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FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE Milano Tesina di Baccalaureato Non c’è guadagno! «Come non essere degli stupidi nel limite del possibile» Moderatore Candidato Professore Roberto Vignolo Alberto Angelo Folcia Anno Accademico 2012-2013

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FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE

Milano

Tesina di Baccalaureato

Non c’è guadagno! «Come non essere degli stupidi

– nel limite del possibile»

Moderatore Candidato

Professore Roberto Vignolo Alberto Angelo Folcia

Anno Accademico 2012-2013

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INDICE GENERALE INTRODUZIONE..........................................................................................1 1. INFORMAZIONI PROPEDEUTICHE .....................................................3

1.1 L’Autore ...............................................................................................3 1.2 Il contesto storico-culturale ..................................................................5 1.3 Struttura e tematiche del libro ..............................................................6

2. VIAGGIO DEL DESIDERIO....................................................................8

2.1 Il testo ...................................................................................................9 2.2 Fallimento e depressione ....................................................................12

3. NON C’È GUADAGNO! ........................................................................12

3.1 Yitrôn..................................................................................................13 3.2 Ḥeleq ..................................................................................................16

4. LA “BUSSOLA” DEL QOHELET..........................................................18

4.1 Il polo freddo ......................................................................................18 4.2 Il polo caldo........................................................................................19 4.3 Oriente ................................................................................................21 4.4 Occidente............................................................................................23

CONCLUSIONI...........................................................................................24 BIBLIOGRAFIA..........................................................................................27

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INTRODUZIONE

Bastiano osservò a lungo i due serpenti, quello scuro e quello chiaro, che si mordevano la coda formando così un ovale. Poi voltò il medaglione e con sua grande sopresa trovò sulla faccia posteriore una scritta. Erano quattro brevi parole in lettere a svolazzi: Fa’ ciò che vuoi1.

Il presente lavoro2 si propone di accompagnare il lettore attraverso il libro

del Qohelet3 in un “viaggio del desiderio”, nelle tre fasi della sua espansione

narcisistica e incontrollata, della sua implosione, del suo riassestamento in

una prospettiva più minimale, ma anche più umana. In particolare si

focalizzerà l’attenzione su di una peculiare espressione di questo desiderio

egocentrico: l’ambizione sfrenata che porta a pesare (illusoriamente, come

dimostrerà l’Autore con la sua ironia sferzante) la vita con il metro di

giudizio del guadagno/profitto/vantaggio (yitrôn).

È stato scelto questo testo per le notevoli assonanze con la società

contemporanea (cfr. infra: l’ambiente storico-culturale), per l’onestà

intellettuale e la spregiudicatezza teologica che certamente nell’odierno

mondo secolarizzato risultano più comprensibili di molto moralismo

“religioso”.

Dopo qualche breve notizia generale4, si procederà all’analisi dello sviluppo

del desiderio come presentato in 1,12-2,26 e con un più particolareggiato

approfondimento lessicale (nel contesto in cui appaiono) sui due termini

chiave oggetto del presente lavoro (il già citato yitrôn e quello che appare

essere come il suo antonimo nell’uso dell’Autore: ḥeleq). Infine si

concluderà con la “bussola” che il Qohelet propone per l’orientamento nella

vita, a sintesi del suo messaggio: i quattro concreti punti di riferimento che

1 M. ENDE, La storia infinita dalla A alla Z (I grandi scrittori), Corbaccio, Milano 2011, 213. 2 Per il sottotitolo «Come non essere degli stupidi...» cfr. la frase di Lévine in R. V IGNOLO, La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico, «Teologia» 25 (2000), 227-228. 3 Per le citazioni dal libro utilizzerò di norma la traduzione italiana CEI 2008, segnalando eventuali variazioni in corsivo. 4 Non si presenterà una trattazione esaustiva, ma solo l’indispensabile per la comprensione di quanto segue.

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restano all’uomo dopo la rinuncia al fardello insostenibile delle illusioni di

un potere, una ricchezza, una saggezza «in eccesso» (cfr. 1,18).

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1. Informazioni propedeutiche

Come preparazione alla tematica in oggetto, segue una sintetica

presentazione di alcune utili coordinate fondamentali: un approfondimento

sull’Autore, sul contesto in cui è vissuto, sulla struttura e le tematiche

fondamentali della sua opera.

1.1 L’Autore

Il nome Qohelet è un participio femminile qal, che deriva dalla radice qhl:

non quindi un nome proprio, ma identificativo di una funzione (lo

confermerebbe anche l’articolo usato in 12,8: il Qohelet). L’uso del

femminile non lo riconosce in una donna, come propone Luzzatto5, ma dà

«una sfumatura intensiva e solenne»6 anche altrove attestata nell’ebraico

postesilico7.

[Qohelet] è uno pseudonimo modellato su quello di una dignità e di una carica ufficiale. Colui che lo porta vuole identificarsi totalmente con la funzione contenuta nel nome così da diventare lui stesso un emblema. La funzione è quella di essere in relazione con [...] un’“assemblea” sapienziale generica. [...] Certo è che Qohelet, pur chiamandosi così, ha un evidente fastidio per le grandi masse, abituate agli stereotipi sapienziali. Il cerchio del suo qahal, dell’assemblea dei suoi discepoli, si assottiglia quanto più le sue parole, pacate ma corrosive, devastano i luoghi comuni e si fanno inquietanti8.

E ancora

Questo termine potrebbe significare “il pubblico”, e il p. Pautrel ha accolto con un certo favore questa ipotesi: “Io, il pubblico, paziente, silenzioso, stanco di un insegnamento superato, ora parlo a mia volta, per dire quello che tutti hanno finito col pensare a bassa voce”9.

5 A. LUZZATTO, Chi era Qohelet?, Morcelliana, Brescia 2011, 7-8. 6 G. RAVASI, Qohelet il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 15. 7 Cfr. «Soferet» (Scriba), Esd 2,55 e Ne 7,57. 8 G. RAVASI, Qohelet il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 16. 9 P. BEAUCHAMP, Ascoltare Qoelet, in All’inizio Dio parla (Bibbia e preghiera 14), ADP, Roma 1992, 219.

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Fin dai primi versetti dell’opera il Qohelet si presenta come re in

Gerusalemme, di ascendenza davidica (1,12). Ci sono diversi segnali, sia

intratestuali che extratestuali, che permettono di riconoscere questa

identificazione come fittizia, una vera e propria “maschera” di cui l’Autore

si serve per veicolare il suo messaggio, attraverso una pungente ironia.

Innanzitutto il periodo in cui l’Autore parla (III sec. a.C., cfr. infra): il regno

davidico è un comico anacronismo «dato che Israele e Gerusalemme ormai

non hanno più re dall’esilio babilonese»10; poi l’epiteto datogli dal primo

epiloghista del libro: non è un re, ma un «saggio» che «insegnò al popolo la

scienza» (12,9); ancora, i diversi ammonimenti che il Qohelet fa al

discepolo sul comportamento da tenersi nei confronti del re, citato alla terza

persona e non alla prima (8,2ss; 10,20).

L’Autore non cerca neppure una seria pseudoepigrafia salomonica11:

mancano i riferimenti solitamente impreteribili (cfr. 1Re 3,6ss e Sap 9)

all’amministrazione della giustizia, alla costruzione del tempio, alla

preghiera per ricevere la sapienza (il “re” Qohelet la dà per possesso

scontato).

La scelta del personaggio regale ha un senso preciso:

Insieme a referenti politici più recenti o a lui coevi, Qoh può comunque contare su modelli ben più antichi (come Ghilgamesh), radicati nel patrimonio culturale mediorientale e al tempo stesso nell’inconscio collettivo universale, per cui la maschera regale risulta la cifra antropologica più facilmente spendibile dell’uomo stimato perfettamente libero, l’unico presunto in grado di assecondare l’insaziabilità di ogni proprio desiderio (1,8; 2,10; 6,7), insomma la metafora nel cuore di tutti meglio predisposta a supportare e spettacolarizzare il delirio di onnipotenza12.

Questo sapiente così particolare ha anche un metodo di ricerca sui generis:

egli osserva, vaglia, e attesta il tutto, cioè quel tutto sotto il sole a lui esperibile. Un’autopsia due volte limitata, dall’ontologica finitezza della condizione umana come pure dal suo personale punto di vista [.] “Io

10 R. V IGNOLO, La scrittura di Qohelet e la sua ricezione canonica alla luce della sua cornice editoriale (1,1-2.3; 12,8.9-14), «Teologia» 35 (2010), 192, nota 18. 11 Cfr. R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 14, nota 8. 12 Ivi, 16.

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Qohelet...” tradisce uno stile decisamente inconsueto per un autore antico. Parla in base alla propria esperienza personale [...]. Non è una visione profetica rivelata dall’alto, ma l’acquisizione dell’esperienza verificata a proprie spese, attentamente meditata13.

Il Qohelet non sente, al contrario dei Greci, la necessità di riflettere sulla

validità delle informazioni così raccolte: ciò che viene attestato

dall’esperienza esteriore (dei sensi) o interiore (ad esempio la riflessione sui

valori), non ha bisogno di ulteriori conferme. Se si mostra come vero, è

vero, semplicemente14. Ogni pretesa di conoscenza assoluta, del tutto, è

assurda, l’uomo ha accesso solo a una piccola parte della verità15: «ho detto:

“Voglio diventare saggio!”, ma la sapienza resta lontana da me! Rimane

lontano ciò che accade: profondo, profondo! Chi può comprenderlo?» (7,23-

24); «ho visto che l’uomo non può scoprire tutta l’opera di Dio, tutto quello

che si fa sotto il sole» (8,17; cfr. anche 1,15; 3,11.15.22; 6,12; 7,13-14; 8,7;

9,1.12; 11,5).

1.2 Il contesto storico-culturale

L’ambiente storico-culturale dell’opera è identificato dalla maggioranza

degli studiosi con la Gerusalemme del III sec. a.C.:

la diffusa prosperità dell’epoca tolemaica, la presenza di una forte aristocrazia terriera, il centralismo burocratico tipico della monarchia egiziana, la presenza di forti tensioni sociali e di una miseria diffusa tra il popolo sono soltanto alcuni degli elementi che militano a favore di una datazione del libro all’interno di questo periodo16.

Un’epoca dunque dove «sono floridi i commerci e scarse le guerre»17,

una società smaniosa di possesso economico [con] ceti rampanti e venali, appassionati al potere e generosamente devoti ai buoni affari, in un contesto

13 R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 23 e nota 36. 14 Cfr. P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a. C. e I secolo d. C., SEI, Torino 1994, 169. 15 Cfr. ivi, 171. 16 L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 69.75-76. 17 P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a. C. e I secolo d. C., SEI, Torino 1994, 166.

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[...] di boom economico-finanziario, dove il denaro come capitale di investimento e come oggetto di febbrile e rovinosa ricerca assume una rilevanza unica in tutta la Bibbia18.

Inoltre il Qohelet utilizza diversi aramaismi19, indicativi di un’epoca

senz’altro postesilica, e non risparmia critiche pungenti e sarcastiche a

quello che sembra un movimento apocalittico (le origini della tradizione

apocalittica si possono collocare nel IV, al massimo V sec. a.C.)20. Nel suo

pensiero infatti non c’è spazio per esseri angelici cui addossare la colpa

della presenza del male, per un’idea di progresso nel tempo che scorre, per

un intervento improvviso e risolutore di Dio che spezza in due la storia (una

nuova vita per il mondo e i buoni, terribile punizione per i malvagi), per

presunte rivelazioni dei piani di Dio attraverso visioni o sogni21:

Non dire: “davanti a me c’è l’angelo!”. Perché questo è uno sbaglio22! (5,5) Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole (1,9). Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole. Infatti dalle molte preoccupazioni vengono i sogni, e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto (5,1-2).

1.3 Struttura e tematiche del libro

Nella struttura23 del libro è possibile riconoscere chiaramente delle cornici

esterne metanarrative (1,1; 12,9-12; 12,13-14), «un peritesto ad extra

funzionale alla presentazione e destinazione ad un pubblico, e quindi alla

sua recepibilità»24, e delle cornici redazionali che, attraverso il ritornello «un

18 R. V IGNOLO, La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico, «Teologia» 25 (2000), 222. 19 L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 64-66. 20 Cfr. ivi, 71. 21 Cfr. ivi, 70-75. 22 Traduzione di Rofé, con diversa vocalizzazione rispetto al testo masoretico: Cfr. ivi, 258. 23 Cfr. R. V IGNOLO, La scrittura di Qohelet e la sua ricezione canonica alla luce della sua cornice editoriale (1,1-2.3; 12,8.9-14), «Teologia» 35 (2010), 186. 24 Ivi, 185.

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soffio e basta, ha detto (il) Qohelet, il tutto è un soffio»25 (1,2; 12,8)

riportante la conosciuta massima dell’Autore, fanno da inclusione al testo.

È forse più fruttuoso non ingabbiare il resto del libro in strutture troppo

rigide. È presente una grande libertà nel passaggio da un tema all’altro, nel

riportare sentenze conosciute dal pubblico (soprattutto per criticarle); questo

probabilmente riflette anche la consapevolezza del Qohelet che il tutto

dell’esistenza umana non è catalogabile e comprensibile fino in fondo26:

C’è, quindi, nel libro di Qohelet rigore e senso dell’inutile, c’è un progetto, ma anche la coscienza che esso è provvisorio, un po’ come nei Pensieri di Pascal. Osserva giustamente L. Alonso Schökel: “Impossibile sapere con certezza come l’autore compose la sua opera. Chiamati a illustrarne la forma, penseremmo al modello di un diario di riflessioni. Nessun giorno ha un tema già prestabilito; nessun tema impone uno sviluppo prefissato; un tema può ritornare in variazioni e metamorfosi, senza escludere interferenze tematiche”27.

Per una buona sintesi dei temi presenti e per un corretto posizionamento del

libro, che eviti eccessi dannosi alla sua interpretazione28 (disprezzo del

mondo-pessimismo-ateismo; invito a godere in modo disperato-smodato dei

beni del mondo, inno alla gioia del vivere; filosofia dell’aurea

mediocritas,...), è certamente utile fare riferimento alla tradizione giudaica,

che lo legge durante la Festa delle Capanne (Sukkoth).

«Sukkoth cade una settimana dopo Kippur, a fine settembre o inizio

ottobre»29, è la festa autunnale del raccolto:

da secoli, c’è l’abitudine di mettere insieme [una] piccola, fragile capanna o baracca, detta sukkah, da qualche parte vicino alla casa. Ovviamente deve essere provvisoria [...]. Le pareti sono decorate con frutti e legumi, ma il tetto – solitamente fatto di rami e foglie – deve permettere di vedere il sole di giorno e la luna e le stelle di notte30.

25 Non seguo la traduzione della CEI, per l’equivoco senso moralistico della parola “vanità”, che non è presente nel testo ebraico. 26 Cfr. G. RAVASI, Qohelet il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 35. 27 Ivi, 35. 28 Cfr. ivi, 36-45; cfr. L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 25-29. 29 H. COX, Le feste degli Ebrei, Mondadori, Milano 2003, 78. 30 Ivi, 77.

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Quattro sono le direttrici che articolano la festa (e che si ritrovano anche nel

libro del Qohelet, cfr. infra: la “bussola” dell’esistenza umana): la gioia31 per

la possibilità di raccogliere i frutti della propria fatica e il lavoro operoso

che li ha prodotti, insieme con la consapevolezza della propria fragilità (la

capanna) e con l’affidamento e la gratitudine di chi sa che senza la

benedizione e il beneplacito della volontà di Dio ogni sforzo è vano.

La festa di Sukkoth è la festa della gioia, della gioia che nasce dal lavoro compiuto e dai frutti raccolti ed è quindi insieme ad altre istituzioni bibliche, ma, oseremmo dire, in modo più caratteristico, la festa del lavoro[.] Nel momento della maggiore prosperità, allorché l’uomo gioisce per i prodotti del proprio campo, la Torà prescrive all’ebreo che egli viva per una settimana nella Sukkah, nella capanna, perché l’uomo non si esalti troppo di questa sua gioia, perché riconosca che tutti i beni gli vengono da Dio, perché ricordi che il possesso della terra, dalla quale egli trae i mezzi per la sua esistenza, è condizionato dalla volontà del Signore32. la sukkah ci ricorda in modo forte che non possiamo mai costruire una salvaguardia sicura contro tutte le minacce della vita e alla fin fine dobbiamo fare assegnamento su Dio. [...] essa ci ricorda anche che, pure all’interno di questa capanna fragile ed esposta a tutte le vicissitudini della vita, noi possiamo ancora mangiare e bere e godere degli amici e della famiglia33.

2. Viaggio del desiderio

Aveva appena ottenuto questo, che già provava quasi un senso di insoddisfazione, e in lui si risvegliò un nuovo desiderio. Dopotutto essere soltanto bello non era un gran pregio. Voleva anche essere forte, più forte di chiunque altro. Il più forte in assoluto!34.

31 «Gioirai in questa tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il forestiero, l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città. Celebrerai la festa per sette giorni per il Signore, tuo Dio, nel luogo che avrà scelto il Signore, perché il Signore, tuo Dio, ti benedirà in tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani, e tu sarai pienamente felice» (Dt 16,14-15); «Inoltre il giorno quindici del settimo mese, quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa del Signore per sette giorni [...]. Il primo giorno prenderete frutti degli alberi migliori [...] e gioirete davanti al Signore, vostro Dio, per sette giorni. Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché le vostre generazioni sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dalla terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio”» (Lev 23,39-40.42-43). 32 A. SEGRE (ed.), Sukkoth, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma 19692, 17.21. 33 H. COX, Le feste degli Ebrei, Mondadori, Milano 2003, 78-79. 34 M. ENDE, La storia infinita dalla A alla Z (I grandi scrittori), Corbaccio, Milano 2011, 214.

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Colui che è veramente saggio non è più toccato da niente e da nessuno. Diventa irraggiungibile e nulla può più levarsi al di sopra di lui. Sì, essere così, quella sarebbe stata una cosa desiderabile. [...] Desiderava veramente essere un grande saggio, il più saggio di tutta Fantàsia35.

Nella presente sezione si procederà ad un’analisi più approfondita di 1,12-

2,26, in cui il lettore è invitato a seguire il Qohelet nell’immaginario36

percorso della sua “sindrome regale” «percorsa prima nella sua illusoria

espansione (1,12-2,11), poi nella sua decostruzione (2,12-22), fino a

ricomporsi in un realistico ridimensionamento (2,24-26)»37.

2.1 Il testo

Il genere letterario38 della pericope in esame è una distorsione parodistica

delle iscrizioni di autocelebrazione regale ben conosciute nel Medio Oriente

Antico, dove il sovrano consegna ai posteri la narrazione dei propri grandi

successi. Il “re” Qohelet, infatti, narra qui delle sue glorie: egli è in tutto

«più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme» (1,16; cfr. 2,7.9);

l’esito di siffatta ineguagliabile opulenza è però, inaspettatamente, un

sonoro fallimento (2,11).

A livello di vocabolario è possibile rintracciare delle ricorrenze

significative: il pronome personale “io” (’anî), pleonastico in ebraico (e

pertanto di valore enfatico quando espresso), ricorre nella pericope ben 15x

sulle 29x totali del libro; la parola “guadagno” (yitrôn), 4x sulle 10x del

libro; il dativo di vantaggio “per me/a me” (lî), ben 8x in appena 6 versetti

(2,4-9), sulle 9x del libro; i verbi “esser grande” (gadal), solo qui per 3x, e

“accrescere, aggiungere” (yasaf), 4x sulle 5x totali del libro (i due verbi in

35 M. ENDE, La storia infinita dalla A alla Z (I grandi scrittori), Corbaccio, Milano 2011, 346. 36 Un viaggio del “cuore” (non a caso uno dei vocaboli più usati del libro, 41x, di cui 14x proprio in 1,12-2,26), che porta ad una consapevolezza nuova. 37 R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 18. 38 Cfr. ivi, 20-21.

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coppia solo qui per 2x); il sintagma “il mio cuore” (libbî), 12x qui su 18x

nel libro.

L’avverbio “molto, troppo” (harbeh) ricorre nella pericope solo 2x sulle 15x

del libro, ma è alquanto significativo nel contesto della regalità. È evidente

infatti una stridente opposizione con il re ideale di Dt 17,14-17 (cfr. anche

infra, la traduzione di parti della pericope):

Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti e ne avrai preso possesso e l’abiterai, se dirai: “Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno”, dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore, tuo Dio, avrà scelto. [...] Ma egli non moltiplicherà per sè (lo’ yarbeh llô) cavalli [...]. Non moltiplicherà per sè (lo’ yarbeh llô) mogli, perché il suo cuore non si smarrisca; non moltiplicherà per sè (lo’ yarbeh llô) argento e oro assai.

Il “re” Qohelet invece dice: «La mia mente ha curato molto (harbeh) la

sapienza e la scienza» (1,16) e «ho posseduto anche armenti e greggi in gran

numero (harbeh), più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme» (2,7).

Altro sintagma particolarmente importante in 1,18:

Sulla falsariga del principe di Tiro (Ez 28,5), il sedicente re gerosolimitano assume come proprio megalomane programma di vita “una sapienza in eccesso” (Qo 1,18: significativamente, in tutta la Bibbia ebraica solo questi due testi portano la formula berob hokmah – “con/per eccesso di sapienza” – sanzionata negativamente e connotata da sarcasmo), esponendo simultaneamente ai grandi intenti la desolante nullità dei risultati39.

A seguire una traduzione delle parti più significative di 1,12-2,26,

sottolineando i termini chiave sopra segnalati (le parti in corsivo sono

invece le differenze dalla traduzione italiana CEI 2008, cfr. supra, nota 3).

Solo per queste parole si è cercata una traduzione “a calco” (per far

emergere la loro presenza nel testo originale), anche a scapito della

scorrevolezza generale del discorso.

Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme. Un soffio e basta, ha detto Qoèlet, un soffio e basta: il tutto è un soffio. Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? [...]

39 R. V IGNOLO, La scrittura di Qohelet e la sua ricezione canonica alla luce della sua cornice editoriale (1,1-2.3; 12,8.9-14), «Teologia» 35 (2010), 192, nota 18.

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Io, Qoèlet, fui re d’Israele a Gerusalemme. Ho dedicato il mio cuore a ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. Questa è un’occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino. [...] Io parlavo con il mio cuore dicendo: «Ecco, io (mi) sono fatto grande e accresciuto in sapienza più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme. Il mio cuore ha curato molto la sapienza e la scienza». Ho dedicato il mio cuore a conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. Infatti: con eccesso di sapienza, eccesso di affanno; chi accresce il sapere accresce il dolore. Io dicevo nel mio cuore: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è un soffio. [...] Ho deciso nel mio cuore di allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con il mio cuore alla sapienza [...]. Ho fatto grandi opere, per me ho fabbricato case, per me ho piantato vigneti. Per me ho fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d’ogni specie; per me ho fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita. Ho acquistato schiavi e schiave e altri ho avuti [era(no) a me] nati in casa; ho posseduto [era(no) a me] anche armenti e greggi in gran numero [molto], più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Ho procurato per me cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto grande e (mi) sono accresciuto più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, poiché il mio cuore godeva d’ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. Io ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: il tutto è un soffio e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole. Io ho considerato che cos’è la sapienza, la stoltezza e la follia: «Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui». Io mi sono accorto che il guadagno della sapienza sulla stoltezza è come il guadagno della luce sulle tenebre: il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un’unica sorte è riservata a tutti e due. Allora io ho detto nel mio cuore: «Anche io incontrerò la sorte dello stolto! Perché allora io ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?». E ho detto nel mio cuore che anche questo è un soffio. Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto. Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Il tutto infatti è un soffio e un correre dietro al vento. Io ho preso in odio ogni lavoro che con fatica io ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è un soffio! Io sono giunto al punto di disperare nel mio cuore per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è un soffio e un grande male.

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Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; io mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è un soffio e un correre dietro al vento!

2.2 Fallimento e depressione

Alla incontrollata e imponente espansione dell’io del “re” (cfr. supra la

quasi ossessiva ripetizione del pronome e degli altri termini segnalati: io, io,

io...; il mio cuore, il mio cuore, il mio cuore...; per me, per me, per me...; mi

sono ingrandito e accresciuto più di tutti...; con eccesso di sapienza...)

segue la constatazione del fallimento del proprio progetto megalomane, con

la conseguente depressione: «presi in odio la vita» (2,17); «Io ho preso in

odio ogni lavoro che con fatica io ho compiuto sotto il sole» (2,18); «Io

sono giunto al punto di disperare nel mio cuore per tutta la fatica che avevo

sostenuto sotto il sole» (2,20).

Il motivo è semplice, espresso da una parola in particolare fra tutte: hevel

(soffio), che dice la fuggevolezza dell’esistenza. Come può l’uomo essere

“re”, se anche lui, nonostante tutta la sua magnificenza (cfr. Sal 8), deve

morire e passar via come tutto ciò che è «sotto il sole»?

3. Non c’è guadagno!

Dall’analisi della pericope precedente emerge in modo chiaro come questo

desiderio incontrollato e narcisistico si configuri all’esterno come una fame

di possesso, la ricerca ossessiva di un “di più” nella vita, di un profitto (in

senso economico, ma anche più generico di “qualcosa che resta”, di un

surplus).

Il Qohelet ha un termine specifico per indicare questo concetto: la parola

yitrôn. Passo ora in rassegna tutti i testi in cui il Qohelet la menziona e

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quelli in cui appare ciò che più avanti (cfr. infra) identificheremo come il

suo antonimo: la “parte” (ḥeleq).

3.1 Yitrôn

Il nome yitrôn è particolarmente significativo perché «ricorre solamente

nell’Ecclesiaste (10 volte), insieme con le parole collegate yôtēr (7 volte) e

môtār (una volta). La radice è ytr “sorpassare, eccedere, essere addizionale”

Quindi, il nome significa “surplus” o “vantaggio”»40.

Anche se certamente non privo di una sfumatura di senso legata al mondo

degli scambi economici «è importante osservare che yitrôn qui significa

“profitto” nel senso di qualcosa di addizionale, e non “profitto” meramente

come “beneficio”. In altre parole, yitrôn in questo caso non è solo “un plus”

(qualcosa di positivo) ma “un surplus” (un vantaggio)»41. Yitrôn quindi

indica «“[...] il saldo positivo, se c’è, nel bilancio di una vita” [...], cioè

l’insieme di quanto nella vita di un uomo positivamente rimane come

“risultato” e di ciò che ne resta come “profitto” o “beneficio” in

eccedenza»42.

Riporto i passi del libro in cui ricorrono le parole yitrôn, yôtēr e môtār,

seguiti da un breve commento:

Un soffio e basta, ha detto Qoèlet, un soffio e basta: il tutto è un soffio. Quale guadagno (yitrôn) viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole (1,2-3)? Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: il tutto è un soffio e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno (yitrôn) sotto il sole (2,11). Mi sono accorto che il vantaggio (yitrôn) della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio (yitrôn) della luce sulle tenebre: il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un’unica sorte è riservata a tutti e due. Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello

40 C. L. SEOW, Ecclesiastes. Α New Translation with Introduction and Commentary (The Anchor Yale Bible 18C), Yale University Press, New Haven (CT) 2008, 103. 41 Cfr. ivi, 103. 42 T. KRONHOLM, Jātar I, in G. J. BOTTERWECK – H. RINGGREN – H. J. FABRY – P. G. BORBONE (ed.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 2004, vol. IV, 157.

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stolto! Perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio (yôtēr)?” (2,13-15). Che guadagno (yitrôn) ha chi si dà da fare con fatica? (3,9) Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio (môtār) sulle bestie, perché il tutto è un soffio (3,19). Ma il vantaggio (yitrôn) della terra è nella sua provvigione (5,8)43. Un altro brutto guaio ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a suo danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. Anche questo è un brutto guaio: che se ne vada proprio come è venuto. Quale profitto (yitrôn) ricava dall’avere gettato le sue fatiche al vento (5,12-15)? Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca, ma la sua fame non è mai sazia. Quale vantaggio (yôtēr) ha il saggio sullo stolto? Quale [vantaggio ha] il povero nel sapersi destreggiare nella vita (6,7-8)? Più aumentano le parole, più cresce il vuoto, e quale utilità (yôtēr) c’è per l’uomo? Chi sa quel che è bene per l’uomo durante la sua vita, nei pochi giorni della sua effimera esistenza, che passa via come un’ombra? Chi può indicare all’uomo che cosa avverrà dopo di lui sotto il sole (6,11-12)? Buona cosa è la saggezza unita a un patrimonio ed è utile (yôtēr) per coloro che vedono il sole. Perché si sta all’ombra della saggezza come si sta all’ombra del denaro; ma vale di più (yitrôn) il sapere, perché la saggezza fa vivere chi la possiede (7,11-12). Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio oltre misura (yôtēr): perché vuoi rovinarti? Non essere troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire prima del tempo? (7,16-17) Se il ferro si ottunde e non se ne affila il taglio, bisogna raddoppiare gli sforzi: il guadagno (yitrôn) sta nel saper usare la saggezza. Se il serpente morde prima d’essere incantato, non c’è profitto (yitrôn) per l’incantatore (10,10-11). Oltre (yôtēr) a essere saggio, Qoèlet insegnò al popolo la scienza; ascoltò, meditò e compose un gran numero di massime (12,9). Ancora (yôtēr) un avvertimento, figlio mio: non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo (12,12).

Tralasciando i due utilizzi di yôtēr in 12,9 e 12,12 (che evidentemente

hanno altro uso nel testo rispetto a quello che interessa alla presente ricerca)

si viene a delineare un quadro coerente dell’utilizzo della radice ytr nel

libro. Il Qohelet la collega spesso alla radice cml (che si riferisce all’area

semantica dello sforzo e della fatica e «ha connotazioni fortemente

negative»44) e alla area semantica della finitezza e della morte (cfr. infra la

43 Traduzione da C. L. SEOW, Ecclesiastes. Α New Translation with Introduction and Commentary (The Anchor Yale Bible 18C), Yale University Press, New Haven (CT) 2008, 204. 44 Cfr. ivi, 104.

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parola hevel ne “Il polo freddo”). Il guadagno/profitto per l’uomo, essere

limitato ed effimero che nonostante i suoi sforzi e le sue fatiche va

inevitabilmente incontro alla morte, semplicemente «non c’è» (2,11).

Il Qohelet sembra però contraddirsi in alcune citazioni che sostengono la

presenza di un “vantaggio” e che vanno spiegate adeguatamente. La

saggezza ha senza dubbio un plus rispetto alla stoltezza nella esistenza di

ogni giorno (cfr. il saggio che vede alla sua luce in 2,13-14; cfr. la saggezza

che fa vivere il suo possessore in 7,12; cfr. il proverbio sul coltello da

affilare in 10,10), ma è anch’essa impotente davanti alla imprevedibilità

della vita (cfr. l’incantatore di serpenti colto alla sprovvista in 10,11), è

effimera (cfr. il possibile doppio significato di “ombra” in 7,12: la saggezza

è certo un “riparo”, ma come l’ombra è destinata a passare e svanire in

fretta, non ci si può contare in modo permanente)45 e soprattutto non salva

dalla morte (cfr. 2,14-15).

È possibile interpretare in questi termini anche le enigmatiche affermazioni

di 5,8 e 7,16-17. Nella prima l’Autore sta probabilmente condannando l’uso

della terra come bene da accumulare per se stesso e su cui speculare

sfrenatamente (cfr. il versetto seguente 5,9: «Chi ama il denaro non è mai

sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti»): essa

deve avere un plus/valore/vantaggio solo e limitatamente al fatto della

produzione dei suoi frutti46. Nella seconda affermazione invece il Qohelet

non critica la giustizia o la saggezza in sé, ma di nuovo quel surplus di

confidenza (overconfidence)47 che l’uomo può porre in esse: né malvagità e

stoltezza, né giustizia e saggezza possono garantire la vita («nei miei giorni

vani ho visto di tutto: un giusto che va in rovina nonostante la sua giustizia,

un malvagio che vive a lungo nonostante la sua iniquità», 7,15).

45 Cfr. C. L. SEOW, Ecclesiastes. Α New Translation with Introduction and Commentary (The Anchor Yale Bible 18C), Yale University Press, New Haven (CT) 2008, 250. 46 Cfr. ivi, 204-205.218-219. 47 Cfr. ivi, 267 ss.

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3.2 Ḥeleq

La radice ḥlq [rimanda al] “dividere” (“spartire, distribuire, assegnare, ripartire”)[.] In ebraico la radice ha prevalentemente il significato determinato socialmente di “parte (e prendere, o dare, la parte) che spetta a qualcuno per costume e per legge”. Da qui si sviluppa “la parte di vita destinata da Dio a qualcuno, il suo destino”48.

Il nome ḥeleq nella Bibbia ebraica indica spesso

la “terra coltivabile” nella campagna di un insediamento [,] la base economica dell’esistenza, [...] il segno dell’appartenenza a un clan o a un popolo. Perciò [...] è frequentemente unito con naḥalâ [eredità, proprietà ereditaria], di preferenza in un’endiadi [...]49.

Ḥeleq ricorre nel libro del Qohelet 8 volte e qui indica generalmente la

parte/porzione/lotto assegnato all’uomo da Dio perché ne possa vivere:

«questo lotto è qualcosa che qualcuno ha solamente in vita»50, non c’è parte

alcuna per i morti (cfr. 9,6).

Verifichiamo puntualmente tutte le ricorrenze del termine nel libro.

Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica: questa è stata la parte (ḥeleq) che ho ricavato da tutte le mie fatiche (2,10). Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte (ḥeleq) a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è un soffio e un grande male (2,20-21). Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte (ḥeleq) che gli spetta; e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui (3,22)? Ecco quello che io ritengo buono e bello per l’uomo: è meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte (ḥeleq). Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte (ḥeleq) e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio (5,17-18). Il loro amore [dei morti], il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte (ḥeleq) in tutto ciò che accade sotto il sole. Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo

48 M. TSEVAT, Ḥālaq II, in G. J. BOTTERWECK – H. RINGGREN – H. J. FABRY – P. G. BORBONE (ed.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 2002, vol. II, 1074-1075. 49 Ivi, 1077. 50 C. L. SEOW, Ecclesiastes. Α New Translation with Introduction and Commentary (The Anchor Yale Bible 18C), Yale University Press, New Haven (CT) 2008, 133.

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non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte (ḥeleq) nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole (9,6-9). Getta il tuo pane sulle acque, perché con il tempo lo ritroverai. Da’ una parte (ḥeleq) a sette o anche a otto, anche se non sai quale sciagura potrà arrivare sulla terra (11,1-2).

Tralasciando la presenza nel proverbio citato in 11,1-2, che invita alla

generosità nonostante le imprevedibilità della vita51 (ḥeleq è usato in senso

diverso rispetto a quello studiato nella presente ricerca) il termine appare

generalmente legato alla area semantica della gioia (le sue ricorrenze

coincidono parzialmente con il cosiddetto “settenario della gioia”, i sette

inviti a gioire disseminati nel libro in 2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17-19; 8,15;

9,7-10; 11,7-10), a quella della fatica (radice cml), a quella del dono, al

nome di Dio (Elohîm).

Ecco il quadro sintetico che si ricava da quanto esposto: la “parte”

dell’uomo è la possibilità che egli ha di godere (mentre è ancora in vita) dei

frutti delle proprie fatiche e dell’amore della propria donna; essa non è la

conseguenza di azioni umane, ma il frutto dell’agire di Dio; questo agire di

Dio non è condizionato da criteri che possono essere ricondotti ad una

retribuzione di comportamenti buoni o cattivi, ma un «dono» (5,18).

Risulta chiaro quindi come il termine ḥeleq si configuri ad antonimo di

yitrôn: se il secondo rimanda a illusorie ed eccessivamente ambiziose

pretese umane di un “guadagno” nella vita, il primo porta all’attenzione la

reale efficacia di una gratuita (e positiva) iniziativa divina nei confronti

dell’uomo.

51 Per la traduzione ed il senso cfr. C. L. SEOW, Ecclesiastes. Α New Translation with Introduction and Commentary (The Anchor Yale Bible 18C), Yale University Press, New Haven (CT) 2008, 334 ss.

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4. La “bussola”52 del Qohelet

Liberatosi di una insostenibile costruzione egocentrica e narcisistica, di una

visione del mondo e degli altri basata esclusivamente sul guadagno-profitto

(yitrôn), e pertanto assurda (cfr. infra: il polo freddo), il Qohelet (con il suo

lettore) può stabilire nuovi punti di orientamento per muoversi nel mondo,

indubbiamente in modo più povero, ma certo più agile53.

4.1 Il polo freddo

Il Nord della “bussola” qoheletiana è certamente il pensiero della morte. A

livello di vocabolario è possibile individuarlo nella parola hevel (soffio,

alito, vapore... ; per ben 38x ricorre nel libro) e anche il caratteristico

sintagma reût (racyôn) rûaḥ (pascere, inseguire, fame-di vento; 9x nel libro).

«Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: il tutto è un soffio

e un correre dietro al vento» (1,14; cfr. 2,11.17): ogni lavoro febbrile, ogni

accumulo di ricchezza, persino la ricerca della sapienza è evanescente e

provvisorio, destinato a svanire senza lasciare traccia, perché l’uomo deve

morire.

La morte è incredibilmente “democratica”, non fa differenze fra lo stolto e il

saggio, fra l’uomo e l’animale, fra giusto e ingiusto:

Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto (2,16). Poi, riguardo ai figli dell’uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché il tutto è un soffio (3,18-19). Vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il malvagio, per il puro e per l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per chi è buono e per chi è cattivo, per chi giura e per chi teme di giurare (9,2).

52 Cfr. R. V IGNOLO, La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico, «Teologia» 25 (2000), 238-239. 53 Cfr. R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 26.

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Non c’è nessuna vita dopo la morte, solo tenebre (cfr. 9,10), né

evidentemente, stando così le cose, può reggere alcuna teoria della

retribuzione (i buoni premiati e i malvagi puniti):

Sulla terra c’è un’altra assurdità: vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dai malvagi con le loro opere, e vi sono malvagi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere. Io dico che anche questo è un soffio (8,14; cfr. 7,15). I vivi sanno che devono morire, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, è svanito il loro ricordo. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole (9,5-6).

La situazione dei ricchi che accumulano beni in maniera spasmodica appare

come una delle più contraddittorie:

chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è un soffio e un grande male (2,21). Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. Anche questo è un brutto guaio: che se ne vada proprio come è venuto. Quale profitto ricava dall’avere gettato le sue fatiche al vento (5,14-15)?

La domanda iniziale del Qohelet trova, narrativamente parlando, una

risposta molto rapida e brutale nella sua schiettezza: «Quale guadagno viene

all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? [...] il tutto è un

soffio e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole»

(1,3; 2,11). Una vita impostata esclusivamente nei termini di guadagno-

profitto è destinata all’assurdo e al nonsenso, perché l’uomo,

inevitabilmente, deve morire.

Il pensiero della morte ha la forza di smascherare molte delle illusioni

umane, e in questo possiede una utilità insostituibile: «È meglio visitare una

casa dove c’è lutto che visitare una casa dove si banchetta, perché quella è la

fine d’ogni uomo e chi vive ci deve riflettere» (7,2).

4.2 Il polo caldo

L’interrogazione del Qohelet su quale guadagno ci sia per l’uomo riceve una

risposta negativa perché, in fondo, è una cattiva domanda, o per lo meno è

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posta male. Nella vita umana non ci può essere profitto, è vero, ma una

parte (ḥeleq) sì.

Ecco quello che io ritengo buono e bello per l’uomo: è meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte. Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore (5,17-19).

Nel libro sono presenti altri 6 inviti alla gioia, per un totale di 7: 2,24-25;

3,12-13; 3,22; 8,15; 9,7-10 (oltre a mangiare e bere con gioia, «godi la vita

con la donna che ami», v. 9); 11,7-10 («godi, o giovane, nella tua

giovinezza [...] perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio»54,

v. 9.10).

La gioia non è il risultato di un “fare”, dipendente solo dagli sforzi umani (si

ritornerebbe nella logica del “profitto”, precedentemente dimostrata come

assurda), ma è un dono di Dio (mattat Elohîm: 3,13; 5,18), viene dalla sua

mano (2,24): «Difatti chi può mangiare o godere senza di lui?» (2,25).

Questo è un regalo che può anche non essere dato: «A uno Dio ha concesso

beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio

non gli concede di poterne godere, anzi sarà un estraneo a divorarli» (6,2).

L’azione di Dio è imprevedibile, non sembra seguire nessun criterio

retributivo; quando il dono si presenta, l’uomo lo deve godere gioiosamente,

perché è tutto ciò che ha in una vita di dolori e fatiche.

Se uno avesse cento figli e vivesse molti anni e molti fossero i giorni della sua vita, se egli non gode a sazietà dei suoi beni e non ha neppure una tomba, allora io dico che l’aborto è meglio di lui. Questi infatti viene come un soffio, se ne va nella tenebra e l’oscurità copre il suo nome, non vede neppure il sole, non sa niente; così è nella quiete, a differenza dell’altro! Se quell’uomo vivesse anche due volte mille anni, senza godere dei suoi beni, non dovranno forse andare tutti e due nel medesimo luogo (6,3-6)?

54 L’avvertimento «Sappi però che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio» (v. 9) può essere interpretato così: «prima della fine della sua vita [...] Dio giudicherà l’uomo per tutti i piaceri leciti di cui egli non ha saputo godere», cfr. L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 280; non si parla di un giudizio dopo la morte perché il Qohelet (cfr. supra) considera quest’ultima come la fine di tutto.

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Il pensiero della morte sancisce la fuggevolezza di ogni godimento, come

anche la sua gratuità, in un mondo dove solo ciò che è monetizzabile

sembra aver valore (cfr. supra: il contesto storico-culturale):

Folle chi volesse aggrapparsi a questo fiore, a questo dono, non perché disobbedisce a un precetto, ma perché snatura il gusto del cibo, il sapore del vino! Il piacere atteso al termine di un lungo progetto è crudele come un miraggio, ma il piacere del momento è pieno di sapore per quello che esso è: un dono di Dio. [...] Qoelet, autore abbastanza elegante per non apparire profondo, ci fa capire che l’intelligenza della morte rende capaci di cogliere il mondo come un dono55.

4.3 Oriente

Il Qohelet rinnova profondamente anche un altro concetto ben conosciuto

dalla tradizione sapienziale di Israele: il timor di Dio. Non più inizio della

ricerca (cfr. Pr 1,7; 9,10; Sal 111,10), né dovuto alla paura della punizione

per il mancato rispetto dei comandamenti (cfr. Pr 10,27; 14,26-27; 16,6;

19,23; 22,4-5; cfr. supra: la sovrana libertà con cui Dio distribuisce i suoi

doni o li toglie non può essere compresa dall’uomo), ma piuttosto come

ennesima conseguenza dell’esperienza di un mondo effimero. Il tutto sotto il

sole è hevel (cfr. 1,14 e 2,11.17), ma non Dio, il suo agire, il timor di Dio.

Egli dà all’uomo la «gravosa occupazione» (1,13) di cercare, senza che

possa scoprire il senso ultimo delle cose:

Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine (3,11). Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso (3,15). ho visto che l’uomo non può scoprire tutta l’opera di Dio, tutto quello che si fa sotto il sole: per quanto l’uomo si affatichi a cercare, non scoprirà nulla. Anche se un sapiente dicesse di sapere, non potrà scoprire nulla (8,17). i giusti e i sapienti e le loro fatiche sono nelle mani di Dio, anche l’amore e l’odio; l’uomo non conosce nulla di ciò che gli sta di fronte (9,1).

55 P. BEAUCHAMP, Ascoltare Qohelet, in All’inizio Dio parla (Bibbia e preghiera 14), ADP, Roma 1992, 223.

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Come tu non conosci la via del soffio vitale né come si formino le membra nel grembo d’una donna incinta, così ignori l’opera di Dio che fa tutto (11,5).

Dio dona anche la gioia e la facoltà di godere dei propri beni (cfr. supra),

«giorni di vita» (5,17; 8,15; cfr. 9,9), è il «tuo creatore» (12,1), Colui che dà

e riprende «il soffio vitale» (cfr. 12,7).

La sua opera, al contrario di quella umana, è completa, stabile e non può

essere modificata né compresa nella totalità:

Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare (1,14-15). Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro, cosicché l’uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui (7,13-14).

La pratica della Legge non è più sufficiente a garantire un senso alla

complessità dell’esistenza (né tantomeno l’ingiustizia e la malvagità

possono aiutare in questo): «Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio

oltre misura: perché vuoi rovinarti? Non essere troppo malvagio e non

essere stolto. Perché vuoi morire prima del tempo?» (7,16-17). Cosa resta

allora? Nell’epoca di grandi cambiamenti e multiculturalità in cui vive, il

Qohelet propone l’ascolto e il silenzio di fronte al mistero di Dio56:

Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicìnati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male (4,17). Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole. [...] Tu, dunque, temi Dio (5,1.6)!

Il timor di Dio è dunque la luce57 che illumina il fugace passaggio dell’uomo

nell’esistenza «sotto il sole», il rispetto e il «timore derivante dalla

56 Cfr. L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 430. 57 Cfr. R. V IGNOLO, La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico, «Teologia» 25 (2000), 239.

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coscienza della propria impotente creaturalità di fronte al totalmente altro e

al totalmente immenso»58 che è Dio.

4.4 Occidente

L’ultimo dei punti cardinali qoheletiani è quello del lavoro «fino al

tramonto, finché “dolce è la luce” (11,7), prima che lo spirito vitale “torni a

Dio, che l’ha dato” (12,7)»59. Non si tratta dell’attivismo frenetico e

insaziabile del ricco (cfr. 5,9ss), ma di un moderato e alacre “darsi da fare”,

secondo quelle che sono le modeste possibilità umane, senza dimenticare le

precedenti polarità (il pensiero della morte; la gioia, dono di Dio; il timor di

Dio) e fino a che le forze lo consentano.

Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché non ci sarà né attività né calcolo né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per andare (9,10). Getta il tuo pane sulle acque, perché con il tempo lo ritroverai. Da’ una parte a sette o anche a otto, anche se non sai quale sciagura potrà arrivare sulla terra (11,1-2). Fin dal mattino semina il tuo seme e a sera non dare riposo alle tue mani, perché non sai quale lavoro ti riuscirà meglio, se questo o quello, o se tutti e due andranno bene (11,6).

58 P. SACCHI, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a. C. e I secolo d. C., SEI, Torino 1994, 174. 59 R. V IGNOLO, La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico, «Teologia» 25 (2000), 238-239.

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CONCLUSIONI

“Ho sbagliato tutto”, le disse una sera, “non ho capito niente. Fiordiluna mi ha donato tante cose e io , con i suoi doni, non ho fatto che combinare guai, per me e per Fantàsia.” Donna Aiuola lo guardò a lungo. “No”, rispose, “questo non lo credo. Tu hai percorso la strada dei desideri, e quella non è mai dritta. Hai fatto un gran giro, ma era proprio la tua strada. E sai perché? Perché tu sei di quelli che possono tornare indietro soltanto quando hanno trovato la fonte da cui sgorga l’Acqua della Vita. E quello è il luogo più segreto di Fantàsia. La via per arrivarci non è mai facile.”60.

Il “viaggio del desiderio”, nel cuore del “re” Qohelet è partito dalla

considerazione egocentrica e narcisistica di sé, brutalmente decostruita dalla

consapevolezza della morte, per ricomporsi e concludersi in una modesta e

agile “bussola” per l’umano agire.

«Oltre a essere saggio, Qoèlet insegnò al popolo la scienza; ascoltò, meditò

e compose un gran numero di massime (meshalim)» (12,9): il «saggio»

Qohelet, con il più riuscito dei suoi meshalim61 (la mascherata regale), invita

il lettore ad abdicare62 con lui dalla eccessiva e incontrollata espansione del

desiderio simboleggiata dalla figura del re, per acquistare la consapevolezza

di una dignità umana che si può esprimere solo nel riconoscimento

dell’umiltà della sua condizione passeggera, in un mondo altrettanto

effimero e a tratti incomprensibile. Il Nord della “bussola” costituisce

davvero il centro del pensiero qoheletiano: la consapevolezza della morte è

ciò che deve orientare e regolare tutta l’esistenza dell’uomo;

paradossalmente lo hevel (il soffio evanescente) è ciò che struttura e

configura anche gli altri punti cardinali: perché si muore si può cogliere la

gioia come un dono gratuito (Sud); perché si muore si deve rispettare e

accettare nella sua incomprensibilità (nel silenzio e nell’ascolto) l’azione del

Dio che dà e riprende, secondo i suoi ineffabili criteri (Est); perché si muore

60 M. ENDE, La storia infinita dalla A alla Z (I grandi scrittori), Corbaccio, Milano 2011, 410. 61 Cfr. R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 22. 62 Cfr. R. V IGNOLO, La scrittura di Qohelet e la sua ricezione canonica alla luce della sua cornice editoriale (1,1-2.3; 12,8.9-14), «Teologia» 35 (2010), 192, nota 18.

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ci si deve dar da fare, alacremente e senza inutili affanni, fino al tramonto

della vita (Ovest).

Il messaggio del Qohelet è molto attuale (e può essere veramente

terapeutico) nella società occidentale contemporanea, per certi versi così

simile alla sua nella consacrazione al profitto e all’egocentrismo; una

società che vede la depressione imporsi come «la malattia», proprio a causa

di un narcisismo non superato63, della presentita «contraddizione tra il

massimo di possibilità (virtualmente illimitate) e il (sempre irriducibile)

limite del non padroneggiabile, dell’indisponibile»64. Alla fame insaziabile

(e illusoria) di guadagno il Qohelet contrappone la gratuità del dono, alla

frenetica e inconcludente azione umana il primato e la stabilità dell’agire

divino, al moltiplicarsi del rumore di parole «stanche»65 il silenzio e

l’ascolto, alla eccessiva e superficiale confidenza con il divino che

contraddistingue molte esperienze religiose il rispetto per una Alterità

(timore di Dio) che ultimamente sorpassa in modo ineffabile i criteri di

giudizio umani.

Un altro tratto che può avvicinare l’Autore alla sensibilità contemporanea è

quello della sua estrema onestà intellettuale: i «sogni» e le «illusioni» (5,6;

cfr. 5,2) della apocalittica (cfr. l’odierna New Age e derivati, il moltiplicarsi

di notizie di pretese apparizioni angeliche e rivelazioni private...) sono una

facile via di fuga dalle contraddizioni del mondo, che non possono e non

devono essere sciolte da spiegazioni consolatorie (per il Qohelet non c’è vita

63 Agli occhi del narcisista «il mondo appare [...] campo di indiscriminata autoespansione, ambito di rispecchiamento [...] totalitario, intollerante [,] onnipotente», cfr. R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 48-51. La depressione in questione è conseguenza di una ferita narcisistica: nello scontro con la realtà il narcisista inevitabilmente perde l’oggetto delle proprie fantasie di onnipotenza (cfr. i “fallimenti” del grande re Qohelet) e con esso anche l’io che su quell’oggetto era proiettato (cfr. l’abdicazione dalla maschera regale). Il Qohelet indica al lettore una possibile quadruplice via di risimbolizzazione del reale (la “bussola”) per superare narcisismo e depressione, ricostruendo una identità umana molto più semplice e povera, ma capace di convivere con le contraddizioni dell’esistenza e gioire dei doni di Dio. 64 R. V IGNOLO, Maschera e sindrome regale: interpretazione ironico-psicoanalitica di Qoh 1,12-2,26, «Teologia» 26 (2001), 40. 65 Cfr. L. MAZZINGHI, “Ho cercato e ho esplorato”. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 141-144.

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dopo la morte, né un giudizio dei buoni e dei malvagi). Egli infatti riesce a

mantenere un coraggioso equilibrio, accettando l’inspiegabile della vita per

come è, senza l’anestetico di comode «preterizioni, rimaneggiamenti e

arrotondamenti»66 e al contempo senza cadere nella disperazione o perdere la

fede (cfr. il timore di Dio).

Attraverso la sua opera risuona una libertà: quella di un uomo che ha saputo considerare Dio non come un elemento necessario al buon ordinamento dei suoi pensieri e alla legittimazione delle sue speranze. Per alcuni commentatori questo autore è “freddo”; ma bisogna chiamare “calore” ciò che permette a un uomo di fare a meno di certe coperte67.

66 P. BEAUCHAMP, Ascoltare Qohelet, in All’inizio Dio parla (Bibbia e preghiera 14), ADP, Roma 1992, 228. 67 Ivi, 232.

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