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Rassegna bibliografica Memoria operaia, vita quotidiana, fascismo di Dianella Gagliani Il lavoro di Luisa Passerini su Torino ope- raia e fascismo. Una storia orale (Roma-Ba- ri, Laterza, 1984, pp. 296, lire 24.000) rap- presenta uno dei maggiori contributi alla co- noscenza della classe operaia durante il fasci- smo e, senza dubbio, si pone, per le metodo- logie e le fonti usate, per i problemi posti e le conclusioni raggiunte — a prescindere da ogni concordanza con essi — tra i punti di ri- ferimento obbligati per quanti vogliano af- frontare lo stesso tema. Di più: l’analisi delle fonti orali come percorsi di memoria, l’at- tenzione all’ambivalenza di alcune forme mentali, il rapporto stabilito tra cultura ope- raia e cultura popolare, aprono problemi e terreni di ricerca che travalicano il periodo considerato. Asse portante della ricerca è la ricostruzio- ne della memoria operaia del fascismo. Lo spazio geografico è forse il più classico, Tori- no. Meno classici i testimoni. Non sono stati privilegiati i militanti politici del movimento operaio, quanto si sono presi in considera- zione lavoratori con appartenenze ideologi- che diverse, se non addirittura indifferenti od ostili alla politica. Dei 67 intervistati, in- fatti, solamente 11 si collocano tra gli attivi- sti di organizzazioni operaie o dell’associa- zionismo cattolico (rispettivamente cinque e sei): una scelta dettata, più che dalla volontà di raccogliere testimonianze percentualmente rappresentative della collocazione politico- ideologica della classe operaia torinese, dal fine della ricerca, che si proponeva di inclu- dere nell’analisi storica “la vita degli indivi- dui oscuri e comuni” e di dare spazio ad “aspetti non direttamente politici” ma propri dell’esperienza quotidiana (p. 3). Il problema della rappresentatività dei te- stimoni, di cui il gruppo più consistente ha vissuto l’esperienza di lavoro in periodo fa- scista, si pone anche per altri aspetti, come nota Luisa Passerini, ammettendo l’impossi- bilità di costruire con le fonti orali un cam- pione esaurientemente rappresentativo “per problemi di mortalità differenziata, di diva- rio nel tempo e di sfasatura irreconciliabile tra individui e processi generali” (p. 6). A confronto con le acquisizioni della storiogra- fia sulla classe operaia durante il fascismo, il gruppo degli intervistati è maggiormente “sperequato a favore di una classe operaia relativamente più stabile e privilegiata per più lunga permanenza nella città, qualifica- zione, scolarità di quanto fosse la classe ope- raia negli anni Venti e soprattutto Trenta” (p. 11). Ma questi limiti, non celati dall’au- trice, trovano un correttivo nel gruppo degli operai più giovimi (20) e delle donne (34) e, soprattutto, anziché intaccare, danno mag- gior forza alle conclusioni della ricerca, sul ricorso, da parte della classe operaia torine- se, a espressioni culturali arcaiche e sulla convivenza, sul piano della mentalità, di aspetti progressisti e aspetti conservatori. Si- gnificativa in questo senso la contrapposizio- ne Torino/Roma, che, mentre esalta valori regionalistici, con caratteristiche anche xeno- Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155

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  • Rassegna bibliografica

    Memoria operaia, vita quotidiana, fascismodi Dianella Gagliani

    Il lavoro di Luisa Passerini su Torino operaia e fascismo. Una storia orale (Roma-Ba- ri, Laterza, 1984, pp. 296, lire 24.000) rappresenta uno dei maggiori contributi alla conoscenza della classe operaia durante il fascismo e, senza dubbio, si pone, per le metodologie e le fonti usate, per i problemi posti e le conclusioni raggiunte — a prescindere da ogni concordanza con essi — tra i punti di riferimento obbligati per quanti vogliano affrontare lo stesso tema. Di più: l’analisi delle fonti orali come percorsi di memoria, l’attenzione all’ambivalenza di alcune forme mentali, il rapporto stabilito tra cultura operaia e cultura popolare, aprono problemi e terreni di ricerca che travalicano il periodo considerato.

    Asse portante della ricerca è la ricostruzione della memoria operaia del fascismo. Lo spazio geografico è forse il più classico, Torino. Meno classici i testimoni. Non sono stati privilegiati i militanti politici del movimento operaio, quanto si sono presi in considerazione lavoratori con appartenenze ideologiche diverse, se non addirittura indifferenti od ostili alla politica. Dei 67 intervistati, infatti, solamente 11 si collocano tra gli attivisti di organizzazioni operaie o dell’associazionismo cattolico (rispettivamente cinque e sei): una scelta dettata, più che dalla volontà di raccogliere testimonianze percentualmente rappresentative della collocazione politicoideologica della classe operaia torinese, dal fine della ricerca, che si proponeva di inclu

    dere nell’analisi storica “la vita degli individui oscuri e comuni” e di dare spazio ad “aspetti non direttamente politici” ma propri dell’esperienza quotidiana (p. 3).

    Il problema della rappresentatività dei testimoni, di cui il gruppo più consistente ha vissuto l’esperienza di lavoro in periodo fascista, si pone anche per altri aspetti, come nota Luisa Passerini, ammettendo l’impossibilità di costruire con le fonti orali un campione esaurientemente rappresentativo “per problemi di mortalità differenziata, di divario nel tempo e di sfasatura irreconciliabile tra individui e processi generali” (p. 6). A confronto con le acquisizioni della storiografia sulla classe operaia durante il fascismo, il gruppo degli intervistati è maggiormente “sperequato a favore di una classe operaia relativamente più stabile e privilegiata per più lunga permanenza nella città, qualificazione, scolarità di quanto fosse la classe operaia negli anni Venti e soprattutto Trenta” (p. 11). Ma questi limiti, non celati dall’autrice, trovano un correttivo nel gruppo degli operai più giovimi (20) e delle donne (34) e, soprattutto, anziché intaccare, danno maggior forza alle conclusioni della ricerca, sul ricorso, da parte della classe operaia torinese, a espressioni culturali arcaiche e sulla convivenza, sul piano della mentalità, di aspetti progressisti e aspetti conservatori. Significativa in questo senso la contrapposizione Torino/Roma, che, mentre esalta valori regionalistici, con caratteristiche anche xeno-

    Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155

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    fobe, e salda forme di unità tra operai e famiglia Agnelli, acquista pure, negli anni qui considerati, una valenza antifascista, di contrapposizione al potere centrale.

    Il continuo rapporto stabilito tra le immagini della memoria e la realtà fattuale, per cogliere tra i due piani concordanze o discordanze, costituisce uno dei maggiori apporti alla ricerca storica offerto dal libro e una lezione concreta di metodo riguardo eminentemente all’utilizzo delle fonti orali, su cui, come è noto, Luisa Passerini ha dato uno dei maggiori contributi in termini di elaborazione teorica e metodologica. Come l’autrice chiarisce fin dalle prime pagine, la fonte orale si presenta maggiormente pregnante quando ci si voglia accostare al piano delle mentalità; senz’altro meno pregnante quando al centro si ponga la storia dei fatti, dei comportamenti: per quest’ultimo terreno diventa necessario il confronto con altre fonti coeve.

    In realtà, Luisa Passerini ha intrecciato fonte orale e fonte scritta (di massima, fonti del ministero dell’Interno e del ministero di Grazia e Giustizia, ma anche analisi e statistiche elaborate dai contemporanei) non solo nella parte del libro che affronta più diretta- mente il piano dei comportamenti (i capitoli Forme di accettazione sociale del fascismo, Resistenza demografica, La visita di Mussolini a Mirafiori), ma anche nel capitolo Fascismo e ordine simbolico nella quotidianità, che analizza il piano delle mentalità e delle culture.

    Ci sembra opportuno premettere, prima di considerare alcune conclusioni dell’autrice che ci paiono rivestire un particolare rilievo, che, per la fonte privilegiata, i temi trattati, i metodi seguiti, i risultati raggiunti, i problemi sollevati, il libro riveste il carattere dell’interdisciplinarietà, in cui si trovano coinvolte, oltre a quella più propriamente storica, metodologie proprie dell’antropologia, del folclore, della critica letteraria, della psicologia: un lavoro pionieristico, dunque, che sarebbe di estremo interesse analizzare

    attraverso un confronto con studiosi di discipline diverse. Questa premessa è utile non solo per illustrare più correttamente il volume, ma è necessaria per precisare il taglio parziale della nostra lettura che non potrà dare conto della ricchezza e dell’ampiezza dei problemi discussi e di tutti gli spunti offerti per ulteriori ricerche.

    Non ci si può sottrarre, comunque, a meno di precludersi la comprensione della loro pregnanza come fonte storica, da una considerazione di ciò che è specifico e originale delle fonti orali raccolte con il metodo della storia di vita, analizzato da Luisa Passerini nel primo capitolo, La memoria di sé. Autobiografìa e autorappresentazione. Nella forma del racconto, nel modo di presentarsi, gli operai torinesi usano dei tópoi, degli schemi narrativi che rinviano a tradizioni di media e lunga durata (la contrapposizione Torino/ Roma al momento del trasferimento della capitale; alcune forme del comico, popolare a temi analizzati dalla storiografia sulle culture del Cinquecento europeo) e partecipano più di generi letterari precedenti la scrittura (la favola, il mimo, il dialogo, la satira) che non delle forme dell’autobiografia scritta. Il ricorso a stereotipi nell’autopresentarsi: “io sono nata ribelle” , “io ho fatto sempre delle vite che non posso dire”, “io ho sempre avuto fortuna” fanno emergere espressioni di “identità senza sviluppo”, proiettate in un tempo assoluto, in cui passato presente e futuro sono incorporati l’uno nell’altro. Ciò solo nel racconto orale, perché gli stessi soggetti, richiesti di scrivere la loro storia, usano nella scrittura i moduli proprio dell’autobiografia scritta, presentandosi inseriti in uno sviluppo storico.

    Muovendosi su questo terreno con molte cautele e sensibilità, Luisa Passerini, più che risposte definitive e univoche, trova nella fonte utilizzata elementi per correggere interpretazioni consolidate, come quella di Lu- kacs sull’evoluzione progressiva dall’epos al romanzo. Le forme culturali ed espressive

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    delle autopresentazioni, che mostrano tracce di pensiero mitologico e magico, non si possono ridurre a “scalini verso altre forme successive” e più alte, a meno di precludersi la comprensione della cultura di ampi strati sociali e del contributo a “trasmettere il senso della continuità umana della storia” — non come processo evoluzionistico, ma come “percorsi che includono, oltre al lungo lavoro ripetitivo, rotture, salti e sdoppiamenti” (pp. 71-73). E la stessa fonte consente di correggere l’interpretazione di Asor Rosa sulla penetrazione di valori della piccola borghesia nella letteratura populista (pp. 20-21). Il proletario eroico che non ammette incrinature di quel filone trova un referente nella tradizione popolare e folclorica e si ritrova nell’identità senza sviluppo dell’autorappresentazio- ne operaia; ma, ad esso è stata amputata l’altra fronte, quella che oppone la risata al pianto, il comico al tono alto, l’irriverenza al rispetto dei valori. Si può parlare allora, per la letteratura populista, di una riduzione della ricchezza, della profondità e della ambivalenza della cultura popolare e operaia — che, come vedremo, tenterà di operare anche il fascismo —, non già di una completa estraneità ad essa.

    Dopo aver sottoloneato che gli stereotipi narrativi sono legati al sesso, all’età e a percorsi di vita individuali (le donne si presentano come “sempre ribelli”, i più giovani come “sempre capaci di divertirsi”, i militanti come “capaci di aver fatto una scelta e di essersi saputi sacrificare per essa”), l’autrice mette in evidenza la sfasatura, all’interno di una stessa intervista, tra l’immagine di sé offerta dal testimone nel presentarsi e altre parti del racconto, in cui, come nella biografìa narrata di Carolina (pp. 21-25), ‘Tesser stata sempre ribelle” si coniuga con l’accettazione di ruoli tradizionali e subalterni.Viene qui introdotto uno dei leit-motiv del libro, il rapporto tra il piano simbolico e il piano reale, la cui tensione, in una storia della cultura, non può essere risolta nella eliminazione di

    ciò che non è ‘vero’, secondo una impostazione positivistica che ci precluderebbe la comprensione del piano simbolico, delle credenze e di una visione del mondo che è parte integrante di quella cultura. Vanno invece colti i diversi piani, presenti in una medesima intervista, attraverso un uso critico della stessa capace di evidenziare le contraddizioni presenti, e, nello stesso tempo, attraverso un confronto tra le diverse biografie narrate e i documenti scritti coevi. Questo procedimento metodologico permette all’autrice di verificare atteggiamenti antifascisti ed espressioni che rinviano a una cultura popolare di più antica data e comportamenti di accettazione del fascismo che si richiamano a valori preesistenti il fascismo stesso, e, contemporaneamente, di cogliere le novità introdotte dal fascismo come movimento, come regime, come Mussolini.

    Già questo primo capitolo pone il problema, che nelle parti successive verrà ripreso con più forza, del rapporto tra cultura operaia e cultura popolare e della parzialità e ri- duttività di ipotesi che le separino nettamente. Il legame stabilito tra le due culture — la cui caratterizzazione autonoma andrebbe maggiormente precisata, ma risulta fonda- mentale il contributo qui dato al problema — non ha il significato di una ricerca della “purezza operaia” attraverso il recupero delle origini, con il rischio, risalendo all’indie- tro nel tempo, di “arrivare al contadino”, come ha notato Rieser criticando alcune tendenze storiografiche degli studi sulla classe operaia (A proposito di memoria storica e coscienza di classe “Quaderni piacentini”, 1982, n. 4). L’analisi di Luisa Passerini è più complessa e, se le è totalmente estranea una concezione eroica della classe operaia a partire da una visione classocentrica, non è tarata all’origine dalla volontà di riscoprire passati aurei. L’accento posto sull’ambivalenza di alcune forme ideologiche, che possono rivestire caratteri di progresso ma anche caratteri di conservazione, fa risaltare la distanza

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    di Torino operaia e fascismo da quelle premesse.

    Nel saggio Soggettività operaia e fascismo: indicazioni di ricerca dallefonti orali (“Annali” , Fondazione G.G. Feltrinelli, 1979/80) già emergeva questo tema riguardo all’ideologia del lavoro: il valore della professionalità, negli anni del fascismo, si caricava di contenuti conservatori e antidemocratici, già presenti in età liberale ma offuscati e inseriti in una lotta di rinnovamento. In Torino operaia e fascismo l’argomento viene ripreso (pp. 160-167), ma colto più problematicamente e soprattutto non dà luogo alle conclusioni là emerse di un “consenso quotidiano” al fascismo. Lo scavo in profondità che Luisa Passerini ha svolto sulle fonti orali e sulla cultura operaia ha arricchito quel quadro e smussato gli angoli propri di un lavoro di rottura come era il saggio sugli “Annali” Feltrinelli.

    Negli ultimi tre capitoli del libro, in cui si analizza il rapporto tra gli atteggiamenti mentali e i comportamenti reali, i valori legati alla quotidianità non hanno solo un risvolto conservatore, rivestono un duplice carattere. Se consideriamo il tema della maternità (il capitolo è già apparso su questa rivista nel n. 151/152, con il titolo Donne operaie e aborto nella Torino fascista) verifichiamo che le donne, la cui resistenza alla politica demografica del regime è stata reale — riscontrabile, se pur parzialmente, anche dalle fonti coeve — rivelano nella narrazione, insieme alla forza decisionale di regolare la propria capacità riproduttiva in antitesi alle norme fasciste, un atteggiamento subalterno a quei valori, quando dipingono altre donne, generalmente di un’altra classe sociale o legate politicamente al fascismo, come deboli e incapaci fisicamente. “Sono forte da quel lato lì come mia mamma, invece vedo delle belle signore che non riescono a comperare”, racconta Fiora parlando dei suoi falliti tentativi di aborto (p. 187). “E quelli lì volevano un maschio, non una femmina. So che in quel giro lì [vicinato] c’è nato di maschi solo

    il mio e mio nipote. Tutte bambine!” , si vanta Carmen, ricordando con una certa superiorità la delusione di una famiglia di fascisti di fronte alla nascita di una bambina (p. 188).

    Nelle pieghe di alcune testimonianze, di fronte a una esplicita affermazione di antifascismo, compaiono riferimenti all’accettazione di pratiche fasciste, quali la divisa, specialmente per le donne, di forme assistenziali, come le colonie estive per i bambini, e una valutazione sostanzialmente positiva del ruolo d’ordine del fascismo (pp. 155-160). Riprendendo alcuni giudizi di Isnenghi sul fascismo che non inventa ma recupera e innesta nel suo sistema di equilibri “modi di essere e di pensare preesistenti”, funzionali al suo dominio, l’autrice si chiede in quale misura i tradizionali valori d’ordine, “la famiglia, l’etica del lavoro e del sacrificio, il risparmio, il senso di appartenenza locale” abbiano influito nel creare un consenso al fascismo (p. 159). La risposta è complessa e non univoca.

    Certo, è possibile, ammette l’autrice, usare le fonti orali con fini di supporto rispetto alla storiografia esistente. Questa, tuttavia, sarebbe una operazione riduttiva nei confronti delle testimonianze, che hanno nuovi spunti da offrire per ulteriori ricerche e rivelano percorsi più ricchi e meno lineari, non riducibili ad un appiattimento sulle categorie consenso/dissenso. Illuminante è, al riguardo, il paragrafo sulle Mediazioni (pp. 167- 175) nel quale è testimoniata la ricerca da parte degli operai torinesi di un modus vivendi con il potere fascista, con il quale essi scendono a compromessi — accettando l’inevitabile, ma anche legittimando quel potere —, tali, tuttavia, da garantire ad essi la conservazione dell’identità antifascista. La madre di Arturo Gunetti ottiene la promozione del figlio — bocciato all’esame di terza elementare dal maestro, acceso fascista, perché unico allievo non iscritto ai Balilla — attraverso la complicità, fondata sulla comune

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    antipatia per i fascisti, con la direttrice della scuola, che consiglia l’iscrizione del ragazzo a quella organizzazione giovanile. Il fastidio e le difficoltà create, specialmente al padre, dal presentarsi di Arturo in divisa, per di più di fronte ai parenti, decisi antifascisti, vengono in qualche misura temperati dalla riconosciuta necessità di salvare la carriera scolastica del figlio e dal ribadire la propria collocazione antifascista. L’arrendersi nella sfera pubblica alle regole del gioco viene compensato dal mantenimento nella sfera privata della propria scelta ideologica, che fa apparire “momentanea e tattica quell’accettazione” (p. 170).

    Naturalmente, anche fra i testimoni, è presente chi non si è adeguato e ha pagato la scelta di un compromesso con il carcere, le menomazioni fisiche, la continua violenza. Questa coerenza, tuttavia, non può essere considerata rappresentativa dalla maggioranza degli operai torinesi che scelse la mediazione con il regime, per la quale la famiglia giocò come potente arma di ricatto e nella quale un ruolo centrale fu svolto dalle donne. Ma, accanto ad esse, troviamo altre figure di mediatori, un capocasa, un fiduciario di reparto, un milite, che si avvalgono delle loro posizioni di piccolo potere per aiutare o non danneggiare gli stessi antifascisti; oppure fascisti corrotti che instaurano o perpetuano rapporti di tipo clientelare.

    Il reticolo dei rapporti di mediazione, su cui in parte si innesta il fascismo ma preesistente e in qualche misura autonomo rispetto ad esso, pone il problema del grado di totalitarismo del fascismo italiano, della sua capacità di penetrazione in tutte le pieghe della società. Certamente, furono fatti dal fascismo italiano tentativi di introdursi nella vita privata dei singoli, per destrutturarla, e di spezzare i legami di solidarietà interni al vicinato e alla fabbrica, utilizzando il sospetto e la delazione, allargando i confini della sfera pubblica per inserirvi momenti fino ad allora propri di quella privata, dal canto alla bar

    zelletta all’imprecazione. Ma contemporaneamente si assiste a un restringimento dei confini della sfera pubblica in quanto sono relegate nella clandestinità le espressioni politiche dei partiti di opposizione, ogni manifestazione esterna al regime, fino al più piccolo commento sulla politica interna e internazionale (pp. 175-180).

    Fino a qual punto abbiano giocato nel modificato rapporto tra pubblico e privato, così acutamente analizzato e problematizzato da Luisa Passerini, le organizzazioni di massa del regime non si è in grado di stabilire. Dal quasi totale silenzio delle fonti orali e dalla non accentuazione dell’autrice sul loro ruolo si dovrebbe concludere che esse non abbiano rappresentato una alternativa e una reale sostituzione agli organismi politici ed economici preesistenti. Anche se, va rilevato, sarebbe stata senz’altro utile una caratterizzazione, ad esempio, del ruolo del sindacato nei rapporti quotidiani, filtrato attraverso le fonti di memoria.

    È necessario, tuttavia, precisare che sarebbe fuorviante un giudizio su Torino operaia e fascismo basato sulle assenze e sulla pretesa di una descrizione a tutto tondo della condizione operaia tra le due guerre. Non solo perché il percorso segue il filo della memoria (e che il mosaico non sia completo di ogni sua tessera, è ben presente all’autrice), ma soprattutto perché in una analisi di frontiera è una assurda pretesa la richiesta di una ricostruzione che proceda secondo le partizioni classiche della narrazione storica. D’altra parte, le assenze sono compensate da ben più corpose presenze, che non si ritrovano in gran parte, se non totalmente, delle ricostruzioni sulla classe operaia (e non solo in periodo fascista) e sono in grado di essere maggiormente esplicative del rapporto masse-fascismo di molta letteratura storiografica.

    Abbiamo già accennato al contributo al dibattito su consenso /dissenso, alla messa in discussione delle due categorie a partire dalla complessità e dagli intrecci diversi tra forme

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    mentali e forme comportamentali. La resistenza oggettiva delle donne alla politica demografica del regime si combina anche con espressioni ideologiche subalterne a quei valori; l’accettazione sociale di alcune regole del sistema (ad es. la ricordata iscrizione di Arturo Gunetti all’Opera nazionale balilla) si combina con una affermazione di princìpi antifascisti. Nella pratica quotidiana e nei confronti del regime, dunque, il piano della mentalità e il piano dei comportamenti non seguono sempre il medesimo percorso: il primo legato a valori antifascisti, il secondo all’adattamento al regime nella pratica; essi si intersecano e, a volte, si rovesciano; come pure, da una analisi interna al piano della mentalità si riscontrano valori di segno opposto, e da una analisi del piano fattuale comportamenti di segno opposto.

    Un ulteriore contributo al dibattito è offerto dal capitolo Fascismo e ordine simbolico, in cui sono prese in considerazione le reazioni al fascismo nella quotidianità, i piccoli gesti che diventano oppositivi di fronte a un regime che li vieta e li punisce. In una efficace ricostruzione, che congiunge fonti orali e fonti scritte, l’autrice evidenzia la reazione culturale operaia alla omogeneizzazione, la resistenza sul piano simbolico al tentativo di irreggimentazione e disciplinamento del fa- scimo. La novità di questo capitolo, insieme alle conclusioni cui perviene, è rappresentata dal tipo di materiale archivistico utilizzato, che abbonda per gli anni del fascismo nel fondo del ministero dell’Interno all’Archivio centrale di Stato, ma che è stato finora poco considerato dalla storiografia per preclusioni interpretative. Ora, se è vero che la ricerca non deve per forza indirizzarsi là dove i fondi di archivio sono più massicci, è altrettanto vero che, in assenza di distruzioni, la considerazione del rapporto quantitativo tra le fonti non può essere elusa. Per un soggetto quale lo Stato, essa ci fa cogliere la gerarchia dei valori e le modalità dell’intervento politico e, nel caso specifico, il grado e la capillari

    tà del controllo sociale, contribuendo a districare quel nodo del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata intorno al quale, per quanto si riferisce alla repressione politica, alcune prime osservazioni di rilievo sono state offerte da Paola Carucci (La repressione politica. Problemi di ricerca, Intervento al convegno su “Presenza e attività dell’antifascismo a Firenze”, dicembre 1979).

    È interessante notare che Luisa Passerini giunge a cogliere la rilevanza di questo materiale a partire dalle fonti orali, in cui l’accentuazione dell’episodio aneddotico, come espressione di antifascismo culturale che coinvolge un intero gruppo sociale, trova una convergenza nell’azione di polizia che riduce quelle manifestazioni a forme di dissenso politico. Vengono così criminalizzate la scritta sui muri o nei gabinetti, il motto di spirito, la barzelletta, il canto, l’imprecazione, e qualsiasi indumento di color rosso scatena una “vera e propria guerra dei colori” (pp. 120-127). Si tratta di espressioni che, precisa l’autrice, se confrontate con i grandi “fatti” perdono il loro spessore e il loro significato, ma che sarebbe riduttivo giudicare come “ribellismo generico” e accantonarle in una ricostruzione della coscienza di classe operaia tra le due guerre (cfr. i saggi di Gianpasquale Santomassimo su questa stessa rivista (n. 140) e di Giulio Sapelli nella Storia del movimento operaio del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol. Ili, Bari, De Donato, 1980).

    Molto più sensibile su questo versante, la letteratura antifascista del quindicennio postliberazione considerava i caratteri e la violenza del fascismo nell’ingerirsi nella sfera dei sentimenti e del costume e metteva in rilievo “gli aspetti simbolici del fascismo e della resistenza ad esso” (p. 75). Queste forme della reazione operaia, se non vanno immediatamente interpretate come antifascismo politico e se da esse non si possono trarre conclusioni sull’alterità sostanziale della classe operaia nei confronti del fascismo,

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    vanno tuttavia considerate come tentativi di difesa di una identità culturale e di contrapposizione, sul piano simbolico, di una visione del mondo a un’altra. Certamente non va trascurata la cornice in cui si situano queste forme e che definisce la sconfitta e la debolezza della classe operaia, ridotta ad esprimersi in modo monco e balbuziente, senza la possibilità di dispiegare le sue potenzialità e di crescere culturalmente e politicamente. Ma fino a qual punto l’uso del linguaggio fascista, come terminologia e schemi, per stravolgerne il significato, l’irrisione del potere e delle sue espressioni più assurde ma anche più imposte, il vestire la maschera dello sciocco che fingendo di non sapere ridicolizza chi pretende di sapere, possono essere definiti una “regressione” culturale? La risposta di Luisa Passerini è complessa e considera, insieme agli aspetti di arretramento e di impoverimento culturali, il valore rivestito da queste forme “arcaiche” nel creare un fronte di difesa dietro il quale trincerarsi per riaffermare una identità culturale e “valori universali compromessi da processi materiali e culturali” (pp. 151-152). La vitalità di queste espressioni “più antiche” richiama, inoltre, “gli insegnamenti di antropologi e di folcloristi da un lato e di psicologi dall’altro” sull’impossibilità di “interpretare le culture ‘altre’ o l’inconscio come fasi superate una volta per tutte dalle culture successive o dall’io” (p. 151) e mostra la trascuratezza della cultura del movimento operaio — socialista, comunista, anarchica — “di fronte ai lati ‘oscuri’ dell’individuo e della specie, che comprendono le tradizioni magiche così come l’universo psicologico” (p. 5). Ma anche su questo versante sarebbe necessaria una ricostruzione che individuasse il momento della circolarità, e cioè del travaso (o del recupero) di forme culturali popolari nella cultura socialista.

    L’interpretazione del fascismo come onta, vergogna, male assoluto, quale emerge dalle fonti orali, che riprendono inconsapevol

    mente l’interpretazione crociana, sfrondata del versante ideologico di difesa del modello liberale, trova una sua verità nella storia della classe operaia torinese (e non solo in essa), che, mentre cercava di mantenere la sua identità, scendeva a compromessi con il regime. Da qui anche la spiegazione dei silenzi e delle rimozioni sul periodo fascista di molte testimonianze e del sospiro di sollievo e liberazione degli intervistati quando narrano del biennio rosso o del triennio 1943-45, che segna il riscatto da quell’onta. Ma quella interpretazione proviene anche dalla consapevolezza dell’impoverimento e della destrutturazione della propria cultura operati dal fascismo, di cui l’autrice fornisce alcune esemplificazioni calzanti quando individua nell’uso dell’olio di ricino, nell’immagine di Mussolini e nella ripresa da parte del regime delle tradizioni folcloriche un recupero di elementi propri della cultura popolare, depotenziati, tuttavia, delle loro ambivalenze. L’effetto dell’olio di ricino e il riso che ne può derivare richiamano la tradizione comica popolare, di cui ancora, se pur parzialmente, partecipa la cultura operaia, ma l’abbassamento al corporeo, alla terra, di questa ha un doppio segno: nega e afferma nello stesso tempo, distrugge e resuscita (M. Bachtin); mentre quell’abbassamento contiene solo la morte e il riso suscitato diventa piuttosto il ghigno che si schiera con il potere, secondo la definizione di Th. Adorno (pp. 106-7 e 117). Una analoga riduzione si registra nella campagna fascista di recupero delle tradizioni folcloriche, in cui il patrimonio culturale popolare viene destrutturato con la formalizzazione e l’imbrigliamento dei caratteri, ad esempio, della festa, di cui ogni momento è irrigidito di una regia prestabilita. Per gli operai torinesi intervistati il fascismo è dunque “il male” sia per la violenza fisica da esso esercitata, sia soprattutto per l’aggressione psicologica e culturale alle espressioni della loro identità, sia per il tentativo, in parte riuscito, di coinvolgerli e irretirli nel suo sistema di valori.

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    Da qui il piacere della maggioranza degli intervistati di raccontare la visita di Mussolini a Mirafiori del 15 maggio 1939, che nella memoria operaia acquista il significato di un riscatto che anticipa e si collega con la lotta di Resistenza. La rottura dello schema dialogico mussoliniano, con il non esprimere coralmente quel “sì” imposto dalla classica domanda retorica “Ricordate il discorso di Milano?”, è interpretata dai testimoni come espressione collettiva di dissenso. Solo un migliaio dei 50.000 operai presenti avrebbe risposto e applaudito, e su questa notizia le ri- costruzioni confidenziali dell’epoca coincidono sostanzialmente con il ricordo di oggi. Ma la memoria, anticipando di frequente l’episodio al 1938, vuole scollegare quel silenzio massiccio dalla insoddisfazione per i provvedimenti in materia previdenziale del regime e specialmente dalle reali preoccupazioni per una guerra incombente: storicizzandolo, l’evento perderebbe la valenza di antifascismo assoluto, di contrapposizione totale con il regime. “Esso invece deve essere tramandato come il segno di un’identità culturale che perdura anche nel fondo del periodo fascista e come la base di un’interpretazione della storia lungo queste linee” (p. 245).

    Il capitolo sulla visita di Mussolini a Mira- fiori (comparso, contemporaneamente alla pubblicazione italiana, in edizione francese in “Le Mouvement social”, 1984, n. 126) ha una sua specificità nel contesto generale del libro, dimostrando, rispetto a un evento chiaramente datato, l’apporto della fonte orale rispetto alla fonte scritta. Sulla descrizione della visita, limitatamente al discorso del dittatore, vi è convergenza tra le due fonti. Le testimonianze scritte aiutano a meglio situare l’avvenimento nel contesto storico, caratterizzato dai preparativi dell’alleanza militare con la Germania e dall’introduzione di un prelievo fiscale per un allargamento della previdenza sociale; la memoria operaia decontestualizza l’episodio e, fissandolo per la sua eccezionalità, lo rende esemplificativo di una

    identità che non ha soluzioni di continuità con il passato e con il futuro, trasmettendoci una immagine di sé che non accetta e vuole rimuovere l’inquinamento delle coscienze operate dal fascismo, ma che nello stesso tempo “prefigura una disposizione alla libertà” (p 246).

    Una domanda ci segue da quando si è iniziata la lettura di Torino operaia e fascismo: a quale campo della ricerca storica esso appartenga. Una domanda che risente delle difficoltà della storiografia di fare i conti, nel modo concreto di fare storia — al di là di un comune accordo sulla necessità di un confronto, per un ampliamento degli orizzonti della ricerca e per una maggiore profondità nell’analisi — con nuovi approcci e con metodologie proprie di altre discipline. Volendo dare una risposta univoca, si può collocare il libro nella storia delle culture e delle mentalità e, per il suo soggetto, inserirlo anche nel contesto della storia operaia, intesa non tradizionalmente come storia del movimento operaio organizzato, ma nel significato più ampio di una storia sociale che tenga presenti, a un tempo, i piani delle rappresentazioni mentali, dei valori morali e culturali, e dei comportamenti. Ma se accettiamo la definizione di Marc Bloch dei Re taumaturghi come “un contributo alla storia politica dell’Europa, in senso lato nel senso esatto del termine” — perché “occorre anche penetrare le credenze e le leggende che fiorirono attorno alle case principesche” — e rifiutiamo una interpretazione della storia politica come esclusiva storia delle organizzazioni partitiche e dei gruppi dirigenti, non possiamo escludere il libro di Luisa Passerini da questa storia. D’altra parte, per il metodo seguito e i soggetti sociali analizzati non si possono tracciare linee nette di demarcazione tra cultura, vita quotidiana e sfera politica. Si assiste, infatti, a una osmosi tra i due piani: ambiti propri della quotidianità si politicizzano, ambiti propri della politica si privatizzano, e il legame tra i due momenti emerge anche là dove si

  • Rassegna bibliografica 93

    verifica Pincontro-scontro tra forme culturali popolari e fascismo, illuminando il rapporto tra masse e potere.

    L’analisi, attraverso la storia orale, della classe operaia nelle sue relazioni quotidiane e nelle sue rappresentazioni non può non ridefinire “la gerarchia delle rilevanze” nella storia e non mettere in discussione la divisione

    tradizionale dei campi della ricerca. Anche per queste implicazioni teoriche e metodologiche, che investono la disciplina storica nel suo complesso, Torino operaia e fascismo rappresenta un contributo che supera l’ambito territoriale e lo spazio temporale considerati.

    Dianella Gagliani

    “Tristi rottami di un triste passato”di Luciano Casali

    Preceduta e accompagnata da un adeguato battage pubblicitario, la “vera storia” di come il 25 luglio 1943 sia caduto il fascismo (nella versione dell’uomo “da sempre” amico-nemico di Mussolini) è divenuta immediatamente un vero e proprio best seller ‘storiografico’. Le memorie di Dino Grandi (25 luglio. Quarantanni dopo, introduzione di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 501, lire 30.000), sedicente fascista antidittatoriale, giunte nelle edicole e nelle librerie da buone ultime, a conclusione di una serie di scoop storico-giornalistici che, negli ultimi anni, hanno riempito il mercato con i diari e le rivelazioni di tutti i principali gerarchi (e dello stesso clima fanno parte anche i falsi diari di Hitler e le raffazzonate pagine di Goebbels) hanno trovato una accoglienza ed un favore di vendita certamente proporzionata, all’importanza del personaggio, ma accresciuti dalla speranza di rivelazioni di cui probabilmente il ‘conte Grandi’ è depositario, ma che si è ben guardato dal rendere di pubblico dominio. D’altra parte l’immagine, avallata anche da Renzo De Felice, di un uomo la cui azione era stata determinante per allontanare dopo vent’anni Mussolini dalla presidenza del Consiglio dei ministri, ma che per quarant’anni aveva sostanzialmente taciuto (p. 8) conservando per sé solo i segreti legati alle ‘dimissio

    ni’ del duce, era stata accuratamente costruita, creando aspettative e curiosità.

    Va ricordato come la presentazione “obiettiva” (o meglio: acritica) dei vari memoriali fascisti succedutisi ultimamente (da Ciano, a Bottai, a De Marsico, a Cianetti) aveva obiettivamente creato un clima di viva attesa per il pezzo giudicato più importante per completare il ricco mosaico che ha sostituito l’autorap- presentazione del ventennio allo studio ed alla analisi portati avanti con gli strumenti della critica storica. E, in quest’ultimo caso, le pagine di Grandi hanno raggiunto lo scopo di accreditarlo come un “simbolo dell’antifascismo” (p. 12), senza aggiungere nulla a quanto lo stesso Grandi, negli ultimi venticinque anni, aveva raccontato in numerosissime interviste attraverso le quali aveva già accuratamente costruito una propria immagine pubblica antidittatoriale ed aveva già definito praticamente tutti i particolari (reali o di fantasia) inerenti alla preparazione e allo svolgimento della ‘notte del Gran Consiglio’.

    Oltre all’articolo (firmato) su “Epoca” del 18 aprile 1965, Dino Grandi ha concesso ripetutamente interviste; la prima, se non andiamo errati, comparve sul “Corriere della sera” già il 9 e 10 febbraio 1955 e fu raccolta da Indro Montanelli; l’ultima, firmata da Gianfranco Bianchi, è su “Il Giorno” del 23 luglio

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    1982. Ma anche “Il Messaggero” (7 marzo 1967), il “Corriere d’informazione” (31 agosto e 1° settembre 1963), “Il Tempo” (21 luglio 1960), “Oggi” (7 maggio 1959, 4 giugno 1959, 7 giugno 1973), “La Domenica del Corriere” (23 gennaio 1968) e altri quotidiani e periodici hanno avuto ripetutamente la possibilità di “rivelare per la prima volta uno dei maggiori enigmi della storia del nostro Paese” (S. Bertoldi, Dino Grandi racconta dopo trent’anni di silenzio, in “Oggi”, 7 giugno 1973).

    È senz’altro vero che, per le reiterate dichiarazioni e interviste concesse, Grandi è stato al centro dell’attenzione dei mass media ed ha usato ampiamente tali strumenti per diffondere la propria versione degli avvenimenti legati al 25 luglio, oltre che per costruire una immagine di sé calibrata e pesata dalla decennale esperienza di un consumato diplomatico: una vera e propria immagine oleografica.

    Ricordava nel giugno 1981 Mario Zamboni, “amico fraterno” e collaboratore “fedelissimo” di Grandi: “Le due bombe a mano che melodrammaticamente Grandi aveva raccontato di avere portato con sé in Gran Consiglio, tanto da passarne una al quadrumviro Cesare Maria De Vecchi quando sembrava che la situazione volgesse al peggio, non sono mai esistite” (Dino Grandi racconta l ’evitabile Asse, Milano, Jaca Book, 1984, p. 233).

    Ma non si tratta di una semplice invenzione, aggiunta agli avvenimenti per dare un po’ di colore alla narrazione: essa è una parte profondamente integrata nella versione ed interpretazione grandiane del 25 luglio. Tanto è vero che la versione pubblicata ora è ancora più melodrammatica di quella presentata da Gianfranco Bianchi (25 luglio crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963, pp. 506- 507): “Ci siamo — dico piano a De Vecchi che mi siede vicino —, sta per arrivare il momento di vendere cara la vita. De Vecchi fa cenno di sì e accetta volentieri una delle due

    bombe a mano che avevo con me e che gli passo sotto il tavolo” (p. 266).

    Fu lui, Grandi, assieme ai diciannove firmatari dell’ordine del giorno, che si sacrificò e, rischiando la vita, fu sul punto di essere passato per le armi a Palazzo Venezia nel tentativo (riuscito) di abbattere la dittatura e riportare la democrazia in Italia “ascoltando la voce del popolo” che era “contro la dittatura e contro la guerra” . Non ci fu alcun merito da parte degli antifascisti (“i più grandi attendisti...di venti anni interi”): “Essi [gli antifascisti] scrivevano, parlavano, incitavano, ma non risulta che alcuno di essi si sia giammai offerto di lasciarsi trasportare e deporre da aereoplani Alleati su un posto qualsiasi del territorio nazionale per organizzare, accelerare, comandare la rivoluzione popolare. Nessuno arrischiò la propria vita preziosa. Seduti in comode poltrone nelle anticamere degli uffici di propaganda in Londra e New York, ovvero di fronte al microfono lontano, i grandi esuli contavano i mesi ed i giorni che ancora li separavano dal giorno fatale della inevitabile sconfitta dell’Italia per sopraggiungere (...). Comparvero baldi e rumorosi il 26 luglio per riacquattarsi nuovamente in cantine e conventi l’8 settembre, ricomparendo poscia baldanzosi quando le divisioni motocorazzate del gen. Clark entravano in Roma e le retroguardie tedesche si ritiravano oltre il Tevere per la via Flaminia verso nord” (p. 327).

    I fascisti, dunque, salvarono l’Italia, per la seconda volta, come l’avevano salvata nel 1920-22; anche se il “perfido regime antifascista” instaurato da Badoglio (ma Grandi aveva ripetutamente avvertito Vittorio Emanuele di non fidarsi del Maresciallo!) aprì immediatamente la “caccia agli uomini del passato regime”: “arresti e persecuzioni si intensificarono di mano in mano che i giorni e le settimane passarono” (pp. 402, 403).

    Questa linea interpretativa che scorre per centinaia di pagine, senza nessun intervento correttivo da parte di Renzo De Felice, cura-

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    tore del volume, giunge a conclusione di una prima serie di annotazioni sulla preparazione del ‘colpo di stato’ (che viene negato come tale) e sullo svolgimento dell’ultima seduta del Gran Consiglio, annotazioni che nulla assolutamente di qualche rilevanza aggiungono a quanto lo stesso Dino Grandi aveva raccontato e documentato vent’anni fa a Gianfranco Bianchi, che aveva pubblicato una ri- costruzione che, secondo il giudizio del ras bolognese, “corrisponde a verità” e poteva essere da lui “avvallata in pieno” (Dino Grandi racconta, cit., p. 172).

    Niente di nuovo, dunque, se non una serie di considerazioni sulle quali non vale la pena di soffermarsi, in quanto la critica storica già da tempo ha contribuito ad una loro più esatta valutazione?

    Sostanzialmente le cose stanno così.Il volume di Grandi, tuttavia, è composto

    da tre distinte parti e forse è opportuno soffermarsi un poco su ciascuna di esse, in quanto ciascuna ha caratteri suoi propri, anche se, in qualche modo, uniformi.

    La parte più corposa e sostanziosa (pp. 205-492) del libro è costituita dal memoriale redatto da Grandi “a Lisbona nel 1944, a botta calda” (p. 137), dopo e il processo di Verona e la fucilazione dei “traditori venti- cinqueluglisti” . Precisa Renzo De Felice: “Fu buttato giù tutto d’un fiato, d’impeto: se qualcosa lo caratterizza sono il dolore e la delusione e talvolta lo sdegno” (p. 10).

    Una lettura più attenta non ci sembra confermare che ci troviamo di fronte ad un documento sostanzialmente scritto di getto, senza ripensamenti, calibrature, rimeditazioni. Dobbiamo osservare che Grandi ha corredato le sue memorie con un apparato documentario e di note (probabilmente, ma non è precisato, redatti contestualmente alle altre pagine) che utilizzano fonti, periodici soprattutto inglesi e volumi pubblicati fino ai primi mesi del 1946; inoltre alcuni riferimenti, anche indiretti, inseriti nel corso della narrazio

    ne inducono ad individuare momenti cronologicamente diversi nella scrittura. “Un anno è passato. Roma è stata liberata, ma la tragedia dell’Italia non è finita” (p. 212: fissa certamente l’inizio della stesura alla tarda estate1944). A p. 306 troviamo una indicazione più precisa: “Scrivo queste pagine nell’agostodel 1944”; ma, immediatamente (p. 307), ci viene offerta una dilatazione dei tempi di redazione: “Da ormai quasi due anni la stampa nazista e fascista (e falangista) persiste nella tesi prescelta e stabilita nel processo di Verona, la tesi del ‘tradimento’” . Diventa quindi necessario considerare la possibilità di un intervento di riscrittura protrattosi fino all’inverno 1945-46, come sembra confermare quanto troviamo a p. 318, un riferimento collocabile, forse, fra l’estate e l’autunno del 1945, se non oltre: “Gli antifascisti... sono stati messi alla direzione del governo e preparano oggi la Costituente”. Inoltre (p. 488) è ricordata la pubblicazione dei termini fissati dall’armistizio (pubblicazione che avvenne il 6 novembre 1945); è citata “L’Italia libera” del 10 novembre 1945 (p. 489) e, alla stessa pagina, sono ricordati due numeri della “Tribune de Genève”, del 9 e dell’l l novembre 1945. Infine sono riportate alcune considerazioni tratte dal volume di Stratolf {The Conquest o f Italy), ora citando l’edizione americana del 1944 (p. 430), ora quella londinese del 1946 (pp. 477, 489). Potremmo continuare, ma i riferimenti ci sembrano sufficienti per individuare fra l’estate del 1944 e l’inizio del 1946 la redazione ed una serie continua di interventi e rifacimenti delle note e, soprattutto, del testo.

    Non ci troviamo, quindi, di fronte ad un lavoro scritto di getto ed impulsivamente, ma ad una lunga e attenta elaborazione, all’interno della quale i riferimenti e i giudizi non sono determinati dalla “botta calda” delle fucilazioni decise al processo di Verona. La feroce polemica contro gli antifascisti, la apologia del re come salvatore della Patria (anche per Vittorio Emanuele III si

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    trattava di un secondo salvataggio, dopo quello del 28 ottobre 1922...), fanno forse presumere una redazione completata in vista di una pubblicazione da farsi nel corso della campagna elettorale referendaria del 2 giugno 1946? Secondo noi è una ipotesi da non escludere, anche se questa considerazione modificherebbe notevolmente il valore documentario del testo grandiano. D’altra parte — anche se si volesse ritenere forzata questa datazione della redazione definitiva del memoriale e le conclusioni politiche che ne traiamo — resta comunque il fatto che ci troviamo di fronte a pagine che hanno subito continue integrazioni (e certamente modifiche) per quasi due anni. In esse, quindi, gran parte dei giudizi hanno risentito di tutte quelle variazioni che il contesto internazionale e la situazione interna italiana suggerivano di fronte al variare dei rapporti di forza dopo la guerra e al delinearsi di un clima politico ben diverso da quello della alleanza internazionale antinazifascista. Si avvicinava la guerra fredda e forse il fascista Grandi sperava di poter ritrovare, con il mantenimento della monarchia in Italia, uno spazio nella vita pubblica: aveva ‘distrutto’ il fascismo italiano, si qualificava da sempre come antinazista (o antihitleriano), la sua attività di ambasciatore a Londra gli aveva procurato calde amicizie a Buckingam Palace, presso Churchill, da gran parte del potere politico ed economico britannico. Le note lettere di Grandi a Churchill (soprattutto quella del 18 agosto 1944) si inseriscono perfettamente in tale strategia (in W.F. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963, pp. 699-704), come l’altrettanto noto tentativo di Vittorio Emanuele III di sostituire Badoglio con Grandi alla fine del settembre 1943 fa comprendere la stima del Savoia nei confronti dell’ex ambasciatore a Londra. Tale nomina, sostanzialmente non sgradita a Churchill, era stata bloccata da Roosevelt e da Stalin, ma, dopo l’aprile 1945, né l’uno né l’altro (per motivi diversi) potevano più in

    tervenire nelle scelte di politica interna italiana (e intemazionale inglese). In ogni caso, se i fini della redazione del memoriale furono quelli di accreditarne l’autore e la monarchia quali costanti e fedeli fautori dell’antimusso- linismo e proporre Grandi e Casa Savoia quali punto di riferimento per un compatto voto di destra anticiellenistico (contro i profittatori e gli attesisti, secondo le parole di Grandi), a maggior ragione vanno accettate con estrema cautela tutte le affermazioni del libro.

    Riproporle dopo quarant’anni senza alcun commento, senza un apparato di note (critiche, esplicative, correttive) che mettano in rilievo le omissioni, le forzature interpretative pro domo sua, le esagerazioni e gli errori (voluti o casuali), non ci sembra costituisca una operazione del tutto corretta, in quanto potrebbe indurre qualche lettore non particolarmente a conoscenza degli avvenimenti ad accettare (grazie alla assenza di qualsiasi intervento correttivo da parte dell’autorevole curatore e presentatore) come verità o quasi verità ogni affermazione di Dino Grandi, anche la più lontana da quanto ormai da anni è stato accertato e documentato da storici e studiosi. Non soltanto la “feroce caccia” ai fascisti scatenata da Badoglio nel corso dei 45 giorni non trova alcuna conferma (anzi!) nelle scelte politiche effettuate dal Maresciallo — e già questo basterebbe per annullare gran parte dell’interpretazione grandiana sul post 25 luglio —, ma anche altri numerosi episodi (piccoli e grandi, ma tutti convergenti allo stesso fine di dimostrare la politica antifascista di Badoglio) risentono di una scelta fortemente finalizzata e più o meno voluta- mente falsata nella ricostruzione degli avvenimenti. Si veda, ad esempio, l’approssimativo e sbagliato elenco delle città bombardate dagli anglo-americani nel corso dell’agosto 1943 (pp. 404-405, 458, 460-461), gli errori di datazione e motivazione degli scioperi operai e delle manifestazioni di massa (pp. 281, 402- 403) la confusione e le contraddizioni nel ri

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    costruire gli incontri fra Grandi e gli altri membri del Gran Consiglio prima della seduta (pp. 221, 237-240, 337). La stessa ricostruzione dell’ordine degli interventi durante la seduta non corrisponde con quella riportata da Bottai nel suo Diario (Milano, Rizzoli, 1982, pp. 407-421), ed è proprio Grandi a sottolineare (p. 249) che la versione di Bottai è probabilmente la più esatta in quanto ricavata da note e appunti tenuti da Federzoni, Bastianini, Bignardi, Bottai “e da altri durante la seduta” .

    Può non stupire la sottovalutazione degli scioperi del marzo 1943 (pp. 329-330) o la mancanza di ogni accenno alla Circolare Roatta, l’elemento determinante per il mantenimento dell’ordine pubblico (a meno che ad essa non si riferiscano le ambigue affermazioni di pp. 349-350 sulla “volontà ferma ed energica” delle prime disposizioni bado- gliane); né meraviglia la sopravvalutazione del 25 luglio di cui vengono indicati riflessi internazionali di incredibile portata: lo stesso Francisco Franco avrebbe rischiato di doversi dimettere (p. 386)! Si tratta, è evidente, delle valutazioni che Grandi offriva nel 1946 per mostrare all’Italia (ed al mondo) l’importanza e il valore del suo “audace gesto” . Ma queste stesse considerazioni, quale valore possono avere ora se non per gli addetti ai lavori, per quanti possono ‘smontare’ il testo e collocarlo esattamente nelle sue dimensioni, misurate sull’autore, sulle sue aspirazioni, sul contesto che lo indusse a scrivere, sugli scopi che erano sottesi a tale scrittura? Senza questi punti di riferimento (che non vengono dati dal curatore) per un lettore normale il libro è perlomeno fuorviante, se non culturalmente e politicamente ‘pericoloso’. Gli studiosi possono semplicemente sorridere leggendo di un Badoglio impegnato a provocare “con ogni mezzo la rivoluzione e il caos in Italia” , o imparando che gli Alleati anglo- americani intensificarono i bombardamenti aerei fra il 7 agosto e l’8 setttembre colpendo volontariamente le città e le popolazioni civi

    li “allo scopo di portare la Nazione [cioè l’Italia] alla rivoluzione disintegratrice” (p. 427). Ma quali giudizi o conclusioni può trarre il lettore non specialista da quelle affermazioni o dalla seguente, lapidaria, frase ad effetto? “Ardeva in Milano la ‘Scala’ incendiata da fortezze volanti americane e Toscanini organizzava e dirigeva a New York un grande concerto allo scopo di inneggiare alla vittoria sull’Italia” (p. 427).

    Ciò che resta, la cronaca scarna e non completa (pp. 249-268) della seduta del Gran Consiglio e il testo ‘ufficiale’, ricostruito a posteriori, di due degli interventi di Grandi in quella sede (pp. 285-303), non è né inedito né tale da giustificare la pubblicazione delle altre 250 pagine.

    Alla fine della lettura qualcosa, comunque, rimane di ancora non conosciuto (ed era forse ciò che più ci interessava): il perché, le motivazioni vere che indussero Grandi ad affiancare l’azione della monarchia per sostituire Mussolini. Va da sé che le affermazioni (ampiamente scontate e prevedibili) del disinteresse più totale e della mancanza di secondi fini nel condurre l’operazione, non convincono. Il disinteressato amor di patria, ripetutamente proclamato, non era del resto mai stato il fattore determinante nelle scelte di Grandi; non lo era stato quando si era “messo al servizio” degli agrari di Imola, non lo fu certamente neppure il 25 luglio. Quali garanzie e sollecitazioni avessero avanzato gli agrari bolognesi e Casa Savoia e quali ambizioni essi avessero sollecitato in un Grandi politicamente e personalmente ridimensionato dopo essere stato richiamato a Roma da Londra, non ci viene svelato.

    Il 22 luglio il principe di Piemonte aveva fatto sapere esplicitamente a Bottai che era tempo di muoversi se si voleva “salvare la cattolicità, la monarchia e quel tanto di fascismo che costituiscono i valori italiani” (G. Bottai, Diario, cit., p. 403). Nonostante i ripetuti dinieghi di Grandi, potere economico, monarchia, esercito (e Vaticano?) non potè-

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    vano che auspicare un fascismo senza Mussolini. Caviglia (come suggeriva Grandi) o Badoglio avevano semplicemente il compito di preparare la transizione ad un governo più stabile dopo che fossero state rovesciate le alleanze militari e lo stesso Grandi (che non casualmente restò a Roma fino al 18 agosto a stretto contatto con il re e con il Vaticano) sarebbe stato un successore forse non sgradito alla Gran Bretagna. Questa ipotesi, di dare continuità al regime, viene, sia pure una sola volta e non esplicitamente, ammessa da Grandi: “Il fascismo non poteva risorgere, ma bensì, morendo, compiere un grande servigio al paese: salvare gli ideali, le aspirazioni, i motivi che avevano dato vita al fascismo medesimo ed in pari tempo gran parte del bene effettivo ed innegabile che lo stesso regime fascista aveva, in mezzo a tanti errori, compiuto e che ormai era divenuto, attraverso laboriose esperienze, patrimonio della nazione” (p. 338).

    Una linea, questa di salvare in sostanza il fascismo, che, secondo Giuriati, trovava consenziente lo stesso Mussolini (G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 224-233).

    La seconda parte del volume (pp. 137-197) è un ampio Proemio, datato 4 giugno 1983, nel quale Grandi esalta le proprie attività, ad iniziare dal misterioso attentato subito ad Imola il 19 ottobre 1920 (ma su tale episodio vale la pena di rileggere l’ampia e lucida testimonianza di Andrea Marabini al quale Grandi andò a “chiedere protezione”) (in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, I, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1967, pp. 455-456). Ancora una volta non vale la pena elencare omissioni e ‘dimenticanze’, molto più numerose e consistenti che non i ricordi. Il vero ritratto di Grandi, del fascismo e dei suoi uomini potrebbe essere composto proprio dalla segnalazione di tutto quanto oggi viene accuratamente celato sotto i falsi alibi del patriottismo. Affermazioni grottesche costellano questa parte dello scrit

    to che non serve assolutamente neppure per una approssimativa ricostruzione autobiografica. Un esempio, fra i tanti possibili: “La guerra d’Etiopia fu una guerra ottocentesca, per molti aspetti romantica, dettata e fatta dal patriottismo italiano risvegliato dal richiamo, dopo mezzo secolo, delle tombe invendicate dei nostri soldati caduti durante le nostre campagne di guerra sfortunate in terra d’Africa. Un gesto di unanime ribellione, non inconsueto nella storia d’Italia, contro la tirannia, la sopraffazione e l’ingiustizia” (p. 159).

    Un cinismo sconcertante (pp. 167-168) si mescola all’autogiustificazionismo e ad una costante mistificazione. Tipiche le pagine in cui Grandi ci assicura che tutte le lettere di elogio e venerazione scritte per vent’anni a Mussolini erano solo “lettere strumentali” ed insincere, cosa, del resto, che “Mussolini sapeva benissimo” (p. 162). Soprattutto il racconto dell’attività diplomatica a Londra durante le guerre di Etiopia e di Spagna, confrontato con qualsiasi altro testo, mostra i segni di coscienti falsificazioni (pp. 168-171). E non parliamo del “miracolo della pace” ottenuto da Grandi a Monaco (pp. 172-177) e della monomania, persistente, di essere stato da sempre perseguitato da Hitler e da innumerevoli sicari al soldo del nazionalsocialismo... Non è vero che Grandi apprenda improvvisamente il 3 giugno 1939 (p. 180) di dover lasciare la sede diplomatica di Londra, in quanto ne era già informato sin dal 23 febbraio direttamente da Mussolini (G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli, 1980, p. 256); è sbagliato il resoconto del Consiglio dei ministri tenutosi il 1° settembre 1939 (iv i, p. 340 e G. Bottai, Diario, cit., pp. 156-157); è tutt’altro che esatto che Ciano “era partito per Salisburgo amico sincero dei tedeschi” e che solo dopo quell’ 11 agosto cambiò il proprio atteggiamento (G. Ciano, Diario, cit., pp. 326-327), è falso che, dopo gli “accordi di Pasqua” (16 aprile 1938) promossi da Grandi a Londra, nessun “volontario” italia

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    no fu mandato contro la Repubblica spagnola (cfr. J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 395-396).

    Nulla apprendiamo della ‘conquista’ fascista di Bologna (su cui si sorvola ‘elegantemente’, come su tutto il periodo dello squadrismo), fra l’eccidio di Palazzo d’Accursio (ma Grandi si iscrisse al Fascio due giorni dopo) e l’allontanamento di Grandi dall’Emilia con la (momentanea e provvisoria) vittoria di Leandro Arpinati; resta misteriosa l’origine dei mezzi finanziari utilizzati da Grandi per acquistare il pacchetto azionario di maggioranza de “il Resto del Carlino”.

    A tutto ciò Renzo De Felice, nella sua ampia Introduzione (pp. 7-133), oppone tre sole osservazioni, rapide e, tutto sommato, marginali, indicando una certa reticenza gran- diana nel descrivere il comportamento degli altri membri del Gran Consiglio (p. 107), ricordando che sarebbe assurdo attribuire al solo Grandi i risultati del 25 luglio (p. 10) e avvertendo che il rapido rovesciamento di alleanze militari dopo tale data (come auspicava Grandi) non sarebbe stato possibile (p. 22). Altro (e speriamo di avere letto distrattamente) non siamo riusciti a trovare e questo non può che significare un riconoscimento completo delle tesi sostenute da Dino Grandi, di un racconto costruito (nel 1944-46 e nel 1983) ai fini di autoesaltazione acritica, di un testo (tutto sommato) reticente di fronte ad avvenimenti giudicati, a quaranta-cin- quanta anni di distanza, senza il minimo accenno di ripensamenti, di dubbi, di autocritiche. Solo la “stella malefica di Hitler” (p. 194) ha inquinato e dirottato l’azione di Mussolini, “un grande uomo [che] si sbagliò due [sole] volte” : il 1° settembre 1939, non prendendo sufficienti distanze dalla guerra nazista, e il 10 giugno 1940, entrando in guerra (p. 190).

    Nella sua Introduzione Renzo De Felice, utilizzando la ormai imponente bibliografia e memorialistica relative alla caduta di Mussolini, ricostruisce, in chiave prevalentemente psicologica, il comportamento e gli atteggiamenti del re, di Mussolini, degli alti comandi delle forze armate, delle gerarchie fasciste, di Grandi a partire dal tardo autunno 1942, quando apparve sempre più evidente la sconfitta militare.

    Nessuno spazio (né accenno) è lasciato a quel potere economico e finanziario che, siamo convinti (ma le nostre possono essere convinzioni che sopravvalutano le influenze dell’economia e sottovalutano il disinteresse personale che mosse Vittorio Emanuele III, Grandi e gli altri nel tentativo di “salvare la Patria”), qualche pressione dovettero esercitare, sia di fronte alle sorti ormai segnate del conflitto, sia in conseguenza degli scioperi del marzo 1943 che avevano indicato come Mussolini non fosse più in grado nemmeno di mantenere la repressione antioperaia e la “pace sociale” e quindi non fosse più utile.

    Solo l’accettazione, incredibile, dello scritto di Grandi e delle sue valutazioni sul fascismo può far comprendere come questo libro, che attraverso le parole di uno dei massimi responsabili dell’imperialismo fascista costituisce una tardiva esaltazione dell’opera di violenza e sopraffazione (interna ed internazionale) del regime, possa essere stato pubblicato per offrire, quale portatrice di verità, una lettura acritica, reticente, falsa e voluta- mente falsificata della storia d’Italia. Gli antifascisti, “tristi rottami di un triste passato” , saranno spazzati “quando risorgerà l’Italia”, auspica Dino Grandi (p. 340). Anche a questa “profezia” Renzo De Felice dà copertura e offre credito. E ciò è veramente e profondamente triste.

    Luciano Casali

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    Fascismo

    AA.VV., La dittatura fascista, Milano, Teti, 1983, pp. 533, lire 30.000 [“Storia della società italiana” , vol. XXII].

    Le più recenti opere d’insieme sul fascismo si caratterizzano, rispetto a quelle di dieci o vent’anni fa, per un grado sempre più avanzato di interpretazione storiografica o per la mole sempre più ampia di risultati empirici che offrono o che possono utilizzare.

    Questo volume presenta in effetti dodici contributi che non si limitano alle ipotesi di lavoro, alla pura e semplice sintesi di lavori altrui, alla divulgazione narrativa degli avvenimenti. I singoli autori si sono sforzati di approfondire e articolare lo studio di temi specifici con vari sondaggi di ricerca almeno in parte originali, potendo quindi dare fondatezza ad un ripensamento di tanti argomenti-chiave della storia italiana nel periodo fascista, anche se liberamente svolti senza rigidi riferimenti ad un quadro unitario, che manca al volume anche nella forma minima di una presentazione dei curatori e responsabili dell’intero impianto di questa “Storia della società italiana” dall’antichità all’età contemporanea pubblicata dall’editore Teti. Alcune diseguaglianze, lacune e squilibri formali, di taglio e di trattazione, sono inevitabili in un volume del genere, e largamente compensate dall’utilità dei singoli saggi, che sarebbe impossibile riassumere in questa sede rendendo giustizia a ciascuno di loro. La scelta dei temi, soprattutto nella prima parte, indica che si è voluto decisamen

    te spostare l’enfasi dell’interesse interpretativo sugli aspetti economici e sociali del regime fascista, che sarebbe preoccupazione scontata in una collana intitolata alla società se proprio la storia sociale dell’Italia fascista non fosse ancora così sconosciuta e deliberatamente ‘scansata’ da tanti studiosi professionali. Molti dati nuovi sono fomiti da Alberto Preti (La politica interna fascista e l ’organizzazione del consenso), da Giulio Sapelli (Grande industria e organizzazione del lavoro), e da C.A. Corsini (La mobilità interna della popolazione nel periodo fa scista)', Ivano Granata (Classe operaia e sindacati fascisti) offre uno spaccato concreto, con varie esemplificazioni locali, del rapporto reale tra sindacalismo fascista e mondo del lavoro; Domenico Preti (Fascismo, grande capitale e classi sociali) richiama il contesto internazionale che favorisce la stabilizzazione del fascismo al potere, le drastiche direttive di politica economica consentite dal consolidamento dello Stato di polizia, le conseguenze spesso sconvolgenti, per ampi strati della popolazione, del controllo assoluto sulla forza lavoro, sui salari, sui consumi. La non comparabile presenza della Chiesa e delle opposizioni è studiata da Camillo Brezzi (I Patti lateranensi e il mondo cattolico) e da Aldo Berselli (L ’antifascismo all’interno e all’esterno), mentre le questioni dell’ideologia e della cultura vengono trattate da Gianpa- squale Santomassimo (Cultura, intellettuali e fascismo) e da Emilio Agazzi (Croce e l’antifascismo moderato: fra ideologia italiana e ideologia europea). La collocazione internazionale

    Rassegna bibliografica

    del fascismo italiano è affrontata, con approfondimenti specifici, da Teodoro Sala (Fascismo e Balcani. L ’occupazione della Jugoslavia) e da Enzo Collotti (L ’alleanza italo-tedesca 1941- 1943), che mettono a frutto fonti documentarie nuove o poco conosciute, mentre Enzo Santarelli (L ’espansionismo imperialistico del 1920-1940) traccia un profilo generale, unico nel suo genere e di grande interesse, dei caratteri originali e permanenti dell’imperialismo fascista, ricordandoci l’emblematica formula con cui Mussolini nel 1927 voleva descrivere al paese un’alternativa di politica estera senza rendersi conto di immortalare una contraddizione storica del suo regime: “espandersi o esplodere” . Proprio i nessi inestricabili tra politica interna ed espansionismo fascista sollevano una questione complessiva che resta forse ai margini di questo volume: la natura, la fisionomia, il funzionamento dello Stato fascista, quali rapporti di continuità e di novità mantenesse e promuovesse con le istituzioni prefasciste, quali mutamenti genetici introducesse nella composizione della classe dirigente, quali permanenze alimentasse, col sottogoverno, le pratiche clientelali e il conformismo, in vaste zone di arretratezza materiale e civile del paese. Lo Stato fornisce il terreno d’incontro tra il partito fascista, i suoi famelici ‘ras’ e le vecchie consorterie, lo Stato offre le molteplici sedi ed occasioni della mediazione praticata da Mussolini fra le varie forze che pattuiscono gli equilibri del nuovo blocco di potere borghese, lo Stato si riconcilia con la Chiesa e persegue con impersonale violenza legalizzata gli

  • Rassegna bibliografica 101

    oppositori, lo Stato educa e coarta, lo Stato interviene nell’economia creando istituzioni non transitorie, lo Stato è l’autentico motore dell’imperialismo fascista, lo Stato è insomma l’elemento non transeunte di un regime che in un giorno (25 luglio 1943) scompare. Con questo, si vuole indicare non tanto un limite di questo volume, o esprimere ‘desiderata’ che potrebbero essere rivolti a tanti altri lavori, anche non specificamente intitolati alla dittatura fascista nella storia della società italiana. Si vuole piuttosto avanzare l’ipotesi che se una storia etico-politica o puramente istituzionale dell’Italia fascista sarebbe vuota, senza un continuo e saldo riferimento alle classi e ai mercati, alle officine e alle campagne, una storia sociale del fascismo sarebbe, senza il suo abnorme e possessivo Leviatano, cieca.

    Marco Palla

    Il fascismo. Antologia di scritti critici, a cura di Costanzo Casuari, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 700, lire 30.000.

    Si tratta della seconda edizione di un lavoro già apparso nel 1961, ed ora assai modificato e arricchito, pur conservando il carattere di fondo di antologia davvero eclettica di tentativi di interpretazione ‘metapolitica’ o ‘transpolitica’, e di ambizioni definitorie e classificatorie in senso epistemologico della natura del fascismo (un’antologia molto diversa, di taglio scientifico e storiografico, curata da Alberto Aquarone e Maurizio Ver- nassa è stata pubblicata nel 1974 dalla stessa casa editrice). Il tito

    10 della nuova introduzione del curatore, Il fascismo caso di coscienza della nazione, fornisce indubbiamente una chiave di lettura dell’antologia e dei suggerimenti che essa contiene. Nella sostanza, Casucci avanza una sua interpretazione moralistica del fascismo, che possiede la forza supplementare di una testimonianza personale di riflessione quanto mai impegnata e sofferta. Non si lasci ingannare o frastornare il lettore da qualche riferimento estemporaneo o stravagante dell’introduzione di Casucci, dove l’autore paria — oltre che in prima — anche in terza persona, richiamando le sue posizioni e i suoi scritti di oltre vent’anni fa, e dove si menzionano il Risorgimento e la prima guerra mondiale, Churchill, Benedetto XV, Rosa Luxemburg, l’odierno Stato di Israele, le recenti polemiche sul progetto di scavo nella zona dei Fori imperiali a Roma, la Felix Austria, i rapporti attuali fra Cina e Unione Sovietica, André Glucksman, e l’aneddoto personale (di Casucci) su un viaggio ferroviario in cui un giovane dava del “fascista” a chi gli ricordava il divieto di fumare in quello scompartimento. Il fascismo viene qui sempre trattato come un fenomeno molto (anzi, tragicamente) “serio” della nostra storia nazionale: per intenderne11 significato, Casucci suggerisce di integrare l’interpretazione transpolitica o filosofica di Augusto Del Noce con quella sociologica di Monnerot e con quella psicosociale di Erich Fromm. Queste interpretazioni, accanto a quella scaturita dal dibattito degli anni cinquanta sulla rivista “Terza generazione” (qui riprodotto nella seconda

    parte dell’antologia), sono nettamente privilegiate rispetto a quelle degli storici, se non talvolta contrapposte ad esse. Il gusto della classificazione, e un’immaginazione addirittura fertile per trovare nuove categorie, disancorati da criteri scientifici di tipo filologico o storiografico e affidati principalmente alla tensione interpretativa etico-politica, producono tuttavia cadute di tono e fraintendimenti non rari. Così, oltre che bizzarra se non offensiva, appare piuttosto meccanica e incongrua la semi-equiparazione compiuta da Casucci delle posizioni maturate nel periodo ‘postfascista’ e ‘al di fuori’ del sistema politico tradizionale, e che farebbero capo al neofascismo di Adriano Romualdi e alla contestazione di Guido Quazza, scelto quest’ultimo perché, “pur non appartenendo alla generazione del ’68, ha saputo dare compiuta espressione ai giudizi da quella formulati sul fascismo, mettendo a disposizione gli strumenti di una tecnica raffinata fino alla sofisticazione” (p. 50). Casucci inclina poi verso analogie storiche tra fascismo e Risorgimento (per il comune rifiuto di una “cultura neutrale” , sarebbero entrambi fenomeni di reazione critica al Rinascimento) che suonano forzate. Qualche perplessità suscita l’articolazione di tutta la prima parte dell’antologia, che include, nella prima sezione (“Le interpretazioni del sistema politico”), una larga rassegna di posizioni contemporanee dei fascisti: quelle degli intransigenti (Malaparte), dei futuristi (Marinetti), dei sindacalisti (Rossoni, A.O. Olivetti, Panunzio), dei corporativisti (Bottai, Spirito, Costamagna),

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    dei nazionalisti (Rocco), dei revisionisti (Bottai), dei conserva- tori (Fani, Ciotti), dei tecnocrati (G. Olivetti, Serpieri), dei giovani (Giani, Pallotta), e infine dei “fascisti... fascisti” (Bottai, Gentile) per intendere, spiega Casucci, “come fanno intuire i puntini sospensivi quei fascisti che sfuggono, al contrario degli altri, ad una ulteriore caratterizzazione” (p. 19). Queste classificazioni sono largamente opinabili, derivando dall’esplicita individuazione di molteplici ‘componenti’ e ‘correnti’ del fascismo i cui tratti comuni vengono assai diluiti se non dispersi, e in ogni caso stridono in una raccolta antologica di “scritti critici” , visto il largo predominare di fumisterie ideologiche e di acritiche e propagandistiche teorizzazioni che quegli scritti presentano. Rilievi di varia natura si potrebbero muovere alla pur utile rassegna delle posizioni dei cattolici, dei liberali, dell’antifascismo radicale, socialista, comunista e anarchico: presentare al lettore comune, necessariamente non addetto ai lavori, una serie di materiali in cui non è sempre ben distinta la linea di demarcazione fra fonti e studi critici, costituisce solo un primo e limitato approccio ad una problematica ancora da elaborare ed approfondire nel senso di una prospettiva che ne storicizzi i termini col minor grado di approssimazione possibile. Casucci infine stempera il suo impegno civile e la sua indiscutibile fede democratica in un’attitudine didattica ad insegnarci la lezione e la ‘morale’ che si può trarre dalla storia nazionale (in questo caso, dalla storia del fascismo), che assume talora il tono di una “predica inutile” ver

    so la sinistra, che non avrebbe mai saputo contemperare 1’ “esigenza nazionale” e quella “classista” , in particolare nel giudizio sulla prima guerra mondiale e verso l’intervento che essa si ostina a non considerare obiettivamente, come storicamente necessario e “rilevante” per lo sviluppo civile dell’Italia. Per non lasciare spazio alla “seduzione fascista” come avvenne nel primo dopoguerra, il nostro paese deve oggi accettare gli eroi senza lasciarne “il monopolio ai fascisti” . Che per superare la crisi “più grave della sua storia” l’Italia abbia “bisogno di eroismo” (pp. 87-89), è esortazione discutibile quant’altre mai. Personalmente, a questo proposito la penso ancora come Bertold Brecht.

    Marco Palla

    G i a m p a o l o B e r n a g o z z i , lim ito dell’immagine, Bologna, Clueb, 1983, VI, pp. 311, lire 16.000.

    Dieci anni fa Bernagozzi pubblicò il suo primo studio sui cinegiornali Luce. Da allora è andato approfondendo e ampliando l’analisi dei mass media del regime fascista, scientificamente e filologicamente precisando i temi della propaganda del regime e, specialmente, dello strumento cinematografico come mezzo per la conquista del consenso, per comprendere fino in fondo quegli anni, in modo da evitare “le forzature superficiali di un lacrimoso come eravamo oppure di un compiaciuto e astioso come eravate” (p. 7), costruendo un dialogo continuo fra cinema e storia. Ora Bernagozzi sembra tirare le somme delle sue ricerche con un libro

    estremamente documentato nel quale gli strumenti dell’analisi storica e di quella cinematografica si fondono in una analisi estremamente viva ed utile che, fra l’altro, supera agevolmente, in un terreno troppo spesso facile alle mediazioni, ogni tentazione ‘accomodante’ e superficiale, con giudizi a volte sferzatamen- te limpidi, specialmente di fronte ad una editoria (libraria e televisiva) “assurda ed equivoca” . D’altra parte il centenario mus- soliniano sembra costituire non un semplice ‘riflusso’: è difficile pensare a nostalgie individuali, “siamo piuttosto nell’ambito di una vera e propria linea politica” (p. 268).

    Cinema e storia, quindi, che nel racconto dell’autore debordano dagli anni del regime e si rovesciano nella tristezza cupa di altre reazioni e di altre violenze. Nello stesso modo la lettura filmica di Bernagozzi non si ferma alle sole immagini o allo studio delle tecniche di ripresa, ma colloca l’Istituto Luce e l’industria cinematografica al centro dei mezzi creati per la conquista del consenso e per la creazione dei miti ad esso necessari, accanto alla cultura fascista, alla scuola, alle parate ed adunate “oceaniche” ...

    Con la avventura fascista in Spagna, l’antifascismo sembrò recuperare nuovo vigore e nuove adesioni. Lo stesso segno, di un deterioramento in questo caso fra lo schermo e le platee, si avverte anche dalla propaganda visiva, un deterioramento nato per di più sugli “stilemi convenzionali” , che proprio allora cominciarono a mostrare la corda, in quanto “le parole giocano il ruolo del loro stesso esaurirsi in una ripetizione ossessiva e mo

  • Rassegna bibliografica 103notona” (pp. 171-72). A fianco dell’esempio della Spagna, altri ne potremmo portare a conferma della utilità dell’uso anche dello strumento filmico per una “lettura” tradizionale della storia, o ancor meglio per leggerla più attentamente attraverso i riflessi sul sociale degli avvenimenti. Si vedano le pagine che Bemagozzi dedica alle donne nelle immagini del regime: “donne Rachele in miniatura: esseri inferiori, madri feconde, massaie laboriose” (pp. 67-76), o agli operai (pp. 77-82), o all’epica del mondo contadino (pp. 117-128): “la macchina da presa nel momento stesso in cui si impegna ad essere oleografica riproduzione delle impennate del regime, può offrirci coefficienti essenziali per la decodificazione di queste stesse impennate” (p. 7).

    Luciano Casali

    M a s s i m o C a r d i l l o , II duce in moviola. Politica e divismo nei cinegiornali e documentari Luce, Bari, Dedalo, 1983, pp. 220, lire 14.000.

    Tra i numerosi lavori usciti nel corso del centenario musso- liniano, questo di Massimo Cardillo si presenta come un contributo particolarmente interessante.

    Più volte gli storici hanno segnalato la necessità, per approfondire un discorso sull’ideologia e sulla propaganda fascista, di mettere direttamente le mani sul materiale prodotto dal regime, radio e cinema in particolare.

    Il libro di Cardillo contribuisce a colmare questa esigenza affrontando, in modo scorre-

    le e godibile, il tema dei cinegiornali e documentari che l’Istituto Luce programmò durante il ventennio. E ruolo che i cinegiornali ebbero all’interno del più complesso sistema di propaganda fascista è il filo conduttore di una ricostruzione che tocca qua e là altri temi (la radio in particolare) e che si presenta come un momento importante anche se non unico di quel progetto di educazione politica delle masse che il regime attuò mescolando la retorica più antiquata e la sapienza moderna delle tecniche di propaganda.

    Cardillo mette bene in evidenza le diverse fasi in cui operò l’Istituto Luce, i progressi tecnici e linguistici confrontati con intelligenza con i prodotti della Germania nazista, le sollecitazioni del regime, l’acquiescenza e la parziale autonomia degli operatori e dei tecnici. Queste tappe interne all’istituto cinematografico di propaganda vengono costantemente inserite in una periodizzazione che tocca alcuni episodi cruciali della vita del regime — l’avventura coloniale africana soprattutto — o alcune tematiche che percorrono orizzontalmente tutta l’epoca fascista — il mito del rurali- smo è quello maggiormente analizzato ed esemplificato.

    La parte preponderante del lavoro, comunque, al di là delle generali ipotesi di ricerca e delle proposte di interpretazione dei principali materiali propagandistici del Luce, riguarda la figura di Mussolini, la sua soverchiarne presenza all’interno dei filmati e dei cinegiornali. In due distinti capitoli, l’uno dedicato alla psicologia gestuale mussoliniana, l’altro all’oratoria del dittatore,

    Cardillo mostra a sufficienza come su alcuni temi — in questo caso la ricostruzione / definizione di una personalità di rilievo, del suo ruolo e impatto e della sua funzione e fruizione pubblica — l’ausilio della fonte audiovisiva sia qualcosa di più che un materiale sussidiario: sia in realtà una fonte primaria di inestimabile valore là dove si sappia utilizzarlo affiancandolo, senza contrapposizioni, ad altri elementi di ricerca e ad altri filoni di indagine.

    Questa ricostruzione compiuta da Cardillo e la sua proposta interpretativa e metodologica, pur nei limiti oggettivi di una prima ricognizione d’assieme che si auspica apra la via a indagini più dettagliate, è arricchita da un’appendice con una serie di utili documenti (schede informative su numerosi film e cinegiornali prodotti dal Luce sugli argomenti “L’impero” e “Vita fascista” ; circolari, regolamenti, progetti e rendiconti deU’Istituto) ed un gruppo di interviste a registi, critici, politici, inteUettuali che vissero in modo diverso le vicende politiche e propagandistiche del regime. Ed anche questo sintetico ma significativo apparato documentario non fa che suscitare ulteriore curiosità per un settore di ricerca che non potrà più essere considerato accessorio negli studi sulla propaganda, sul consenso e in generale sul rapporto con la società che il regime fascista aveva cercato di instaurare ed imporre.

    Marcello Flores

    U g o b e r t o A l f a s s i o G r i m a l d i -

    M a r i n a A d d i s S a b a , Cultura a

  • 104 Rassegna bibliografica

    passo romano. Storia e strategia dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 270, lire 25.000.

    Negli studi dedicati all’educazione ed ai giovani durante il periodo fascista, il tema dei Littoriali della cultura e dell’arte organizzati dal regime dal 1934 in avanti, è stato più volte oggetto di interessamento, di speculazioni, di suggerimenti interpretativi, di accenni più o meno episodici, ma quasi mai di ricostruzioni più attente ed approfondite. Il volume di Ugoberto Alfassio Grimaldi e Marina Addis Saba cerca di colmare questa lacuna, ricostruendo in modo più organico e puntuale il susseguirsi dei diversi Littoriali e inserendo la loro vicenda in quella più vasta della politica culturale del regime.

    I due autori considerano, forse troppo unilateralmente, i Littoriali come il momento principale di una politica culturale diretta dalla struttura gerarchica del regime fascista. È certo che il loro impatto, soprattutto sui giovani, non può essere sottovalutato: special-mente ove si guardi ai nomi riportati in appendice dei primi classificati alle diverse edizioni dei Littoriali, per la maggior parte uomini e donne che troveranno nel dopoguerra — ed alcuni anche prima, nel fascismo stesso, nell’antifascismo, nella Resistenza — modo di affermarsi e di inserirsi a pieno titolo nelle élites politiche e culturali del paese. Proprio il capitolo iniziale, dedicato al problema della gioventù fascista nella storiografia, è di particolare interesse, con la sua capacità di ricostruire, seppure in un’ottica

    particolare, l’atteggiamento che nei confronti del fascismo si ebbe nei decenni successivi alla caduta del regime, secondo cadenze e periodizzazioni politico-culturali che andavano al di là del mero dibattito storiografico.

    I tre capitoli successivi sono tutti dedicati alla ricostruzione, selettiva ma puntuale, dei diversi Littoriali, del clima che li accompagnò, degli episodi più significativi al loro interno. Il quadro d’assieme dello svolgimento di questa Olimpiade della cultura è ricostruito con efficacia, anche se spesso si privilegiano i momenti relativi a quei personaggi che più avrebbero fatto carriera — politica e culturale — nel secondo dopoguerra. D’altra parte proprio l’utilizzazione costante delle fonti memorialistiche e di quelle giornalistiche rende la ricostruzione vivace ed interessante, anche se a volte un po’ troppo impressionistica e lasciando nell’ombra interrogativi adombrati più volte ma mai direttamente affrontati. Proprio il capitolo finale, con le sue assiomatiche definizioni di cosa rappresentarono e furono i Littoriali, di cosa costituirono alPintemo della strategia del consenso pensata dal regime, sembra chiudere un po’ troppo frettolosamente una ricchezza di interrogativi che la prima parte e la ricostruzione successiva avevano posto in modo pertinente. La stessa scelta, probabilmente obbligata, di rimanere nell’ambito generale della politica culturale del regime, senza scendere alle sue concrete realizzazioni nei diversi campi — compito che viene demandato a ricerche speciali

    stiche già compiute o da compiersi —, priva di un utile terreno di verifica una interpretazione che sembra più enunciata e proposta che non discusssa e dimostrata.

    Il lavoro è completato da una ricca e precisa appendice sulle classifiche e i temi dei Littoriali maschili e femminili, sui premi, sulle fonti archivistiche utilizzate. Una fatica in più, sicuramente utile, avrebbe potuto essere quella di presentare anche per le gare maschili, così come fatto per quelle femminili, i titoli dei temi dati per le diverse sezioni: elemento non secondario per valutare le periodizzazioni proposte e il giudizio di parziale libertà (vigilata, guidata, incanalata e poi repressa) che, attraverso i Littoriali, il regime avrebbe cercato di creare nel suo rapporto con i giovani.

    Marcello Flores

    G i u s e p p e C a r l o M a r i n o , L ’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. XV-240, lire 14.000

    Aperto da una gustosa documentazione sui fregi e le livree degli accademici d’Italia, e concluso dalla pubblicazione di carteggi inediti illustranti le posizioni di Croce ed Einaudi nonché di un paio di relazioni, provenienti dall’ACS, in merito alle posizioni del mondo cattolico alla caduta del regime, il saggio si aggira nei meandri dell’organizzazione della cultura italiana in periodo fascista. Determinato, come appare nella prefazione, a superare ogni giudizio di stampo moralistico, non riesce

  • Rassegna bibliografica 105tuttavia a svincolarsi dalla notazione, che pure è determinante, della povertà morale della società intellettuale italiana degli anni trenta.

    Una cultura della crisi di stampo autarchico, gretta e provinciale, non può certamente meritare molta considerazione, se questa crisi è problema di portata universale, rottura con tradizioni e certezze animate da un respiro secolare. Marino sottolinea a ragione come la coscienza della cesura irrimediabile prodotta dal tracollo seguito al 1929 pervada ogni settore della cultura italiana e si impegna a mostrare in qual modo il regime abbia avuto successo nel canalizzare la dialettica delle varie componenenti della cultura italiana nell’alveo di una autarchia culturale funzionale al suo potere. Gli strumenti del ricatto economico si intrecciano alle lusinghe ideali e al miraggio di una specificità italiana, originale creazione tra l’americanismo e il soviettismo, centro della lotta anticomunista e — al tempo stesso — motore per un’azione mirante al superamento del capitalismo e della società borghese.

    Le intime contraddizioni della società italiana — modernità in- dustrialeggiante contro rurali- smo — restano tuttavia, secondo Marino, il limite invalicabile; ed esse si scontrano in uno scenario reso fittizio dalla presenza di una volontà politica essenzialmente poliziesca.

    Se della cura di seguire da vicino e dall’interno le motivazioni e i percorsi dell’ideologia va reso merito a Marino, meno pregevole risulta invece la capacità di sintesi e di giudizio.

    Da una parte, il tentativo di far affiorare i connotati della cultura italiana del periodo fascista approda a sottolineature interessanti di aspetti finora forse lasciati nell’ombra; ma dall’altra, le considerazioni sulla portata effettiva di quanto emerge dall’intricato e faticoso percorso non modificano per nulla giudizi consolidati e quasi owii. Modernità contro arretratezza, slanci futuristi accompagnati da concessioni a ideologie retrò, suggestioni cattolicheggianti, “grande e amara festa della parola in libertà”, “esercitazione di scriteriata verbosità” : sono giudizi da non dimenticare, probabilmente; ma da sostanziare anche con analisi di formazioni culturali meno scivolosamente ammantate di tipizzazioni (borghese, piccolo-borghese, cattolico: chissà come li distinguiamo) che a mala pena reggono una lettura attenta. Un’impressione di sfasatura costante tra il giudizio storico e la documentazione che lo sostiene accompagna infine la lettura del saggio.

    È un dato che emerge in modo clamoroso dai due documenti riprodotti nell’Appendice II: il primo — una relazione del notissimo Babuscio Rizzo — èia consueta esercitazione pettegologiornalistica delPinformatore della polizia fascista che semina giudizi, peraltro incontrovertibili in quanto lapalissiani, sull’atteggiamento della Chiesa verso Croce e Gentile; il secondo, un’affrettata e sommaria rassegna stampa redatta dall’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede il 5 agosto 1943, si limita a sottolineare la perfetta “lealtà” cattolica verso il regime badogliano. Davvero troppo poco per ipotizzare spunti per l’approfon

    dimento della “cultura di tipo ‘salazariano’” di cui l’autore nelle ultime pagine del volume ha cercato di indicare sommariamente gli apporti nei primi anni di guerra. Non meno singolare è il contrapporre Croce a Einaudi (nell’Appendice I), il primo dei quali si erge in una posizione “netta e severa” , mentre il secondo “consente di evidenziare le contrattazioni di una cultura liberale che si ostinava a ricercare comunque un colloquio diretto col Duce” . In realtà, il carteggio di Croce si riferisce all’ordine di soppressione della “Critica” nel 1940, mentre quello di Einaudi (1932-34) attiene a questioni accademiche e a censure verso la casa editrice del figlio Giulio. Forse le date hanno scarsa importanza sul piano della storia dello spirito; ma, senza nutrire simpatie più accentuate verso il magistero einaudiano che verso quello crociano, vorrei suggerire una onesta riflessione sulla congiuntura e sui rapporti di forza che caratterizzavano i due momenti. Tanto più che, se vogliamo lasciar cadere i moralismi, bisognerà pur cominciare a rifiutare un uso delle carte di polizia da cui troppi, da che mondo è mondo, hanno spiato le debolezze dei grandi uomini.

    Luigi Ganapini

    A a .Vv ., Il pensiero reazionario la politica e la cultura dei fascismi, Ravenna, Longo, 1982 pp. 228, lire 12.000.

    Il volume raccoglie gli atti del convegno omonimo tenutosi a Ravenna nel novembre 1980, promosso dalla Casa dello Studente in collaborazione con la

  • 106 Rassegna bibliografica

    Biblioteca Oriani e con l’Istituto per la storia della Resistenza.

    I saggi prendono soprattutto in considerazione le vicende politico-culturali della