sul territorio nazionale (cf. il problema meridionale in Italia).

Sotto entrambi i profili l'industrializzazione favorisce, o addirittura esige l'urbanizzazione di masse sempre più estese di cittadini. Ora, com'è noto, l'urbanizzazione non è semplicemente un trasferimento locale, ma mutamento culturale e di costume profondo, spesso traumatico per chi lo vive. Trascurando i problemi specifici del momento preciso di passaggio, ricordiamo semplicemente i caratteri salienti della cultura urbana.

Innanzitutto profondamente mutata ne risulta l'istituzione familiare: il nuovo nucleo familiare in città si stacca dalle famiglie di provenienza, e inizia un ménage a due; lo spazio che la famiglia ha a disposizione è necessariamente molto limitato, perché la città ha sempre bisogno di un'economia di spazio; i figli - finché non lavorano in fabbrica - sono economicamente un passivo netto per la famiglia urbanizzata, mentre non lo erano per la famiglia contadina o anche artigiana; il lavoro femminile - conseguente alla scolarizzazione dei figli da un lato e all'impossibilità di un'attività lavorativa domestica dall'altro - rende ulteriormente labili i rapporti familiari.

Ma non solo mutano i rapporti familiari. Tutti i rapporti umani acquistano caratteri nuovi: si moltiplicano i rapporti puramente «funzionali», ossia massicciamente pre-determinati dalle strutture sociali che impongono i rispettivi ruoli; questo non solo all'interno del luogo di lavoro, ma in tutta la vita civile. Il rapporto funzionale è rapporto «anonimo» e non impegnativo a livello personale. La mobilità non solo spaziale, ma anche dei rapporti, si accompagna ineluttabilmente alla fungibilità del rapporto funzionale. Rapporti diversi da quelli di parentela, amicizia, religione possono perdurare soltanto se scelti; si appoggiano totalmente sulla volontà

193

Page 194: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

libera dei protagonisti, senza poter contare sul sostegno della pressione ambientale come invece accadeva in campagna o nel paese.

Questi caratteri della vita urbana possono essere valutati positivamente270 o negativamente, sotto diversi profili. Sta di fatto che storicamente questi caratteri produssero un'evidente decadenza del costume, uno sbriciolamento delle tradizioni e delle convinzioni etico-religiose, un impoverimento del singolo nei confronti delle suggestioni collettive che gli vengono proposte dalla società271.

Ma a questa evoluzione complessiva del costume l'industrializzazione ha condotto, oltre che attraverso la mediazione dell'urbanesimo, direttamente mediante la condizione operaia (o comunque di lavoro esecutivo subalterno) e la trasformazione che essa comporta nel circuito lavoro-bisogno.

2.3.6. Il consumismo

La Chiesa già da tempo avverte che il consumismo "ha fiaccato tutti. Ha aperto spazi sempre più vasti a comportamenti morali ispirati solo al benessere, al piacere, al tornaconto degli interessi economici o di parte"; che "lo smarrimento prodotto da simile costume di vita pesa particolarmente sui giovani, intacca il ruolo della famiglia e indebolisce il senso della corresponsabilità, tre dei cardini portanti di un sicuro tessuto sociale" 272.

Al consumismo sono poi legate anche "le povertà post-materialistiche" 273 che "toccano in genere i più deboli ed indifesi".

Ma occorre anche riconoscere, osserva la Centesimus Annus, che esso scaturisce dalla perenne e legittima domanda di "qualità" della vita, anche se batte una strada sbagliata.

Da ciò l'urgenza che la cultura politica si "lasci guidare da un'immagine integrale dell'uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali" (n.36).

Il consumismo è, sotto questo profilo, un "sistema di vita" e non solo inclinazione o debolezza di qualcuno di noi. E' cioè frutto di una stratificazione di scelte politiche, di strategie economiche, più o meno occulte, e come tale oggi si erge di fronte a noi in tutta la sua forza.

In linea generale, potremmo dire che il problema del consumismo rientra nel più generale rapporto dell'uomo con i "beni" e con la promessa di una "vita buona" che essi portano con sè.

270. Rimane classico l'apologo della vita urbana tracciato dal teologo-sociologo H. Cox, La città secolare, Vallecchi, Firenze, 1966. Da parte cattolica un tentativo analogo è quello di J. COMBLIN, Teologia della città, Cittadella, Assisi, 1971. Naturalmente, l'analisi dei meccanismi di condizionamento urbano è svolta soprattutto dai sociologi: vedi una bibliografia essenziale sul tema in G. D. MITCHELL, Storia della sociologia moderna, Mondadori, Milano, 1971, pp. 314-320; ci limitiamo a ricordare espressamente D. RIESMAN, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1967; A. ARDIGÒ, La diffusione urbana, A.V.E., Roma, 1967; M. CASTELLS, La questione urbana, Marsilio, Padova, 1974.271. L'Octog. Adv., nn. 8-12, traccia un quadro alquanto fosco della «civiltà urbana».272. "La chiesa italiana e le prospettive del paese", n. 11273. "Evangelizzazione e testimonianza della carità'" n. 47

194

Page 195: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Lo potremmo quindi definire una questione satellitare rispetto a quella "classica" del rapporto uomo-Bene.

Quando parliamo di "beni" non intendiamo semplicemente gli oggetti di consumo ma tutte le "realtà" fruibili della vita umana, anche i servizi, i prodotti culturali, i modi di impiegare il tempo, le esperienze che si possono fare.

Da sempre la dinamica del rapporto dell'uomo con le cose è di questo tipo. Non ci sarebbe impegno e fatica se le cose da fare non risultassero "promettenti" agli occhi di chi le persegue.

Ma oggi assistiamo ad una sua esasperazione. Non nelle forme grossolane dei classici "vizi" ma in forme più sottili.

Il meccanismo pubblicitario, ad esempio, funziona collegando la fruizione di un oggetto ad un'immagine ideale di vita. L'armonia di coppia, la felicità familiare ecc. appaiono legate al consumo dell'oggetto pubblicizzato. Il nesso tra le due cose appare obiettivamente ridicolo e tuttavia si impone grazie al potere suggestivo che hanno le immagini ideali proposte. Il desiderio di felicità è così forte che l'uomo si ritrova a "crederlo" nelle cose più banali.

Certo, l'effetto svanisce assieme allo spot, nell'adulto, e tuttavia rimane, e si rafforza, la persuasione che la questione della felicità sia in definitiva una questione di gusto, di affinamento e adeguata soddisfazione della sensibilità, una questione risolvibile "empiricamente".

Non ci si lascia, quindi, illudere a riguardo di quel bene e tuttavia ci si lascia convincere sul principio generale. Viene superato, criticamente, il collegamento "magico" che lo spot tesse tra il consumo dell'oggetto e la felicità, e tuttavia rimane l'idea di fondo che la felicità si risolva in una gestione avveduta delle proprie risorse, a tutti i livelli (non solo materiale), che la vita rimandi ad una ragioneria del piacevole.

Il problema che il consumismo pone è perciò vecchio quanto l'uomo, anche se oggi molto più complesse sono i suoi risvolti sociali e politici. E' il problema di come perseguire praticamente la felicità, la piena realizzazione di sè, il compimento della propria vita. Tutti siamo d'accordo nel volere queste cose, molto meno lo siamo sulle scelte pratiche per raggiungerle o in qualche modo ottenerle 274.

Riferito alle figure della soggettività pratica, è il problema del rapporto tra il "bisogno" e il "desiderio", tra la spinta immediata alla cosa in quanto appetibile, atta cioè a risolvere un disagio patito, e il riferimento al "Bene" di cui è gravida l'intenzionalità pratica. In altri termini, l'uomo non può essere indifferente al "bisogno" di cibo, vestito, sicurezza sociale ecc., perchè è ovvio che l'indigenza può solo essere patita e può solo esasperare gli animi. Tuttavia egli "sa" con altrettanta chiarezza che il suo "desiderio" di Bene trascende queste prospettive pratiche.

Se così non fosse non si porrebbe nemmeno il problema di come "praticamente" perseguirlo.

Innanzitutto occorre dunque emanciparsi da una visione cosificante e riduttiva del problema. Non è l'eccesso dei consumi l'aspetto più preoccupante e non è l'indicazione di una "modica quantità" che può soddisfare il bisogno di riflessione sul rapporto dell'uomo con i beni della sua vita.

274. Lo osservava già Aristotele: "Quanto al nome d'esso [il sommo bene] la maggior parte è pressochè d'accordo: felicità lo chiamano sia la moltitudine che le persone raffinate [...] ma intorno all'essenza della felicità, sono in discordia" Etica Nicomachea, Laterza, BUL vol. /, Bari 1988

195

Page 196: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Nel consumismo non entra, cioè, solo il problema "psicologico" della giusta misura nel godimento dei beni, nè solo quello della equità nell'accesso ad essi, ma viene investito il problema del desiderio umano in quanto tale, nella sua più profonda intenzionalità, che è quella di "salvare la propria vita" ritrovandone la "verità" e i modi di viverla in pienezza.

Occorre, perciò, educare le persone a riprendere contatto con il proprio desiderio profondo, con la verità del proprio cuore. Il consumismo ha, infatti, l'effetto di distanziare l'uomo da se stesso, accentuandone la debolezza intellettuale e pratica.

E' una deriva del volere umano che comporta la progressiva evanescenza del significato del "Bene" nella cultura. I sintomi di tale deriva sono l'incapacità progressiva di giudicare cos'è il Bene proprio e altrui, a fronte di una sempre più ampia possibilità di scelta di beni.

L'esperienza umana assume, allora, la caratteristica di un continuo esperimento: è Bene ciò che empiricamente constato tale, mi fa star bene. Esperimento che inevitabilmente dura per tutta la vita dando alle scelte fondamentali un insuperabile carattere di congetturalità. Non c'è possibilità che qualcosa della vita possa risolversi in qualcosa di "certo".

Non ci vuol molto per capire come tale sperimentalismo si riveli, per principio, incapace di farsi carico della prospettiva del "Bene" e del "Bene comune", e infatti vi si sottrae. Il Bene comune è pensato nella forma del "contratto" o dell'accordo sull'"utile".

Questo sta a dire l'importanza dell'elaborazione culturale nella nostra società. Purtroppo il consumismo si fa sentire anche sul lavoro intellettuale. In una cultura schiava dei bisogni e dell'affanno, tutto diventa cibo e vestito, la persona rinuncia ad ogni riferimento ad una prospettiva trascendente e totalizzante 275 ed anche gli intellettuali divengono mercenari di questo o quel padrone. Si scrive per prendere soldi e non perchè qualcosa "prema" per essere detto. Non ci sono più "verità" da dire ma solo opportunità da cogliere nei modi più svariati, anche con il "dire".

Anche il tema della giustizia, o dei diritti umani, si appiattiscono. Essendo la cultura incapace di alimentare un'idea di "giustizia" legata alla "dignità" della persona e alla sua "trascendenza", la difesa dei diritti si riduce alla rincorsa di una equità

"empirica", misurata cioè sull'accesso ai "beni" 276.

Oppure si appoggia al fatto che il diritto possa essere rivendicato dal soggetto. Chi non ha "voce" finisce col soccombere a chi ha modo di "farsi sentire". Ma questo dipende dal fatto che la "cultura" non sa andar oltre al riconoscimento "formale" della soggettività. In altri termini, cari alla tradizione cristiana e recentemente riproposti dalla "Veritatis splendor", afferma la "libertà" senza farsi carico del suo rapporto costitutivo con la "Verità".

275. Qui il nesso tra crisi dei costumi e crisi della fede, il punto cruciale di un confronto tra etica "laica" ed etica cristiana276. Cosa, certo, di grande rilievo politico ma che rimanda ad un criterio di giudizio etico se non vuol continuamente scoprirsi problematica.

196

Page 197: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il consumismo non è, poi, un problema solo individuale ma sociale. Alla tendenza del singolo al consumo, infatti, corrispondono scelte ben precise di carattere economico e politico.

Il modo di tendere al benessere tramite il consumo ha determinato, infatti, una crescente disparità nei ritmi dello sviluppo tra nord e sud del mondo. E' un problema economico-politico che però riflette determinare scelte di costume dei paesi ricchi che devono essere riviste.

Certo, la morale cristiana della libertà, che parla di continenza, o di digiuno e penitenza (che riguarda non solo il cibo ma anche il vestito e quindi i rapporti sociali), che è morale della "signora povertà", si sostiene solo in un contesto escatologico e non in un'ottica di tipo puramente psicologico o sociologico. Il nesso che la Tradizione cristiana coglie tra povertà di beni e povertà di relazioni (verginità) lo evidenzia in tutta la sua forza.

Ciò non significa che essa costituisca, subito e necessariamente, un livello arduo dell'impegno umano, solo per pochi, ma che il male o i pericoli a cui essa reagisce non sono percepibili se non nell'ottica "radicale" della fede.

Da una parte, infatti, il male della ricchezza è quello di farsi idolatria invece di essere vissuta come "benedizione"; dall'altra le ragioni ultime per opporsi ad essa sono quelle della Promessa di Dio.

Non ci sono dunque "ragioni" in grado di motivare la libertà cristiana, in tutti i suoi significati, se non quelle che scaturiscono dalla luce che viene gettata dagli eventi cristiani sul destino umano. Senza questi, l'orizzonte fatalmente si abbassa e si chiude sul futuro dell'uomo e l'immaginazione del tempo fatalmente si curva per assumere la figura di un ciclo che sempre si ripete e non contiene più alcun "Fine".

In tale visione non è che la "ragione" sia più ragione, quasi che la "criticità" di essa corrispondesse ad una sempre nuova edizione del pessimismo umano o dello scetticismo o del vuoto dello spirito umano.

La "fede" non toglie nulla alla ragione ma solo ne costituisce il punto di vista, così come l'incredulità lo è per altre "ragioni". Che lo voglia o no l'uomo deve "scegliere" dove collocarsi nella propria storia, deve "giudicare" il proprio "tempo" e la sua "ragione" dovrebbe servigli a ciò. Dovrebbe assicurare la "criticità" di tale giudizio del tempo.

Al capito 12, 55-56 di Luca leggiamo: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?»

2.3.7. L'informazione

All'interesse che la società del benessere ha di creare sempre nuovi bisogni corrispondono strumenti di cui essa dispone per poter realizzare questo suo interesse. Pensiamo ai mezzi di comunicazione di massa, quali la stampa quotidiana e periodica, la televisione, il cinema. I mezzi di comunicazione di massa sono tra gli strumenti più importanti mediante i quali si afferma il potere economico nella strutturazione dei rapporti sociali e nella creazione di un ethos della società. Per un verso infatti il mezzo di comunicazione di massa è per natura sua tale da poter

197

Page 198: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

essere usato solo da chi disponga di un notevole potere economico. Per altro verso il mezzo di comunicazione di massa, che sottrae i processi informativi ai rapporti pri-mari, corrisponde ad un vuoto obiettivo della società urbana, nella quale le opportunità dei rapporti primari sempre più svaniscono. I rapporti primari infatti costituivano il veicolo di trasmissione culturale fondamentale (famiglia, parentela, vicinato, parrocchia, e cosl via) e garantivano in qualche modo l'autonomia culturale della società rispetto ai poteri politici ed economici. L'indebolirsi di tali rapporti primari non solo rende precaria la trasmissione dei modelli tradizionali, i quali soffrono comunque di una obiettiva inadeguatezza alla mutata situazione socio-culturale; ma pregiudica la possibilità stessa che si costituisca un luogo di elaborazione di una nuova cultura, che sia libero e su misura dell'uomo.

Detto in altri termini, i modelli di comportamento, i criteri di valutazione, gli ideali umani proprii dell'uomo urbanizzato vengono oggi di fatto derivati soprattutto dalle fonti di informazione pubblica. Al di là del soddisfacimento dei bisogni biologici elementari, al di là delle ineluttabili prestazioni professionali imposte dal ruolo assunto nel sistema produttivo, lo spazio di libertà residua in che modo è riempito? Le mete di benessere ulteriori rispetto ai bisogni primari (modelli progressivamente più sofisticati di automobile, elettrodomestici, casa di vacanza, moda del vestire, divertimenti ed hobby vari, e così via) sono in larga misura quelle proposte e in qualche modo imposte dall'emulazione sociale; sono quindi controllate mediante quegli strumenti di comunicazione di massaa che hanno il loro controllo ultimo nelle centrali del potere economico.

Questo fatto non deve essere ritenuto ineluttabile. Quando ad esempio Paolo VI nell'Octogesima Adveniens, n. 25, indica nelle associazioni « culturali e religiose » il luogo in cui deve essere costituita la concezione ultima dell'uomo e della società, la quale deve fungere da istanza critica nei confronti dell'esercizio della decisione politica, è evidente che ciò suppone che queste associazioni svolgano una funzione critica anche nei confronti dei processi informativi sociali; e quindi che siano sottratte in qualche misura alla soggezione succube nei confronti degli strumenti d'infor-mazione di massa.

Tuttavia - per quello che interessa il nostro discorso in questo capitolo - il fatto dell'evidente rilevanza collettiva dell'informazione pone l'esigenza di un controllo pubblico e democratico delle fonti stesse di questa informazione. La funzione che svolgono le fonti di comunicazione sociale è tale da risultare incompatibile con la loro gestione secondo i criteri produttivistici propri dell'imprenditore, sia pubblico che privato. Siccome d'altra parte è impensabile la dissociazione della gestione di tali strumenti informativi dall'esercizio del potere economico, l'esigenza cosi avanzata si traduce in esigenza di controllo politico e democratico del potere economico stesso.

Ai fenomeni qui richiamati è dedicato un paragrafo (n. 20) della Octogesima Adveniens, nel quale viene sottolineata la rilevanza del «nuovo potere» costituito dai mezzi di comunicazione sociale, e viene posto come ineluttabile l'interrogativo: «Come allora non interrogarsi sui detentori reali di questo potere, sugli scopi che essi perseguono e sui mezzi posti in opera, sulla ripercussione infine della loro azione nei confronti dell'esercizio delle libertà individuali, tanto nel settore politico e ideologico, come nella vita sociale, economica e culturale?».

Come si vede, è posto il problema politico dell'informazione nella nostra società. Si supera sotto questo profilo l'acerbo decreto del Concilio Vaticano II sui mezzi di comunicazione sociale Inter Mirifica: documento che - tra i primi approvati dal Concilio, col massimo numero di «no» (164) nella votazione finale - mostra evi-

198

Page 199: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

denti i segni nella sua precipitosità; esso tratta infatti il tema sotto il profilo della morale individuale degli operatori nel campo dell'informazione, e non scorge le dimensioni etico-politiche del problema. Probabilmente, qualche cosa di più il Concilio avrebbe potuto dire su questo tema all'indomani della discussione sulla Gaudium et Spes.

199

Page 200: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

3. La morale sociale tra pubblico e

privato

Rispetto alla tradizione cristiana oggi ci è richiesto un ampliamento di orizzonte. Non possiamo limitarci a riflettere sui nostri doveri verso il prossimo, ma anche sulle nostre responsabilità sociali e politiche.

L’avvento dei sistemi democratici ha, infatti, reso sovrano il popolo, ha cioè distribuito la reponsabilità delle scelte politiche a tutti i cittadini. La democrazia comporta un’etica diversa da quella più consueta nella tradizione cristiana e cioè un’etica delle responsabilità pubbliche di ogni cittadino e non solo delle responsabilità private e cioè relative al matrimonio, famiglia, vicinato, religione.

3.1. La responsabilità politica del cittadino e la necessità di un’”etica pubblica” per il cristiano

In cosa consista un’etica pubblica penso non sia ancora del tutto chiaro. Lo è per certi aspetti, quali il rispetto delle regole, dei beni pubblici, la tolleranza, la serietà nella gestione dei servizi pubblici. Lo è molto meno per altri aspetti, quali:

- il rapporto tra etica pubblica ed etica tout court e cioè se l’etica pubblica sia autonoma o usufruisca delle risorse etiche create dall’educazione familiare, dalla formazione religiosa, da tradizioni culturali;

- il problema dell’educazione delle giovani generazioni ed il ruolo della scuola;

- il rapporto tra etica e politica, non tanto a livello legislativo, ma del senso delle istituzioni politiche (rappresentanze parlamentari, capo del governo e dello Stato, magistratura, tutori dell’ordine pubblico) e cioè se le istituzioni debbano essere investite solo di un’istanza funzionale o anche di un’istanza etica e cioè debbano solo far funzionare bene la macchina dello Stato od anche rappresentare i valori del popolo che li ha eletti; tra questi valori non possono non figurare l’onesta verso gli elettori, l’onestà verso la cosa pubblica, i valori che danno forma all’identità del popolo.

- I limite dei diritti umani in rapporto ad istanze etiche assolute (diritto della madre sul concepito; diritto alla morte; diritto su manipolazione genetiche dell’essere umano ed in particolare del suo concepimento)

L’etica pubblica nelle nostre democrazie ha punti deboli inquietanti; noi cristiani dobbiamo chiederci quanto ci sentiamo responsabili di un’etica pubblica o quanto, invece, concepiamo anche noi l’etica come questione privata. È vero che certo laicismo sembra sbarrare la strada ad un impegno cristiano in tale senso ed in ogni caso non meritarlo; l’impegno per l’uomo deve renderci capaci di superare ogni forma di risentimento.

200

Page 201: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Il cristianesimo occidentale deve impegarsi maggiormente a formare e sostenere un’etica pubblica e non solo l’etica privata. Deve cioè acquisire le competenze per formare i cristiani e le comunità cristiane (diocesi-parrocchie) alla responsabilità politica nella vita quotidiana, nel paese in cui vivono.

L’impegno a cui si fa cenno è sul piano "etico" e non subito e senz’altro sul piano della militanza politica o sociale vera e propria. Non si tratta di abilitare tutti i cristiani ad entrare in politica o nel volontariato e nemmeno le parrocchia. Ciò che qui viene indicato come dovere morale del cristiano riguarda il comportamento individuale, gli stili e le scelte di vita.

3.2. Oltre lo schema dei comandamenti. Le indicazioni dei Magistero

A tal fine bastano i dieci comandamenti? Lo studio della tradizione teologica ci ha fatto capire i limiti di un sistema normativo nato in contesti politici non democratici. D’altra parte dobbiamo tenere presente la "rarità" e la giovinezza della democrazia nell’esperienza politica universale. I comandamenti riflettono fondamentalmente l’etica privata ed un regime politico autoritario, che prevede cioè il popolo nei panni di chi è governato e non nei panni di chi si autogoverna. Le due cose, la privatezza dell’etica e l’autoritarismo del sistema politico, sono tra loro conseguenti.

Dobbiamo allora andare oltre i dieci comandamenti? Quali altri riferimenti autorevoli possediamo?

La necessità di riferimenti normativi ulteriori è indubbia. Il grande impegno ed il permanente senso di smarrimento del cattolicesimo politico negli ultimi due secoli ne è testimonianza chiara. Altrettanto possiamo dire per l’inusuale frequenza ed impegno teologico degli interventi del Magistero in materia sociale e politica.

Oggi dal Magistero vengono alcune indicazioni sull’impegno sociale e politico dei cristiani e delle parrocchie? Certamente sì. Forse tali indicazioni sono più precise nell’ambito sociale che non in quello prettamente politico:

- Sotto il profilo sociale: - un impegno per la giustizia e la dignità umana nell’ambito del lavoro- un impegno per ridurre il divario tra nord e sud del mondo- un impegno per ridurre le forme di emarginazione sociale e di sfruttamento- Sotto il profilo politico: - un impegno nella partecipazione politica al voto- il senso della legalità in ambito fiscale ecc.- si danno alcune indicazioni al legislatore per quanto riguarda il rapporto tra

politica ed economiaSono indicazioni importanti, ma molto generali. Occorre sviluppare una

"competenza" del cristiano in ambito pubblico: - una competenza sul piano tecnico (abbiamo avuto insigni economisti,

giuristi, studiosi cattolici di vario genere);- una competenza sul piano politico (la presenza dei cattolici è molto minore

e meno significativa; forse dobbiamo ancora superare una tradizione idealistica che certo non giova alla politica; l’idealismo antagonista o radicale non basta per far politica e talvolta è sviante; veniamo da due strenue lotte: alla struttura liberale dello Stato e all’assolutismo socialista le

201

Page 202: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

quali poco hanno fatto maturare una riflessione serena sulla vita politica in democrazia);

- una competenza sul piano culturale. L’orizzonte culturale quello su cui si sta muovendo esplicitamente la Cei, come testimonia il “progetto culturale” varato nel ’94 e che vederemo in appendice al corso.

Le parrocchie e le diocesi come si collocano in questo contesto? Il Sinodo offre alcune indicazioni:

- occorre mirare ad una riqualificazione "spirituale" delle nostre parrocchie. - La vita spirituale non va però confusa con le pratiche di pietà; essa è

valore culturale e chiede di essere vissuta nella vita concreta. - Per essere centri di vita spirituale le parrocchie devono insieme essere

centri di cultura e non solo di servizi, pur anche sociali o umanitari. Devono intrecciare il vangelo con la vita della gente ed in particolare con la vita sociale nel territorio.

- Purtroppo non usufruiamo di molte esperienze, al riguardo. Le parrocchie spesso arrancano dietro alle scandenze sacramentali e non investono su una riflessione libera e aperta sulla fede. Spesso della riflessione non si sa che farsene.

- In tal modo il laicato, pur molto cresciuto in questi anni, non può maturare più di tanto e si rischia di fare una selezione ‘da sacristia’.

3.3. L’impegno politico, oggi, e la fedeltà al vangelo

Consideriamo ora l’impegno sociale e politico del cristiano alla luce di quanto visto nel vangelo.

Quanto Gesù ha fatto e detto, l’insieme dell’accadere che lo riguarda, ci ha mostrato una rilevanza politica grandissima e tuttavia mai intenzionalmente perseguita. Gesù non avverte il bisogno di impegnarsi per cambiare le strutture politiche, il modo di esercitare il potere e di concepire la giustizia e tuttavia quando l’annuncio del Regno lo porta a contatto con le distorsioni del sistema politico egli si contrappone e va fino in fondo.

Cosa significa per noi oggi tale verità cristologica? Che il cristianesimo possiede una valenza politica e tuttavia essa appartiene alla verità di cui è chiamato ad essere testimone; appartiene alla verità che non possiede prima e più che alle strutture e azioni che possiede. La valenza politica di noi cristiani non è quella che deriva dalle nostre azioni e progetti, ma dalla verità di Cristo di cui siamo testimoni.

3.1.1. Impegno politico e vita spirituale

La prima conseguenza di tale affermazione sul piano pratico è che al cristiano, anche a quello che avverte la vocazione all’impegno politico, è chiesto anzitutto di essere testimone di Cristo, radicato in Cristo. In altre parole, l’impegno politico deve radicarsi in una vita spirituale la più profonda possibile. Non è più accettabile un servizio fatto da cristiani, tecnico, il quale cioè di cristiano a solo il nome.

Ancor oggi si parla di "ispirazione" cristiana della politica. A questo termine i conferirei un significato più forte e preciso di quelle comunemente inteso. Nn si tratta

202

Page 203: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

di riferirsi a valori cristiani, ma di vivere il vangelo, come ha fatto Gesù, per portare nel mondo d’oggi la stessa carica di rinnovamento.

Politici, allora, sono solo i santi? O per lo meno, lo sono loro in maggior misura? No. Noi abbiamo bisogno di gente che abbia i doni necessari per l’impegno politico e che sia santa, o per lo meno goda di una vita spirituale almeno media. Da questo punto di vista l’equivoco di tanta parte della DC, specie degli ultimi tempi. L’autonomia dal clero ha significato disancoraggio dalla vita cristiana.

3.1.2. L’impegno politico tra privato e pubblico

Nella prospettiva cristiana, si deve mirare alla visibilità dei cristiani e delle comunità cristiane, oppure è più evangelico lavorare nell’ombra e cioè fare bene i genitori nella propria famiglia, i sacerdoti nella propria parrocchia, i lavoratori nella propria azienda e così via, senza preoccuparsi di fare qualcosa che abbia una qualche risonanza pubblica.

Si potrebbe pensare che se tutti i cristiani lavorano nell’ombra, la cosa pubblica sarà sempre in mano ad altri e poi non si possono lamentare se le cose non vanno come dicono loro. D’altra parte non è plausibile pensare che tutti i cristiani debbano avere, in qualche modo e misura, un impegno politico o almeno sociale. Senz’altro da rifiutare è l’idea che l’impegno per la famiglia e per l’educazione dei figli non abbiano valore politico e cioè non vadano a favore anche del bene comune. La stessa cosa la si deve riconoscere al sacerdote o alla catechista.

E allora? Dobbiamo pensare che l’ambito più importante è quello "privato" e che poi nell’ambito "pubblico" andrà chi ha la stoffa e, in ogni caso, non è molto importante.

Ritengo, al contrario, che l’integrazione tra l’impegno nel "privato" (matrimonio, famiglia, religione) e nel pubblico sia di primaria importanza, oggi, in un contesto democratico. Lo sia non solo per il pubblico, ma anche per il privato.

L’integrazione la dobbiamo pensare a partire dal locale, dal piccolo, dal quotidiano.

Alcune indicazioni: - l’attenzione da parte dei singoli cristiani, ma anche delle parrocchie alla

vita politica del proprio comune; non solo quanto capita il problema della discarica, dell’autostrada o della chiusura della scuola elementare.

- Quali possono essere le questioni rilevanti per un comunità cristiana, nella vita pubblica di un comune?

- L’immigrazione e l’integrazione religiosa e culturale; - Il rispetto dell’ambiente e della salute altrui nell’attività lavorativa, sia

industriale che agricola; - La mobilità del lavoro ed i conseguenti fenomeni di assenza dalla famiglia

o di frequenti cambi di residenza; - La scuola. Se debbo o no avere un indirizzo educativo e quale? Una

scuola di Stato e della società civile?- La casa per i giovani sposi; - Il tempo libero e le occasione di incontro tra la popolazione; la cultura e lo

spettacolo; - I mass-media; i giornali locali; la lettura dei giornali nelle famiglie;- Quali le questioni più radicali del nostro vivere civile:

203

Page 204: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

- Il bene e la legge: di aborto, eutanasia, matrimoni e adozioni gay, fecondazione artificiale, quanto se ne parla tra cristiani e nelle parrocchie?

- Il popolo e la politica: che tipo di politica si sta diffondendo? Va bene che sia fatta saltando la gente, preferendo al dibattito nel territorio i mass-media? Come valutare la crisi del "partito" tadizionalmente inteso? Come valutare il federalismo?

Il laicismo è un bene per la democrazia, un atteggiamento neutro, oppure un male così come le diverse forme di integralismo religioso?

204

Page 205: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

4. Le forme della presenza sociale e

dell’azione politica del cristiano e

della Chiesa

Quando si parla di impegno politico del cristiano, oggi, si è soliti portare come motivazione la necessità del suo apporto al paese.

Che il cristiano abbia tale compito e opportunità è fuori discussione, però tale modo di pensare la sua attivazione politica tradisce, ancora, un certo idealismo. Quello per il quale il cristianesimo, o il mondo cattolico, sarebbero una sorta di serbatoio di valori e di buona volontà, al di sopra delle vicissitudini della vita civile, della sua corruzione e svilimento, sempre pronto a versare il suo prezioso e perenne contenuto sulle vicende storiche congiunturali. Il cristianesimo attingerebbe a "principi" perenni, capaci di illuminare anche oggi l’azione politica.

Alcuni, pensando le cose in questo modo, teorizzavano una facile sostituzione della vecchia classe dirigente DC con nuove leve che sembravano pronte per entrare in azione dalla seconda linea costituita dal “mondo cattolico”. In realtà, com’era facilmente prevedibile, il mondo cattolico non è affatto a ridosso della prima linea e non è affatto pronto ad entrare in azione. Alle spalle dei vecchi politici c’è un vuoto di formazione di decenni il quale riflette, a sua volta, la mancanza di tradizione teologica sul problema politico in età moderna.

Un modo diverso di impostare la questione è quello che vede nella connessione tra secolarizzazione e declino della politica il punto nevralgico per la presenza politica dei cristiani.

In prima battuta la secolarizzazione appare una problema interno alle religioni, una loro crisi indotta dal "progresso" civile e quindi, per certi aspetti, una crisi auspicabile.

In realtà essa ha prodotto anche la crisi della politica, precisamente della capacità della politica e delle Istituzioni di rappresentare l’unità del popolo o della nazione. La "laicità" dello Stato ha cioè finito per divenire un dogma "laico" che ha nascosto il problema oggettivo del rapporto tra Istituzioni politiche e società. In altri termini, lo Stato laico non ha saputo edificare il profilo politico della società civile, riducendo quest'ultima allo scambio economico e le Istituzioni all'esercizio del potere, in funzione del compromesso tra gli interessi.

Sotto questo profilo, la Chiesa ha uno spazio politico, corrispondente a quello occupato dalla mediazione simbolica del consenso e dell’identità del popolo. Esso costituisce insieme la ragione profonda della crisi della politica, oggi.

La presenza e l’azione della Chiesa non può genericamente ridursi ad una battaglia per i valori cristiani ma deve procedere dalle esigenze intrinseche ed

205

Page 206: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

obiettive della vita sociale e politica, sul piano dell’identità collettiva e delle mediazioni istituzionali all’identità individuale.

Il punto cruciale oggi sembra essere la visione stessa delle Istituzioni che regolano il pubblico. Precisamente quella visione che pretende di avvalersi di una rigida distinzione tra vita pubblica e vita privata e di relegare la questione religiosa, e dunque delle credenze profonde dell’individuo, all’ambito privato.

La crisi dell’etica mostra l’insostenibilità di tale separazione e ripropone vecchie questioni che sembravano superate.

La persona si forma nella famiglia e di fronte all’accadere della vita. Al nascere, al morire, al lavoro, al tempo libero, alla scuola ecc. Tali eventi si pongono, nella vita del singolo, come una sorta di "rivelazione" della verità della sua vita, da si sente interpellato e a cui sente di dover rispondere prendendo posizione.

La comunicazione pubblica, e quindi la plasmazione dei costumi e della cultura in generale, sono il luogo in cui tali prese di posizioni dei soggetti risuonano e si confrontano in una comune ricerca della "verità" sperimentata.

Il declino della cultura inizia quanto tale comunicazione pubblica viene sottratta ai soggetti per divenire informazione di regime o strumento di condizionamento in vista dei consumi oppure semplice mezzo di evasione.

La presenza politica della Chiesa dovrebbe allora predersi innanzitutto cura della corretta articolazione tra coscienza individuale in crescita e forme oggettive del vivere sociale, quali si formano a partire dai luoghi e dai mezzi di interazione tra le persone.

Sotto questo profilo, emergono i limiti di alcuni modi con cui oggi la Chiesa si affaccia alla questione politica. Ad esempio il limite dei pronunciamenti pubblici in quanto finiscono per soggiacere ai luoghi comuni della cultura "secolare" da cui occorrerebbe emanciparsi e, in ogni caso, chiarire. Ad esempio l'appello ai "valori" comuni o ai diritti umani come cifre di comuni evidenze etiche. Cosa in gran parte non vera, come abbiamo visto.

Oppure il limite, ben più grosso e pericoloso, di soggiacere a riduzioni "civili" della fede cristiana. La Chiesa diviene tollerabile nella misura in cui si adatta al "pluralismo" moderno, rinuncia quindi a far valere "assolutamente" alcuni principi, e si rende "utile" versando la sua fede in opere umanitarie.

Il compito che la Chiesa deve assumersi è allora quello di denunciare la divaricazione tra politica e società, conseguente alla secolarizzazione della prima, e stimolare il ripensamento radicale della società politica come luogo in cui si fa presente, e può essere praticamente perseguito, il Bene dell'uomo.

A tal opera essa può e deve contribuire, come possono e debbono contribuire le "religioni" in generale.

In tal senso va recepita la centralità della "cultura" nella prospettazione dell'impegno politico della Chiesa e dei cristiani.

206

Page 207: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

4.1. Il magistero sociale dei vescovi italiani a partire dal tema "lavoro"

Ci proponiamo, ora, di prendere in esame i documenti editi dai nostri vescovi (CEI), sulla questione politica.

Seguiremo come filo conduttore il tema del "lavoro" e quindi le vicende della Pastorale del lavoro. Vedremo che attorno a tale tema avviene una progressiva maturazione della coscienza ecclesiale sull'impegno politico dei cristiani.

I fondamentali documenti editi dalla CEI nel dopo-Concilio sul problema del lavoro sono quattro: i primi due, del '73, dedicati al mondo rurale e al mondo industriale italiano; "Chiesa e lavoratori nel cambiamento", il terzo, dell'87, ed infine "Evangelizzare il sociale" del '92. Tra i primi due ed il terzo troviamo i due convegni "Evangelizzazione e promozione umana", nel '76, e "Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini", nell'85. Tra i due si inserisce quell'altro significativo documento "La Chiesa italiana e le prospettive del paese", dell'82.

Ci sono poi altri documenti minori, fioriti in questi ultimi tre anni, sia della CEI che di episcopati regionali, dedicati quasi esclusivamente all'emergenza politica 277.

Agli inizi degli anni '70 si avvertì, nella Chiesa italiana, la necessità di avviare "una nuova pastorale del mondo del lavoro" 278 la cui fondamentale caratteristica doveva essere quella di vedere come soggetto di tale pastorale la Chiesa stessa nel suo insieme. Non doveva più essere, cioè, un settore di pastorale affidato a questa o quell'altra associazione, ma una dimensione della pastorale in quanto tale 279, secondo i criteri già dettati dal Concilio; una pastorale, cioè, di dialogo e di valorizzazione, più che di conquista.

A tal fine, nel novembre del '70, venne istituita la Commissione della CEI per i problemi sociali e del lavoro, il cui scopo era quello di "studiare il rinnovamento e il potenziamento della pastorale del lavoro" 280.

Una prima bozza di programma venne presentata al consiglio di presidenza CEI nel febbraio del '71, ed il primo documento consistente arrivò tre anni dopo, nel

277. Res novae e solidarietà e La formazione all'impegno sociale e politico, entrambi usciti nell'89 dalla Commissione per i problemi sociali e del lavoro; i documenti delle Settimane sociali del '91 e del '93; molto significativo è anche Educare alla legalità della Commissione Giustizia e pace, del '91, che noi qui non possiamo considerare. Delle conferenze regionali abbiamo questi documenti: Il lavoro è per l'uomo (Conf. Piemontese, 1992); Messaggio sulla situazione del paese (Conf. toscana, 1993);Per un'educazione cristiana alla politica, (Triveneta, 1993); Messaggio sui gravi problemi della Sardegna (Conf. Sarda, 1993); Diocesi di Prato: Per amore di Sion non tacerò (1993). Documenti che riprendono, a vario titolo, il Magistero CEI e quello Pontificio; solo due di essi hanno una certa consistenza, quello piemontese e triveneto.278. Ci riferiamo, per la sommaria ricostruzione delle vicende della Pastorale del lavoro in Italia ad una ricerca, fatta come tesi di licenza presso l'Istituto STAB di Bologna, dal titolo La pastorale del lavoro nei documenti della CEI, Ench. 1°-2°-3° vol. p. 38.279. "La Chiesa, tutta la Chiesa, tutti i suoi componenti sono impegnati per una pastorale del mondo del lavoro. Il significato è ovvio perchè da un lato questa pastorale tende sempre più a non essere un "settore" ma "la pastorale" di un mondo industrializzato; d'altro lato se pastorale è evangelizzare, santificare e guidare alla salvezza l'uomo storico come oggi si presenta, in tale azione nessuno può dirsi o essere assente", CMI, § 892. 280. Comunicato CEI, 14.11.1970; Ench. vol.1, 3511

207

Page 208: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

novembre '73. A dire il vero si tratta di due documenti, usciti nello stesso giorno, e dedicati l'uno al "mondo rurale" e l'altro al "mondo industriale" 281.

4.1.2. Mondo rurale e mondo industriale

Ciò che immediatamente si nota in questi primi documenti è quella che potremmo chiamare una vera e propria ansia conoscitiva. Per evangelizzare e per operare pastoralmente la Chiesa deve avere "una adeguata conoscenza della società" 282 ed in ciò è in grave e colpevole ritardo. Il fatto che fenomeni vistosi come quello della crisi del mondo rurale si siano prodotti senza "un previsione chiara del corso di questa evoluzione" 283 non può non suscitare, infatti, un senso di colpa nella Chiesa.

L'attenzione, fatta di "stima" e "simpatia", va soprattutto al mondo industriale (anche se il volume dei due documenti si equivale) e ai problemi di disoccupazione crescente, e di disparità nei redditi, che lo caratterizzano.

Nei confronti del "mondo operaio", occorre dire, il documento tradisce una certa soggezione.

Per il mondo rurale si sente, è vero, la responsabilità dell'abbandono nel momento di maggior difficoltà, ma il mondo del futuro appare quello industriale, o mondo del lavoro, del quale la Chiesa avverte la forza propulsiva, e il ruolo storico. Si arriva a parlare di vera e propria "conversione della comunità parrocchiale alla vita, alla cultura, alla mentalità e ai valori del mondo operaio" 284.

Il mondo rurale è sostanzialmente realtà del passato, anche se ricca di valori importantissimi, e bisogna farlo evolvere sul piano culturale se si vuol evitare il suo disfacimento all'inevitabile impatto con la secolarizzazione 285, quello operaio è, invece, la novità con cui si deve fare i conti per poter guardare al futuro e di cui non si può, perciò, tollerare il distacco.

Occorre, allora, maturare uno nuovo stile di evangelizzazione partendo dalla convinzione che "Cristo è già presente tra i lavoratori" e con Lui è presente anche la Chiesa. Si sdrammatizza, in tal modo, lo stesso distacco da questo "mondo" e agli operai si può far scoprire una Chiesa che è già "in mezzo a loro" 286.

Ma tutto ciò è possibile solo se i cristiani divengono consapevoli delle esigenze di concretezza e di giustizia che animano la cultura operaia. Si sa che essa "crede meno alle parole e più ad una testimonianza", e che spesso ritiene la Chiesa e i preti "alleati con chi detiene il potere" o che in ogni caso impediscano di "lottare efficacemente" contro un sistema ingiusto 287.

281. "La chiesa e il mondo rurale italiano" (CMR); "La Chiesa e il mondo industriale italiano" (CMI), Ench. vol. II282. CMI, n. 1283. CMR, n.27284. CMI, n. 23285. Si raccomanda il rafforzamento delle "motivazioni razionali" della fede ed insieme "l'introduzione dei rurali alla lettura della Bibbia", CMR n. 32286. CMI, n. 1287. CMI n. 15

208

Page 209: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Dal punto di vista pastorale si indicano tre vie di azione: l'ascolto dei lavoratori, delle loro tensioni e problematiche; la comunione con loro in uno spirito di fratellanza; il servizio dell'annuncio di Cristo, fatto però secondo la "legge dell'incarnazione". Vi si aggiunge anche una proposta di metodo proposto: la "revisione di vita", e cioè la pratica del "confronto tra situazioni di vita e messaggio evangelico", chiamato "revisione di vita" (§ 890).

E' evidente, in questi primi documenti, il debito ad una visione ancora operaistica del mondo del lavoro che tende ad esaltarne i valori a scapito di una visione critica, ed insieme più ampia, che maturerà progressivamente nella Chiesa. Si enfatizza talmente la novità del mondo operaio, ad esempio, da dimenticare che, fino a poco prima, gran parte degli operai appartenevano a quel mondo rurale con il quale la Chiesa si sentiva tanto in confidenza ed in sintonia.

Si nota anche una divaricazione ingiustificata tra mondo operaio e il resto della società, o, come dice il testo, quelle "correnti culturali" o quella "mentalità industriale" tipiche della società attuale. Il primo appare portatore di "valori" mentre la seconda è l'insidia da cui guardarsi288.

In fondo lo schema di lettura dei due mondi, rurale e industriale, è lo stesso. Lì la società industriale sradica il mondo contadino, qui insidia il mondo operaio. Il fattore umano o antropologico - lavoro e valori - è pensato al di fuori della società e tendenzialmente in conflitto con essa 289.

Ad una maggior articolazione dei due termini non giova il ricorso quasi esclusivo ad una sociologia preoccupata quasi esclusivamente del mercato del lavoro. Il limite teorico lo si nota maggiormente nella considerazione del mondo rurale, dove l'attenzione ai fattori culturali occupa una parte esigua del documento e non è più ripresa, poi, nelle linee di azione pastorale proposte nella parte finale.

4.1.3. "Chiesa e lavoratori nel cambiamento"

Dopo questi primi due documenti passeranno ben quattordici anni prima di ritrovare un altro documento CEI sul problema del lavoro (1987, "Chiesa e lavoratori nel cambiamento" 290).

Non è difficile spiegarsi il perché di tale vuoto. La Chiesa Italiana vive tra il '76 e l'85 due grandi momenti, sulla spinta del Concilio - il convegno "Evangelizzazione e promozione umana" e il convegno di Loreto "Riconciliazione cristiana e Comunità degli uomini" - nei quali la pastorale del lavoro si ritrova fortemente coinvolta.

Dobbiamo soffermarci brevemente su di essi, prima di prendere in considerazione il documento suddetto.

Il problema che il convegno "Evangelizzazione e promozione umana" affronta è duplice: da una parte la tentazione di chiudersi in una "scelta religiosa" che, pur propria della Chiesa e delle sue associazioni, possa indurre ad una fede disincarnata dalle sfide del paese (siamo negli anni del temuto sorpasso del PCI e della "scelta

288. Ibid, n. 13-14289. La tradizionale Dottrina sociale pensava la società come istituzione naturale, la cui ultima origine è Dio, e come tale pensata a monte rispetto ai fenomeni sociali che ci si trova a fronteggiare, come, ad esempio, il lavoro e i conflitti ad esso connessi.290. Citato d'ora in poi con la sigla CLC.

209

Page 210: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

religiosa dell'AC); dall'altra la possibilità l'impegno sociale della Chiesa si riduca ad una promozione dell'uomo senza Dio291 o ad uno sterile sociologismo"292.

Il nodo da sciogliere è, perciò, l'articolazione tra evangelizzazione e promozione umana.

Il Convegno dirà che la promozione umana va vista come parte integrante della evangelizzazione. Non si può predicare il Vangelo disinteressandosi dei problemi sociali, e, reciprocamente, l'azione sociale del cristiano deve ritrovare come suo "punto qualificante" "l'evangelizzazione, che conduce al sacramento".

Nell'82, il Consiglio permanente della CEI emanava il documento "La Chiesa italiana e le prospettive del paese"; in esso si può vedere un momento di passaggio tra i due convegni.

Compaiono notevoli novità di approccio alla questione sociale che è utile approfondire.

Innanzitutto sfuma la figura del "mondo operaio" come referente primo dell'azione sociale della Chiesa ed in primo piano viene la società nel suo complesso o, come amano esprimersi i vescovi, "il Paese". Non è più il problema del distacco tra "mondo operaio" e "Chiesa", che preoccupa maggiormente, ma la "crisi dell'Italia", il bisogno di "ritrovare il senso autentico dello Stato" e della partecipazione democratica, la necessità di una "legislazione efficace" e di risposte concrete alla richiesta di lavoro del Paese.

E' un'ottica ormai lontana dall'operaismo degli anni '70. Lì si trattava di conquistare un dialogo tra due mondi presenti dentro la stessa società e partecipare alle battaglie per la giustizia operaia, qui di prender coscienza che è la società nel suo complesso a vacillare, per cui il servizio della Chiesa alla società deve assumere un carattere di globalità, o politico. Dall'87 ad oggi, i documenti sociali della Chiesa avranno sempre più una prevalente ottica politica.

Ricollocare il tema della giustizia, ad esempio, in quest'ottica più complessiva, significa che gli "ultimi" non sono più solo, o non più tanto, gli operai ma altre categorie di persone soggette a nuove povertà; significa passare da un'azione umanitaria a favore di una parte sociale lesa nei suoi diritti, ad una prettamente politica che non esclude l'altra ma la colloca in una visione più ampia.

291. Nel documento preparatorio al convegno leggiamo: "Questo periodo post-conciliare è stato caratterizzato da gravi tensioni all'interno della Chiesa, in parte, almeno, correlate al problema della promozione e liberazione dell'uomo. La riflessione post-conciliare più che sviluppare il mistero della Chiesa, la sua natura, la sua missione, al fine di derivare di qui criteri di rinnovamento per rendere più articolato e dinamico il suo servizio nel mondo fra gli uomini, si è piuttosto spostata ai problemi dell'uomo, alle condizioni storiche della società, al processo di trasformazione che nel breve giro di anni ha segnato un cambiamento profondo nella mentalità e nel costume, tanto da far sembrare quasi remoti nel tempo gli anni di prima del concilio. La coscienza della responsabilità storica e dell'impegno ad operare per la promozione e liberazione dell'uomo dai molteplici suoi condizionamenti, si è andata intensificando, fra i cristiani nella Chiesa, suscitando prese di posizione, e provocando scelte operative, anche molto decise e radicali. La stessa riflessione teologica ha cominciato ad affrontare, in termini nuovi, questi problemi; privilegiando, si direbbe, la storia, il progresso, la politica intesa come sintesi dell'agire umano e prassi operativa, come nuovo luogo teologico. " (E.CEI 2,2019) "Sotto il profilo religioso i cambiamenti non sono di minor rilievo. Assistiamo, innanzitutto, ad una presa di coscienza sempre più universale di valori umani, che hanno nel cristianesimo la piena rivelazione e il loro perfezionamento. L'aspirazione alla libertà, alla giustizia, alla pace e alla uguaglianza; l'affermazione dei diritti di ogni uomo sono alcuni dei grandi valori che il mondo di oggi sta riscoprendo e promuovendo, anche se attraverso innumerevoli arresti ed involutive contraddizioni. Ma questi valori, che solo nell'annunzio del mistero di Cristo morto e risorto trovano la più solida base e il più autentico compimento, vengono spesso affermati all'insegna di una visione dell'uomo, della storia e della realtà, chiusa nei confronti di Dio; la ricerca e l'impegno per la loro realizzazione rimane allora contrassegnata da una profonda ambiguità. " (E.CEI, 2, 2021)292. Documento conclusivo, E.CEI, 2, 2665

210

Page 211: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La sfida all'opera evangelizzatrice non è più, allora, quella rappresentata da un mondo culturale fortemente unitario e ricco di valori ma lontano dalla Chiesa, schema classico della tradizione missionaria, ma si presenta in modo molto più complesso. Si tratta di sostenere una società che, oltre ad essere sempre più lontana dalla Chiesa vacilla nelle sue strutture.

Cosa deve, allora, fare la Chiesa?Deve rispondere a tutto ciò con un'azione di tipo "spirituale", che sia cioè

radicata e scaturente dalla "vita di grazia e di comunione con Dio, nella fede, nella speranza, nella carità, in una incessante preghiera personale e comunitaria" (n. 13).

Dire che la natura dell'agire sociale della Chiesa dev'essere "spirituale" significa affermare che essa sarà tanto più efficace, quanto più saprà vivere la sua identità misterica, non surrogabile sociologicamente, la quale si realizza là dove le comunità cristiane sanno "trasformarsi in permanenti scuole di fede, in cui la parola di Dio corre e si diffonde nella famiglia, nel Paese, nel quartiere, tra i gruppi, là dove la gente parla e decide, nel cuore degli avvenimenti quotidiani" (n. 19).

La Chiesa deve, cioè, essere se stessa e a questa condizione può servire efficacemente il Paese.

Impegnarsi per la promozione dell'uomo, infatti, oggi significa offrire ad un paese diviso e disorientato una "casa di comunione" là dove "il dramma rischia di consumarsi e dove tuttavia la parola di Cristo mette più facilmente radici" (n. 18) e dei punti di riferimento etico-culturali su cui rifondare il vivere sociale.

Loreto riprenderà questa fondamentale indicazione, affermando che l'azione sociale della Chiesa deve scaturire dalla fede, e in tal modo cogliere la sfida che viene al cristianesimo dalla società attuale, quella cioè di essere una fede capace di "produrre cultura" 293.

Vi aggiunge anche una importante precisazione pratica. Non ci si può aspettare una efficacia miracolosa dell'annuncio cristiano, esso richiede delle condizioni culturali ben precise, e cioè "un'area di consenso intorno alle fondamentali evidenze etiche" (n. 36), senza la quale ogni azione sociale viene vanificata. Del resto, in una società così divisa e frammentata come quella italiana, tale esigenza di unità e consenso appare drammatica.

Per dire queste cose il Convegno usa i termini "discernimento" e "riconciliazione". Il primo dice la capacità della fede cristiana di incarnarsi nella cultura e farsi intelligenza critica; il secondo dice il modo proprio del cristiano di creare unità tra gli uomini e quindi di contribuire anche al consenso attorno alle evidenze etiche.

Veniamo, ora, dopo la parentesi dedicata ai due convegni, al nostro documento.

Si apre, come ormai è consuetudine, con l'analisi della situazione e ritroviamo in essa quegli elementi di novità già emersi, in gran parte, in "La Chiesa italiana e le prospettive del paese".

L'elemento centrale del "cambiamento" è la scomparsa della grande fabbrica, avvenuta a partire dagli anni '80, a seguito della crescita progressiva del terziario e della riduzione e frammentazione della mano d'opera dovuta all'ingresso delle nuove

293. "Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini", 16

211

Page 212: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

tecnologie. Con essa la classe operaia ha perduto quella "omogeneità" che l'aveva resa "la più grande e significativa esperienza di solidarietà sociale" nell'epoca moderna, "sconvolta dall'industrialismo" 294. A questa, tuttavia, ancora ci si appella, convinti che "il movimento dei lavoratori debba esprimere anche nell'attuale fase storica una forte identità etico-sociale".

Scompare, quindi, il "mondo operaio" come referente forte del linguaggio della Chiesa e ad esso si preferiscono espressioni come "uomo del lavoro", "lavoratori", "movimento di lavoratori" e si avverte, addirittura, il bisogno di affermare che il lavoro, pur senza rivestire il carattere dominante di un tempo, "rimarrà sempre un momento essenziale della vita umana e sociale" 295. "Non è più l'operaio, ma l'uomo moderno", comunque, a far problema; nel conflitto tra valori di solidarietà operaia e secolarismo della società sembra aver avuto la meglio quest'ultimo.

E' evidente il passaggio da una visione quasi messianica del mondo del lavoro ad una molto più critica e tale mutamento del giudizio avviene in concomitanza con la perdita di centralità della grande fabbrica.

Il testo forse più esplicito, a riguardo di tale mutamento di giudizio sulla realtà operaia, lo troviamo in "Evangelizzare il sociale", ultimo nato della CEI per la Pastorale sociale e del lavoro, al n. 45: "Si è insistito, forse troppo unilateralmente, nel sottolineare gli aspetti positivi dei mutamenti strutturali del lavoro nella società contemporanea. Non dobbiamo tuttavia trascurarne i risvolti negativi o, comunque, oscuri e inquietanti".

Sotto il profilo dell'analisi dei fatti sociali, tale cambiamento impone di acquisire parametri più complessi, capaci di "tenere sotto occhio il fatto sociale stesso, nella sua globalità", nella sua dimensione nazionale, europea e mondiale.

In tale direzione insiste il breve documento dell'89 "Res novae", scritto in preparazione del centenario della Rerum Novarum, dove si colloca il tema "lavoro" dopo quello della "mondializzazione" dei problemi sociali e dell'"Europa", e la nota pastorale su "La formazione all'impegno sociale e politico" dove si ribadisce il "cambiamento" come "chiave di lettura dell'intera realtà" (n. 4) e si osserva, come conseguenza fondamentale, il riproporsi in termini molto forti della domanda di politica.

Dal punto di vista pastorale, il ridimensionamento del mondo operaio impone alla Chiesa di ripensare la sua azione sociale, come abbiamo visto, ed in particolare il documento si sofferma sulla categoria della solidarietà. Se, nella prospettiva operaistica, questa figurava essere valore tipico del mondo operaio, ora si tratta di assumerla come categoria politica fondamentale capace di dare una risposta ai problemi indotti dalla complessità sociale 296.

Particolarmente preciso in proposito è il documento "Società, solidarietà e formazione professionale" 297. Fino a poco tempo fa, vi si dice, il lavoro era un diritto istituzionalmente riconosciuto e procurava automaticamente la cittadinanza sociale al lavoratore, oggi, in una società complessa, non è più diritto pacifico ma occorre conquistarselo con la propria iniziativa e capacità.

294. CLC, 8295. CLC, 15296. Il riferimento va alla Sollicitudo, in particolare.297. Del 1991, EDB serie "Documenti Chiese locali", n° 13, nn. 3-5

212

Page 213: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Tale mutamento, osserva il documento, non va inteso come fattore negativo, in quanto accresce "la consapevolezza delle scelte di vita e la ricerca di senso" e con queste "lo spazio per un esercizio della solidarietà" 298. Nell'epoca operaia la solidarietà cresceva dentro le mura della grande fabbrica, oggi deve essere prodotta da quello stesso dinamismo che dà vita alla complessità sociale. Da qui il nesso complessità-solidarietà.

Per quanto riguarda le linee di azione per la Pastorale sociale, viene ripreso l'indirizzo già delineato a Loreto, articolandolo e precisandolo ulteriormente.

"Più che un 'fare', un organizzare delle attività specifiche o particolari" l'azione sociale "deve consistere nell'esprimersi dell'essere della chiesa" e per far ciò occorre "maturare una precisa e solida coscienza dell'identità della Chiesa" (n. 17) in modo tale che si maturi quella "sintesi vitale" tra fede e vita che sembra oggi mancare.

Vengono, allora, chiamati in causa i laici: se "le comunità cristiane sono estranee alle vicende del loro territorio e della loro storia" è perché "i cristiani non sono abbastanza 'laici' nella comunità o non sono sufficientemente responsabili in essa" 299.

In seconda battuta occorre riferirsi ai "principi etici" 300 o "valori antropologici" 301

proposti con coerenza dalla Dottrina sociale della Chiesa 302, la testimonianza dei quali ha lo scopo primo di "ritessere il tessuto sociale", di ridare fondamento al "fatto sociale stesso nella sua globalità" (n. 26), di promuovere una "cultura del sociale" che stenta ad emergere "nonostante decenni di vita democratica", anche nei cristiani. Molti di loro, infatti, vedono la società solo come "ambito su cui applicare le norme che nascono dall'appartenenza religiosa" ma sono incapaci di cogliere "il senso evangelico e antropologico del vivere sociale" (n. 27).

Questi obiettivi esigono un'azione culturale, ma anche una partecipazione alle istituzioni e ai mezzi di comunicazione pubblica.

La Chiesa, quindi, opera socialmente grazie alle risorse che gli provengono dalla sua identità misterica, ad un sufficiente chiarezza e completezza dei principi dottrinali, e l'obiettivo principale del suo impegno è il rinnovamento della società. E' questo il principio fondamentale che è andato consolidandosi dal convegno "Evangelizzazione e promozione umana" ad oggi.

4.1.3.1. "Evangelizzare il sociale"

Lo ritroviamo, infatti, nell'ampio documento della CEI dedicato alla pastorale sociale e del lavoro, "Evangelizzare il sociale"303.

298. Ibid, n. 6299. CLC, 22300. CLC, 21301. EvS, 15302. La Dottrina sociale della Chiesa è detta "contenuto" e "strumento di evangelizzazione" Ibid, 23303. Citato con la sigla EvS.

213

Page 214: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

La Chiesa è chiamata, oggi, ad entrare in una "nuova tappa storica del suo dinamismo missionario" 304, deve cioè riannunciare l'amore di Dio "ponendo in rapporto col Vangelo di Gesù la vita e l'attività umana nel lavoro, nell'economia e della politica".

In tale prospettiva la Chiesa deve misurarsi con alcune tendenze negative della società moderna: quella di "neutralizzare nell'ambito sociale le esigenze della religione, della verità e dell'etica, considerate irrilevanti anche per la stessa vita personale" e quella che conduce al "distacco dai valori che danno significato all'esistenza e slancio e volontà per costruire il futuro" 305. Sono queste che rendono "urgente" l'opera di evangelizzazione del sociale perché hanno creato una società "povera di fini" e perciò disorientata e bisognosa di "nuovi assetti" (n. 45) .

Per compiere quest'opera occorre, però, superare il distacco che tra Vangelo e cultura, la progressiva secolarizzazione della stessa speranza umana e dei gesti di amore verso l'uomo, ridotto sempre più alla solo dimensione orizzontale.

Sul tema "lavoro", il documento riprende i principali insegnamenti delle ultime due encicliche, dedicate a questo tema, e indica innanzitutto la necessità di far uscire il mondo del lavoro dalla "logica economicistica" riconducendolo dentro una visione integrale dell'uomo e dentro il complesso della vita della persona e delle relazioni sociali.

Ricorda poi la trasformazione avvenuta dell'idea stessa di "lavoratore". Il concetto tradizionale di "operaio" perde significato, dal momento che il lavoratore sempre più sarà uomo capace di offrire sapere e informazioni più che le proprie braccia.

In terzo luogo, invita a reagire alla marginalizzazione del lavoro, nella convinzione che esso sarà sempre "parametro fondamentale" del "grado di civiltà di una società" ed in tale prospettiva è doveroso pensare al "rilancio" di un "grande movimento associato dei lavoratori" sul quale una parte decisiva hanno i sindacati.

4.1.3.2. Il progetto culturale

Abbiamo visto come il pensiero sulla società e sui rapporti della Chiesa con essa sia sia evoluto dall'iniziale operaismo alla sempre più precisa consapevolezza di dover allargare lo sguardo al paese nella sua interessa. Il tema che più assume rilevanza, nel più vasto orizzonte, è quello di cultura.

Vediamo come tale centralità è recepita e proposta nella elaborazione del “Progetto culturale”.

L’idea di un “Progetto culturale” la troviamo per la prima volta espressa dal card. Ruini nella Prolusione al Consiglio Permanente CEI, nel settembre 1994.

Le ragioni di un impegno sistematico sul campo della cultura derivano dalla crucialità di quest’ultima sul piano civile e sul piano dell’evangelizzazione.

Di cultura Ruini privilegia un’accezione vasta, antropologica; vale a dire l’insieme delle convinzioni profonde e dei modelli di comportamento di un popolo.

Il progetto dovrà essere orientato cristianamente; trovare cioè la sua unità di fondo in Cristo e dunque in un’antropologia ed in un’etica cristiana, senza con ciò

304. EvS, 5305. EvS, 8

214

Page 215: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

misconoscere l’autonomia delle realtà terrene ed il possibile dialogo con i mondo laico.

L’idea viene riproposta in occasione del Convegno di Palermo. Nella traccia di preparazione Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia (?1995), viene riproposta la necessità di inculturare la fede, perché l’annuncio sia efficace. Il Progetto culturale dovrebbe indirizzare i cristiani nella cultura attuale, aiutandoli a discernere ciò che è positivo da ciò che non lo è. Esso poi potrà svolgersi attraverso alcune vie preferenziali: la cultura e la comunicazione sociale, l’impegno sociale e politico, l’amore preferenziale per i poveri, la famiglia, i giovani.

Nel gennaio 1995, durante la Prolusione al Consiglio Permanente, l’idea viene ripresa riconoscendo che occorre dargli maggior definizione pratica. In secondo luogo la si pone al riparo dal sospetto circa la sua praticabilità, derivante dal fatto che la Chiesa si trova oggi in una situazione culturale di pluralismo. Il Progetto culturale dovrà offrire un aiuto al necessario discernimento del cristiano, accettando fino in fondo il pluralismo ma senza assolutizzarlo.

Arriviamo così al maggio 1995. La XL Assemblea generale CEI è appunto dedicata al Progetto culturale.

Nella prolusione, Ruini ribadisce la necessità di una inculturazione della fede e di una corrispettiva evangelizzazione della cultura. Ciò che sembra mancare alla Chiesa oggi è una incisività sul piano della cultura. A tal fine viene suggerita l’idea di un Progetto culturale.

La sintesi dei lavori dell’assemblea fu proposta dal card. Martini. I vescovi espressero più di un interrogativo a riguardo dell’idea di un Progetto culturale. Da una parte si interrogavano sul suo significato nell’attuale momento storico: vuole colmare il vuoto lasciato dalla DC? È veramente qualcosa di nuovo o mira a ripristinare qualcosa di vecchio?

In secondo luogo, tra i vescovi non emerse un’idea abbastanza condivisa e chiara di cosa si debba intendere per "cultura". In particolare se la si debba intendere in senso antropologico generale o in un senso più specifico, come sapere riflesso, elaborato, colto.

Fu suggerito, a fronte di tali interrogativi e perplessità, di preferire l’espressione “progetto pastorale a valenza culturale” o addirittura di abbandonare il termine "progetto" e sostituirlo con quello meno impegnativo di "prospettiva".

L’orientamento dei vescovi andava dunque nel senso di ridimensionare il profilo "civile" del progetto, a favore di quello ecclesiale o pastorale; privilegiava inoltre la cultura "bassa" rispetto a quella "alta" o specialistica, senza però escludere proposte tese al dialogo con la cultura laica. L’idea del Progetto culturale è vista in funzione di dare alla pastorale ordinaria maggiore capacità di incidere sui costumi di vita della gente e sulle coscienze.

Soggetto del Progetto culturale doveva dunque divenire l’intero popolo di Dio in tutte le sue componenti; gli strumenti mediante cui attuarlo erano ravvisati nella pastorale ordinaria della Chiesa: la catechesi, la formazione, con particolare attenzione al mondo della comunicazione sociale.

Nell’intervento conclusivo al convegno di Palermo, Ruini ribadisce la complementarietà tra i due profili della cultura (alta e bassa) e tra l’aspirazione ad un’efficacia culturale e la scelta preferenziale dei poveri. Il Progetto culturale non è alternativa ad una Chiesa povera.

Sottolinea poi la dimensione cristiana della Croce e dunque la centralità di Cristo e della dimensione spirituale della vita cristiana. Ciò non contrasta con la

215

Page 216: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

prospettiva indicata nel Progetto culturale; la fede, infatti, esige un’assunzione libera e dunque anche pienamente e criticamente consapevole del Mistero a cui ci si affida. L’impegno per la cultura va inteso a procedere da tale esigenza della fede.

Nell’Assemblea CEI successiva (maggio 1996) Ruini riprende l’esperienza del Convegno, tematizzando ancora l’idea del Progetto culturale. Fa osservare l’interesse suscitato da tale idea durante il convegno e l’insistenza con cui è stato additato il problema dei mezzi di comunicazione sociale, anche dentro la Chiesa.

Precisa che il Progetto culturale vuol rispondere alla necessità di un maggiore impegno sul piano della inculturazione ed evangelizzazione, nel nostro tempo; non costituisce certo una prospettiva nuova nella Chiesa ma testimonia un’urgenza dei nostri giorni.

Si sottolinea lo stretto legame tra vitalità culturale della fede e la sua profondità spirituale; dunque la radicazione di tale progetto nella pastorale ordinaria, senza escludere gli 'specialisti' della cultura.

Il tema è ancora ripreso nell’Assemblea straordinaria della CEI, nel novembre 1996. Nella prolusione, Ruini dibadisce la ragione fondamentale del Progetto culturale e lo giustifica a procedere dalla necessità di organizzare meglio il processo di evangelizzazione ed inculturazione della fede, avviato già con il Concilio.

Ribadisce l’idea che tale progetto dovrà attuarsi nella pastorale ordinaria; le parrocchie saranno perciò il primo luogo di cultura cristiana. Attenzione dovrà ricevere la formazione, ad iniziare dai Seminari. Saranno poi gli ambienti della vita quotidiana i luoghi di attuazione ed infine il dialogo ed il confronto con gli ambienti sociali dove si genera cultura. Si fa esplicita menzione dei teologi.

Nella sintesi dei lavori vengono precisate molte cose e ci si avvia verso una prima enunciazione completa dell’idea del Progetto culturale, contenuta nella “prima proposta di lavoro” uscita nel ?1997.

Vediamo allora di puntualizzare i diversi aspetti dell’idea e della sua evoluzione fino all’attuale proposta di lavoro.

L’istanza di fondo: rimediare alla distanza che separa la fede dalla vita della gente, la quale

sembra incrementarsi col passare del tempo e portare con sé non solo la scristianizzazione della società ma anche l’indebolimento della fede. L’istanza è espressa mediante le due espressioni complementari: inculturazione della fede ed evangelizzazione della cultura.

Le ragioni dell’idea. La proposta di Ruini non convinse subito i vescovi. Possiamo così riassumere dubbi e tensioni emerse inizialmente tra i vescovi e

poi nei vari ambiti ecclesiali fino a trovare espressione esplicita nel Convegno di Palermo.

dubbi sulla pertinenza di una una progetto, dal momento che l’attenzione alla cultura è sempre appartenuta all’azione pastorale della Chiesa;

interrogativi su eventuali intenti politici dell’idea;paura che conduca ad una intellettualizzazione della fede, in modo tale che si

ricorra la sua efficacia sociale dimenticandone il fondamento cristologico.

216

Page 217: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Paura che l’inculturazione della fede e l’evangelizzazione della cultua si risolvano in un impegno per specialisti, per teorici, mentre deve radicarsi nella vitalità spirtuale della fede.

Paura che la dimensione culturale soppianti la dimensione caritativa, solidaristica e più generalmente pratica della testimonianza cristiana.

L’idea iniziale subì di conseguenza della modificazioni. Per prima cosa fu ridimensionata l’iniziale ambizione sociale del progetto, in

modo tale che il problema della cultura venne posto come dimensione della ordinaria azione pastorale della Chiesa.

Si precisò la relatività del progetto sul piano storico. Esso non intende avviare alcunchè di nuovo; vorrebbe dare nuovo impulso e maggiore coordinazione ad un processo iniziato già con il Concilio ma che non sembra trovare vie idonee di attuazione. Non appaiono regrediti fenomeni quali la scristianizzazione della società, la distanza tra mondo cattolico e mondo laico, il ripiegamento su se stessa della vita ecclesiale.

Trovò precisazione anche l’aspetto politico dell’idea. Non si vuole rincorrere forme nuove di potere bensì assicurare al paese l’apporto del cristiani.

La sua evoluzione Già abbiamo detto del ridimensionamento delle ambizioni sociali del progetto.

Altri aspetti dell’idea conoscono un’evoluzione. Anzitutto mi sembra che le tensioni si ripropongono ad ogni tappa, dando

l’impressione che rimanga oscura la questione di fondo: cosa si intende per cultura e qual è il suo legame con la fede in Cristo e con la vita cristiana e l’evangelizzazione.

Si opta per un’accezione antropologica di cultura ma il chiarimento dell’effettiva dinamica culturale della vita sociale rimane ostaggio della disputa, sterile, tra cultura 'alta' e 'bassa'.

In secondo luogo, cammin facendo, assistiamo ad un rigonfiamento dell’idea del Progetto culturale il quale, alla fine comprende tutti gli ambiti ed i soggetti della pastorale; non se ne comprende dunque la specificità.

La promozione della cultura è processo che si attua spontaneamente in forza della vitalità spirituale della vita cristiana; il Progetto culturale avrebbe il compito di incentivare tale vita cristiana con iniziative opportune. È difficile specificarle dal momento che abbracciamo l’intero arco della vita pastorale e sociale.

In terzo luogo, prende progressivamente vigore la necessità di riferirsi ad un impianto dottrinale preciso, che sia completo, unificato in se stesso, sistematico. Da tale punto di vista si cerca l’apporto delle discipline teoriche, precisamente dell’antropologia teologica.

Non appare molto chiaro il rapporto tra le indicazioni pratiche date e questa preoccupazione dottrinale. Se si tratta di promuovere una vita cristiana nella sua concretezza non si capisce come possano avere immediata rilevanza schemi teorici ben precisi e sistematici come quelli enunciati. La potrebbero avere se per Progetto culturale si intendesse la promozione di un’azione formativa. La loro precisa enunciazione sembra rispondere al timore di una diversificazione incontrollata delle iniziative pratiche.

Più a fondo appare la difficoltà ad articolare il momento pratico o immediato e quello riflesso o teorico. Quest’ultimo è appiattito sul riferimento dottrinale.

217

Page 218: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

L'attenzione alla "cultura" deve realizzarsi come attenzione ai fatti di civiltà, nella persuasione che essi siano rilevanti in ordine alla predicazione e alla cura della fede. Deve dunque esserci un'attenzione al "civile"; tale attenzione c'è stata nella Chiesa post-conciliare. Appare però soggetta ad alcune ingenuità. La prima corrisponde ad un positivismo sociologico al quale si correla l’idea di un "discernimento" che è ancora tutto da precisare e che, in ogni caso, esige una lettura non positivistica dei fatti stessi. La seconda alimenta la convinzione che l'iniziativa della Chiesa in relazione a tali fatti potesse realizzarsi nelle forme immediate della presenza al disagio sociale.

Da tali ingenuità sono derivate due ambiguità dell'azione pastorale: da una parte uno sforzo di intelligenza dei fatti di cultura poco avvertito delle esigenze evangeliche (dunque poco pastorale perchè poco "teo"logico), appunto perchè appaltato a "scienze" che sistematicamente prescindevano dal punto di vista cristiano; dall'altra un impegno sociale preoccupato più dei mali sociali che della fede, motivato 'escatologicamente' ma proprio per questo poco "sapiente" (anch'esso dunque poco pastorale perchè poco "teo"logico) . Ci si richiama al Vangelo per motivare l'impegno sociale ma poi si prescinde da esso per leggere la società ed interpretarne i mali e soprattutto prefigurarne il futuro.

Fatta salva la crucialità della cultura rimane dunque come compito fondamentale l'acquisizione di una abilità interpretativa, di una capacità di discernimento, di una "sapienza" le quali possono costituire le risorse per un «progetto culturale» della Chiesa.

Punto centrale e ineludibile di tale progetto sarà l'interrogativo attorno alla questione religiosa; questione la cui rimozione sta alla base della modernità ed insieme sta forse all'origine di molti degli squilibri o delle patologie della società moderna.

218

Page 219: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

Bibliografia

AA.VV., Aspetti della cultura cattolica nell'età di Leone XIII, Roma, 1961 ARE G., I cattolici e la questione sociale in Italia (1894-1904), Milano, 1963BAIONE R., Il discorso sociale della Chiesa. Da Leone XIII a Giovanni Paolo II,

Brescia, 1988 BIGO P., La doctrine sociale de l'Eglise. Recherche et dialogue, PUF, Paris 1966 CALVEZ J.Y/PERRIN J., Chiesa e società economica, Centro Studi Sociali, Milano

1964 CHENU M.D., La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971),

Brescia, 1977DELLA TORRE, I cattolici e la vita pubblica italiana, Roma, 1962 J.M.AUBERT, La lettura del Magistero pontificio in materia sociale, in DIEZ-

ALEGRIA J., Magistero e morale, EDB, Bologna 1971 211-255 FALCONI C., Storia delle encicliche, Mondadori, Milano 1965 FOLLIET J.,Catholicisme sociale in, in Catholicisme vol. II,FONTI F., I cattolici e la società italiana dopo l'Unità, Roma, 1960GIORDANI I., Le Encicliche sociali dei Papi, Studium, Roma 1956HOEFFNER J., La dottrina sociale della Chiesa, Roma, 1979JARLOT G., Doctrine pontificale et histoire II, Roma, 1964 1973 MATTAI G., Insegnamento sociale della Chiesa e sistemi economici in, in AA.VV.,

Messaggio cristiano ed economia, EDB Bologna, 1974 pp.173-233 MURRAY J.C.,Vers une intelligence du développement de la doctrine de l'Eglise sur

la libertè religeuse, in Vaticano II. La libertè religieuse, Unam sanctam 60 Paris, 1967

SPIAZZI R., Etica sociale, Roma, 1978VAN GESTEL C., La dottrina sociale della Chiesa, Città Nuova, Roma 1965 VILLAIN J., L'insegnamento morale della Chiesa, Centro Studi Sociali, Milano 1957SORGE B., E' superato il concetto tradizionale di dottrina sociale della Chiesa?, in

"La Civiltà Cattolica" 119 (1968)) 423-436 COMPAGNONI F., La dottrina sociale della Chiesa in, in "Rivista di teologia morale"

85 1990) HERDER D., In che modo la chiesa può dare suggerimenti etico-sociali?, in

"Concilium" 5 (1968)) 98-113 MARASCHI S.P., Chiesa e realtà sociale. Riflessioni sulla "Octogesima Adveniens",

in "Aggiornamenti sociali" 1971) 566-577 MULDER T., L'insegnamento sociale della Chiesa nel Concilio Vat.II, in "Vita e

Pensiero" 58 (1975)) 423-437 PAVAN P./VON NELL-BREUNING O./CHENU M.D., "Rivista di teologia morale" 13

(1981) n.52 pp.) PREZZI L./MATTE' M., Insegnamento sociale. Dizionario minimo in, in "Regno

attualità" 9(1991)322-331) SORGE B., L'apporto dottrinale della lettera apostolica "Octogesima Adveniens, in

"La Civiltà Cattolica" 1971) 420ss.

219

Page 220: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

MORALE SOCIALE................................................................................................................................1

INTRODUZIONE.....................................................................................................................................2

TEOLOGIA, TEOLOGIA MORALE, TEOLOGIA MORALE SOCIALE...............................................................2LE ATTUALI DIFFICOLTÀ DELLA CHIESA SUL PIANO SOCIALE................................................................4EXPLICATIO TERMINORUM. L’ESIGENZA DI UNA FENOMENOLOGIA DEL "SOCIALE"................................9LO STATUS QUAESTIONIS DEL TRATTATO DI MORALE SOCIALE.............................................................14L'INDICE DEL CORSO.............................................................................................................................16

PARTE STORICA..................................................................................................................................18

L’EPOCA ANTICA................................................................................................................................19

1. PENSIERO E VICENDA CIVILE NELLA PO\LIJ GRECA..........................................................................191.1. Le risorse culturali per la costruzione dell’unità della po\lij.................................................19

1.1.1. L’esperienza politica e la nascita del pensiero filosofico..................................................................201.2. Lo scetticismo sofista e l’idealismo platonico......................................................................................221.3. Il maggior realismo politico di Aristotele............................................................................................261.4. Lo stoicismo e la naturalizzazione delle istituzioni politiche...............................................................28

2. LA TRADIZIONE CRISTIANA...............................................................................................................322.1. Cenno alle dottrine sociali del Nuovo Testamento..................................................................322.2. I primi tre secoli.......................................................................................................................342.3. L'avvento di Costantino: atteggiamenti contrastanti...............................................................38

2.4. Agostino e la formazione di un primo modello di pensiero cristiano sullo Stato................................422.5. Il Medio evo..............................................................................................................................49

2.5.1. Tommaso e la dottrina cristiana sulla giustizia.................................................................................502.5.1.1. Legge evangelica e legge naturale............................................................................................512.5.1.2. Legge etica naturale e legge giuridica positiva.........................................................................542.5.1.3. Il tema "giustizia" nella Summa................................................................................................56

L’EPOCA MODERNA..........................................................................................................................59

1. LA DOTTRINA LUTERANA DEI DUE REGNI........................................................................................592. LA MANUALISTICA CATTOLICA.........................................................................................................63

2.1. Il «De iustitia et iure»..............................................................................................................642.2. Dalle « Institutiones morales » ai manuali recenti..................................................................65

LA RIFLESSIONE MODERNA E CONTEMPORANEA SULLA SOCIETÀ...............................67

1. LO STATO MODERNO E LA “RAGION DI STATO”.........................................................................712. LA CRITICA ILLUMINISTA..................................................................................................................71

2.1. Le idee generali........................................................................................................................722.2. Il pessimismo antropologico ed il totalitarsimo di Hobbes.....................................................742.3. L’utopismo politico: Rousseau e la riduzione della politica all'etica.....................................762.4. Il liberalismo, ossia l'ottimismo dell'individuo circa l'armonia degli interessi.......................79

3. HEGEL: LA SOCIETÀ CIVILE E LO STATO...........................................................................................823.1. Al di là della visione individualistico-liberale.........................................................................823.2. La dialettica del lavoro............................................................................................................833.3. La dialettica individuo-società.................................................................................................863.4. Alcune valutazioni sintetiche....................................................................................................89

4. MARX: LA SOCIETA' CIVILE COME SISTEMA DI PRODUZIONE............................................................904.1. Il rinnovamento della scienza dell'economia politica..............................................................914.2. La critica alle ideologie...........................................................................................................924.3. La Rivoluzione: un compito etico o un processo ineluttabile?................................................94

5. LE SCIENZE SOCIALI..........................................................................................................................965.1. Rilevanza etica dell'argomento................................................................................................985.2. La nascita della « sociologia » nel clima del positivismo......................................................1005.3. L'economia politica................................................................................................................1015.4. La crisi del positivismo...........................................................................................................1025.5. La sociologia tedesca dell'inizio del secolo e le scienze storiche..........................................104

220

Page 221: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

5.6. Le scienze storico-sociali secondo Weber..............................................................................1065.7. Parzialità dell'approccio sociologico....................................................................................1085.8. Società e cultura. L'idea di cultura........................................................................................109Conclusioni....................................................................................................................................111

6. DS E TEOLOGIA...............................................................................................................................1136.1. La teologia della secolarizzazione.........................................................................................1136.2. La teologia politica di J.B.Metz.............................................................................................1156.3. La teologia della liberazione..................................................................................................118Conclusione...................................................................................................................................122

IL MESSAGGIO BIBLICO SUI RAPPORTI SOCIALI.................................................................124

ANTICO TESTAMENTO: DALL'ISRAELE ETNICO ALL'ISRAELE ESCATOLOGICO....................................1241. L'ALLENZA E LA LEGGE. IL "DIRITTO" NELLA TRADIZIONE MOSAICA............................................1252. LA MONARCHIA DAVIDICA.............................................................................................................1263.LA PREDICAZIONE PROFETICA.........................................................................................................128

3.1. I grandi profeti dell'VIII secolo..............................................................................................1283.1.1. I profeti del periodo dell'esilio.........................................................................................................1293.1.2. La letteratura apocalittica e le tradizioni di Gn 4-11.......................................................................131

3.2. Fedeltà a Dio e ricchezza.......................................................................................................1313.2. Conclusioni sull'Antico Testamento.......................................................................................131

NUOVO TESTAMENTO IRRUZIONE DEL REGNO E PERMANENZA DELLE ISTITUZIONI CIVILI................1311. Gesù accetta il quadro sociale in cui vive.................................................................................1312. Gesù rifiuta ogni ministero sociale...........................................................................................1313. Gesù esprime un giudizio critico sull'autorità e sulle gerarchie sociali...................................131

3.1. L'autorità civile...................................................................................................................................1313.2. La polemica con l'autorità religiosa....................................................................................................131

3.2.1. I motivi del conflitto...................................................................................................................1313.2.2. Le interpretazioni del conflitto...................................................................................................1313.2.3. Il significato politico del conflitto..............................................................................................131

4. Gesù e le istituzioni sociali in generale. Ricchezza e povertà...................................................131CRISTIANO E SOCIETÀ NELLA TESTIMONIANZA APOSTOLICA.............................................................131

1. Relativizzazione dell'istituzione sociale....................................................................................1312. I doveri del cristiano verso l'autorità........................................................................................1313. La libertà del cristiano nei confronti delle autorità..................................................................1314. Giudizio negativo sull'autorità politica e sulla società, in chiave storico-salvifica.................1315. Conclusione...............................................................................................................................131

PARTE SISTEMATICA......................................................................................................................131

1. RIPRESA DELLA VICENDA STORICA DELLA MODERNITÀ............................................131

2. PER UNA INTELLIGENZA DEL SOCIALE: GLI ELEMENTI STRUTTURALI DELLA SO-CIETÀ MODERNA............................................................................................................................................131

2.1. LA SOCIETA' CIVILE: SISTEMA DI BISOGNI E NORMA IDEALE.......................................................1312.1.1. La società civile come « sistema di bisogni ».....................................................................1312.1.2. I fattori ideali della coesione sociale..................................................................................1312.1.3. La forma religiosa del consenso civile................................................................................1312.1.4. La secolarizzazione del consenso civile..............................................................................1312.1.5. La nozione spregiativa di ideologia....................................................................................1312.1.6. Una nuova nozione di ideologia?........................................................................................1312.1.7. L’appello all’etica, oltre l’ideologia...................................................................................131

2.2. LA SOCIETÀ POLITICA..................................................................................................................1312.2.1. L'«essenza» del politico.......................................................................................................1312.2.2. L'ambiguità di fondo del potere politico.............................................................................1312.2.3. Lo Stato nazionale moderno................................................................................................1312.2.4. Lo Stato di diritto................................................................................................................1312.2.5. Lo Stato democratico. Istituzioni politiche e società..........................................................131

2.2.5.1. La comunicazione pubblica..........................................................................................................1312.2.5.2. La scuola.......................................................................................................................................131

221

Page 222: Morale Sociale - Dispense - Don Giuseppe Mazzocato

2.2.5.3. Il federalismo................................................................................................................................1312.2.5.4. L'opposizione al potere politico ingiusto......................................................................................131

2.2.5.4.1. L'obiezione di coscienza al servizio militare.......................................................................1312.2.5.4.2. L'obiezione fiscale................................................................................................................131

2.2.6. Dalle garanzie giuridiche alla pianificazione sociale: politica ed economia.....................1312.3. ECONOMIA E SOCIETA'.................................................................................................................131

2.3.1. L'attività economica............................................................................................................1312.3.2. Economia e rapporti sociali in genere................................................................................1312.3.3. L'economia oggi: la « socializzazione »..............................................................................1312.3.4. Socializzazione come compito.............................................................................................1312.3.5. L'urbanesimo.......................................................................................................................1312.3.6. Il consumismo......................................................................................................................1312.3.7. L'informazione.....................................................................................................................131

3. LA MORALE SOCIALE TRA PUBBLICO E PRIVATO...........................................................131

3.1. La responsabilità politica del cittadino e la necessità di un’”etica pubblica” per il cristiano.....................................................................................................................................................................131

3.2. Oltre lo schema dei comandamenti. Le indicazioni dei Magistero........................................1313.3. L’impegno politico, oggi, e la fedeltà al vangelo...................................................................131

3.1.1. Impegno politico e vita spirituale....................................................................................................1313.1.2. L’impegno politico tra privato e pubblico.......................................................................................131

4. LE FORME DELLA PRESENZA SOCIALE E DELL’AZIONE POLITICA DEL CRIS-TIANO E DELLA CHIESA...............................................................................................................................131

4.1. Il magistero sociale dei vescovi italiani a partire dal tema "lavoro"....................................1314.1.2. Mondo rurale e mondo industriale..................................................................................................1314.1.3. "Chiesa e lavoratori nel cambiamento"...........................................................................................131

4.1.3.1. "Evangelizzare il sociale"........................................................................................................1314.1.3.2. Il progetto culturale.................................................................................................................131

Bibliografia....................................................................................................................................131

222