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Mensile di aggiornamento e approfondimento in materia di immobili, ambiente, edilizia e urbanistica Numero 17 - gennaio 2015

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Mensile di aggiornamento e approfondimento

in materia di

immobili, ambiente, edilizia e urbanistica

Numero 17 - gennaio 2015

 

FIAIP News24, numero 17 – gennaio 2015 2

    

n. 17 – chiuso in redazione il 12 gennaio 2015

Sommario

Pagina

NEWS Ambiente, edilizia e urbanistica, immobili 5

RASSEGNA DI NORMATIVA Leggi, decreti, circolari: sintesi e classificazione 16 RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA Ambiente, edilizia e urbanistica, immobili 20

APPROFONDIMENTI Condominio LE "MAPPE" DEL CONDOMINIO; L'UTILIZZO DELLE MURATURE Nel caso delle murature, le regole del diritto condominiale comprendono una miriade di specificazioni. Luigi Salciarini, Il Sole 24 ORE – Consulente Immobiliare, Edizione del 31 dicembre 2014, n. 966 23

Vizi e difetti dell’opera LA CASSAZIONE TORNA SUI GRAVI VIZI E DIFETTI DELL'OPERA E RELATIVE RESPONSABILITÀ Uno dei problemi più frequenti che affliggono, allo stesso tempo, condomini, imprese e professionisti riguarda la contestazione di vizi e difetti nella realizzazione delle opere. Donato Palombella, Il Sole 24 ORE – Consulente Immobiliare, Edizione del 31 dicembre 2014, n. 966 33

Immobili e locazioni IMMOBILI DA LOCARE - CONVERSIONE DEL D.L. "SBLOCCA ITALIA" Dopo una lunga attesa, il D.L. 12.9.2014, n. 133, ha trovato la conversione nella L. 11.11.2014, n. 164, con alcune modifiche rispetto al testo originario e la permanenza di alcuni dubbi applicativi per determinate disposizioni. Leonardo Petrobon, Il Sole 24 ORE – La Settimana Fiscale, Edizione del 7 gennaio 2015, n. 1 pag. 36 37

   

 

 

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 L’ESPERTO RISPONDE Ambiente, edilizia e urbanistica, immobili 43

 

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Mercato immobiliare

Primi segni di ripresa anche se non per tutti

Prezzi più abbordabili delle abitazioni e mutui di nuovo alla portata delle tasche di molti italiani: sulla carta le condizioni che si stanno creando in questo 2015 appena iniziato rappresenterebbero un mix ideale per le famiglie e anche un’occasione per rilanciare un mercato immobiliare in crisi ormai da diversi anni nel nostro Paese. La situazione resta però più complessa di quanto certi dati non possano far credere. L’Associazione delle banche italiane (Abi) parla infatti apertamente da alcuni mesi di ripresa del mercato dei finanziamenti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni: nei primi 11 mesi del 2014, secondo i dati diffusi proprio questa settimana, le erogazioni del campione di riferimento (che rappresenta circa l’80% della totalità del mercato bancario nazionale) sono cresciute del 31,2% rispetto a un anno prima, passando da 17,1 a 22,4 miliardi di euro. Occorre però ricordare luogo come il mercato dei mutui si sia praticamente dimezzato negli ultimi 4 anni e che i livelli attuali non siano ancora lontanamente paragonabili a quelli di fine 2011. Ma soprattutto bisognerebbe effettuare una distinzione in base alla finalità con cui è stato concesso il prestito. Le surroghe e le sostituzioni, come si legge nell’articolo in alto, sono infatti tornate in auge per via delle migliori condizioni praticate dalle banche: in base a stime ufficiose raccoglierebbero almeno il 20% del totale erogato, che quindi non sarebbe tutta liquidità aggiuntiva a vantaggio delle famiglie. Meglio allora affidarsi ai dati, sempre di fonte Abi, relativi alle consistenze di fine novembre, che segnalano per la prima volta negli ultimi 30 mesi una stabilizzazione rispetto all’anno precedente degli impieghi delle banche italiane a famiglie e società non finanziarie a 1.419 miliardi: negli ultimi 12 mesi, insomma, le banche hanno concesso denaro per un ammontare uguale a quello nel frattempo giunto a scadenza. Certo, è un valore pur sempre inferiore di 114 miliardi (o del 7,5%, se preferite) rispetto a quello di quattro anni prima (quando si era toccato il picco); di denaro in meno sul quale le famiglie italiane non possono più contare, ma si tratta comunque di un punto di partenza. Per proseguire su questa strada servono però passi avanti ulteriori, sia sul fronte dell’offerta, sia su quello della domanda. Le banche, da parte loro, sembrano davvero aver abbassato le pretese negli ultimi tempi: la parziale riduzione degli spread unita a tassi Euribor ormai azzerati e a Irs ai minimi storici rende i prodotti attualmente in catalogo altrettanto se non più convenienti rispetto a quelli disponibili nel 2011, prima della crisi del debito. Certo, chi punta sul variabile dovrà farlo con attenzione, perché se pur non nell’immediato, prima o poi i tassi torneranno ad aumentare. Ma il problema principale è che le offerte riproposte nei cartelloni pubblicitari sono per molti, non per tutti: soltanto i clienti più «affidabili» e quelli che chiedono un quantitativo limitato di denaro in rapporto al valore dell’abitazione (loan-to-value) riusciranno ad accaparrarsele. Per gli altri non resta che spendere di più, nella migliore ipotesi, oppure rimandare del tutto l’acquisto. In un Paese costretto di nuovo alla recessione e nel quale la disoccupazione viaggia al 12,7%, un calo medio del prezzo delle abitazioni dell’11,2% dal 2010 e qualche decimo di

 

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spread in meno sul mutuo rischia di non essere sufficiente per infondere nuova fiducia nelle famiglie. (Maximilian Cellino, Il Sole 24ORE – Norme e Tributi, 4 gennaio 2015)

Agenzia delle entrate, mercato immobiliare cresce del 3,6% nel III trimestre

«Il mercato immobiliare italiano nel III trimestre 2014 torna a crescere, con un tasso tendenziale riferito al totale delle compravendite pari a +3,6%». Lo rende noto l’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia delle entrate. In particolare, il settore residenziale ha fatto segnare + 4,1%, con 94.861 NTN (Numero di transazioni normalizzate, ndr). I settori commerciale (5.428 NTN, +9%) e produttivo (2.014 NTN, +1,6%) e le pertinenze (cantine, box e posti auto; 73.525 NTN, +2,4%) mostrano anch’essi tassi tendenziali positivi in questo trimestre. Rimane negativo il tasso tendenziale del settore terziario che, con 1.896 transazioni, realizza una perdita del 2%. (Il Sole 24ORE – Tecnici24, 18 dicembre 2014)

Immobiliare: Nomisma, per 2015 stime non ottimistiche, pesa eccesso offerta

Le previsioni per il 2015 relative al mercato immobiliare milanese non puntano all’ottimismo. È quanto emerge dall’Osservatorio sul mercato immobiliare, novembre 2014 curato da Nomisma, la cui presentazione è stata realizzata in collaborazione con Intesa Sanpaolo Private Banking. La principale penalizzazione viene dall’eccesso di offerta che caratterizza sia il mercato della compravendita che quello della locazione; Nomisma prevede inoltre un ulteriore arretramento delle quotazioni, anche se più contenuto rispetto a quello registrato nel corso del 2014. Nello specifico, il mercato residenziale presenta segnali di miglioramento, generato sia da un’attenuazione dell’offerta sia da una contestuale stabilizzazione della domanda. Analizzando l’attenuazione dell’offerta emerge come il divario tra prezzo richiesto e effettivo sia passato in media dal 10% al 9% per le abitazioni nuove e dal 14 al 13,5% per quelle usate. L’offerta si mantiene comunque abbondante, come si evince dall’ulteriore allungamento dei tempi medi di vendita, saliti da 7,9 a 8,2 mesi per il nuovo e da 7,4 a 7,8 mesi per l’usato. Nel mercato locativo si è registrato un ampliamento dei tempi medi di locazione da 4,3 a 4,5 mesi per l’usato. (Il Sole 24ORE – Tecnici24, 18 dicembre 2014)

Immobili

Proprietà dell'immobile. Le risultanze del catasto non hanno un definitivo valore probatorio.

Per determinare l’effettiva proprietà (pubblica o privata) di un bene immobile, ai dati del catasto non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti traslativi, in quanto contenenti utili indicazioni in ordine all’estensione dei fondi confinanti. Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 5 del 5 gennaio 2015, ha dichiarato illegittima l’ordinanza di demolizione di un cancello, adottata dal Comune sul presupposto della natura pubblica dell’area interclusa, stabilita in base alle sole risultanze catastali. Il caso. La vicenda al vaglio della sesta sezione del Consiglio di Stato riguarda il ricorso proposto dalla proprietaria di un immobile avverso l’ordinanza con cui il Comune le aveva ingiunto di rimuovere un cancello in ferro, che impediva l’accesso ad un’area confinante con

 

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l’immobile predetto, ritenuta di proprietà pubblica. Secondo la ricorrente, il Comune aveva erroneamente considerato pubblica l’area in questione, facendo peraltro riferimento alle sole risultanze catastali. L’Ente comunale, infatti, non aveva consentito all’appellante di interloquire attraverso propri contributi nel corso del procedimento, affermando – in ultima analisi – che la sola esistenza di una differenza fra lo stato di fatto rilevato e le risultanze catastali fosse da sola idonea a deporre nel senso del carattere pubblico dell’area in parola. Il Consiglio di Stato, ribaltando la sentenza di primo grado del TAR Calabria, ha dato ragione alla ricorrente. La decisione. Secondo i Giudici di Palazzo Spada, il provvedimento demolitorio risulta viziato nella misura in cui il Comune si è limitato a risolvere in poche battute la questione del carattere pubblico o meno della porzione di area chiusa dal cancello, senza consentire all’interessata di partecipare al procedimento amministrativo (impedendo alla stessa di fornire al riguardo un apporto sicuramente rilevante) e senza acquisire preventivamente i titoli di acquisto dell’area in questione. La decisione del Comune, in sostanza, si è basata esclusivamente sui dati del catasto, acquisiti come prova certa della natura pubblica dell’area. A tacer d’altro, l’operato del Comune si è in tal modo posto in aperto contrasto con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui, ai fini della determinazione dell’effettiva proprietà del bene, alle risultanze catastali non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti traslativi in quanto contenenti utili indicazioni in ordine all’estensione dei fondi confinanti (Cass. civ. 23.12.2004 n. 23933). Un accertamento tanto complesso quale quello all’origine dei fatti di causa – osserva il Consiglio – non avrebbe potuto essere concluso dal Comune in sostanziale assenza di qualunque istruttoria e sulla base soltanto di un raffronto con le risultanze catastali. Sotto tale aspetto, il provvedimento impugnato presenta molteplici profili di invalidità anche per violazione delle norme sul procedimento amministrativo, con particolare riferimento all’obbligo di istruttoria adeguata e completa ed alla (mancata) partecipazione dei soggetti interessati al procedimento amministrativo. La decisione del Consiglio di Stato costituisce un’ulteriore, autorevole conferma dell’orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità (espressamente richiamata nella sentenza in commento), da tempo concorde nel riconoscere ai dati catastali una valenza probatoria di natura indiziaria in ordine alla proprietà dell’immobile, a cui fare riferimento in via sussidiaria, in assenza di altre prove certe sulla titolarità del bene. Del resto, lo stesso Consiglio di Stato ha più volte evidenziato come l’accatastamento costituisca adempimento di tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, non atteggiandosi a strumento idoneo ad evidenziare una situazione di conformità edilizia (Consiglio di Stato, Sez. IV, 4.2.3013, n. 666), né tanto meno a costituire la prova decisiva della proprietà dell’immobile. Anche secondo i Tribunali amministrativi regionali le mappe catastali costituiscono sempre un elemento probatorio di carattere sussidiario, al quale si deve ricorrere “in caso di obiettiva e assoluta mancanza di prove idonee a determinare il confine in modo certo”, o quando i diversi elementi prodotti (per la loro consistenza, o per ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino comunque inidonei alla determinazione certa dei confini (TAR Trentino Alto Adige – Trento, 22.06.2011, n. 177 e 22.11.2012, n. 343). Dalle mappe medesime possono desumersi degli indizi, giacché quello catastale è un sistema secondario sussidiario rispetto all'insieme degli elementi acquisiti attraverso l'indagine istruttoria (Cass. civ., sez. II, 03.03.2009 n. 5131). Non può, pertanto, disconoscersi che le mappe catastali possano costituire indizio che può essere utilizzato ai fini dell’accertamento della proprietà del bene immobile, ma sempre e solo in via sussidiaria e in assenza di altri elementi utili (TAR Calabria-Catanzaro, 8.3.2011, n. 342).

 

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I principi sopra richiamati trovano applicazione, tra gli altri casi, in tema di rivendicazione della proprietà, che soggiace, com’è noto, ad un regime della prova estremamente rigoroso (c.d. probatio diabolica), per il quale base primaria dell'indagine del giudice è costituita dall’esame e dalla valutazione dei titoli di acquisto delle rispettive proprietà. In tema di azione di regolamento di confini è la stessa norma (l’art. 950, secondo comma, c.c.) ad attribuire rilevanza probatoria sussidiaria alle mappe catastali, in mancanza di altri elementi. (Giuseppe Donato Nuzzo, Il Sole 24ORE – Tecnici24, 12 gennaio 2014)

Parti comuni e presunzione legale di comunione, la S.C. ribadisce presupposti e condizioni di operatività

In caso di frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento, dall’originario unico proprietario ad altri soggetti, di alcune unità immobiliari, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale di comunione pro indiviso di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso: ciò sempre che il contrario non risulti dal titolo, cioè che questo non dimostri una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri. Il principio, già enunciato dal giudice di legittimità, è stato ribadito in una recente pronuncia relativa ad una complessa controversia avente ad oggetto l’accertamento del diritto di comproprietà su di un area di scoperto comune rivendicato da due acquirenti di un appartamento (Cass. civ. Sez. II, Sent. 18 dicembre 2014, n. 26766, Pres. Triola, Rel. San Giorgio, P.M. Ceroni). La decisione ha anche il pregio di ribadire, in conformità a quanto già espresso in precedenti arresti, che la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 cod. civ., senz’altro applicabile quando si tratti di parti dello stesso edificio, può ritenersi applicabile in via analogica anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso od al godimento degli stessi, come nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano. (Il Sole 24 ORE – Tecnici24, 7 gennaio 2015)

Fattura di vendita: fissata una quota come corrispettivo

Sui contratti che prevedono l’immediata concessione del godimento di un immobile in sede di conversione è stato inserito un comma relativo alla determinazione della quota dei canoni come corrispettivo della vendita, da restituire in caso di mancato acquisto. Disciplina dei contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili (Dl 133/2014, articolo 23) Il nuovo testo dell’articolo 23, conseguente agli emendamenti parlamentari adottati con la legge di conversione, consiste nell’aggiunta del comma 1-bis. Il decreto legge aveva lasciato ampia e indiscriminata libertà ai contraenti di determinare la quota di canone imputabile a corrispettivo della successiva vendita, come di stabilire eventuali multe penitenziali o clausole penali. Peraltro, lo stesso articolo 23 del decreto legge già prevedeva, con riferimento alle conseguenze dell’inadempimento, che, se il contratto viene risolto per inadempimento del concedente, questi deve restituire la parte dei canoni imputata al corrispettivo, maggiorata degli interessi legali.

 

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Per effetto dell’emendamento in esame, la predeterminazione della quota dei canoni imputata a corrispettivo della vendita, da restituire in caso di mancato acquisto, diviene elemento essenziale ai fini della qualificazione dell’accordo come conforme al nuovo tipo legale dei contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobile. Beninteso, l’omessa indicazione della porzione da imputare a corrispettivo della vendita non è da intendersi come causa di nullità del contratto, per difetto di uno dei requisiti dello stesso, ma cagionerà l’impossibilità di ravvisare, nella volontà espressa dalle parti, la funzione propria del modello previsto dall’articolo 23 in esame, e quindi di operarne la sussunzione nello schema ivi previsto. Come si osservava nel commento inserito in questa rivista, n. 41 dell’11 ottobre 2014, pagine 51 e seguenti, la disciplina anticipata dal Dl 133/2014 riguarda i soli contratti che prevedano il «diritto per il conduttore di acquistar(e)» l’immobile preso in locazione: essa sarà quindi applicabile sia agli schemi di rent to buy consistenti in una vera e propria opzione di acquisto collegata alla locazione, sia alle locazioni con preliminare di futura vendita. Così, il mancato esercizio del diritto di acquistare la proprietà dell’immobile entro il termine stabilito non potrebbe legittimare la ritenzione dell’intero importo dei canoni versati a favore del concedente, come se si trattasse di una caparra confirmatoria, la quale, invero, a norma dell’articolo 1385 del Cc, suppone la reazione a un inadempimento, mentre nel rent to buy il conduttore ha il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare il bene, sicché il mancato esercizio dell’opzione di acquisto non può mai essere considerato alla stregua di un inadempimento. (Antonio Scarpa, Il Sole 24ORE – Guida al Diritto, 1 gennaio 2015)

Preliminare di vendita immobiliare, la mera comunicazione di accettazione resa dall'agente perfeziona il negozio

In tema di contratto preliminare di compravendita immobiliare, la semplice comunicazione di intervenuta accettazione del venditore, a fronte della proposta irrevocabile d’acquisto formulata dal compratore, resa per il tramite di un’agenzia immobiliare è idonea di per sé a determinare la conclusione del negozio, non richiedendosi, a tal fine, la materiale trasmissione da parte dell’intermediario dell’accettazione medesima. Questo, in sintesi, il principio di diritto che può essere tratto dalla lettura di una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ. Sez. II, Sent. 9 dicembre 2014, n. 25923, Pres. e Rel. Triola, P.M. Velardi). In applicazione dell’enunciato principio, il giudice di legittimità ha così cassato con rinvio la sentenza impugnata con la quale la corte del merito, in accoglimento dell’appello proposto dall’aspirante acquirente, aveva riformato la pronuncia di primo grado la quale aveva dichiarato l’inadempimento contrattuale di quest’ultimo e la legittimità del recesso dell’alienante ex art. 1385 cod. civ. con condanna del convenuto al pagamento dell’importo versato a titolo di caparra confirmatoria. La problematica esaminata dalla pronuncia, osserva la Cassazione, non attiene alla legittimità o meno della trasmissione della accettazione scritta al preponente resa dall’agenzia immobiliare in veste di “nuncius”, ma, a ben vedere, investe una più articolata e dibattuta – nei gradi di merito – questione: ovvero se sia sufficiente che il predetto “nuncius”, ovvero l’agente immobiliare, si limiti a comunicare al proponente di essere in possesso dell’accettazione del destinatario della proposta o se, al contrario, debba anche trasmettere al proponente medesimo tale accettazione. L’approdo ermeneutico favorevole alla prima opzione, passa, secondo il giudice di legittimità, attraverso la formulazione del disposto di cui all’art. 1326, primo comma, cod. civ., in base al quale se il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha “conoscenza” dell’accettazione dell’altra parte, tale conoscenza si può realizzare anche senza la sua trasmissione al proponente. In altri termini, specifica la decisione in esame, se il legislatore avesse ritenuto indispensabile tale ultima circostanza, la

 

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previsione della “conoscenza” di cui all’art. 1326, primo comma, cod. civ., sarebbe superflua, in quanto inutile ripetizione dell’art. 1335 cod. civ. Ora, ciò conduce a ritenere, conclude la Cassazione, che l’art. 1326, primo comma, cod. civ. deroga in parte all’art. 1335 cod. civ., nel senso che, fermo restando che l’accettazione, ove diretta al proponente si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia, il contratto si deve ritenere ugualmente concluso quando, pur non essendo stata l’accettazione indirizzata al proponente, questi ne abbia comunque avuto conoscenza. Di qui l’accoglimento nei limiti esposti del ricorso, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della corte di appello territoriale la quale provvederà anche in ordine alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità. Corte di cassazione, Sezione II, Sentenza del 09/12/2014 n. 25923 (Federico Ciaccafava, Il Sole 24ORE – Tecnici24, 22 dicembre 2014)

Telecamera privata sul suolo pubblico ma solo per «autodifesa».

Il caso. Stanchi degli atti di vandalismo subiti alla propria abitazione una famiglia ceca decide di installare una videocamera di sorveglianza che filmava non solo l'ingresso della casa ma anche la strada antistante e l'ingresso della casa di fronte. Grazie al dispositivo installato, dopo l'ennesima rottura di un vetro, vengono consegnate le registrazioni alla polizia che riescono ad identificare e processare due sospetti. Durante il procedimento uno dei due indiziati contesta la legalità del trattamento dei dati registrati. Per tali motivi l'Ufficio per la tutela della privacy infligge una ammenda al titolare del trattamento, perché la registrazione era avvenuta senza il consenso e su un luogo pubblico. Alla luce del caso esposto ci si è chiesti se le riprese domestiche costituiscono un trattamento di dati, assoggettato alla direttiva europea sulla privacy (articolo 3, paragrafo 2, secondo trattino, della Direttiva n. 95/46/CE), o se invece sono un’attività lecita, consentita ai soggetti privati senza vincoli?

La decisione. La Corte di Giustizia Europea, con la sentenza nella causa C-212/13, dell’11 dicembre 2014, parte da questi due presupposti:

- l'immagine di una persona registrata da una telecamera costituisce un dato personale;

- l'attività di videosorveglianza è un trattamento automatizzato di dati;

La Direttiva ha stabilito che in base a quanto disposto dalle norme comunitarie sulla videosorveglianza le riprese che si estendono anche allo spazio pubblico, al di fuori della sfera privata della persona che tratta i dati, non può essere considerata «un’attività esclusivamente personale o domestica». Però, nel contempo è necessario un bilanciamento tra l’interesse alla riservatezza con l’interesse alla tutela dei propri beni e della propria incolumità.

Le condizioni. La Corte di Giustizia ammette una compressione della privacy solo se vi è un concreto interesse alla protezione di beni come la vita della famiglia, la salute e la proprietà. Nel caso di specie si è ritenuto che questo tipo di videosorveglianza, che si estende anche se solo parzialmente allo spazio pubblico, non può considerarsi un'attività esclusivamente “personale o domestica”, quindi è applicabile una videosorveglianza privata sulla pubblica solo per autodifesa della propria proprietà.

Conclusioni. Il proprietario di casa può puntare una telecamera sul suolo pubblico, in direzione di una strada dove circolano i passanti, senza il consenso di quest’ultimi a condizione che, la finalità della videoripresa sia dettata dall’esigenza di proteggere valori come la salute, propria e dei familiari, e la proprietà privata. (Ivan Meo, Il Sole 24 ORE – Tecnici24, 16 dicembre 2014)

 

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Bonus prima casa, l’accatastamento fissa l’agevolazione

Da oggi, 13 dicembre, cambiano i requisiti per acquistare la “prima casa” con un contratto imponibile a Iva. Infatti, per effetto dell’articolo 33, del decreto legislativo 175/2014 non è più prescritto che la casa oggetto di acquisto agevolato sia un’abitazione “non di lusso” (secondo il Dm 2 agosto 1969), in quanto viene sancito che la casa per la quale si richiede l’applicazione dell’Iva al 4% sia un’abitazione accatastata in una categoria del gruppo catastale “A” diversa dalle categorie A/1, A/8 e A/9 (oltre che ovviamente dalla categoria A/10, che censisce le unità immobiliari ad uso ufficio): e quindi nelle categorie A/2, A/3, A/4, A/5, A/6, A/7 e A/11. Il passaggio dai requisiti “di lusso” (consistenti essenzialmente in un’ampia metratura dell’abitazione oppure nel fatto che si tratti di una casa con particolari dotazioni, come una grande piscina) ai requisiti catastali già è vigente dal 1° gennaio 2014 (in forza dell’articolo 10, Dlgs 23/2011) per gli acquisti cui si applica l’imposta proporzionale di registro; mentre, per quanto riguarda gli acquisti Iva-imponibili, a causa di una svista del legislatore, dal 1° gennaio al 12 dicembre 2014 si è continuato a seguire il criterio dell’abitazione “non di lusso”. In altri termini, mentre fino al 31 dicembre 2013 si potevano comprare con l’agevolazione “prima casa” solo abitazioni “non di lusso”, a prescindere dalla loro categoria catastale, dal 1° gennaio al 12 dicembre 2014:

a) l’acquisto tassato con imposta proporzionale di registro (2% per imposta di registro, 100 euro complessivi per imposte ipotecaria e catastale, esenzione da bollo) ha beneficiato dell’agevolazione “prima casa” se ha avuto per oggetto case non accatastate nelle categorie A/1, A/8 e A/9, anche se si trattava di case “di lusso”;

b) l’acquisto Iva-imponibile (4% di Iva e 920 euro complessivi per imposte di registro, ipotecaria, catastale e bollo) ha beneficiato dell’agevolazione “prima casa” se ha avuto per oggetto casa “non di lusso”, anche se accatastate nelle categorie A/1, A/8 e A/9. Con il 13 dicembre 2014, dunque, l’agevolazione “prima casa” torna su un unico binario:

a) il beneficio fiscale compete a chi compra un’abitazione non accatastata nelle categorie A/1, A/8 e A/9 (a prescindere dal fatto che si tratti di una abitazione “di lusso”);

b) il beneficio fiscale non compete a chi compra un’abitazione “non di lusso” se si tratta di una abitazione accatastata nelle categorie A/1, A/8 e A/9. Se dunque con il Dlgs 175/2014 il legislatore ha rimediato all’implausibile doppio binario che si era originato dal 1° gennaio 2014, il sistema presenta ancora alcune non indifferenti incoerenze. Non solo perché di “lusso” si continua a parlare in varie norme (che evidentemente vanno lette come non più riferite al “lusso”, ma alle categorie catastali A/1, A/8 e A/9):

- la nota II-bis all’articolo 1 della Tariffa, Parte Prima, allegata al Testo Unico dell’imposta di registro, in tema di presupposti dell’agevolazione “prima casa”;

- l’articolo 7, legge 23 dicembre 1998, n. 448, in tema di credito d'imposta per il riacquisto della “prima casa”;

- l’articolo 69, comma 3, legge 21 novembre 2000, n. 342, in tema di agevolazione “prima casa” nelle successioni mortis causa e nelle donazioni. Ma anche, e soprattutto, perché rimane ancorato al “lusso” il punto 127-undecies) della Tabella A – Parte III allegata al dpr 633/1972, la quale contiene l'elenco delle cessioni soggette all’ Iva con aliquota 10 per cento. Quindi : a) la cessione di una casa “di lusso” (non accatastata in A/1, A/8 e A/9) può beneficiare del 4%; ma, se non ne beneficia, non può avere l’Iva al 10%, dovendola scontare al 22 per cento; a) la cessione di una casa “di lusso” (accatastata in A/1, A/8 e A/9) non può beneficiare del 4 per cento, ma deve essere tassata con il 10 per cento. Insomma, la semplicità e la coerenza non è “di casa” in questo contesto. (Angelo Busani, Il Sole 24 ORE – Norme e Tributi, 13 dicembre 2014)

 

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Condominio

Terrazzo panoramico di proprietà. Il condomino non può modificare il vano-scala comune.

Il godimento esclusivo non autorizza il singolo condomino a modificare il vano scala comune a scapito degli altri partecipanti al condominio. Lo ha stabilito la seconda sezione civile della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 40 dell'8 gennaio 2015, ha confermato l'ordine di rimessione in pristino dei luoghi per il condomino che aveva arbitrariamente incorporato al suo appartamento una parte del vano scala comune, per accedere più facilmente al terrazzo panoramico. Per i giudici si tratta di appropriazione indebita di spazi condominiali, in quanto il condomino ha esteso il proprio diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, diminuendo il volume del vano scala di cui ha sottratto al condominio una parte, pur esigua. Il fatto. Il Condominio citava in giudizio la proprietaria dell'appartamento al quinto piano, titolare del diritto d'uso e godimento esclusivo del terrazzo prospiciente l'area di solaio adibita a mansarda, chiedendo la condanna al ripristino dei luoghi. Sull'area del solaio, infatti, gravava una servitù di accesso a favore dell'intero condominio, per l'esercizio del quale esisteva un vano comune, dotato di scala in legno, che consentiva l'accesso al terrazzo. Ora, la convenuta aveva fatto eseguire alcuni interventi di ristrutturazione, che avevano mutato la situazione sopra descritta, incorporando arbitrariamente al suo appartamento una parte del vano scala e collegando il proprio appartamento con il terrazzo. La convenuta, inoltre, aveva fatto sostituire l'ultima rampa della scala comune con una scaletta "alla marinara", rendendo disagevole e pericoloso il passaggio per gli altri partecipanti al condominio. Appropriazione indebita. In primo grado, il tribunale ha accertato l'avvenuta abusiva occupazione di spazi condominiali e condannato la condomina al ripristino dei luoghi. Per il giudicante, la modifica apportata al vano scala e agli ultimi gradini dell'originaria scala che collegava il vano al terrazzo costituisce un'appropriazione indebita, sebbene di soli mq. 2,62. La convenuta, seppur non ha alterato la destinazione della scala comune, ha tuttavia esteso il proprio diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, diminuendo il volume del vano scala, di cui ha sottratto al condominio una parte, inglobandola nel proprio appartamento. In altre parole, il godimento esclusivo del terrazzo panoramico non consente al singolo condomino di modificare spazi comuni a discapito degli altri condomini. Certamente tali modifiche sono consentiti se necessari all'effettivo esercizio del diritto al godimento esclusivo del bene; tuttavia, vanno eseguiti senza alterare la destinazione della cosa comune e senza pregiudicare i diritto degli altri partecipanti al condominio. La proprietaria si era opposta alle richieste del Condominio sostenendo, tra l'altro, che l'accesso diretto non rappresentava una modifica marginale e voluttuaria, bensì un intervento assolutamente indispensabile per l'uso in via esclusiva del terrazzo, poiché, a suo dire, non avrebbe senso il godimento in esclusiva del terrazzo paronimico senza potervi accedere con comodità. La convenuta inoltre contestava la natura comune del vano scala, ritenendolo, invece, di sua proprietà esclusiva. Ma la Corte d'appello prima e, poi, la Cassazione con la sentenza in commento hanno confermato la legittimità dell'ordine di rimozione in pristino. Tra l'altro, la suprema Corte rileva che lo stesso intervento di inglobamento del vano scala realizzato dalla convenuta "esclude di per sé la possibilità che tale spazio fosse originariamente compreso nell'appartamento e ne rende oggettivamente delimitabile l'estensione". Peraltro, è la stessa convenuta ha "tradirsi"

 

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quando afferma che il condominio era sempre stato a conoscenza della situazione "autorizzandola fin dall'inizio attraverso l'amministratore". Si tratta evidentemente di un'ammissione della natura comune del vano scala. (Il Sole 24 ORE – Tecnici24, 12 gennaio 2015)

No alla mega-antenna sul lastrico solare condominiale È illegittima l’installazione di un’antenna trasmittente che, per caratteristiche e dimensioni, modifica le modalità di uso e di godimento del lastrico solare, pregiudicando il pari uso del bene comune che spetta a tutti i condomini (Cassazione civile, sentenza n. 27167 del 22.12.2014) Secondo la suprema Corte, il conduttore dell’immobile non può sostituire una vecchia antenna con un’altra più grande che impedisce, di fatto, il pari uso del lastrico condominiale. E non è sufficiente la tolleranza dimostrata in passato dal Condominio per far sorgere alcun diritto in capo al conduttore: per l’installazione della nuova antenna è necessaria l’autorizzazione dell’assemblea dei condomini, entro i limiti di cui all’art. 1102 c.c. Un’emittente televisiva locale, conduttrice di un appartamento in condominio, procedeva alla sostituzione di una vecchia antenna preesistente sul lastrico condominiale con un’antenna trasmittente alta 18 metri (in funzione di ripetitore per il segnale TV), in assenza di autorizzazione del Condominio. Quest’ultimo, allora, citava la conduttrice innanzi al Tribunale di Lecce per la rimozione dell’antenna. Il Tribunale accoglieva la domanda e ordinava la rimozione del ripetitore e il ripristino dei luoghi, ritenendo che la nuova struttura, pur non costituendo un’innovazione vietata ex art. 1120 c.c., non era tuttavia conforme all’art. 1102 c.c. in quanto pregiudicava il pari uso del bene condominiale. Confermata la sentenza in appello, l’emittente televisiva proponeva ricorso in cassazione, criticando la decisione di merito sotto 3 diversi aspetti. Anzitutto, la società affermava di essere titolare di un vero e proprio diritto personale di godimento del lastrico solare in conseguenza del consenso tacito del Condominio al posizionamento del traliccio. Inoltre, non si tratterebbe di una nuova installazione, ma di sostituzione della vecchia antenna, peraltro precedente al contratto di locazione. L’antenna, infine, non comprometterebbe il pari uso del lastrico solare, poiché il ripetitore è stato costruito nella stessa posizione della vecchia antenna, senza modificare la situazione preesistente. I giudici di legittimità hanno respinto tutti i motivi di ricorso, confermando la sentenza di merito. In ordine al primo punto, l’atteggiamento di mera tolleranza in passato tenuto dal condominio non è idoneo a far sorgere in capo al singolo alcun diritto a perpetuare, in presenza del chiaro dissenso dei condomini, una situazione che si pone in violazione con l’art. 1102 c.c. Quanto alla preesistenza al contratto di locazione di una vecchia antenna, secondo la Corte la circostanza è priva di significato. Nel caso di specie, infatti, l’originaria antenna è stata sostituita con un’altra più alta che, per le dimensioni e le caratteristiche, necessità di molteplici cavi tiranti di bloccaggio ed attrae una parte considerevole della cosa comune nella disponibilità esclusiva della stessa società, così impedendo agli altri condomini di farne parimenti uso. Secondo la Cassazione, in altri termini, l’installazione dell’antenna trasmittente, in considerazione della sua consistenza e delle sue dimensioni in rapporto alla superficie del lastrico solare, si risolve in una sottrazione alla possibilità di uso comune di una parte considerevole della superficie del lastrico solare e, quindi, in una compromissione apprezzabile dell’uso paritario del bene. Pertanto - e veniamo al terzo motivo di ricorso - stante l’accertata situazione di fatto, correttamente il giudice del merito ha ritenuto l’installazione non consentita ai sensi dell’art. 1102 c.c., in quanto l’antenna costituisce una modifica delle modalità d’uso e di godimento della cosa comune, che interferisce sul pari uso della stessa spettante a tutti i condomini.

 

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(Il Sole 24 ORE - Tecnici24, 8 gennaio 2015)

Edilizia e Urbanistica

Le distanze legali vanno sempre rispettate anche se vi è la concessione edilizia La presenza di una concessione edilizia (rilasciata, come noto, “salvo diritti di terzi”) non può mai “scriminare”, sotto il profilo civilistico, la condotta di chi costruisce senza rispettare le distanze legali. Con la recente sentenza n° 25637 del 4 dicembre 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna al risarcimento dei danni per gli autori di un muro di contenimento, costruito sulla proprietà del condominio in violazione delle distanze legale con il fondo del vicino. Confermato l’orientamento giurisprudenziale in base al quale la concessione edilizia (oggi permesso a costruire) opera solo nell’ambito dei rapporti tra pubblica amministrazione e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali richiamanti dall’art. 873 c.c. I fatti posti all’attenzione della Suprema Corte riguardano i comproprietari di una palazzina a due piani, che avevano citato in giudizio il vicino Condominio e 4 condomini, ai quali addebitavano la costruzione, su terreno attiguo alla loro proprietà, di varie opere a distanza inferiore a quella prevista dalle norme comunali. Gli attori chiedevano la condanna delle controparti ad arretrare le opere realizzate e, comunque, il ripristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento del danno. Il Tribunale di Brescia accoglieva la domanda con sentenza poi parzialmente riformata dalla Corte d’Appello, condannando i condomini ad arretrare il muro ed a risarcire i vicini di 21.000 euro. Anche il Condominio era ritenuto responsabile in quanto proprietario del terreno. I Condominio proponevano ricorso in Cassazione, contestando la sentenza di condanna sotto diversi profili. Affermavano, tra l’altro, che il manufatto in questione aveva caratteristiche tali da escludere l’obbligo di rispettare le distanze legali e che, in ogni caso, la costruzione era “giustificata” dal rilascio della concessione edilizia che, a loro dire, consentiva la realizzazione del muro anche a distanze inferiori a quelle legali. La seconda sezione civile della Cassazione ha però respinto tutti i motivi di ricorso. Innanzitutto, gli Ermellini hanno confermato la responsabilità dei condomini ritenendo che, nella fattispecie concreta presa in esame, il manufatto era costituito da un muro avente funzione di contenimento di un creato dislivello di origine artificiale. Trattasi, quindi, di manufatto equiparabile ad un muro di fabbrica, del tutto assoggettato al rispetto delle distanze legali. Quanto alla presenza della concessione edilizia (oggi permesso di costruire), essa opera esclusivamente sul piano pubblicistico. Ne consegue che il rilascio della concessione edilizia non può “giustificare” l’eventuale violazione delle distanza legali, che attengono alla sfera dei rapporti tra privati. Si tratta, come detto, di un orientamento consolidato in giurisprudenza (cfr. da ultimo Cass. civ. 19.9.2013, n. 21394). In tema di distanza nelle costruzioni, la rilevanza giuridica delle licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, dal momento che i conflitti tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al

 

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diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva. (Il Sole 24 ORE - Tecnici24, 9 dicembre 2014)

Il Comune non può imporre il colore degli edifici Il Comune, in forza del regolamento edilizio, non può ordinare al proprietario dell’edificio di ridipingere il fabbricato o di svolgervi lavori di manutenzione. La possibilità di imporre i lavori è subordinata dal riscontro di una norma di legge. Il fatto. Una società proprietaria di un immobile impugna dinanzi al Tar Liguria-Genova una ordinanza comunale avente ad oggetto l’ingiunzione di esecuzione delle opere di manutenzione e di colorazione dell’edificio. Secondo la ricorrente, si è verificata la violazione delle regole sul procedimento amministrativo, ovvero l’errata applicazione dell’articolo 54 del Regolamento edilizio laddove tutela il decoro urbano ed edilizio e non anche l’estetica di un singolo edificio dato che, la ricorrente ricorda che lo stesso stabile è oggetto di un intervento di recupero in virtù di uno strumento attuativo ad iniziativa privata approvato dallo stesso Comune. La decisione del Tar Liguria. I giudici liguri, dichiarando fondato il ricorso, hanno osservato, con sentenza 801, sezione Prima, del 28-05-2014: “che l’ingiunzione di eseguire lavori di manutenzione e colorazione prescrive, in realtà, una prestazione patrimoniale che, ai sensi dell’art. 23 Cost., è subordinata al principio di legalità e questo vuol dire che è necessario che la stessa sia espressamente prevista da legge ordinaria, eventualmente integrata da una fonte secondaria, che deve espressamente prevedere tale misura patrimoniale”. Per tali motivi il Tar annulla l’ordinanza comunale impugnata chiarendo che il tema del decoro urbano e quello dei criteri da seguire per la colorazione degli edifici è una materia che rientra nell’ambito delle competenze delle leggi regionali che devono stabilire i criteri da seguire. Le norme regionali, inoltre, devono tener conto del principio di legalità sancito dall’art. 23 della Costituzione. Tali norme devono armoniosamente essere seguite dall’esercizio di una adeguata potestà regolamentare da parte dei Comuni. Per tali motivi è necessario che la norma primaria preveda e consenta la prestazione patrimoniale, purché si integrata da una norma secondaria: se manca la prima, l'ingiunzione può considerarsi illegittima. (Ivan Meo, Il Sole 24 ORE - Tecnici24, 9 dicembre 2014)

 

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Legge e prassi

(G.U. 12 gennaio 2015, n. 8)

Economia, Fisco MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO DECRETO 15 ottobre 2014 Intervento del Fondo per la crescita sostenibile in favore di grandi progetti di ricerca e sviluppo nell'ambito di specifiche tematiche rilevanti per l'«industria sostenibile». (G.U. 5 dicembre 2014, n. 283) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 28 novembre 2014 Esenzione dall'IMU, prevista per i terreni agricoli, ai sensi dell'articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504. (G.U. 6 dicembre 2014, n. 284, S.O. n. 93) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 31 ottobre 2014 Attuazione dell'art. 1, commi 522 - 525, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, concernente la riduzione delle risorse spettanti alle regioni a statuto ordinario, per l'anno 2014. (G.U. 9 dicembre 2014, n. 285) LEGGE 10 dicembre 2014, n. 183 Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. (G.U. 15 dicembre 2014, n. 290) MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO DECRETO 4 dicembre 2014 Aggiornamento del tasso da applicare per le operazioni di attualizzazione e rivalutazione ai fini della concessione ed erogazione delle agevolazioni in favore delle imprese. (G.U. 15 dicembre 2014, n. 290) DECRETO-LEGGE 16 dicembre 2014, n. 185 Disposizioni urgenti in materia di proroga dei termini di pagamento IMU per i terreni agricoli montani e di interventi di regolazione contabile di fine esercizio finanziario. (G.U. 16 dicembre 2014, n. 291) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 12 dicembre 2014 Ripresa degli adempimenti e dei versamenti degli obblighi tributari sospesi a seguito degli eventi meteorologici di settembre ed ottobre 2014, verificatisi nelle Regioni: Liguria, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Friuli Venezia Giulia e nei territori della provincia di Foggia. (G.U. 17 dicembre 2014, n. 292)

 

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MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNICATO Comunicato relativo alla circolare concernente: «Criteri e modalita' di concessione delle agevolazioni ai sensi del decreto 24 settembre 2014 concernente il regime di aiuto finalizzato a sostenere la nascita e lo sviluppo, su tutto il territorio nazionale, di start-up innovative». (G.U. 18 dicembre 2014, n. 293) AGENZIA DELLE ENTRATE COMUNICATO Tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI - Art. 3, comma 1, del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314 (G.U. 19 dicembre 2014, n. 294, S.O. n. 95) AGENZIA DELLE ENTRATE COMUNICATO Tabelle nazionali dei costi chilometrici di esercizio di autovetture e motocicli elaborate dall'ACI - Art. 3, comma 1, del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314 (G.U. 20 dicembre 2014, n. 295, S.O. n. 95) COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DELIBERA 1 agosto 2014 Assegnazione di risorse del Fondo integrativo speciale per la ricerca per il finanziamento del progetto di competenza del Miur: Citta' della Scienza 2.0: nuovi prodotti e servizi dell'economia della conoscenza (Decreto Legislativo n. 204/1998, articolo 2). (Delibera n. 35/2014). (G.U. 23 dicembre 2014, n. 297) ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA COMUNICATO Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, relativi al mese di novembre 2014, che si pubblicano ai sensi dell'art. 81 della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), ed ai sensi dell'art. 54 della legge del 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). (G.U. 23 dicembre 2014, n. 297) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 22 dicembre 2014 Adeguamento delle modalita' di calcolo dei diritti di usufrutto a vita e delle rendite o pensioni in materia di imposta di registro e di imposta sulle successioni e donazioni. (G.U. 29 dicembre 2014, n. 300) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 23 dicembre 2014 Direttive per l'attuazione delle operazioni finanziarie, ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 2003, n. 398, Testo unico delle disposizioni in materia di debito pubblico. (G.U. 1 gennaio 2015, n. 1) MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO COMUNICATO Comunicato relativo alla circolare concernente: «Informazioni utili all'attuazione degli interventi di cui al decreto interministeriale 27 novembre 2013, recante la disciplina dei finanziamenti per l'acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte di piccole e medie imprese. Adeguamento ai regolamenti di esenzione (UE) n. 651/2014 e n. 702/2014». (G.U. 7 gennaio 2015, n. 4)

 

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Energia

MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 20 ottobre 2014 Cofinanziamento nazionale pubblico a carico del Fondo di rotazione di cui alla legge n. 183/1987 delle attività dell'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) per il programma Euratom, anno 2013. (G.U. 26 novembre 2014, n. 275) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 16 dicembre 2014 Modifiche alle disposizioni contenute nel decreto 17 ottobre 2008 in materia di accisa sull'energia elettrica. (G.U. 30 dicembre 2014, n. 301) MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO DECRETO 24 dicembre 2014 Approvazione delle tariffe per la copertura dei costi sostenuti dal Gestore servizi energetici GSE S.p.A. per le attivita' di gestione, verifica e controllo, inerenti i meccanismi di incentivazione e di sostegno delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica, ai sensi dell'articolo 25 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116. (G.U. 31 dicembre 2014, n. 302)

Immobili

AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 4 dicembre 2014 Rettifica del decreto n. 30337 del 27 novembre 2014 relativo alla rettifica dell'allegato A del decreto n. 25933 del 19 luglio 2002 e del decreto n. 28212 del 26 novembre 2013, recante: «Individuazione di beni immobili di proprieta' dello Stato.». (G.U. 9 dicembre 2014, n. 285) AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 4 dicembre 2014 Rettifica del decreto n. 30331 del 27 novembre 2014 recante: «Individuazione di beni immobili di proprieta' dello Stato.». (G.U. 9 dicembre 2014, n. 285) AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 4 dicembre 2014 Individuazione di beni immobili di proprieta' dello Stato. (G.U. 9 dicembre 2014, n. 285) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 11 dicembre 2014 Modifica del saggio di interesse legale. (G.U. 15 dicembre 2014, n. 290) AGENZIA DEL DEMANIO

 

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DECRETO 15 dicembre 2014 Individuazione di beni immobili di proprieta' dello Stato. (Decreto n. 31628). (G.U. 20 dicembre 2014, n. 295) AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 15 dicembre 2014 Individuazione di beni immobili di proprieta' dello Stato. (Decreto n. 31628). (G.U. 20 dicembre 2014, n. 295) AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 16 dicembre 2014 Individuazione di beni immobili di proprieta' dell'Associazione della Croce Rossa. (Decreto n. 31851). (G.U. 20 dicembre 2014, n. 295) AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 16 dicembre 2014 Individuazione di beni immobili di proprieta' dell'Istituto nazionale di previdenza sociale. (Decreto n. 31844). (G.U. 20 dicembre 2014, n. 295) COMITATO INTERMINISTERIALE PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DELIBERA 1 agosto 2014 Sisma Regione Abruzzo: assegnazione di risorse per la ricostruzione di immobili privati e per spese obbligatorie di assistenza alla popolazione (decreto-legge n. 43/2013 e legge di stabilita' n. 147/2013). (Delibera n. 23/2014). (G.U. 22 dicembre 2014, n. 296) AGENZIA DEL DEMANIO DECRETO 18 dicembre 2014 Individuazione di beni immobili di proprieta' dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. (G.U. 23 dicembre 2014, n. 297) ERRATA-CORRIGE Comunicato relativo al decreto 15 dicembre 2014 dell'Agenzia del demanio concernente la individuazione di beni immobili di proprieta' dello Stato. (Decreto n. 31628). (Decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 294 del 19 dicembre 2014). (G.U. 24 dicembre 2014, n. 298) AGENZIA DELLE ENTRATE COMUNICATO Elenco dei comuni per i quali e' stata completata l'operazione di aggiornamento della banca dati catastale eseguita sulla base del contenuto delle dichiarazioni presentate nell'anno 2014 agli organismi pagatori, riconosciuti ai fini dell'erogazione dei contributi agricoli. (G.U. 27 dicembre 2014, n. 299, S.O. n. 98) MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE DECRETO 29 dicembre 2014 Approvazione della territorialita' del livello delle locazioni immobiliari. (G.U. 30 dicembre 2014, n. 301, S.S. n. 14)

 

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Giurisprudenza

Condominio

Tribunale di Cagliari - Sentenza 17 luglio 2014 n. 2209 Va rimossa l'antenna che limita l'uso comune del lastrico condominiale La sostituzione dell'antenna posta sul lastrico solare con una che per «consistenza» e «dimensioni» riduca la possibilità di «uso comune» del terrazzo condominiale è illegittima ed espone il proprietario al risarcimento del danno. Mentre la «tolleranza» per un certo periodo della nuova opera non fa sorgere alcun diritto in capo a chi l'ha installata. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 27167/2014, bocciando il ricorso di una televisione privata pugliese colpevole di aver violato l'articolo 1102 del codice civile. La vicenda – In primo grado il tribunale di Lecce aveva condannato la stazione televisiva alla rimozione dell'antenna ed alla riduzione in pristino dei luoghi. Secondo il giudice l'antenna trasmittente «pur non costituendo un'innovazione vietata ex art. 1120, secondo comma, codice civile, non era conforme al disposto dell'articolo 1102, secondo comma, c.c., poiché, in considerazione della sua consistenza e delle sue dimensioni in rapporto alla superficie del lastrico, attraeva parte della cosa comune nella sfera di disponibilità della convenuta, impedendo agli altri condomini di farne parimenti uso». Decisione poi confermata in appello. L'antenna, infatti, si sviluppava su un traliccio metallico di circa 18 metri installato su un basamento in cemento ed era vincolata al lastrico solare mediante sette tiranti imperniati nella pavimentazione che ne attraversavano l'intera superficie. La motivazione – Dunque, secondo la Suprema corte, come correttamente rilevato dal giudice di merito, l'installazione si risolveva «in una sottrazione alla possibilità di uso comune di una parte considerevole della superficie del lastrico solare, e quindi in una compromissione apprezzabile dell'uso paritetico del bene». Per cui essa «non è consentita ai sensi dell'articolo 1102 codice civile, in quanto costituente, in concreto, una modificazione delle modalità di uso e di godimento della cosa comune, che interferisce sul pari uso della stessa spettante agli altri condomini». Mentre «l'atteggiamento di mera tolleranza in passato tenuto dal condominio non è idoneo a far sorgere in capo all'appellante alcun diritto a perpetuare, in presenza del chiaro dissenso dai condomini, una situazione che si pone in violazione dell'art. 1102 codice civile». (Francesco Machina Grifeo, Il Sole24 ORE – Guida al Diritto, 22 dicembre 2014)

Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 22 dicembre 2014 n. 27167 Condominio, per la manutenzione straordinaria l'acquirente può rivalersi sull'alienante In materia di spese condominiali il precedente proprietario è tenuto a sostenere i costi delle

 

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opere di manutenzione straordinaria, o di eventuali innovazioni realizzate nell'interesse del condominio, in virtù di una delibera approvata prima del trasferimento, solo nei rapporti interni con l'acquirente ma non direttamente nei confronti del condominio. Lo ha stabilito il Tribunale di Cagliari, sentenza 17 luglio 2014 n. 2209, respingendo l'opposizione al decreto con cui era stato ingiunto al nuovo acquirente il pagamento di 11.400 euro per la realizzazione di un impianto di depurazione completo di allacci al sistema fognario ed a quello idrico. L'opponente aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, sostenendo che dovesse considerarsi legittimata al pagamento la ditta lottizzante o, in alternativa, la precedente proprietaria dell'immobile, che l'aveva venduto ai suoi danti causa nel 1978. La motivazione - Secondo il tribunale però la parte venditrice «non avrebbe potuto essere destinataria del decreto ingiuntivo del condominio, in quanto non era più proprietaria dell'unità immobiliare». Piuttosto, l'opponente avrebbe avuto diritto rivalersi nei confronti della prima venditrice, però solo dopo «aver eseguito il pagamento in favore della Comunione», oppure «avrebbe potuto effettuare una chiamata in causa della precedente proprietaria proponendo nei suoi confronti una domanda riconvenzionale con l'atto di opposizione al decreto ingiuntivo». «Insegna invero la giurisprudenza – prosegue la sentenza - che l'obbligazione volta al pagamento di contributi condominiali ha natura di obbligazione propter rem, e che in tema di condominio di edifici, in caso di alienazione di un piano o di porzione di piano, dal momento in cui il trasferimento venga reso noto al condominio, lo stato di condomino appartiene all'acquirente ... Ne consegue che, se il condomino alienante non è legittimato a partecipare alle assemblee e ad impugnare le delibere condominiali, nei suoi confronti non può essere chiesto ed emesso il decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi».

Il precedente - Non solo, ricorda il tribunale che la Suprema Corte ha affermato che «in caso di vendita di un'unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione o di ristrutturazione o innovazioni, in mancanza di accordo tra le parti, nei rapporti interni tra alienante e acquirente è tenuto a sopportarne i relativi costi chi era proprietario al momento della delibera dell'assemblea, sicché ove tali spese siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione dell'atto di trasferimento dell'unità immobiliare, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che tali opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l'acquirente ha diritto a rivalersi, nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva di cui all'art. 63 disp. att. c.c.» (n. 24654/2010). (Francesco Machina Grifeo, Il Sole24 ORE – Guida al Diritto, 30 dicembre 2014)

Immobili

Ctp di Caltanissetta - Sentenza n. 1039/03/14 del 16 dicembre 2014 Affitti, paga solo il comproprietario nel contratto Se il comproprietario affitta un immobile e non indica nel contratto di locazione il nome dell’altro comproprietario (e ciò è ammissibile alla stregua delle regole del diritto civile), l’amministrazione finanziaria è legittimata ad imputare interamente al primo l’intero reddito che ne consegue. Questo è il principio è stato affermato dalla Ctp di Caltanissetta nella sentenza 1039/03/14 depositata in data 16 dicembre 2014. La controversia scaturisce dalla ripresa a tassazione, ai fini Irpef, di maggiori redditi derivanti dalla percezione di canoni di locazione per contratti registrati. Nel caso esaminato un contribuente ha concesso in locazione degli immobili senza la sottoscrizione del relativo contratto anche da parte del proprio coniuge (anch’esso comproprietario dei beni). A fronte di

 

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ciò, l’agenzia delle Entrate ha imputato esclusivamente al contribuente locatore il maggior reddito: secondo l’ufficio soltanto lui doveva ritenersi l’effettivo percettore dei relativi canoni. Il contribuente ha resistito in giudizio, rilevando l’illegittimità dell’accertamento e affermando di potere legittimamente godere delle deduzioni previste per il coniuge a carico sia per il figlio (quest’ultimo al 50 per cento). Nell’analizzare la questione, i giudici di primo grado hanno preliminarmente ricordato che, secondo il pacifico orientamento espresso dalla Corte di cassazione (sentenza 15433/11), il rapporto che deriva dal contratto di locazione e che si instaura tra il locatore e il conduttore ha una natura personale, tale per cui chiunque abbia la disponibilità di fatto di un bene può validamente decidere di concederlo o meno in locazione. Nel caso in esame, quindi, secondo la Ctp di Caltanissetta, non vi era alcun dubbio sul fatto che il contratto di locazione che era stato stipulato dal contribuente (comproprietario dell’immobile) era pienamente valido ed efficace (pur in mancanza della contestuale sottoscrizione da parte del coniuge - comproprietario) e che, ai fini fiscali, altrettanto corretta doveva essere considerata l’imputazione del relativo reddito prodotto esclusivamente in capo al solo coniuge locatore (ovvero colui che era stato l’effettivo percettore dei canoni). A fronte dell’accoglimento della pretesa, la Ctp ha riconosciuto (seppur parzialmente) le ragioni del contribuente, evidenziando che nell’avviso di accertamento che era stato notificato si era verificata un’errata duplicazione di ripresa a tassazione da parte dell’ufficio: secondo i giudici, infatti, entrambi i contratti di locazione che erano stati esaminati (ciascuno dei quali era stato registrato autonomamente, rispettivamente, in data 30 gennaio 2003 e 2 maggio 2005) avevano assunto a riferimento il medesimo immobile. In assenza di idonea documentazione prodotta in giudizio, veniva altresì respinta la richiesta, avanzata dal contribuente, di riconoscimento del diritto alla fruizione della deduzione per carichi di famiglia. Nell’accogliere parzialmente le rimostranze del contribuente, la Ctp ha infine demandato all’ufficio l’onere di procedere al ricalcolo delle imposte, accessori e sanzioni dovute, disponendo la compensazione delle spese giudiziali. (Marco Nessi, Il Sole 24 ORE – Norme e Tributi, 12 gennaio 2015)

 

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Condominio

Le "mappe" del condominio; l'utilizzo delle murature Luigi Salciarini, Il Sole 24 ORE – Consulente Immobiliare, Edizione del 31 dicembre 2014, n. 966

art. 1117 cod. civ.; art. 1102 cod. civ.; art. 1139 cod. civ.

La proprietà

Nel caso delle murature, le regole del diritto condominiale comprendono una miriade di specificazioni. Tale aspetto è determinato sia dalle molte e diverse modalità in cui può manifestarsi la relativa utilizzazione, sia dalla circostanza che nell’edificio sono presenti diffusamente tali manufatti, peraltro spesso eterogenei. In ogni caso, l’art. 1117 cod. civ. anche per tale “bene” pone la presunzione di condominialità, che, come già visto, può essere “vinta” sia da un titolo contrario, sia dalla concreta “destinazione” della “cosa” che fornisca un’utilità non a tutti i condomini, ma ad alcuni di essi. Si afferma che «la destinazione particolare del bene prevale sull’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario» (Cass., sent. n. 12572/2014).

Le tipologie

Nel concreto, la spiccata varietà delle murature si esplica nei seguenti tipi: 1. fondazioni e/o muri portanti (che hanno la funzione di sorreggere l’edificio, qualità che va accertata dal punto di vista “tecnico”); 2. pannelli perimetrali (che corrispondono alle “facciate” del fabbricato e per i quali non vale alcuna

L’uso delle fondazioni

La giurisprudenza è praticamente assente sul punto e sono quindi da ribadirsi i principi applicabili per l’uso dei beni comuni, precisando che è possibile, in via astratta, affermare la legittimità di un uso più intenso delle fondazioni dell’edificio da parte del singolo, a condizione che le relative modalità non compromettano o limitino la loro tipica funzione portante e

L’utilizzo dei muri maestri

Come anticipato, le tipologie di murature sono molteplici, aspetto che si riscontra anche all’interno dell’insieme dei muri maestri. Per di più tali murature possono subire delle variazioni di consistenza, durante la vita dell’edificio. In particolare, infatti, si intende rientrante nella categoria qualunque manufatto abbia funzione portante, a prescindere dalla sua posizione e, quindi, per tutta la sua estensione e anche se collocato in posizione avanzata o

 

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distinzione dipendente dalla posizione o dal fatto che la singola unità immobiliare vi si affacci o meno); 3. muri di recinzione delle aree comuni; 4. pannelli interni con funzione di mera separazione tra le proprietà esclusive. Va ricordato che la riforma (legge 220/2012) ha espressamente inserito le “facciate” nell’art. 1117 cod. civ. presumendone la condominialità.

quindi la stabilità dell’edificio (uso che potrebbe consistere, per esempio, nella realizzazione di piccole nicchie o anche nell’appoggio di altre strutture, sempre se compatibile con la statica dell’edificio).

arretrata rispetto al perimetro dell’edificio. Secondo tale impostazione, sono stati pertanto ritenuti comuni anche i pannelli del piano attico ( ancorché non siano allineati alle facciate) e quelli che delimitano le chiostrine sulle quali si affacciano solo alcune porzioni di piano. Per di più sono comuni anche quei muri non esistenti ab origine , ma realizzati in un momento successivo rispetto alla costruzione del fabbricato: come, per esempio, nel caso della sopraelevazione. Va precisato che ciascun proprietario di piano, o di porzione di piano, può utilizzare le murature, per le proprie esigenze, anche nella parte corrispondente al piano o all’appartamento di altro condomino.

I ritti e gli architravi

Altro intervento della riforma all’interno del testo dell’art. 1117 cod. civ. è stato quello di inserire la denominazione «i pilastri e le travi portanti», estendendo a tale tipologia la citata presunzione di condominialità. Il “bene” corrisponde a quelli che tecnicamente vengono chiamati “ritti e architravi” e che si riferiscono alla struttura portante dell’edificio. In buona sostanza, anche a prescindere dall’integrazione effettuata dalla legge 220/2012, tutte le strutture che svolgono tale funzione devono intendersi comuni (e quindi in comproprietà tra tutti i condomini), con la conseguenza che a tali manufatti, nell’ottica delle regole relative all’utilizzazione, si applica l’art. 1102 cod. civ., in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 cod. civ.

   Le recinzioni e i varchi

Altra tipologia di murature sono quelle che delimitano le aree comuni e ne costituiscono recinzione. Dalla funzione di utilità generale deriva la loro natura condominiale e la possibilità che tutti i condomini le utilizzino. Va precisato tuttavia che una delle modalità più frequenti di utilizzazione delle recinzioni (costituente nell’apertura di varchi) non può essere attuata dal singolo, se determina la comunicazione con porzioni immobiliari non facenti parti del medesimo condominio (come le aperture verso aree vicine, anche se appartenenti al medesimo proprietario).

 

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L’utilizzazione delle murature

Molte sono le tipologie di muri condominiali, che si presumono comuni ex art. 1117 cod. civ.,

oppure in ragione della loro “destinazione”; la riforma ha inserito le facciate nell’art. 1117 cod. civ , nonché i pilastri e le travi portanti; anche le murature di recinzione sono comuni, però non sempre è consentito praticare

varchi  

LE COORDINATE

Art. 1117 cod. civ. Parti comuni dell’edificio

Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo: 1. tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;

2. le aree destinate a parcheggio, nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;

3. le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche. Art. 1102 cod. civ. Uso della cosa comune

Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Art. 1139 cod. civ. Rinvio alle norme sulla comunione

Per quanto non è espressamente previsto da questo capo, si osservano le norme sulla comunione in generale.

N.B.: le ampie modificazioni apportare dalla “riforma” (legge 220 dell’11 dicembre 2012, in vigore dal 18 giugno 2013) nonché le integrazioni introdotte dal successivo decreto “correttivo”

 

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(D.L. 145 del 23 dicembre 2013, convertito con legge 9 del 21 febbraio 2014, in vigore dal 22 febbraio 2014) alla disciplina codicistica applicabile complessivamente alla fattispecie condominiale, comportano la conseguenza che tutta la giurisprudenza precedente, e i principi affermati nelle pronunce di riferimento, devono essere fatti oggetto di una puntuale verifica al fine di accertare se ne permane la validità.

I muri sono comuni per tutta la loro estensione

Cass., sent. 6 novembre 1971, n. 3133 Se dai titoli non risulta alcuna contraria pattuizione, per la presunzione nascente dall’art. 1117 cod. civ. debbono ritenersi di proprietà comune dei diversi piani o porzioni dell’edificio le fondazioni, i muri maestri e quindi anche i muri perimetrali esterni. L’art. 1117 cod. civ. si riferisce a tutta l’estensione dei muri, cioè dalle fondamenta alla copertura dell’edificio nella sua struttura unitaria, e poiché la norma non pone alcuna distinzione, riguarda tanto gli edifici i cui piani siano stati costruiti tutti in origine quanto quelli che hanno subito successivi ampliamenti e sopraelevazioni, a opera del proprietario dell’ultimo piano o del lastrico solare.

La posizione (avanzata/arretrata) dei muri

Cass., sent. 11 giugno 1986, n. 3867 I muri perimetrali dell’edificio in condominio, pur non avendo funzione di muri portanti, vanno intesi come muri maestri al fine della presunzione di comunione di cui all’art. 1117 cod. civ., in quanto determinano la consistenza volumetrica dell’edificio unitariamente considerato proteggendolo dagli agenti atmosferici e termici, delimitano la superficie coperta e delineano la sagoma architettonica dell’edificio stesso. Pertanto nell’ambito dei muri comuni dell’edificio rientrano anche i muri collocati in posizione avanzata o arretrata rispetto alle principali linee verticali dell’immobile.

Cass., sent. 21 febbraio 1978, n. 839 I muri perimetrali dell’edificio in condominio i quali, anche se non hanno natura e funzioni di muri maestri portanti, delimitano la superficie coperta, determinano la consistenza volumetrica dell’edificio unitariamente considerato, proteggendolo dagli agenti termici e atmosferici, e ne delineano la sagoma architettonica sono da considerare comuni a tutti i condomini anche nelle parti che si trovano in corrispondenza dei piani di proprietà singola ed esclusiva e quando sono collocati in posizione, avanzata o arretrata, non coincidente con il perimetro esterno dei muri perimetrali esistenti in corrispondenza degli altri piani, come normalmente si verifica per i piani attici. Realizzazione di aperture

Trib. Bologna, sent. 9 luglio 2012 ;In materia condominiale non si verifica alcuna lesione del possesso dei condomini, per effetto dell’ampliamento dell’apertura del muro perimetrale attraverso la quale si passa dalla corte comune alla proprietà privata del singolo condomino. In tema di condominio, infatti, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare allo stesso, anche se muro maestro, tutte le modificazioni che gli consentano di trarre dal bene in comunione una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini e quindi anche a effettuarvi l’apertura di un varco di accesso ai locali di sua esclusiva proprietà, a condizione però che non impedisca agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro ovvero di utilizzarlo in modo e misura analoga, senza alterarne la normale destinazione e sempre che dette modificazioni non pregiudichino la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato condominiale.

Cass., sent. 6 febbraio 2009, n. 3035 In tema di condominio negli edifici, l’ apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune, con eccezione del caso in cui tale varco metta in comunicazione l’appartamento del condomino con altra unità immobiliare attigua, pur di proprietà del

 

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medesimo, ricompresa in un diverso edificio condominiale, poiché in questo caso il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni e struttura del fabbricato; in quest’ultima ipotesi, peraltro, affinché il comportamento illecito del condomino determini un danno risarcibile, occorre la prova di un concreto pregiudizio economico, la cui verificazione, in assenza di un’effettiva dimostrazione, può ritenersi solo possibile o probabile.

Trib. Bari, sent. 2 maggio 2007, n. 1069 Deve ritenersi lecita l’attività del singolo condomino comproprietario del muro divisorio comune anche laddove non risulti essere limitata alla mera realizzazione di opere finalizzate alla semplice conservazione/riparazione della cosa comune, provvedendo di sua iniziativa alla sopraelevazione del muro originario e alla realizzazione di una cancellata, attraverso un’apertura che consente l’accesso alla sua proprietà esclusiva, risolvendosi in un maggiore godimento consentito ai sensi dell’art. 1102 cod . civ., senza che ciò integri un’innovazione da approvarsi con le prescritte maggioranze di cui all’art. 1120 cod. civ.

Trib. Nola, sent. 19 aprile 2007 ;In applicazione del principio secondo il quale, in tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso e senza che tale uso più intenso sconfini nell’esercizio di una vera e propria servitù deve ritenersi che l’apertura di una porta su muri anche condominiali finalizzata a mettere in comunicazione l’unità immobiliare in proprietà esclusiva di un condomino con un bene comune (nel caso, il vano scala) è pienamente lecita, rientrando tale intervento pur sempre nell’ambito del concetto di uso (seppure più intenso) del bene comune e non esigendo, per l’effetto, alcuna approvazione dell’assemblea dei condomini.

Cass., sent. 19 aprile 2006, n. 9036 In tema di uso della cosa comune, è illegittima l’ apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell’edificio condominiale dal comproprietario per mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva ubicato nel medesimo fabbricato con altro immobile pure di sua proprietà estraneo al condominio; infatti, tale utilizzazione, comportando la cessione a favore di soggetti estranei al condominio del godimento di un bene comune, ne altera la destinazione, giacché in tale modo viene imposto un peso sul muro perimetrale che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio.

Cass., sent. 26 marzo 2002, n. 4314 Negli edifici in condominio i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti a esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato. (Nel caso, la Corte , in applicazione del suindicato principio, ha confermato la sentenza del giudice del merito, che aveva giudicato legittima l’apertura di una porta eseguita da un condomino nel muro condominiale, dopo avere incensurabilmente accertato che da essa non era derivata alcuna sostanziale modifica dell’entità materiale del bene, né il mutamento di destinazione dell’androne comune, di cui il ricorrente poteva continuare a fare uso secondo il suo diritto; incontestata essendo ulteriormente rimasta l’insussistenza di alterazione del decreto architettonico del bene medesimo in conseguenza di detta apertura).

Cass., sent. 5 gennaio 2000, n. 42 Le modificazioni di un bene condominiale per iniziativa del singolo condomino sono lecite nelle sole ipotesi in cui esse, oltre a non comprometterne la stabilità, la sicurezza e il decoro architettonico e a non alterare la destinazione del bene, non siano lesive dei diritti degli altri condomini relativi al godimento sia delle parti comuni interessate alla modificazione, sia delle parti di loro proprietà. Più in particolare, il condomino, nel caso in cui il cortile comune sia munito di recinzione che lo separi dalla sua proprietà esclusiva, può apportare a tale recinzione, pur essa condominiale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modifiche che gli consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini e,

 

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quindi, procedere anche all’apertura di un varco di accesso dal cortile condominiale alla sua proprietà esclusiva, purché tale varco non impedisca agli altri condomini di continuare a utilizzare il cortile, come in precedenza.

Cass., sent. 11 agosto 1999, n. 8591 In tema di condominio di edifici, l’apertura di un varco su un muro comune che metta in comunicazione il terreno di proprietà esclusiva di un singolo condomino con quello comune non dà luogo alla costituzione di una servitù (che richiederebbe il consenso di tutti i condomini) quando il terreno comune viene già usato come passaggio pedonale e carrabile, sempre che l’opera realizzata non pregiudichi l’eguale godimento della cosa comune da parte degli altri condomini, vertendosi in un’ipotesi di uso della cosa comune a vantaggio della cosa propria che rientra nei poteri di godimento inerenti al dominio.

Cass., sent. 18 febbraio 1998, n. 1708 Il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare a esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre dal bene in comunione una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e quindi a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi e di non alterarne la normale destinazione. Costituisce, per converso, uso abnorme del muro perimetrale l’apertura, da parte di un condomino, di un varco che consenta la comunicazione tra il proprio appartamento e altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, il collegamento tra tali unità abitative determinando inevitabilmente la creazione di una servitù a carico di fondazioni, suolo, solai e strutture del fabbricato (a prescindere dalla creazione di un’eventuale servitù di passaggio a carico di un ipotetico ingresso condominiale su via pubblica).

Cass., sent. 20 febbraio 1997, n. 1554 A differenza dalle innovazioni configurate dalle nuove opere, le quali immutano la sostanza o alterano la destinazione delle parti comuni, in quanto rendono impossibile l’utilizzazione secondo la funzione originaria, e che debbono essere deliberate dall’assemblea (art. 1120, comma 1, cod. civ.) nell’interesse di tutti i partecipanti le modifiche alle parti comuni dell’edificio, contemplate dall’art. 1102 cod. civ., possono essere apportate dal singolo condomino, nel proprio interesse e a proprie spese, al fine di conseguire un uso più intenso, sempre che non alterino la destinazione e non impediscano l’altrui pari uso. Pertanto è legittima l’apertura di vetrine da esposizione nel muro perimetrale comune, che, per sua ordinaria funzione, è destinato all’apertura di porte e di finestre, realizzata dal singolo condomino mediante la demolizione della parte di muro corrispondente alla sua proprietà esclusiva. All’eventuale autorizzazione ad apportare tale modifica concessa dall’assemblea può attribuirsi il valore di mero riconoscimento dell’inesistenza di interesse e di concrete pretese degli altri condomini a questo tipo di utilizzazione del muro comune.

Trib. Milano, sent. 13 maggio 1996, n. 4456 È lecita l’apertura di una seconda porta di accesso al proprio appartamento operata da un singolo condomino, a condizione che non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio.

Cass., sent. 21 maggio 1994, n. 4996 Il condomino può aprire nel muro comune dell’edificio nuove porte o finestre o ingrandire quelle esistenti solo se queste opere, di per sé non incidenti sulla destinazione della cosa, non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio.

Cass., sent. 29 aprile 1994, n. 4155 L’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva di massima non integrano abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di fare parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102, comma 1, cod. civ. e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare a un’interclusione

 

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dell’unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario.

Cass., sent. 7 marzo 1992, n. 2773 Qualora l’ apertura del muro perimetrale comune di un edificio condominiale sia eseguita dal singolo condomino per mettere in comunicazione un’unità immobiliare di sua esclusiva proprietà con un’altra unità compresa in un diverso fabbricato, l’uso del muro comune non può ritenersi consentito a norma dell’art. 1102 cod. c iv., in quanto non si risolve in un semplice maggiore suo godimento, ma integra un’anormale e diversa utilizzazione diretta a sopperire ai bisogni di un bene al quale non è legato da alcun rapporto, venendo inoltre il muro e quindi le parti comuni del fabbricato, quali le fondazioni e il suolo di cui esso fa parte, a essere gravate da una vera e propria servitù a favore di un bene estraneo al condominio, per la cui legittima costituzione, vertendosi in tema di diritti reali immobiliari, è richiesta, a pena di nullità, la manifestazione del consenso in forma scritta di tutti i partecipi.

Cass., sent. 25 ottobre 1988, n. 5780 In tema di utilizzazione del muro perimetrale dell’edificio condominiale da parte del singolo condomino, costituiscono uso indebito della cosa comune, alla stregua dei criteri indicati negli artt. 1102 e 1122 cod. civ., le aperture praticate dal condomino nel detto muro per mettere in collegamento locali di sua esclusiva proprietà, esistenti nell’edificio condominiale, con altro immobile estraneo al condominio, in quanto tali aperture alterano la destinazione del muro, incidendo sulla sua funzione di recinzione, e possono dare luogo all’acquisto di una servitù (di passaggio) a carico della proprietà condominiale.

Cass., sent. 4 febbraio 1988, n. 1112 L’apertura di una porta o di una finestra da parte di un condomino o la trasformazione di una finestra che prospetta il cortile comune in una porta di accesso al medesimo mediante l’abbattimento del corrispondente tratto di muro perimetrale che delimita la proprietà del singolo appartamento non costituisce di per sé abuso della cosa comune idoneo a ledere il compossesso del muro comune che fa capo come ius possidendi a tutti i condomini.

Trib. Piacenza, sent. 3 luglio 1987, n. 314 Non è consentito a un condomino, senza il consenso degli altri condomini, praticare nel muro perimetrale un’apertura in modo tale da mettere in comunicazione due edifici completamente distinti fra loro.

Cass., sent. 27 marzo 1987, n. 2973 Il comproprietario o compossessore non può servirsi di un’area comune per accedere, attraverso un’apertura appositamente creata in un muro divisorio comune, a un immobile di sua esclusiva proprietà o di suo esclusivo possesso, diverso dal fondo al cui servizio l’area venne originariamente creata, perché ciò si risolverebbe nella costituzione di una vera e propria servitù di passaggio su tale area, ovvero in una molestia del compossesso altrui.

Cass., sent. 11 giugno 1986, n. 3867 Costituisce uso indebito della cosa comune, non consentito quindi dalla norma dell’art. 1102 cod. civ., l’apertura praticata da un condomino nel muro comune per mettere in collegamento un vano dell’edificio condominiale con altro suo immobile estraneo a detto edificio, in quanto tale apertura viene a creare una servitù a carico del condominio, per la cui costituzione è richiesto il consenso di tutti i partecipanti alla comunione risultante da atto scritto, a pena di nullità.

Cass., sent. 16 novembre 1985, n. 5628 I muri che delimitano il complesso condominiale, costituendone quindi il perimetro, non tollerano abbiano essi natura di muri portanti o meramente divisori aperture, da parte di un condomino, ove, realizzando un passaggio con un immobile di appartenenza dello stesso condomino ma estraneo al condominio, possano dare luogo, attraverso il prolungato possesso, ad acquisto di servitù a carico dell’entità condominiale che circoscrivono.

 

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Cass., sent. 4 marzo 1983, n. 1637 Il condomino di un edificio, essendo comproprietario dell’intero muro perimetrale comune e non della sola parte di esso corrispondente alla sua esclusiva proprietà, può apportare a tale muro, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modifiche che consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini e quindi procedere anche all’apertura nel muro di un varco di accesso dal cortile condominiale ai locali di proprietà esclusiva, purché non impedisca agli altri condomini di continuare nell’esercizio dell’uso del muro o di ampliarlo in modo e misura analoghi e non alteri la normale destinazione del muro medesimo.

Cass., sent. 13 gennaio 1983, n. 255 In presenza di aperture nel muro comune di un edificio in condominio eseguite da un condomino in corrispondenza della propria proprietà individuale, il terzo estraneo al condominio che da tali aperture subisca lesione nei propri diritti può chiederne la modificazione o l’eliminazione nei confronti del singolo condomino che l’apertura ha eseguito, ma non può, neppure citando in giudizio l’intero condominio, invocare a fondamento del proprio diritto la violazione del decoro architettonico dell’edificio condominiale a cui è estraneo, in quanto il decoro architettonico rappresenta solo un limite fissato alla facoltà, individuale e collettiva, di apportare modificazioni all’edificio condominiale per il miglioramento, l’uso più comodo o il maggiore rendimento delle sue parti, di proprietà comune o di proprietà singola e che opera nei soli confronti dei partecipanti al condominio e non è opponibile dai terzi.

Cass., sent. 15 dicembre 1982, n. 6929 L’apertura di nuove finestre o la trasformazione di quelle esistenti nel muro comune verso gli spazi condominiali (nella specie, un pozzo di luce destinato ad arieggiare e illuminare i locali interni che vi prospettano), in corrispondenza della proprietà del singolo, costituisce esercizio del diritto di proprietà e non di quello di servitù, per cui non trovano applicazione le norme che disciplinano le vedute su fondo altrui (artt. 900, 907 cod. civ.), bensì quelle che consentono al condomino di servirsi delle parti comuni per il migliore godimento della cosa, senz’altro limite che l’obbligo di rispettare la destinazione, di non alterare la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio e di non ledere i diritti degli altri condomini (artt. 1102, 1139 cod. civ.).

Cass., sent. 12 giugno 1981, n. 3819 Salva l’opposizione, per motivi di sicurezza o di estetica, degli altri partecipanti alla comunione, al condomino è consentito aprire nel muro comune, sia esso maestro oppure no, luci sulla strada o sul cortile; tuttavia, qualora il muro comune assolva anche la funzione di isolare e dividere la proprietà individuale di un condomino dalla proprietà individuale di altro condomino, ricorrono anche gli estremi per l’applicabilità dell’art. 903, comma 2, cod. civ., con la conseguenza che, in tale caso, l’apertura della luce resta subordinata sia alle condizioni e alle limitazioni previste dalle norme in materia di condominio (con riguardo agli interessi riconosciuti a tutti i partecipanti alla comunione e alle regole stabilite circa l’uso delle cose comuni da parte dei singoli condomini), sia, alla stregua del comma 2 del citato art. 903 cod. civ., al consenso del condomino vicino, in considerazione dell’interesse del medesimo alla riservatezza della sua proprietà individuale.

Cass., sent. 13 ottobre 1978, n. 4592 La realizzazione di un’apertura nel muro perimetrale dell’edificio condominiale, che metta in comunicazione, senza pregiudizio per la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio , l’appartamento di proprietà esclusiva con il giardino “annesso”, attuando un collegamento tra entità principale ed entità accessoria costituenti un’unica entità condominiale, si configura come atto di godimento rivolto a una maggiore e più intensa utilizzazione della cosa comune.

Cass., sent. 22 aprile 1975, n. 1560 Il condomino di un edificio non può, eseguendo una costruzione in aderenza al muro perimetrale comune, chiudere un’apertura destinata a dare luce a un vano di proprietà di altro condomino, giacché l’art. 1102 cod. civ . gli vieta di attrarre nella sua sfera esclusiva un elemento comune dell’edificio, con correlativo impedimento per un altro condomino di continuare a farne uso in conformità alla sua destinazione.

 

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Utilizzazione (vietata) a favore di un altro edificio

Cass., sent. 14 giugno 2013, n. 15024 I muri perimetrali di un edificio in condominio sono destinati al servizio esclusivo dell’edificio stesso, sicché non possono essere usati, senza il consenso di tutti i comproprietari, per l’utilità di altro immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini e costituente un’unità distinta rispetto all’edificio comune, in quanto ciò costituirebbe una servitù a carico di detto edificio. Pertanto costituisce uso indebito di cosa comune l’appoggio praticato da un condomino sul muro perimetrale dell’edificio condominiale per realizzare locali di proprietà esclusiva, mettendoli in collegamento con altro suo immobile, in quanto siffatta opera viene ad alterare la destinazione del muro perimetrale e a imporvi il peso di una vera e propria servitù.

Cass., sent. 6 febbraio 2009, n. 3035 In materia condominiale, è illegittima, in quanto costituisce uso abnorme del bene comune, l’apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell’edificio condominiale da parte di un singolo condomino per mettere in comunicazione un appartamento di sua proprietà esclusiva con altra unità immobiliare attigua, anche se di proprietà del medesimo condomino, ma appartenente a diverso edificio condominiale; tale collegamento tra unità immobiliari comporta difatti la creazione di una servitù a carico del condominio.

Cass., sent. 21 aprile 2008, n. 10324 I muri perimetrali di un edificio condominiale sono destinati al servizio esclusivo della costruzione di cui costituiscono parte organica per funzione e destinazione, sicché ogni singolo condomino ha la più ampia possibilità di utilizzarli solo per il migliore godimento della parte del fabbricato di sua proprietà, a patto che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso da parte degli altri proprietari; nessuno può utilizzarli a servizio di un altro immobile di sua proprietà che non è compreso nell’edificio condominiale: ciò equivale, infatti, a imporre sulla cosa comune una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i comproprietari. Pertanto integra gli estremi di uso indebito della cosa comune l’apertura praticata dal condomino nel muro perimetrale dell’edificio condominiale per mettere in collegamento un’ unità immobiliare di sua esclusiva proprietà, esistente nell’edificio condominiale, con altro immobile, sempre di sua proprietà, ricompreso in un diverso stabile condominiale.

Trib. Reggio Calabria, sent. 10 novembre 2006 ;I muri perimetrali di un edificio in condominio sono destinati esclusivamente al servizio dell’edificio medesimo di cui sono parte organica e non possono essere utilizzati a servizio di altro immobile distinto dal primo, configurandosi altrimenti una servitù a favore di un bene estraneo al condominio per la cui costituzione occorre il consenso di tutti i condomini.

Il danno da “illecita” apertura

Cass., sent. 6 febbraio 2009, n. 3035 Ai fini della determinazione quantitativa del danno derivante dal comportamento illecito del condomino che abbia aperto un varco nel muro perimetrale (danno da lesione del corrispondente diritto reale sul bene comune) e della sua liquidazione per equivalente pecuniario , è necessaria la prova della verificazione in concreto di un pregiudizio economico.

Apertura e reato di danneggiamento

Cass., sent. 27 ottobre 2009, n. 41284 Integra il reato di danneggiamento la condotta che deteriori la cosa che ne è oggetto sì da rendere necessaria una non agevole attività di ripristino. (Nella fattispecie, relativa all’apertura di un varco in un muro condominiale, la Corte ha tuttavia escluso la sussistenza del delitto, posto che il condomino, con l’apertura della

 

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porta, non aveva abusato del suo diritto , garantito dall’art. 1102 cod. civ., né aveva reso la parete condominiale inutilizzabile da parte del resto dei condomini).

Utilizzazione del muro nel caso di sopraelevazione

Trib. Messina, sent. 29 dicembre 2007 Il proprietario dell’ultimo piano, nell’esercitare il diritto di sopraelevazione, a lui riconosciuto dall’art. 1127 cod. civ., può apportare alla cosa comune tutte le modificazioni necessarie con le indispensabili demolizioni e ricostruzioni e pertanto può utilizzare i muri perimetrali comuni per appoggiarvi la nuova costruzione, aprirvi varchi di accesso o utilizzare quelli esistenti, prolungare la scala comune fino al nuovo appartamento, pur dovendo costruirla secondo le caratteristiche delle rampe preesistenti. Muri dell’edificio: esclusione del condominio parziale

Cass., sent. 3 gennaio 2013, n. 64 In tema di condominio negli edifici, le parti dell’edificio muri e tetti (art. 1117, n. 1, cod. civ.), ovvero le opere e i manufatti fognature, canali di scarico e simili (art. 1117, n. 3, cod. civ.) deputati a preservare l’edificio condominiale da agenti atmosferici e da infiltrazioni d’acqua, piovana o sotterranea, rientrano, per la loro funzione, fra le cose comuni, le cui spese di conservazione sono assoggettate alla ripartizione in misura proporzionale al valore delle singole proprietà esclusive, ai sensi della prima parte dell’art. 1123 cod. civ., non rientrando, per contro, fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa, ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri, di cui all’art. 1123, commi 2 e 3, cod. civ.

Identificazione del muro di cinta

Cons. Stato, sent. 7 novembre 2012, n. 5657 Un muro al quale sia appoggiata una costruzione non può essere considerato come muro di cinta, ai sensi e agli effetti dell’art. 878, comma 1, cod. civ., posto che tale qualifica del manufatto richiede, oltre alla destinazione del muro medesimo a recingere la proprietà e all’altezza non superiore a tre metri, anche l’ulteriore requisito del suo isolamento su entrambe le facce.

Muro di contenimento

Trib. Roma , sent. 19 ottobre 2010, n. 20572 La circostanza che un muro di sostegno di un giardino di proprietà esclusiva sovrasti un sottostante terreno di proprietà condominiale, adibito a passaggio, non è di per sé sufficiente all’inclusione del muro medesimo tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 cod. civ., con le relative conseguenze in ordine all’onere delle spese di riparazione, atteso che la suddetta opera, per sua natura destinata a svolgere funzione di contenimento di quel giardino e quindi a tutelare gli interessi del suo proprietario, può essere compresa fra le indicate cose comuni solo ove ne risulti obiettivamente la diversa destinazione a servizio di tutti i condomini, in quanto necessaria a consentire detto passaggio.

 

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Vizi e difetti dell’opera

La Cassazione torna sui gravi vizi e difetti dell'opera e relative responsabilità Donato Palombella, Il Sole 24 ORE – Consulente Immobiliare, Edizione del 31 dicembre 2014, n. 966  Uno dei problemi più frequenti che affliggono, allo stesso tempo, condomini, imprese e professionisti riguarda la contestazione di vizi e difetti nella realizzazione delle opere. La criticità è presente sia nei fabbricati di recente costruzione, sia nei semplici lavori di manutenzione e/o ristrutturazione. In ogni caso, vuoi che si guardi la questione con l’occhio del condominio, o dal punto di vista dell’impresa e dei professionisti coinvolti, la situazione sarà sempre capace di togliere il sonno a tutti; il più delle volte, infatti, per porre rimedio ai vizi lamentati, saranno necessarie opere particolarmente costose. Non è raro il caso in cui le imprese preferiscano chiudere i battenti piuttosto che essere trascinate in giudizi con risarcimenti milionari. Non è assolutamente facile districarsi in queste situazioni, in quanto i fattori in gioco sono molteplici: la possibilità di contestare l’esistenza dei gravi vizi e difetti; il rimpallo di responsabilità tra condominio, amministratore, ditta esecutrice delle opere, sub-appaltatore, direttore dei lavori; i termini di decadenza e prescrizione dell’azione. All’interno dei vizi e difetti più comuni, abbiamo quello dovuto alle infiltrazioni di acqua piovana, che costituisce un vero e proprio tallone di Achille di molte costruzioni. Recentemente la Cassazione è intervenuta con due diversi provvedimenti (n. 20557 del 30 settembre 2014 e n. 22822 del 28 ottobre 2014). Cerchiamo di fare il punto della situazione. L’inquadramento del problema Gli aspetti patologici del contratto d’appalto sono disciplinati dagli artt. 1667 e 1669 cod. civ. In particolare, l’ art. 1667 cod. civ. recita: «l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera ». In tale prospettiva, è previsto, da un lato, il risarcimento del danno a favore del committente e, per altro verso, l’obbligo dell’appaltatore di eliminare, a propria cura e spese, i vizi e le difformità dell’opera eseguita. L’ art. 1669 cod. civ. disciplina l’ipotesi in cui il bene sia affetto da gravi vizi e difetti di costruzione con possibilità di rovina o pericolo di crollo dell’immobile. Ovviamente esistono delle differenze tra le due ipotesi: l’art. 1667 cod. civ. prevede una responsabilità contrattuale, che può essere fatta valere esclusivamente dal committente e non dall’eventuale successivo acquirente del bene, relativamente a vizi di lieve entità. L’art. 1669 cod. civ., dal suo canto, prevede una responsabilità extracontrattuale , che trova applicazione nel caso in cui sia messa in discussione la solidità degli elementi strutturali e la loro capacità di durare nel tempo (Cass., n. 13268 del 16 luglio 2004; Cass., n. 3002 del 1° marzo 2001). Diversi anche i termini prescrizionali: l’azione ex art. 1667 cod . civ., infatti, si prescrive in due anni decorrenti dalla data di consegna dell’opera, mentre la garanzia ex art. 1669 cod. civ. vincola il costruttore-appaltatore per un decennio. Prescrizione e decadenza dell’azione Chi intende fare valere le proprie ragioni ha l’onere di denunciare (a pena di decadenza dell’azione) l’esistenza dei gravi vizi e difetti lamentati entro un anno dalla loro scoperta e proporre la relativa azione risarcitoria nell’anno successivo (diversamente l’azione sarà prescritta).

 

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È evidente quindi l’importanza di individuare il dies a quo , ovvero il momento in cui comincia a decorrere il termine annuale di decadenza. Secondo la giurisprudenza, tale termine decorre dal momento in cui il danneggiato consegua un apprezzabile grado di conoscenza sull’esistenza e sulla gravità dei vizi e difetti. A questo punto sorge, a cascata, un ulteriore quesito: quando può dirsi che il soggetto consegue un apprezzabile grado di conoscenza sulla gravità dei vizi e difetti? Parte della giurisprudenza ritiene che tale conoscenza possa essere acquisita solo tramite una consulenza tecnica (Cass., sez. II civ., n. 2169 del 31 gennaio 2011; Cass., sez. I civ., n. 2460 del 1° febbraio 2008; Cass., n. 567 del 13 gennaio 2005; Cass., n. 11740 del 1° agosto 2003; Cass., n. 16008 del 14 novembre 2002; Cass., n. 2977 del 20 marzo 1998); di qui la necessità di ricorrere al classico accertamento tecnico preventivo, che, tra l’altro, avrebbe l’effetto di interrompere la prescrizione dell’azione (Cass., sez. II civ., n. 11743 del 20 maggio 2009). Sotto un diverso punto di vista, occorre evitare che il danneggiato utilizzi l’accertamento tecnico come grimaldello per scardinare le barriere rappresentate dalla decadenza e prescrizione e, proprio in tale contesto, si innesta la recente pronuncia della Cass. n. 20557 del 30 settembre 2014. Il caso Ci troviamo, ancora una volta, di fronte al tipico esempio di danni derivanti dall’infiltrazione di acqua dal lastrico solare. Il proprietario, ritenendo che il danno sia imputabile alla cattiva esecuzione dei lavori di bonifica e impermeabilizzazione del tetto, spara a 360 gradi ritenendo responsabile dell’accaduto il condominio, l’amministratore e l’appaltatore. Sostiene, in particolare, che il condominio sia responsabile per culpa in eligendo vel vigilando , ovvero per avere appaltato l’esecuzione delle opere a una ditta inaffidabile e per avere omesso la vigilanza in fase di esecuzione dei lavori. Responsabile l’assemblea La culpa in eligendo (ovvero la cattiva scelta del proprio interlocutore) richiama la responsabilità dell’assemblea del condominio che avrebbe affidato i lavori senza particolari approfondimenti, senza comparare le offerte provenienti da varie imprese, affidando i lavori a una ditta che, tra l’altro, aveva presentato un preventivo estremamente generico. Sotto questo profilo, a ben guardare, bisognerebbe spezzare una lancia in favore dell’assemblea; nella realt à, difficilmente i “normali” condomini possono avere le competenze tecnico-giuridiche necessarie a effettuare le dovute valutazioni, a meno che ovviamente non si voglia sostenere che l’assemblea avrebbe dovuto farsi carico di interpellare un tecnico di propria fiducia per i necessari chiarimenti. In pratica peraltro i condomini cercano sempre di economizzare sui costi e ben difficilmente sono disposti a mettere mano al portafoglio per una consulenza preventiva. Responsabilità (duplice) dell’amministratore Anche l’amministratore finisce sotto il mirino per un duplice motivo: non solo non avrebbe gestito al meglio la situazione in ambito condominiale, ma avrebbe assunto il ruolo di direttore dei lavori e, in tale veste, sarebbe colpevole per non avere vigilato sull’esecuzione delle opere. A ben guardare, configurare un tale tipo di responsabilità non è per nulla agevole. Nel caso in cui il danneggiato volesse intraprendere un’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di condominio, sarebbe necessario proporre l’azione risarcitoria contro l’intero condominio, che, a sua volta, dovrebbe valutare la possibilità di agire contro il proprio amministratore pro tempore . Il condomino danneggiato peraltro potrebbe pensare di agire direttamente contro l’amministratore di condominio nella sua veste di direttore dei lavori, ma anche questa non è un’impresa facile. Nel caso in esame, la Cassazione ha sottolineato come il direttore dei lavori non possa essere chiamato in causa. A esso, infatti, non potrebbe essere addebitato l’onere di vigilare sull’esecuzione materiale delle opere, bensì solo quello di verificare il rispetto del contratto d’appalto. In altri termini, il direttore dei lavori non sarebbe un cane da guardia costretto a essere costantemente presente in cantiere, bensì un “uomo di fiducia”, a cui spetterebbe il compito di vigilare sulla corretta esecuzione del contratto, ma senza alcun obbligo di risultato.

 

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La responsabilità sulla materiale esecuzione dei lavori verrebbe a cadere, alla resa dei conti, solo sulla ditta esecutrice delle opere. L’appaltatore risponde in proprio L’appaltatore che esegue le opere con una propria organizzazione, apprestandone i mezzi, nonché curandone le modalità esecutive in maniera autonoma, risponde degli eventuali danni causati a terzi ovvero al committente. La responsabilità dell’appaltatore può essere esclusa solo nell’ipotesi in cui esso agisca quale nudus minister , ovvero quando, durante l’esecuzione dei lavori, venga privato dal committente della libertà decisionale riducendosi a un mero esecutore delle istruzioni ricevute senza alcuna possibilità di iniziativa e di vaglio critico, risultando così un mero strumento tecnico nelle mani del committente ( C. Cass., Sez. III, n. 538 del 17 gennaio 2012 ). La corresponsabilità del committente Una corresponsabilità del committente può configurarsi in caso di specifica violazione di regole di cautela nascenti ex art. 2043 cod. civ. dal precetto del neminem laedere , ovvero nell’ipotesi in cui l’evento possa essere riferito al committente stesso per culpa in eligendo , il che si verifica quando il committente affidi l’opera a un’impresa assolutamente inidonea, ovvero quando l’appaltatore, in base a patti contrattuali, sia stato un semplice esecutore degli ordini del committente e abbia agito quale nudus minister attuandone specifiche direttive. La consulenza tecnica non può aggirare i termini di decadenza Con la sent. n. 22822 del 28 ottobre 2014, la Cassazione punta i riflettori sul malvezzo di ricorrere alla consulenza tecnica per dilatare i termini decadenziali. Anche in questo caso il detonatore che dà fuoco alle polveri è costituito dalle infiltrazioni provenienti dal terrazzo; questa volta si tratta delle tegole, che, prive di “fermo”, scivolano via. Il condominio contesta i lavori a febbraio del 2005, ma la citazione parte solo a dicembre del 2006, quando il termine decadenziale è ormai ampiamente decorso. Seguendo un copione ormai collaudato, la ditta eccepisce la decadenza dell’azione e il condominio cerca di aggirare l’ostacolo sostenendo che sarebbe stato possibile raggiungere la piena conoscenza del vizio e la sua imputabilità al comportamento della ditta appaltatrice solo attraverso l’esperimento di una consulenza tecnica. Questa strategia processuale è ben nota e viene fin troppo spesso utilizzata allo scopo di aggirare l’ostacolo rappresentato dalla decadenza dell’azione risarcitoria e ottenere la remissione in termini. Il parere della Cassazione Gli Ermellini chiariscono che «il ricorso a un accertamento tecnico non può giovare al danneggiato quale strumento per essere rimesso in termini quando dell’entità e delle cause dei vizi avesse già avuta idonea conoscenza». In sostanza, il danneggiato non ha bisogno di ricorrere alla consulenza tecnica per rendersi conto dell’esistenza dei vizi, quando essi siano già stati resi noti in precedenza all’appaltatore. Ma come fare a stabilire se la conoscenza e la consistenza dei difetti sia stata apprezzata dal danneggiato? Secondo la Cassazione, il problema viene rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, a cui viene demandato il compito di verificare se l’esistenza dei vizi e difetti, e la loro imputabilità all’appaltatore, erano elementi già noti al danneggiato e se le comunicazioni effettuate nei confronti dell’appaltatore integrino di per sé delle vere e proprie denunce, atte a fare decorrere il termine prescrizionale. L’onere della prova grava sul danneggiato La Cassazione evidenzia un ulteriore punto di estremo interesse. Quando la ditta convenuta abbia eccepito l’avvenuta decadenza dell’azione a causa del decorso del tempo, si attua una specie di inversione dell’onere probatorio, per cui la patata bollente finisce nelle mani del danneggiato. Sarà quest’ultimo ad avere l’onere di provare di avere effettuato la denuncia entro un anno dalla scoperta del vizio.

 

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Conoscenza del vizio da parte del condominio o del condomino? Spesso si discute se l’azione debba essere intrapresa dal singolo condomino, dal condominio e, in questo caso, dall’amministratore pro tempore . Con la sent. n. 22822/2014 viene esaminato anche questo profilo. Il collegio parte dal presupposto che il condominio sia sfornito di personalità giuridica, per cui dovrebbero essere i singoli condomini ad avere percepito la gravità della situazione. Peraltro tale principio incontra un correttivo. Non è necessario che (tutti) i singoli condomini acquisiscano la conoscenza effettiva della situazione, quanto che essa sia portata a conoscenza dell’amministratore del condominio. Quest’ultimo, infatti, ai sensi dell’art. 1131 cod. civ., ha la rappresentanza legale del condominio amministrato ed è legittimato ad agire in giudizio a tutela delle parti comuni, anche contro i terzi. In sostanza, non è necessario che la conoscenza dei vizi e difetti sia riferibile ai singoli condomini (il che peraltro costituirebbe un onere probatorio estremamente gravoso) e neanche all’assemblea, essendo invece sufficiente che l’amministratore del condominio venga a conoscenza dei vizi e dei difetti, della loro causa e dell’imputabilità al comportamento della ditta esecutrice delle opere.

 

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Immobili e locazioni

Immobili da locare - Conversione del D.L. "Sblocca Italia" Leonardo Petrobon, Il Sole 24 ORE – La Settimana Fiscale, Edizione del 7 gennaio 2015, n. 1 pag. 36

Artt. 18, 19 e 21, D.L. 12.9.2014, n. 133, conv. con modif. dalla L. 11.11.2014, n. 164 C.M. 28.2.1998 n. 57 R.M. 28.6.2010, n. 60/E Corte di Cassazione, Sentenza 9.4.2003, n. 5576

Dopo una lunga attesa, il D.L. 12.9.2014, n. 133, ha trovato la conversione nella L. 11.11.2014, n. 164, con alcune modifiche rispetto al testo originario e la permanenza di alcuni dubbi applicativi per determinate disposizioni.

L'impianto normativo riguardante il settore dell'edilizia è rimasto quasi immune dalle modifiche apportate in sede di conversione, di conseguenza hanno trovato conferma alcune forme di incentivazione all'acquisto delle abitazioni da destinare alla locazione, così come il regime di esenzione per la riduzione dei canoni di locazione e la liberalizzazione, a determinate condizioni, dei contratti aventi ad oggetto immobili a destinazione non abitativa

Acquisto di immobili invenduti da destinare alla locazione

Riprendendo quanto già stabilito dall'art. 21, D.L. 12.9.2014, n. 133, lo stesso art. 21, anche dopo l'emanazione della L. 11.11.2014 n. 164 di conversione del decreto, ripropone, in modo più ampio, l'agevolazione consistente in una deduzione d'imposta per l'acquisto di immobili da destinare successivamente alla locazione.

In particolare, secondo la nuova formulazione del citato art. 21 per l'acquisto, effettuato dall'1.1.2014 al 31.12.2017, di unità immobiliari a destinazione residenziale alternativamente:

-di nuova costruzione, invendute alla data dell' 11.11.2014;

-od oggetto di interventi di ristrutturazione edilizia o di restauro e di risanamento conservativo di cui all'art. 3, co. 1, lett. c) e d), D.P.R. 6.6.2001, n. 380, e riconosciuta all'acquirente, persona fisica non esercente attività commerciale, una deduzione dal reddito complessivo pari al 20% del prezzo di acquisto dell'immobile risultante dall'atto di compravendita, nel limite massimo complessivo di spesa di Euro 300.000.

Con riferimento alla seconda tipologia di immobili, si ricorda che l'Agenzia delle Entrate con la C.M. 28.2.1998 n. 57 ha stabilito che rientrano in tale categoria di interventi quelli:

 

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-di riorganizzazione distributiva degli edifici e delle unità immobiliari, del loro numero e delle dimensioni;

-di costruzione di servizi igienici in ampliamento delle superfici e dei volumi esistenti;

-di mutamento di destinazione d'uso di edifici, secondo quanto disciplinato dalle leggi regionali e dalla normativa locale;

-di trasformazione dei locali accessori in locali residenziali;

-di modifica degli elementi strutturali, con variazione delle quote d'imposta dei solai;

-di ampliamento delle superfici.

Dalla lettura della norma, come sopra proposta emerge subito un elemento di criticità, in quanto:

-da un lato la norma fa riferimento agli acquisti effettuati a partire dall'1.1.2014 al 31.12.2017;

-dall'altro lato pone la condizione che si tratti di immobili invenduti alla data dell'11.11.2014, con palese impossibilità che le due condizioni possano coesistere, in quanto, appare di tutta evidenza che un immobile compravenduto in data antecedente all'11.11.2014 non può essere invenduto alla stessa data, escludendo di fatto tutti gli atti posti in essere in data antecedente.

Per quanto relativo a tutte le condizioni necessarie per poter beneficiare dell'agevolazione, si veda la Tabella n. 1.

Con specifico riferimento alla condizione di cui al secondo punto della Tabella n. 1, ossia la concessione dell'immobile in locazione entro sei mesi dall'acquisto in modo continuativo, si ricorda che la deduzione in commento, comunque, non viene meno se, per motivi non attribuibili al locatore, il contratto di locazione si risolve prima del tempo previsto e ne viene stipulato un altro entro 1 anno dalla data di risoluzione.

Con riferimento, invece, alla condizione di cui al terzo punto - rapporto di parentela - il divieto cui fa riferimento la normativa è per quello esistente tra genitori e figli. Sembrerebbero quindi fatti salvi i rapporti di coniugio e gli altri di parentela di grado maggiore.

Rispetto alla disposizione normativa iniziale, la versione che ha trovato conversione nella L. 164/2014 stabilisce che le persone fisiche non esercenti attività commerciale possono cedere in usufrutto, anche contestualmente all'atto di acquisto e anche prima della scadenza del periodo minimo di locazione di 8 anni, le unità immobiliari acquistate con le agevolazioni fiscali, a soggetti giuridici pubblici o privati operanti da almeno 10 anni nel settore dell'alloggio sociale, a condizione che:

-venga mantenuto il vincolo alla locazione alle medesime condizioni stabile per gli immobili concessi locazione;

-il corrispettivo dell'usufrutto, calcolato su base annua, non sia superiore all'importo dei canoni di locazione determinati in base alle regole per i contratti concordato o a canone speciale.

 

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Rispetto alla versione iniziale, il Legislatore ha introdotto la possibilità di procedere alla deduzione Irpef del 20% anche sugli interessi passivi dipendenti da contratti di mutuo stipulati per l'acquisto delle unità immobiliari oggetto della presente agevolazione.

A tal proposito appare quindi utile ricordare che non è necessario che l'immobile a destinazione abitativa, oggetto di acquisto, costituisca l'abitazione principale, come invece richiesto dall'art. 15, D.P.R. 22.12.1986, n. 917.

Tale nuovo aspetto rappresenta sicuramente un elemento aggiuntivo da considerare al fine di valutare la convenienza a porre in essere l'acquisto "agevolato", nei termini sopra indicati. Tuttavia, sotto l'aspetto numerico, in base ad una mera interpretazione letterale della norma, non è chiaro se il limite massimo di spesa, pari ad Euro 300.000, debba essere comprensivo o meno anche degli interessi passivi.

Nel caso in cui fosse sposata la tesi della piena concorrenza degli interessi passivi alla formazione del citato plafond si genererebbe un sicuro problema di gestione della deduzione, in quanto, nell'ipotesi di tasso di interesse variabile:

- sarebbe "impossibile" conoscere a priori l'ammontare degli interessi passivi da considerare ai fini del calcolo del limite di spesa;

- sarebbe "impossibile" determinare la deduzione spettante.

TABELLA N. 1 DEDUCIBILITA' DEL 20% SULL'ACQUISTO DI IMMOBILI DA LOCARE CONDIZIONI

- L'unità immobiliare non deve essere classificata o classificabile nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 (immobile di lusso ai fini dell'imposta di registro e ai fini Iva ex n. 21), Tabella A, Parte Seconda, D.P.R. 26.10.1972, n. 633;

- entro 6 mesi dall'acquisto o dal termine dei lavori di costruzione, l'immobile deve essere concesso in locazione, per almeno 8 anni continuativi, a un canone non superiore a quello indicato nella convenzione riportata nell'art. 18, D.P.R. 380/2001, o a un canone non superiore al minore importo tra il canone concordato (L. 431/1998) e quello stabilito dalla legge che ha istituito i canoni speciali (L. 350/2003);

- tra locatore e locatario non devono esserci rapporti di parentela entro il primo grado;

-l'unita immobiliare deve essere a destinazione residenziale e non deve trovarsi nelle zone territoriali omogenee classificate E (Decreto del Ministro dei lavori pubblici 2.4.1968, n. 1444), vale a dire, in parti del territorio destinate ad usi agricoli;

- l'immobile deve conseguire prestazioni energetiche certificate in classe A o B (Allegato 4 delle Linee Guida nazionali per la classificazione energetica degli edifici di cui al Decreto del Ministro dello sviluppo economico 26.6.2009 o normativa regionale, laddove vigente).

Liberalizzazione dei contratti non abitativi

Con l'art. 18, D.L. 133/2014, come modificato dalla L. 164/2014, il Legislatore nazionale interviene in materia di contratti di locazione di immobili non abitativi, prevedendo che al sussistere di alcune condizioni tali contratti non debbano rispettare alcun vincolo "sostanziale", lasciando piena libertà contrattuale alle parti.

 

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Da un punto di vista normativo il citato art. 18 pone in essere tale opera di liberalizzazione introducendo un nuovo comma all'art. 79, L. 392/1978, in base al quale "in deroga alle disposizioni del primo comma, nei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, anche se adibiti ad attività alberghiera, per i quali sia pattuito un canone annuo superiore ad Euro 250.000, e che non siano riferiti a locali qualificati di interesse storico a seguito di provvedimento regionale o comunale, è facoltà delle parti concordare contrattualmente termini e condizioni in deroga alle disposizioni della presente legge. I contratti di cui al periodo precedente devono essere approvati per iscritto".

Rispetto alla versione iniziale del D.L. 133/2014, il limite minimo del canone di locazione è stato innalzato da Euro 150.000 ad Euro 250.000, escludendo di fatto sicuramente una buona parte dei possibili contratti "super liberi", aventi ad oggetto immobili non abitativi, con un importo di canone annuo pari o inferiore ad Euro 250.000.

Da un punto di vista sostanziale, la novella normativa non procede ad una modifica "mirata" della normativa riguardante la locazione di immobili non abitativi, con una rettifica specifica di una determinata condizione contrattuale, bensì mette nelle condizioni le parti contrattuali di derogare ad ogni disposizione normativa prevista dalla L. 392/1978, che rappresenta l'impianto normativo di riferimento per una corretta gestione dei contratti di locazione.

Sotto l'aspetto oggettivo, richiamando l'art. 27, L. 392/1978, rientrano nel campo di applicazione della modifica normativa i contratti relativi agli immobili adibiti alle seguenti attività:

- industriali, commerciali e artigianali;

- di lavoro autonomo;

- alberghiere.

La circostanza che l'art. 18, D.L. 133/2014, richiami i contratti di locazione "di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione", porta a ritenere che possano essere oggetto di "liberalizzazione" anche le locazioni di immobili inerenti allo svolgimento delle attività previste dall'art. 42, L. 392/1978, quali le attività ricreative, assistenziali, culturali e scolastiche, nonché quelle relative a sedi di partito o di sindacati e le attività svolte dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali.

Da un punto di vista sostanziale, in base alla novella legislativa in esame relativa ai contratti di locazione ad uso non abitativo con canone annuo superiore ad Euro 250.000, è quindi possibile pattuire, ad esempio:

- qualsiasi durata del contratto, quindi anche inferiore a quelle minime indicate dalla L. 392/1978 e solo eventualmente i suoi rinnovi;

- non pattuire la facoltà di recesso del conduttore;

- escludere la facoltà di cessione pressoché automatica del contratto in caso di cessione o affitto d'azienda da parte del conduttore;

- escludere il diritto del conduttore alla cd. indennità per perdita dell'avviamento commerciale, per esempio in caso di diniego di rinnovo del contratto (cd. disdetta per fine locazione) per le attività aventi contatto con il pubblico degli utenti e consumatori.

 

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TABELLA N. 2 - LIBERALIZZAZIONE DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE DI IMMOBILI NON ABITATIVI CON CANONE ANNUO > Euro 250.000

IN ESSERE ALLA DATA DELL'11.11.2014 STIPULATI DAL 12.11.2014

Non è ammessa l'applicazione delle nuove regole

E' ammessa l'applicazione delle nuove regole

Il co. 2 dell'art. 18, D.L. 133/2014 stabilisce, invece, che l'applicazione delle sopra citate regole non ha luogo per i contratti in corso alla data dell'11.11.2014 (data di entrata in vigore della L. 164/2014). In altri termini, quindi, le nuove disposizioni possono trovare applicazione solo per i contratti stipulati a partire dal 12.11.2014.

E, secondo cui l'atto di riduzione del canone di locazione prevedeva:

- il versamento dell'imposta di registro nella misura di Euro 67, in applicazione delle disposizioni di cui alla Nota II dell'art. 5, Tariffa, Parte Prima, D.P.R. 26.4.1986, n. 131, secondo cui "l'ammontare dell'imposta, per le locazioni e gli affitti di beni immobili, non può essere inferiore alla misura fissa di Euro 67";

- il versamento dell'imposta di bollo nella misura di Euro 16 per ogni foglio riguardante il nuovo accordo, in applicazione delle disposizioni di cui all'art. 2, Tariffa, Parte Prima, D.P.R. 26.10.1972, n. 642.

TABELLA N. 3 ASPETTI FISCALI IN CASO DI REGISTRAZIONE DELL'ACCORDO DI RIDUZIONE DEL CANONE DI LOCAZIONE

ANTE D.L. 133/2014 (FINO AL 12.9.2014) POST D.L. 133/2014 (DAL 13.9.2014)

Imposta di registro nella misura di Euro 67; Imposta di bollo nella misura di Euro 16 per ogni foglio

Regime di esenzione sia ai fini dell'imposta di registro che dell'imposta di bollo

Da un punto di vista giuridico, secondo l'orientamento prevalente, per il quale si rimanda alla Sentenza della Corte di Cassazione 9.4.2003, n. 5576, e alla stessa R.M. 60/E/2010, si ricorda che il contratto che si modifica rispetto alla misura del canone di locazione non è da considerarsi come un nuovo contratto.

Secondo quanto indicato anche nella citata Sentenza della Corte di Cassazione, si tratta, infatti, di una semplice modifica di un elemento qualificato accessorio e non essenziale dell'obbligazione, che non costituisce novazione contrattuale e non comporta la necessità di stipulare un nuovo atto di locazione, con nuova data di decorrenza e nuove scadenze.

In particolare, la citata sentenza della Corte di Cassazione afferma che "le sole variazioni del canone non sono di per se indice di una novazione di un rapporto di locazione, trattandosi di modificazioni accessorie della correlativa obbligazione (...) la novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula, infatti, il mutamento dell'oggetto o del titolo della prestazione, ex art. 1230 c.c.".

Sulla base delle considerazioni di carattere giuridico e fiscale, le condizioni necessarie affinché possa trovare piena applicazione il regime di esenzione dall'imposta di registro e di bollo di cui all'art. 19, L. 164/2014, sono:

-che la riduzione del canone costituisca l'unico elemento dell'accordo stipulato tra le parti.

 

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L'esenzione non opera, quindi, nel caso in cui la diminuzione del precedente importo del canone non rappresenti l'oggetto esclusivo del nuovo accordo negoziale, e comprenda, invece, anche pattuizioni eterogenee accessorie, che siano espressamente previste dalle parti nella loro autonomia contrattuale al fine di perseguire un risultato economico unitario e complesso. A tal proposito, infatti, si ricorda che l'art. 21, D.P.R. 131/1986, stabilisce che "se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di essa è soggetta a imposta come se fosse atto distinto";

- che la riduzione del canone si riferisca ad un contratto di locazione ancora in essere. La norma, dunque, presuppone che la locazione sia in corso de iure al momento in cui le parti convengono all'accordo di riduzione del canone. Non sconta quindi il regime di esenzione l'accordo di riduzione nel caso in cui l'inquilino sia rimasto nella materiale detenzione dell'immobile dopo la scadenza del contratto, allorché sia dovuto l'importo di cui all'art. 1591 c.c., ovvero nei periodi di dilazione dell'esecuzione del provvedimento di rilascio o di ritardo nella restituzione dell'immobile.

Da un punto di vista pratico, quindi, il contratto originario non perde validità e, di conseguenza, se la durata del contratto è di 4 anni + 4 anni con rinnovo automatico, tale termine non ricomincia a decorrere da capo solo perché le parti hanno modificato il canone, bensì tutte le condizioni contrattuali, ad eccezione del canone, rimangono immutate.

Un aspetto non presente nella versione originaria dell'art. 18, D.L. 133/2014, è rappresentato dall'ultimo periodo del co. 2, secondo cui "il conduttore, con propria comunicazione, può avanzare richiesta motivata di riduzione del canone contrattuale. Ove la trattativa si concluda con la determinazione di un canone ridotto è facoltà dei comuni riconoscere un'aliquota ridotta dell'imposta municipale propria".

Tralasciando l'indicazione operativa, secondo cui è data facoltà al conduttore chiedere la riduzione del canone di locazione, ciò che rappresenta la vera novità è rappresentata dalla possibilità di ottenere una riduzione dell'aliquota Imu, nel caso in cui il Comune ove è ubicato l'immobile conceda tale possibilità.

TABELLA N. 4 - TABELLA RIEPILOGATIVA

Riferimento normativo

Gli artt. 18, 19 e 21, D.L. 133/2014, come convertito dalla L. 164/2014, introducono alcune novità in materia di immobili da locare. In particolare, l'art. 21 introduce una deduzione d'imposta del 20% sull'acquisto di immobili da destinare alla locazione, al sussistere di specifiche condizioni oggettive e soggettive. L'art. 18, invece, prevede che le locazioni di immobili ad uso non abitativo, il cui canone annuo ecceda Euro 250.000, non sono tenute alle disposizioni di cui alla L. 392/1998, con illimitata libertà contrattuale riservata alle parti. Infine l'art. 19 prevede che le riduzioni dei canoni di locazione siano esenti da imposta di registro e bollo, anche se portati a registrazione

 

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Casi pratici

Immobili

COMUNE, IMMOBILI INCEDIBILI CON DATI CATASTALI ERRATI

D. In riferimento alla normativa concernente l'alienabilità degli immobili di proprietà comunale (articolo 2, comma 59, della legge 662/1996; articolo 40, commi 5 e 6, della legge 47/1985; articolo 7, comma 2, della legge 136/1999), si chiede se la successiva norma contenuta nell'articolo 19 della legge 122/2010, circa la conformità dello stato di fatto dell'immobile alle planimetrie depositate in Catasto, sia ostativa alla vendita in presenza di difformità sostanziali, quali ampliamenti o sopraelevazioni non sanabili con le procedure ordinarie, previste dagli articoli 36 e 37 del Dpr 380/2001. ----- R. La legge 122/2010 statuisce, ai commi 8 e 9, che, entro il 31 dicembre 2010, i titolari di diritti reali sugli immobili che non risultano dichiarati in Catasto, individuati secondo le procedure previste dall’articolo 2, comma 36, del Dl 262/2006, erano tenuti a procedere alla presentazione, ai fini fiscali, della relativa dichiarazione di aggiornamento catastale. L'agenzia del Territorio, successivamente alla registrazione degli atti di aggiornamento presentati, rende disponibili ai Comuni le dichiarazioni di accatastamento per i controlli di conformità urbanistico-edilizia, attraverso il portale per i Comuni (comma 8).Entro il medesimo termine del 31 dicembre 2010, i titolari di diritti reali sugli immobili oggetto di interventi edilizi che abbiano determinato una variazione di consistenza o di destinazione non dichiarata in Catasto, erano tenuti a procedere alla presentazione, ai fini fiscali, della relativa dichiarazione di aggiornamento catastale (comma 9).Sempre la legge 122/2010 ha aggiunto il seguente comma all'articolo 29 della legge 27 febbraio 1985, n. 52: «Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari». La richiesta di registrazione di contratti, scritti o verbali, di locazione o affitto di beni immobili esistenti sul territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite, deve contenere anche l'indicazione dei dati catastali degli immobili. La mancata o errata indicazione dei dati catastali è considerata fatto rilevante ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro ed è punita con la sanzione prevista dall'articolo 69 del Dpr 131/1986.Nel rispetto dei principi desumibili da questo articolo, nei territori in cui vige il regime tavolare le Regioni a statuto speciale e le Province autonome adottano disposizioni per l'applicazione di quanto dallo stesso previsto, al fine di assicurare il necessario coordinamento con l'ordinamento tavolare. L’ultimo comma citato si riferisce genericamente a tutti gli immobili; attraverso un’interpretazione letterale della norma, trova applicazione anche ai trasferimenti di beni immobili di proprietà dei

 

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Comuni. Conseguentemente, qualunque atto pubblico o scrittura privata autenticata avente a oggetto la vendita di immobili comunali, se non contiene i dati indicati nel comma 1-bis citato, sono nulli. (Paolo Mariotti, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 8 gennaio 2015).

VENDITA DI IMMOBILI MERCE CON DETRAZIONE RETTIFICATA D. Una società immobiliare ha acquistato, nel 2012, un immobile merce a uso abitativo, fatturato con Iva, detraendo l’Iva applicata. Nel 2014 ha rivenduto tale immobile a un privato, in regime di esenzione Iva. Oltre a dover applicare il pro rata di detraibilità in sede di dichiarazione Iva per l’anno 2014, si deve anche provvedere alla rettifica dell’Iva detratta in sede di acquisto, ex articolo 19-bis2 del Dpr 633/1972? In altre parole, la rettifica dev'essere applicata anche ai beni merce, oltre che ai beni ammortizzabili? ----- R. La risposta è affermativa: l'Iva assolta e detratta sull'acquisto dell'immobile classificato in bilancio come bene merce è soggetta a rettifica della detrazione, nei limiti dei decimi mancanti al compimento del decennio. L'articolo 19-bis2, comma 8, del Dpr 633/1972 dispone che i fabbricati o le porzioni di fabbricato sono comunque considerati beni ammortizzabili ai fini della rettifica della detrazione Iva. (Giorgio Confente, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 12 gennaio 2015).

IL RIMBORSO ASSICURATIVO «ABBATTE» I COSTI DETRAIBILI D. Un alloggio è stato danneggiato da un incendio. Essendo coperto da una polizza antincendio, il proprietario ha ricevuto un rimborso assicurativo. Le spese successivamente sostenute per la ristrutturazione possono essere detratte al 50 per cento? ----- R. La detrazione del 50% si applica solo per le spese effettivamente rimaste a carico. Pertanto, nell’ipotesi di rimborso assicurativo, le spese sono detraibili solo per la parte non coperta dal rimborso (circolari 57/E e 121/E del 1998). (Marco Zandonà, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 5 gennaio 2015).

Immobili e locazioni

IN ASSENZA DI DISDETTA, IL CONTRATTO RIPARTE D. Sono proprietario di un appartamento, uso abitazione, per il quale era stato stipulato un contratto di affitto (4 anni + 4), già prorogato di ulteriori 4 anni, per un totale di 12 anni. Il contratto scadrà a giugno 2015. Ora la mia domanda è la seguente: devo redigere un nuovo contratto di affitto per altri 4 anni + 4 anni o posso predisporre un contratto di affitto per soli 4 anni? Dovrei rifare il contratto, poichè trattasi di contratto nel quale io, come proprietario, sono subentrato in qualità di erede e l'agenzia delle Entrate mi ha detto che il contratto può essere prorogato una sola volta. Preciso che il contratto è in regime di cedolare secca. ----- R. Alla scadenza del secondo periodo di 4 anni + 4, se è stata inviata disdetta, si deve stipulare un nuovo contratto, a condizioni da concordarsi con il conduttore. Ciò, indipendentemente dal fatto che il contratto sia in regime di cedolare secca o ordinario. Il nuovo contratto avrà la durata di anni 4+4 a meno che non si scelga la via del contratto

 

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agevolato che ha una durata di 3 anni + 2. Si ricorda che, ai sensi della legge finanziaria per il 2005, il contratto deve essere scritto e registrato per non incorrere nella sanzione di nullità. Se non è stata inviata la disdetta, il contratto si rinnova alle medesime condizioni di quello originario, con lo stesso canone e con la durata di 4 anni + 4. In questo caso, si dovrà registrare una proroga in quanto, appunto, il contratto iniziale si è solo prorogato per mancata disdetta. (Luca Stendardi, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 12 gennaio 2015).

ATTESTAZIONI: L'APE HA VALIDITÀ DECENNALE D. Il certificato Ape vale 10 anni. Se si deve affittare il fondo ad un nuovo inquilino, a 12 anni dal rilascio del certificato, questo va rifatto, anche se non sono intervenute modifiche sull'immobile? ---- R. Ove l’Ape (Attestato di prestazione energetica) sia scaduto, è necessario – in caso di stipula di un nuovo contratto di locazione, con un diverso inquilino – acquisirne uno nuovo. In disparte la normativa regionale, infatti, salvo esame della fattispecie in concreto, per l’articolo 6, comma 3, del Dlgs 19 agosto 2005, numero 192, l’Ape deve essere consegnato al conduttore (e della consegna si deve dare atto nel contratto con apposita clausola) o allegato al contratto in caso di locazione di più unità immobiliari. In particolare, il richiamato articolo 6, comma 3, del Dlgs 192/2005 dispone che « … nei nuovi contratti di locazione di edifici o di singole unità immobiliari soggetti a registrazione è inserita apposita clausola con la quale … il conduttore dichiara(...) di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici; copia dell'attestato di prestazione energetica deve essere altresì allegata al contratto, tranne che nei casi di locazione di singole unità immobiliari». Dispone, a sua volta, l’articolo 6, comma 5, del Dlgs 192/2005 «l’attestato di prestazione energetica di cui al comma 1 ha validità temporale massima di dieci anni dal suo rilascio …». (Matteo Rezzonico, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 12 gennaio 2015).

Condominio

LA MEDIAZIONE BLOCCA I TERMINI DI DECADENZA D. Il 28 dicembre 2014 ho ricevuto, con lettera raccomandata, la copia di un verbale di assemblea condominiale. Poiché non intendo accettare quanto deliberato, ho chiesto la mediazione obbligatoria. In caso di insuccesso, l'azione giudiziale va notificata entro il trentesimo giorno a partire dal 28 dicembre 2014, oppure entro il trentesimo giorno a partire dalla notifica del verbale negativo? ---- R. L'articolo 5, comma 1-bis, del Dlgs 4 marzo 2010, n. 28, prevede, tra l'altro, che chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio è tenuto preliminarmente, con l'assistenza di un avvocato, a esperire il procedimento di mediazione secondo il decreto citato. L'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il successivo comma 6 del medesimo articolo prevede che la domanda di mediazione, dalla data della comunicazione alle parti, impedisce altresì la decadenza (qual è il termine di trenta giorni per impugnare la deliberazione assembleare) per una sola volta, ma, se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale dev'essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale alla segreteria dell'organismo. Sul punto ha avuto modo di pronunziarsi la Cassazione, la quale ha precisato

 

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che il medesimo termine decorre "ex novo" dal deposito del verbale negativo alla segreteria dell'organismo di mediazione (Cassazione, sezioni unite, 22 luglio 2013, n. 17781). (Edoardo Ricco, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 12 gennaio 2015)

LA COMPRAVENDITA DI BOX NON SI DISCUTE IN ASSEMBLEA D. In un condominio l'impresa costruttrice, che da anni detiene diversi posti auto, intende venderli, proponendone l'acquisto ai singoli condòmini. Tale proposta può essere discussa, in un apposito punto all'ordine del giorno, in assemblea condominiale o, trattandosi di argomento privato, l'impresa deve invece rivolgersi, al di fuori dell'assemblea, ai singoli condòmini, considerato che esiste anche un registro di anagrafe condominiale? ---- R. Si ritiene che la questione riguardi la compravendita di proprietà esclusive, e non questioni relative a proprietà comuni; per tale ragione l’assemblea condominiale non ha alcun potere in merito e la delibera sarebbe nulla, in quanto fuori dalle competenze dell’assemblea stessa. Se, poi, per ragioni di natura logistico-organizzativa l’impresa costruttrice, che è anche un condomino, vuole - in occasione dell’assemblea e, quindi, di un momento in cui sono presenti i condòmini - illustrare la sua proposta, ciò non è vietato, ma non è previsto che si arrivi a una decisione dell’adunanza. L’adesione alla proposta rimarrà esclusivamente del singolo condomino, acquirente nei confronti dell’impresa costruttrice–proprietaria-venditrice. (Cesarina Vittoria Vegni, Il Sole 24 ORE – Esperto Risponde, 5 gennaio 2015)