Modulo 1 - Obiettivo ECM

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Modulo 1 LA FISIOPATOLOGIA DELL’EMOSTASI Armando Tripodi Modulo 2 IL RUOLO DEL LABORATORIO NEL MANAGEMENT DEL PAZIENTE EMOFILICO Armando Tripodi Modulo 3 LA TECNOLOGIA Fc NELLA PRATICA CLINICA E NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO Berardino Pollio Modulo 4 EMOFILIA A E B A CONFRONTO: DIAGNOSI E GESTIONE DI DUE PATOLOGIE Antonio Coppola

Transcript of Modulo 1 - Obiettivo ECM

Modulo 1 LA FISIOPATOLOGIA DELL’EMOSTASI Armando Tripodi
Modulo 2 IL RUOLO DEL LABORATORIO NEL MANAGEMENT DEL PAZIENTE EMOFILICO Armando Tripodi
Modulo 3 LA TECNOLOGIA Fc NELLA PRATICA CLINICA E NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO Berardino Pollio
Modulo 4 EMOFILIA A E B A CONFRONTO: DIAGNOSI E GESTIONE DI DUE PATOLOGIE Antonio Coppola
MODULO 1 - Fisiopatologia dell’emostasi 1. Introduzione 2. I vasi (arterie e vene) 3. Le piastrine 3.1 Adesione 3.2 Aggregazione 3.3 Cambiamento di form 3.4 Attività procoagulante 3.5 Retrazione del coagulo 3.6 Conseguenze di un difetto piastrinico 4. Coagulazione 4.1 Fattori procoagulanti 4.2 Conseguenze del difetto di uno o più fattori procoagulanti 4.3 Fattori anticoagulanti 5. Conclusioni Bibliografia
MODULO 2 - Il ruolo del laboratorio nel management del paziente emofilico 1. Introduzione 2. Diagnosi 2.1 Metodo coagulante one-stage 2.2 Metodo cromogenico 2.3 Paragone fra metodo coagulante one-stage e metodo cromogenico 3. Misura dell’inibitore 4. Monitoraggio del trattamento 4.1 Monitoraggio dei concentrati derivati dal plasma umano normale 4.2 Monitoraggio dei concentrati ricombinanti 4.3 Monitoraggio dei concentrati a lunga emivita 4.4 Monitoraggio degli agenti bypassanti 4.5 Monitoraggio delle terapie innovative non sostitutive 5. Conclusioni Bibliografia
MODULO 4 - Emofilia A e B a confronto: diagnosi e gestione di due patologie 1. Definizioni e generalità 1.1. Gravita dell’emofilia 1.2 L’Epidemiologia dell’emofilia 2. Presentazione clinica e diagnosi 2.1 Problemi diagnostici in emofilia A 2.2 Valutazioni in emofilia B 2.3 Indagini genetiche in emofilia 3. Gestione clinica e regimi di terapia 3.1 Gli emartri 3.2 Gli ematomi muscolari 3.3 Le complicanze dell’emorragia 3.4 La Comprehensive care 4. Principi generali di gestione clinica 4.1 Terapia sostitutiva dell’emofilia 4.2 I regimi di trattamento dell’emofilia: la profilassi 4.3 Indicatori di efficacia del trattamento 4.4 Ottimizzare e personalizzare la profilassi 4.5 La farmacocinetica 4.6 Differente gravità clinica di emofilia A e B? 4.7 Complicanze del trattamento: gli inibitori 5. Emofilia A e B: simili ma non identiche Bibliografia
Questionari di valutazione: MODULO 1 MODULO 2 MODULO 3 MODULO 4
4. Le proteine di fusione Fc nel trattamento dell’emofilia 4.1 Studi clinici del fattore efmoroctocog alfa (rFVIIIFc) 4.2 Studi clinici del fattore eftrenonacog alfa (rFIXFc) 4.3 Real world evidence 5. Distribuzione extravasale del fattore IX 6. Effetto immunomodulante e tolerogenico dei costrutti molecolari Fc 6.1 Effetto d’induzione della tolleranza immunitaria e prevenzione degli inibitori 6.2 Esperienze cliniche di terapia d’induzione dell’immunotolleranza con rFVIIIFc 6.3 Ruolo del frammento cristallizzabile per ottenere vie di somministrazioni alternative di somministrazione del fattore VIII e IX Bibliografia
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SOMMARIO
MODULO 3 - La tecnologia FC nella pratica clinica e nella gestione del paziente emofilico 1. Introduzione 2. La struttura e la funzione di base dell’immunoglobulina G (IgG) 2.1 Le diverse fasi del percorso di riciclo del recettore Fc neonatale (FcRn) e descrizione di come questo processo estende l’emivita delle IgG sieriche 2.2 I principi della tecnologia di fusione Fc e le sue applicazioni terapeutiche 3. Struttura delle proteine di fusione rFVIIIFc e rFIXFc
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LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
L’emostasi è un complesso di meccanismi altamente integrati che, in condizioni normali, permettono la fluidità del sangue all’interno del sistema vascolare, ma assicurano l’arresto dell’emorragia in presenza di lesione vascolare. I meccanismi principali che assicurano la funzionalità del processo emostatico sono la parete del vaso, le cellule circolanti (principalmente, ma non esclusivamente, le piastrine) e i fattori plasmatici della coagulazione. Il complesso di interazioni che ha luogo fra le piastrine e la parete del vaso in sede di lesione vascolare è chiamato emostasi primaria. Il termine coagulazione è riservato all’attivazione dei fattori della coagulazione plasmatica, che portano alla generazione di trombina, trasformazione del fibrinogeno in fibrina e alla sua stabilizzazione. La fibrinolisi riguarda, invece, un processo mediante il quale l’enzima finale di questo meccanismo (plasmina), porta alla dissoluzione del coagulo. In questo modulo prenderemo in rassegna i meccanismi dell’emostasi primaria e della coagulazione e le tappe che li regolano.
LA FISIOPATOLOGIA DELL’EMOSTASI
L’emostasi consente di mantenere la fluidità del sangue nel sistema vascolare integro
Modulo 1
2 - I VASI (Arterie e Vene)
Le cellule endoteliali, tappezzano la superfice interna dei vasi (arterie o vene) e consentono al sangue, mediante le loro caratteristiche di (vigile) inerzia, di circolare liberamente, scongiurando il pericolo di occlusione vascolare. In caso di lesione, la parete del vaso interviene in maniera attiva, facilitando la localizzazione dei meccanismi emostatici, proprio nel luogo della lesione, assicurando l’emostasi locale, ma scongiurando l’attivazione sistemica.
KEY POINTS L’integrità delle cellule endoteliali della parete interna dei vasi assicura la fluidità del sangue
L’emostasi determina l’arresto dell’emorragia a seguito di una lesione vascolare
La lesione vascolare localizza l’emostasi
Il vaso, le piastrine e i fattori della coagulazione concorrono all’emostasi
Si definisce “emostasi primaria” l’interazione vaso-piastrina
Si definisce “coagulazione” l’attivazione dei fattori, la generazione di trombina, la fibrino-formazione e la sua stabilizzazione
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Le piastrine sono piccole vescicole citoplasmatiche senza nucleo, che presentano sulla loro membrana importanti recettori e nel loro citoplasma granuli e sostanze altamente specializzate, che ne regolano la funzione emostatica. In un soggetto normale, la conta piastrinica è nell’ordine di 150-300 mila per µL di sangue. La corretta funzione delle piastrine prevede alcuni eventi molto importanti.
Le piastrine, in condizioni di integrità vascolare, circolano liberamente, ma aderiscono alle strutture sotto-endoteliali (fibrille di collageno), che si mostrano al circolo nel momento e sul luogo della lesione vascolare. L’adesione delle piastrine al sotto-endotelio è complessa e comporta il coinvolgimento di una proteina adesiva (fattore di von Willebrand), che circola nel plasma e riconosce alcuni recettori (glicoproteine) della membrana piastrinica attivata, mediante i quali stabilisce un ponte fra piastrina e sotto-endotelio.
Le piastrine facilitano mediante la loro forza contrattile la retrazione del coagulo, che stabilizza il tappo emostatico e facilita i fenomeni di cicatrizzazione, che portano alla restituzione della funzione del vaso.
I difetti piastrinici sono complessivamente classificati come piastrinopenie o piastrinopatie. Le piastrinopenie sono caratterizzate da un ridotto numero e normale funzione, a causa di malattie del midollo, presenza di anticorpi diretti contro di esse, oppure da una aumentata rimozione dal circolo. Le piastrinopatie possono essere congenite (ereditarie) o acquisite e riguardano una ridotta funzione, a fronte di un normale numero. I difetti piastrinici comportano un rischio emorragico a volte anche grave. I difetti funzionali emorragici più importanti sono la sindrome di Bernard-Soulier, la tromboastenia di Glanzman, i difetti di secrezione, i difetti del contenuto dei granuli citoplasmatici e la malattia di von Willebrand. Quest’ultima, dovuta più che a un difetto piastrinico, al difetto della proteina adesiva, fattore di von Willebrand, senza la quale le piastrine sono di fatto funzionalmente inattive.
A seguito dell’adesione al sotto-endotelio, le piastrine tendono ad aggregare le une alle altre, formando il primo tappo emostatico, ancora incapace di arrestare l’emorragia. Il processo di aggregazione è regolato dalla presenza di specifici recettori sulla membrana piastrinica attivata e da alcune proteine adesive (fattore di von Willebrand e fibrinogeno).
Le piastrine attivate subiscono un cambiamento conformazionale, che porta alla secrezione di alcuni agenti (ADP e Trombossano), contenuti all’interno dei loro granuli citoplasmatici e che possiedono proprietà pro-aggregante.
KEY POINTS Adesione delle piastrine al sotto-endotelio
Aggregazione fra piastrine contigue
Azione procoagulante delle piastrine
Piastrinopenie: ridotto numero
3.1 - ADESIONE
3.3 - CAMBIAMENTO DI FORMA
Le piastrine attivate sono in grado di esprimere attività procoagulante mediante l’esposizione sulla loro superfice di fosfolipidi a carica negativa (fosfatidilserina), che fungono da recettori per i fattori della coagulazione. A seguito di questa esposizione, i fattori plasmatici della coagulazione, sono assemblati sulla superfice piastrinica nel luogo della lesione, producendo trombina e quindi fibrina.
3.4 - ATTIVITÀ PROCOAGULANTE
3 - LE PIASTRINE
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I fattori della coagulazione a funzione procoagulante, circolano nel plasma in forma inattiva (zimogeni) e sono attivati mediante un meccanismo complesso, che porta ad una trasformazione a cascata, fino a giungere alla generazione della trombina e conseguente trasformazione del fibrinogeno (solubile) in fibrina (insolubile). L’attivazione dei fattori avviene mediante proteolisi limitata, a seguito della quale una piccola porzione della molecola dello zimogeno viene eliminata. La parte restante della molecola acquista proprietà enzimatiche. La moderna teoria della coagulazione (Figura 1) non considera più la distinzione fra via estrinseca e via intrinseca e assegna al complesso fra il fattore (F) VII plasmatico e il fattore tissutale (TF) un ruolo chiave nel determinismo della coagulazione. Il TF è
normalmente presente nella membrane di molte cellule e tessuti, ma è nascosto quando il tessuto è integro. In occasione di una lesione tissutale o di un evento patologico, il TF si mostra al circolo e il FVII plasmatico, che è parzialmente attivato (FVIIa), lo riconosce legandolo. Il complesso che ne deriva, porta ad una massiccia attivazione del FVII e ad ulteriore formazione del complesso.
4.1 - FATTORI PROCOAGULANTI
I fattori della coagulazione sono glicoproteine a struttura più o meno complessa (quasi tutti) sintetizzati nel fegato. Alcuni di essi, subito dopo la sintesi subiscono un processo che comporta l’aggiunta di uno o più carbossili alla molecola nativa. La carbossilazione è mediata da un apposito enzima (carbossilasi), che richiede come co-fattore la vitamina K. In carenza di vitamina K, i fattori che da essa dipendono, sono ipocarbossilati e scarsamente funzionanti dal punto di vista coagulatorio. L’ipocarbossilazione dei fattori vitamina K dipendenti è la conseguenza di una genuina carenza di vitamina K (carenza nutrizionale o mancato assorbimento a livello intestinale), oppure dell’azione di farmaci anti-vitamina K (Coumadin, Sintrom, altri), che proprio per questa loro proprietà antagonizzante la vitamina K, sono usati come farmaci orali per prevenire/trattare le occlusioni vascolari (trombosi).
KEY POINTS Formazione del complesso FVIIa-TF a seguito della lesione vascolare
Attivazione a cascata dei fattori X e IX, con produzione di tracce di trombina
Attivazione da parte della trombina dei fattori XI, VIII e V con formazione massiva di trombina.
Principali difetti congeniti della coagulazione: emofilia A (ca- renza di FVIII), emofilia B (carenza di FIX)
Principali difetti acquisiti della coagulazione: coagulazione intravascolare disseminata (CID)
Conversione del fibrinogeno in fibrina da parte della trombina
Stabilizzazione della fibrina da parte del FXIIIa
4 - COAGULAZIONE
Figura 1 Schema della cascata coagulatoria. I fattori di contatto rappresentati in alto nello schema (Pre-Kal, FXII e HMWK) non hanno un ruolo importante nell’emostasi in vivo. I pazienti carenti di uno di questi fattori non sanguinano neanche a seguito di intervento chirurgico o trauma.
Il complesso FVIIa-TF inizia una serie di attivazioni proteolitiche, che riguardano altri fattori della coagulazione. Il primo ad essere attivato è il FX, che viene convertito in FXa. Il FXa, a sua volta, converte il FII (detto anche protrombina) in trombina (o FIIa).
Per questa conversione è necessario il FVa, le membrane delle piastrine, che espongono fosfatidilserina (v. sopra) e gli ioni calcio del plasma. La trombina, converte il fibrinogeno in fibrina. Quest’ultima è un polimero formato da diversi monomeri (risultato dell’azione proteolitica della trombina sul fibrinogeno). La fibrina è infine stabilizzata dall’azione del FXIIIa, che trasforma i legami elettrostatici (deboli) fra i monomeri di fibrina in legami covalenti (stabili). Il complesso FVIIa-TF, oltre che attivare direttamente il FX, è anche capace di convertire il FIX in FIXa, il quale agisce anch’esso sul FX, amplificando la sua attivazione, già operata dal complesso FVIIa- FT. In questa sua azione il FIXa necessita del FVIIIa, che funge da co-fattore, unitamente alla fosfatidilserina della membrana piastrinica e del calcio. Un altro fattore di interesse è il FXIa, capace anch’esso di attivare il FIX. Il meccanismo di attivazione del FX, mediato dal FIXa è da intendersi come un potenziamento dell’attivazione del FX, che evidentemente, ha nel processo coagulatorio un ruolo di fondamentale importanza. Secondo il vecchio schema della coagulazione, oramai superato, il FXI è attivato dal complesso dei cosiddetti fattori di contatto, che comprendono il FXII, la pre-callicreina (Pre-Kal) e il chininogeno ad alto peso molecolare (HMWK). Questi fattori portano alla generazione del FXIIa, che a sua volta contribuisce all’attivazione del FXI. Tuttavia, il meccanismo di contatto della coagulazione non sembra avere un ruolo importante nel processo coagulatorio in vivo, se si considera che i pazienti con una carenza (anche totale) di FXII, Pre-Kal o HMWK, non sanguinano, neanche dopo intervento chirurgico o trauma. Le ricerche degli ultimi decenni,
hanno permesso di stabilire che in vivo il FXI è attivato dalla trombina, con un meccanismo di feedback positivo. La trombina è inoltre capace di attivare i cofattori VIII e V, ma anche il FXIII. In estrema sintesi il meccanismo coagulatorio può essere riassunto nelle seguenti fasi;
1. Il complesso FVIIa-TF, attraverso la formazione del FXa e del FIXa, genera una piccola quantità di trombina, ancora insufficiente per il processo emostatico 2. La trombina, attraverso un meccanismo di feedback positivo attiva il FXI, il quale innesca un meccanismo di potenziamento che, mediante il contributo del FVIIIa, delle piastrine e del calcio, porta ad una massiccia generazione di trombina. Questo risultato è ottenuto anche tramite una massiccia attivazione da parte della trombina dei due co-fattori utili al suo stesso ottenimento (FVIIIa e FVa) 3. La trombina trasforma il fibrinogeno in fibrina 4. La fibrina è stabilizzata dal FXIII
Per la funzionalità di questo complesso meccanismo è essenziale il ruolo delle piastrine (fosfatidilserina), che formano il primo tappo emostatico e localizzano il processo coagulatorio che segue. Ma è anche essenziale la presenza del complesso FVIIa-TF, degli enzimi FXIa, FIXa, della trombina e dei co-fattori FVIIIa e FVa. Infine, è essenziale il contributo del FXIIIa, per la stabilizzazione della fibrina.
In assenza di uno o più fattori della coagulazione, l’intero processo è deficitario e il soggetto portatore potrebbe essere esposto a un rischio emorragico, la cui entità dipende dal fattore carente e dalla gravità del difetto. Esistono difetti congeniti (ereditari) dei fattori della coagulazione, che espongono il portatore a grave rischio di emorragie che, se non trattate, potrebbero essere fatali. Fra questi, i più frequenti e importanti dal punto di vista clinico sono l’emofilia A (carenza di FVIII), l’emofilia B (carenza di FIX), senza però dimenticare le carenze di FXI, FX, FVII, FV, FII, fibrinogeno e FXIII, che sono più rare. Esistono anche difetti acquisiti dei fattori della coagulazione. Fra questi uno dei più importanti è la coagulopatia da consumo, altrimenti noto come coagulazione intravascolare disseminata (CID), che si può manifestare a seguito di alcune condizioni patologiche (sepsi, infezioni, patologie della gravidanza, ecc.). Se la CID non è controllata, porta all’attivazione sistemica dei fattori della coagulazione, che sono rapidamente consumati, determinando eventi clinici che possono mettere a rischio la vita del paziente.
4.2 - CONSEGUENZE DEL DIFETTO DI UNO O PIÙ FATTORI PROCOAGULANTI
La carenza congenita (ereditaria) di antitrombina, proteina C o proteina S, o la presenza del FV Leiden o mutazione del FII, espongono il soggetto portatore ad un aumentato rischio di tromboembolismo venoso. La complessa interazione fra piastrine, parete vasale e fattori procoagulanti, genera trombina. Se tutte queste forze procoagulanti agissero in maniera incontrollata, potrebbero portare a un eccesso di funzione, con generazione eccessiva di trombina e fibrina, anche in assenza di una lesione evidente della
superfice del vaso. Questo meccanismo patologico, se non adeguatamente controllato, comporterebbe la formazione di un coagulo (trombo intravascolare) che, a seguito della crescita, potrebbe diventare occludente, dando origine alla trombosi. La gravità della trombosi dipende dall’entità dell’occlusione, dal distretto e dall’organo nel quale si verifica. In generale, le trombosi si distinguono in arteriose e venose. Le trombosi arteriose sono generalmente gravi e riguardano l’infarto del miocardio (occlusione delle arterie coronariche), l’ictus cerebrale (occlusione delle
4.3 - FATTORI ANTICOAGULANTI
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arterie extra o intra-craniche) e le trombosi arteriose periferiche. Le trombosi venose sono generalmente meno gravi di quelle arteriose e riguardano le trombosi venose profonde (arti inferiori), l’embolia polmonare, le trombosi venose cerebrali e quelle del circolo splancnico. Le cause di occlusione vascolare sono le più varie. Nei trombi arteriosi sono di solito maggiormente coinvolte le piastrine e sono per lo più dovuti ad un cattivo stile di vita (sedentarietà, dieta, fumo di sigaretta, ecc.), ma anche a difetti ereditari di natura in parte sconosciuta. Nei trombi venosi è di solito maggiormente coinvolta la coagulazione e sono in genere causati da un rallentamento del circolo venoso (immobilizzazione prolungata, intervento chirurgico
recente), oppure dalla presenza, a volte occulta di una patologia neoplastica, o ancora da difetti ereditari (v. oltre). I meccanismi anticoagulanti più importanti e le loro funzioni sono schematicamente riportati nella Figura 2.
KEY POINTS L’antitrombina inibisce principalmente il FXa e la trombina. L’inibizione è fortemente accelerata in presenza di sostanze eparino-simili
La proteina C attivata, in combinazione con la proteina S, inibisce il FVIIIa e il FVa
Il TFPI (tissue factor pathway inhibitor) inibisce il complesso FVIIa-TF e il FXa
Figura 2 Schema della cascata coagulatoria con i meccanismi anticoagulanti naturali: AT, antitrombina. PC, proteina C. PS, proteina S. TFPI, tissue factor pathway inhibitor
Ciascuno dei fattori procoagulanti che operano nel plasma dispone di un meccanismo di controllo deputato a contrastarne l’azione. In sintesi:
1. L’antitrombina, inibisce molti fattori, fra i quali i più importanti sono il FXa e la trombina. Il suo meccanismo di azione si avvale delle sostanze eparino-simili, presenti sulla superfice dell’endotelio, che ne accelerano enormemente la velocità di inibizione. 2. La proteina C, a seguito dell’attivazione operata dal complesso trombina-trombomodulina sulla superfice delle cellule endoteliali, inibisce il FVIIIa e il FVa in combinazione con la proteina S. 3. Il TFPI (tissue factor pathway inhibitor) contrasta il complesso FVIIa-TF e il FXa 4. Il FV di Leiden è un fattore geneticamente mutato che è scarsamente suscettibile alla degradazione operata dalla proteina C attivata. 5. La mutazione nel gene del FII (detto anche protrombina), comporta la produzione di una quantità eccessiva di FII.
Una carenza congenita anche parziale (50% della norma) di uno fra antitrombina proteina C o proteina S, come pure la presenza della mutazione FV Leiden o del FII, possono esporre il soggetto portatore a un rischio relativamente alto di trombosi venosa (più alto per antitrombina e assai meno per FV Leiden o mutazione del FII). I difetti di cui sopra sono dovuti a mutazioni geniche, che si trasmettono da padre in figlio con tratto autosomico dominante. Per ragioni ancora da chiarire alcuni soggetti portatori delle mutazioni non sviluppano mai nel corso della loro vita la trombosi, o la sviluppano in seguito a eventi scatenanti (chirurgia, traumi, immobilizzazione, terapia con estroprogestinici, terapia ormonale sostitutiva, ecc.).
L’emostasi è un complesso di meccanismi altamente integrato a duplice funzione. In condizioni normali assicura la fluidità del sangue, impedendo l’occlusione vascolare. In seguito alla perdita di integrità del vaso o in seguito a stimoli patologici, si attiva
5 - CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA
Per approfondire l’argomento si consiglia la lettura del testo “Clinica e terapia delle malattie emorragiche e trombotiche” G. Castaman e A. Falanga, edito da Piccin, Padova (www.piccin.it).
e mediante una serie concatenata di eventi plasmatici/cellulari, porta alla formazione del tappo piastrinico prima e fibrinico poi. Il risultato finale è l’arresto dell’emorragia, se la causa dell’innesco è stata una lesione vascolare, oppure la formazione di un trombo intravascolare, se la causa dell’innesco è stata una perturbazione dello stato fisiologico del vaso, delle piastrine e/o dei fattori della coagulazione (pro- e anti-coagulanti). A seguito della perturbazione dei meccanismi emostatici possono causare malattie emorragiche o trombotiche di gravità variabile, ma anche a rischio di vita.
Modulo 2 Armando Tripodi
KEY POINTS
1 - INTRODUZIONE
Il laboratorio clinico ha un ruolo essenziale nella gestione del paziente emofilico per la diagnosi della malattia, ma anche per l’assistenza in corso di trattamento. La diagnosi dell’emofilia è clinica, ma anche di laboratorio, mediante la misura delle attività del FVIII o FIX residuo. L’assistenza in corso di trattamento prevede la misura del FVIII o FIX prima e dopo infusione del concentrato del fattore carente, per stabilirne il recupero in vivo. Inoltre, il laboratorio è utile per valutare la presenza e il titolo dell’inibitore diretto contro il FVIII o FIX. Esistono numerosi preparati di FVIII o FIX e le metodiche di laboratorio per il loro monitoraggio possono essere diverse. Storicamente l’emofilia è stata trattata mediante infusione endovena di concentrati di fattore derivati dal plasma umano normale. Successivamente i fattori da infondere sono stati ottenuti mediante la tecnica del DNA ricombinante e ancora più recentemente mediante fattori ricombinanti, modificati per estendere la loro vita media in circolo. Esistono poi concentrati attivati del complesso protrombinico (aPCC) o di FVII attivato ricombinante (rFVIIa), che si usano
Il laboratorio è necessario per la diagnosi dell’emofilia e per il monitoraggio del trattamento
per l’emofilico con inibitore ad alto titolo. Infine, sono state sviluppate di recente nuove strategie terapeutiche, che non prevedono l’infusione di concentrati del fattore mancante. Le metodiche di laboratorio che si usano possono differire a seconda del prodotto usato per il trattamento. In questo modulo descriveremo le procedure di laboratorio per il monitoraggio di ognuno di essi. Per un maggior approfondimento sulla patologia e sul trattamento, il lettore è pregato di consultare i moduli 3 e 4 di questo corso.
Modulo 2
La diagnosi di laboratorio per l’emofilia si basa sulla misura dell’attività del FVIII o FIX residuo nel plasma del paziente, lontano dal trattamento. I pazienti con valori di FVIII o FIX<1% sono definiti come gravi, mentre quelli con valori compresi fra 1 e 5% o fra 5 e 40%, sono classificati rispettivamente come moderati o lievi. Le tecniche di misura dell’attività possono essere coagulanti one-stage o cromogeniche. Nei prossimi paragrafi discuteremo ambedue i meto- di, mettendo in evidenza vantaggi, svantaggi e criticità.
I metodi di laboratorio possono essere diversi a seconda del tipo di trattamento
2 - DIAGNOSI
Il metodo coagulante one-stage si basa sul tempo di tromboplastina parziale attivato (APTT) di un plasma carente di FVIII o FIX, a seconda che si voglia misurare l’uno o l’altro dei fattori. L’APTT di questo plasma è prolungato oltre i limiti della norma. A seguito di aggiunta di una diluizione del plasma paziente, l’APTT del plasma carente viene accorciato in maniera proporzionale alla quantità di FVIII o FIX presente nel plasma paziente. Una curva di taratura, eseguita contestualmente al plasma paziente, mediante diluizioni di un pool di plasma normale (PPN), permette di calcolare l’attività del FVIII o FIX ed esprimerla come percentuale rispetto a quella del PPN. A quest’ultimo è imposta una attività pari al 100% o un valore corrispondente, a seguito della sua calibrazione contro uno standard di riferimento. Oltre che in percento di attività, internazionale
di riferimento. Oltre che in percento di attività, il risultato può essere espresso in unità internazionali (UI). Una UI, corrisponde all’attività di FVIII o FIX presente in un 1 mL di plasma normale. Uno schema del metodo coagulante one- stage è riportato in Figura 1.
Il vantaggio principale di questo metodo è la relativa semplicità di esecuzione su comuni coagulometri. Lo svantaggio più importante è la necessità di disporre di un plasma carente del fattore da misurare. Inoltre, il risultato può variare a seconda del tipo di plasma carente
2.1 - METODO COAGULANTE ONE-STAGE
Phospholipids Contact activators
(Kaolin, silica, ellagic,acid)
Ca++
Figura 1 Schema generale del metodo per la misura dell’attività del FVIII con metodo coagulante one-stage. Lo stesso schema è valido per la misura del FIX, sostituendo il plasma carente di FVIII con il carente di FIX.
Stage I To generate FXa
Stage II Determination of FXa
Absorbance reading
Citrated diluted test plasma
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e/o dalla composizione dell’APTT commerciale usato per la misura. Queste variabili rendono problematico il paragone dei risultati ottenuti in laboratori diversi. I coagulometri di ultima generazione sono in grado di eseguire il test, ivi inclusa la costruzione della curva di taratura con diverse diluizioni del PPN in maniera automatizzata. Molte delle metodiche installate sui coagulometri prevedono, però, una sola diluizione del plasma paziente. È consigliabile misurare l’attività del fattore almeno a due diverse diluizioni ed esprimere il risultato finale come la media dei due. Questo approccio consente per altro di verificare che non vi siano sostanze interferenti con la misura (presenza di anticoagulanti circolanti), che fanno deviare in maniera considerevole i valori ottenuti con le due misure individuali.
Il metodo cromogenico è basato sulla generazione del FXa, a partire da una miscela composta da una diluizione del plasma paziente e da un eccesso di tutti i fattori, escluso quello che si intende misurare. Nel primo stadio della reazione si genera il FXa, in funzione dell’attività del FVIII o FIX presente nel plasma paziente. Nel secondo stadio il FXa è misurato mediante un substrato cromogenico specifico. Il substrato è un piccolo peptide sintetico, formato da una sequenza amminoacidica riconosciuta dal FXa. All’estremità del peptide, è legata una molecola cromofora (para- nitro-anilina, pNA), incolore nel substrato intatto, ma che si colora in giallo a seguito della modifica indotta dal FXa. La quantità di pNA, misurata con tecnica fotometrica, è funzione dell’attività del FXa, che è a sua volta funzione dell’attività del FVIII o FIX presente nel plasma paziente. Uno schema del metodo cromogenico è riportato nella Figura 2. Il risultato finale è espres-
so in percento di attività (o unita internazionali) rispetto al PPN, usato come standard di riferimento ed eseguito a diverse diluizioni in paral-lelo al plasma paziente. Il metodo cromogenico non necessita di plasma carente, ma la composizione della miscela reagente, comprendente diversi fattori esogeni al plasma da misurare e che possono essere di varia origine (umana o bovina), può influenzare in maniera significativa il risultato finale.
2.2 - METODO CROMOGENICO
Figura 2 Schema generale del metodo per la misura dell’attività del FVIII con metodo cromogenico. Lo stesso schema è valido per la misura del FIX, con piccole modifiche nei reagenti.
2.3 - PARAGONE FRA METODO COAGULANTE ONE-STAGE E METODO CROMOGENICO
Per quanto concerne la diagnosi, sono state riportate discrepanze fra i valori ottenuti con metodo coagulante one-stage rispetto al cromogenico, soprattutto in taluni pazienti classificati come moderati o lievi (Figura 3).
FVIII (%)
Patients
0
10
13579 11 13 15 17 19 21 23 25 27 29 31 33 35 37 39 41
20
30
40
50
60
70
80
90
Ch-bovine
OS-Clot
Figura 3 Paragone fra la misura del fattore VIII (FVIII) con metodo one-stage clotting (barra viola) vs cromogenico con reagenti di origine bovina (barra azzurra) in pazienti con emofilia lieve/moderata. In quasi tutti i pazienti il FVIII one- stage è sovrastimato rispetto a quello cromogenico.
Discrepanze sono state osservate anche nella diagnosi di taluni pazienti quando la misura è eseguita con metodi coagulanti one-stage, che utilizzano APTT commerciali diversi fra loro, per composizione e anche fra metodi cromogenici con reagenti bovini rispetto a quelli umani (Figura 4).
Tali discrepanze sono difficili da spiegare e ancora più difficili da risolvere. È probabile che l’attività funzionale misurata dipenda dalla mutazione genica che la determina e si assume che le due classi metodologiche possano essere variabilmente influenzate dalle mutazioni descritte nei pazienti con emofilia. Un’ulteriore spiegazione
Figura 4 Paragone fra la misura del fattore VIII (FVIII) con metodo one-stage clotting (barra verde) vs cromogenico con due reagenti di origine bovina (barra fucsia e gialla) o umana (barra azzurra).
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
potrebbe essere il fatto che i metodi a disposizione presentino sensibilità variabili nel misurare livelli relativamente bassi dei fattori in questione, quali quelli dell’emofilico lieve o moderato. Il problema delle discrepanze fra metodi permane, nonostante i progressi fatti negli ultimi anni e riguarda, come vedremo più avanti, non solo la diagnosi, ma anche il monitoraggio del trattamento dell’emofilia. Per una migliore classificazione del paziente si raccomanda di usare entrambi i metodi coagulanti one-stage e cromogenico. Anche se questo approccio non risolve il problema, serve a identificare le differenze. Nella valutazione dei risultati, oltre alle differenze intrinseche ai metodi (one-stage e cromogenico), difficilmente superabili, bisogna anche considerare che spesso si aggiungono ulteriori differenze, dovute alla variabilità analitica della misura (piuttosto alta per i singoli fattori), alla quale concorrono il lotto del reagente usato e la tecnica di esecuzione impiegata. In generale, è sempre consigliabile dotarsi di lotti di reagente sufficienti per un tempo relativamente lungo ed eseguire controlli di qualità interni e esterni, che sono strumenti essenziali per valutare la performance del laboratorio.
Il 20-30% degli emofilici (specialmente quelli gravi) sviluppano auto-anticorpi neutralizzanti contro il FVIII o FIX (inibitori). Per decidere il tipo e l’entità del trattamento è di fondamentale importanza conoscere il titolo dell’inibitore. I metodi di laboratorio sono basati su un principio relativamente semplice, che prevede l’allestimento di una miscela di plasma paziente (fonte dell’inibitore) e di plasma normale (fonte di FVIII o FIX). A seguito di una incubazione a 37°C per due ore, il FVIII del plasma normale sarà neutralizzato dall’inibitore, eventualmente presente nel plasma paziente e la quantità residua sarà poi misurata con metodo coagulante one-stage o cromogenico. Nel metodo standardizzato denominato Bethesda e successiva modifica secondo Nijmegen, una unità di inibitore è definita come la quantità capace di neutralizzare, nelle condizioni sperimentali della procedura, il 50% del FVIII. Lo schema riassuntivo della procedura è riportato in Figura 5.
KEY POINTS Una percentuale non trascurabile di pazienti emofilici sviluppa l’inibitore contro il fattore mancante
È essenziale conoscere il titolo dell’inibitore per decidere il tipo e l’intensità del trattamento
Il metodo di scelta è il metodo Bethesda
3 - MISURA DELL’INIBITORE
Figura 5 Schema generale del metodo per la titolazione dell’inibitore contro il FVIII/IX secondo il metodo Bethesda- Nijmegen
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4 - MONITORAGGIO DEL TRATTAMENTO
In generale per il monitoraggio terapeutico, il laboratorio esegue una misura dell’attività del fattore prima e dopo infusione. Quest’ultima misura può essere richiesta a diversi tempi dopo l’infusione, nel caso si voglia studiare la cinetica di comparsa/scomparsa dal circolo del fattore infuso. In questo contesto bisogna considerare diversi scenari, che vedono diversi agenti terapeutici. Nei prossimi paragrafi descriveremo le diverse situazioni e le loro criticità.
KEY POINTS I trattamenti con concentrati dei fattori mancanti (derivati dal plasma umano, ricombinanti o ricombinanti a lunga emivita) si avvalgono del monitoraggio con misure coagulanti one-stage o cromogeniche
Con taluni concentrati sono state registrate differenze, a volte sostanziali, fra metodi coagulanti e cromogenici, ma anche fra metodi coagulanti che usano reagenti a diversa composizione
I trattamenti con agenti bypassanti si avvalgono di misure globali della coagulazione (generazione della trombina o tromboelastometria)
I farmaci innovativi, non basati sulla terapia sostitutiva, si avvalgono di metodi coagulanti o cromogenici modificati, in combinazione con plasma calibrante a titolo noto per esprime- re la concentrazione del farmaco (µg/mL)
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È il caso più semplice, anche se quello meno frequente, perché allo stato attuale molti dei concentrati del commercio sono oramai ricombinanti modificati. I metodi di elezione in questi casi sono il coagulante one-stage o il cromogenico e le differenze che si possono prevedere fra le due metodiche sono in genere molto modeste. In questo caso il fattore che si intende misurare (FVIII o FIX) è uguale per le sue caratteristiche strutturali a quello contenuto nel PPN, che si usa come standard (sono entrambi fattori nativi umani), salvo che per la diversa attività funzionale. Questa identità strutturale comporta che il metodo biologico usato per la misura, li riconosce alla stessa maniera e, quindi, i risultati sono generalmente uguali qualunque sia il metodo, purché si usi lo stesso standard.
4.1 - MONITORAGGIO DEI CONCENTRATI DERIVATI DAL PLASMA UMANO NORMALE
In questo caso i due fattori messi a confronto potrebbero essere dissimili. Molto spesso il fattore ricombinante possiede caratteristiche strutturali abbastanza diverse da quello umano contenuto nel PPN. In questi casi, discrepanze fra metodi sono più probabili, ma si verificano in maniera non prevedibile, a meno di una precedente esperienza con quel particolare prodotto. L’esempio tipico è quello di un FVIII ricombinante modificato, il moroctocog alfa. Per questo fattore sono state riportate in post-infusione discrepanze fra le attività misurate con metodo coagulante one-stage rispetto al cromogenico. Tali differenze sono quasi completamente abolite, se la misura è effettuata, utilizzando come standard non il PPN, bensì una aliquota dello stesso prodotto a titolo noto. Sembrerebbe, quindi, che un buon sistema per risolvere le discrepanze fra metodi nella misura dei fattori in post-infusione, possa essere l’adozione di uno standard specifico per ogni prodotto. Taluni pensano che questa possa essere la soluzione pragmatica anche per le discrepanze che descriveremo per altri fattori (v. oltre), ma l’applicazione pratica ad oggi non c’è. Le ragioni sono molteplici. I clinici sono molto legati all’idea di un plasma umano normale come standard di riferimento (il PPN) e sono riluttanti a modificare il loro atteggiamento. In secondo luogo, l’adozione dello standard specifico per ogni prodotto, generebbe una pletora di standard, tanti quanti sono i concentrati in commercio e questo potrebbe generare confusione, a meno che il clinico non indichi espressamente al laboratorio quale è il concentrato che ha usato per l’infusione. La scarsa comunicazione, oramai imperante in un’epoca di centralizzazione dei servizi di laboratorio, fra clinico e laboratorio, potrebbe rendere tutto più difficile, anche se non impossibile. Infine, un ruolo considerevole in questo tipo di standardizzazione è giocato dalle industrie farmaceutiche e dalle autorità regolatorie. Ogni concentrato in commercio riporta in etichetta la potenza di quel fattore, espressa in termini di attività. Tale potenza è determinata, secondo regole condivise, dall’azienda che produce e commercializza il concentrato. I metodi che normalmente si usano per stabilire il titolo sono il coagulante one-stage, secondo la farmacopea Nord Americana o il cromogenico, secondo quella Europea. Va da sé che fino a quando le due farmacopee, non troveranno un accordo, sarà difficile proporre una soluzione per ricomporre o minimizzare le discrepanze fra metodi che si osservano nelle misure post-infusione.
4.2 - MONITORAGGIO DEI CONCENTRATI RICOMBINANTI
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I fattori VIII e IX nativi hanno in circolo una emivita relativamente breve (8-12h per il FVIII e 18-24h per il FIX). Questo comporta che i pazienti si debbano sottoporre a infusioni piuttosto frequenti per mantenere in vivo livelli adeguati di fattore. Per risolvere questo problema sono stati sviluppati negli ultimi anni concentrati di FVIII o FIX modificati opportunamente per prolungare la loro permanenza in circolo. Una modalità usata per queste modifiche è descritta nell’apposito modulo di questo corso. Per quanto riguarda il monitoraggio di laboratorio post-infusione di questi fattori, valgono i concetti e le criticità già discusse per gli agenti ricombinanti. Anche in questo caso si possono prevedere discrepanze fra metodi, sia nell’ambito di quelli one- stage, che impiegano APTT commerciali a diversa composizione, sia nell’ ambito dei cromogenici (con reagenti umani o bovini), ma anche fra metodi coagulanti one-stage rispetto ai cromogenici. Alcuni esempi valgono a illustrare la complessità della situazione. Per il FIX N9-GP, fattore a lunga emivita e non ancora in commercio, sono state riportate discrepanze fra il metodo coagulante one-stage, a seconda che si usino APTT che contengano silice o acido ellagico come attivatore. I primi sovrastimano l’attività di questo fattore rispetto ai secondi. D’altro canto, i metodi con acido ellagico, danno risultati paragonabili a quelli ottenuti con il metodo cromogenico. La spiegazione di questo comportamento peculiare risiede nel fatto che l’N9-GP, a differenza di quanto accade al FIX del PPN, usato come standard per il confronto, si lega alla silice e viene per questo super-attivato, generando quindi una attività in eccesso rispetto a quella del PPN. Questo tipo di super attivazione non avviene con il metodo coagulante one-stage che impiega acido ellagico o con il metodo cromogenico. La conseguenza è che per monitorare adeguatamente l’N9-GP è meglio usare il metodo cromogenico, o il metodo coagulante one-stage, purché l’attivatore sia l’acido ellagico. Un altro esempio caratteristico, riportato in letteratura è lonoctocog alfa, FVIII a lunga emivita. Con questo fattore i valori misurati con il metodo coagulante one-stage sono di circa due volte inferiori rispetto a quelli prodotti dal metodo cromogenico. Per questo fattore le autorità regolatorie hanno accettato di far riportare in scheda tecnica come sia indifferente usare il metodo cromogenico o coagulante, a condizione che i risultati di quest’ultimo siano moltiplicati per 2, per compensare le differenze. Taluni autori hanno, però, sollevato dubbi sul fatto che un unico fattore di conversione possa essere valido per tutti i reagenti aPTT del commercio. Efmoroctocog alfa, un FVIII a lunga emivita, non sembra presentare discrepanze rilevanti fra i risultati prodotti da diversi metodi coagulanti, tra il one-stage e il metodo cromogenico, come riportato anche in scheda tecnica. Eftrenonacog alfa, un prodotto a lunga emivita per il FIX, ha presentato in un recente studio discrepanze fra metodi coagulanti one-stage a causa del tipo di reagente aPTT o a causa dello standard di riferimento utilizzato nel test; si è visto, inoltre, che misurazioni effettuate con un reagente aPTT a base di caolino possono portare a una sottostima del livello di attività. Il metodo cromogenico ha dimostrato recuperi in vitro accettabili, ma il numero di partecipanti allo studio, che usavano questo metodo, erano troppo pochi per consentire conclusioni definitive. Per altri fattori in commercio, sono state osservate differenze fra metodi, ma i dati in letteratura non sono univoci, perché per taluni prodotti gli studi sono insufficienti e a volte il disegno non è idoneo a ricavare informazioni applicabili alla pratica. È evidente, tuttavia, che la scelta del metodo è spesso dettata dal fattore che si usa per l’infusione. Nei casi dubbi e in linea generale è consigliabile usare il metodo di monitoraggio impiegato dal produttore per assegnare la potenza del fattore in uso.
4.3 - MONITORAGGIO DEI CONCENTRATI A LUNGA EMIVITA
Circa il 20-30% degli emofilici sviluppano auto-anticorpi neutralizzanti (inibitori) diretti contro il FVIII o FIX. In questi pazienti, soprattutto nei casi in cui il titolo dell’inibitore è molto elevato, la terapia sostitutiva con il fattore mancante non è efficace, perché il fattore infuso sarebbe rapidamente distrutto dall’inibitore. Questi pazienti si giovano di una terapia alternativa con i cosiddetti agenti bypassanti, a base di aPCC o rFVIIa. L’aPCC è una miscela di fattori del complesso protrombinico (FVII, FII, FIX e FX) e il rFVIIa è un concentrato di FVII attivato ricombinante. Questi concentrati potenziano la coagulazione con meccanismo parzialmente indipendente dai fattori emofilici e sono efficaci nel trattamento dei pazienti con inibitore. Per gli agenti bypassanti la misura post-infusione del FVIII o FIX non è utile per valutare il recupero in vivo. D’altro canto, la misura dei singoli componenti dell’aPCC o la misura del recupero del rFVIIa in vivo non è praticabile. Nel caso di aPCC non è pensabile misurare singolarmente i quattro fattori infusi e nel caso del rFVIIa non esistono metodi efficaci e registrati per questo scopo. L’alternativa è la misura con test capaci di valutare la coagulazione globale, che si ottiene a seguito dell’infusione. Le procedure per la misura della generazione della trombina su plasma o la tromboelastometria su sangue intero, sono metodiche adeguate allo scopo, secondo i dati della letteratura, ma non ancora definitivamente validate o registrate dalle autorità regolatorie per questo scopo.
4.4 - MONITORAGGIO DEGLI AGENTI BYPASSANTI
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
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4.5 - MONITORAGGIO DELLE TERAPIE INNOVATIVE NON SOSTITUTIVE
Il trattamento tradizionale dell’emofilico mediante concentrati del fattore mancante o mediante agenti bypassanti, ha costituito un progresso formidabile negli ultimi 50 anni per il paziente emofilico. Tuttavia, la necessità di infusioni endovena ravvicinate nel tempo e la difficoltà degli accessi venosi, specie nei pazienti in età pediatrica, hanno portato allo sviluppo di farmaci innovativi, con notevoli vantaggi. Questi prodotti non si basano sull’infusione del fattore mancante e sono pertanto più sicuri per la trasmissione di malattie infettive. Possono essere somministrati sottocute, risparmiando gli accessi venosi e hanno una emivita relativamente lunga, se paragonata ai concentrati tradizionali. Fra i farmaci innovativi già a disposizione o che lo saranno a breve, ricordiamo emicizumab, fitusiran e concizumab. Emicizumab (non ancora in commercio) è un mimetico del FVIII. È un anticorpo monoclonale bi-specifico che lega il FIXa e il FX, rendendo possibile l’attivazione del secondo mediata dal primo e tutto questo in assenza di FVIIIa, che è il co-fattore naturale. Fitusiran (ancora in fase di studio), interferisce a livello genico sull’espressione dell’antitrombina, riducendo di fatto la sua concentrazione plasmatica. L’alterazione fra bilancio pro- e anti-coagulante, che si genera, consente alle scarse possibilità procoagulanti dell’emofilico di operare in maniera adeguata per generare trombina. Infine, concizumab (ancora in fase di studio), è un anticorpo monoclonale diretto contro il TFPI (tissue factor pathway inhibitor), che riducendo l’attività di questo importante anticoagulante naturale, ripristina la forza procoagulante dell’emofilico, con meccanismo analogo a quello di fitusiran. Il prossimo paragrafo è dedicato alla illustrazione dei metodi per il loro monitoraggio di laboratorio, con particolare riferimento a emicizumab, per il quale ci sono più dati in letteratura. Emicizumab. Al momento, non esistono evidenze per ritenere che emicizumab necessiti di un aggiustamento posologico sulla base del test di laboratorio. Tuttavia, è prevedibile che in alcune circostanze il clinico possa giovarsi della misura sull’effetto del farmaco somministrato. In teoria esistono varie possibilità: (a) La misura dell’attività surrogata di FVIII mediante metodi tradizionali coagulanti one-stage o cromogenici; questa misura è, però, scarsamente utile perché i livelli di attività surrogata di FVIII che si ottengono sono elevati (>150%) anche a concentrazioni relativamente basse e inferiori a quelle che si registrano in vivo in corso di trattamento standard. Analogo è il comportamento dell’APTT, che si accorcia, normalizzandosi, anche a concentrazioni relativamente basse di emicizumab. (b) La misura della concentrazione plasmatica di emicizumab, mediante metodi coagulanti one-stage o cromogenici, opportunamente modificati per ridurre la loro responsività all’azione del farmaco. Questi metodi possono essere usati in combinazione con un plasma calibratore a concentrazione nota e certificata di emicizumab. I risultati del test sono espressi in µg/mL. Se si usa il metodo cromogenico, è necessario accertarsi che i reagenti siano di origine umana. I metodi cromogenici che adottano reagenti di origine bovina sono completamente insensibili all’effetto di emicizumab. Negli studi di registrazione alcuni pazienti con inibitore contro il FVIII che erano in profilassi con emicizumab hanno occasionalmente avuto sanguinamenti intercorrenti o hanno avuto necessità di interventi chirurgici o manovre invasive. In questi casi la sola profilassi con emicizumab non è stata sufficiente a trattare o prevenire i sanguinamenti ed è stato necessario il trattamento concomitante con agenti bypassanti tradizionali (aPCC o rFVIIa). In tali casi, per decidere la migliore strategia di trattamento, il clinico avrà necessità di conoscere il titolo dell’inibitore contro il FVIII. Il metodo tradizionale Bethesda in questa situazione non è eseguibile, perché emicizumab interferisce con la titolazione dell’inibitore, sovrastimando l’attività del FVIII residuo. L’alternativa è un metodo modificato che impieghi substrati cromogenici, ma con reagenti bovini. Questi ultimi, come precedentemente ricordato, non sono sensibili a emicizumab (Tabella 1).
1 Nei casi in cui il paziente in emicizumab deve essere trattato con agenti bypassanti tradizionali. 2 Nei casi in cui il paziente in emicizumab deve essere trattato con concentrati di FVIII
Tabella 1 Metodi per la misura dell’effetto di emicizumabMetodo coagulante modificato (e calibratori emicizumab)
Metodo cromogenico modificato con reagenti di origine umana (e calibratori emicizumab)
Metodo cromogenico con reagenti di origine bovina
Metodo cromogenico con reagenti di origine bovina
Misura della concentrazione plasmatica di emicizumab
Misura della concentrazione plasmatica di emicizumab
Misura del titolo di inibitore contro il FVIII1
Misura del FVIII2
TEST USO
È, inoltre, importante ricordare che emicizumab interferisce con tutti i metodi coagulanti che sfruttano la via intrinseca della coagulazione (Tabella 2). Si possono pertanto verificare delle interferenze, che rendono complicata l’interpretazione dei test in presenza del farmaco. Ad esempio, il tempo di coagulazione attivato (ACT) è accorciato. L’attività anticoagulante delle proteine
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Tabella 2. Effetti di emicizumab sui principali test dell’emostasi
C e S potrebbero essere sottostimate. Sono anche possibili falsi positivi per la resistenza alla proteina C attivata, quando misurata con metodi derivati dall’APTT.
Tempo di tromboplastina parziale attivato (APTT)
Tempo di protrombina (PT)
Proteina S (attività anticoagulante)1
Proteina C (attività anticoagulante)2
Si normalizza a concentrazioni relativamente basse di farmaco
Modestamente prolungato
Possibile sottostima
Possibile sottostima
1La concentrazione antigenica non è influenzata 2La concentrazione antigenica e la misura dell’attività con metodo cromogenico non sono influenzate
3Quando si usano metodi derivati dall’APTT 4Nessuna influenza per la ricerca della mutazione FV Leiden su DNA
La diagnosi e il monitoraggio terapeutico dell’emofilia necessitano del supporto del laboratorio. I metodi comunemente usati per la misura dei FVIII/FIX sono coagulanti one-stage o cromogenici. Molto spesso sono state registrate differenze fra i risultati dei due metodi per la diagnosi e/o il trattamento. Le differenze sembrano dipendere dalle caratteristiche dei fattori usati per l’infusione e non sono facili da risolvere. In generale, è consigliabile impiegare metodi (coagulanti one-stage o cromogenici) in base al concentrato usato per l’infusione, attingendo a precedenti esperienze personali, ai dati della letteratura e/o alle informazioni contenute nelle schede tecniche. Gli agenti bypassanti, richiedono per il loro monitoraggio metodiche globali (generazione della trombina o tromboelastometria), non ancora registrati per questo uso. Infine, i nuovi farmaci, non basati sull’infusione del fattore mancante, possono essere monitorati, là dove necessario, misurandone la concentrazione plasmatica, mediante metodiche modificate a partire da quelle coagulanti o cromogeniche.
Fitusiran e concizumab. Per fitusiran e concizumab non esistono ancora informazioni dettagliate e si possono fare solo delle supposizioni. Se dovesse essere necessaria una misura del loro effetto, i test candidati potrebbero essere quelli con disegno globale, quali la generazione della trombina e/o la tromboelastografia. Inoltre, è ipotizzabile che per entrambi, possa essere utile, in corso di trattamento, misurare l’antitrombina o il TFPI, rispettivamente, visto che questi farmaci hanno come target i rispettivi anticoagulanti naturali.
5 - CONCLUSIONI
1. Tripodi A, Chantarangkul V, Novembrino C, Peyvandi F. Advances in the treatment of hemophilia: Implications for laboratory testing. Clin Chem 2018 In press. 2. Sommer JM, Moore N, McGuffie-Valentine B, Bardan S, Buyue Y, Kamphaus GD,Konkle BA, Pierce GF. Comparative field study evaluating the activity of recombinant factor VIII Fc fusion protein in plasma samples at clinical haemostasis laboratories. Haemophilia 2014;20:294-300. 3. Sommer JM, Buyue Y, Bardan S, Peters RT, Jiang H, Kamphaus GD, Gray E, Pierce GF. Comparative field study: impact of laboratory assay variability on the assessment of recombinant factor IX Fc fusion protein (rFIXFc) activity. Thromb Haemost 2014;112:932-40. 4. Kitchen S, Tiefenbacher S, Gosselin R. Factor Activity Assays for Monitoring Extended Half-Life FVIII and Factor IX Replacement Therapies. Semin Thromb Hemost 2017;43:331-337. 5. Tran HT, Sørensen B, Bjørnsen S, Pripp AH, Tjønnfjord GE, Andre Holme P. Monitoring bypassing agent therapy - a prospective crossover study comparing thromboelastometry and thrombin generation assay. Haemophilia 2015;21:275-83. 6. Tripodi A. Thrombin Generation Assay and Its Application in the Clinical Laboratory. Clin Chem 2016;62:699-707.
BIBLIOGRAFIA
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Berardino Pollio
LA TECNOLOGIA FC NELLA PRATICA CLINICA E NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
Modulo 3
L’emofilia A (deficit di fattore VIII) e B (deficit di fattore IX) sono disordini ereditari della coagulazione con una prevalenza di un caso su 5000 e 1 caso su 20.000 abitanti. Sia l’emofilia A sia la forma B sono classificate, in base all’attività residua del fattore, in forme gravi (<1%), moderate (1-5%) e lievi (>5%). Il decorso clinico dell’emofilia è caratterizzato prevalentemente dalla comparsa di sanguinamenti articolari (emartri) ed ematomi muscolari, ma anche da emorragie intracraniche; potenzialmente ogni distretto dell’organismo può essere colpito. ll concetto di terapia sostitutiva per ripristinare i fattori carenti era già la base dei tentativi di terapia con sangue intero eseguiti da Lane nel 1840. Judith Graham Pool nel 1950 scoprì che i crioprecipitati di plasma erano particolarmente ricchi di fattore VIII e fattore vonWillebrand; tale scoperta fu uno dei più significativi miglioramenti nella terapia sostitutiva dell’emofilia A. Le innovazioni nelle tecnologie di frazionamento del plasma hanno portato negli anni ‘80 alla produzione di concentrati di fattore VIII e IX altamente purificati consentendo per la prima volta soprattutto sulla base delle esperienze svedesi di Inga Marie Nilsson di cambiare il paradigma di cura dell’emofilia da trattamento “on demand” a quello di profilassi continuativa con una significativa riduzione dei sanguinamenti e un netto miglioramento dell’outcome clinico e della qualità di vita. Nel 1984 viene clonato il fattore VIII permettendo all’inizio degli anni ‘90 l’impiego dei fattori VIII sotto forma di proteine ricombinanti. Nel corso degli anni ‘90 e nei primi dieci anni del nuovo secolo i prodotti ricombinanti del fattore VIII e IX hanno avuto una serie di miglioramenti tecnologici rappresentati dalla completa assenza di proteine umane e animali contaminanti, grazie a processi sempre più severi di purificazione virale. Attualmente l’approccio terapeutico ottimale all’emofilia A e B prevede l’infusione dei concentrati di fattore sia come terapia degli episodi emorragici che come profilassi antiemorragica primaria o secondaria iniziata già nel corso dei primi anni di vita. I vantaggi della profilassi primaria o secondaria rispetto al trattamento “on demand” sono ormai ben consolidati in termini di riduzione degli episodi emorragici, protezione articolare e miglioramento della qualità della vita Negli ultimi 20 anni tecniche di clonazione molecolare e ingegnerizzazione degli anticorpi hanno consentito di realizzare molecole chimeriche come le proteine di fusione FC; ben 11 molecole hanno ricevuto dal 1989 l’approvazione per il trattamento di patologie croniche In questa trattazione verranno descritte le caratteristiche della tecnologia di fusione FC e l’impatto favorevole nella gestione dei pazienti affetti da emofilia A e B attraverso rFVIII-Fc e rFIX-Fc.
La tecnologia FC ha dato la possibilità di offrire ai pazienti affetti da emofilia A e B i fattori VIII e IX ad emivita prolungata con un incremento della stessa per il fattore VIII da 12 ore a 19 ore e per il fattore IX da 24 ore a 82 ore.
Nell’emofilia A la profilassi con concentrati standard comporta circa 150 infusioni l’anno che si riducono a circa 100 con i prodotti ad emivita prolungata. Nell’emofilia B le infusioni si riducono ancora più sensibilmente, da 108 a 54- 26 in un anno con un sensibile e oggettivo miglioramento della qualità della vita e dell’aderenza alla terapia. Per descrivere come questo risultato sia stato possibile occorre descrivere alcuni concetti fisiologici del sistema immunitario.
L’immunoglobulina G (IgG) è la classe di anticorpi più comune nei tessuti sierici e non mucosi. Questi anticorpi hanno un ruolo importante nell’immunità protettiva contro un’ampia gamma di agenti patogeni e tossine e le IgG vengono trasferite attivamente dalla madre ai figli per conferire l’immunità passiva a breve termine.
1 - INTRODUZIONE
2 - LA STRUTTURA E LA FUNZIONE DI BASE DELL’IMMUNOGLOBULINA G (IgG)
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Simile ad altri anticorpi, l’IgG ha due domini funzionali: il frammento variabile (Fab) che contiene il sito di legame per l’antigene e il frammento cristallizzabile (Fc) che è una regione costante in tutti gli anticorpi che contiene i siti d’interazione con le vie effettrici del sistema immunitario e con il recettore specifico neonatale (FcRn) (Figura 1).
Nell’uomo le immunoglobuline hanno un’emivita di circa 21 giorni. Come ipotizzato da Brambell nel 1964, tale risultato è consentito dall’interazione del frammento FC delle immunoglobuline con uno specifico recettore che le protegge dal catabolismo e consente il trasporto dell’immunità passiva dalla madre al feto.
Il FcRn è stato isolato per la prima volta nell’intestino tenue neonatale di roditori nel 1985. Sebbene sia noto come recettore Fc neonatale, non si esprime solo nei neonati, ma anche nella vita adulta. La struttura cristallina ha rivelato che il FcRn è un eterodimero costituito dalla ß2-microglobulina (12 kD) e da una subunità analoga alle molecole del complesso di MHC (major hystocompatibility Complex) classe I (48kD) (Figura 2).
Figura 1 Struttura schematica degli anticorpi
2.1 - LE DIVERSE FASI DEL PERCORSO DI RICICLO DEL RECETTORE Fc NEONATALE (FcRn) E DESCRIZIONE DI COME QUESTO PROCESSO ESTENDE L’EMIVITA DELLE IgG SIERICHE
l’intestino tenue prossimale; il prolungamento dell’emivita degli anticorpi IgG, contribuendo così a mantenere un’alta concentrazione di questa classe protettiva di anticorpi nella circolazione; il prolungamento dell’emivita dell’albumina.
Le immunoglobuline e l’albumina insieme rappresentano l’80% delle proteine plasmatiche dell’organismo umano. I lisosomi svolgono un ruolo centrale nella degradazione delle proteine e di altre macromolecole. Le proteine in circolazione sono normalmente assorbite dalle cellule endoteliali in endosomi grazie ad un processo di pinocitosi spontanea e degradate nei lisosomi. Il percorso di riciclaggio del FcRn è una via biologica che ricicla le proteine contenenti Fc sulla superficie cellulare, ritardando così la degradazione lisosomiale ed estendendo l’emivita sierica di IgG e albumina con un processo pH-dipendente. Il FcRn è espresso da cellule endoteliali e cellule immunitarie circolanti, note come monociti; queste cellule interiorizzano le IgG sieriche e l’albumina dalla circolazione attraverso endocitosi aspecifica. Il ruolo fondamentale del FcRn in questo processo è stato dimostrato sia in modelli
Le principali funzioni di FcRn sono: il trasporto di IgG dalla madre al feto attraverso la placenta e
Figura 2 Recettore Fc neonatale
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
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animali dove roditori difettivi di FcRn o di ß2-microglobulina dimostrano un’emivita plasmatica delle immunoglobuline notevolmente ridotta che in due fratelli con un deficit congenito di FcRn associato ad una sindrome ipercatabolica delle immunoglobuline che si manifesta con ipogammaglobulinemia marcata ed un’emivita plasmatica di soli 2-3 giorni. FcRn si trova in compartimenti intracellulari della maggior parte dei tipi di cellule. Il destino delle proteine plasmatiche assorbite dalle cellule è la degradazione tipicamente proteolitica nei lisosomi. Tuttavia, all’interno degli endosomi le IgG circolanti si legano specificatamente in un ambiente acido al FcRn che le protegge dalla degradazione all’interno dei lisosomi. Con un processo pH dipendente, infine, sono riciclate con FcRn alla membrana plasmatica, dove il pH fisiologico innesca il rilascio di IgG nella circolazione. Di conseguenza, le IgG sono in grado di evitare la degradazione nei compartimenti lisosomiali. Il riciclo direzionale avviene come risultato del legame pH dipendente di IgG a FcRn. È ben documentato che le IgG si legano ad alta affinità a FcRn a pH basso (<6.5) e non a pH fisiologico neutro. Le regioni di IgG che si legano a FcRn sono localizzate nella regione Fc, nei domini CH2 e CH3. (Figura 3)
Esperimenti di mutagenesi diretta sito-specifica nel frammento FC e studi di cristallografia hanno consentito d’identificare tre amminoacidi del frammento Fc (Ile 253, His 310 e His 435) che sono fondamentali nel legame con l’FcRn e svolgono un ruolo importante nella regolazione dell’emivita plasmatica di IgG. L’interazione di IgG con FcRn è rigorosamente dipendente dal pH, poiché il legame si verifica con alta affinità a pH acido (<6.5), ma
Per comprendere la funzione del recettore occorre descrivere dove l’espressione del FcRn è stata documentata. Nei ratti il recettore FcRn è espresso a livelli relativamente alti nell’intestino tenue prossimale durante le prime settimane di vita per consentire l’acquisizione dell’immunità passiva attraverso l’assorbimento di IgG materne dal latte ingerito e nel sacco vitellino per favorire il trasferimento materno di IgG durante la gestazione, mentre nella specie umana FcRn è espresso nel sinciziotrofoblasto della placenta con un ruolo essenziale nel trasporto di IgG materne da madre a bambino durante il terzo trimestre di gravidanza; l’espressione rimane relativamente elevata per tutta la vita. Fra le sedi più importanti si segnalano le cellule dell’epitelio mucoso (ad es. Polmone, intestino) rene, regato, cellule endoteliali vascolari, cellule ematopoietiche, la barriera ematoencefalica. È importante ricordare che l’espressione è principalmente intracellulare con espressione estremamente limitata sulla superficie della membrana cellulare.
non a pH neutro (da 7 a 7,4). Ciò è dovuto alla presenza dei residui di istidina altamente conservati fra le singole specie. Il gruppo imidazolo dell’istidina è protonato a pH acido e non protonato a pH neutro o fisiologico. Anche il sito idrofobico dell’aminoacido Ile 253 è coinvolto e si dimostra altamente conservato fra le varie specie (Figura 4).
Figura 4 Processazione lisosomiale delle proteine
Figura 3 La via endocellulare di processazione delle proteine legate e non legate al FcRn
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2.2 - PRINCIPI DELLA TECNOLOGIA DI FUSIONE FC E LE SUE APPLICAZIONI TERAPEUTICHE
La fusione di Fc con altre proteine usando la tecnologia ricombinante è stata descritta per la prima volta nel 1989. Le proteine di fusione Fc sono state ampiamente utilizzate nella ricerca e, più significativamente, sono diventate un importante strumento nelle terapie proteiche in virtù anche della comprovata esperienza in termini di sicurezza.
Queste proteine di fusione Fc consistono di una molecola attiva (ad esempio un recettore) collegata alla porzione Fc di IgG umane. Il costrutto terapeutico di fusione Fc può quindi legarsi all’FcRn, che, può proteggere le molecole di sintesi dalla degradazione e prolungarne l’emivita circolante. I farmaci approvati che hanno adottato la tecnologia tradizionale di fusione Fc sono utilizzati in una varietà di stati patologici, tra cui: l’artrite con etanercept, artrite reumatoide con
Data dell’approvazione
EMA FDA Farmaco
Etanercept
Alefacept
Abatacept
Rilonacept
Romiplostim
Belatacept
Aflibercept
Ziv-aflibercept
2000
NA
2007
NA
2009
2011
2012
2013
1998
2003
2005
2008
2008
2011
2011
2012
Figura 5 Esempi di farmaci con costrutto diffusione di merico del Fc
Una proteina terapeutica viene coniugata alla porzione Fc di immunoglobulina G (IgG) per creare una chimera proteica. Questo costrutto di fusione Fc può quindi legarsi al recettore Fc neonatale (FcRn), che ha la capacità di proteggere le IgG o la molecola di sintesi dalla degradazione ed estendere la sua emivita circolante.
abatacept, la degenerazione maculare con aflibercept, le patologie infiammatorie con rilonacept, la trombocitopenia autoimmune con romiplostim, il rigetto del trapianto con belatacept, la psoriasi cronica con alefacept. (Figura 5)
FC FUSION È UNA TECNOLOGIA CONSOLIDATA CHE:
VIENE UTILIZZATO IN FARMACI APPROVATI PER L’ARTRITE, LA TROMBOCITOPENIA, LA PSORIASI CRONICA, LA PROFILASSI DI RIGETTO DELL’ORGANO POST-TRAPIANTO E LA DEGENERAZIONE MACULARE
È STATO DIMOSTRATO CHE È EFFICACE A LUNGO TERMINE IN PATOLOGIE CRONICHE E ANCHE NEI PAZIENTI PEDIATRICI
La tecnologia di fusione Fc utilizzata nelle molecole terapeutiche sopra descritte utilizza due molecole effettrici unite generalmente attraverso un linker al dimero Fc. Efmoroctocog Alfa (rFVIIIFc) è un fattore VIII ricombinante senza dominio B ottenuto dalla fusione a livello genomico del gene del fattore VIII con il frammento Fc delle IgG1. rFVIIIFc è costituito da una singola molecola di FVIII privo di dominio B legata attraverso la regione carbossiterminale alla regione N-terminale di un monomeno FC che forma un legame disolfuro con un secondo monomero FC durante la sintesi e secrezione dalle cellule (HEK-293) (Figura 6).
Figura 6 rFIIIFc
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
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Il costrutto di fusione Fc che ha portato alla realizzazione di questi fattori della coagulazione ad emivita prolungata presenta una configurazione innovativa in quanto una sola singola molecola effettrice anziché due è legata alla regione Fc dimerica di IgG1. Questa configurazione presenta diversi vantaggi perché una sola molecola presenta minori problemi d’ingombro sterico e di cariche elettriche dovute alla glicosilazione. Questi vantaggi si sono tradotti in una maggiore emivita e una maggiore stabilità del costrutto di fusione. (Figura 8)
Eftrenonacog Alfa (rFIXFc) è un fattore IX ricombinante ottenuto dalla fusione col dimero Fc senza strutture linker di collegamento (Figura 7).
rVIIIFc e rFIXFc sono innovativi perché una sola molecola effettrice di fattore VIII o fattore IX è legato alla regione FC dimerica senza sequenze linker di collegamento di entrambi i fattori ed, inoltre, sono prodotti da cellule umane embrionali di rene (HEK) 293. Le cellule HEK assicurano modifiche postraduzionali prive di glicosilazioni non umane come può avvenire con linee cellulari di altri mammiferi come i roditori. La glicosilazione è una modifica critica delle proteine terapeutiche, in quanto modula la struttura quaternaria, la bioattività, la solubilità, la stabilità contro la proteolisi, l’immunogenicità e la clearance. Le cellule dell’ovaio di criceto possono produrre due N-glicani (Gal 1 - Gal 3) o l’acido sialico N-glicolilneuraminico che differiscono dai glicani umani con un potenziale aumento del rischio di immunogenicità come dimostrato dell’espressione spontanea di anticorpi contro entrambe queste strutture. (Figura 9)
Figura 8 Sintesi delle proteine della coagulazione con tecnologia di fusione del frammento cristallizzabile delle immunoglobuline
Figura 7 rFIXFc
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Un fattore con un’emivita più lungo può ridurre il “carico” del trattamento dell’emofilia e nello specifico può:
fornire una protezione prolungata dal sanguinamento; ridurre la frequenza delle infusioni endovenose per la profilassi e per la terapia “on demand”; migliorare l’aderenza grazie alla praticità del trattamento.
Gli studi preclinici hanno confermato che i fattori della coagulazione legati ad Fc mantengono inalterata l’efficacia emostatica con un’attività in vivo prolungata in modelli animali di emofilia A severa. Inoltre studi effettuati in topi difettivi del FcRn hanno inequivocabil-
4 - LE PROTEINE DI FUSIONE Fc NEL TRATTAMENTO DELL’EMOFILIA
mente dimostrato il ruolo del Fc nel prolungare l’emivita e l’attività della molecola effettrice.
Esistono diverse metodologie per prolungare l’emivita dei fattori della coagulazione come la PEGilazione, la fusione con l’albumina e la fusione col frammento FC. I fattori PEGilati in Europa presenteranno un’importante limitazione di carattere cautelativo per i bambini di età inferiore ai 12 anni di età. La tecnologia della fusione con l’albumina si è dimostrata molto valida nel prolungare l’emivita del fattore IX, ma non è fruibile per il fattore VIII. Solo la tecnologia di fusione Fc ha permesso di ottenere significativi prolungamenti dell’emivita e incrementi dell’area sotto la cura (AUC) sia nei pazienti affetti da emofilia A che nei pazienti affetti da emofilia B. Lo studio di fase I/IIa (NCT01027377) ha coinvolto 16 soggetti con emofilia A severa dimostrando un’emivita 1,6 volte superiore a quella dei prodotti standard. Il rFVIIIFc si è dimostrato ben tollerato e non ha causato insorgenza di inibitori in nessuno dei soggetti studiati né verso il fattore VIII né verso il frammento FC.
4.1 - STUDI CLINICI DEL FATTORE EFMOROCTOCOG ALFA (rFVIIIFc)
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
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Lo studio di fase III A-LONG è stato uno studio multicentrico parzialmente randomizzato che ha valutato le farmacocinetiche comparative di rFVIIIFc e rFVIII, la sicurezza, la tollerabilità e l’efficacia del rFVIIIFc in 165 pazienti precedentemente trattati, adulti e adolescenti di età maggiore di 12 anni. Questo studio prevedeva tre schemi di trattamento: profilassi individualizzata 25-65 U/Kg ogni 3-5 giorni sulla base della farmacocinetica individuale che ha coinvolto 118 pazienti; schema fisso di 65 U/kg una volta la settimana con 24 soggetti e un braccio di trattamento “on demand” 10-50/kg in 23 soggetti; endpoint primari erano l’annualized bleeding rate (ABR) che è stato pari a 1,6 nel gruppo della profilassi individualizzata; 3,6 nel gruppo della profilassi con schema fisso settimanale e 33,6 nel gruppo in trattamento episodico. Il 30% dei pazienti nel braccio di profilassi personalizzata è riuscito ad ottenere intervalli di somministrazione pari a 5 giorni. Il risultato più significativo dello studio A-LONG è che l’emivita terminale del rFVIIIFc è pari a 19 ore (1,5 volte superiore a quello del rFVIII standard di confronto) (Figura 10 e 11) e che l’87% dei sanguinamenti è stato controllato ottimamente con una sola somministrazione di rFVIIIc.
Figura 10 Parametri farmacocinetici del fattore VIII ricombinante standard rispetto a rFVIIIFc
Figura 11 Profilo farmacocinetico di un fattore VIII standard e del rFVIIIFc
Lo studio di fase III Kids A-LONG ha valutato l’efficacia e la sicurezza di rFVIIIFc in una coorte di 71 bambini di età inferiore a 12; di questi 36 avevano meno di 6 anni. Nessuno di questi PTPs pediatrici ha sviluppato inibitori; l’emivita terminale del rFVIIIc nella corte pediatrica è stata 12,7 e 14,9 ore rispettivamente nei bambini di età inferiore ai 6 anni e ai 12 anni. Alla fine dello studio il 90% dei soggetti arruolati riusciva a seguire una profilassi con due sole somministrazioni settimanali. Gli ottimi risultati dello studio A-LONG e Kids A-LONG sono stati confermati nello studio d’estensione ASPIRE che ha coinvolto 150 adulti e 61 bambini. Inoltre, è ipotizzabile che l’incremento dell’area sotto la curva comporti una minore incidenza di microsanguinamenti; questo miglioramento dovrebbe tradursi a lungo termine in un miglioramento dello stato articolare. Questa ipotesi sembra essere supportata da un’analisi post hoc del mHJHS in 47 pazienti arruolati nello
studio A-LONG e ASPIRE che sembra documentare un miglioramento della salute articolare con un follow up medio di 2,8 anni e un miglioramento di otre 4 punti nello score medio del mHJHS. L’importanza di questo lavoro consiste nel fatto che per la prima volta una profilassi antiemorragica sembra essere associata ad un miglioramento della salute articolare in soggetti con artropatia emofilica già clinicamente evidente. Con gli studi registrativi del rFVIIIFc è stato possibile studiare anche 54 procedure chirurgiche fra cui 22 chirurgie maggiori gestite con una dose mediana di 58 U/kg e una media di 1-2 infusioni al giorno con un’efficacia emostatica giudicata eccellente in oltre il 90% dei casi. Lo studio sui pazienti mai trattati (PUPs=previous untreated patients) è in corso.
Lo studio clinico di fase I-IIa ha arruolato 14 pazienti e ha dimostrato un ottimo profilo di sicurezza; lo studio di fase III B-LONG ha coinvolto 123 pazienti affetti da emofilia B tutti PTP; 61 sono stati assegnati al braccio 50 U/kg ogni 7 giorni con successivi aggiustamenti posologici basati sulla farmacocinetica in modo da mantenere il valore di fattore IX fra 1 e 3; 26 pazienti sono stati assegnati al braccio 100 U/kg ogni 10 giorni con successivi aggiustamenti posologici sulla base del profilo farmacocinetico; 27 pazienti hanno ricevuto un trattamento “on demand” 12-100 U/kg. Lo studio Kids B-LONG ha incluso 15 bambini di età inferiore a 6 anni e 15 bambini di età inferiore a 12 anni; tutti i 30 soggetti sono stati assegnati ad uno schema posologico di 50 U/kg ogni 7 giorni con successivi. L’ABR nella coorte pediatrica è stata pari a 2 e 10 pazienti non hanno presentato nessun sanguinamento. Complessivamente gli studi clinici del rFIXFc hanno coinvolto 167 pazienti; nessun paziente ha sviluppato inibitori; 116 di questi pazienti hanno proseguito l’osservazione nello studio B-YOND confermando l’ottimo profilo di sicurezza e l’efficacia clinica del rFIXFc. (Figura 12)
4.2 - STUDI CLINICI DEL FATTORE EFTRENONACOG ALFA (rFIXFc)
21
Gli studi del rFVIIIFc e rFIXFc hanno dimostrato, inoltre, che il monitoraggio di laboratorio è possibile sia con metodiche one-stage basati su metodiche simili al aPTT che con metodi cromogenici ritenuti più precisi, ma meno diffusi nei laboratori ospedalieri. Questa caratteristica rende molto versatili i prodotti di fusione e rappresenta un significativo valore aggiunto nella gestione clinica quotidiana dell’emofilia A e B.
Figura 12 L’esperienza con rFIXFc
Il volume di distribuzione di un farmaco è un parametro che misura la capacità di diffusione nei tessuti dell’organismo; il volume di distribuzione è definito dal rapporto fra la dose di un farmaco e la sua concentrazione plasmatica. Il volume di distribuzione del fattore IX è 12- 14 ed è nettamente superiore a quella del fattore VIII; questa differenza è dovuta al legame extravascolare del fattore IX con il collagene tipo IV, mentre il fattore VIII si lega notoriamente al fattore vonWillebrand. Il profilo farmacocinetico del fattore IX nell’organismo è descritto meglio con un modello tricompartimentale che vede appunto coinvolto un legame reversibile con il collagene IV della matrice extravasale; quest’ultimo è stato dimostrato in un modello in vitro. (Figura 13)
L’interazione del fattore IX col collagene IV è rilevante non solo per implicazioni farmacocinetiche, ma anche per evidenze sperimentali che indicano un ruolo emostatico dell’interazione del fattore IX col collagene IV. Uno studio in vivo condotto su primati ha dimostrato che le somministrazioni di elevate dosi di fattore IX bovino determinano la dislocazione del fattore IX endogeno dai distretti extravasali e un incremento del fattore IX endogeno plasmatico.
I dati degli studi clinici sono stati ulteriormente supportati da esperienze real world, come ad esempio l’esperienza canadese dove non solo sono stati confermati i miglioramenti in termini di riduzione del numero d’infusioni, di aderenza e di qualità di vita, ma anche una riduzione del consumo di unità di fattore pari a 20% per l’emofilia A e pari al 50%’emofilia B.
4.3 - REAL WORLD EVIDENCE
5 - DISTRIBUZIONE EXTRAVASALE DEL FATTORE IX
Figura 13 Profilo farmacocinetico del fattore VIII e del fattore IX
È stato dimostrato in modelli di topi knock per una mutazione (GLA domain: K5A) che determina una ridotta affinità del fattore IX per il collagene IV, che la compromissione dell’interazione fattore IX col collagene è associata ad un aumento della tendenza emorragica pur in presenza di livelli circolanti di fattore IX nella norma. Al contrario è stato dimostrato un aumento della funzionalità emostatica in presenza della mutazione K5R che causa un aumento di affinità del fattore IX al collagene. L’elevato volume di distribuzione del fattore IX è tipico delle proteine di fusione Fc mentre i prodotti ad emivita prolungata ottenuti con la fusione con l’albumina o tramite glicopegilazione hanno un ridotto volume distribuzione e una ridotta distribuzione extravasale. Tale dato è stato confermato da uno studio condotto da Salas su topi, che ha confrontato la diffusione extravasale del fattore IX ricombinante wild-type, il rFIXFc e il rFIX glicopegilato (GP-rFIX) marcati con l’isotopo 125. Il fattore IX standard e il rFIXFc hanno dimostrato una marcata concentrazione a livello delle articolazioni dei roditori; al contrario il fattore IX GP-rFIX è stato riscontrato nel plasma, ma non a livello articolare.
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
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Il principale effetto collaterale dell’attuale approccio terapeutico dell’emofilia è lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti; questa complicanza si verifica nel 3%-5% delle persone con emofilia B e nel 30% delle persone con emofilia A. Gli anticorpi anti-fattore VIII o anti-fattore IX determinano un aumento significativo della morbilità e della mortalità e rende inefficace la terapia sostitutiva del fattore ricombinante o derivato dal plasma, richiedendo l’uso di agenti di coagulazione bypassanti come FVIIa ricombinante e complessi protrombinici attivati. Lo standard di cura per le persone con inibitori del FVIII è l’induzione di tolleranza immunitaria (ITI) che raggiunge l’eradicazione degli anticorpi inibitori nel 70% dei casi. Sebbene il meccanismo alla base dell’induzione della tolleranza non sia completamente noto, sono stati identificati alcuni fattori associati a un aumento dello sviluppo di inibitori tra cui delezioni genetiche, storia familiare, razza/etnia, età e intensità della prima esposizione a fattori e fattori (es. plasma derivato vs ricombinante). Lo studio controllato randomizzato SIPPET ha dimostrato un’incidenza inferiore di inibitori nel PUP trattati con prodotti derivati dal plasma rispetto ai prodotti ricombinanti standard di seconda e terza generazione. Lo studio non poteva includere per motivi temporali i nuovi prodotti ricombinanti come quelli prodotti nelle linee cellulari umane o che sono stati strutturalmente modificati per emivita prolungata (coniugati Fc e fusione di albumina o polietilenglicole [PEG]). L’analisi ad interim di uno studio sull’incidenza di inibitori in pazienti con emofilia A grave mai precedentemente trattiti (PUPs), trattati con simoctocog alfa (un fattore VIII ricombinante di quarta generazione prodotto da linee cellulari) umane sembra confermare la minore incidenza di inibitori con un incidenza cumulativa di inibitori pari al 20,8% e inibitori ad alto titolo pari al 12,8. Questi risultati se confermati con la pubblicazione dello studio PUP che ha terminato l’arruolamento sembrano indicare che i prodotti ricombinanti di origine cellulare umana presentano un rischio di inibitori simile a quello dei prodotti plasma derivati studiati nel Sippet e sensibilmente inferiore rispetto ai prodotti ricombinanti di origine murina.
Il rFVIIIFc e il rFIXFc possono essere potenzialmente meno immunogenici grazie a: eliminazione di glicani non umani, in quanto prodotti da linee di cellule umane; frammento Fc che può anche agire come un agente immunomodulatore aumentando la risposta delle cellule T regolatorie.
In effetti il frammento cristallizzabile delle Ig1 presenta epitopi d’interazione con i linfociti T chiamati epitopi T-reg epitopo in grado di attivare i linfociti T regolatori CD4+CD25+Foxp3+. Modelli sperimentali su topi hanno dimostrato che rFVIIIFc evoca una minore risposta anticorpale rispetto alle proteine di fattore VIII full-lenght o B-domain deleted. Nel modello sperimentale su topo è stato dimostrato che questo effetto modulatorio è mediato dal legame Fc con il recettore FcRn o il recettore Fcγ che consente un effetto tolerogenico specifico per il fattore VIII; infatti, nei modelli sperimentali con topi mutanti, che non avevano l’interazione del Fc con i rispettivi recettori, l’effetto tolerogenico veniva perso. Un altro dato da enfatizzare è che questo effetto tolerogenico non compromette le difese immunitarie in quanto i topi hanno mantenuto una normale risposta immunitaria ad antigeni multivalenti come DNP e ovalbumina. (Figura 14)
6 - EFFETTO IMMUNOMODULANTE E TOLEROGENICO DEI COSTRUTTI MOLECOLARI Fc
6.1 - EFFETTO D’INDUZIONE DELLA TOLLERANZA IMMUNITARIA E PREVENZIONE DEGLI INIBITORI
L’effetto immunomodulatorio dei costrutti di fusione Fc deriva dall’interazione con il FcRn, ma anche con un’altra categoria di recettori Fcγ che sono localizzati sulle cellule presentanti l’antigene inclusi i macrofagi ed i linfociti B. Lo sviluppo di un inibitore deriva da una complessa interazione fra linfociti B, linfociti T e macrofagi. Questi ultimi possono presentare un fenotipo proinfiammatorio immunogeno M1 oppure un profilo antiinfiammatorio antiossidante Mox/M2; un recente studio in vitro condotto su macrofagi ottenuti da cellule mononucleate periferiche di donatori sani e pazienti emofilici senza inibitori ha dimostrato che l’interazione
Figura 14 Proteina di Fusion Fc
Sono in corso studi ad hoc per valutare l’incidenza degli inibitori nei PUP trattati con rFVIIIFc e rFIXFc.
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dei macrofagi solo con rFVIIIFc, ma non con rFVIII determina uno switch del fenotipo dei macrofagi verso un profilo immunoregolarotorio antiossidante M2.
Dal punto di vista clinico sono in corso studi che indagano l’efficacia del rFVIIIFc nell’induzione della tolleranza immunitaria. Il ruolo del costrutto molecolare Fc nell’induzione della tolleranza immunitaria inizia a dimostrare una conferma clinica nei dati pubblicati da Carcao et al sulla rapida efficacia dell’efmeroctocog alfa in 19 pazienti con inibitore: 7 sono stati sottoposti ad ITI di prima linea e 12 ad una ITI di salvataggio. In 4 dei 7 casi di ITI di prima linea la tollerizzazione è stata ottenuta in soli 7 mesi; fra i 12 casi di ITI rescue 7 hanno raggiunto la scomparsa dell’inibitore entro 4 mesi e un caso ha dimostrato una sensibile riduzione. Complessivamente questi dati dimostrano che il rFVIIIFc può avere un ruolo nell’ottenere la tolleranza immunitaria con una rapida risposta sia in ITI di prima linea che in ITI di salvataggio.
6.2 - ESPERIENZE CLINICHE DI TERAPIA D’INDUZIONE DELL’IMMUNOTOLLERANZA CON rFVIIIFc
Il FrRn è una delle poche molecole in grado di mediare un processo di transicitosi, cioè di trasporto delle molecole dalla superficiale luminale delle mucose (vie aeree e intestino) alle superficie basale. È stata già documentata in modelli sperimentali su scimmie e topi l’utilità del frammento cristallizabile per somministrare eritropoietina per via inalatoria. Sulla base della favorevolissima esperienza dell’eftrenonacog alfa è stato bioingegnetizzato un fattore IX ricombinante unito al Fc monomerico contenente la variante Padova ad elevata attività catalitica. In un modello murino tale prodotto di fusione del frammetno FC somministrato per via sottocutanea ha dimostrato un’efficacia emostatica paragonabile a quella della via endovenosa.
6.3 - RUOLO DEL FRAMMENTO CRISTALLIZZABILE PER OTTENERE VIE DI DISPENSAZIONE ALTERNATIVE DI SOMMINISTRAZIONE DEL FATTORE VIII E IX
LA GESTIONE DEL PAZIENTE EMOFILICO
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1. White GC, Rosendaal F, Aledort LM, et al. Definitions in hemophilia. Recommendation of th