Mi ranti News Febbraio 2017 -...

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Migranti News Febbraio 2017 Mi hanno detto: ”È solo uno scemo che vuole morire”. Li sentivo mentre quelle acque gelide, nere come la mia pelle, mi stavano inghiottendo in quell’inferno che non aveva le somiglianze con la mia vita. No, la mia vita è stata molto peggio. Quell’acqua ha coperto il mio viso segnato dal disprezzo, dall’impassibilità della gente, che pur di non vedermi mi ha lasciato soccombere come un’ombra senza nome. Sono crepato, annegato a 22 anni, proprio quando tutto ti sembra possibile, quando la vita ti appare come una fantasia da attraversare. Per- correre è stata la mia vita. Percorrere la via di fuga da un Paese che non riconosce la Democrazia, percorrere un destino che già aveva de- ciso la mia sorte, percorrere sentieri dove la luce è solo un intervallo tra una gabbia e una finestra troppo piccola per rivedere le stelle. Sono crepato annegato a 22 anni e, mentre una luce fioca si affievoliva dentro il mio cuore, ancora una vol- ta sentivo la mia morte essere indifferente all’umanità. Quell’umanità che si solleva perché si costruiscono muri, ma non sa tendere la mano per offrire una spon- da a chi muore da solo. Quell’umanità che si sente ferita, turbata per le disgrazie lontane da loro e dalla loro felice tranquillità. Non mi hanno voluto sottrarre alla morte, nessuno ha pensato che la mia fine è sta- ta anche la loro. Tranquilli, “Africa“ è morto, “Africa” è finalmente morto perché puzzava, perché portava malattie, perché prima gli italiani e poi gli sporchi ne- gri. “Africa”, così mi chiamavano mentre le mie mani cercavano ancora un sussurro tra le onde gelate di un Paese simulatore di ospitalità, di armonia, ricettore di pace. E così, ho scelto di crepare a Venezia perché a volte sulla riva di San Marco giungono navi che reca- no nelle loro vele i respiri di altri mondi. Ho scelto di morire a Venezia perché sta morendo come lo sto facendo io ora, perché la sua tristezza è lo specchio dei miei occhi. Ho scelto di morire pochi giorni prima della giornata della memoria per testimoniare che non c’è memoria, non c’è passato su cui ricostruire, non c’è un sentiero da percorrere insieme. E se non c’è un passato non può esistere un futuro. Un futuro dove la mia morte non sarà filmata ma fermata, dove la mia morte non sarà derisa come la mia vita, dove la mia morte non sarà inghiottita da un deserto chiamato fratellanza. Mi hanno buttato dei salva- genti, ma io già ingoiavo le mie lacrime, mai la- sciate scorrere per poter- mi salvarmi un giorno in più. Africa è finalmente morto, e sono morto per aver amato la vita, anche in quell’ultimo anelito di gioia dove ho rivisto il mio Gambia, il suo litorale, la fitta fore- sta nell’entroterra, il mio fiume circondato nelle sue sponde da mercati e pescatori, i miei profumi dan- zanti. Sono morto in una terra che si indigna per delle vignette, e non per un suicidio che inchioda tutti nella propria coscienza. Africa è morto, ora non puzza più, non toglierà nulla agli italiani. La carità, la tolleranza e un briciolo d’indulgenza me lo donerà la marea che do dondolandomi mi canterà una dolce ninna nanna per sempre. Ciao a tutti da “Africa”. Ma la mia mamma mi chiamava Pateh. (Claudia Pepe, Lettera 43) MI CHIAMAVANO AFRICA, MA IL MIO NOME ERA PATEH

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Migranti NewsFebbraio 2017

Mi hanno detto: ”È solo uno scemo che vuole morire”. Li sentivo mentre quelle acque gelide, nere come la mia pelle, mi stavano inghiottendo in quell’inferno che non aveva le somiglianze con la mia vita. No, la mia vita è stata molto peggio. Quell’acqua ha coperto il mio viso segnato dal disprezzo, dall’impassibilità della gente, che pur di non vedermi mi ha lasciato soccombere come un’ombra senza nome. Sono crepato, annegato a 22 anni, proprio quando tutto ti sembra possibile, quando la vita ti appare come una fantasia da attraversare. Per-correre è stata la mia vita. Percorrere la via di fuga da un Paese che non riconosce la Democrazia, percorrere un destino che già aveva de-ciso la mia sorte, percorrere sentieri dove la luce è solo un intervallo tra una gabbia e una finestra troppo piccola per rivedere le stelle.Sono crepato annegato a 22 anni e, mentre una luce fioca si affievoliva dentro il mio cuore, ancora una vol-ta sentivo la mia morte essere indifferente all’umanità. Quell’umanità che si solleva perché si costruiscono muri, ma non sa tendere la mano per offrire una spon-da a chi muore da solo. Quell’umanità che si sente ferita, turbata per le disgrazie lontane da loro e dalla loro felice tranquillità. Non mi hanno voluto sottrarre alla morte, nessuno ha pensato che la mia fine è sta-ta anche la loro. Tranquilli, “Africa“ è morto, “Africa” è finalmente morto perché puzzava, perché portava malattie, perché prima gli italiani e poi gli sporchi ne-gri. “Africa”, così mi chiamavano mentre le mie mani cercavano ancora un sussurro tra le onde gelate di un Paese simulatore di ospitalità, di armonia, ricettore di pace. E così, ho scelto di crepare a Venezia perché a volte sulla riva di San Marco giungono navi che reca-no nelle loro vele i respiri di altri mondi. Ho scelto di morire a Venezia perché sta morendo come lo sto facendo io ora, perché la sua tristezza è lo specchio dei miei occhi. Ho scelto di morire pochi giorni prima

della giornata della memoria per testimoniare che non c’è memoria, non c’è passato su cui ricostruire, non c’è un sentiero da percorrere insieme. E se non c’è un passato non può esistere un futuro. Un futuro dove la mia morte non sarà filmata ma fermata, dove la mia morte non sarà derisa come la mia vita, dove la mia morte non sarà inghiottita da un deserto chiamato fratellanza. Mi hanno buttato dei salva-genti, ma io già ingoiavo le mie lacrime, mai la-sciate scorrere per poter-mi salvarmi un giorno in più. Africa è finalmente morto, e sono morto per aver amato la vita, anche in quell’ultimo anelito di gioia dove ho rivisto il mio Gambia, il suo litorale, la fitta fore-sta nell’entroterra, il mio fiume circondato nelle sue sponde da mercati e pescatori, i miei profumi dan-zanti. Sono morto in una terra che si indigna per delle vignette, e non per un suicidio che inchioda tutti nella propria coscienza. Africa è morto, ora non puzza più, non toglierà nulla agli italiani. La carità, la tolleranza e un briciolo d’indulgenza me lo donerà la marea che do dondolandomi mi canterà una dolce ninna nanna per sempre. Ciao a tutti da “Africa”.

Ma la mia mamma mi chiamava Pateh.

(Claudia Pepe, Lettera 43)

Mi chiaMavano africa, Ma il Mio noMe era Pateh

| Migranti news2 Febbraio 2017

sono, perché le migrazioni genera-no incontro, dialogo, scambio di conoscenze e competenze, nuove famiglie e nuove nascite: rigenera-no una comunità.

Papa Francesco nella Evagelii Gau-dium, ci invita a metterci in un atteg-giamento di missione, di uscita per andare ad abitare le periferie dell’e-sistenza umana, dove la vita umana è priva di dignità. Le parole di papa

Francesco diventano per noi missionari sfidanti quando dice nell’Evange-lii Gaudium “sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa”. Ogni rinnovamento nel-la Chiesa deve avere la missione come suo scopo (n.27). Da queste parole possiamo comprendere le motivazioni del nostro impegno nella pastorale della mobilità umana: le migrazioni sono un’op-portunità per attuare il processo di trasforma-zione missionaria della Chiesa. Ma l’impegno nella mobilità umana ci porta a interagire con la comunità civile, le istitu-zioni le quali a loro volta sono chiamate a favorire i processi di inclusione sociale e di cittadinanza.

Parlare di migrazioni significa dare voce, dignità alla persona che ci fa vedere paesi, situazioni, problemi molto complessi.

Ma cosa significa mettersi a servi-zio delle comunità migranti?

La prima cosa che abbiamo appre-so è stato il mettersi in ascolto dei loro bisogni, visitare le comunità, farsi vicino a chi vive l’emargina-zione e l’esclusione sociale ed è vittima di pregiudizi come i Rom o lo spettacolo viaggiante. Que-ste comunità vivono spesso nelle periferie delle nostre città. A loro vengono concessi spazi isolati op-pure luoghi di parcheggio in cui ci si confonde tra parcheggio di rou-lotte o ambulanti in sosta. Quando si visitano le famiglie del-lo spettacolo viaggiante, ciò che impressiona è la loro gentilezza. Ti chiedono se vuoi prendere un caffè, e poi ti raccontano le loro storie. Sono persone credenti, han-no un senso molto profondo della vita e si abbandonano come Abra-mo a camminare sulle strade del mondo alla ricerca della felicità.

La comunità di Firenze, in questi ultimi anni, ha iniziato a interagire e a coinvolgersi pienamente nel feno-meno migrazioni. L’occasione propizia è giunta quando è stato fatto il nome di un confratello per prendere l’incarico dell’ufficio Diocesano per la pastorale dei migranti. Questa responsabilità comprende anche di

seguire le altre Diocesi della Toscana nell’ambito migrazioni. Certamente non è stato facile per noi assumere questa responsabilità perché vediamo che l’impegno pastorale e missionario si iscrive in un processo molto più ambio e complesso che possiamo descrivere con le parole di papa Francesco.Nel messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato papa Francesco i aiuta a leggere “con gli occhi della fede” le migrazioni, ricordandoci che sono un “segno dei tempi” nella storia della salvezza. E lo

Le Migrazioni una risorsa per attuare il processo di trasforMazione Missionaria della Chiesa

| Migranti news3 Febbraio 2017

Le difficoltà che incontrano sono molte: il lavoro che richiede molto sacrificio e spesso è legato alla fa-miglia. A volte succedono delle liti che terminano in modo violento. Possiamo comprenderne le cause in quanto la competizione è alta e il loro mestiere si snoda al mar-gine della legalità per riuscire ad arrivare a fine mese. Preferiscono mettere i loro figli al lavoro appena imparano a far girare la giostra, ma questo compromette la scuola e il diritto a una scelta libera.Lo spettacolo viaggiante: circhi, giostrai e quant’altro un mondo sempre più in trasformazione e non sappiamo se avrà un futuro. Alcuni di loro hanno cambiato mestiere si sono messi a gestire qualche piccola attività di ristora-zione. In questo mondo di spetta-colo, i circhi hanno vita dura con coloro che difendono i diritti degli animali. Poi i permessi sono diffici-li da ottenere e l’amministrazione pubblica ha il suo tempo.Ci sarebbero tante altre notizie, ma crediamo che queste possano aiutarci a vedere qualcosa di un popolo che migra di città in città avendo come fine far divertire e rendere felici le persone.

Le comunità più originali sono lo Sri Lanka e quella Indiana. Le loro famiglie vivono un legame mol-to forte con il paese d’origine in quanto cercano di conservare la loro lingua e le loro tradizioni. Le famiglie spesso sono composte da religioni diverse, nel senso che i cristiani si sposano con: Buddisti, Induisti o Mussulmani. Poi ci sono i parenti e gli amici che a loro vol-ta hanno legami di amicizia o di parentela con le altre religioni. Potrebbero farci da educatori per aiutarci a vivere in una società multiculturale e di tradizioni reli-giose diverse. Noi italiani a parole

siamo aperti e accoglienti ma nel momento di condividere gli spazi e i luoghi di convivenza religiosa e civile, diventiamo molto chiusi, paurosi del diverso.

La comunità Filippina ci sembra la più vivace e ben organizzata. La loro presenza in Italia risale a più di 30 anni fa. È una comuni-tà giovane, piena di vita che ha la volontà di mettersi in gioco. Purtroppo i giovani vivono il dramma che rag-giunti i 18 anni di età ed essendo nati in Italia, si ri-trovano ad essere stranieri in terra patria. L’Italia non ha ancora una legge sul-la cittadinanza e questo impedisce integrazione, lavoro, senso di apparte-nenza. I nostri politici in questo stanno minando e compromettendo il futuro del nostro paese perché, per loro, ciò che conta sono i loro interessi da difendere e non il bene comune.

Un’altra comunità vivace è la Peruviana con la con-fraternita del Signore dei Miracoli. Questa comu-nità si caratterizza per la festa del Signore dei Mira-coli che si svolge a metà ottobre ed è anche una fe-sta Nazionale Peruviana. Tutti si danno da fare per preparare al meglio que-sto evento che comporta una novena, il vestirsi in abito tra-dizionale e lo sfilare nelle strade della città. Certamente è qualcosa di molto folcloristico e bello al ve-dersi. Ma come comunità ci siamo posti la domanda: la comunità del Perù dopo la festa del Signore dei Miracoli dove è andata? I Peruvia-

ni si sono ben organizzati e hanno molte attività commerciali.

Ci sono altre comunità che abbia-mo conosciuto: Cinese, Camerun, Senegal, Ucraina e Rumena. Qualcosa di interessante l’abbia-mo visto negli Ucraini. Anche loro sono presenti in Italia da cir-ca venti anni e si sono ben inseri-ti. Preferiscono frequentarsi tra di

loro e andare nella Chiesa in cui si celebra in Rito Bizantino. In que-sti ultimi anni si son travati a dare una risposta ai figli nati in Italia ma che non conoscono la lingua e la cultura Ucraina. La comunità ha pensato di organizzare una scuo-la di lingua e cultura Ucraina per

| Migranti news4 Febbraio 2017

trasmettere alle generazioni nate in Italia le tradizioni, la lingua e la cultura che fa parte della loro sto-ria. Certamente non sarà un cam-mino facile, ma abbiamo visto in loro tanto entusiasmo.

Questo che vi stiamo raccontan-do è quello che più ci ha colpito nell’incontrare volti ed esperienze di vita a noi tanto diverse e origi-nali. La bellezza delle comunità migranti sta ne fatto che ci aprono ad una visione di Chiesa aperta sul mondo. Una Chiesa in cui è possi-bile vivere assieme nella diversità di riti ed appartenenza culturale. Anzi la diversità è una ricchezza che contribuisce a stimolare l’in-

contro con l’altro e il dialogo. Ma tutto questo non è sempre percepi-to sia nelle nostre comunità cristia-ne che nella società.

Un senso di paura di ciò che è diverso e che può rompere uno schema abituale di vita è il senti-re comune di tante gente. Questo ci rivela che l’Italia non è paese giovane ma vecchio, vecchio in età intendiamoci. Questa costa-tazione è importante perché se la maggior parte degli Italiani pensa e vuole preservare le cose come sono, non c’è reale possibilità per una trasformazione positiva del nostro essere insieme. Se l’anzia-no preferisce starsene tranquillo

e lasciare che le cose rimangano così, almeno dia lo spazio affinché i più giovani possano dare il loro contributo. Ma sembra che in Italia neppure questo è possibile perché tutto può cambiare nella misura in cui si conserva ciò che esiste. Speriamo che le migrazioni pos-sano veramente essere percepite come una opportunità di rigene-razione della nostra società e della nostra Chiesa.

p. Alessandro BedinComunità

missionaria comboniana Firenze

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