Momenti di storia antica

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Saggio storico di DANILO CARUSO / Palermo, agosto 2013

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Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

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INTRODUZIONE

imone Weil reclamava il diritto alla bellezza per tutti, consistente nella consa-pevolezza di far parte di un genere di viventi il quale ha prodotto grazie al suo intelletto considerevoli elaborati di contro agli altri esseri non intelligenti del

creato. La scienza medica ha dimostrato come determinati geni che presiedono allo sviluppo intellettivo, dopo l’infanzia e l’adolescenza, perdano la loro carica poten-ziale nel caso in cui non vengano messi in moto. Cosicché quell’adulto non curato sarebbe disgraziatamente svantaggiato rispetto a un suo simile evolutosi in manie-ra intellettuale più raffinata. L’esistenza della gente comune è purtroppo per gran parte una forma di vita prossima all’animale: mangiare, riprodursi, divertirsi (quel divertissement di cui parlava Pascal) non realizzano la natura umana.

Distingue l’uomo ciò che scaturisce dalla sottrazione dei suoi lati bestiali. Certe modalità occupano e controllano gli spazi temporali umani, causando il man-cato raggiungimento di quella bellezza: occupare gli uomini nel lavoro è nel con-tempo strumento di creazione della ricchezza, ma si potrebbe lavorare meno pro capite e lavorare tutti senza spirito competitivo in un sistema che dia a ciascuno sul piano dell’uguaglianza in relazione ai suoi bisogni e sul piano della libertà in re-lazione ai suoi meriti. Pertanto il fine a cui tendere per ottenere una felicità terrena è quello di liberare quanto più tempo a vantaggio di ogni essere umano, da spende-re nella coltivazione della sua particolare essenza. Invadere le vite di tutti con ele-menti mediatici condizionanti rappresenta il momento finale dell’occupazione esi-stenziale. Portare la gente lontano dalla realtà serve alla conservazione di questo impianto: è chiaro che gente poco istruita e poco riflessiva non sarà in grado di mi-gliorare le cose. Gli stessi mezzi tecnologici oggi usati sono il frutto di ricerca di po-chissimi (posti davanti a tutto il resto dell’umanità).

Solo l’ingegno di alcuni ha fatto progredire la società. Tuttavia ignoranti filosofie concorrono d’altro canto a demonizzare la scienza e il sapere. Queste forme palliative mascherano il disagio nei confronti dell’ignoto. La teologia cattolica ci dice in soccorso che Dio, prima di essere amore nella spirazione ipostatica della terza persona della Trinità, è conoscenza: la seconda persona, il Verbo (Logos), nella pri-ma processione ipostatica è generata da un atto conoscitivo. L’uomo creato «a sua somiglianza» è dunque in primis un soggetto vocato ad acquisire la coscienza della nobiltà intellettiva del suo genere e di conseguenza ad amarlo. Lo studio attua in parte lo specifico della natura umana: se non ci fossero medici, ad esempio, le per-sone morirebbero più facilmente; se non ci fossero studiosi si piomberebbe nella barbarie più disordinata ignorando persino il passato da cui si ha da imparare.

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1. LA MORTE DI MINOSSE IN SICILIA

ra i secoli VIII e VI a.C. emigrarono in Sicilia numerosi gruppi di Greci i quali portarono la loro civiltà nell’isola entrando in contatto, e anche scon-trandosi, con i vecchi abitanti (Sicani e Siculi). Si raccontava nell’antichità

che Minosse, personaggio appartenente più alle leggende greche che alla storia, fos-se stato qui in precedenza ucciso da un re sicano, Cocalo, e che dopo fosse stato se-polto in un punto su cui in seguito sorse un tempio di Afrodite.

La mitologia narra che Dedalo, fuggito da Creta, trovasse ospitalità in Sici-lia presso Cocalo, ma il mitico sovrano cretese che lo incalzava per farsi giustizia dell’episodio del Minotauro lo rintraccia. Il talassocrate accetta imprudentemente un invito del Sicano alla sua rocca di Camico, e qui viene ammazzato durante un bagno assieme alle figlie di lui. Terone, tiranno di Agrigento tra il 489 e il 472 a.C., riprese il racconto dell’uccisione di Minosse e lo utilizzò a scopo di conquista: il mi-to fu costruito dagli Agrigentini per annettere una fascia territoriale al di là dei propri confini e di fondamentale importanza difensiva.

Terone prese a pretesto della sua azione militare il fatto di voler vendicare il re di Creta. Secondo la tesi da me elaborata, esposta nel mio saggio “SICANIA / Il sito sicano di Colle Madore: dalla leggenda alla realtà (2004)”, il sacello (con gli ambienti circostanti) dell’area archeologica analizzatavi, posta alla periferia del Comune di Lercara Friddi, rappresenta quello che fu in passato identificato come tempio di Afrodite / sepolcro di Minosse di cui parlò poi Diodoro Siculo nella “Biblio-teca Storica”: lo lasciano intendere la particolare posizione del colle, l’etimologia del nome, l’analisi dei reperti e del tipo di liturgia che vi si svolgeva. Il Madore e i Sicani, che lo abitarono da tempi remoti, associandosi, a partire da un millennio prima della nascita di Cristo, si trovarono schiacciati tra gli Stati di due nuove cit-tà greche: Agrigento a sud e Imera a nord.

Il colle e la sua zona erano nevralgici da un punto di vista militare per il controllo delle regioni circostanti. Questa collina si trovava infatti a ridosso del dominio di Akragas, su un’altura dello strategico spartiacque dei fiumi Torto e Pla-tani, da cui si controllavano le vie in direzione del Tirreno e del Mediterraneo. In un primo tempo i Greci di nessuna delle due parti occuparono con la forza l’area, anzi la mantennero neutrale attraverso la valorizzazione del suo tempio dedicato ad Afrodite. Questi spazi di confine erano inoltre connotati nella riflessione temati-ca dall’immagine dell’acqua. Il nome Madore deriva dall’aggettivo greco madarós (bagnato): il territorio attorno al colle era forse chiamato la regione delle acque, lo fanno pensare la vicinanza ai bacini fluviali e la presenza di falde acquifere. Il ri-

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trovamento di un’edicola, su cui è raffigurato un uomo seduto sul bordo di una va-sca (Minosse), e di un bacino per acqua lustrale – entrambi provenienti dal sacello – testimoniano la centralità dell’acqua altresì come elemento cultuale, in un contesto liturgico caratterizzato da offerte sacrificali (thysía).

Gli Acragantini in un secondo momento pensarono di agire in modo diver-so: invadere in armi una zona resa neutrale tramite motivazioni religiose richiedeva una valida giustificazione al fine di evitare l’accusa di sacrilegio. Dire, con ipocrisi-a, che il sepolcro di Minosse era su Colle Madore, sotto il tempio di Afrodite, dava la possibilità di attaccare perché asserivano di volerlo vendicare: e ciò non li avreb-be resi in apparenza colpevoli di una cosa ingiusta nei giudizi dei loro contempora-nei. Così facendo il Madore (insieme all’intero territorio di Imera) cadde nelle mani di Agrigento intorno al 483 a.C.

Gli scavi condotti su questo rilievo (1995, 1998, 2004) dalla Soprintendenza ai beni culturali di Palermo – dopo la donazione di Antonino Caruso al Comune di Lercara Friddi dei primi reperti accidentalmente ritrovati nel 1992 – hanno portato alla luce, tra l’altro, l’area sacra in esame, situata in prossimità della cima.

Ritrovamenti significativi sono parti di statuette di Demetra e un’incisione in lingua punica (rievocativa di Astarte) rinvianti, per analogia, al culto di Afrodi-te, la cui presenza sul Madore è senza dubbio provata da diversi ritrovamenti: una statuetta acefala di divinità femminile che tiene in braccio una lepre (animale sacro ad Afrodite), un pezzo di scodella con sul fondo riprodotta una svastica e una lami-na abbellita da protomi taurine a sbalzo (si tratta di chiare rappresentazioni figu-rative a lei collegate).

A seguito della pseudovendetta di Terone è plausibile la sostituzione di Demetra ad Afrodite (entrambe dee della fecondità), dato il venir meno, a causa della successiva mancanza del tema del sepolcro, della coppia Afrodite/Minosse: la natura era paragonata alla figura femminile, per cui Afrodite equivaleva a Deme-tra. Altri reperti (i frammenti delle antefisse del tempietto, il modellino di capanna a pianta circolare, etc.) confermano il mio studio che giustifica anche la presenza di materiale importato da Imera come semplice acquisto commerciale, materiale che si inseriva in una cultura influenzata da Akragas. Tra le lamine bronzee ritrovate una rappresenta una divinità femminile (o Afrodite o Demetra).

Lo spazio sacrale di questo tempio di Afrodite venne parzialmente distrut-to, nel modo in cui racconta Diodoro Siculo, nel 483/482 a.C. da Terone di Agrigen-to (in realtà in quello che poteva apparire un suo luogo ipogeo non c’era la tomba minoica inventata dagli Acragantini, bensì un’officina per la lavorazione dei metal-li). Nella primavera del 409 a.C. i Cartaginesi, i quali occupavano una parte occi-dentale di Sicilia, distrussero durante una guerra contro i Greci, tutto l’abitato di Colle Madore e la sua popolazione dunque si disperse. Considerata la rinomanza del

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posto ho creduto ipotizzabile una visita del poeta Pindaro al tempio di Afrodite / sepolcro di Minosse durante il periodo della sua permanenza in Sicilia (476/475 a.C.), visti i suoi rapporti con gli Emmenidi e la matrice aristocratica e celebrativa della sua poesia. La mia tesi è alternativa a una serie di altre quattro localizzazioni proposte da altri studiosi: Eraclea Minoa, le tholoi di Sant’Angelo Muxaro, Licata, le Grotte della Gurfa di Alia.

Si tende di solito a identificare la rocca sicana di Camico con Sant’Angelo Muxaro, ma ciò non dovrebbe comportare che la finta sepoltura di Minosse debba essere ubicata automaticamente nelle sue vicinanze: non va trascurato che nella realtà greca la scelta del sito del sepolcro e il riallacciarsi al mito erano funzionali alla politica espansiva agrigentina e non alla leggenda. Colle Madore presenta con-notazioni adeguate e non ha importanza il fatto che sia lontano dalla costa, anzi conta che fosse collocato sull’asse Sabucina-Polizzello delimitante nel VI sec. a.C. il confine nordico del dominio acragantino.

Uno scritto di inizio ’900 di G. Nicastro poneva Camico a Sutera: la som-mità del Monte San Paolino (ai cui piedi si trova il paese odierno) è visibile dal Ma-dore guardando verso oriente. Le tholoi rimangono sempre molto suggestive, ma sono funzionali all’aspetto mitico delle vicende minoiche, a differenza della storia di Agrigento e Terone più pertinente all’analisi.

Riguardo a Colle Madore il mio sistema diverge da un’impostazione formu-lata dall’archeologo Stefano Vassallo che lega questo sito all’influenza di Imera: in particolare egli interpreta il personaggio dell’edicola sopra menzionata come Eracle e in più sostiene un’etimologia dall’arabo del toponimo Madore.

2. LA GUERRA DEL PELOPONNESO

a guerra del Peloponneso, combattuta su un ambito geografico più ampio di questa regione greca, rappresenta uno scontro civile di natura egemonica e ideologica non solo nel contesto del dualismo ellenico “Atene / Sparta”, ma

significativamente anche alle radici della civiltà occidentale. È il paradosso di come l’antica democrazia dell’alternanza promuova un

autodistruttivo duello imperialista e divida la Grecità in due opposti schieramenti di lotta e di pensiero. Allo scoppio, con Sparta e il Peloponneso stavano: le corinzie Ambracia, Anattorio, Leucade; Locri e Megara; i Beoti e i Focesi. Con Atene e i

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centri del suo impero: Chio, Corcira, Lesbo, Zacinto, Platea, i Messeni profughi a Naupatto e gran parte degli Acarnani. Lo storico ateniese Tucidide, che vi combat-té fino al suo presunto esilio (424 a.C.; tutte le date seguenti sono analogamente a.C.), vi dedicò un’opera di ricerca e di analisi. Dopo l’ultima vittoriosa guerra per-siana (terminata con la pace del 448) gli Ateniesi, che erano stati contemporanea-mente impegnati dal 461 in un conflitto con gli ex cobelligeranti lacedemoni, stipu-larono con questi ultimi una tregua trentennale nel 445. Benché le clausole fossero eque e garantissero alle due tradizionali rivali città greche la possibilità di mante-nere posizioni di forza, la politica espansionistica perseguita dal governo democra-tico ateniese guidato da Pericle pregiudicò l’equilibrio.

Tutto principiò con l’intromissione nel 437 in uno scontro fra la corinzia comunità di Ambracia ed Epiroti, a vantaggio di costoro. L’anno seguente nella corcirese Epidamno era stato abbattuto il regime oligarchico, poi restaurato dopo una sconfitta marittima di Corinto (435), intervenuta a sostegno dei democratici corciresi malgrado l’impegno di Sparta a mediare fra le parti. I timori dei propositi di rivalsa corinzi indussero Corcira ad allearsi con Atene (questi due centri posse-devano le più grandi marine militari in Grecia).

Il proposito di Corinto di occupare Corcira fallì nel 433. A seguito di ciò a-derirono alla Lega navale delio-attica capeggiata dagli Ateniesi: Zacinto, Leontini, Reggio (le ultime due a scapito della corinzia Siracusa). Pericle, che aspirava alle ostilità, pensò di creare un casus belli con l’opposta Lega peloponnesiaca diretta da-gli Spartani intimando una serie di atti di sottomissione agli alleati, di origine co-rinzia, di Potidea.

Però questi, contrariamente alle attese, sostenuti dai Macedoni e da Corin-to si staccarono dalla Lega navale. Perdicca II di Macedonia, osteggiato in prece-denza dagli Ateniesi, provocò la ribellione di altri loro alleati in quella regione. A-tene perciò si trovò invischiata in una crisi bellica non prevista. Come conseguenza di quest’errore di valutazione Pericle fece dichiarare l’interdizione commerciale dei Megaresi dal territorio della Lega delio-attica, contravvenendo alle libertà previste dall’accordo del 445. I rappresentanti della Lega peloponnesiaca, riunitisi a Sparta nel 432 dietro sollecitazione di Corinto, riconobbero le infrazioni di Atene, la quale, restia a revocare l’interdizione a Megara, ricevette nel 431 la dichiarazione di guer-ra lacedemone.

Gli Ateniesi partivano col favore della superiorità economica e militare del-la propria lega di fronte a quella avversaria (il che spiega il ritardo di Sparta a ini-ziare le operazioni militari). Non riuscito un tentativo tebano di conquistare Plate-a, i Peloponnesiaci proseguirono con una manovra a tenaglia: i Beoti da nord e un esercito da sud invasero l’Attica (la cui popolazione era stata interamente concen-trata nella capitale). La risposta ateniese mirò a colpire le coste peloponnesiache.

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Così per due anni, ma dal 429, dopo la distruzione recata da Pericle l’anno prima nella regione megarese, la situazione cominciò a mettersi male per Atene: il conta-gio della peste – arrivata nella città dall’Africa nord-orientale – si era allargato alla flotta comandata personalmente da Pericle in rotta verso il Peloponneso, e agli uomini d’arme impegnati a Potidea.

Lo statista, sfumata un’iniziativa ateniese per sospendere la belligeranza, a causa del dilagante malcontento popolare alla fine del 430 era stato privato della conduzione della guerra e sottoposto a processo: venne dichiarato responsabile di gravi colpe nei confronti dello Stato e condannato a una pena pecuniaria. Alla resa di Potidea seguì per gli Ateniesi la disfatta di Spartolo durante lo sforzo per scon-figgere gli associati rivoltosi calcidesi. Alcuni successi navali e la temporanea desi-stenza spartana dall’invadere l’Attica, per via della peste, non migliorarono le cose. Cosicché la guida delle azioni belliche fu di nuovo assegnata a Pericle, che scampa-to precedentemente dalla condanna capitale non riuscì a salvarsi dal contagio pe-stilenziale, e morì nel settembre del 429.

Sulla scena politica attica, privata del suo autorevole leader, emersero due figure di opposto raggruppamento: il democratico Cleone (già oppositore di Pericle) e il conservatore Nicia (cui fu affidata la direzione della guerra, che da questo mo-mento assunse i connotati di scontro ideologico tra l’ideale ateniese di democrazia e quello spartano oligarchico-conservatore). Il biennio 428-429 fu caratterizzato dalle sollevazioni contro Atene a Corcira e Lesbo. La lesbia Mitilene, che era passata al gruppo dei Peloponnesiaci, riconquistata dagli Ateniesi nel 427, rischiò di essere rasa al suolo e la sua gente parte uccisa parte venduta ai mercanti di schiavi. Pre-valse infine un orientamento più moderato di quello dei democratici massimalisti rappresentato da Cleone (maggioritario sulla scia della primordiale onda emotiva). In quello stesso anno i Lacedemoni espugnarono Platea distruggendola, e gli Ate-niesi restaurarono con la forza il governo democratico corcirese.

Questi intervennero inoltre nel 427-426 con successo in Sicilia, dove la guerra coinvolgeva da un lato Siracusa e Locri e dall’altro Reggio e Camarina. Tra altalenanti umori e aspirazioni alla riconciliazione dei contendenti il conflitto con-tinuò con una rinnovata impresa navale siciliana (425) durante la quale una piccola frazione della flotta fu impegnata in una manovra bellica in Messenia all’isola di Sfacteria. I Peloponnesiaci dopo un iniziale sopravvento – dovuto ai rinforzi – fu-rono battuti in mare a giugno dalle navi nemiche di rientro dalla Sicilia.

Poiché tra gli altri finirono assediati anche 180 Spartiati il governo laconi-co era disposto a concludere la belligeranza pur di liberarli (infatti consegnò tempo-raneamente dietro richiesta avversaria la propria flotta nel settore al nemico). Tut-tavia ad Atene era prevalso sin allora lo schieramento oltranzista di Cleone, favo-revole alla guerra, che fece andare a monte le trattative di pacificazione, alle quali

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era invece favorevole il ricco conservatore Nicia, che dal canto suo – sperando in una disfatta – indusse l’inesperto Cleone a portare avanti le operazioni a Sfacteria. Costui però delegò le sue funzioni sul campo a Demostene (conduttore delle azioni militari precedenti nella zona) ottenendo così la vittoria e una rinnovata domanda lacedemone di tregua (respinta). Lo scontro procedeva.

Nicia nel giugno del 424 occupò l’isola di Citera, e pochi mesi dopo gli Ate-niesi s’impossessarono pure del porto di Megara a Nisea. Gli Spartani, sollecitati dal generale Brasida, mutarono dunque la loro strategia, e decisero di colpire non più l’Attica, bensì la penisola calcidica, territorio della lega nemica esposto a mag-giori contraccolpi per Atene. Brasida, con l’obiettivo di generare l’allontanamento dagli avversari delle città costiere, appoggiato da Perdicca e dalle comunità di A-canto e Stagira, passate alla sua parte, nel 424 conquistò per via di terra Anfipoli. Questo effetto generalizzato fu direttamente prodotto dalla prosecuzione delle a-zioni navali in Sicilia dato che i Sicelioti – alleati e non – temettero le mire imperia-listiche ateniesi al punto di rappacificarsi a giugno.

Inoltre il progetto ulteriore di invadere la Beozia, in collaborazione coi de-mocratici dissidenti della regione, fece fallimento miseramente sul campo di batta-glia verso la fine di quell’anno. Nel 423 gli animi dei belligeranti, condizionati da un lato da questi ultimi fattori e dall’altro preoccupati del crescente peso interno di Brasida, operarono in favore di un armistizio di 12 mesi, che non ebbe conclusione positiva per il fatto che nella Calcidica la situazione era sfuggita di mano ad Atene: le città associate continuavano a fuoruscire dalla Lega delio-attica.

Allora negli ultimi mesi del 422 Cleone si recò nell’area con delle truppe allo scopo di recuperarle all’impero. Ma in un combattimento nei pressi di Anfipoli fu sconfitto trovando la morte similmente a Brasida. Senza i leaders delle fazioni in-terne fautrici del conflitto panellenico, Sparta e Atene raggiunsero nell’aprile del 421 un accordo cinquantennale di non belligeranza («pace di Nicia»): sulla sua base sarebbero tornate, su un versante, Citera e Pilo (coinvolta nei fatti di Sfacteria) ai Laconici, sull’altro, Anfipoli con gli altri centri dissociatisi antecedentemente agli Ateniesi (i quali avrebbero mantenuto il controllo di Nisea e perduto Platea a bene-ficio dei Beoti).

Alla conclusione di questo primo periodo (431-421), denominato guerra ar-chidamica (dal nome del re lacedemone Archidamo, morto nel 427), Sparta aveva perso autorevolezza presso i propri alleati e Atene si ritrovava in crisi socioecono-mica a causa dei danni del conflitto (le finanze, la produzione agricola, il tasso de-mografico – anche per la peste – ne avevano riportato pesantissime conseguenze). Le comunità della Tracia meridionale restituite agli Ateniesi si ribellarono. In più la delusione provocata dalla pace stipulata da Nicia, che mirava a non recare offesa aggiuntiva agli Spartani, spinse Atene a trattenere momentaneamente i 120 Spar-

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tiati superstiti presi a Sfacteria e a fare durare l’occupazione di Citera e Pilo. Le difficoltà dei Lacedemoni proseguivano con l’ostilità verso il trattato degli alleati beoti, corinzi, megaresi ed elei, cosicché la capitale laconica stipulò un’alleanza di-fensiva cinquantennale con Atene (a essa era garantita l’immunità dai Beoti, e in contropartita rinunziava alle zone controllate con l’eccezione di Citera, che avrebbe abbandonato dopo il recupero dei territori calcidici). Un altro timore per i Laconici in quei momenti proveniva da Argo, città con cui scadeva una tregua trentennale al principio del 420, e con la quale in seguito a quest’ultima fase si coalizzarono Co-rinto, Mantinea, l’Elide e diversi centri calcidici. Intanto al termine del 421 i soste-nitori spartani dello scontro primeggiavano sullo scenario politico cittadino, e Sparta rafforzava l’intesa coi Beoti.

Pure nella capitale attica il recente indirizzo politico moderato era mutato di segno col ritorno al potere dei democratici massimalisti, dentro al cui gruppo si sviluppava la dialettica per la leadership tra Alcibiade – di indole aristocratica, a-mico del filosofo Socrate – e Iperbolo. A partire dal 420 il primo si adoperò per le-gare in funzione difensiva la sua città all’Elide, Mantinea e Argo, creando nel nord della penisola peloponnesiaca un asse antispartano. Ciò preoccupò Corinto che si riavvicinò a Sparta. Nel 419 un tentativo argivo, sostenuto militarmente dagli A-teniesi, di conquistare Epidauro non andò in porto. Questo episodio principiò il ria-cutizzarsi delle tensioni fra Delio-attici e Peloponnesiaci, ritornati per l’occasione a scontrasi in campo. Alcibiade, che accusò i Lacedemoni di aver trasgredito gli im-pegni bilaterali, finì ad Atene in secondo piano di fronte alla ripresa dei conservato-ri guidati da Nicia. L’intenzione laconica di attaccare Argo causò comunque la par-tecipazione ateniese in opposizione a Sparta, la quale nell’agosto del 418 durante questa contesa ebbe la meglio con la battaglia di Mantinea, per il cui effetto Argo, sciolta l’intesa con Atene, fu costretta a unirsi agli Spartani, e Mantinea e l’Elide entrarono anche nella sfera d’influenza di questi: l’intero Peloponneso cadeva sotto la supremazia laconica. Alcibiade, che aveva sollecitato gli Argivi a reagire davanti a Sparta, si ritrovò in discredito presso l’opinione pubblica ateniese, come Nicia, che aveva fatto ritardare l’intervento armato di supporto.

Cercò di approfittarne Iperbolo per sbarazzarsi dei due rivali politici con lo strumento dell’ostracismo, ma Alcibiade ottenuto l’appoggio del leader conservato-re determinò invece l’esilio dello stesso Iperbolo. D’ora in poi l’intento di Nicia fu quello di rivolgere l’espansionismo attico ad aree fuori dell’influenza spartana per evitare il risorgere della guerra. Così facendo invogliò Atene (che si ritrovò contro anche Perdicca, ripassato ai Lacedemoni) a insistere nella riconquista di Anfipoli. Questa strategia venne meno quando nel luglio del 417 ad Argo i democratici, dopo aver cacciato dal governo gli oligarchici, ottennero la riconferma della precedente coalizione con Atene, la quale l’anno successivo s’impadronì inoltre della dorica iso-

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la di Melo, formalmente neutrale, ma legata a Sparta, senza che quest’ultima ri-spondesse paventando di essere sconfitta sul mare.

Nel 416 le vicende siciliane prospettarono l’opportunità di un nuovo inter-vento militare ateniese nell’isola richiesto dall’elima Segesta assalita dalla dorica Selinunte (che aveva imitato l’esempio di Siracusa nei confronti della calcidese Le-ontini, attaccata e rasa al suolo). Fu pianificata una spedizione, caldeggiata da Al-cibiade che ne ambiva il comando, e favorita dai falchi democratici e conservatori, con l’obiettivo di istituire in Sicilia una netta egemonia attica.

Lo stesso Nicia seppur apertamente sostenitore di un previo consolidamen-to nei territori traci ribelli vedeva nella sua ottica filolaconica il progetto di buon occhio poiché i Lacedemoni erano pure propensi a evitare il confronto navale a causa dell’inferiorità della loro marina: propose e ottenne un notevolissimo raffor-zamento dell’invio, che passò da 60 triremi a 134 (con un contingente di 6.500 uo-mini). Il 22 maggio 415 l’euforia degli Ateniesi, speranzosi di andare al di là della semplice difesa degli alleati siciliani attraverso l’assoggettamento dell’intera isola, fu turbata dalla scoperta che le erme cittadine erano state tutte danneggiate. La cosa assunse una rilevanza giuridica (in aggiunta a essere considerata un presagio funesto) e nello svolgimento delle indagini Alcibiade venne accusato di empietà in relazione a un altro più o meno credibile fatto. Egli chiese la celebrazione immedia-ta del suo processo prima dell’allontanamento della flotta per l’impresa siciliana (alla cui guida era stato designato con Nicia e Lamaco), ma ebbe un rinvio sino alla conclusione della stessa, data la deterrenza che esercitava come contraccolpo la possibile reazione dell’esercito in partenza. La presenza ateniese in Magna Grecia e Sicilia fu accolta tepidamente: Turi, colonia ateniese, restò al di fuori della contesa; a Reggio l’armata navale non poté insediare un punto di coordinamento (cosa fatta a Catania per mezzo di un’azione senza preavviso). Nella scelta della strategia bel-lica da adottarsi all’interno della triade preposta alla conduzione prevalse il punto di vista di Alcibiade che prevedeva di assalire innanzitutto i centri più indifesi, cre-are un circuito di alleanze, e quindi colpire Siracusa. Contemporaneamente in pa-tria le ricerche degli ermocopidi (mutilatori-di-erme) di agosto continuavano a pre-stare il fianco ai rivali democratici e oligarchici dell’ambizioso politico, cui fu ordi-nato di ritornare ad Atene: prelevato da un’imbarcazione, durante lo scalo a Turi decise di scappare.

Condannato in contumacia e trasferitosi a Sparta per sostenerne le inizia-tive nella guerra in corso, divenne un nemico della sua città. Intanto gli Ateniesi in Sicilia al termine dell’anno condussero due vittoriose comunque infruttuose azioni belliche a Segesta e a Siracusa. Nel maggio del successivo 414 Nicia, dopo aver ri-cevuto un’integrazione del contingente con reparti (ateniesi e siculi) di cavalleria (che erano mancati in precedenza per ottenere risultati più concreti), provò nuo-

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vamente a prendere Siracusa assediandola per mare e per terra, cercando di isolarla (in questa fase fu ucciso in battaglia Lamaco).

Sembrava che la comunità aretusea stesse per capitolare quando ad agosto arrivarono aiuti – consigliati da Alcibiade e sollecitati dai Siracusani – guidati dallo Spartano Gilippo, partiti dall’isola di Leucade su pochissime navi (una coppia la-cedemone e una corinzia) ancor prima del completamento dei preparativi della flot-ta peloponnesiaca (che prevedeva altre 13 imbarcazioni corinzie).

Passando dallo stretto di Messina e approdando a Imera, da dove aveva raggiunto Siracusa assieme a rinforzi siculi e sicelioti (imeresi, selinuntini e geloi), Gilippo ruppe l’assedio ateniese, facendo saltare il piano avversario. Nicia in palese difficoltà chiese alla madrepatria di rafforzare l’impegno militare in Sicilia e mani-festò la volontà di rinunziare alla direzione dell’impresa.

Ulteriori aiuti pervennero ai Siracusani, e di due battaglie marittime da-vanti alla città gli Ateniesi persero la seconda subendo gravissime menomazioni navali. Atene, che nel frattempo era intervenuta nell’Argolide invasa da Sparta e aveva deciso – in violazione del trattato di pace – di colpire le coste peloponnesia-che, mandò all’inizio del 413 in due momenti dei sostegni. Quando a primavera partì la seconda spedizione navale ateniese i soldati peloponnesiaci erano entrati nell’Attica rendendo difficili le comunicazioni a nord-ovest. La flotta attica, co-mandata da Demostene, non riuscì a risollevare la situazione: egli indusse il restio Nicia a ripiegare in ritirata su Catania. Però il ritardo delle operazioni consentì ai Siracusani di serrare la via d’uscita alla baia del Porto grande in cui si trovavano gli Ateniesi e di vincerli in due scontri sul mare, di conseguenza il ritiro forzatamente terrestre, subiti pesantissimi danni umani e materiali, fu alla volta dell’alleata Ca-marina, a ovest.

Inseguiti, il gruppo di copertura del trasferimento agli ordini di Demoste-ne, rimasto troppo indietro rispetto a quello di Nicia, più precipitoso, fu accerchia-to e sconfitto, così come accadde subito dopo al medesimo Nicia, all’oscuro di quanto avvenuto, al quale i Siracusani sopravanzandolo sbarrarono la strada. Ni-cia e Lamaco, catturati, vennero uccisi nonostante la contrarietà di Gilippo; quasi tutti i loro uomini furono ridotti in schiavitù.

L’eco della sconfitta della grande armata ateniese diede vigore ai nemici e provocò nella città un moto d’opinione favorevole agli oligarchici: similmente suc-cedeva in diversi centri alleati che passavano alla parte dei Lacedemoni, i quali conclusero il conflitto con Argo. Malgrado tutto Atene disponeva al momento di risorse economiche e di una forza tali da permetterle di fronteggiare energicamente l’unione tra Peloponnesiaci e Persiani che si era costituita per sfruttarne lo stato di debolezza. Alcibiade a Sparta aveva imbeccato i suoi recenti amici ad avvicinarsi alla Persia, manovra nella quale aveva mediato fra le due parti nella metà del 412.

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In cambio del sostegno e della partecipazione bellica persiana i Lacedemoni ricono-scevano la signoria sulla Ionia (con l’eccezione delle isole Sporadi) agli alleati, che miravano ad applicare una politica di sfruttamento tributario sulla regione. Già dal 413 gli Ateniesi avevano perso molti alleati dopo l’occupazione nemica di Decelea nell’Attica: Clazomene, Eritre, Lebedo, Mileto, Teo, nella Ionia; le lesbie Metimna e Mitilene; Bisanzio; e le isole di Chio, Eubea e Rodi.

Il precipitare delle cose fu l’occasione per i conservatori di prendere il go-verno della città tramite la creazione di una decarchia (10 probuli) posta al di sopra degli altri organi amministrativi. Con l’oligarchia ateniese intratteneva rapporti Alcibiade, fiducioso in una riabilitazione: garantiva di sganciare Sparta, da cui in seguito a discordie si era allontanato, dall’alleanza persiana e di legare i Persiani a un’Atene nella quale auspicava l’istituzione di un chiaro regime oligarchico.

Al principio del 411 la capitale dell’Attica aveva perso quasi tutta la Ionia, a dispetto di un contenimento operato militarmente delle disassociazioni dalla Lega navale. In questo frangente l’ex democratico Pisandro recatosi da Samo – sede della marina attica – ad Atene, d’intesa con un paio di probuli sospese il sistema demo-cratico: il numero dei probuli fu elevato a 30; i diritti politici furono circoscritti a 5.000 abitanti, che dovevano essere individuati da un’assemblea di 400 membri cui furono trasmessi tutti i poteri statali; fu stabilita la gratuità dei pubblici incarichi e abolito il diritto di accusa.

Un colpo di mano simile attuato dai conservatori samii fallì: i democratici di quest’isola si affidarono dunque ad Alcibiade per resistere a Spartani e Persiani da un canto e agli oligarchici ateniesi dall’altro. Il controverso allievo di Socrate colse l’opportunità di condizionare gli eventi a suo vantaggio, e s’impegnò a non far entrare in conflitto Samo e Atene: sollecitava la prosecuzione ateniese della guerra contro Sparta, la definizione concreta dei 5.000 cittadini della sua città aventi di-ritti politici e il restauro della soppressa assemblea amministrativa di 500 membri (bulè). Tramontata ad Atene la prospettiva di un avvicinamento alla Persia per mezzo di Alcibiade, l’ala conservatrice più estremista si preparava, al fine di restare al potere, a concludere anche un accordo sfavorevole con i Peloponnesiaci. Ciò cau-sò delle tensioni e delle reazioni di massa.

L’amico di Socrate era più vicino agli oligarchici moderati; quasi tutti gli esponenti di primo piano di quelli radicali fuggirono presso i Laconici: tra quelli restati qualcuno andò sotto processo, e non mancarono durante questa fase delle uccisioni (Frinico, ex democratico, assassinato per strada; Antifonte, condannato alla pena di morte).

L’operato del probulo Teramene (soprannominato “coturno”, una calzatu-ra ambidestra) scansò il pericolo di una guerra intestina: venne ripristinata la bulè e abolita l’assemblea dei 400, la base politica ateniese dai 5.000 previsti fu elevata a

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9.000. Il ritorno del regime democratico rimise in sintonia Atene e Samo. Nel corso del 411 gli Ateniesi avevano continuato a indietreggiare: alle sottrazioni territoriali precedenti si sommavano l’Eubea e l’Ellesponto. I Lacedemoni minacciavano di-rettamente l’Attica e controllavano i Dardanelli da Abido, la marina persiana era inoltre pronta a invadere l’Egeo da sud.

La ritrovata unità con i quadri navali samii produsse l’esito di tre vittorie marittime ai Dardanelli contro i Peloponnesiaci: due consecutive a settembre, e una nel marzo del 410 (in questo caso era giunto con rinforzi Teramene da Atene). Incoraggiati gli Ateniesi cercarono il combattimento con gli Spartani, che erano nelle vicinanze della capitale attica, ma questi desistettero perché l’occupazione dell’Ellesponto garantiva ormai degli introiti utili per una ripresa economica, e pre-sentarono un progetto di pace agli avversari rianimati: prevedeva il ritiro reciproco dagli altrui territori occupati e l’acquisizione spartana di regioni della Lega delio-attica. Il nuovo leader democratico ateniese Cleofonte, artefice della restaurazione completa della democrazia ateniese (attraverso la reintroduzione del diritto univer-sale di accusa), spinse i concittadini a rifiutarlo.

Nella prosecuzione delle ostilità il suggerimento di Alcibiade (cui era stata consentita la facoltà di ritornare ad Atene) di entrare in rapporto con la Persia per staccarla dai Lacedemoni non ebbe continuazione: Trasibulo e Trasillo, responsabi-li delle azioni marittime ateniesi, si mossero nel senso opposto raccogliendo un gra-ve insuccesso al largo di Efeso. All’inizio del 409 Trasillo e Alcibiade intrapresero un’iniziativa per riprendere due centri sulle rive opposte all’imbocco meridionale del Bosforo (Bisanzio e Calcedone) costringendo i Persiani a una tregua e ad accon-sentire a un’ambasciata ateniese alla corte di Dario II.

Sugli altri fronti Atene subiva la perdita di Nisea e Pilo, e la fuoruscita dal-la Lega navale di Corcira, alleviate dal ritiro delle forze nemiche di Siracusa, allar-mata dall’attacco in Sicilia di Cartagine (che aveva già distrutto Selinunte). Alci-biade ritornò ad Atene nel giugno del 408: tutti i provvedimenti punitivi a suo ca-rico erano stati annullati; si presentò come il salvatore della patria, tale fu accla-mato, e il potere politico finì sostanzialmente nelle sue mani.

Nella seconda metà dell’anno egli riprese in Asia Minore la gestione bellica: le sue aspettative furono frustrate per il fatto che i Persiani erano fermamente de-cisi a mantenere l’alleanza con gli Spartani, guidati da Lisandro, in funzione antia-teniese. L’ammiratore di Socrate cercò invano lo scontro con le triremi del navarca antagonista ancorate a Efeso, rassegnandosi inoltre a notevoli defezioni tra le pro-prie file quando questo, che si era adoperato a insediare governi oligarchici nei cen-tri fuorusciti dalla Lega attica, offrì uno stipendio più alto ai marinai. Nel primo periodo del 407 Alcibiade si trasferì insieme alla flotta ateniese dalla zona di Efeso nell’Ellesponto, dove, diversamente dalle sue disposizioni gli Ateniesi avevano dato

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battaglia in mare col risultato di una pesante sconfitta. Con le navi rimaste e quelle al suo seguito Alcibiade fece ritorno a Efeso, ma nel mentre il suo prestigio ad Ate-ne si era convertito in antipatia popolare.

Non riconfermato al comando delle operazioni abbandonò il suo incarico direttivo prima della scadenza naturale e si allontanò esule nell’Ellesponto: gli suc-cedette Conone che inizialmente, avvantaggiato dalla sostituzione di Lisandro alla testa dei Peloponnesiaci (ritenuto ambizioso e fuor di luogo aperto all’ingerenza persiana), ottenne dei successi. Callicratida, successore di quest’ultimo, non fu gra-dito dai Persiani, che ridussero il loro impegno finanziario per la guerra.

I Laconici volendo rafforzare la propria marina militare dovettero rimedia-re autonomamente. Le triremi raccolte a Mileto sotto la guida di Callicratida parti-rono allora per la conquista di Lesbo. Conone raggiunto nei primi tempi del 406 si batté con lui di fronte a Mitilene e subite considerevoli perdite si ritirò nel porto cittadino. Atene si sobbarcò di allestire navi che lo liberassero dall’assedio dando fondo a tutte le ricchezze residue disponibili, e alle Arginuse gli Ateniesi, ulterior-mente potenziatisi di passaggio a Samo, sconfissero Callicratida che gli si era fatto incontro trovandovi la morte.

Tuttavia l’annegamento di una parte dei marinai ateniesi, dovuta a nau-fragio per il maltempo, sollecitò nella capitale un’esagerata ripercussione. Agli otto comandanti della flotta fu inflitta nell’ottobre del 406 la pena capitale: due, Pro-tomaco e Aristogene, fuggitivi, si salvarono; tra i condannati un omonimo figlio di Pericle. La città continuava a perdere per un motivo o per un altro i suoi migliori uomini, e il democratico massimalista Cleofonte la esortava a rifiutare una propo-sta spartana di rappacificazione. La caparbietà ateniese, sostenuta dalla possibilità di resistere, persuase nel 405 i Persiani a sollecitare ai Lacedemoni la restituzione della navarchia a Lisandro e a finanziarne la ricostruzione dell’armata navale.

Lisandro – che effettivamente fu luogotenente a causa della non reitera-zione dello scorso mandato – quindi si diresse nell’Ellesponto, una fonte degli ap-provvigionamenti attici, e prese Lampsaco allo scopo di bloccare questa via di ri-fornimento. Le triremi ateniesi conseguentemente si concentrarono nei Dardanelli, nei pressi di Egospotami, dove attesero per quattro giorni con l’intento di combat-tere. Ma le navi laconiche non uscirono da Lampsaco, e ciò convinse il quinto gior-no gli Ateniesi, che non tennero conto degli ammonimenti di Alcibiade, a sbarcare in cerca di provviste.

Il navarca peloponnesiaco ne approfittò e con pochissimo sforzo catturò quasi tutta la flotta rivale. Conone riuscì a sfuggire solamente con 1/9 delle triremi, 3.000 Ateniesi fatti prigionieri furono uccisi a Lampsaco per vendetta degli eccessi nemici. Ottenuta la resa di Sesto, Bisanzio e Mitilene, i Lacedemoni si volsero verso Egina, e presala si presentarono al Pireo. Parallelamente il re spartano Pausania II

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assieme al collega Agide II arrivò a mettere sotto assedio Atene sulla terra ferma. A gennaio del 404 l’ennesima offerta spartana di riconciliazione, sebbene le cose pre-cipitassero, fu respinta su incitazione di Cleofonte, giustiziato qualche mese più tardi. Teramene grazie a questo vuoto poté far accettare nella comunità il desiderio di resa delle fazioni ateniesi più moderate. Recatosi a Sparta, gli furono esposte le condizioni di pace (successivamente ratificate): Atene non sarebbe stata distrutta a differenza di quanto auspicato da Tebe e Corinto, però era costretta ad allearsi con Sparta, a demolire le fortificazioni del Pireo e le Lunghe Mura, e perdeva i suoi domini lontano dall’Attica.

Concluse le ostilità Lisandro entrò nel Pireo, pochissimo tempo dopo si ar-rese anche Samo che ancora resisteva. I governi degli alleati greci dei Lacedemoni furono modellati sullo stampo oligarchico, e alcuni sostenuti con lo stanziamento di truppe a difesa, il cui pagamento era a carico di tutti (analogamente ad altri tributi versati a Sparta). Inoltre i lotti di terra assegnati in passato a cittadini ateniesi in ter-ritorio straniero (cleruchie) furono restituiti, salvo qualche eccezione, agli originari possessori. Ad Atene Teramene ripristinava l’ordine, e iniziava l’amministrazione di quelli che passeranno alla storia come i Trenta Tiranni.

3. ROMA E CARTAGINE

o scontro nel mondo antico tra Cartaginesi e Romani segnò in maniera deci-siva lo sviluppo della civiltà europea. Il teorico nazista Alfred Rosenberg lo prese ad esempio nei suoi ragionamenti pseudoscientifici, in quella che sa-

rebbe dovuta essere una dimostrazione della storia d’Europa come dialettica tra ariani e semiti. L’appartenenza a gruppi etnici differenti è scontata, ciononostante le motivazioni di quel confronto, che finì per annientare uno dei due contendenti, non c’entravano niente con i pregiudizi razziali, ed erano di natura prettamente politico-economica: in palio c’era la supremazia nel Mediterraneo occidentale (che avrebbe spianato la strada verso il Levante greco ed ellenizzante).

La storiografia filoromana riconobbe a Roma una missione civilizzatrice e unificatrice: l’epica latina toccò varie volte questi temi, e nella rivisitazione poetica della fatale dicotomia “Roma / Cartagine” dell’Eneide virgiliana il poeta mantova-no proiettò a posteriori all’interno del racconto le ragioni seminali mitiche di quello che la storia avrebbe registrato realmente. I Troiani, diretti alla volta del Lazio col

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compito assegnato dal destino di rifondare la patria città, sono colpiti da una tem-pesta e trascinati sulle coste africane. Nelle vesti di cacciatrice, Venere, madre di Enea, gli spiegherà dove si trova (Eneide, canto I, versi 338-368; nella traduzione di Giuseppe Vergara, Fratelli Conte Editori, 1987).

Punico regno tu vedi, la rocca d’Agenore e i Tiri, – libico suolo però – nella guerra indomabile stirpe. Tiene il comando Didone, la quale, partita da Tiro, sta sfuggendo il fratello. L’offesa è lunga a narrare, lunghe le trame; esporrò solo i punti salienti dei fatti. Era suo sposo Sicheo, di terre il più ricco fenicio, che con ardore profondo la misera amava: suo padre. dandola a lui, l’aveva congiunta coi primi rituali, vergine. Aveva però suo fratello il regno di Tiro, Pigmalione, su tutti per efferatezza il più tristo. Odio nacque tra loro. Quell’empio davanti agli altari, cieco per brama dell’oro, trafigge l’incauto Sicheo fuor d’ogni vista, di spada, non dando alcun peso all’affetto della sorella; e celò lungamente il misfatto, e sleale, molto fingendo, illuse di vana speranza l’amante mesta. Ma in sogno le venne del non sepolto marito l’ombra, levando uno sguardo terribilmente spettrale: l’are crudeli ed il petto mostrò, trafitto da spada, mise in luce l’intero segreto delitto di casa. Quindi l’invita a lasciare la patria e mettersi in fuga; quale soccorso al viaggio, le svela aviti tesori posti sotterra: gran massa, non nota, d’oro e d’argento. Scossa, Didone dispose la fuga e scelse i compagni. Quanti nutrivano vivo terrore o odio feroce contro il tiranno fan lega. Rapiscono e colmano d’oro navi per caso già pronte sul molo. Sono portate via per mar le sostanze di Pigmalione l’avaro. Guida l’impresa una donna. Pervennero qua, dove vedi mura e la grande città di Cartagine nuova che sorge; contrattarono un suolo – dal fatto ebbe il nome di Birsa – quanto potessero intorno con pelle d’un toro abbracciare.

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Accolto benevolmente da Didone, Enea è costretto a interrompere il rap-porto sentimentale con la regina che «ruppe fede al cener di Sicheo».

Ella, «che s’ancise amorosa», poco prima del suicidio lancia la sua maledi-zione (Eneide, canto IV, versi 607-629; nella traduzione di Giuseppe Vergara, Fra-telli Conte Editori, 1987).

Sole, tu che percorri coi raggi ogni opera umana, tu, o Giunone che sai, che provochi questi tormenti, Ecate, cui si grida nei trivi di notte, Furie vendicatrici, voi dei d’Elissa che muore, datemi ascolto, volgete la giusta potenza sugli empi; me, che vi prego, esaudite. Se proprio bisogna che un porto tocchi quell’uomo infame, che navighi verso le terre, se lo richiede il volere di Giove, se questa è la meta: perseguitato da guerre, dall’armi d’un popolo audace, messo al bando dal luogo, strappato all’abbraccio di Iulo, debba almeno implorare soccorso e vedere un’indegna strage dei suoi; non goda del regno o d’amabile vita dopo aver sottoscritto dei patti iniqui di pace; muoia, piuttosto, anzitempo, restando su un lido insepolto. Questo imploro, col sangue quest’ultimo grido profondo. D’ora in poi, miei Tiri, vessate, odiate la stirpe, tutta la razza a venire: sia questo il funebre omaggio vostro per me. Non amore né patto fra i popoli nasca. Sorgi, o vendicatore, chiunque tu sia, dall’ossa mie e col fuoco, col ferro sta’ dietro ai coloni troiani oggi, domani, ogni volta che a ciò basteranno le forze. Lidi ai lidi contrari, che ai flutti s’oppongano l’onde chiedo, le armi alle armi; combattano loro e i nipoti.

La coppia letteraria “Enea / Didone” colloca i suoi componenti su due di-

stinti livelli: quello dell’elegia per la regina di Cartagine e quello schiettamente epi-co per il condottiero troiano (anch’egli accomunato nella sorte di profugo coi suoi).

Il primato spettò a quest’ultimo, all’epica che si fa storia nella narrazione dell’origine di Roma (fondata nel 753 a.C.), e alla storia che si fa epica nella cele-brazione di un futuro (storicamente già passato) di grandezza. Cartagine, fondata nell’814 a.C. (tutte le successive date sono da intendersi a.C.) e posta in un punto

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strategico per i commerci nel Mediterraneo, aveva concretizzato la sua vocazione mercantile e marina con la creazione di un dominio che, in aggiunta al Nord Africa (dallo Stretto di Gibilterra ai confini dell’Egitto tolemaico), si allargava ad altre colonie fenicie, alla Sicilia orientale, alla Sardegna, alla Corsica, alle Baleari, e alla fascia territoriale spagnola del sud. Dopo la morte del tiranno siracusano Agatocle i Cartaginesi avevano colto l’opportunità (289-285) di occupare gran parte della Sici-lia, ma i Sicelioti reagirono chiedendo l’intervento di Pirro.

Cartagine temendo l’ambizione del re epirota spinse nel 278 Roma ad ac-cettare una coalizione. I Romani, in guerra dal 282 contro Taranto (colonia spar-tana) sostenuta da Pirro, erano stati più volte sconfitti dagli Epiroti (presenti in Italia dal 281 con l’obiettivo di estendere il proprio regno).

Si definirono così due aree di competenza bellica: ai Punici la Sicilia, ai Romani la penisola italica interessata; inoltre l’accordo prevedeva che questi ulti-mi, in mare appoggiati dai primi, non potessero stipulare con gli Epiroti la conclu-sione del conflitto senza la loro approvazione. Pirro nel 277-276 riuscì a liberare quasi del tutto la Sicilia, tuttavia l’opposizione delle città greche ai suoi progetti lo portò a lasciare l’isola. Ritornato nell’Italia continentale, e sconfitto nel 275 dai Romani a Benevento, decise di far ritorno in patria e di spostare la sua azione poli-tica principale in Grecia. Morto nel 273, nel 272 il distaccamento militare epirota a Taranto si arrese all’assedio romano. I Punici avevano auspicato, invano, una resa anche nelle loro mani (per la quale avevano inviato delle navi da guerra al largo della città, preoccupando così i Romani). Il trattato commerciale punico-romano del 508, riproposto nel 348 e nel 306, stabiliva due sfere d’influenza, conformi al piano bellico: l’interdizione all’ingerenza politica riguardava la Sicilia per Roma e la penisola per Cartagine.

I Romani gli unici a guadagnarci contro Pirro, controllavano ormai l’Italia peninsulare; i Cartaginesi avevano ristabilito il loro precedente controllo in Sicilia, però molti centri italioti con i loro importanti porti erano caduti in mani romane. Scomparso il comune nemico e fatti propri gli interessi socioeconomici della Magna Grecia, Roma si preparava a fronteggiare la potenza navale punica, ai cui indirizzi era stata costretta ad accondiscendere durante la prima parte del contrasto epirota. Un segno dei tempi mutati, e di una migliore considerazione, fu l’offerta d’amicizia di Tolomeo Filadelfo, re d’Egitto, inviata nel 273 a Roma. Nel 270 poi i Romani conclusero un’intesa con Gerone II di Siracusa (un ex ufficiale di Pirro). Quando i Mamertini di Messina, in difficoltà di fronte ai Siracusani, invocarono nel 265 il so-stegno cartaginese, per i Romani non fu tollerabile avere la grande potenza medi-terranea alle porte, e in grado di destabilizzare l’ordine interno della confederazione romano-italica (nella quale alcune popolazioni precedentemente rivoltatesi mal sopportavano il domino di Roma). Nell’estate del 264 scoppiò il primo bellum puni-

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cum: nel 264-262 Roma liberò la Sicilia orientale dall’influenza nemica dopo aver intrattenuto pure un breve conflitto con Siracusa, restia a favorire la sua presenza nell’isola; nel 260 una flotta di 120 navi da guerra romane, allestita per quegli e-venti bellici, sconfisse i Cartaginesi vicino a Milazzo (la battaglia navale si era tra-mutata in uno scontro corpo a corpo grazie all’ingegnoso sistema d’abbordaggio dei corvi adottato dai Romani); importanti vittorie di Roma nel 257 si unirono a quel-la significativa nel 256 al capo Ecnomo (presso Licata), fu dato così modo di spo-stare il teatro di guerra in Africa: il positivo inizio delle operazioni romane culminò con la sconfitta e la cattura di Marco Attilio Regolo, che aveva in precedenza pre-teso condizioni giudicate eccessive durante delle trattative di pace.

A successive fasi alterne della lotta seguì l’azione di logoramento, iniziata nel 247 dal generale punico Amilcare Barca, per fiaccare le forze romane (che ave-vano rifiutato una nuova proposta di pace); ma la rinnovata armata navale (rime-diato alle perdite pregresse) consentì a Roma di ottenere la vittoria decisiva alle Egadi (241): la Sicilia, con l’eccezione del territorio di Siracusa divenne dominio romano e nel 227 venne proclamata provincia romana.

Cartagine pagò il suo errore di valutazione nell’aver coinvolto Roma nel grande scenario mediterraneo, di conseguenza costringendola a adeguarsi militar-mente ad una politica navale di rilievo, e la pessima abitudine di condannare a morte i generali battuti, pratica che compromise le capacità dei quadri dirigenti dell’esercito. Le prospettive di ripresa punica si concentrarono sull’espansione in Spagna, il che turbò i Romani, i quali, approfittando dell’altrui instabilità interna, tolsero a Cartagine pure la Sardegna (235), che unita alla Corsica nel 227 diventò altra provincia romana: il Mar Tirreno si era trasformato in un Mare Nostrum. All’avanzata cartaginese in armi nella penisola iberica fu inoltre preteso e fissato un limite a nord lungo il fiume Ebro (226).

La rinascita economica e militare di Cartagine, agevolata dalle risorse spa-gnole, fu celere, tant’è che Annibale (figlio di Asdrubale, succeduto a propria volta al fratello Amilcare Barca nella sua conduzione), giudicò che era giunto il momento della rivincita e conquistò Sagunto (219), in terra iberica, alleata dei Romani. Fu di nuovo guerra aperta. Il secondo bellum punicum ruota tutto attorno alla figura di Annibale, il vindice vaticinato da Didone, il quale nel 218 dalla Spagna calò in Ita-lia oltrepassando le Alpi. In quel periodo Cartagine non aveva timori sul fianco egi-ziano, mentre sperava nelle complicazioni che potessero provocare ai Romani le pressioni macedoni e celtiche dall’esterno.

I Macedoni impegnati in Grecia non poterono prontamente attaccare Ro-ma, in compenso i Punici, che ottennero subito un paio di vittorie (nelle vicinanze dei fiumi Ticino e Trebbia), ingrossarono le loro file con disertori galli: una delle a-spettative principali che aveva animato Annibale era una sollevazione di Italici

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contro Roma tale da riportarla alla situazione geopolitica precedente le guerre san-nitiche. Nonostante i Romani subissero rilevanti sconfitte e l’ostilità di alcune gen-ti meridionali passate al nemico, i Cartaginesi concentratisi in Puglia, pur conti-nuando a vincere a Canne (216), incontrarono difficoltà nei tentativi di espugnare i centri militari antagonisti e non riuscirono a demolire la tenuta della confederazio-ne romano-italica.

Inoltre Siracusa, alla morte di Gerone II, schieratasi nel 215 con Annibale tornò l’anno successivo dalla parte dei Romani: occupata da costui nel 213 fu ri-conquistata nel 211 e aggregata nella provincia siciliana. Nel 215 un tentativo ma-cedone di occupare i possedimenti di Roma sull’Adriatico orientale fallì. La prima fase della guerra in Spagna (iniziata nel 218) e in Africa arrideva ai Romani: nella penisola iberica colsero notevoli vittorie, e in terra africana i Numidi, ugualmente a popolazioni spagnole, si erano ribellati a Cartagine. I Punici nel 211 erano giunti a pochi chilometri da Roma, ma senza l’intenzione d’impegnarsi in un uno scontato lungo e pericoloso assedio. Annibale aveva trascurato completamente nel suo pro-getto di rivalsa l’allestimento di una flotta utile per il trasporto di rinforzi, al con-tempo da contrapporre a quella romana, che garantiva protezione sul mare. La contesa proseguì con circostanze alternate: le regioni iberiche perse furono rioccu-pate assieme a tutta la Spagna da Publio Cornelio Scipione (il futuro Africano), il quale conseguì tre vittorie fondamentali (Cartagena nel 209, Becula nel 208, Silpia nel 207) che privarono Cartagine delle ricchezze spagnole.

Dal 210-209 Annibale cominciò ad indietreggiare: il fratello Asdrubale pas-sato come lui con un esercito dalle Alpi fu sconfitto e ucciso nella battaglia del Me-tauro (207); la penisola era quasi del tutto ritornata sotto il controllo romano poi-ché il primo rimasto senza aiuti ripiegò verso l’estremo sud.

Sul fronte macedone il conflitto si concluse nel 205 con un accordo che pri-vava i Punici di un importante alleato. Senza più inquietudini ai fianchi orientale e occidentale Roma guardava verso l’Africa per concludere le ostilità. Publio Corne-lio Scipione, sebbene il Senato non fosse favorevole all’impresa, vi sbarcò nel 204 trovando il sostegno dei Numidi guidati da Massinissa (contrari a quelli filopunici del re Siface): i Cartaginesi ormai chiedevano la pace, però due negoziati non ebbe-ro esito positivo; l’ultimo per via del ritorno in patria di Annibale (203), richiamato per fronteggiare i Romani (nello stesso 203 il fratello Magone aveva cercato infrut-tuosamente di portare altre milizie puniche in Italia).

L’acerrimo nemico di Roma, il grande stratega imbattuto, fu irrimediabil-mente vinto a Zama alla fine del 202: la città di Elissa aveva perso la guerra e il suo ruolo di potenza mediterranea, le furono imposte pesantissime condizioni di resa che cancellarono le ambizioni della politica espansionistica promossa dalla fazione interna barcide, una politica che alla fine si rivelò essere, negli sbagli di giudizio e

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nella sua inasprita attuazione, causa della sua rovina. Annibale fu esiliato, inviso all’oligarchia punica, a causa delle conseguenze del suo operato, e dietro pressione romana, nel 196; nel 183 si suicidò, dopo una vita spesa ad odiare e combattere fino all'ultimo con ogni mezzo Roma, per evitare di essere catturato vivo dai suoi av-versari di sempre. Quantunque ridotta al solo territorio africano e senza forza mili-tare, Cartagine rifiorì economicamente: il timore che queste risorse potessero essere sfruttate da altri a loro discapito indusse i Romani alla decisione radicale di cancel-lare l’insediamento urbano.

Sono note le parole di Catone il censore (234-149): «Ceterum censeo Cartha-ginem esse delendam». Nel contesto di un conflitto numida-punico, che violava l’imposta clausola di non belligeranza senza consenso, Roma propose la ricostru-zione dell’abitato sull’entroterra. I Cartaginesi rifiutarono: la città fu assediata (149-146), espugnata e quindi totalmente distrutta. Le sue terre divennero la nuo-va provincia d’Africa. Alla fine di questo terzo bellum punicum il Mediterraneo cen-troccidentale era saldamente sotto il controllo dei Romani.

4. GIULIO CESARE

allargamento del campo geografico d’influenza della civiltà greco-romana merita a Gaio Giulio Cesare il riconoscimento di un contributo basilare al-la crescita di un’omogenea idea d’Europa. La poliedrica valenza della sua

personalità lo ha reso un personaggio autorevole nel retaggio dell’antichità. Nac-que a Roma il 13 luglio di un anno tra il 102 e il 100 a.C. (le date seguenti sono a.C.): proveniva dalla patrizia gens Iulia, indebolitasi economicamente, che si pro-clamava discendente dell’eneide Iulo (Ascanio).

A 16 anni gli morì l’omonimo padre. Ricevette un’iniziale istruzione dalla madre, l’aristocratica Aurelia Cotta, ebbe poi maestro un noto grammatico di ori-gine gallica. Nipote di Gaio Mario (che ne aveva sposato una zia paterna) e cugino di Mario (l’antagonista di Silla), scelse di parteggiare in favore dello schieramento politico dei populares (opposto a quello oligarchico degli optimates). La prima mo-glie, Cornelia Minore sposata a 17 anni, era figlia del democratico Cinna (collabora-tore di Mario), il che gli procurò seri problemi (rischiò di essere ammazzato durante le proscrizioni sillane): si sposò tre volte (morta Cornelia di parto nel 68, nel 62 ri-

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pudiò la seconda moglie, Pompea, una nipote di Silla, a causa di manifesto tradi-mento). Allontanatosi dalla capitale per sicurezza, precedentemente alla fine del regime sillano (avvenuta nel 78), fu militare in Asia Minore.

Ritornato, il processo con l’imputazione di concussione a Gaio Cornelio Dolabella, un ex console sostenitore di Silla, andato assolto senza far chiarezza, di cui egli fu avvocato accusatore, lo mise in risalto sullo scenario forense. Perfezionò il percorso di formazione culturale nel 74 a Rodi (ebbe in comune con Cicerone il maestro Apollonio Molone): all’andata rapito dai pirati, e rilasciato dopo il riscat-to, si adoperò per catturare – in modo sarcastico glielo aveva promesso – e uccidere i suoi sequestratori.

Nel 73, assoldate delle milizie, s’impegnò a sostenere la guerra contro Mi-tridate VI re del Ponto. Fece dunque ritorno a Roma. Di eloquio attico (fu autore di un trattato sull’uso della lingua nel 54), bloccato il colpo di Stato del 63, in sena-to a differenza di Catone si espresse a sfavore della condanna capitale dei catilinari superstiti: sembra che assieme a Marco Licinio Crasso, che gli prestava i soldi ne-cessari a sovvenzionare le proprie campagne politiche, fosse stato vicino a quel progetto che coinvolgeva le classi deboli (patrizi caduti in disgrazia, reduci di guer-ra, proletariato). Aveva continuato il suo cursus honorum, dopo alcune esperienze, anteriormente come questore nel 69 e edile curule nel 65, fu pontefice massimo nel 63 (designato corrompendo gli elettori), quindi pretore nel 62 e propretore in Spa-gna nel 61. Emerse nel tempo in cui il post-sillano Gneo Pompeo rinsaldava e allar-gava il dominio romano nel Mediterraneo orientale e in Asia Minore (67-62). In questo periodo gli introiti annui statali risultavano quintuplicati rispetto al secolo passato, però bastavano a coprire solo metà della spesa pubblica (il resto di coper-tura proveniva da proventi di guerra).

Quando il senato, che temeva le conseguenze dell’accresciuta forza cliente-lare di Pompeo, non acconsentì alle sue richieste sull’approvazione dell’assetto po-litico dato in Oriente e sui premi di guerra ai suoi militari, costui strinse nel 60 un accordo di natura privata con Cesare e Crasso (primo triumvirato): a Crasso spettò una competenza in Asia Minore e a Cesare toccò il consolato nel 59 e il governo quinquennale (più avanti prorogato) delle province galliche.

Quest’ultimo da console ratificò le richieste pompeiane, assegnando ai suoi veterani terreni demaniali (e togliendoli alla speculazione oligarchica), e in favore di Crasso attuò la riduzione del costo delle concessioni sul recupero delle imposte; dispose inoltre che gli atti delle attività in senato fossero pubblici. Da proconsole nelle Gallie Cisalpina e Narbonese (58-50) sottomise l’intera regione barbara. I suoi Commentarii de bello gallico sono dedicati a questa conquista (58-52): sette libri, re-datti forse nel 52-51, cui se ne aggiunse un altro di un suo sostituto, Aulo Irzio, che narra gli eventi del 51-50. Dall’iniziale proposito difensivo di fronte alle pressioni di

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Elvezi e Svevi, la campagna militare si tramutò in offensiva (senza la necessaria approvazione del senato): risalito dal Rodano verso il Reno, occupò la Gallia Belgi-ca e in seguito, girando lungo la fascia dalla Senna alla Loira alla Garenna, l’intero territorio celtico.

Dopo aver posto fine all’insurrezione dei Treviri e degli Eburoni (54-53), con la sconfitta dei rivoltosi Arverni e la cattura del loro re Vergingetorige (51) – superato il reciproco assedio di Alesia – terminarono le operazioni. La Gallia, ac-quisita all’ordine sociale romano, meno iniquo di quello barbaro, rappresentava un’ottima base di potere grazie alle sue ricchezze umane e materiali. Nel corso della sua esperienza gallica Cesare si era spinto sino in Britannia (55 e 56) e al di là del Reno. Nel frattempo un nuovo accordo triumvirale a Lucca nel 56 aveva prorogato il suo proconsolato di un altro quinquennio, e a Pompeo e Crasso erano andati il consolato per il 55 e poi rispettivamente i proconsolati di Spagna e Siria: Crasso sa-rà ucciso dai Parti in battaglia nel 53 a Carre (Haran) mentre cercava di raggiunge-re successi militari pari a quelli cesariani e pompeiani.

Al termine del comando in Gallia, tramontata l’aspettativa di raggiungere in maniera pacifica il consolato per il 48 – cosa che in precedenza era stata conve-nuta con Pompeo tramite una norma ad hoc –, Cesare avrebbe dovuto rimettere i suoi incarichi, ma dato che in opposizione al parere del senato gli fu negato che Pompeo – illegalmente consul sine collega nel 52 a seguito dell’omicidio del tribuno filocesariano Clodio (tuttavia col consenso di Cesare disapprovante l’estremismo democratico) – facesse lo stesso, il 10 gennaio del 49 decise di rompere gli indugi da-vanti all’alleanza pompeiano-senatoria e calò in armi nella penisola italiana dove era proibito a un magistrato in carica avere un comando militare.

Al passaggio del Rubicone, che segnava il confine provinciale, (forse in re-altà in lingua greca) esclamò: «Alea iacta est!». La visione politica cesariana con-templava la soppressione delle sacche di privilegio nel sistema romano incentrato sull’oligarchia senatoria di origine italica, che teneva in proprio potere lo Stato, non sovvertendo d’altro canto alla radice l’ordine costituito: occorreva dare spazio di rappresentanza a ogni classe sociale e ai popoli dell’impero in base a un criterio di migliore equilibrio.

Il suo feeling con i propri soldati fu fondamentale per la sua azione militare e politica poiché era considerato un generale e un leader obiettivo e orientato ad incoraggiare la partecipazione della plebe attraverso un ruolo attivo dei tribuni.

Gli altri suoi Commentarii de bello civili, la cui redazione potrebbe risalire al 45, sono dedicati al conflitto (49-48) con il senato e Pompeo (al quale aveva dato antecedentemente in moglie la figlia Giulia nel 60, morta nel 54): altre opere di completamento storico-narrativo sono di autore ignoto. Pompeo, che contava sulle sue clientele spagnole e orientali, lasciò Roma accompagnato da quasi tutti i sena-

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tori, in gran parte maldisposti verso questa strategia, e riparò in Grecia a pianifica-re la reazione.

In quei mesi Cesare s’insediò nell’Urbe e batté i pompeiani in Spagna (ne acquisì le legioni con la garanzia di un significativo pagamento). Designato console per il seguente anno, dopo aver indetto le elezioni con l’ufficio straordinario di dic-tator comitiorum habendorum causa, si scontrò con Pompeo in battaglia: in inferiori-tà per numero e armamenti fu sconfitto a Durazzo nel luglio del 48, ma il 9 agosto a Farsalo ottenne una vittoria che spinse Pompeo a fuggire nell’Egitto tolemaico, dove sbarcato fu assassinato (28 settembre) nell’illusione degli uomini di corte di riuscire graditi a Cesare, che giunto qui però rese onore al rivale.

Passatovi dalle province d’Asia rafforzò sul trono la posizione di Cleopatra VII – dalla quale sembra abbia avuto un figlio (Tolomeo Cesare) – a discapito dei fratelli Tolomeo XIII e Tolomeo XIV (48-47). Ottenuti dunque dal senato un con-solato quinquennale, la facoltà del diritto di veto tribunizio (a qualsiasi provvedi-mento pubblico) e la dittatura per un anno (in qualità di magister populi indicò suo luogotenente, magister equitum, Marco Antonio), sconfisse nel 47 in territorio asia-tico Farnace II re del Ponto (che preoccupava gli interessi romani), e i pompeiani, nel 46 in territorio africano sostenuti dai Numidi (la Numidia fu annessa come nuova provincia) e definitivamente nel 45 in territorio spagnolo. Dalla seconda me-tà del 46 – che vide le celebrazioni a Roma dei trionfi bellici cui presenziarono Cle-opatra, un fratello, e il figlio soprannominato in Egitto piccolo Cesare – sino all’uccisione si dedicò al riordino statale. Assunse l’attributo di imperator nella fun-zione di praenomen. Nel 46 ebbe conferito un incarico dittatoriale di durata decen-nale, e nel gennaio del 44 diventò dittatore a vita (dictator perpetuus).

Concentrò su di sé: la potestà tribunizia (il che gli concedeva, oltre al veto, la speciale immunità personale e il diritto di convocare l’assemblea della plebe, le cui deliberazioni – i plebisciti – avevano valore di legge, e il senato); i poteri della censura (riguardanti il rinnovo degli elenchi dei senatori e dei cavalieri); la preroga-tiva di stabilire le candidature dei magistrati; la facoltà di deliberare norme che impegnavano il senato all’impegno di rispetto; il potere proconsolare di governo, civile e militare, sulle province (esercitato attraverso delegati).

Soppresse i raggruppamenti religiosi dei ceti inferiori fonte di divisione e agitazione sociali, ceti ai quali altresì dimezzò l’assegnazione gratuita di alimenti; diede il via alla costruzione di nuove infrastrutture al fine di risolvere il problema della disoccupazione; favorì l’emigrazione dall’Italia verso le province per offrire prospettive di vita migliore e per rafforzare il controllo territoriale (soprattutto a Oriente); estese il diritto di cittadinanza ai Galli; stabilì misure di estinzione dei de-biti che non tenessero conto della forte inflazione del denaro (in passato era inter-venuto ad aiutare gli indebitati applicando delle agevolazioni). Elevò il numero dei

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senatori, da 600 a 900, per mezzo dell’ingresso di nuovi elementi provenienti dalle province e dall’insieme degli ufficiali minori dell’esercito (tra i nuovi alcuni di etnia gallica), e quello dei questori da 20 a 40 (questi, eletti da tutti i cittadini, avevano mansioni giudiziarie e di vigilanza sulla pubblica finanza).

Garantì alla classe equestre, a vocazione affaristica, lo stesso numero di rappresentanti dati alla classe senatoria nelle commissioni di sorveglianza sulle province. Riformò il calendario, da lunare a solare, e il mese di nascita gli fu intito-lato (Iulius). Ebbe inizio il culto religioso della sua persona proseguito dopo la sua morte. L’auspicio cesariano di ammodernare l’ordinamento repubblicano con la collaborazione della vecchia oligarchia, fondandolo sulla figura di un princeps, no-nostante la sua proverbiale clemenza verso i pompeiani e il conferimento di incari-chi politici a esponenti oligarchici, non ebbe realizzazione per la diversità di inte-ressi tra optimates e populares.

Dopo che il 15 febbraio del 44 a Roma aveva rifiutato la triplice offerta in pubblico di una corona fatta dal collega console Marco Antonio, cadde il 15 marzo, vittima di una congiura, dentro l’aula del senato davanti alla statua di Pompeo – che aveva fatto divinizzare –, sotto i colpi di 23 pugnalate (di cui mortale la secon-da di uno dei fratelli Casca). Allora si apprestava a due campagne belliche contro i Parti e i Daci, che se vittoriose avrebbero consolidato il suo potere, e ciò non piace-va ai congiurati guidati dai pretori Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino: la loro preoccupazione principale era che Cesare trasformasse la repubblica in una monarchia di tipo orientale accompagnata dalla deificazione del re. Bruto era nipo-te, genero e ammiratore di Catone l’Uticense, ma anche figlio di un’amante di Cesa-re e suo sospetto illegittimo; vistolo tra i senatori aggressori, probabilmente in gre-co (e non in latino), gli disse: «Καὶ ὺ έκνον; (Tu quoque, Brute, fili mi!)».

Il 17 marzo Marco Antonio, ricevuto il testamento cesariano dall’ultima moglie Calpurnia, ne diede pubblica lettura: risultava tra l’altro l’adozione del pro-nipote Gaio Ottavio (più conosciuto poi come Augusto), cui lasciava il grosso delle sue sostanze (il 75%), e il lascito di 300 sesterzi a ogni cittadino dell’Urbe.

Il 20 si tenne la pubblica cerimonia funebre di cremazione del corpo in mezzo al cordoglio popolare, alla quale seguirono violenti disordini. Nel giro di po-chissimi anni tutti i cesaricidi finirono uccisi. Cesare in gioventù era stato autore di scritti in versi – il suo corpus ha conservato solo i Commentarii – la cui diffusione fu scoraggiata durante il principato augusteo. Del 46 era un’opera intitolata Iter, e posteriore l’Anticato, che demitizzava la figura dell’Uticense (il quale anticesariano fino al suicidio era stato pure sostenitore dell’inutilità della conquista gallica). Ri-mane notizia di due raccolte cesariane: le Epistulae (ad Senatum, ad Ciceronem, ad Familiares) e le Orationes. Dal suo cognomen latino – Caesar, assorto a titolo impe-riale romano – hanno avuto origine etimologica gli appellativi di kaiser e zar.

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INDICE

INTRODUZIONE pag. 1

1. LA MORTE DI MINOSSE IN SICILIA pag. 2

2. LA GUERRA DEL PELOPONNESO pag. 4

3. ROMA E CARTAGINE pag. 14

4. GIULIO CESARE pag. 20

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Palermo

agosto 2013