Memoria operaia, vita quotidiana, fascismo · fia sulla classe operaia durante il fascismo, il...
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Rassegna bibliografica
Memoria operaia, vita quotidiana, fascismodi Dianella Gagliani
Il lavoro di Luisa Passerini su Torino operaia e fascismo. Una storia orale (Roma-Ba- ri, Laterza, 1984, pp. 296, lire 24.000) rappresenta uno dei maggiori contributi alla conoscenza della classe operaia durante il fascismo e, senza dubbio, si pone, per le metodologie e le fonti usate, per i problemi posti e le conclusioni raggiunte — a prescindere da ogni concordanza con essi — tra i punti di riferimento obbligati per quanti vogliano affrontare lo stesso tema. Di più: l’analisi delle fonti orali come percorsi di memoria, l’attenzione all’ambivalenza di alcune forme mentali, il rapporto stabilito tra cultura operaia e cultura popolare, aprono problemi e terreni di ricerca che travalicano il periodo considerato.
Asse portante della ricerca è la ricostruzione della memoria operaia del fascismo. Lo spazio geografico è forse il più classico, Torino. Meno classici i testimoni. Non sono stati privilegiati i militanti politici del movimento operaio, quanto si sono presi in considerazione lavoratori con appartenenze ideologiche diverse, se non addirittura indifferenti od ostili alla politica. Dei 67 intervistati, infatti, solamente 11 si collocano tra gli attivisti di organizzazioni operaie o dell’associazionismo cattolico (rispettivamente cinque e sei): una scelta dettata, più che dalla volontà di raccogliere testimonianze percentualmente rappresentative della collocazione politicoideologica della classe operaia torinese, dal fine della ricerca, che si proponeva di inclu
dere nell’analisi storica “la vita degli individui oscuri e comuni” e di dare spazio ad “aspetti non direttamente politici” ma propri dell’esperienza quotidiana (p. 3).
Il problema della rappresentatività dei testimoni, di cui il gruppo più consistente ha vissuto l’esperienza di lavoro in periodo fascista, si pone anche per altri aspetti, come nota Luisa Passerini, ammettendo l’impossibilità di costruire con le fonti orali un campione esaurientemente rappresentativo “per problemi di mortalità differenziata, di divario nel tempo e di sfasatura irreconciliabile tra individui e processi generali” (p. 6). A confronto con le acquisizioni della storiografia sulla classe operaia durante il fascismo, il gruppo degli intervistati è maggiormente “sperequato a favore di una classe operaia relativamente più stabile e privilegiata per più lunga permanenza nella città, qualificazione, scolarità di quanto fosse la classe operaia negli anni Venti e soprattutto Trenta” (p. 11). Ma questi limiti, non celati dall’autrice, trovano un correttivo nel gruppo degli operai più giovimi (20) e delle donne (34) e, soprattutto, anziché intaccare, danno maggior forza alle conclusioni della ricerca, sul ricorso, da parte della classe operaia torinese, a espressioni culturali arcaiche e sulla convivenza, sul piano della mentalità, di aspetti progressisti e aspetti conservatori. Significativa in questo senso la contrapposizione Torino/Roma, che, mentre esalta valori regionalistici, con caratteristiche anche xeno-
Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155
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fobe, e salda forme di unità tra operai e famiglia Agnelli, acquista pure, negli anni qui considerati, una valenza antifascista, di contrapposizione al potere centrale.
Il continuo rapporto stabilito tra le immagini della memoria e la realtà fattuale, per cogliere tra i due piani concordanze o discordanze, costituisce uno dei maggiori apporti alla ricerca storica offerto dal libro e una lezione concreta di metodo riguardo eminentemente all’utilizzo delle fonti orali, su cui, come è noto, Luisa Passerini ha dato uno dei maggiori contributi in termini di elaborazione teorica e metodologica. Come l’autrice chiarisce fin dalle prime pagine, la fonte orale si presenta maggiormente pregnante quando ci si voglia accostare al piano delle mentalità; senz’altro meno pregnante quando al centro si ponga la storia dei fatti, dei comportamenti: per quest’ultimo terreno diventa necessario il confronto con altre fonti coeve.
In realtà, Luisa Passerini ha intrecciato fonte orale e fonte scritta (di massima, fonti del ministero dell’Interno e del ministero di Grazia e Giustizia, ma anche analisi e statistiche elaborate dai contemporanei) non solo nella parte del libro che affronta più diretta- mente il piano dei comportamenti (i capitoli Forme di accettazione sociale del fascismo, Resistenza demografica, La visita di Mussolini a Mirafiori), ma anche nel capitolo Fascismo e ordine simbolico nella quotidianità, che analizza il piano delle mentalità e delle culture.
Ci sembra opportuno premettere, prima di considerare alcune conclusioni dell’autrice che ci paiono rivestire un particolare rilievo, che, per la fonte privilegiata, i temi trattati, i metodi seguiti, i risultati raggiunti, i problemi sollevati, il libro riveste il carattere dell’interdisciplinarietà, in cui si trovano coinvolte, oltre a quella più propriamente storica, metodologie proprie dell’antropologia, del folclore, della critica letteraria, della psicologia: un lavoro pionieristico, dunque, che sarebbe di estremo interesse analizzare
attraverso un confronto con studiosi di discipline diverse. Questa premessa è utile non solo per illustrare più correttamente il volume, ma è necessaria per precisare il taglio parziale della nostra lettura che non potrà dare conto della ricchezza e dell’ampiezza dei problemi discussi e di tutti gli spunti offerti per ulteriori ricerche.
Non ci si può sottrarre, comunque, a meno di precludersi la comprensione della loro pregnanza come fonte storica, da una considerazione di ciò che è specifico e originale delle fonti orali raccolte con il metodo della storia di vita, analizzato da Luisa Passerini nel primo capitolo, La memoria di sé. Autobiografìa e autorappresentazione. Nella forma del racconto, nel modo di presentarsi, gli operai torinesi usano dei tópoi, degli schemi narrativi che rinviano a tradizioni di media e lunga durata (la contrapposizione Torino/ Roma al momento del trasferimento della capitale; alcune forme del comico, popolare a temi analizzati dalla storiografia sulle culture del Cinquecento europeo) e partecipano più di generi letterari precedenti la scrittura (la favola, il mimo, il dialogo, la satira) che non delle forme dell’autobiografia scritta. Il ricorso a stereotipi nell’autopresentarsi: “io sono nata ribelle” , “io ho fatto sempre delle vite che non posso dire”, “io ho sempre avuto fortuna” fanno emergere espressioni di “identità senza sviluppo”, proiettate in un tempo assoluto, in cui passato presente e futuro sono incorporati l’uno nell’altro. Ciò solo nel racconto orale, perché gli stessi soggetti, richiesti di scrivere la loro storia, usano nella scrittura i moduli proprio dell’autobiografia scritta, presentandosi inseriti in uno sviluppo storico.
Muovendosi su questo terreno con molte cautele e sensibilità, Luisa Passerini, più che risposte definitive e univoche, trova nella fonte utilizzata elementi per correggere interpretazioni consolidate, come quella di Lu- kacs sull’evoluzione progressiva dall’epos al romanzo. Le forme culturali ed espressive
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delle autopresentazioni, che mostrano tracce di pensiero mitologico e magico, non si possono ridurre a “scalini verso altre forme successive” e più alte, a meno di precludersi la comprensione della cultura di ampi strati sociali e del contributo a “trasmettere il senso della continuità umana della storia” — non come processo evoluzionistico, ma come “percorsi che includono, oltre al lungo lavoro ripetitivo, rotture, salti e sdoppiamenti” (pp. 71-73). E la stessa fonte consente di correggere l’interpretazione di Asor Rosa sulla penetrazione di valori della piccola borghesia nella letteratura populista (pp. 20-21). Il proletario eroico che non ammette incrinature di quel filone trova un referente nella tradizione popolare e folclorica e si ritrova nell’identità senza sviluppo dell’autorappresentazio- ne operaia; ma, ad esso è stata amputata l’altra fronte, quella che oppone la risata al pianto, il comico al tono alto, l’irriverenza al rispetto dei valori. Si può parlare allora, per la letteratura populista, di una riduzione della ricchezza, della profondità e della ambivalenza della cultura popolare e operaia — che, come vedremo, tenterà di operare anche il fascismo —, non già di una completa estraneità ad essa.
Dopo aver sottoloneato che gli stereotipi narrativi sono legati al sesso, all’età e a percorsi di vita individuali (le donne si presentano come “sempre ribelli”, i più giovani come “sempre capaci di divertirsi”, i militanti come “capaci di aver fatto una scelta e di essersi saputi sacrificare per essa”), l’autrice mette in evidenza la sfasatura, all’interno di una stessa intervista, tra l’immagine di sé offerta dal testimone nel presentarsi e altre parti del racconto, in cui, come nella biografìa narrata di Carolina (pp. 21-25), ‘Tesser stata sempre ribelle” si coniuga con l’accettazione di ruoli tradizionali e subalterni.Viene qui introdotto uno dei leit-motiv del libro, il rapporto tra il piano simbolico e il piano reale, la cui tensione, in una storia della cultura, non può essere risolta nella eliminazione di
ciò che non è ‘vero’, secondo una impostazione positivistica che ci precluderebbe la comprensione del piano simbolico, delle credenze e di una visione del mondo che è parte integrante di quella cultura. Vanno invece colti i diversi piani, presenti in una medesima intervista, attraverso un uso critico della stessa capace di evidenziare le contraddizioni presenti, e, nello stesso tempo, attraverso un confronto tra le diverse biografie narrate e i documenti scritti coevi. Questo procedimento metodologico permette all’autrice di verificare atteggiamenti antifascisti ed espressioni che rinviano a una cultura popolare di più antica data e comportamenti di accettazione del fascismo che si richiamano a valori preesistenti il fascismo stesso, e, contemporaneamente, di cogliere le novità introdotte dal fascismo come movimento, come regime, come Mussolini.
Già questo primo capitolo pone il problema, che nelle parti successive verrà ripreso con più forza, del rapporto tra cultura operaia e cultura popolare e della parzialità e ri- duttività di ipotesi che le separino nettamente. Il legame stabilito tra le due culture — la cui caratterizzazione autonoma andrebbe maggiormente precisata, ma risulta fonda- mentale il contributo qui dato al problema — non ha il significato di una ricerca della “purezza operaia” attraverso il recupero delle origini, con il rischio, risalendo all’indie- tro nel tempo, di “arrivare al contadino”, come ha notato Rieser criticando alcune tendenze storiografiche degli studi sulla classe operaia (A proposito di memoria storica e coscienza di classe “Quaderni piacentini”, 1982, n. 4). L’analisi di Luisa Passerini è più complessa e, se le è totalmente estranea una concezione eroica della classe operaia a partire da una visione classocentrica, non è tarata all’origine dalla volontà di riscoprire passati aurei. L’accento posto sull’ambivalenza di alcune forme ideologiche, che possono rivestire caratteri di progresso ma anche caratteri di conservazione, fa risaltare la distanza
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di Torino operaia e fascismo da quelle premesse.
Nel saggio Soggettività operaia e fascismo: indicazioni di ricerca dallefonti orali (“Annali” , Fondazione G.G. Feltrinelli, 1979/80) già emergeva questo tema riguardo all’ideologia del lavoro: il valore della professionalità, negli anni del fascismo, si caricava di contenuti conservatori e antidemocratici, già presenti in età liberale ma offuscati e inseriti in una lotta di rinnovamento. In Torino operaia e fascismo l’argomento viene ripreso (pp. 160-167), ma colto più problematicamente e soprattutto non dà luogo alle conclusioni là emerse di un “consenso quotidiano” al fascismo. Lo scavo in profondità che Luisa Passerini ha svolto sulle fonti orali e sulla cultura operaia ha arricchito quel quadro e smussato gli angoli propri di un lavoro di rottura come era il saggio sugli “Annali” Feltrinelli.
Negli ultimi tre capitoli del libro, in cui si analizza il rapporto tra gli atteggiamenti mentali e i comportamenti reali, i valori legati alla quotidianità non hanno solo un risvolto conservatore, rivestono un duplice carattere. Se consideriamo il tema della maternità (il capitolo è già apparso su questa rivista nel n. 151/152, con il titolo Donne operaie e aborto nella Torino fascista) verifichiamo che le donne, la cui resistenza alla politica demografica del regime è stata reale — riscontrabile, se pur parzialmente, anche dalle fonti coeve — rivelano nella narrazione, insieme alla forza decisionale di regolare la propria capacità riproduttiva in antitesi alle norme fasciste, un atteggiamento subalterno a quei valori, quando dipingono altre donne, generalmente di un’altra classe sociale o legate politicamente al fascismo, come deboli e incapaci fisicamente. “Sono forte da quel lato lì come mia mamma, invece vedo delle belle signore che non riescono a comperare”, racconta Fiora parlando dei suoi falliti tentativi di aborto (p. 187). “E quelli lì volevano un maschio, non una femmina. So che in quel giro lì [vicinato] c’è nato di maschi solo
il mio e mio nipote. Tutte bambine!” , si vanta Carmen, ricordando con una certa superiorità la delusione di una famiglia di fascisti di fronte alla nascita di una bambina (p. 188).
Nelle pieghe di alcune testimonianze, di fronte a una esplicita affermazione di antifascismo, compaiono riferimenti all’accettazione di pratiche fasciste, quali la divisa, specialmente per le donne, di forme assistenziali, come le colonie estive per i bambini, e una valutazione sostanzialmente positiva del ruolo d’ordine del fascismo (pp. 155-160). Riprendendo alcuni giudizi di Isnenghi sul fascismo che non inventa ma recupera e innesta nel suo sistema di equilibri “modi di essere e di pensare preesistenti”, funzionali al suo dominio, l’autrice si chiede in quale misura i tradizionali valori d’ordine, “la famiglia, l’etica del lavoro e del sacrificio, il risparmio, il senso di appartenenza locale” abbiano influito nel creare un consenso al fascismo (p. 159). La risposta è complessa e non univoca.
Certo, è possibile, ammette l’autrice, usare le fonti orali con fini di supporto rispetto alla storiografia esistente. Questa, tuttavia, sarebbe una operazione riduttiva nei confronti delle testimonianze, che hanno nuovi spunti da offrire per ulteriori ricerche e rivelano percorsi più ricchi e meno lineari, non riducibili ad un appiattimento sulle categorie consenso/dissenso. Illuminante è, al riguardo, il paragrafo sulle Mediazioni (pp. 167- 175) nel quale è testimoniata la ricerca da parte degli operai torinesi di un modus vivendi con il potere fascista, con il quale essi scendono a compromessi — accettando l’inevitabile, ma anche legittimando quel potere —, tali, tuttavia, da garantire ad essi la conservazione dell’identità antifascista. La madre di Arturo Gunetti ottiene la promozione del figlio — bocciato all’esame di terza elementare dal maestro, acceso fascista, perché unico allievo non iscritto ai Balilla — attraverso la complicità, fondata sulla comune
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antipatia per i fascisti, con la direttrice della scuola, che consiglia l’iscrizione del ragazzo a quella organizzazione giovanile. Il fastidio e le difficoltà create, specialmente al padre, dal presentarsi di Arturo in divisa, per di più di fronte ai parenti, decisi antifascisti, vengono in qualche misura temperati dalla riconosciuta necessità di salvare la carriera scolastica del figlio e dal ribadire la propria collocazione antifascista. L’arrendersi nella sfera pubblica alle regole del gioco viene compensato dal mantenimento nella sfera privata della propria scelta ideologica, che fa apparire “momentanea e tattica quell’accettazione” (p. 170).
Naturalmente, anche fra i testimoni, è presente chi non si è adeguato e ha pagato la scelta di un compromesso con il carcere, le menomazioni fisiche, la continua violenza. Questa coerenza, tuttavia, non può essere considerata rappresentativa dalla maggioranza degli operai torinesi che scelse la mediazione con il regime, per la quale la famiglia giocò come potente arma di ricatto e nella quale un ruolo centrale fu svolto dalle donne. Ma, accanto ad esse, troviamo altre figure di mediatori, un capocasa, un fiduciario di reparto, un milite, che si avvalgono delle loro posizioni di piccolo potere per aiutare o non danneggiare gli stessi antifascisti; oppure fascisti corrotti che instaurano o perpetuano rapporti di tipo clientelare.
Il reticolo dei rapporti di mediazione, su cui in parte si innesta il fascismo ma preesistente e in qualche misura autonomo rispetto ad esso, pone il problema del grado di totalitarismo del fascismo italiano, della sua capacità di penetrazione in tutte le pieghe della società. Certamente, furono fatti dal fascismo italiano tentativi di introdursi nella vita privata dei singoli, per destrutturarla, e di spezzare i legami di solidarietà interni al vicinato e alla fabbrica, utilizzando il sospetto e la delazione, allargando i confini della sfera pubblica per inserirvi momenti fino ad allora propri di quella privata, dal canto alla bar
zelletta all’imprecazione. Ma contemporaneamente si assiste a un restringimento dei confini della sfera pubblica in quanto sono relegate nella clandestinità le espressioni politiche dei partiti di opposizione, ogni manifestazione esterna al regime, fino al più piccolo commento sulla politica interna e internazionale (pp. 175-180).
Fino a qual punto abbiano giocato nel modificato rapporto tra pubblico e privato, così acutamente analizzato e problematizzato da Luisa Passerini, le organizzazioni di massa del regime non si è in grado di stabilire. Dal quasi totale silenzio delle fonti orali e dalla non accentuazione dell’autrice sul loro ruolo si dovrebbe concludere che esse non abbiano rappresentato una alternativa e una reale sostituzione agli organismi politici ed economici preesistenti. Anche se, va rilevato, sarebbe stata senz’altro utile una caratterizzazione, ad esempio, del ruolo del sindacato nei rapporti quotidiani, filtrato attraverso le fonti di memoria.
È necessario, tuttavia, precisare che sarebbe fuorviante un giudizio su Torino operaia e fascismo basato sulle assenze e sulla pretesa di una descrizione a tutto tondo della condizione operaia tra le due guerre. Non solo perché il percorso segue il filo della memoria (e che il mosaico non sia completo di ogni sua tessera, è ben presente all’autrice), ma soprattutto perché in una analisi di frontiera è una assurda pretesa la richiesta di una ricostruzione che proceda secondo le partizioni classiche della narrazione storica. D’altra parte, le assenze sono compensate da ben più corpose presenze, che non si ritrovano in gran parte, se non totalmente, delle ricostruzioni sulla classe operaia (e non solo in periodo fascista) e sono in grado di essere maggiormente esplicative del rapporto masse-fascismo di molta letteratura storiografica.
Abbiamo già accennato al contributo al dibattito su consenso /dissenso, alla messa in discussione delle due categorie a partire dalla complessità e dagli intrecci diversi tra forme
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mentali e forme comportamentali. La resistenza oggettiva delle donne alla politica demografica del regime si combina anche con espressioni ideologiche subalterne a quei valori; l’accettazione sociale di alcune regole del sistema (ad es. la ricordata iscrizione di Arturo Gunetti all’Opera nazionale balilla) si combina con una affermazione di princìpi antifascisti. Nella pratica quotidiana e nei confronti del regime, dunque, il piano della mentalità e il piano dei comportamenti non seguono sempre il medesimo percorso: il primo legato a valori antifascisti, il secondo all’adattamento al regime nella pratica; essi si intersecano e, a volte, si rovesciano; come pure, da una analisi interna al piano della mentalità si riscontrano valori di segno opposto, e da una analisi del piano fattuale comportamenti di segno opposto.
Un ulteriore contributo al dibattito è offerto dal capitolo Fascismo e ordine simbolico, in cui sono prese in considerazione le reazioni al fascismo nella quotidianità, i piccoli gesti che diventano oppositivi di fronte a un regime che li vieta e li punisce. In una efficace ricostruzione, che congiunge fonti orali e fonti scritte, l’autrice evidenzia la reazione culturale operaia alla omogeneizzazione, la resistenza sul piano simbolico al tentativo di irreggimentazione e disciplinamento del fa- scimo. La novità di questo capitolo, insieme alle conclusioni cui perviene, è rappresentata dal tipo di materiale archivistico utilizzato, che abbonda per gli anni del fascismo nel fondo del ministero dell’Interno all’Archivio centrale di Stato, ma che è stato finora poco considerato dalla storiografia per preclusioni interpretative. Ora, se è vero che la ricerca non deve per forza indirizzarsi là dove i fondi di archivio sono più massicci, è altrettanto vero che, in assenza di distruzioni, la considerazione del rapporto quantitativo tra le fonti non può essere elusa. Per un soggetto quale lo Stato, essa ci fa cogliere la gerarchia dei valori e le modalità dell’intervento politico e, nel caso specifico, il grado e la capillari
tà del controllo sociale, contribuendo a districare quel nodo del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata intorno al quale, per quanto si riferisce alla repressione politica, alcune prime osservazioni di rilievo sono state offerte da Paola Carucci (La repressione politica. Problemi di ricerca, Intervento al convegno su “Presenza e attività dell’antifascismo a Firenze”, dicembre 1979).
È interessante notare che Luisa Passerini giunge a cogliere la rilevanza di questo materiale a partire dalle fonti orali, in cui l’accentuazione dell’episodio aneddotico, come espressione di antifascismo culturale che coinvolge un intero gruppo sociale, trova una convergenza nell’azione di polizia che riduce quelle manifestazioni a forme di dissenso politico. Vengono così criminalizzate la scritta sui muri o nei gabinetti, il motto di spirito, la barzelletta, il canto, l’imprecazione, e qualsiasi indumento di color rosso scatena una “vera e propria guerra dei colori” (pp. 120-127). Si tratta di espressioni che, precisa l’autrice, se confrontate con i grandi “fatti” perdono il loro spessore e il loro significato, ma che sarebbe riduttivo giudicare come “ribellismo generico” e accantonarle in una ricostruzione della coscienza di classe operaia tra le due guerre (cfr. i saggi di Gianpasquale Santomassimo su questa stessa rivista (n. 140) e di Giulio Sapelli nella Storia del movimento operaio del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol. Ili, Bari, De Donato, 1980).
Molto più sensibile su questo versante, la letteratura antifascista del quindicennio postliberazione considerava i caratteri e la violenza del fascismo nell’ingerirsi nella sfera dei sentimenti e del costume e metteva in rilievo “gli aspetti simbolici del fascismo e della resistenza ad esso” (p. 75). Queste forme della reazione operaia, se non vanno immediatamente interpretate come antifascismo politico e se da esse non si possono trarre conclusioni sull’alterità sostanziale della classe operaia nei confronti del fascismo,
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vanno tuttavia considerate come tentativi di difesa di una identità culturale e di contrapposizione, sul piano simbolico, di una visione del mondo a un’altra. Certamente non va trascurata la cornice in cui si situano queste forme e che definisce la sconfitta e la debolezza della classe operaia, ridotta ad esprimersi in modo monco e balbuziente, senza la possibilità di dispiegare le sue potenzialità e di crescere culturalmente e politicamente. Ma fino a qual punto l’uso del linguaggio fascista, come terminologia e schemi, per stravolgerne il significato, l’irrisione del potere e delle sue espressioni più assurde ma anche più imposte, il vestire la maschera dello sciocco che fingendo di non sapere ridicolizza chi pretende di sapere, possono essere definiti una “regressione” culturale? La risposta di Luisa Passerini è complessa e considera, insieme agli aspetti di arretramento e di impoverimento culturali, il valore rivestito da queste forme “arcaiche” nel creare un fronte di difesa dietro il quale trincerarsi per riaffermare una identità culturale e “valori universali compromessi da processi materiali e culturali” (pp. 151-152). La vitalità di queste espressioni “più antiche” richiama, inoltre, “gli insegnamenti di antropologi e di folcloristi da un lato e di psicologi dall’altro” sull’impossibilità di “interpretare le culture ‘altre’ o l’inconscio come fasi superate una volta per tutte dalle culture successive o dall’io” (p. 151) e mostra la trascuratezza della cultura del movimento operaio — socialista, comunista, anarchica — “di fronte ai lati ‘oscuri’ dell’individuo e della specie, che comprendono le tradizioni magiche così come l’universo psicologico” (p. 5). Ma anche su questo versante sarebbe necessaria una ricostruzione che individuasse il momento della circolarità, e cioè del travaso (o del recupero) di forme culturali popolari nella cultura socialista.
L’interpretazione del fascismo come onta, vergogna, male assoluto, quale emerge dalle fonti orali, che riprendono inconsapevol
mente l’interpretazione crociana, sfrondata del versante ideologico di difesa del modello liberale, trova una sua verità nella storia della classe operaia torinese (e non solo in essa), che, mentre cercava di mantenere la sua identità, scendeva a compromessi con il regime. Da qui anche la spiegazione dei silenzi e delle rimozioni sul periodo fascista di molte testimonianze e del sospiro di sollievo e liberazione degli intervistati quando narrano del biennio rosso o del triennio 1943-45, che segna il riscatto da quell’onta. Ma quella interpretazione proviene anche dalla consapevolezza dell’impoverimento e della destrutturazione della propria cultura operati dal fascismo, di cui l’autrice fornisce alcune esemplificazioni calzanti quando individua nell’uso dell’olio di ricino, nell’immagine di Mussolini e nella ripresa da parte del regime delle tradizioni folcloriche un recupero di elementi propri della cultura popolare, depotenziati, tuttavia, delle loro ambivalenze. L’effetto dell’olio di ricino e il riso che ne può derivare richiamano la tradizione comica popolare, di cui ancora, se pur parzialmente, partecipa la cultura operaia, ma l’abbassamento al corporeo, alla terra, di questa ha un doppio segno: nega e afferma nello stesso tempo, distrugge e resuscita (M. Bachtin); mentre quell’abbassamento contiene solo la morte e il riso suscitato diventa piuttosto il ghigno che si schiera con il potere, secondo la definizione di Th. Adorno (pp. 106-7 e 117). Una analoga riduzione si registra nella campagna fascista di recupero delle tradizioni folcloriche, in cui il patrimonio culturale popolare viene destrutturato con la formalizzazione e l’imbrigliamento dei caratteri, ad esempio, della festa, di cui ogni momento è irrigidito di una regia prestabilita. Per gli operai torinesi intervistati il fascismo è dunque “il male” sia per la violenza fisica da esso esercitata, sia soprattutto per l’aggressione psicologica e culturale alle espressioni della loro identità, sia per il tentativo, in parte riuscito, di coinvolgerli e irretirli nel suo sistema di valori.
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Da qui il piacere della maggioranza degli intervistati di raccontare la visita di Mussolini a Mirafiori del 15 maggio 1939, che nella memoria operaia acquista il significato di un riscatto che anticipa e si collega con la lotta di Resistenza. La rottura dello schema dialogico mussoliniano, con il non esprimere coralmente quel “sì” imposto dalla classica domanda retorica “Ricordate il discorso di Milano?”, è interpretata dai testimoni come espressione collettiva di dissenso. Solo un migliaio dei 50.000 operai presenti avrebbe risposto e applaudito, e su questa notizia le ri- costruzioni confidenziali dell’epoca coincidono sostanzialmente con il ricordo di oggi. Ma la memoria, anticipando di frequente l’episodio al 1938, vuole scollegare quel silenzio massiccio dalla insoddisfazione per i provvedimenti in materia previdenziale del regime e specialmente dalle reali preoccupazioni per una guerra incombente: storicizzandolo, l’evento perderebbe la valenza di antifascismo assoluto, di contrapposizione totale con il regime. “Esso invece deve essere tramandato come il segno di un’identità culturale che perdura anche nel fondo del periodo fascista e come la base di un’interpretazione della storia lungo queste linee” (p. 245).
Il capitolo sulla visita di Mussolini a Mira- fiori (comparso, contemporaneamente alla pubblicazione italiana, in edizione francese in “Le Mouvement social”, 1984, n. 126) ha una sua specificità nel contesto generale del libro, dimostrando, rispetto a un evento chiaramente datato, l’apporto della fonte orale rispetto alla fonte scritta. Sulla descrizione della visita, limitatamente al discorso del dittatore, vi è convergenza tra le due fonti. Le testimonianze scritte aiutano a meglio situare l’avvenimento nel contesto storico, caratterizzato dai preparativi dell’alleanza militare con la Germania e dall’introduzione di un prelievo fiscale per un allargamento della previdenza sociale; la memoria operaia decontestualizza l’episodio e, fissandolo per la sua eccezionalità, lo rende esemplificativo di una
identità che non ha soluzioni di continuità con il passato e con il futuro, trasmettendoci una immagine di sé che non accetta e vuole rimuovere l’inquinamento delle coscienze operate dal fascismo, ma che nello stesso tempo “prefigura una disposizione alla libertà” (p 246).
Una domanda ci segue da quando si è iniziata la lettura di Torino operaia e fascismo: a quale campo della ricerca storica esso appartenga. Una domanda che risente delle difficoltà della storiografia di fare i conti, nel modo concreto di fare storia — al di là di un comune accordo sulla necessità di un confronto, per un ampliamento degli orizzonti della ricerca e per una maggiore profondità nell’analisi — con nuovi approcci e con metodologie proprie di altre discipline. Volendo dare una risposta univoca, si può collocare il libro nella storia delle culture e delle mentalità e, per il suo soggetto, inserirlo anche nel contesto della storia operaia, intesa non tradizionalmente come storia del movimento operaio organizzato, ma nel significato più ampio di una storia sociale che tenga presenti, a un tempo, i piani delle rappresentazioni mentali, dei valori morali e culturali, e dei comportamenti. Ma se accettiamo la definizione di Marc Bloch dei Re taumaturghi come “un contributo alla storia politica dell’Europa, in senso lato nel senso esatto del termine” — perché “occorre anche penetrare le credenze e le leggende che fiorirono attorno alle case principesche” — e rifiutiamo una interpretazione della storia politica come esclusiva storia delle organizzazioni partitiche e dei gruppi dirigenti, non possiamo escludere il libro di Luisa Passerini da questa storia. D’altra parte, per il metodo seguito e i soggetti sociali analizzati non si possono tracciare linee nette di demarcazione tra cultura, vita quotidiana e sfera politica. Si assiste, infatti, a una osmosi tra i due piani: ambiti propri della quotidianità si politicizzano, ambiti propri della politica si privatizzano, e il legame tra i due momenti emerge anche là dove si
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verifica Pincontro-scontro tra forme culturali popolari e fascismo, illuminando il rapporto tra masse e potere.
L’analisi, attraverso la storia orale, della classe operaia nelle sue relazioni quotidiane e nelle sue rappresentazioni non può non ridefinire “la gerarchia delle rilevanze” nella storia e non mettere in discussione la divisione
tradizionale dei campi della ricerca. Anche per queste implicazioni teoriche e metodologiche, che investono la disciplina storica nel suo complesso, Torino operaia e fascismo rappresenta un contributo che supera l’ambito territoriale e lo spazio temporale considerati.
Dianella Gagliani
“Tristi rottami di un triste passato”di Luciano Casali
Preceduta e accompagnata da un adeguato battage pubblicitario, la “vera storia” di come il 25 luglio 1943 sia caduto il fascismo (nella versione dell’uomo “da sempre” amico-nemico di Mussolini) è divenuta immediatamente un vero e proprio best seller ‘storiografico’. Le memorie di Dino Grandi (25 luglio. Quarantanni dopo, introduzione di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 501, lire 30.000), sedicente fascista antidittatoriale, giunte nelle edicole e nelle librerie da buone ultime, a conclusione di una serie di scoop storico-giornalistici che, negli ultimi anni, hanno riempito il mercato con i diari e le rivelazioni di tutti i principali gerarchi (e dello stesso clima fanno parte anche i falsi diari di Hitler e le raffazzonate pagine di Goebbels) hanno trovato una accoglienza ed un favore di vendita certamente proporzionata, all’importanza del personaggio, ma accresciuti dalla speranza di rivelazioni di cui probabilmente il ‘conte Grandi’ è depositario, ma che si è ben guardato dal rendere di pubblico dominio. D’altra parte l’immagine, avallata anche da Renzo De Felice, di un uomo la cui azione era stata determinante per allontanare dopo vent’anni Mussolini dalla presidenza del Consiglio dei ministri, ma che per quarant’anni aveva sostanzialmente taciuto (p. 8) conservando per sé solo i segreti legati alle ‘dimissio
ni’ del duce, era stata accuratamente costruita, creando aspettative e curiosità.
Va ricordato come la presentazione “obiettiva” (o meglio: acritica) dei vari memoriali fascisti succedutisi ultimamente (da Ciano, a Bottai, a De Marsico, a Cianetti) aveva obiettivamente creato un clima di viva attesa per il pezzo giudicato più importante per completare il ricco mosaico che ha sostituito l’autorap- presentazione del ventennio allo studio ed alla analisi portati avanti con gli strumenti della critica storica. E, in quest’ultimo caso, le pagine di Grandi hanno raggiunto lo scopo di accreditarlo come un “simbolo dell’antifascismo” (p. 12), senza aggiungere nulla a quanto lo stesso Grandi, negli ultimi venticinque anni, aveva raccontato in numerosissime interviste attraverso le quali aveva già accuratamente costruito una propria immagine pubblica antidittatoriale ed aveva già definito praticamente tutti i particolari (reali o di fantasia) inerenti alla preparazione e allo svolgimento della ‘notte del Gran Consiglio’.
Oltre all’articolo (firmato) su “Epoca” del 18 aprile 1965, Dino Grandi ha concesso ripetutamente interviste; la prima, se non andiamo errati, comparve sul “Corriere della sera” già il 9 e 10 febbraio 1955 e fu raccolta da Indro Montanelli; l’ultima, firmata da Gianfranco Bianchi, è su “Il Giorno” del 23 luglio
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1982. Ma anche “Il Messaggero” (7 marzo 1967), il “Corriere d’informazione” (31 agosto e 1° settembre 1963), “Il Tempo” (21 luglio 1960), “Oggi” (7 maggio 1959, 4 giugno 1959, 7 giugno 1973), “La Domenica del Corriere” (23 gennaio 1968) e altri quotidiani e periodici hanno avuto ripetutamente la possibilità di “rivelare per la prima volta uno dei maggiori enigmi della storia del nostro Paese” (S. Bertoldi, Dino Grandi racconta dopo trent’anni di silenzio, in “Oggi”, 7 giugno 1973).
È senz’altro vero che, per le reiterate dichiarazioni e interviste concesse, Grandi è stato al centro dell’attenzione dei mass media ed ha usato ampiamente tali strumenti per diffondere la propria versione degli avvenimenti legati al 25 luglio, oltre che per costruire una immagine di sé calibrata e pesata dalla decennale esperienza di un consumato diplomatico: una vera e propria immagine oleografica.
Ricordava nel giugno 1981 Mario Zamboni, “amico fraterno” e collaboratore “fedelissimo” di Grandi: “Le due bombe a mano che melodrammaticamente Grandi aveva raccontato di avere portato con sé in Gran Consiglio, tanto da passarne una al quadrumviro Cesare Maria De Vecchi quando sembrava che la situazione volgesse al peggio, non sono mai esistite” (Dino Grandi racconta l ’evitabile Asse, Milano, Jaca Book, 1984, p. 233).
Ma non si tratta di una semplice invenzione, aggiunta agli avvenimenti per dare un po’ di colore alla narrazione: essa è una parte profondamente integrata nella versione ed interpretazione grandiane del 25 luglio. Tanto è vero che la versione pubblicata ora è ancora più melodrammatica di quella presentata da Gianfranco Bianchi (25 luglio crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963, pp. 506- 507): “Ci siamo — dico piano a De Vecchi che mi siede vicino —, sta per arrivare il momento di vendere cara la vita. De Vecchi fa cenno di sì e accetta volentieri una delle due
bombe a mano che avevo con me e che gli passo sotto il tavolo” (p. 266).
Fu lui, Grandi, assieme ai diciannove firmatari dell’ordine del giorno, che si sacrificò e, rischiando la vita, fu sul punto di essere passato per le armi a Palazzo Venezia nel tentativo (riuscito) di abbattere la dittatura e riportare la democrazia in Italia “ascoltando la voce del popolo” che era “contro la dittatura e contro la guerra” . Non ci fu alcun merito da parte degli antifascisti (“i più grandi attendisti...di venti anni interi”): “Essi [gli antifascisti] scrivevano, parlavano, incitavano, ma non risulta che alcuno di essi si sia giammai offerto di lasciarsi trasportare e deporre da aereoplani Alleati su un posto qualsiasi del territorio nazionale per organizzare, accelerare, comandare la rivoluzione popolare. Nessuno arrischiò la propria vita preziosa. Seduti in comode poltrone nelle anticamere degli uffici di propaganda in Londra e New York, ovvero di fronte al microfono lontano, i grandi esuli contavano i mesi ed i giorni che ancora li separavano dal giorno fatale della inevitabile sconfitta dell’Italia per sopraggiungere (...). Comparvero baldi e rumorosi il 26 luglio per riacquattarsi nuovamente in cantine e conventi l’8 settembre, ricomparendo poscia baldanzosi quando le divisioni motocorazzate del gen. Clark entravano in Roma e le retroguardie tedesche si ritiravano oltre il Tevere per la via Flaminia verso nord” (p. 327).
I fascisti, dunque, salvarono l’Italia, per la seconda volta, come l’avevano salvata nel 1920-22; anche se il “perfido regime antifascista” instaurato da Badoglio (ma Grandi aveva ripetutamente avvertito Vittorio Emanuele di non fidarsi del Maresciallo!) aprì immediatamente la “caccia agli uomini del passato regime”: “arresti e persecuzioni si intensificarono di mano in mano che i giorni e le settimane passarono” (pp. 402, 403).
Questa linea interpretativa che scorre per centinaia di pagine, senza nessun intervento correttivo da parte di Renzo De Felice, cura-
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tore del volume, giunge a conclusione di una prima serie di annotazioni sulla preparazione del ‘colpo di stato’ (che viene negato come tale) e sullo svolgimento dell’ultima seduta del Gran Consiglio, annotazioni che nulla assolutamente di qualche rilevanza aggiungono a quanto lo stesso Dino Grandi aveva raccontato e documentato vent’anni fa a Gianfranco Bianchi, che aveva pubblicato una ri- costruzione che, secondo il giudizio del ras bolognese, “corrisponde a verità” e poteva essere da lui “avvallata in pieno” (Dino Grandi racconta, cit., p. 172).
Niente di nuovo, dunque, se non una serie di considerazioni sulle quali non vale la pena di soffermarsi, in quanto la critica storica già da tempo ha contribuito ad una loro più esatta valutazione?
Sostanzialmente le cose stanno così.Il volume di Grandi, tuttavia, è composto
da tre distinte parti e forse è opportuno soffermarsi un poco su ciascuna di esse, in quanto ciascuna ha caratteri suoi propri, anche se, in qualche modo, uniformi.
La parte più corposa e sostanziosa (pp. 205-492) del libro è costituita dal memoriale redatto da Grandi “a Lisbona nel 1944, a botta calda” (p. 137), dopo e il processo di Verona e la fucilazione dei “traditori venti- cinqueluglisti” . Precisa Renzo De Felice: “Fu buttato giù tutto d’un fiato, d’impeto: se qualcosa lo caratterizza sono il dolore e la delusione e talvolta lo sdegno” (p. 10).
Una lettura più attenta non ci sembra confermare che ci troviamo di fronte ad un documento sostanzialmente scritto di getto, senza ripensamenti, calibrature, rimeditazioni. Dobbiamo osservare che Grandi ha corredato le sue memorie con un apparato documentario e di note (probabilmente, ma non è precisato, redatti contestualmente alle altre pagine) che utilizzano fonti, periodici soprattutto inglesi e volumi pubblicati fino ai primi mesi del 1946; inoltre alcuni riferimenti, anche indiretti, inseriti nel corso della narrazio
ne inducono ad individuare momenti cronologicamente diversi nella scrittura. “Un anno è passato. Roma è stata liberata, ma la tragedia dell’Italia non è finita” (p. 212: fissa certamente l’inizio della stesura alla tarda estate1944). A p. 306 troviamo una indicazione più precisa: “Scrivo queste pagine nell’agostodel 1944”; ma, immediatamente (p. 307), ci viene offerta una dilatazione dei tempi di redazione: “Da ormai quasi due anni la stampa nazista e fascista (e falangista) persiste nella tesi prescelta e stabilita nel processo di Verona, la tesi del ‘tradimento’” . Diventa quindi necessario considerare la possibilità di un intervento di riscrittura protrattosi fino all’inverno 1945-46, come sembra confermare quanto troviamo a p. 318, un riferimento collocabile, forse, fra l’estate e l’autunno del 1945, se non oltre: “Gli antifascisti... sono stati messi alla direzione del governo e preparano oggi la Costituente”. Inoltre (p. 488) è ricordata la pubblicazione dei termini fissati dall’armistizio (pubblicazione che avvenne il 6 novembre 1945); è citata “L’Italia libera” del 10 novembre 1945 (p. 489) e, alla stessa pagina, sono ricordati due numeri della “Tribune de Genève”, del 9 e dell’l l novembre 1945. Infine sono riportate alcune considerazioni tratte dal volume di Stratolf {The Conquest o f Italy), ora citando l’edizione americana del 1944 (p. 430), ora quella londinese del 1946 (pp. 477, 489). Potremmo continuare, ma i riferimenti ci sembrano sufficienti per individuare fra l’estate del 1944 e l’inizio del 1946 la redazione ed una serie continua di interventi e rifacimenti delle note e, soprattutto, del testo.
Non ci troviamo, quindi, di fronte ad un lavoro scritto di getto ed impulsivamente, ma ad una lunga e attenta elaborazione, all’interno della quale i riferimenti e i giudizi non sono determinati dalla “botta calda” delle fucilazioni decise al processo di Verona. La feroce polemica contro gli antifascisti, la apologia del re come salvatore della Patria (anche per Vittorio Emanuele III si
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trattava di un secondo salvataggio, dopo quello del 28 ottobre 1922...), fanno forse presumere una redazione completata in vista di una pubblicazione da farsi nel corso della campagna elettorale referendaria del 2 giugno 1946? Secondo noi è una ipotesi da non escludere, anche se questa considerazione modificherebbe notevolmente il valore documentario del testo grandiano. D’altra parte — anche se si volesse ritenere forzata questa datazione della redazione definitiva del memoriale e le conclusioni politiche che ne traiamo — resta comunque il fatto che ci troviamo di fronte a pagine che hanno subito continue integrazioni (e certamente modifiche) per quasi due anni. In esse, quindi, gran parte dei giudizi hanno risentito di tutte quelle variazioni che il contesto internazionale e la situazione interna italiana suggerivano di fronte al variare dei rapporti di forza dopo la guerra e al delinearsi di un clima politico ben diverso da quello della alleanza internazionale antinazifascista. Si avvicinava la guerra fredda e forse il fascista Grandi sperava di poter ritrovare, con il mantenimento della monarchia in Italia, uno spazio nella vita pubblica: aveva ‘distrutto’ il fascismo italiano, si qualificava da sempre come antinazista (o antihitleriano), la sua attività di ambasciatore a Londra gli aveva procurato calde amicizie a Buckingam Palace, presso Churchill, da gran parte del potere politico ed economico britannico. Le note lettere di Grandi a Churchill (soprattutto quella del 18 agosto 1944) si inseriscono perfettamente in tale strategia (in W.F. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963, pp. 699-704), come l’altrettanto noto tentativo di Vittorio Emanuele III di sostituire Badoglio con Grandi alla fine del settembre 1943 fa comprendere la stima del Savoia nei confronti dell’ex ambasciatore a Londra. Tale nomina, sostanzialmente non sgradita a Churchill, era stata bloccata da Roosevelt e da Stalin, ma, dopo l’aprile 1945, né l’uno né l’altro (per motivi diversi) potevano più in
tervenire nelle scelte di politica interna italiana (e intemazionale inglese). In ogni caso, se i fini della redazione del memoriale furono quelli di accreditarne l’autore e la monarchia quali costanti e fedeli fautori dell’antimusso- linismo e proporre Grandi e Casa Savoia quali punto di riferimento per un compatto voto di destra anticiellenistico (contro i profittatori e gli attesisti, secondo le parole di Grandi), a maggior ragione vanno accettate con estrema cautela tutte le affermazioni del libro.
Riproporle dopo quarant’anni senza alcun commento, senza un apparato di note (critiche, esplicative, correttive) che mettano in rilievo le omissioni, le forzature interpretative pro domo sua, le esagerazioni e gli errori (voluti o casuali), non ci sembra costituisca una operazione del tutto corretta, in quanto potrebbe indurre qualche lettore non particolarmente a conoscenza degli avvenimenti ad accettare (grazie alla assenza di qualsiasi intervento correttivo da parte dell’autorevole curatore e presentatore) come verità o quasi verità ogni affermazione di Dino Grandi, anche la più lontana da quanto ormai da anni è stato accertato e documentato da storici e studiosi. Non soltanto la “feroce caccia” ai fascisti scatenata da Badoglio nel corso dei 45 giorni non trova alcuna conferma (anzi!) nelle scelte politiche effettuate dal Maresciallo — e già questo basterebbe per annullare gran parte dell’interpretazione grandiana sul post 25 luglio —, ma anche altri numerosi episodi (piccoli e grandi, ma tutti convergenti allo stesso fine di dimostrare la politica antifascista di Badoglio) risentono di una scelta fortemente finalizzata e più o meno voluta- mente falsata nella ricostruzione degli avvenimenti. Si veda, ad esempio, l’approssimativo e sbagliato elenco delle città bombardate dagli anglo-americani nel corso dell’agosto 1943 (pp. 404-405, 458, 460-461), gli errori di datazione e motivazione degli scioperi operai e delle manifestazioni di massa (pp. 281, 402- 403) la confusione e le contraddizioni nel ri
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costruire gli incontri fra Grandi e gli altri membri del Gran Consiglio prima della seduta (pp. 221, 237-240, 337). La stessa ricostruzione dell’ordine degli interventi durante la seduta non corrisponde con quella riportata da Bottai nel suo Diario (Milano, Rizzoli, 1982, pp. 407-421), ed è proprio Grandi a sottolineare (p. 249) che la versione di Bottai è probabilmente la più esatta in quanto ricavata da note e appunti tenuti da Federzoni, Bastianini, Bignardi, Bottai “e da altri durante la seduta” .
Può non stupire la sottovalutazione degli scioperi del marzo 1943 (pp. 329-330) o la mancanza di ogni accenno alla Circolare Roatta, l’elemento determinante per il mantenimento dell’ordine pubblico (a meno che ad essa non si riferiscano le ambigue affermazioni di pp. 349-350 sulla “volontà ferma ed energica” delle prime disposizioni bado- gliane); né meraviglia la sopravvalutazione del 25 luglio di cui vengono indicati riflessi internazionali di incredibile portata: lo stesso Francisco Franco avrebbe rischiato di doversi dimettere (p. 386)! Si tratta, è evidente, delle valutazioni che Grandi offriva nel 1946 per mostrare all’Italia (ed al mondo) l’importanza e il valore del suo “audace gesto” . Ma queste stesse considerazioni, quale valore possono avere ora se non per gli addetti ai lavori, per quanti possono ‘smontare’ il testo e collocarlo esattamente nelle sue dimensioni, misurate sull’autore, sulle sue aspirazioni, sul contesto che lo indusse a scrivere, sugli scopi che erano sottesi a tale scrittura? Senza questi punti di riferimento (che non vengono dati dal curatore) per un lettore normale il libro è perlomeno fuorviante, se non culturalmente e politicamente ‘pericoloso’. Gli studiosi possono semplicemente sorridere leggendo di un Badoglio impegnato a provocare “con ogni mezzo la rivoluzione e il caos in Italia” , o imparando che gli Alleati anglo- americani intensificarono i bombardamenti aerei fra il 7 agosto e l’8 setttembre colpendo volontariamente le città e le popolazioni civi
li “allo scopo di portare la Nazione [cioè l’Italia] alla rivoluzione disintegratrice” (p. 427). Ma quali giudizi o conclusioni può trarre il lettore non specialista da quelle affermazioni o dalla seguente, lapidaria, frase ad effetto? “Ardeva in Milano la ‘Scala’ incendiata da fortezze volanti americane e Toscanini organizzava e dirigeva a New York un grande concerto allo scopo di inneggiare alla vittoria sull’Italia” (p. 427).
Ciò che resta, la cronaca scarna e non completa (pp. 249-268) della seduta del Gran Consiglio e il testo ‘ufficiale’, ricostruito a posteriori, di due degli interventi di Grandi in quella sede (pp. 285-303), non è né inedito né tale da giustificare la pubblicazione delle altre 250 pagine.
Alla fine della lettura qualcosa, comunque, rimane di ancora non conosciuto (ed era forse ciò che più ci interessava): il perché, le motivazioni vere che indussero Grandi ad affiancare l’azione della monarchia per sostituire Mussolini. Va da sé che le affermazioni (ampiamente scontate e prevedibili) del disinteresse più totale e della mancanza di secondi fini nel condurre l’operazione, non convincono. Il disinteressato amor di patria, ripetutamente proclamato, non era del resto mai stato il fattore determinante nelle scelte di Grandi; non lo era stato quando si era “messo al servizio” degli agrari di Imola, non lo fu certamente neppure il 25 luglio. Quali garanzie e sollecitazioni avessero avanzato gli agrari bolognesi e Casa Savoia e quali ambizioni essi avessero sollecitato in un Grandi politicamente e personalmente ridimensionato dopo essere stato richiamato a Roma da Londra, non ci viene svelato.
Il 22 luglio il principe di Piemonte aveva fatto sapere esplicitamente a Bottai che era tempo di muoversi se si voleva “salvare la cattolicità, la monarchia e quel tanto di fascismo che costituiscono i valori italiani” (G. Bottai, Diario, cit., p. 403). Nonostante i ripetuti dinieghi di Grandi, potere economico, monarchia, esercito (e Vaticano?) non potè-
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vano che auspicare un fascismo senza Mussolini. Caviglia (come suggeriva Grandi) o Badoglio avevano semplicemente il compito di preparare la transizione ad un governo più stabile dopo che fossero state rovesciate le alleanze militari e lo stesso Grandi (che non casualmente restò a Roma fino al 18 agosto a stretto contatto con il re e con il Vaticano) sarebbe stato un successore forse non sgradito alla Gran Bretagna. Questa ipotesi, di dare continuità al regime, viene, sia pure una sola volta e non esplicitamente, ammessa da Grandi: “Il fascismo non poteva risorgere, ma bensì, morendo, compiere un grande servigio al paese: salvare gli ideali, le aspirazioni, i motivi che avevano dato vita al fascismo medesimo ed in pari tempo gran parte del bene effettivo ed innegabile che lo stesso regime fascista aveva, in mezzo a tanti errori, compiuto e che ormai era divenuto, attraverso laboriose esperienze, patrimonio della nazione” (p. 338).
Una linea, questa di salvare in sostanza il fascismo, che, secondo Giuriati, trovava consenziente lo stesso Mussolini (G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 224-233).
La seconda parte del volume (pp. 137-197) è un ampio Proemio, datato 4 giugno 1983, nel quale Grandi esalta le proprie attività, ad iniziare dal misterioso attentato subito ad Imola il 19 ottobre 1920 (ma su tale episodio vale la pena di rileggere l’ampia e lucida testimonianza di Andrea Marabini al quale Grandi andò a “chiedere protezione”) (in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, I, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1967, pp. 455-456). Ancora una volta non vale la pena elencare omissioni e ‘dimenticanze’, molto più numerose e consistenti che non i ricordi. Il vero ritratto di Grandi, del fascismo e dei suoi uomini potrebbe essere composto proprio dalla segnalazione di tutto quanto oggi viene accuratamente celato sotto i falsi alibi del patriottismo. Affermazioni grottesche costellano questa parte dello scrit
to che non serve assolutamente neppure per una approssimativa ricostruzione autobiografica. Un esempio, fra i tanti possibili: “La guerra d’Etiopia fu una guerra ottocentesca, per molti aspetti romantica, dettata e fatta dal patriottismo italiano risvegliato dal richiamo, dopo mezzo secolo, delle tombe invendicate dei nostri soldati caduti durante le nostre campagne di guerra sfortunate in terra d’Africa. Un gesto di unanime ribellione, non inconsueto nella storia d’Italia, contro la tirannia, la sopraffazione e l’ingiustizia” (p. 159).
Un cinismo sconcertante (pp. 167-168) si mescola all’autogiustificazionismo e ad una costante mistificazione. Tipiche le pagine in cui Grandi ci assicura che tutte le lettere di elogio e venerazione scritte per vent’anni a Mussolini erano solo “lettere strumentali” ed insincere, cosa, del resto, che “Mussolini sapeva benissimo” (p. 162). Soprattutto il racconto dell’attività diplomatica a Londra durante le guerre di Etiopia e di Spagna, confrontato con qualsiasi altro testo, mostra i segni di coscienti falsificazioni (pp. 168-171). E non parliamo del “miracolo della pace” ottenuto da Grandi a Monaco (pp. 172-177) e della monomania, persistente, di essere stato da sempre perseguitato da Hitler e da innumerevoli sicari al soldo del nazionalsocialismo... Non è vero che Grandi apprenda improvvisamente il 3 giugno 1939 (p. 180) di dover lasciare la sede diplomatica di Londra, in quanto ne era già informato sin dal 23 febbraio direttamente da Mussolini (G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli, 1980, p. 256); è sbagliato il resoconto del Consiglio dei ministri tenutosi il 1° settembre 1939 (iv i, p. 340 e G. Bottai, Diario, cit., pp. 156-157); è tutt’altro che esatto che Ciano “era partito per Salisburgo amico sincero dei tedeschi” e che solo dopo quell’ 11 agosto cambiò il proprio atteggiamento (G. Ciano, Diario, cit., pp. 326-327), è falso che, dopo gli “accordi di Pasqua” (16 aprile 1938) promossi da Grandi a Londra, nessun “volontario” italia
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no fu mandato contro la Repubblica spagnola (cfr. J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 395-396).
Nulla apprendiamo della ‘conquista’ fascista di Bologna (su cui si sorvola ‘elegantemente’, come su tutto il periodo dello squadrismo), fra l’eccidio di Palazzo d’Accursio (ma Grandi si iscrisse al Fascio due giorni dopo) e l’allontanamento di Grandi dall’Emilia con la (momentanea e provvisoria) vittoria di Leandro Arpinati; resta misteriosa l’origine dei mezzi finanziari utilizzati da Grandi per acquistare il pacchetto azionario di maggioranza de “il Resto del Carlino”.
A tutto ciò Renzo De Felice, nella sua ampia Introduzione (pp. 7-133), oppone tre sole osservazioni, rapide e, tutto sommato, marginali, indicando una certa reticenza gran- diana nel descrivere il comportamento degli altri membri del Gran Consiglio (p. 107), ricordando che sarebbe assurdo attribuire al solo Grandi i risultati del 25 luglio (p. 10) e avvertendo che il rapido rovesciamento di alleanze militari dopo tale data (come auspicava Grandi) non sarebbe stato possibile (p. 22). Altro (e speriamo di avere letto distrattamente) non siamo riusciti a trovare e questo non può che significare un riconoscimento completo delle tesi sostenute da Dino Grandi, di un racconto costruito (nel 1944-46 e nel 1983) ai fini di autoesaltazione acritica, di un testo (tutto sommato) reticente di fronte ad avvenimenti giudicati, a quaranta-cin- quanta anni di distanza, senza il minimo accenno di ripensamenti, di dubbi, di autocritiche. Solo la “stella malefica di Hitler” (p. 194) ha inquinato e dirottato l’azione di Mussolini, “un grande uomo [che] si sbagliò due [sole] volte” : il 1° settembre 1939, non prendendo sufficienti distanze dalla guerra nazista, e il 10 giugno 1940, entrando in guerra (p. 190).
Nella sua Introduzione Renzo De Felice, utilizzando la ormai imponente bibliografia e memorialistica relative alla caduta di Mussolini, ricostruisce, in chiave prevalentemente psicologica, il comportamento e gli atteggiamenti del re, di Mussolini, degli alti comandi delle forze armate, delle gerarchie fasciste, di Grandi a partire dal tardo autunno 1942, quando apparve sempre più evidente la sconfitta militare.
Nessuno spazio (né accenno) è lasciato a quel potere economico e finanziario che, siamo convinti (ma le nostre possono essere convinzioni che sopravvalutano le influenze dell’economia e sottovalutano il disinteresse personale che mosse Vittorio Emanuele III, Grandi e gli altri nel tentativo di “salvare la Patria”), qualche pressione dovettero esercitare, sia di fronte alle sorti ormai segnate del conflitto, sia in conseguenza degli scioperi del marzo 1943 che avevano indicato come Mussolini non fosse più in grado nemmeno di mantenere la repressione antioperaia e la “pace sociale” e quindi non fosse più utile.
Solo l’accettazione, incredibile, dello scritto di Grandi e delle sue valutazioni sul fascismo può far comprendere come questo libro, che attraverso le parole di uno dei massimi responsabili dell’imperialismo fascista costituisce una tardiva esaltazione dell’opera di violenza e sopraffazione (interna ed internazionale) del regime, possa essere stato pubblicato per offrire, quale portatrice di verità, una lettura acritica, reticente, falsa e voluta- mente falsificata della storia d’Italia. Gli antifascisti, “tristi rottami di un triste passato” , saranno spazzati “quando risorgerà l’Italia”, auspica Dino Grandi (p. 340). Anche a questa “profezia” Renzo De Felice dà copertura e offre credito. E ciò è veramente e profondamente triste.
Luciano Casali
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Fascismo
AA.VV., La dittatura fascista, Milano, Teti, 1983, pp. 533, lire 30.000 [“Storia della società italiana” , vol. XXII].
Le più recenti opere d’insieme sul fascismo si caratterizzano, rispetto a quelle di dieci o vent’anni fa, per un grado sempre più avanzato di interpretazione storiografica o per la mole sempre più ampia di risultati empirici che offrono o che possono utilizzare.
Questo volume presenta in effetti dodici contributi che non si limitano alle ipotesi di lavoro, alla pura e semplice sintesi di lavori altrui, alla divulgazione narrativa degli avvenimenti. I singoli autori si sono sforzati di approfondire e articolare lo studio di temi specifici con vari sondaggi di ricerca almeno in parte originali, potendo quindi dare fondatezza ad un ripensamento di tanti argomenti-chiave della storia italiana nel periodo fascista, anche se liberamente svolti senza rigidi riferimenti ad un quadro unitario, che manca al volume anche nella forma minima di una presentazione dei curatori e responsabili dell’intero impianto di questa “Storia della società italiana” dall’antichità all’età contemporanea pubblicata dall’editore Teti. Alcune diseguaglianze, lacune e squilibri formali, di taglio e di trattazione, sono inevitabili in un volume del genere, e largamente compensate dall’utilità dei singoli saggi, che sarebbe impossibile riassumere in questa sede rendendo giustizia a ciascuno di loro. La scelta dei temi, soprattutto nella prima parte, indica che si è voluto decisamen
te spostare l’enfasi dell’interesse interpretativo sugli aspetti economici e sociali del regime fascista, che sarebbe preoccupazione scontata in una collana intitolata alla società se proprio la storia sociale dell’Italia fascista non fosse ancora così sconosciuta e deliberatamente ‘scansata’ da tanti studiosi professionali. Molti dati nuovi sono fomiti da Alberto Preti (La politica interna fascista e l ’organizzazione del consenso), da Giulio Sapelli (Grande industria e organizzazione del lavoro), e da C.A. Corsini (La mobilità interna della popolazione nel periodo fa scista)', Ivano Granata (Classe operaia e sindacati fascisti) offre uno spaccato concreto, con varie esemplificazioni locali, del rapporto reale tra sindacalismo fascista e mondo del lavoro; Domenico Preti (Fascismo, grande capitale e classi sociali) richiama il contesto internazionale che favorisce la stabilizzazione del fascismo al potere, le drastiche direttive di politica economica consentite dal consolidamento dello Stato di polizia, le conseguenze spesso sconvolgenti, per ampi strati della popolazione, del controllo assoluto sulla forza lavoro, sui salari, sui consumi. La non comparabile presenza della Chiesa e delle opposizioni è studiata da Camillo Brezzi (I Patti lateranensi e il mondo cattolico) e da Aldo Berselli (L ’antifascismo all’interno e all’esterno), mentre le questioni dell’ideologia e della cultura vengono trattate da Gianpa- squale Santomassimo (Cultura, intellettuali e fascismo) e da Emilio Agazzi (Croce e l’antifascismo moderato: fra ideologia italiana e ideologia europea). La collocazione internazionale
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del fascismo italiano è affrontata, con approfondimenti specifici, da Teodoro Sala (Fascismo e Balcani. L ’occupazione della Jugoslavia) e da Enzo Collotti (L ’alleanza italo-tedesca 1941- 1943), che mettono a frutto fonti documentarie nuove o poco conosciute, mentre Enzo Santarelli (L ’espansionismo imperialistico del 1920-1940) traccia un profilo generale, unico nel suo genere e di grande interesse, dei caratteri originali e permanenti dell’imperialismo fascista, ricordandoci l’emblematica formula con cui Mussolini nel 1927 voleva descrivere al paese un’alternativa di politica estera senza rendersi conto di immortalare una contraddizione storica del suo regime: “espandersi o esplodere” . Proprio i nessi inestricabili tra politica interna ed espansionismo fascista sollevano una questione complessiva che resta forse ai margini di questo volume: la natura, la fisionomia, il funzionamento dello Stato fascista, quali rapporti di continuità e di novità mantenesse e promuovesse con le istituzioni prefasciste, quali mutamenti genetici introducesse nella composizione della classe dirigente, quali permanenze alimentasse, col sottogoverno, le pratiche clientelali e il conformismo, in vaste zone di arretratezza materiale e civile del paese. Lo Stato fornisce il terreno d’incontro tra il partito fascista, i suoi famelici ‘ras’ e le vecchie consorterie, lo Stato offre le molteplici sedi ed occasioni della mediazione praticata da Mussolini fra le varie forze che pattuiscono gli equilibri del nuovo blocco di potere borghese, lo Stato si riconcilia con la Chiesa e persegue con impersonale violenza legalizzata gli
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oppositori, lo Stato educa e coarta, lo Stato interviene nell’economia creando istituzioni non transitorie, lo Stato è l’autentico motore dell’imperialismo fascista, lo Stato è insomma l’elemento non transeunte di un regime che in un giorno (25 luglio 1943) scompare. Con questo, si vuole indicare non tanto un limite di questo volume, o esprimere ‘desiderata’ che potrebbero essere rivolti a tanti altri lavori, anche non specificamente intitolati alla dittatura fascista nella storia della società italiana. Si vuole piuttosto avanzare l’ipotesi che se una storia etico-politica o puramente istituzionale dell’Italia fascista sarebbe vuota, senza un continuo e saldo riferimento alle classi e ai mercati, alle officine e alle campagne, una storia sociale del fascismo sarebbe, senza il suo abnorme e possessivo Leviatano, cieca.
Marco Palla
Il fascismo. Antologia di scritti critici, a cura di Costanzo Casuari, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 700, lire 30.000.
Si tratta della seconda edizione di un lavoro già apparso nel 1961, ed ora assai modificato e arricchito, pur conservando il carattere di fondo di antologia davvero eclettica di tentativi di interpretazione ‘metapolitica’ o ‘transpolitica’, e di ambizioni definitorie e classificatorie in senso epistemologico della natura del fascismo (un’antologia molto diversa, di taglio scientifico e storiografico, curata da Alberto Aquarone e Maurizio Ver- nassa è stata pubblicata nel 1974 dalla stessa casa editrice). Il tito
10 della nuova introduzione del curatore, Il fascismo caso di coscienza della nazione, fornisce indubbiamente una chiave di lettura dell’antologia e dei suggerimenti che essa contiene. Nella sostanza, Casucci avanza una sua interpretazione moralistica del fascismo, che possiede la forza supplementare di una testimonianza personale di riflessione quanto mai impegnata e sofferta. Non si lasci ingannare o frastornare il lettore da qualche riferimento estemporaneo o stravagante dell’introduzione di Casucci, dove l’autore paria — oltre che in prima — anche in terza persona, richiamando le sue posizioni e i suoi scritti di oltre vent’anni fa, e dove si menzionano il Risorgimento e la prima guerra mondiale, Churchill, Benedetto XV, Rosa Luxemburg, l’odierno Stato di Israele, le recenti polemiche sul progetto di scavo nella zona dei Fori imperiali a Roma, la Felix Austria, i rapporti attuali fra Cina e Unione Sovietica, André Glucksman, e l’aneddoto personale (di Casucci) su un viaggio ferroviario in cui un giovane dava del “fascista” a chi gli ricordava il divieto di fumare in quello scompartimento. Il fascismo viene qui sempre trattato come un fenomeno molto (anzi, tragicamente) “serio” della nostra storia nazionale: per intenderne11 significato, Casucci suggerisce di integrare l’interpretazione transpolitica o filosofica di Augusto Del Noce con quella sociologica di Monnerot e con quella psicosociale di Erich Fromm. Queste interpretazioni, accanto a quella scaturita dal dibattito degli anni cinquanta sulla rivista “Terza generazione” (qui riprodotto nella seconda
parte dell’antologia), sono nettamente privilegiate rispetto a quelle degli storici, se non talvolta contrapposte ad esse. Il gusto della classificazione, e un’immaginazione addirittura fertile per trovare nuove categorie, disancorati da criteri scientifici di tipo filologico o storiografico e affidati principalmente alla tensione interpretativa etico-politica, producono tuttavia cadute di tono e fraintendimenti non rari. Così, oltre che bizzarra se non offensiva, appare piuttosto meccanica e incongrua la semi-equiparazione compiuta da Casucci delle posizioni maturate nel periodo ‘postfascista’ e ‘al di fuori’ del sistema politico tradizionale, e che farebbero capo al neofascismo di Adriano Romualdi e alla contestazione di Guido Quazza, scelto quest’ultimo perché, “pur non appartenendo alla generazione del ’68, ha saputo dare compiuta espressione ai giudizi da quella formulati sul fascismo, mettendo a disposizione gli strumenti di una tecnica raffinata fino alla sofisticazione” (p. 50). Casucci inclina poi verso analogie storiche tra fascismo e Risorgimento (per il comune rifiuto di una “cultura neutrale” , sarebbero entrambi fenomeni di reazione critica al Rinascimento) che suonano forzate. Qualche perplessità suscita l’articolazione di tutta la prima parte dell’antologia, che include, nella prima sezione (“Le interpretazioni del sistema politico”), una larga rassegna di posizioni contemporanee dei fascisti: quelle degli intransigenti (Malaparte), dei futuristi (Marinetti), dei sindacalisti (Rossoni, A.O. Olivetti, Panunzio), dei corporativisti (Bottai, Spirito, Costamagna),
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dei nazionalisti (Rocco), dei revisionisti (Bottai), dei conserva- tori (Fani, Ciotti), dei tecnocrati (G. Olivetti, Serpieri), dei giovani (Giani, Pallotta), e infine dei “fascisti... fascisti” (Bottai, Gentile) per intendere, spiega Casucci, “come fanno intuire i puntini sospensivi quei fascisti che sfuggono, al contrario degli altri, ad una ulteriore caratterizzazione” (p. 19). Queste classificazioni sono largamente opinabili, derivando dall’esplicita individuazione di molteplici ‘componenti’ e ‘correnti’ del fascismo i cui tratti comuni vengono assai diluiti se non dispersi, e in ogni caso stridono in una raccolta antologica di “scritti critici” , visto il largo predominare di fumisterie ideologiche e di acritiche e propagandistiche teorizzazioni che quegli scritti presentano. Rilievi di varia natura si potrebbero muovere alla pur utile rassegna delle posizioni dei cattolici, dei liberali, dell’antifascismo radicale, socialista, comunista e anarchico: presentare al lettore comune, necessariamente non addetto ai lavori, una serie di materiali in cui non è sempre ben distinta la linea di demarcazione fra fonti e studi critici, costituisce solo un primo e limitato approccio ad una problematica ancora da elaborare ed approfondire nel senso di una prospettiva che ne storicizzi i termini col minor grado di approssimazione possibile. Casucci infine stempera il suo impegno civile e la sua indiscutibile fede democratica in un’attitudine didattica ad insegnarci la lezione e la ‘morale’ che si può trarre dalla storia nazionale (in questo caso, dalla storia del fascismo), che assume talora il tono di una “predica inutile” ver
so la sinistra, che non avrebbe mai saputo contemperare 1’ “esigenza nazionale” e quella “classista” , in particolare nel giudizio sulla prima guerra mondiale e verso l’intervento che essa si ostina a non considerare obiettivamente, come storicamente necessario e “rilevante” per lo sviluppo civile dell’Italia. Per non lasciare spazio alla “seduzione fascista” come avvenne nel primo dopoguerra, il nostro paese deve oggi accettare gli eroi senza lasciarne “il monopolio ai fascisti” . Che per superare la crisi “più grave della sua storia” l’Italia abbia “bisogno di eroismo” (pp. 87-89), è esortazione discutibile quant’altre mai. Personalmente, a questo proposito la penso ancora come Bertold Brecht.
Marco Palla
G i a m p a o l o B e r n a g o z z i , lim ito dell’immagine, Bologna, Clueb, 1983, VI, pp. 311, lire 16.000.
Dieci anni fa Bernagozzi pubblicò il suo primo studio sui cinegiornali Luce. Da allora è andato approfondendo e ampliando l’analisi dei mass media del regime fascista, scientificamente e filologicamente precisando i temi della propaganda del regime e, specialmente, dello strumento cinematografico come mezzo per la conquista del consenso, per comprendere fino in fondo quegli anni, in modo da evitare “le forzature superficiali di un lacrimoso come eravamo oppure di un compiaciuto e astioso come eravate” (p. 7), costruendo un dialogo continuo fra cinema e storia. Ora Bernagozzi sembra tirare le somme delle sue ricerche con un libro
estremamente documentato nel quale gli strumenti dell’analisi storica e di quella cinematografica si fondono in una analisi estremamente viva ed utile che, fra l’altro, supera agevolmente, in un terreno troppo spesso facile alle mediazioni, ogni tentazione ‘accomodante’ e superficiale, con giudizi a volte sferzatamen- te limpidi, specialmente di fronte ad una editoria (libraria e televisiva) “assurda ed equivoca” . D’altra parte il centenario mus- soliniano sembra costituire non un semplice ‘riflusso’: è difficile pensare a nostalgie individuali, “siamo piuttosto nell’ambito di una vera e propria linea politica” (p. 268).
Cinema e storia, quindi, che nel racconto dell’autore debordano dagli anni del regime e si rovesciano nella tristezza cupa di altre reazioni e di altre violenze. Nello stesso modo la lettura filmica di Bernagozzi non si ferma alle sole immagini o allo studio delle tecniche di ripresa, ma colloca l’Istituto Luce e l’industria cinematografica al centro dei mezzi creati per la conquista del consenso e per la creazione dei miti ad esso necessari, accanto alla cultura fascista, alla scuola, alle parate ed adunate “oceaniche” ...
Con la avventura fascista in Spagna, l’antifascismo sembrò recuperare nuovo vigore e nuove adesioni. Lo stesso segno, di un deterioramento in questo caso fra lo schermo e le platee, si avverte anche dalla propaganda visiva, un deterioramento nato per di più sugli “stilemi convenzionali” , che proprio allora cominciarono a mostrare la corda, in quanto “le parole giocano il ruolo del loro stesso esaurirsi in una ripetizione ossessiva e mo
Rassegna bibliografica 103notona” (pp. 171-72). A fianco dell’esempio della Spagna, altri ne potremmo portare a conferma della utilità dell’uso anche dello strumento filmico per una “lettura” tradizionale della storia, o ancor meglio per leggerla più attentamente attraverso i riflessi sul sociale degli avvenimenti. Si vedano le pagine che Bemagozzi dedica alle donne nelle immagini del regime: “donne Rachele in miniatura: esseri inferiori, madri feconde, massaie laboriose” (pp. 67-76), o agli operai (pp. 77-82), o all’epica del mondo contadino (pp. 117-128): “la macchina da presa nel momento stesso in cui si impegna ad essere oleografica riproduzione delle impennate del regime, può offrirci coefficienti essenziali per la decodificazione di queste stesse impennate” (p. 7).
Luciano Casali
M a s s i m o C a r d i l l o , II duce in moviola. Politica e divismo nei cinegiornali e documentari Luce, Bari, Dedalo, 1983, pp. 220, lire 14.000.
Tra i numerosi lavori usciti nel corso del centenario musso- liniano, questo di Massimo Cardillo si presenta come un contributo particolarmente interessante.
Più volte gli storici hanno segnalato la necessità, per approfondire un discorso sull’ideologia e sulla propaganda fascista, di mettere direttamente le mani sul materiale prodotto dal regime, radio e cinema in particolare.
Il libro di Cardillo contribuisce a colmare questa esigenza affrontando, in modo scorre-
le e godibile, il tema dei cinegiornali e documentari che l’Istituto Luce programmò durante il ventennio. E ruolo che i cinegiornali ebbero all’interno del più complesso sistema di propaganda fascista è il filo conduttore di una ricostruzione che tocca qua e là altri temi (la radio in particolare) e che si presenta come un momento importante anche se non unico di quel progetto di educazione politica delle masse che il regime attuò mescolando la retorica più antiquata e la sapienza moderna delle tecniche di propaganda.
Cardillo mette bene in evidenza le diverse fasi in cui operò l’Istituto Luce, i progressi tecnici e linguistici confrontati con intelligenza con i prodotti della Germania nazista, le sollecitazioni del regime, l’acquiescenza e la parziale autonomia degli operatori e dei tecnici. Queste tappe interne all’istituto cinematografico di propaganda vengono costantemente inserite in una periodizzazione che tocca alcuni episodi cruciali della vita del regime — l’avventura coloniale africana soprattutto — o alcune tematiche che percorrono orizzontalmente tutta l’epoca fascista — il mito del rurali- smo è quello maggiormente analizzato ed esemplificato.
La parte preponderante del lavoro, comunque, al di là delle generali ipotesi di ricerca e delle proposte di interpretazione dei principali materiali propagandistici del Luce, riguarda la figura di Mussolini, la sua soverchiarne presenza all’interno dei filmati e dei cinegiornali. In due distinti capitoli, l’uno dedicato alla psicologia gestuale mussoliniana, l’altro all’oratoria del dittatore,
Cardillo mostra a sufficienza come su alcuni temi — in questo caso la ricostruzione / definizione di una personalità di rilievo, del suo ruolo e impatto e della sua funzione e fruizione pubblica — l’ausilio della fonte audiovisiva sia qualcosa di più che un materiale sussidiario: sia in realtà una fonte primaria di inestimabile valore là dove si sappia utilizzarlo affiancandolo, senza contrapposizioni, ad altri elementi di ricerca e ad altri filoni di indagine.
Questa ricostruzione compiuta da Cardillo e la sua proposta interpretativa e metodologica, pur nei limiti oggettivi di una prima ricognizione d’assieme che si auspica apra la via a indagini più dettagliate, è arricchita da un’appendice con una serie di utili documenti (schede informative su numerosi film e cinegiornali prodotti dal Luce sugli argomenti “L’impero” e “Vita fascista” ; circolari, regolamenti, progetti e rendiconti deU’Istituto) ed un gruppo di interviste a registi, critici, politici, inteUettuali che vissero in modo diverso le vicende politiche e propagandistiche del regime. Ed anche questo sintetico ma significativo apparato documentario non fa che suscitare ulteriore curiosità per un settore di ricerca che non potrà più essere considerato accessorio negli studi sulla propaganda, sul consenso e in generale sul rapporto con la società che il regime fascista aveva cercato di instaurare ed imporre.
Marcello Flores
U g o b e r t o A l f a s s i o G r i m a l d i -
M a r i n a A d d i s S a b a , Cultura a
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passo romano. Storia e strategia dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 270, lire 25.000.
Negli studi dedicati all’educazione ed ai giovani durante il periodo fascista, il tema dei Littoriali della cultura e dell’arte organizzati dal regime dal 1934 in avanti, è stato più volte oggetto di interessamento, di speculazioni, di suggerimenti interpretativi, di accenni più o meno episodici, ma quasi mai di ricostruzioni più attente ed approfondite. Il volume di Ugoberto Alfassio Grimaldi e Marina Addis Saba cerca di colmare questa lacuna, ricostruendo in modo più organico e puntuale il susseguirsi dei diversi Littoriali e inserendo la loro vicenda in quella più vasta della politica culturale del regime.
I due autori considerano, forse troppo unilateralmente, i Littoriali come il momento principale di una politica culturale diretta dalla struttura gerarchica del regime fascista. È certo che il loro impatto, soprattutto sui giovani, non può essere sottovalutato: special-mente ove si guardi ai nomi riportati in appendice dei primi classificati alle diverse edizioni dei Littoriali, per la maggior parte uomini e donne che troveranno nel dopoguerra — ed alcuni anche prima, nel fascismo stesso, nell’antifascismo, nella Resistenza — modo di affermarsi e di inserirsi a pieno titolo nelle élites politiche e culturali del paese. Proprio il capitolo iniziale, dedicato al problema della gioventù fascista nella storiografia, è di particolare interesse, con la sua capacità di ricostruire, seppure in un’ottica
particolare, l’atteggiamento che nei confronti del fascismo si ebbe nei decenni successivi alla caduta del regime, secondo cadenze e periodizzazioni politico-culturali che andavano al di là del mero dibattito storiografico.
I tre capitoli successivi sono tutti dedicati alla ricostruzione, selettiva ma puntuale, dei diversi Littoriali, del clima che li accompagnò, degli episodi più significativi al loro interno. Il quadro d’assieme dello svolgimento di questa Olimpiade della cultura è ricostruito con efficacia, anche se spesso si privilegiano i momenti relativi a quei personaggi che più avrebbero fatto carriera — politica e culturale — nel secondo dopoguerra. D’altra parte proprio l’utilizzazione costante delle fonti memorialistiche e di quelle giornalistiche rende la ricostruzione vivace ed interessante, anche se a volte un po’ troppo impressionistica e lasciando nell’ombra interrogativi adombrati più volte ma mai direttamente affrontati. Proprio il capitolo finale, con le sue assiomatiche definizioni di cosa rappresentarono e furono i Littoriali, di cosa costituirono alPintemo della strategia del consenso pensata dal regime, sembra chiudere un po’ troppo frettolosamente una ricchezza di interrogativi che la prima parte e la ricostruzione successiva avevano posto in modo pertinente. La stessa scelta, probabilmente obbligata, di rimanere nell’ambito generale della politica culturale del regime, senza scendere alle sue concrete realizzazioni nei diversi campi — compito che viene demandato a ricerche speciali
stiche già compiute o da compiersi —, priva di un utile terreno di verifica una interpretazione che sembra più enunciata e proposta che non discusssa e dimostrata.
Il lavoro è completato da una ricca e precisa appendice sulle classifiche e i temi dei Littoriali maschili e femminili, sui premi, sulle fonti archivistiche utilizzate. Una fatica in più, sicuramente utile, avrebbe potuto essere quella di presentare anche per le gare maschili, così come fatto per quelle femminili, i titoli dei temi dati per le diverse sezioni: elemento non secondario per valutare le periodizzazioni proposte e il giudizio di parziale libertà (vigilata, guidata, incanalata e poi repressa) che, attraverso i Littoriali, il regime avrebbe cercato di creare nel suo rapporto con i giovani.
Marcello Flores
G i u s e p p e C a r l o M a r i n o , L ’autarchia della cultura. Intellettuali e fascismo negli anni trenta, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. XV-240, lire 14.000
Aperto da una gustosa documentazione sui fregi e le livree degli accademici d’Italia, e concluso dalla pubblicazione di carteggi inediti illustranti le posizioni di Croce ed Einaudi nonché di un paio di relazioni, provenienti dall’ACS, in merito alle posizioni del mondo cattolico alla caduta del regime, il saggio si aggira nei meandri dell’organizzazione della cultura italiana in periodo fascista. Determinato, come appare nella prefazione, a superare ogni giudizio di stampo moralistico, non riesce
Rassegna bibliografica 105tuttavia a svincolarsi dalla notazione, che pure è determinante, della povertà morale della società intellettuale italiana degli anni trenta.
Una cultura della crisi di stampo autarchico, gretta e provinciale, non può certamente meritare molta considerazione, se questa crisi è problema di portata universale, rottura con tradizioni e certezze animate da un respiro secolare. Marino sottolinea a ragione come la coscienza della cesura irrimediabile prodotta dal tracollo seguito al 1929 pervada ogni settore della cultura italiana e si impegna a mostrare in qual modo il regime abbia avuto successo nel canalizzare la dialettica delle varie componenenti della cultura italiana nell’alveo di una autarchia culturale funzionale al suo potere. Gli strumenti del ricatto economico si intrecciano alle lusinghe ideali e al miraggio di una specificità italiana, originale creazione tra l’americanismo e il soviettismo, centro della lotta anticomunista e — al tempo stesso — motore per un’azione mirante al superamento del capitalismo e della società borghese.
Le intime contraddizioni della società italiana — modernità in- dustrialeggiante contro rurali- smo — restano tuttavia, secondo Marino, il limite invalicabile; ed esse si scontrano in uno scenario reso fittizio dalla presenza di una volontà politica essenzialmente poliziesca.
Se della cura di seguire da vicino e dall’interno le motivazioni e i percorsi dell’ideologia va reso merito a Marino, meno pregevole risulta invece la capacità di sintesi e di giudizio.
Da una parte, il tentativo di far affiorare i connotati della cultura italiana del periodo fascista approda a sottolineature interessanti di aspetti finora forse lasciati nell’ombra; ma dall’altra, le considerazioni sulla portata effettiva di quanto emerge dall’intricato e faticoso percorso non modificano per nulla giudizi consolidati e quasi owii. Modernità contro arretratezza, slanci futuristi accompagnati da concessioni a ideologie retrò, suggestioni cattolicheggianti, “grande e amara festa della parola in libertà”, “esercitazione di scriteriata verbosità” : sono giudizi da non dimenticare, probabilmente; ma da sostanziare anche con analisi di formazioni culturali meno scivolosamente ammantate di tipizzazioni (borghese, piccolo-borghese, cattolico: chissà come li distinguiamo) che a mala pena reggono una lettura attenta. Un’impressione di sfasatura costante tra il giudizio storico e la documentazione che lo sostiene accompagna infine la lettura del saggio.
È un dato che emerge in modo clamoroso dai due documenti riprodotti nell’Appendice II: il primo — una relazione del notissimo Babuscio Rizzo — èia consueta esercitazione pettegologiornalistica delPinformatore della polizia fascista che semina giudizi, peraltro incontrovertibili in quanto lapalissiani, sull’atteggiamento della Chiesa verso Croce e Gentile; il secondo, un’affrettata e sommaria rassegna stampa redatta dall’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede il 5 agosto 1943, si limita a sottolineare la perfetta “lealtà” cattolica verso il regime badogliano. Davvero troppo poco per ipotizzare spunti per l’approfon
dimento della “cultura di tipo ‘salazariano’” di cui l’autore nelle ultime pagine del volume ha cercato di indicare sommariamente gli apporti nei primi anni di guerra. Non meno singolare è il contrapporre Croce a Einaudi (nell’Appendice I), il primo dei quali si erge in una posizione “netta e severa” , mentre il secondo “consente di evidenziare le contrattazioni di una cultura liberale che si ostinava a ricercare comunque un colloquio diretto col Duce” . In realtà, il carteggio di Croce si riferisce all’ordine di soppressione della “Critica” nel 1940, mentre quello di Einaudi (1932-34) attiene a questioni accademiche e a censure verso la casa editrice del figlio Giulio. Forse le date hanno scarsa importanza sul piano della storia dello spirito; ma, senza nutrire simpatie più accentuate verso il magistero einaudiano che verso quello crociano, vorrei suggerire una onesta riflessione sulla congiuntura e sui rapporti di forza che caratterizzavano i due momenti. Tanto più che, se vogliamo lasciar cadere i moralismi, bisognerà pur cominciare a rifiutare un uso delle carte di polizia da cui troppi, da che mondo è mondo, hanno spiato le debolezze dei grandi uomini.
Luigi Ganapini
A a .Vv ., Il pensiero reazionario la politica e la cultura dei fascismi, Ravenna, Longo, 1982 pp. 228, lire 12.000.
Il volume raccoglie gli atti del convegno omonimo tenutosi a Ravenna nel novembre 1980, promosso dalla Casa dello Studente in collaborazione con la
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Biblioteca Oriani e con l’Istituto per la storia della Resistenza.
I saggi prendono soprattutto in considerazione le vicende politico-culturali della destra italiana e tedesca, soffermandosi particolarmente sull’arco temporale degli anni 1920-1930. La riduzione dell’area geopolitica risponde all’esigenza di circoscrivere il campo di analisi alle esperienze storiche dei fascismi europei. Appaiono così trascurati i contributi e le esperienze di quella destra europea che operò in quegli anni nei regimi liberali, anche se spunti e osservazioni comparative sul pensiero reazionario francese appaiono in ordine sparso nei vari saggi del volume.
II volume, nonostante una prima apparente frammentarietà, dovuta alla varietà dei campi d ’indagine affrontati, appare a lettura conclusa abbastanza coerente. I vari contributi sono infatti riconducibili a due principali filoni di ricerca. Da una parte l’analisi dei fondamenti teorici, sia politici che filosofici, della cultura della destra, con particolare attenzione alla tradizione tedesca e mitteleuropea; dall’altra un approccio più propriamente storico che, sulla scia delle indicazioni di Mario Isnen- ghi (Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Torino Einaudi, 1979), pone al centro della ricerca la figura dell’intellettuale funzionario e militante: cinghia di trasmissione tra Stato e società, portatore di valori di senso comune, organizzatore di comportamenti collettivi. Le relazioni di Isnenghi e di Cacciali, che aprono il volume, propongono una serie di prospettive di ricerca e d’indicazioni metodo- logiche relative ai due filoni so
pra indicati. Il saggio di Isnenghi ha la struttura di un vero e proprio programma di ricerca. Egli parte dal presupposto che siano esistite in Italia una serie di microculture e subculture caratterizzate da una matrice culturale di destra, ma tra loro assai disarticolate e disomogenee. A partire da un censimento preliminare, si tratterebbe poi di seguire la storia, d’individuarne i contenuti, le aree, i tempi e gli agenti di diffusione, tenendo conto del dislivello di piano esistente tra queste subculture e la cultura ufficiale. Un secondo momento della ricerca dovrebbe individuare come e quando esse siano state portate a sintesi, trovando uno sbocco unitario. In questo senso le indicazioni di lavoro appaiono chiare: la grande guerra rappresenta un primo momento di unificazione delle varie microculture di destra, lasciato poi in eredità alla gestione autoritaria del fascismo, che riuscì, grazie all’uso della radio, alla centralizzazione della stampa, alla scuola e agli apparati di regime, a portare questo processo a piena maturazione.
Su questa linea interpretativa si dispongono diversi contributi del volume. D’Attore studia la vita culturale di una città di provincia, Ravenna, durante il fascismo, puntando l’attenzione sulle istituzioni create dal regime come perno del rapporto tra intellettuali e società e sul ruolo della stampa locale del coinvolgimento delle giovani generazioni intellettuali. Dirani si sofferma sulla funzione delle biblioteche e dei bibliotecari nella trasmissione della cultura di regime. Monticone individua quali stereotipi storici veicolavano i libri di testo delle scuole. Il breve
e interessante saggio di Fumian sulla cultura agraria della destra fa il punto sul rapporto tra agra- rismo italiano e fascismo.
Per quanto riguarda l’altro filone, Cacciali individua due anime contradditorie del pensiero di destra europeo. Una destra organicista secondo la quale lo Stato attraverso processi autoritari integra le differenze per formare un corpo unico. Una destra decisionista basata sull’azione autoritaria intesa come volontà di potenza storicamente determinata.
La prima di origine hegeliana, contraria a ogni idea di relativismo e agnostismo liberale, lo supera attraverso l’azione integratrice dello Stato. La seconda prende atto del relativismo dello Stato liberale e lo supera con la volontà di potenza. Il discorso di Cacciali, oltre a individuare alcune linee di ricerca, si pone anche come spunto polemico a favore di una riapertura del dibattito fra pensiero di destra e pensiero di sinistra sul tema della critica della democrazia liberale. Spunto polemico peraltro ripreso dall’autore anche in altre sedi.
Gli altri saggi contenuti nel volume: Chrnitzkj su scuola e pedagogia in Italia e Germania; Masini sulla stereoscopia magica di Jiinger; Marmotti su Margherita Sarfatti; Pirazzoli sullo stile littorio; Bandini sull’antisemitismo della Germania hitleriana; Marcoaldi sul liberalismo economico dei primi anni venti; Benelli sull’analisi di un diario parrocchiale; Schiavoni su Alfred Baeumler; Amendolagine su Heidegger e Heisenberg.
Salvatore Adorno
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M i c h e l O s t e n c , Intellectuels italiens et fascisme (1915-1929), Paris, Payot, 1983, pp. 340.
Già noto per uno studio sulla scuola italiana in epoca fascista (L ’educazione in Italia durante il fascismo, traduzione italiana, Roma-Bari, Laterza, 1980), Ostenc ricostruisce in questo volume “i rapporti di alcuni rappresentanti della cultura italiana, scelti tra i più conosciuti dal pubblico francese, con le correnti interventiste dalle quali nasceranno i fasci di combattimento e in seguito con lo stesso regime fascista” sino al 1929 (p. 7). Gli autori direttamente considerati (talora sulla scorta della loro produzione, più spesso attraverso la lettura critica italiana e soprattutto francese) sono D’Annunzio e Marinetti, Papini e Soffici, Pirandello, Ungaretti e Malaparte; ad essi si affiancano, come guida del pensiero antifascista, Gobetti, Gramsci e Croce, al quale ultimo non è espressamente dedicata alcuna parte del libro ma la cui presenza viene costantemente evocata come riferimento obbligato e discriminante.
La tesi che Ostenc affaccia sin dall’inizio e limpidamente riassume nelle conclusioni è assai netta e riveste un carattere definitorio più che problematico. Quasi tutte le correnti intellettuali che si manifestano nella cultura italiana del primo Novecento sono collegate alla nascita del fascismo visto come strumento eversore degli stanchi stereotipi positivistici sui quali si fonda la “democrazia” giolittia- na. Ma tale collegamento, prosegue l’autore, lungi dal rappresentare un principio di ricomposizione della grande eterogeneità
di posizioni (futurismo e dannunzianesimo, nazionalismo e idealismo gentiliano), riflette soprattutto la tendenza “molto diffusa tra i simpatizzanti de fascismo, a confondere questo movimento con il loro ideale, ad attribuire al nuovo regime obiettivi morali e spirituali molto lontani dalle ambizioni politiche” di Mussolini (p. 316). L’incontro si risolve pertanto in una coabitazione di convenienza. Da parte degli uomini di cultura che vedono, in cambio dell’ossequio al principe, celebrata la loro immagine pubblica (si veda, nella terza parte, il capitolo dedicato alla fondazione dell’Accademia d’Italia); da parte del regime che, strumentalizzando le adesioni ricevute, può simulare una originalità culturale di cui non esistono nemmeno le premesse. La simbiosi cultura-fascismo, sottolinea ripetutamente Ostenc, resta un dato del tutto superficiale. La “trahison des clercs” si manifestò, ma essa “impegnò gli individui e non le concezioni da questi propugnate. Se le persone sono compromesse, gli ideali professati nelle opere restano salvi” (p. 318). Così “non si ebbe mai un’altra cultura fascista; l’eredità idealista si mantenne prevalente e con essa l’ispirazione liberale di base” (p. 319). È estremamente significativo — conclude Ostenc su questo punto — che “la sola ‘autentica letteratura di Stato’ promossa dal fascismo sia quella dei funzionari” (p. 320).
Certo la cultura italiana di- quegli anni “perse l’indispensabile contatto con la società del suo tempo” (p. 320), ma, sia pure in modi soffocati e intermittenti, le più feconde correnti prefasciste continuarono ad opera
re, come dimostrano gli echi go- bettiani presenti nel Montale di Ossi di seppia, o l’anticonformismo del Gli indifferenti di Mora- via. Le fila di una cultura di opposizione vengono cosi riannodandosi, e “negli anni trenta il ritorno a Croce è in effetti il fondamento di ogni educazione antifascista” (p. 325).
Privo di una propria cultura il fascismo è tuttavia portatore, sempre secondo Ostenc, di uno ‘stile’. A cominciare da Mussolini, i principali esponenti del regime attingono largamente al dannunzianesimo e all’idealismo gentiliano per elaborare il loro modello retorico così che la “sintesi fascista si manifesta come caricatura della cultura cui si ispira” , strumento di propaganda per organizzare un “consenso che si fonda anzitutto sul rispetto quasi religioso d’una autorità presentata come infallibile e sulla mistica del capo” (p. 326). Anche per questa via si approda pertanto alla conclusione che “ fascismo e cultura sono due entità distinte” (p. 327).
Come si vede, la proposta interpretativa del volume non ha certo il dono della originalità; riprendendo valutazioni diffuse soprattutto negli anni cinquanta e sessanta essa mescola motivi ‘giustificazionisti’ avanzati dagli stessi intellettuali in chiave auto- biografica (si veda il significativo riferimento a Luigi Russo a p. 324) e criteri tradizionali di identificazione della storia della cultura con la produzione diretta da alcuni grandi intellettuali. Non è certo questa la sede per un approfondimento dei limiti di tale impostazione. Almeno uno di essi va tuttavia segnalato ed è il restringimento dell’analisi all’interno dei vari profili biografici,
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così che le correnti intellettuali compaiono solo come somma di alcune personalità e non anche come categoria che, proprio nel periodo esaminato, vede moltiplicarsi i suoi strumenti di presenza nella società. Perciò distinzioni quali quella fra “alta cultura” e “cultura di funzionari” non nasce dall’esame delle mutazioni in atto, ma riveste un carattere aprioristico, conservativo di posizioni e comportamenti tradizionali ricavati dalla storia precedente. Il fatto poi che il volume limiti la propria ri- cognizione della adesione al fascismo al mondo letterario (con l’eccezione di Gentile) accentua il carattere settoriale dell’analisi e la difficoltà di trarre da essa indicazioni di portata generale.
Massimo Legnani
G i u s e p p e B o t t a i , Diario 1935- 1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 579, lire 38.000.
La mancanza di accuratezza filologica e di inquadramento critico è la prima caratteristica che colpisce in questo volume, che non fa eccezione alla linea di tendenza prevalente tra le numerose pubblicazioni di fonti fasciste. L’adesione quasi agiografica del curatore al personaggio Bottai, espressa senza mezzi termini in un’enfatica introduzione, è perfino meno grave, si potrebbe dire secondaria, rispetto ai criteri di edizione del volume. Il curatore ha prescelto con notevole dose di arbitrio solo una parte dai trenta quaderni di Bottai che la famiglia possiede nel testo manoscritto e che coprono gli anni 1928-1947; l’ordine cronologico
dei quaderni non è stato rispettato, con l’estrapolazione di stralci del diario 1935-36 qui anticipati (pp. 35-50); non è stata pubblicata una parte sostanziale del diario della guerra etiopica che Bottai stesso aveva pubblicato nel 1939 col titolo di Quaderno Affricano; è stata aggiunta al diario 1941, interrotto per il periodo in cui Bottai combattè in Albania, una singolare scelta di lettere alla moglie, che sono estranee — come fonte storica, e come genere letterario — ai quaderni. Se è vero che il volume attuale presenta diverse pagine “inedite” , soprattutto nei confronti della parte già nota del diario che sempre Bottai aveva pubblicato nel 1949(Vent’annie un giorno, Milano, Garzanti, 2a ed., 1977), è stupefacente che il curatore non abbia compiuto e quindi offerto al lettore un sistematico confronto fra i due testi: chiunque voglia farlo, si renderà immediatamente conto di quanti, innumerevoli abbellimenti, aggiunte, correzioni, censure e tagli avesse compiuto Bottai nel 1949, tanto che nel linguaggio stesso il testo di Vent’anni e un giorno e quello delle parti corrispondenti ora pubblicate in questo volume sono in tutta evidenza riconoscibili più per le varianti che per le costanti letterali.
Una certa sorpresa deriva poi dalla scarsezza di riferimenti che il diario presenta sulla attività politica e di governo di Bottai, sulla sua attività multiforme di organizzatore culturale, sui temi corporativi che gli procurano anche una certa notorietà internazionale. Si obietterà che è proprio della natura di un diario di offrire principalmente un materiale di tipo introspettivo, di interesse psicologico e di valore
inevitabilmente limitato. Ma è anche vero che tali caratteristiche dei diari e della memorialistica fascista sono state sottovalutate, o implicitamente ignorate, da quelle ricostruzioni ‘dall’interno’ della realtà storica del regime fascista che hanno perciò ristretto il ventaglio necessariamente ampio e articolato di fonti che ogni studio critico e documentato sul fascismo dovrebbe esplorare. Come fonte storica, in effetti, le informazioni ‘primarie’ che il diario di Bottai contiene si riducono in sostanza alle verbalizzazioni sui generis delle sedute del Gran Consiglio del Fascismo, del Consiglio dei ministri, di qualche riunione della Commissione suprema di difesa. Ben maggiore è lo spazio occupato dalla registrazione, spesso passiva quando non pedissequa, dei motti del duce o dei colloqui privati con vari altri esponenti del gruppo dirigente fascista (in particolare, di quelli con Galeazzo Ciano). Non manca un vasto florilegio di battute cosiddette di spirito, di aneddoti più o meno gustosi, di soliloqui sempre un po’ vanagloriosi: ma, anche qui, si stenta a rintracciare il filo di una riflessione (non dirò di un pensiero) politica, di un ragionamento critico che non sia pura e semplice razionalizzazione di una smarrita ansia, pur genuina, di tener dietro ad una realtà che si trasforma e si svolge sempre più in contraddizione con i postulati ideologici e propagandistici del fascismo. Lo iato tra i fatti e le parole diventa, anche dall’angolazione particolare di questo diario, il luogo comune della parabola personale di tanti uomini del regime, e Bottai non sfugge, proprio attraverso le pagine dei suoi quaderni, ad un ri
Rassegna bibliografica 109dimensionamento della sua statura politica e culturale nei limiti più credibili e realistici di una figura non assimilabile a quelle incolori di tanti gerarchi minori, ma pur sempre partecipe — insieme ai vari Ciano, Grandi, Pa- volini ecc. — di quei caratteri di improvvisazione, incompetenza e dilettantismo che Calamandrei attribuiva alla ‘paidocrazia’ fascista (quasi rimpiangendo la ‘gerontocrazia’ liberale’). Da queste pagine emergono con chiarezza alcuni tratti del minimo comune denominatore della formazione politica dei capi fascisti: l’imperialismo e il razzismo, il disprezzo per la democrazie occidentali e l’anticomunismo, l’idealizzazione della violenza sia nel ricordo sempre edulcorato delle imprese squa- dristiche sia nell’esasperazione nazionalistica e nel culto della guerra. In questo senso, forse, la pubblicazione di questo diario può servire a far luce sulla anticamera del dittatore o nei recessi del regime: una luce limitata e parziale, secondaria anche se certo non irrilevante per la problematica di studio della classe dirigente fascista.
Marco Palla
G i o r d a n o B r u n o G u e r r i , Italo Balbo. Lo squadrista, il gerarca, l ’aviatore. La biografìa, basata su documenti inediti, del più pericoloso rivale di Mussolini, Milano, Vallardi, 1984, pp. 458, lire 25.000.
Scrivere la biografia di un gerarca fascista è sempre più facile, finché la fonte principale di questo genere letterario continuano ad essere le memorie e le testimonianze di protagonisti
grandi e piccoli, più o meno abilmente arrangiate, e la vasta produzione agiografica e giornalistica sfornata incessantemente da rotocalchi, collane divulgative e autori ‘specializzati’. Questa nuova biografia del Guerri, la prima di Italo Balbo apparsa con pretese di completezza, rivela appunto una straordinaria conoscenza della produzione memorialistica e scandalistica sul regime fascista e sul personaggio in questione e un’altrettanto notevole disponibilità a utilizzare questa massa di notizie senza alcuna selezione né distinzione critica. Il risultato è una biografia di piacevole lettura, non priva di pagine indovinate, ma in complesso di poco spessore e di poca affidabilità, che arricchisce la tradizione agiografica su Balbo senza cercare di verificarla né inquadrarla.
A dire il vero, il volume del Guerri si presenta con maggiori ambizioni, come il risultato di ricerche archivistiche nuove ed ampie; ed infatti il nostro autore è riuscito ad accedere per primo ed in esclusiva assoluta (se si ac- cettua una nota biografica di C. Segré, citata a p. 296 in modo da non essere identificabile) all’archivio privato di Balbo, gelosamente custodito dalla famiglia. Sulla consistenza e sul carattere di questo archivio nulla dice Guerri, ma si limita ad estrame singoli documenti non inquadrati e spesso non datati, che offrono notizie nuove ed interessanti su alcuni aspetti della vita di Balbo (in particolare sulla milizia 1923-25 e sull’aereo- nautica 1926-33). Nulla però che possa modificare il quadro già noto, anche perché l’accesso all’archivio personale e l’ampia collaborazione della famiglia e
dei superstiti amici sono stati pagati dal nostro autore con pesanti concessioni alla tradizionale agiografia del personaggio. Il Guerri comunque non dice se è l’archivio privato ad essere piccolo e sostanzialmente deludente (come non sembrerebbe dalle notizie disponibili), oppure se sono le limitazioni poste dalla famiglia ad impedire che il personaggio di Balbo venga alla luce in tutti i suoi aspetti (possibile, ad esempio, che l’archivio non contenga anche una sola carta sul governo di Ferrara che Balbo tenne per vent’anni? è la famiglia che non osa toccare questi temi o il Guerri che non sa affrontarli?).
D nostro autore annuncia anche di aver compiuto ampie ricerche in vari altri archivi. L’unico realmente utilizzato è però l’Archivio centrale dello Stato, o meglio la Segreteria particolare del duce, anche se l’indicazione della collocazione dei documenti è fatta con tanta approssimazione da autorizzare il dubbio che le citazioni siano per lo più di seconda mano. Chiunque abbia un minimo di familiarità con questo fondo (senz’altro il più sfruttato tra tutti quelli degli anni fascisti) sa che per il carteggio riservato occorre indicare prima il numero del fascicolo, poi il nome del personaggio cui il fascicolo è intestato, infine il sottofascicolo: il Guerri invece dà soltanto il numero della busta, un’indicazione generica e insufficiente (una busta contiene normalmente più fascicoli di più persone), ma in realtà confonde buste e fascicoli. Il fascicolo 278/R: Balbo, ad esempio, è citato come b. 54, il fascicolo 278/R: De Pinedo come b. 278 e il fascico
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lo 278/R : Valle addirittura come b. Valle. Sono errori tipici di chi saccheggia lavori altrui (e infatti tutti questi documenti della Segreteria particolare del duce sono già stati pubblicati, come non risulta dal volume), senza riuscire a copiare con esattezza le indicazioni archivistiche per mancanza di pratica.
I limiti delle ricerche archivistiche del nostro autore sono del resto evidenziati dalla sua rinuncia ad approfondire lo studio del ruolo di Balbo a Ferrara: poiché in questo campo non aveva studi altrui da utilizzare (dato che la sua scarsa familiarità con le riviste di livello scientifico non gli ha permesso di trovare due nostri articoli del 1982 su questo tema specifico), il Guerri liquida l’analisi della situazione politico-economico-so- ciale ferrarese dal 1924 al 1940 e la ricostruzione del potere di Balbo nella provincia in una sola paginetta generica e superficiale (p. 113).
In definitiva, il volume è costruito sulla utilizzazione (assai avaramente riconosciuta) degli studi di Paul R. Corner e Alessandro Roveri sullo squadrismo ferrarese, di Ranieri Cupini sulle crociere di Balbo, miei sulla sua attività come ministro dell’Ae- reonautica e di Claudio Segré sulla colonizzazione della Libia. L’apporto originale del Guerri è la sua ottima conoscenza della memorialistica e dell’agiografia fascista e la raccolta di testimonianze di amici di Balbo, nonché l’utilizzazione in chiave aneddotica del suo archivio. Il volume si riduce così ad una rivisitazione di Balbo personaggio, condotta con vivacità e molta simpatia, ma sempre avulsa dal contesto generale:
Guerri si ferma sempre al livello del diario di Ciano, per intenderci, indulgendo nelle note di colore interne alla dinamica del gruppo dirigente fascista senza mai cercare di cogliere la base del potere di Balbo e di studiare le ragioni del suo successo.
Anche in questi termini, il volume potrebbe avere qualche utilità se non contenesse troppi errori, dovuti alla fretta con cui è stato scritto ed alla scarsa competenza dell’autore. A titolo d’esempio, la riconquista della Tripolitania fu iniziata da Volpi nel 1921-22 e non da De Bono nel 1925 (pp. 298-99); Balbo non fu (e come tenente non poteva essere) comandante in seconda di un “2° battaglione Cadore” mai esistito (p. 42: il battaglione era il Pieve di Cadore e comunque i battaglioni alpini non hanno mai avuto un numero); Teruzzi era stato governatore della Cirenaica e non vicegovernatore (p. 313), mentre Bernotti era sottocapo di Stato maggiore della marina e non capo (p. 239: comunque il suo giudizio sui limiti dell’aviazione è successivo alla seconda crociera e non precedente); è falso che io abbia censurato un giudizio positivo sulla cultura di Balbo (p. 45: il Guerri confonde due rapporti diversi del maggiore Sibille); il corso normale dell’Istituto universitario C. Alfieri durava tre anni e non due (p. 50); Balbo fu commissario prefettizio a Pinzano per cinque mesi nel 1920, non per dieci (p. 227); nel 1922 non esisteva ancora la carica di capo di Stato maggiore generale (p. 284); Cini e Volpi erano legati a Balbo dalla metà degli anni venti, non amici dell’ultima
ora, (p. 349). Anche al livello giornalistico su cui si muove il Guerri errori banali come questi (e molti altri potremmo elencarne!) dovrebbero essere evitati in un libro di qualche pretesa.
Giorgio Rochat
C e s a r e M. D e V e c c h i , Il quadrumviro scomodo. Il vero Mussolini nelle memorie del più monarchico dei fascisti, Milano, Mursia, 1983, pp. 294, lire 18.000.
Non si può dire che la nutrita memorialistica dei gerarchi fascisti si distingua per onestà, lucidità e profondità; queste memorie di Cesare M. De Vecchi costituiscono però un caso limitato di insipienza e provocazione (nel senso che presuppongono lettori incapaci di qualsiasi riscontro critico e qualsiasi nozione sui fatti narrati), cui si deve riconoscere come unico merito la fedeltà all’immagine di protervia e ciarlataneria che De Vecchi seppe costruirsi come gerarca fascista. Non sappiamo se sarebbe più lungo l’elenco delle sciocchezze, degli errori di fatto e delle grossolane distorsioni autoincensatorie o l’elenco delle lacune e dei silenzi su episodi piccoli e grandi, noti e documentati; in tanta approssimazione si perdono anche le note interessanti ed i particolari inediti, che non è possibile distinguere da quelli inventati o distorti. Ciò nonostante, il curatore Luigi Romersa non esita a presentare queste memorie come rivelazioni fondamentali e ricordi autentici, senza degnarsi di riscontrarle con la produzione memorialistica, do
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cumentaria e storiografica degli ultimi quarant’anni (neppure ci dice quando queste memorie furono scritte, verosimilmente prima del 1949, quando un’emorragia celebrale bloccò De Vecchi a letto per gli ultimi dieci anni della sua vita). La pubblicazione di queste memorie senza una nota critica, né un’avvertenza per il lettore, ma con il titolo impegnativo II quadrumviro scomodo, si configura in sostanza come un’operazione puramente commerciale, che non può certo servire a difendere la figura di un gerarca assai più squalificato che scomodo, in vita come nelle sue memorie.
Giorgio Rochat
G a e t a n o C o n t i n i , La valigia di Mussolini. I documenti segreti dell’ultima fuga del duce, Milano, Mondadori, 1982, pp. 185, lire 10.000.
Nel profluvio di pubblicazioni su Mussolini che ci hanno travolto tra lo scorcio del 1982 e il ‘fatale’ 1983 — quasi tutte inutili se non dannose — sembra opportuno segnalare il volume di Contini, dirigente dell’Archivio centrale di Stato, perché, meglio di tante vane rievocazioni, mostra come, anche nella ignominiosa fuga, il duce si portasse dietro, consapevole o meno, i documenti della sua condanna incontrovertibile, una condanna morale (che fu però anche e per fortuna reale) che nessuna pietistica rievocazione potrà far dimenticare.
L’interesse dell’autore è stato attirato dai documenti contenuti nella valigia che Mussolini si era portata dietro nel corso del
l’estremo tentativi di sottrarsi con la fuga alla resa dei conti ormai imminente, documenti su cui molto si è discusso, ma che nessuno aveva finora analizzato partendo dal loro esame diretto e completo. Dopo aver ricostruito sia l’avventura ‘straordinaria’ di queste carte (dal loro sequestro al duce fino al ritorno all’Archivio di Stato), sia le vicende degli archivi nel periodo della Repubblica sociale italiana, puntualizzando, con un raffronto delle varie testimonianze esistenti sul tema, quale può considerarsi oggi la versione più attendibile (pp. 11-43), Contini divide in quattro gruppi i documenti stessi: quelli relativi al periodo della presa del potere; quelli relativi agli anni immediatamente successivi e dedicati ai ‘complotti’ contro Mussolini; quelli relativi al periodo 1939- 1943; quelli relativi al periodo della Repubblica sociale italiana e soprattutto agli scioperi del marzo 1944.
Il quesito di fondo chel’au- tore si è posto è: come mai Mussolini scelse proprio questi documenti e non altri? A cosa mirava, con quali obiettivi operò tale scelta? Evidentemente — afferma Contini — egli pensava di dover subire un processo politico dove avrebbe potuto, con l’ausilio di tali documenti, sostenere la sua difesa. Ed ecco quindi che il primo blocco, quello sulla presa del potere, tende a dimostrare “l’esattezza della sua analisi e della sua azione politica in quel lontano 1922: il pericolo bolscevico è evitato e il potere è saldamente nelle mani delle forze ‘nazionali’” (p. 57).
I documenti del periodo 1923- 26, che ci illustrano tutta una se
rie di “complotti” contro la sua persona, sono probabilmente per Mussolini un punto forte della sua ipotetica arringa di fronte ad un tribunale che lo accuserà di uno dei reati più gravi; aver distrutto la libertà del popolo italiano. Ebbene la sua difesa “è nella dimostrazione che tutti, singoli e associati, tramavano contro lo Stato, contro il capo del Governo e le istituzioni; era di nuovo in giro per l’Italia lo spettro del comuniSmo, della sovversione socialista e massonica. Egli, capo del Governo, doveva salvare lo Stato” (p. 62). Per quanto riguarda l’ultimo e decisivo ‘complotto’, quello del 25 luglio 1943, Mussolini sceglierà con cura decine e decine di lettere e telegrammi giunti a Badoglio da parte dei gararchi, uomini d ’affari, politici, funzionari dello Stato, ecc.: essi lo dovevano confermare nell’idea che era stato un tradimento esteso a tutti i livelli a causare le difficoltà, le insufficienze emerse nella condotta della guerra. Insomma nasceva forse già allora, almeno nella sua mente, la teoria del “duce tradito”, del duce “bravo ma circondato da vili e da incapaci” (p. 154), che per tanti anni una certa memorialistica ‘nostalgica’ ci ha propinato.
Le carte del quarto gruppo si riferiscono essenzialmente all’episodio degli scioperi operai nell’Italia settentrionale del marzo 1944, in piena occupazione tedesca. La scelta in questo caso è quanto mai chiara e pregnante: egli aveva salvato una prima volta l’Italia dal bolscevismo nel 1922: “ora il bolscevismo italiano stava riprendendosi la rivincita” , questi documenti “lo riportano alla sua stessa ra
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gion d’essere o almeno a quella che egli stesso aveva mitizzato” , il fascismo toma ad essere “la sola diga al dilagare del comuniSmo e la prospettiva di un’Italia grande e potente” , così come il suo interlocutore toma ad essere “la massa piccolo-borghese del 1919” (pp. 157-158). Insomma per Mussolini la “legittimazione” del potere era essenzialmente l’aver sconfitto la rivoluzione bolscevica in Italia, aver riportato la pace sociale nel paese, ed ora che “il decadere del fascismo riportava le cose al punto di partenza” , che la minaccia del bolscevismo era di nuovo il nemico da combattere, chi “aveva le carte in regola per opporsi ad esso, se non ancora il fascismo?” (p. 173).
Al di là di tutto resta comunque, significativa, la scelta di questi documenti, né propagandistici, né demagogici, che espongono senza mezzi termini la verità sugli scioperi. Ed è forse il caso di riflettere su tale atteggiamento, di considerare con la massima attenzione questi dati di fondo, queste permanenze di lungo periodo nella ideologia di Mussolini, in un periodo in cui molti storici con disinvoltura eccessiva si dimenticano tranquillamente di analizzare l’aspetto di “reazione di classe” che fu — certamente insieme a molti altri — il cardine, il momento chiave della nascita del fascismo, del suo avvento, della sua gestione del potere, della sua ideologia.
I documenti del terzo blocco — soprattutto quelli del 1939- 1940 sono, a mio avviso, i più significativi e importanti, anche in vista dell’uso che Mussolini intendeva fame.
Sono infatti quelli relativi al
periodo della preparazione dell’intervento in guerra — ossia dell’atto che Mussolini pensava avrebbe dovuto maggiormente difendere nei ‘processi’ — e al periodo della guerra (non a caso essi costituiscono il grosso delle carte della valigia). A questo proposito il duce “non cerca di giustificare il disastro della guerra; se sia stata un’operazione sbagliata o no, se poteva o no essere evitata” (p. 95). Il suo problema era piuttosto quello di far capire come si era giunti al conflitto e soprattutto “chi con lui avrebbe dovuto dividere il pesante fardello del giudizio storico” (p. 95).
In questo gruppo spiccano il discorso di Mussolini al Gran Consiglio del 4 febbraio 1939 e il verbale della riunione dei capi di Stato maggiore del 18 novembre 1939. Una apparente contraddizione sembra correre tra essi: il primo contiene i progetti di espansione, il secondo evidenzia la debolezza e la crisi delle forze armate. Ma forse da una loro analisi comparata per Mussolini risultava ancora più evidente che la strada obbligata per il nostro paese — debole politicamente, economicamente e militarmente, ma che non voleva abdicare al ruolo di grande potenza — era quello di ritagliarsi, nell’ambito dello scontro mondiale, uno spazio per i propri obiettivi: la guerra parallela, appunto, come egli enun- cerà nel Promemoria del 31 marzo 1940, anche esso contenuto nella valigia. Dunque Mussolini, nella ultima fuga, si trascinava dietro i documenti della contraddizione fondamentale insita in tutta la politica estera fascista, tra l’essere e il voler essere, tra la realtà di un
paese di secondo piano e il mito della grande potenza.
Il volume insomma ha il merito (pur se non sempre la tesi di fondo del ‘processo’ che Mussolini ipotizzava di dover subire appare convincente e talvolta rimane una ipotesi suggestiva e affascinante) di tentare una interpretazione, condotta in maniera seria e corretta, del perché della scelta di quei documenti, per cui alla fine si può concludere che se Mussolini — come afferma Contini — “nella valigia portava soprattutto se stesso” , portava soprattutto la sua condanna.
Giovanni Pariavecchia
M a r i a T e r e s a P i c h e t t o , Alle radici dell’odio. Preziosi e Benigni antisemiti, Milano, Angeli, 1983, pp. 148, lire 8.000.
Negli ultimi mesi stiamo assistendo a un rinnovato interesse verso il problema del razzismo e dell’antisemitismo, dal punto di vista ideologico, ma anche con ricerche sulla politica del fascismo in questo campo (si vedano “Rivista di storia contemporanea”, 1983, n. 1 e il volume di Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Milano, Comunità, 1982, già segnalato sul n. 150 di questa rivista).
Il volume della Pichetto posa l’attenzione più che sul razzismo, sull’antisemitismo, esistente in alcuni strati della società molto prima dell’avvento del fascismo, pur trovando alimento negli stessi principi ideologici che ad esso portarono. L’antisemitismo si innestava sostanzialmente nella lunga tradizione di matrice cattolica e non a caso i due personaggi qui studiati (a
Rassegna bibliografica 113Benigni, figura certo meno nota di Preziosi, sono dedicate non molte ma interessanti pagine) furono entrambi sacerdoti (Preziosi solo per un periodo della sua vita), provenienti da posizioni ideologiche diverse “ma entrambi all’interno della tradizione cattolica” (p. 10) e in definitiva tra i pochi ‘coerenti’ antisemiti italiani del nostro secolo. Furono insomma degli ‘antesignani’ e l’attività e il pensiero di Preziosi avrà anche una certa influenza (da non sopravvalutare come riconosce la stessa Pichet- to, che ricorda l’avversione provata sempre da Mussolini verso questo personaggio) quando dalla teoria si passerà alla pratica: significativamente egli sarà sempre in prima fila nel tentativo di rendere ancora più pesante la discriminazione e la persecuzione fascista contro gli ebrei.
L’autrice ci illustra rapidamente ma incisivamente l’iter ideologico di Preziosi, dai contatti con Murri alla fondazione de “La vita italiana”, dall’adesione al fascismo alla insistenza sul trinomio “ebraismo-massoneria-bolscevismo” contro cui bisognava lottare per salvare la civiltà, dalla pubblicazione dei Protocolli dei Savi anziani di Sioni (.L ’internazionale ebraica - / protocolli dei Savi anziani di Sion, Roma, “La vita italiana” , 1937) alla sua posizione nell’ambito dell’ideologia del fascismo, dall’adesione alle dottrine razziste del nazismo alla collaborazione con Farinacci e Interlandi.
È particolarmente significativo poi che, al momento dello scatenarsi della campagna antiebraica nel 1938, analizzata dalla Pichetto nelle sue varie espressioni e cercando di sottolineare le differenziazioni tra i ‘parteci
panti’ a questa triste pagina della nostra storia, Preziosi tenesse a rivendicare una sorta di primogenitura del fascismo rispetto al nazismo e soprattutto a far notare come il razzismo italiano fosse tutto spirituale, essendo la razza un insieme di valori spirituali. Su questa strada si ritrovavano infatti le gerarchie cattoliche, disposte ad accettare “il ritorno alle vecchie discriminazioni e la politica antisemita, purché non fosse fondata sul razzismo biologico” (p. 89). Del resto non fu padre Agostino Gemelli a dichiarare in una conferenza del 1939 che vedeva “attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé?”. E non fu il vescovo di Cremona ad affermare, sempre nel 1939, che la Chiesa non negava allo Stato il diritto di perseguitare gli ebrei e si guardava bene dal difenderli? (p. 90). Il fatto che emerga così chiaramente tale oggettiva ‘comunione’ di intenti dimostra come l’assunto da cui è partita l’autrice risulta giusto: l’antisemitismo — lo ha giustamente ricordato Rochat — godeva della piena cittadinanza nella Chiesa cattolica anche in questo periodo.
Non meraviglia certo l’adesione di Preziosi alla Rsi: il favore da lui sempre riscosso presso i tedeschi, cresciuto naturalmente dopo il settembre 1943, farà sì che, per la loro insistenza, egli otterrà l’unica carica pubblica della sua camera politica sotto il fascismo: la direzione dell’Ispettorato generale per la razza, nel marzo 1944. La sua tendenza monomaniacale ad attribuire agli ebrei tutte le colpe, con una insistenza propagandistica che poteva risultare controproducente tanto era ossessi
va e ripetitiva da decenni, divenne parossistica coll’awicinarsi della sconfitta, ma egli fu fedele alla sua ideologia sino alla fine: l’ultimo Consiglio dei ministri della Rsi, il 16 aprile 1945, dietro sua proposta approvò una nuova legislazione antisemita! Crollato tutto, Preziosi si suiciderà il 26 aprile del 1945.
L’ultima parte del volume è dedicata a Umberto Benigni, di cui “è poco conosciuta la continua e violenta polemica antiebraica”, che, per essersi svolta in parte prima dell’avvento del fascismo, conferma “la presenza di un certo tipo di antisemitismo fin dai primi anni del Novecento” (p. 103). Partito da posizioni moderniste egli non esitò, per opportunismo, a compiere una virata di 180 gradi e a schierarsi su posizioni sempre più in- tegraliste, cui affiancò una attività pubblicistica in cui gli ebrei erano avversati e accusati quali sostenitori del liberalismo, del bolscevismo, della massoneria dell’internazionalismo e dell’ ‘o- micidio rituale’ (un argomento che può apparire risibile, ma a cui Benigni dedicherà molti scritti).
È altresì poco noto che, a conferma di un itinerario parallelo anche se non convergente, Benigni pubblicò una propria edizione dei Protocolli dei Savi anziani di Sion nel 1921, un mese dopo quella di Preziosi. La sua adesione al fascismo lo portò a divenire uno degli informatori della segreteria del duce e dell’Ovra, sebbene la morte, avvenuta nel 1934, non gli consentisse di vedere attuate anche in Italia quelle dottrine per cui aveva tanto combattuto.
Giovanni Pariavecchia
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T u l l i o C i a n e t t i , Memorie dal carcere di Verona, a cura di Renzo De Felice, Milano, Rizzoli, 1983, pp. XXVI-529, lire 40.000.
“ Io sono sempre in buona fede” , conclude le sue memorie (p. 523) l’ultimo ministro delle Corporazioni, Tullio Cianetti, l’unico sfuggito alla condanna capitale al processo di Verona contro “i traditori del 25 luglio” firmatari dell’ordine del giorno Grandi che non riuscirono a fuggire fuori d’Italia. In attesa delle memorie di Alfredo De Marsico e di Dino Grandi, annunciate da Renzo De Felice (p. XXI), queste del ‘sindacalista’ Cianetti, scritte durante la permanenza nel carcere di Verona in attesa del processo e durante lo stesso processo (letterariamente ben costruite, in tono drammatico — e un poco melo- drammatico — le pagine relative all’ultima notte passata in compagnia di Ciano, De Bono, Pa- reschi, Marinelli e Gottardi, fucilati I’l l gennaio 1944, pp. 493- 510), certamente servono per comprendere e valutare gli ‘uomini del duce’, il personale sul quale si costruirono le fortune dittatoriali di Mussolini. Utili, quindi, per gli addetti ai lavori queste pagine, spesso riempite da lunghe divagazioni pseudofilosofiche, ma scarne di reali rivelazioni, non meritavano probabilmente una divulgazione di massa. Da esse non esce un ritratto del regime neppure visto dall’interno e non si ricavano se non meditazioni contraddittorie sul rapporto difficile dell’autore con se stesso.
De Felice (p. IX) definisce Cianetti un “semplice” e un “buono” . Non è la stessa impressione che abbiamo ricavato
dalla lettura delle Memorie, o meglio la definizione non ci pare sufficiente. Basti pensare che ci troviamo di fronte a un dirigente politico-sindacale che, pur essendosi accorto, fin dal 1926, in qualche modo, della sostanziale diversità tra i programmi fascisti e la loro pratica realizzazione (pp. 132-133), tuttavia continuò tranquillamente a gestire, in nome del fascismo, settori sempre più ampi di potere, cercando di garantire al regime un consenso e una ‘copertura’ in nome di una pretesa (e certo non influente) corrente di ‘sinistra’ e rosso- niana. Una scalata abbastanza rapida del giovane (era nato nel 1899) contadino umbro all’interno dell’organizzazione sindacale (fra coloro che De Felice, p. V, definisce, un po’ ‘audacemente’ a nostro parere, “quadri centrali e periferici più preparati e più sensibili ai problemi dei lavoratori”), fino ai vertici di uno Stato di cui, nelle Memorie, continua a registrare gli errori e le contraddizioni, ma contro il quale, o per modificare il quale, nulla fa, se non mormorazioni di corridoio e una innocua fronda, del resto largamente diffusa. Anzi, quest’uomo “sensibile ai problemi dei lavoratori” è proprio quello che, nel marzo 1943, di fronte alle rivendicazioni economiche (e politiche) degli operai del triangolo industriale (del cui malessere non si era reso conto...), si offre volontariamente per andare a Milano “ad affrontare” gli scioperanti per riportare l’ordine (pp. 361 sgg.). È lo stesso uomo che, pur riempiendo pagine e pagine con accuse a Mussolini, non riesce ad essere coerente neppure con se stesso: si accoda, quasi con entusiasmo, nella notte del Gran
consiglio all’ordine del giorno Grandi e, aU’indomani, scrive a Mussolini ritirando la propria adesione.
Un debole? Un opportunista? Questi aggettivi sono forse troppo netti per definirlo e giustamente Renzo De Felice sottolinea una sorta di dipendenza psicologica di un uomo che ha ottenuto — e ne è consapevole — una vera e propria promozione sociale dal fascismo e da Mussolini e che, solo grazie al regime, è stato immesso direttamente nella classe dirigente (p. XIII). Di qui probabilmente i limiti della sua personalità a una vera e propria incapacità ad agire e a decidere. Di qui, senza dubbio le profonde contraddizioni tra le riflessioni critiche sul regime ed i suoi dirigenti e la scelta di continuare ad agire all’interno di quel sistema e di godere del ruolo privilegiato conseguito. Si vedano le pagine (324-326) nelle quali Cianetti descrive lungamente la “delusione” provocata in lui dall’atteggiamento di Mussolini che, il 18 novembre 1940, dichiarava che l’Italia avrebbe “spezzato le reni alla Grecia” e il commento che l’autore fa a tali parole: “E sta bene! Rimanga pure sul pulpito, si compiaccia del trono, giuochi alla plastica statuaria, ma per l’Iddio dei giusti e dei saggi, stia zitto!” . Sono righe che forse sintetizzano le contraddizioni politiche di un Cianetti che accetta sì che, per pochi intimi, “l’idolo cada nella polvere”, che porti pure il paese allo sfacelo, ma che non si copra di ridicolo in pubblico.
Quale senso dello Stato? Non è facile rispondere, ma probabilmente la risposta è: nessuno e nessun senso di responsabilità per un potere di vita e di morte
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sui cittadini che viene usato quasi fosse un gioco fra un gruppo di amici che si divertono a dirigere uno Stato e a parlar male del capo. E anche la guerra diventa un wargame, nonostante la traumatica esperienza di volontario sul fronte greco-albanese.
Certo nel volume non mancano spunti interessanti. Si vedano le critiche alle corporazioni e al sistema Bedaux (pp. 206-207), le riflessioni sul concetto di dittatura (pp. 284-290), i rapidi cenni sull’intervento contro la Spagna democratica, mai discusso “in nessun consesso del regime” (pp. 269-270), le critiche a Bottai (pp. 147-150), le annotazioni sulla progressiva emarginazione del Pnf (pp. 279-284). Ma il tutto resta disperso e sommerso in oltre 500 pagine di un testo troppo spesso pedagogico-morale, un tono che non sempre è causato dal fatto che le Memorie furono scritte non per essere rese pubbliche, ma quasi come testamento per le figlie, e da un uomo che non credeva di uscire vivo dal carcere di Verona.
Furono pochi (come Giuriati) che ebbero la capacità (e il coraggio) di trarre adeguate conseguenze dai giudizi che, con la fine degli anni venti, si erano formati sul regime che avevano contribuito a portare al potere. E, in qualche modo, questo Cianetti, così contraddittorio, ha molti punti in comune con altri gerarchi per i quali si è (a torto) voluta scoprire una funzione determinante per la crisi del regime; quei Grandi e Ciano, ad esempio, che invece ‘cospirarono’ solo quando si trattò, a guerra decisamente perduta, di tentare di salvare le proprie posizioni personali. Cianetti non seppe fare fino in fondo neppure questo e forse co
sì rappresenta il miglior ritratto di quel ceto medio che si formò durante il regime, assurse a posti di responsabilità e di direzione, ma soprattutto tanto servì a coprire con veli ‘rivoluzionari’ il rafforzamento delle vecchie élites politiche ed economiche.
Luciano Casali
I s t i t u t o R e g i o n a l e p e r l a s t o
r i a d e l l a R e s i s t e n z a e d e l l a
G u e r r a d i L i b e r a z i o n e i n E m i
l i a - R o m a g n a , “Annale 1981/ 1982”. Le campagne emiliane in periodo fascista. Materiali e ricerche sulla battaglia del grano, a cura di Massimo Legnani, Domenico Preti e Giorgio Rochat, Bologna, Clueb, 1982, pp. 636, lire 20.000.
Il volume raccoglie, come dice il titolo, “materiali e ricerche sulla battaglia del grano” : materiali non sempre omogenei ma certo molto utili per approfondire un discorso che solo in tempi recenti è stato iniziato in maniera più puntuale, superando una concezione del periodo fascista come periodo di pura stagnazione economica. La stessa ideologia ruralista del regime è analizzata, in più di un saggio, non solo e non tanto nel suo carattere mistificante ma anche nella sua relativa efficacia politica. Domenico Preti osserva ad esempio che il protezionismo cerealicolo è in realtà — per più di una ragione — chiave di volta di una scelta complessivamente indu- strialista, ma osserva poi anche come il regime riesca comunque ad attivare a partire dall’ideologia ruralista “un grande momento di catalizzazione dell’interesse collettivo” e a costruire degli im
portanti terreni di incontro — soprattutto dopo il Concordato — con vasti settori del mondo cattolico (a questi aspetti è dedicato, nel volume, il contributo di Anna Paganelli).
Indubbiamente, come ricorda Massimo Legnani, la battaglia del grano, va vista nei suoi vari aspetti (propagandistico, tecnico-economico ecc.) e soprattutto va collocata nel quadro complessivo delle scelte economiche del regime: viene in piena luce, per questa via, il problema del rapporto fra fascismo come “ritorno all’indietro, controrivoluzione” (è d’obbligo il riferimento alla ‘restaurazione contrattuale’, alla compressione dei salari e dei consumi) e fascismo come “gestione parziale alternativa rispetto all’età liberale delle trasformazioni in atto” .
Subordinazione dell’agricoltura all’industria e divaricazione fra le diverse aree agricole (con una forte penalizzazione dell’agricoltura meridionale) sono elementi omogeneamente indicati, nei vari saggi, come costitutivi della politica economica del regime: è però nella loro determinazione che emergono toni e sfaccettature diverse, che segnalano indubbiamente ulteriori direzioni di ricerca. Così è in particolare per gli effetti indotti nell’area dell’agricoltura capitalistica padana. Domenico Preti, ad esempio, ricorda i fattori generali che ostacolano la meccanizzazione agraria (“sovrappopolazione relativa, bassi salari, entità drammatica della disoccupazione e larga estensione della sottoccupazione, alti prezzi d ’acquisto delle macchine..., inefficiente rete di assistenza tecnica..., pessimo andamento del mercato per un lungo perio
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do...”) e osserva che quel che stupisce non è in realtà la lentezza del processo di meccanizzazione ma il fatto che esso abbia potuto comunque verificarsi, soprattutto nelle grandi aziende capitalistiche padane, introducendo elementi di novità reale. Sui limiti degli incrementi produttivi realizzati si sofferma invece Luciano Bergonzini che, analizzando più da vicino la produzione granaria dell’Emilia, sottolinea piuttosto gli “esiti limitati e irregolari della battaglia del grano nella regione” e osserva come apprezzabili aumenti nelle rese unitarie si verifichino nei fatti solo in alcune zone (il bolognese e il ferrarese in particolare). Pier Paolo D’Attorre, infine, considerando i rapporti fra agrari bolognesi e fascismo ripercorre le varie tappe attraverso cui “gli agrari perdono la guerra per il ‘primato dell’agricoltura’” ma al tempo stesso sottolinea che incrementi produttivi nelle grandi aziende capitalistiche bolognesi indubbiamente vi furono, mentre risultati più modesti si ebbero nelle piccole aziende di montagna e di collina e contemporaneamente si verificò un peggioramento drastico dei consumi alimentari dei lavoratori agricoli. Al mondo degli agrari è dedicato anche il saggio di Giorgio Rochat sulla Ferrara di Italo Balbo (una Ferrara le cui vicende sono segnate — sullo sfondo — dalla continua presenza del problema bracciantile), e sulla stampa agraria si soffermano Maria Malatesta, Annalisa Botti e Patrizia Frac- chia. Teresa Isenburg svolge poi alcune considerazioni sulla ‘bonifica integrale’, mentre Caterina Zanella, Severina Fontana e Giuliano Muzzioli esaminano gli
indirizzi produttivi e alcune caratteristiche generali del Ferrarese, del Piacentino e del Modenese, e infine Salvatore Adorno ci propone una interessante biografia di un tecnico agricolo significativo come Vittorio Pe- glion.
Diversi saggi, anche fra quelli già citati, analizzano più da vicino le condizioni delle classi subalterne, e di particolare interesse è il contributo di Dianella Ga- gliani. Considerando i comportamenti bracciantili la Gagliani mette in luce il multiforme manifestarsi di processi di resistenza, di opposizione, ma sottolinea al tempo stesso i limiti sia ‘qualitativi’ che ‘quantitativi’ di essi: ne esce un quadro estrema- mente articolato, che spinge a una riconsiderazione più puntuale dei comportamenti e degli atteggiamenti dei lavoratori agricoli durante il ventennio.
Guido Crainz
A n n a C e n t o B u l l , Capitalismo e fascismo di fronte alla crisi. Industria e società bergamasca 1923-1937, Bergamo, Il Filo di Arianna, 1983, pp. 231, lire 16.500.
Nel panorama della storiografia sul fascismo, gli studi locali sugli anni trenta sono ancora troppo scarsi per autorizzare un bilancio complessivo o addirittura una nuova immagine di un regime centralizzato e monolitico (più presunto che reale). I sondaggi e i risultati che tuttavia abbiamo a disposizione fanno chiaramente intravedere la complessità e l’articolazione interna di una dittatura che si era necessariamente espressa ed adattata
a un paese diseguale come l’Italia, a una società squilibrata e multiforme segnata da un grado notevole di debolezza ‘economi- co-corporativa’ e di particolarismi. Anche questa ricerca su Bergamo dimostra l’utilità di questo tipo di ricognizioni ravvicinate e circoscritte, se condotte problematicamente e non ristrette a una cronaca puramente descrittiva. L’autrice conosce bene la storiografia esistente e ha vagliato un’ampia serie di fonti statistiche, censua- rie, a stampa (pubblicazione e periodici), valorizzando in particolare i dettagliati e preziosi documenti dell’archivio della locale Camera di commercio. Con precisione e sicurezza d’analisi, viene ricostruito un quadro geo- grafico-economico, sociale e politico della provincia fino all’avvento del fascismo, che mette in luce la relativa linearità di una struttura imperniata su industria e proprietà terriera, operai e contadini, dove stenta a farsi luce una piccola borghesia urbana (impiegati) e rurale (fittavoli) che costituisce l’ossatura del movimento fascista delle origini, numericamente esiguo e politicamente schiacciato dalla concorrenza dei liberali e dei cattolici anche dopo il 1922 (alle elezioni del 1924, il Ppi ottiene il 34 per cento dei voti e il ‘listone’ il 41 per cento). Operando solo sul terreno della violenza squadri- stica, minore che in altre zone di province confinanti, mobilitando i suoi seguaci dalle colonne di una stampa dai toni e dai contenuti rozzi e primitivi, il fascL smo bergamasco manca perfino di un ‘ras’ locale o di capi autorevoli, ed è condizionato fin quasi a metà degli anni venti dall’appoggio unanime ma con
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tingente dei maggiorenti clerico- moderati e liberal-nazionalisti, che sperano di potersene servire per fini transitori. Il fascismo come regime trova spazio piuttosto come espressione di una “colossale ristrutturazione industriale” (p. 165) che dà vita a un nuovo blocco borghese, emancipatosi dalle tradizioni e dalla tutela politica sia del patriziato terriero sia della vecchia imprenditorialità individualista e paternalista (che, non a caso, resta più legata, con quasi tutto il settore tessile, agli ambienti cattolici). Fra guerra e dopoguerra, le nuove forze industriali (elettrici, Dalmine, Italcementi) si sono coalizzate per una rapida ascesa che le porta non solo a impadronirsi delle leve di comando di tutta l’industria locale ma ad allungare le redini direttamente sul partito fascista, i cui organi dirigenti saranno negli anni trenta composti prevalentemente dai nuovi ‘padroni del vapore’. Se i quadri intermedi locali del Pnf restano emarginati dalle sedi decisionali del potere economico (consigli d’amministrazione, banche), i ‘nuovi’ industriali vanno a dirigere in prima persona la Camera di commercio, l’amministrazione provinciale e quella comunale, mentre stabiliscono duraturi contatti con esponenti del regime a livello nazionale, legandosi a un Volpi di Misurata più che ai fascisti bergamaschi, siano essi l’ex operaio e sindacalista Capo- ferri, il permaloso conte Giacomo Suardo, o il maestro elementare e farinacciano Beratto. Poche, ma solide e dinamiche grandi imprese, relativamente indipendenti dal mercato estero, bisognose di una moderna e potente struttura finanziaria (che
la rete delle casse rurali cattoliche non può fornire) che alimenti ingenti crediti a lungo termine, stringono dunque un rapporto strettissimo con lo Stato, con la protezione e l’intervento statale di salvataggio durante gli anni più duri della crisi mondiale.
L’autrice fornisce qui ampia materia d’interesse storico generale, per quanto riguarda l’intreccio fra industria e regime che nasce su radici locali e si sviluppa fino ai livelli più alti del potere politico ed economico nello Stato fascista. Di pari interesse (e si segnala non solo per i risultati e i dati presentati, ma per l’interpretazione suggerita), è la ricostruzione del comportamento reale del Pnf, dei sindacati fascisti e di tutte le altre organizzazioni collaterali nel pieno della crisi economica, costrette talora a rivaleggiare con le corrispondenti organizzazioni cattoliche, che spesso le sopravanzano numericamente nei settori giovanili e femminili. Le opere assistenziali fasciste hanno l’effetto di depotenziare politicamente il Pnf e lo stesso ruolo collaborazionista dei sindacati, approfondendo la storica sconfitta operaia degli anni venti in dimensioni di vera e propria disfatta. Esercitandosi su un terreno di autentica miseria, l’assistenzialismo fascista è ben lungi dall’ottenere un ‘consenso’ popolare nutrito di una qualsivoglia misura di adesione politica, pur incassando il successo derivante dall’accettazione pragmatica di una beneficienza che le masse popolari ovviamente si guardavano bene dal rifiutare, e che spesso non potevano permettersi il lusso di respingere, oppresse da una lotta quotidiana per la sopravvivenza materia
le che veniva “combattuta soprattutto nell’ambito ristretto della famiglia e che difficilmente portava a forme spontanee di aggregazione o di mobilitazione collettiva” (p. 164). La contraddizione del regime fascista stava nel dato elementare che questo ‘successo’ rappresentava: essendo efficace proprio e solo perché si indirizzava a consumatori ridotti all’indigenza, beneficati inoltre dagli industriali e dai parroci, l’assistenzialismo fascista aveva stabilito un contatto puramente contingente con gli strati popolari della popolazione, rassegnati e indifferenti di fronte alle motivazioni ideali, politiche, culturali (se mai si manifestavano) del fascismo, emarginati da una sia pur minima partecipazione alla vita politica e sociale del regime e quindi estranei a ogni prospettiva di sostenere le iniziative o di difenderne le sorti.
Marco Palla
D a n t e S e v e r i n , Fascismo a Como 1919-1943. Carteggi inediti e stampa nella ricerca storica, Como, Edizioni New Press, 1983, p. 139, sip. [Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione].
Questo libro di Dante Severin, pubblicista e storiografo avente all’attivo numerose pubblicazioni di storia locale comasca, costituisce il seguito ideale di un saggio pubblicato qualche anno fa sulla lotta politica a Como dall’Unità al fascismo: non a caso l’introduzione e i primi capitoli esaminano il periodo giolittiano, “per il quale una meditazione non è mai troppa” , e quello della crisi dello Stato li
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berale già trattati nel precedente volume. Indubbio merito dell’autore e quello di aver tentato per primo una ricostruzione complessiva delle vicende del fascismo locale basandosi, oltre che su fonti a stampa, sul Fondo della Prefettura, Gabinetto, conservato presso il locale Archivio di Stato. Vengono così rievocati in un’ottica tipicamente événementielle che lascia sullo sfondo i processi socioeconomici e, in genere, la società comasca, fatti e figure della vita cittadina degli anni tra le due guerre. Questa scelta, insieme a quella di lasciar “parlare le carte” poiché “trame, racconti e giudizi sorgono spontanei dai documenti” (p. 9), costituisce uno dei limiti del saggio. L’ingenuità metodologica è particolarmente evidente nelle pagine — peraltro tra le più interessanti del volume — in cui l’autore ricostruisce il dualismo esistente tra autorità partitica, impersonata dal ‘ras’ Tarabini, coinvolto in irregolarità amministrative, e autorità statale, rappresentata, tra gli altri, dal prefetto Rizzatti, considerato dal Severin uno “tra i migliori prefetti venuti a Como” (p. 81): il prefetto, “interlocutore autorevole” dell’opposizione interna del partito e della “gente comune” (p. 7), finisce per assurgere nelle pagine del Severin a interpretare obiettivo delle esigenze della società comasca.
Gilberto Bolliger
Storia della Chiesa
A n d r e a R i c c a r d i , Il “partito romano ” nel secondo dopoguerra (1945-1954), Brescia, Morcel
liana, 1983, pp. XX-254, lire 18.000.
Dopo Roma “città sacra”? Dalla conciliazione all’operazione Sturzo, del 1979, Andrea Riccardi prosegue le sue indagini sulla presenza della chiesa cattolica nella realtà italiana contemporanea con questo studio sul ‘partito romano’, ovvero — per riprendere la definizione dell’autore — “d’una lobby, interna al mondo ecclesiastico, d’orientamento politico clerico- moderato” che tenta, senza successo, nel primo decennio postbellico, di opporsi al “progetto vincente nel mondo cattolico e nella società italiana, quello di G.B. Montini e di De Gaspari” (p. X). La ricostruzione è ricca di dati e di riferimenti documentari; particolarmente prezioso appare il ricorso alle carte di monsignor Ronca che, nella sua qualità di animatore del movimento di “Civiltà italica” , svolge a livello di relazioni politiche un ruolo parallelo e complementare a quello sviluppato dai Comitati civici di Gedda nel campo della mobilitazione di massa. L’ampiezza delle fonti consente a Riccardi di riproporre con analitico puntiglio una cronaca talvolta minore, ma egualmente significativa, del moltiplicarsi di atti, incontri, prese di posizione attraverso i quali esponenti di primo piano della gerarchia ecclesiastica si mossero nella prospettiva di un diretto condizionamento della politica italiana.
Il disegno, noto nelle sue linee generali, di conferire una forte impronta cattolica al nuovo Stato repubblicano, si esprime in una varietà di episodi e personaggi i cui obiettivi subiscono continui adattamenti al variare
delle congiunture politiche. La stessa pregiudiziale anticomunista — che pure rappresenta la nervatura ideologica centrale del progetto — non ignora distinguo, sfumature, cangianti priorità. Da Gedda a padre Lombardi a “La civiltà cattolica” (che sotto la direzione di padre Mortegani raccoglie organicamente le valutazioni, e le ‘direttive’, del ‘partito romano’), il quadro che si viene componendo riesce assai mosso e si inserisce in un orientamento dei vertici vaticani nel quale — al di là della diversità/contrapposizione tra i due sostituti alla Segreteria di Stato, Tardini e Montini — Pio XII pare contraddire, con non poche oscillazioni di giudizio, l’immagine di monolitismo spesso attribuita al suo pontificato. Il libro segue da vicino i ripetuti sforzi, prima e dopo il 18 aprile 1948, di ancorare la De a forme di stretta alleanza sulla destra: dalla iniziale attenzione a Orlando come utile cerniera con il moderatismo prefascista ai rapporti privilegiati con l’‘Uomo qualunque’; dall’impegno a convogliare il Msi su posizioni ‘parlamentari’ alle aperture ai monarchici inserite in un più ampio disegno di riorientamento della vita politica meridionale. La discriminante che guida tutte queste iniziative è costituita, sino al 1947, dal rifiuto del Cln e, dopo il 1947, da una battaglia anticomunista concepita come base di legittimità di un blocco di forze nazionali senza preclusioni a destra. Sono, come si vede, momenti di una cronaca certo non ignorata dalla letteratura sul dopoguerra, anche se ricostruiti più in chiave pubblicistica che storiografica (si vedano in proposito le osser
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vazioni dell’autore all’inizio del capitolo Vili). Ma è proprio nel passaggio dall’uno all’altro livello che il libro si rivela carente e, in ultima analisi, deludente.
A ragione Riccardi mette in guardia dalle tentazioni di classificare gli schieramenti vaticani secondo la topografia parlamentare (p. 30); e altrettanto opportuno è il richiamo, replicato a ogni capitolo, a non sottovalutare la preminente radice religiosa di molti dei comportamenti politici delle gerarchie ecclesiastiche. Ma i modi nei quali l’autore accoglie il suo stesso invito lascia perplessi. Anziché essere analizzate come una soglia preliminare alle opzioni politiche, le radici religiose sono postulate ma non indagate, restano confinate in un limbo che sottrae loro ogni capacità esplicativa. Vi sono, è vero, passaggi nei quali Riccardi sembra cogliere le connessioni tra i due terreni. Quando, ad esempio, si sofferma sulla ‘democrazia protetta’ auspicata da “Civiltà cattolica” e osserva: “In effetti non c’è un riconoscimento dei partiti come espressione della volontà politica e portatori delle grandi tradizioni della storia politica del paese; si tende a vedere la stessa verifica elettorale come un confronto tra masse che hanno il loro punto di riferimento non tanto nei partiti, quanto in entità esterne alla stesa vita politica, cioè, in ultima analisi, la Chiesa e l’errore, concretizzato nel movimento comunista internazionale” (p. 129). Può sembrare l’inizio di un discorso inteso a verificare persistenze e sviluppi della concezione ‘concordataria’ come strumento di ‘neutralizzazione’ del nuovo sistema politico-sociale; e invece
le concettualizzazioni stesse che reggono l’impianto del libro vanificano tale prospettiva. Valga per tutti l’uso del termine ‘moderato’ come qualificativo del ‘partito romano’, termine che si affolla a ogni pagina senza mai assumere un reale spessore interpretativo e anzi costituendo un sedimento di permanente ambiguità. Nella prefazione, dopo aver escluso che il “partito romano” si ponga in linea di continuità con il clerico-mode- ratismo del primo Novecento, Riccardi prosegue: “A monte di questo moderatismo c’è un’impronta tipicamente romana. In una mentalità scettica sul riformismo sociale, la fedeltà assoluta alla Chiesa, espressa soprattutto nel pontificato romano, il senso di moderazione politicosociale, conducono all’afferma- zione di quell’obiettivo prioritario che è la sconfitta delle sinistre” (p. XVI). Dove è evidente che moderato e moderatismo acquistano significato non tanto di scelta politica, ma di comportamenti riflessi: “la mentalità scettica sul riformismo sociale” segnata da “un’impronta tipicamente romana” . Non appare allora strano che manchi ogni riferimento alla borghesia capitalistica (e alle scelte di politica economica) e che revocazione di un “partito moderato sommerso” che nel paese raccoglierebbe le aspettative delle classi medie sia priva di ogni determinazione politica e sociologica. In un unico caso quella “mentalità scettica sul riformismo sociale” trova un aggancio diretto e puntuale al quadro della lotta politica ed è a proposito delle leggi agrarie e del Mezzogiorno. Ma il rapporto chiesa cattolica- ceti dominanti è ancora una vol
ta eluso attraverso una spiegazione tanto tautologica quanto disinvolta: nel Sud — osserva infatti Riccardi — gli “ambienti cattolici si presentano spesso non immediatamente sensibili ai problemi della trasformazione della società e quindi permeabili ad esigenze conservatrici di difesa dello static quo” (p. 158). In tal modo la proposta del ‘partito romano’ di un regime dotato di forti connotati autoritari e clericali non emerge mai come reale momento di aggregazione di forze interne ed esterne alla Chiesa, interne ed esterne alla De, ma resta una sorta di nebulosa che l’etichetta del moderatismo colora di toni più psicologici che socioculturali e politici.
Massimo Legnani
P i e t r o B o r z o m a t i , Chiesa e società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma, Studium, 1982, pp. XV- 166, lire 6.000.
“La parrocchia è sempre stata, anche nel Sud, il centro principale della vita sacrale [...] ma la parrocchia è stata nel Sud anche qualcosa d’altro. È stata 1) anagrafe, 2) gestione del sacro negli usi anche non propri religiosi, ma profani delle vita rurale, 3) economia di sussistenza [...], 4) relazione con il mondo dell’emarginazione” (Gabriele De Rosa, La parrocchia nel Mezzogiorno dal Medio Evo all ’età moderna, Napoli, Guida, 1980, p. 19). Da tale enunciato, estensibile ai diversi ruoli assunti dalla Chiesa nel suo complesso in Italia meridionale, è possibile enucleare alcune delle linee programmatiche e metodologi
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che del libro in esame: evidenziare la funzione, spesso insostituibile, e la qualità della pene- trazione sociale esercitata dal clero nel suo insieme durante i secc. XIX e XX (più precisa- mente, dal Concordato del 1818 al Concilio Vaticano I) nelle campagne e nelle città del Sud; sottolineare la specificità di un apostolato che fu, come si è detto, non soltanto di natura pastorale, e che esprime la valenza ingenita della componente ecclesiastica in quel processo di mediazione tra realtà locali e potere centrale che da sempre caratterizza gli agenti storici operanti in quelle regioni; offrire un tentativo di lettura della religiosità popolare, se non alternativa, integrativa di quella oggi predominante, risolta in chiave prevalentemente antropologica; dare nuovo impulso alla ricerca in questo settore, essendo i.contributi sugli anni più recenti non ancora sufficienti a costituire un corpus organico e completo di conoscenze.
Particolare interesse riveste la prima parte, non tanto per l’ampiezza del dato informativo — le è stata infatti riservata circa la metà dell’intera stesura — quanto, soprattutto, per la lucida analisi in essa contenuta dei rapporti tra le varie componenti ecclesiastiche, al loro interno e in riferimento all’organismo centrale nonché all’impatto che tale dialettica ebbe nei successivi periodi sulle popolazioni locali. Ed è proprio questo scorrere su di un triplice piano — clero nazionale, clero locale, società meridionale — che favorisce la comprensione della complessa e polivalente attività svolta dalla Chiesa nel meridione d’Italia e del suo intreccio con i rispettivi
autonomismi, le formule particolari, i campanilismi e le esigenze specifiche.
Così, a partire dalla Restaurazione, vengono illustrate le difficoltà della chiesa meridionale nell’attuazione della normativa tridentina, la scomparsa del parroco-educatore civile e la progressiva influenza del politico sull’elemento spirituale, l’impegno di questo ad arginare l’anticlericalismo montante del periodo preunitario, ma anche il controllo sui preti e sui fedeli coinvolti nei moti postquarantotteschi (si veda ad esempio la nascita a Catanzaro della Società evangelica ecc.). Al di là delle vicende descritte, è interessante rilevare gli elementi di diversità e la loro traduzione in resistenze e incomprensioni reciproche che hanno caratterizzato la storia religiosa del Sud, come tante altre storie, rispetto a quella del contesto più generale.
Qualche esempio: dopo l’Unità, alla Santa Sede e all’episcopato, talora anche a quello meridionale, sfuggirono i contorni reali delle comunità ecclesiali nonché il particolarissimo rapporto dei fedeli con Dio e i santi, non sempre e non del tutto inficiato da superstizioni; non si tenne in debito conto il fatto che la soppressione dell’asse ecclesiastico, se da un lato garantì il rilancio spirituale della Chiesa, dall’altro, nella totale mancanza di disponibilità economiche, non consentì un’efficace opera di assistenza, né un concreto programma di rinnovamento pastorale poiché i beni del Sud erano di natura prevalentemente capitolare e conventuale e quindi risentirono in misura diversa che al Nord dei provvedimenti legislativi del 1866-67.
Un ulteriore esempio è offerto dalla situazione consolidatasi sullo scorcio degli anni cinquanta, in cui lo scarto risalta con evidenza ancora maggiore: al Sud, episcopi fatiscenti, privi di collaboratori con funzioni segretariali, mancanza di case coloniche e di sedi per l’Azione cattolica; al Nord, maggiore disponibilità di risorse e quindi di iniziative pastorali e sociali...
Il resoconto è ampio e debitamente circostanziato: valga per tutte le testimonianze del vescovo di Amalfi, dalla cui lettera al clero nel 1955, integralmente citata, possono trarsi spunti più che sufficienti sulle condizioni di vita e di lavoro del medio clero locale.
Le problematiche inerenti e conseguenti a tale dato di fatto (crisi vocazionali, ricorrenti perdite di strutture monasteriali, immissione e consolidamento di iniziative del clero regolare settentrionale e anche straniero ecc.) sono quindi appariscenti e utili per delineare il quadro di una situazione ancora oggi non del tutto definita e risolta.
Quanto alla seconda parte della trattazione, sarà opportuno considerarne non tanto la consistenza dei contributi specifici, quanto la valenza e lo spessore propositivi: riguardo alla religiosità popolare, non si può ignorare la carenza di un’investigazione adeguata, sicché i lineamenti del mondo contadino appaiono sfocati e di corto respiro; più efficaci sembrano certe operazioni di recupero della presenza del clero all’interno del dibattito nazionale.
Anche le pagine dedicate al movimento cattolico sono dense di notizie grazie alle quali figure come de Cardona, Monterisi,
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Delle Nocche e altri acquistano una più giusta collocazione nel panorama della storia meridionale.
Vengono infine offerte alcune valide linee interpretative circa la lenta e difficile affermazione deH’associazionismo cattolico nel Sud; tra le altre, si segnala quella di Danilo Veneruso, secondo cui la scarsa ricettività dell’Azione cattolica nelle campagne “nasceva spontanea, quasi per reazione all’estrazione borghese della maggior parte dei suoi quadri e dei suoi componenti, alla scristianizzazione delle masse operaie cittadine e all’avversione verso una cultura lontana dai problemi delle campagne e delle masse contadine” (Danilo Veneruso, Benedetto X V e il laicato cattolico italiano, in AA. VV., Spiritualità e azione del laicato cattolico italiano. Studi per il centenario dell’azione cattolica (1868-1968), Padova, ISEP, 1969, 2 voli.).
Mirella Colpo
O r i o G i a c c h i , Chiesa e Stato nell’esperienza giuridica (1933- 1980), Studi, raccolti e presentati da Ombretta Fumagalli Carul- li: vol. I: La Chiesa e il suo diritto; Religione e società; vol. II: La Chiesa davanti allo Stato. Lo Stato e la vita sociale. Milano, Giuffrè, 1981, pp. XX-772 e 728, lire 32.000 - 30.000.
Quando una raccolta comprende ben settantanove saggi, e l’autore è uno studioso appartenente a questa nostra generazione, che ha vissuto le molteplici esperienze delle due guerre, e soprattutto quelle dei due dopoguerra, caratterizzati l’uno dalla tragica avventura fascista, l’al
tro dalla faticosa cruenta ricostruzione dei liberi istituti democratici, non ci si potrebbe attendere dal complesso dell’opera una totale asetticità scientifica, se non di fronte a uno scrittore vissuto nel più assoluto isolamento spirituale, sordo ai problemi del suo tempo e indifferente alle vicende che hanno scosso e trasformato le basi stesse della nostra società e sconvolto gli equilibri fra le nazioni.
E Giacchi non rispondeva certamente a questo prototipo, se è vero, come è vero, che, nei momenti più critici, non volle rifugiarsi spiritualmente sotto le ali protettrici dell’Università cattolica cui apparteneva, ma preferì, con una scelta ben determinata e coraggiosa, impegnarsi in prima persona nella rischiosa battaglia per la libertà, occupando ruoli di primo piano nello scacchiere politico, che della Resistenza armata costituiva il necessario presupposto.
Se la raccolta ha quindi come parte sostanziale la raffinata scienza giuridica e storica del nostro autore posta al servizio delle discipline da lui tanto prestigiosamente professate: il diritto canonico ed ecclesiastico, non mancano numerosi scritti d’attualità attinenti la politica e l’economia avendo l’autore svolto una notevole attività politica e occupato un ruolo tutt’al- tro che secondario nell’ambito dell’industria pubblica.
Questi scritti, degli anni cinquanta e sessanta, sono contenuti nel secondo volume, e più specificamente nella Sezione IV: Lo Stato e la vita sociale, particolarmente ricca di spunti di storia contemporanea (// significato storico della Costituzione italiana, pp. 339-349); “Nessu
no si salva”. La tragedia italiana del 25 luglio 1943, p. 425-439) e di analisi politica (Uomini e bandiere, pp. 351-385; Panorama politico dell’Italia odierna, pp. 387-397; La crisi della democrazia e il potere del Parlamento, pp. 399-408; L ’università nella società contemporanea, pp. 409-423; La democrazia è in crisi?, p. 441-449; Prospettive odierne per la pace nel mondo, p. 451-467). Vi sono anche saggi allora di attualità che per noi sono oggi pagine di storia, come II fantasma laico (p. 223-229) a proposito del risorgere dell’anticlericalismo nel periodo del centrismo.
In momenti difficili Giacchi testimoniò i propri convincimenti anche in interventi di alto impegno civile. Nel settembre 1942, nella rivista “Studium” (Responsabilità nostra: sensibilità intellettuale, vol. I, p. 679- 686), prese posizione sul compito dell’intelligenza cattolica di fronte alle profonde rivoluzioni del tempo, mentre ne L ’aspirazione alla giustizia nella società contemporanea (vol. II, pp. 685-697) — apparso ne “La scuola cattolica” del 1943 — apertamente dichiarava: “Ciò che soprattutto ci spaventa è l’abbandono della razionalità, il ritorno al mito, alla credenza cieca e fanatica in qualcosa che spesso non merita di essere creduto o comunque neppure viene esaminato, il naufragio di una torbida e incosciente sensibilità in cui i valori razionali annegano quasi interamente” (p. 685), auspicando poi l’avvento di una comunità intemazionale capace di garantire la convivenza tra gli uomini. “Ma non è utopia pensare e volere che una norma di giustizia, realizzata in norma di
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diritto, regoli la vita sociale anche nel campo internazionale, cioè anche tra quei soggetti di diritto che sono gli Stati. Nulla di convincente è stato finora ancora mai detto per distinguere la intima universale speranza che dalla eliminazione della lotta cruenta tra uomo e uomo, e poi di quella tra famiglia e famiglia e poi fra città e città si salga man mano alla eliminazione della lotta fra nazione e nazione, in virtù non già di un infiacchimento della coscienza nazionale o del valore guerriero, ma dell’instaurarsi di un ordinamento in cui i mezzi di forza non siano di singoli Stati più forti, ma della autorità internazionale, qualunque essa sia nel domani” (p. 695).
Tra gli scritti dedicati alla vita politica ed economica che completano il secondo volume, è ricordata anche l’azione in campo sociale dei cattolici italiani e, in modo specifico, dell’Opera dei Congressi, allorché — nell’af- frontare i problemi economici in una società che presentava condizioni mutate — essi seppero passare da forme puramente caritative a quelle dell’economia sociale cristiana. Nella pratica realizzazione di questo passaggio può senz’altro inquadrarsi la costituzione, nel 1896, ad opera di Giuseppe Tovini e di altri esponenti del laicato milanese, del Banco ambrosiano (Il Banco Ambrosiano nella storia sociale e bancaria italiana dalla fondazione ad oggi (1896-1956), Milano, Pirola, 1956, pp. 635-673).
C‘è, infine, da sottolineare un ultimo aspetto che traspare non solo da alcuni specifici contributi (La libertà del cristiano e lo Stato democratico, vol. I, pp. 713-730; Lo Stato e la libertà religiosa, vol. II, pp. 113-132; Si
gnificato e sviluppo della libertà religiosa, vol. II, pp. 133-144) ma da tutta l’opera di Orio Giacchi e — secondo le espressioni della Fumagalli Carulli — “il valore supremo della persona umana e quindi della libertà religiosa, primo ed essenziale aspetto della libertà dell’uomo” (p. XVI).
La libertà religiosa attuata e vissuta in modo profondo e reale, è — per l’illustre canonista — condizione e valore di ogni altra libertà. “Libertà per tutti, dunque, libertà generale, che riceve impulso e conferma dalla libertà della Chiesa ma che dà anche ad essa piena assicurazione: questa la posizione dello Stato contemporaneo di fronte alla libertà religiosa” (vol. II, p. 131).
Lazzaro Maria De Bernardis
P i e r a n t o n i o Gios, Resistenza, parrocchia e società nella diocesi di Padova. 1943-1945, Padova, Marsilio Editori, 1981, pp. 463, lire 29.000.
Non è passato molto tempo da quando — sulla scia di esperienze francesi — anche in Italia gli archivi parrocchiali sono stati riscoperti come ricchi depositi di materiale documentario e si è iniziato a utilizzare i dati sia per studi di carattere demografico, sia per ricerche volte a ricostruire gli aspetti quotidiani della vita delle popolazioni: le espressioni della vita di pietà, ma anche, più ampiamente, fenomeni di mentalità e di costume. A questo si prestano in modo particolare i diari redatti, con maggiore o minore diligenza e regolarità, dai parroci. Si tratta di
fonti di straordinaria importanza, specie nelle zone in cui l’annotazione frequente, se non quotidiana, degli avvenimenti è stata per lunghi periodi una pratica largamente diffusa nel clero curato, ed è certamente utile il fatto che esse inizino ad essere catalogate, regestate e, naturalmente, utilizzate. È ciò che ha fatto l’autore di questo volume raccogliendo ed esaminando le cronistorie di oltre cento parrocchie della diocesi di Padova, relative al periodo della guerra e della Resistenza. Il suo lavoro è, a sua volta, una cronistoria, che segue passo passo l’azione svolta dal clero in quei mesi: opera di assistenza nei confronti delle popolazioni, degli sbandati dell’esercito e degli sfollati, rapporti con l’occupatore e con il movimento partigiano, atteggiamenti nei confronti delle condizioni di vita deteminate dalla contingenza della guerra. Tutto questo viene raccontato per mezzo dei diari, delle cui citazioni il volume è intessuto fittamente, e anche quando l’autore interviene in prima persona nella narrazione, stile e argomentazioni sono ancora una volta quelli della sua fonte.
Si tratta certamente di un contributo utile sul piano documentario, soprattutto perché condotto su vasta scala, ciò che consente di operare raffronti e individuare tendenze generali senza essere sviati da casi singoli significativi, ma isolati. La ri- costruzione degli avvenimenti è inoltre estremamente puntuale e presenta un aspetto non consueto nelle opere di storia riguardanti quel periodo: la vicenda di coloro che non parteciparono al movimento di resi
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stenza, dei civili che subirono nelle loro case quei tragici eventi, degli sfollati. Dalle annotazioni dei parroci, attenti spesso a riportare pareri e atteggiamenti dei fedeli, emerge uno spaccato della vita nei paesi, dove divisioni politiche si intrecciano a rivalità personali, ricco di interesse.
Qualche appunto va però mosso, al di là di questo, all’utilizzo che Gios ha fatto del suo materiale. Egli infatti se ne serve per costruire una storia tutta fattuale, limitandosi nella disamina critica a stabilire la veridicità di versioni controverse di singoli avvenimenti, senza tenere sufficientemente presente che si tratta di versioni dei fatti filtrate dalla mentalità, dagli schemi di giudizio, dalla cultura dei loro estensori e che proprio un’analisi di questi ultimi elementi avrebbe potuto rappresentare un filone nuovo e fecondo di indagine. Sotto questo profilo infatti il materiale presenta spunti di grande interesse, che si sarebbero voluti maggiormente approfonditi, soprattutto per quanto concerne la consapevolezza che questo clero ha del proprio ruolo, che gli consente di assumere — rispondendo del resto a un’attesa della popolazione — la funzione di autorità civile oltre che religiosa nel momento in cui vengono a mancare le strutture dello Stato, e i criteri cui obbedisce nell’esplicarlo.
Liliana Ferrari
B r u n a B o c c h i n i C a m a i a n i , Ri- costruzione concordataria e processi di secolarizzazione. L ’azione pastorale di Elia Dalla Costa,
Bologna, D Mulino, 1983, pp. 366, lire 30.000.
D volume segue, nell’ambito della ricerca promossa dal “Seminario di Storia delle istituzioni religiose e relazioni fra Stato e Chiesa” dell’Università di Firenze diretto da Francesco Margo tta Broglio, La Chiesa del Concordato. Anatomia di una diocesi, Firenze 1919-1943 (Bologna, Il Mulino, 1977). Allora s’era trattato di una serie di saggi intesi non solo a ricostruire le principali vicende della Chiesa fiorentina tra le due guerre, ma anche a fissare una “preliminare proposta metodologica [...] che, collocandosi nel punto d’incontro tra scienza storica e anatomia sociale e valendosi della convergente utilizzazione di tecniche diverse per analizzare l ’unica realtà di ‘Chiesa’, presuppone l’apporto collettivo di un gruppo interdisciplinare” (p. 22). Rispetto a tali premesse la monografia della Bocchini Camaiani rappresenta, più che uno sviluppo, una dilatazione cronologica condotta sul filo dell’azione pastorale di Elia Dalla Costa, che regge la diocesi dal 1932 al 1954 (quando Ermenegildo Florit, nominato coadiutore, viene via via assumendo su di sé le funzioni di governo). L’elemento centrale è dunque offerto dalla verifica della tenuta della ‘ricostruzione concordataria’ nel primo decennio repubblicano, di fronte — come con qualche forzatura indica il titolo — ai ‘processi di secolarizzazione’.
L’intervallo temporale tra le due pubblicazioni è stato ricco di sviluppi per la storiografia della chiesa cattolica in Italia; e ad essi si richiama largamente Margiotta Broglio nella premes
sa, soprattutto per ribadire la necessità che l’analisi dei rapporti Chiesa-regime fascista superi decisamente una prospettiva che “col dare particolare rilievo al movimento politico ideologico, finisce per essere esclusivamente diretta ad accertare il grado di adesione, opposizione o indifferenza del cosidetto ‘mondo cattolico’ al fascismo [...] rinunciando, necessariamente, ad ogni possibilità di recuperare gli spessori più propriamente religiosi del rapporto Chiesa-fascismo” (p. 8). L’analisi dell’autrice muove alla soddisfazione di questa esigenza ricostruendo la visione del compito storico della Chiesa sottesa alle elaborazioni culturali e agli strumenti organizzativi posti in atto da Dalla Costa. Resta così costantemente in primo piano (modellata ai vari livelli e soprattutto a quello della ‘disciplina’ del clero) una concezione del magistero intrisa di cattolicesimo tridentino, tesa ad affermare la preminenza della società ecclesiastica su quella civile e a contrastare ogni pretesa interferenza della seconda nella prima, come inquinamento di un’immagine — e di un destino — di potenziale perfezione. È su questa cultura (per tanti versi ancorata ai modelli ottocenteschi recepiti da Dalla Costa nella sua formazione ‘veneta’ e resasi già evidente, dal 1923 al 1931, nella guida della diocesi di Padova) che si innesta, pienamente complementare, lo strumento concordatario sentito come riconoscimento da parte dell’autorità civile del primato ecclesiastico. Il tragitto dagli anni trenta ai primi anni cinquanta appare perciò segnato dal passaggio da una fase ‘protetta’, quella fascista, in
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cui l’opera pastorale si esplica prevalentemente all’interno della Chiesa, ad una fase ‘scoperta’, che induce al massimo impegno politico nella società. E il volume appare particolarmente convincente laddove delinea questo secondo momento come quello del più grande allarme per la Chiesa, con un riferimento costante e ossessivo al pericolo comunista che va evidentemente letto (alla luce di quella cultura cui s’è fatto cenno) come forma di percezione riduttiva e impropria di più generali e profondi ‘processi di secolarizzazione’. In questa prospettiva il magistero di Dalla Costa si esprime con una carica di rigorismo e di sollecitudine spirituale che sono certo un tratto distintivo rilevante rispetto ad altre figure della Chiesa del tempo, ma il suo nucleo centrale resta ancorato a una visione di primato dell’istituzione ecclesiastica che contrasta, nella sostanza, con fermenti pur diversi ed eterogenei (da La Pira a don Milani, le cui posizioni sono tratteggiate abbastanza diffusamente nell’ultima parte del volume) che s’affacciano con il dopoguerra nella diocesi fiorentina sul rapporto chiesa cattolica-società.
Massimo Legnani
A n t o n i o F i n o , Società civile e “riconquista” cattolica in una diocesi del Sud. Linee di intervento politico e pastorale nell’episcopato tarantino di mons. P.A. Jorio (1885-1908), Lecce, Milella, 1983, pp. 302, sip.
L’ambizione dichiarata dell’autore è quella di contraddire
gli indirizzi storiografici che, individuando la ‘continuità’ del mondo cattolico “in una presunta costante propensione ad una convergenza, fondata su una sostanziale identità di interessi, con i gruppi più conserva- tori, ed anche con quelli più reazionari, della borghesia italiana” avrebbero indotto a “sottovalutare, o addirittura ad escludere, anche le profonde motivazioni etico-religiose che ispirano l’opposizione di tanti ecclesiastici e laici allo Stato liberale” (p. 8).
Campo di verifica di tale assunto è il governo della diocesi di Taranto ad opera di monsignor Jorio, governo ricostruito attraverso un sistematico spoglio delle carte d’archivio (a cominciare da quelle della Curia tarantina, dell’Opera dei Congressi e della Casa provinciale della Congregazione della missione di Napoli) oltre che della ricca letteratura sulla Chiesa meridionale.
Il disegno di Jorio è fissato sin dal suo ingresso nella diocesi. “Tipico vescovo leoniano — cosi l’autore lo presenta —, aperto al mondo moderno nel quale intendeva intervenire con determinazione e con coraggio, non si arroccava su posizioni di protesta meramente negativa ma si poneva obiettivi concreti di presenza culturale in un rapporto di confronto fermo con le autorità civili e con il regime liberale” (p. 50). E ancora: “Con un chiaro richiamo a motivi cari al neoguelfismo affermava che la storia dimostrava anzi come proprio la religione cattolica e la presenza del Papato avessero preservato l’Italia dalle rovine e dall’imbarbarimento” (p. 52). Ed è significativo che nell’opera
di Jorio l’obiettivo di “riconquista” della società, di “tutto restaurare in Cristo” attraversi, anche cronologicamente — come si desume ad esempio dai quesiti via via sottoposti ai preti della diocesi (pp. 150-51) —, tre distinte fasi: dal contrasto Stato-Chiesa quale si era configurato all’atto delPunificazione, al conflitto tra cultura cattolica e cultura positivista, alla “diffusione di un movimento cattolico intransigente, e quindi alle responsabilità del laicato e del clero nella vita pubblica” (p. 151). Questo percorso dall’interno all’esterno si ripete a livello delle molteplici iniziative che Jorio assume e che illuminano aspetti non secondari del quadro sociale e istituzionale. Si coglie così un fitto intreccio tra mutazioni sociologiche (“allontanatisi dalla vita ecclesiastica i membri delle famiglie aristocratiche e borghesi, i sacerdoti venivano ormai, in numero sempre crescente, da famiglie modeste o povere” , p. 101), tenace autonomismo delle parrocchie, persistenza di tradizioni legate alle funzioni civili, di ‘clientela’, delle confraternite (pp. 89-90); tutti elementi contro i quali il neotomismo e la cultura politica rigidamente ancorata al Sillabo del nuovo vescovo si sfrangiano e si spuntano.
È su questo terreno, del resto, che si creano le premesse delle mancate realizzazioni in campo politico-sociale. Jorio si impegna senza riserve ad organizzare nelle Puglie l’Opera dei Congressi, ma i risultati che coglie sul finire del secolo sono vanificati, all’inizio del Novecento, dal netto prevalere, nella Chiesa locale, degli indirizzi clerico- moderati. D’altro canto Tin-
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transigentismo del vescovo di Taranto (che individua la “causa fondamentale” del moltiplicarsi delle opposizioni “nello scarso ‘sentimento papale’ esistente nel clero e nel laicato” pugliesi, p. 233) e la linea di conciliazione filoliberale e filoborghese proprie alla maggioranza della chiesa meridionale sintetizzano un aspetto particolare di un processo generale. In questo senso prende rilievo non tanto l’accusa dei transigenti agli in- trasigenti di voler imporre al Sud modelli settentrionali, quanto l’incidenza dei moti del ’98 e della svolta giolittiana nel determinare un progressivo riorientamento della politica cattolica.
È tuttavia soprattutto a questo passaggio che lo studio di Fino denuncia sensibili limiti. In una duplice direzione: nello scarso approfondimento dei referenti sociali dell’intransigenti- smo (agli accenni alle iniziative verso Taranto operaia sono troppo rapidi e sfocati) e nell’altrettanto insufficiente analisi del connubio tra clerico-moderati e borghesia locale. La saldatura tra organizzazione ecclesiastica, forme di religiosità e tessuto sociale resta così incompleta.
Massimo Legnani
“Rivista di storia della Chiesa in Italia", 1982, n. 1.
Raffaello Morghen nel breve saggio Arturo C. Jemolo storico dello Stato e della Chiesa nella crisi tra due età ricostruisce alcuni aspetti dell’opera di storico dello Jemolo sia facendo riferimento agli scritti più significativi sul piano metodologico sia
mettendo in luce i momenti essenziali dell’impegno personale e civile che lo portarono dall’interesse per le teorie politiche del passato a farsi critico vigile e partecipe delle vicende del suo tempo.
Secondo Morghen, Il Giansenismo in Italia prima della Rivoluzione (Bari, Laterza, 1928), oltre a rappresentare l’anello di congiuntura tra le due opere più note, Stato e Chiesa negli scrittori italiani del ’600 e ’700 e Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, si configura nel contesto della intera produzione come un momento essenziale di consapevolezza critica: raffermare la rilevanza del fatto religioso nella sua autonomia si contrappone alle posizioni della moderna storiografia tendenti a metterne in rilievo il solo aspetto politico-istituzionale. Di conseguenza la rilevanza di quest’opera sta proprio nel vedere nel giansenismo non solo un momento spirituale che precede e prepara la rivoluzione politica del Risorgimento, ma un fenomeno culturale da considerare in tutta la complessità delle sue componenti religiose e filosofi- che.
Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, pubblicato dall’editore Einaudi nel 1948, se da una parte riassume tutti i dati storici, politici e religiosi del problema dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia, dall’altro testimonia il processo di formazione e di evoluzione dello Jemolo, che dalle analisi di affermazioni ideologiche e delle dottrine politiche, si rivolge alla narrazione di vicende e di fatti a cui partecipò in modo diretto vivendo drammaticamente durante il fascismo l’allontana
mento dalla vita politica e il crollo dei valori nei quali si era formato. Gli scritti raccolti in Società civile e Società religiosa (Torino, Einaudi, 1959) rappresentano la continuazione di questa opera di critico del suo tempo e costituiscono un ripensamento problematico e un riesame continuo della crisi del mondo contemporaneo.
Paola Pirzio
“Ricerche di storia sociale e religiosa”, 1982, n. 21-22.
L’interesse per le opere di storia della Chiesa, sviluppatosi in Italia a partire dagli anni settanta, è storiograficamente significativo, a giudizio di Fulvio Sa- limbeni che ha curato la pubblicazione delle relazioni tenute alla tavola rotonda su “Le storie generali della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II” (Vicenza, aprile 1979) e appartiene a un quadro metodologico di riproposizione della dimensione interpretativa delle storie generali: va considerato come un momento di ‘crisi delle ideologie’ e nel contempo come una tappa essenziale del processo di sistemazione del sapere storico emerso dalle ricerche settoriali e monografiche nel corso degli ultimi anni. Gli interventi di Silvio Tramontin, di Grado G. Merlo, di Luigi Mezzadri, di Maurilio Guasco, di Annibaie Zambar- bieri, di Giorgio Cracco, di Antonio Niero, di Fulvio Salimbeni tracciano un bilancio delle storie della Chiesa pubblicate in Italia negli ultimi dieci anni sottolineando, e l’affermarsi di nuove prospettive storiografiche socioreligiose (in varia misura con
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nesse alle linee del Concilio Vaticano II), e il riproporsi di interpretazioni ormai remote e svuotate di capacità esplicativa. In tale quadro le opere di storici ecclesiastici (sacerdoti o monaci), animati soprattutto da finalità didattiche e pubblicate da case editrici cattoliche, risultano più numerose, mentre gli interventi di studiosi laici sono spesso settoriali (Carlo Ginzburg, Antonio Rotondò) e presentati come momenti di una storia generale (Storia d ’Italia, Torino, Einaudi, 1974).
Di dimensioni monumentali appare l’opera diretta da Hubert Jedin (Handbuch der Kir- chengeschichté), tradotta in Italia a metà degli anni settanta (Storia della Chiesa, Milano, Ja- ka Book, 1975-80); in particolare Maurilio Guasco (La storia della Chiesa di Hubert Jedin - L ’età contemporanea, pp. 29- 44), per i volumi sull’età contemporanea scritti e ispirati da Roger Aubert (presentati da Francesco Traniello e Mario Bendiscioli), sottolinea la prospettiva mondiale, sia per i contenuti proposti comprendenti tutto lo spessore della vita ecclesiale, dalla dimensione istituzionale e organizzativa a quella culturale e spirituale.
Nell’opera di Giacomo Martina S.J. (La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, Roma, Studium, 1970) Zambarbieri (Una nuova storia della Chiesa nell’età moderna e contemporanea: l ’opera di padre Giacomo Martina S.J., pp. 45-53), ritiene fondamentale la definizione del rapporto via via delineato tra storia ecclesiatica e storia ecclesiale sia in sede metodologica che nella concreta indagine. Già
nelle premesse, e poi nella delineazione di tutto il percorso tematico, Martina, attenendosi alle più recenti linee del Concilio Vaticano II, insegue l’immagine della Chiesa come “simbolo del popolo di Dio” e quindi si orienta verso la globalità degli atteggiamenti del popolo cristiano in tutte le sue componenti e ricerca il vario inserirsi della Chiesa nelle strutture della società, accantonando ogni prospettiva verri- cistica di storia ecclesiastica.
La relazione di Giorgio Crac- co e Antonio Niero, La storia della Chiesa in Italia (pp. 55-78) di Gregorio Penco (Storia della Chiesa in Italia, Milano, Jaka Book, 1978) mette in luce gli aspetti più datati dell’ecclesiologia che sta alla base di una ricostruzione storica che sottolinea la positività della realtà della Chiesa in tutta la sua storia vedendo in essa la “rivelazione del Cristo” e tende quindi a ricondurre i momenti della storia d ’Italia a epifanie che da essa promanano. I criteri interpretativi che nelle altre opere di Penco, monaco e studioso oltreché ammiratore del monacheSimo, si presentano validi, rendono tuttavia povera di prospettive critiche e di nuovi contenuti di indagine la sua opera. Nettamente contrapposta all’opera di Penco, appare sia nella relazione di Cracco, che di Salimbeni (I contributi sulla storia religiosa nella “Storia di Italia”, Einaudi, pp. 79-105), la posizione storiografica di Giovanni Miccoli. Mentre Penco aveva sottolineato il carattere positivo della realtà ecclesiale, l’opera di Miccoli si pone come affermazione storiografica del continuo tradimento degli ideali evangelici che dai tempi si Silvestro I sarebbe
stato condotto dalla gerarchia ecclesiastica. Secondo Salimbeni la posizione di Miccoli, giustificata dal punto di vista personale, sul piano storico risulta incapace di documentare in modo convincente questa visione della Chiesa, anzi spinge a deviazioni interpretative dando eccessivo rilievo a fenomeni di dissenso, visti come manifestazioni di una crisi costante. Tuttavia la forte passione ‘religiosa’ che anima l’intervento di Miccoli e la serietà di una sintesi di un millennio di storia religiosa nazionale, si pongono come una sorta di provocazione a una discussione sulla istituzione ecclesiale in tutta la sua storia.
Tutte le relazioni si caratterizzano per il proporre interpretazioni ‘interne’ al dibattito sulla storia della Chiesa, riservando uno spazio minimo a riferimenti storiografici generali.
Paola Pirzio
Libri ricevuti
Philip Abrams, Sociologia storica, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 427, lire 30.000.
A. Albertazzi e G. Campanini (a cura di), Il Partito Popolare in Emilia Romagna, 1919-1926, voli. 3, Roma, Cinque lune, 1982, pp. 504, lire 20.000.
Aldo Albònico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d ’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Milano, Giuffrè, 1979, pp. IX- 402, lire 13.000.
U. Alfassio Grimaldi, G. Angelini, M.L. Cicalese, G. Lopez,
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P. Mosetti, D. Pinardi, S. Ripepi, I. Tacchinardi, La cultura milanese e l’Università popolare negli anni 1901-1927, Milano, Angeli, 1983, pp. 292, lire18.000.
Aa.Vv., Antifascisti romagnoli in esilio, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 848, lire 24.500.
Aa.Vv., Keynes, Torino, Cassa di Risparmio, 1983, pp. 175, sip.
Piero Bairati, Valletta, Torino, Utet, pp. 447, lire 38.000.
Claudia Bassi Angelini, Gli ‘accoltellatori’ di Ravenna (1865- 1875), Ravenna, Longo, 1983, pp. 249, lire 20.000.
Rosario Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Milano, Mursia, pp. 261, lire 14.000.
Camillo Bemeri, Mussolini grande attore, Pistoia, Edizioni dell’Archivio Famiglia Bemieri, 1983, pp. 105, lire 4.000.
Gaetano Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Palermo, Sellerio, pp. 309, lire 15.000.
Karl D. Bracher, La dittatura tedesca, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 745, lire 40.000.
Giampaolo Calchi Novati, La decolonizzazione, Torino, Loe- scher, 1983, pp. 257, lire 12.000.
Giorgio Canestri, Centoven- t ’anni di scuola in Italia. 1860- 1982, Torino, Loescher, 1983, pp. 95, lire 6.500.
Egisto Cappellini, ‘Marco’ racconta. Il PCI marchigiano nelle
memorie di un suo dirigente (1921-1956), Ancona, Edizioni Nuove ricerche, 1983, pp. 132, lire 11.000.
A. Cardillo, G. Gargiulo, A. Lezza, C. Papale, L. Parente, Giuseppe Garibaldi. 1805-1882. Storia, letteratura, immagine, S. Maria Capua Vetere, 1983, pp. VII-143, sip.
Stefano Casini, Alessandro Cavalieri, Alessandro Viviani, Next. Un modello dell’export toscano. Un’analisi econometrica disaggregata per prodotti e mercati esteri delle esportazioni toscane, Firenze, Le Monnier- Irpet, 1983, pp. 93, lire 4.000.
Alberto Cavaglion, Otto Wei- ninger in Italia, Roma, Canicci,1982, pp. 242, lire 7.500.
Innocenzo Cervelli, Liberalismo e conservatorismo in Prussia 1850-1858, Bologna, Il Mulino,1983, pp. 456, lire 30.000.
Roberto Chiarini, Paolo Corsini, Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco d ’ordine, neofascismo, radicalismo di destra a Brescia (1945-1974), Milano, Angeli, 1983, pp. 450, lire15.000.
Enzo Ciconte, A ll’assalto delle terre del latifondo. Comunisti e movimento contadino in Calabria (1943-1949), Milano, Angeli, 1981, pp. 287, lire 13.000.
Daniela Coli, Croce, Laterza e la cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 237, lire20.000.
Ferdinando Cordova, Democrazia e repressione nell’Italia di f i
ne secolo, Roma, Bulzoni, pp. 211, lire 15.000.
Pier Paolo D’Attorre (a cura di), Bologna città e territorio fra 800 e 900, Milano, Angeli, 1983, pp. 316, lire 20.000.
Andreina De Clementi, Politica e società nel sindacalismo rivoluzionario. 1900-1915, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 176, lire15.000.
Giovanni De Luna, Peppino Or- toleva, Marco Rivelli, Nicola Tranfaglia (a cura di), Gli strumenti della ricerca - Questioni di metodo, voli. 2, 2 tomi, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 1576, lire 54.000.
Andrea Devoto, L ’oppressione nazista. Considerazioni e bibliografia. 1963-1981, Firenze, Ol- schki, 1983, pp. XVI-204, lire26.000.
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Giancarlo Falco, L ’Italia e la politica finanziaria degli Alleati. 1914-1920, Pisa, Ets, 1983, pp. 120, sip.
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128 Rassegna bibliografica
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Spero Ghedini, Uno dei120.000, Milano, La Pietra, 1983, pp. 366, lire 16.000.
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Gianfranco Miglio, La repubblica migliore per gli italiani, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 157, lire 10.000.
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Pietro Nenni, Discorsi parlamentari (1946-1979), Roma, Camera dei Deputati, 1983, pp. XXX-808, lire 30.000.
Francesco Nicoletti, Cattolici e laici di fronte al decentramento regionale in Italia (1860-1968), Firenze, Le Monnier, 1983, pp. 190, lire 15.000.
Franco Pedone (a cura di), No- vant’anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del Psi. I, 1892-1914, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 460, sip.
Bruno Pellegrino, Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogiorno. L ’episcopato meridionale dall’assolutismo allo stato borghese 1860-1861, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1979, pp. 218, lire 10.000.
Giovanni Pesce, Il giorno della bomba. Racconti, Milano, Maz- zotta, 1983, pp. 268, lire 15.000.
Claudia Petraccone, Napoli moderna e contemporanea, Napoli, Guida, pp. 150, lire 4.700.
Ilaria Porciani (a cura di), Editori a Firenze nel secondo Ottocento, Firenze, Olschki, 1983, pp. XIV-520, sip.
Giovanna Procacci (a cura di), Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, Angeli, 1983, pp. 340, lire16.000.
Maurizio Rebershak, Il grande Vajont, voli. 2, Venezia, Comune di Longarone, 1983, pp. 117 + 268, sip.
Giovanni Rinaldi e Paola Sobre- ro (a cura di), La memoria che resta. Mito e storia di braccianti del basso Tavoliere, Foggia, Amministrazione provinciale di Capitanata, 1981, pp. 438, sip.
Alceo Riosa (a cura di), Biografìa e storiografia, Milano, Angeli, 1983, pp. 152, lire 10.000.
Enzo Santarelli, Le Marche dall’unità al fascismo, Ancona,
Rassegna bibliografica 129
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Cosmo Schiavo, Proprietà, lavoro e potere nel corso dell’Ottocento. Indagine su un paese campione del Cilento, Laurino Casalvelino, Galzerano, 1980, pp. 269, lire 10.000.
Luciano Segre, La ‘Battaglia’ del grano, Milano, Clesav, 1983, pp. 108, lire 7.000.
Giovanni Spadolini, L ’Italia di minoranza. Lotta politica e cul
tura dal 1915 ad oggi, Firenze, Le Monnier, 1983, pp. 428, lire20.000.
Jean René Suratteau, L ’idea di nazione dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, Roma, Il Bagatto, 1983, pp. 150, lire10.000.
Pietro Tino, Le campagne salernitane nel periodo fascista, Napoli, Esi, 1983, pp. 277, sip.
Leo Valiani, Scritti di storia. Movimento socialista e demo
crazia, Milano, Sugarco, 1983, pp. 637, lire 25.000.
Giorgio Vecchio, I cattolici milanesi e la politica, Milano, Vita e pensiero, pp. 560, lire 20.000.
Pasquale Villani, Trionfo e crollo del predominio europeo XIX- X X secolo, Bologna, Il Mulino. 1983, pp. 703, lire 30.000.
Leo Wollemborg, Stelle, strisce e tricolore. 30 anni di vicende politiche tra Roma a Washington, Milano, Mondadori, 1983, pp. 596, lire 20.000.
STU D I STO RICIn. 3-4 - luglio-dicembre 1983 - anno 24
Karl Marx 1883-1983Nicola Badaloni, Forme, soggetti, prassi rivoluzionaria;Eric J. Hobsbawm, Marx e la conoscenza storica:Jerzy Topolsky, Oltre il determinismo e il volontarismo: la concezione marxiana del processo storico-,Aurelio Lepre, La funzione della storia nell’opera di Marx\Ferenc Fehér, Le rivoluzioni francesi come modelli della concezione marxiana della politica-,Giorgio Mori, La genesi dell'industria;Roberto Finzi, Marx e la "teoria di quattro stadi"-,Alfonso M. Iacono, Sul concetto di “feticismo" in Marx:Mauro Di Lisa, Astrazioni e meccanizzazione-,Immanuel Wallerstein, Marx e il sottosviluppo-,Oskar Negt, Per un rinnovamento del marxismo: caratteri e prospettive-,Otto Kallscheuer, Note sullo sviluppo della teoria critica marxiana nella Repubblica federale tedesca;Gian Mario Bravo, L’opera di Marx in Italia fra fascismo e dopoguerra.
Libri ricevuti - Indice dell’annata
Spoglio dei periodici stranieri 1982di Franco Pedone
Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici:Australia: “Labour History”;Belgio: “Cahiers d’histoire de la seconde guerre mondiale”;Bulgaria: “Etudes balcaniques”; Cecoslovacchia: “Studia historica slovaca”;Francia: “Actes de la recerche en sciences sociales”, “Annales. Economies, sociétés, civilisations” , “Annales de démographie historique”, “Cahiers d’histoire” , “Cahiers d’histoire de l’Institut de recherches marxistes” , “Cahiers du monde russe et soviétique” , “Cahiers Léon Trotsky”, “Etudes rurales” , “Le mouvement social” , “Recherches”, “Relations internationales”, “Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale et des conflits contemporaines”, “Revue d’histoire moderne et contemporaine” , “Revue française de science politique”, “Revue historique”;Germania Rdt: “Beitrâge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, “Zeitschrift für Ge- schichtswissenschaft” ;Germania Rft: “Geschichte und Gesell- schaft”, “Historische Zeitschrift” , “Militâr- geschichtliche Mitteilungen”, “Neue Politi- sche Literatur” , “Vierteljahrschefte für Zeit- geschichte”;Gran Bretagna: “Comparative Studies in Society and History” , “The Economic History Review”, “The English Historical Review”,
“History Workshop”, “The Historical Journal” , “Journal of Contemporary History” , “Journal of Social Policy” , “New Left Review”, “Past and Present” , “Social History”;Jugoslavia: “Casopis za SuvremenuPovjest” , “Vojnoistorijski Glasnik” ;Olanda: “International Review of Social History”;Polonia: “Acta Poloniae Historica” , “Dzieje Najnowsze”, “Kwartalnik Historyczny” , “Studia historica slavo-germanica”, “Z Pola Walki” ;Romania: “Revue des études sud-est européennes” , “Revue roumaine d’histoire”;Spagna: “Revista de estudios internaciona- les” ;Svezia: “The Scandinavian Economie History Review and Economy and History” , “The Scandinavian Journal of History”; Ungheria: “Acta historica”;USA: “The American Historical Review”, “Explorations in Economic History” , “Journal of Family History”, “Journal of Asian Studies” , “The Journal of Economic History”, “Journal of History of Ideas”, “Journal of Interdisciplinary History” , “Journal of Latin-American Studies”, “The Journal of Modern History” , “Political Science Quarterly”, “Proceedings of the Academy of Political Science” , “Science and Society” , “Telos” ;
Rassegna bibliografica 131
Svizzera: “Schweizerische Zeitschrift für Ge- schichte” .
Lo spoglio è stato effettuato da Franco Pedone, con la collaborazione di Enzo Col
lotti, Stanislaw Sierpowski e Nanda Torcel- lan. Sono stati presi in considerazione anche alcuni numeri che al momento della stampa dei precedenti spogli non erano ancora usciti.
Storiografia
Marek Andrzejewski, La sintesi della storia del movimento operaio in Svizzera, in “Z Pola Walki” , a. XXV, n. 3-4, pp. 77-101.
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Andre Burgniere, The Fate o f the History o f “Mentalités” in the "A nnales”, in “Comparative Studies in Society and History”, voi. 24, n. 3, pp. 424-437.
Francis T. Butter, The Myth o f Perry Miller, in “The American Historical Review”, voi. 87, n. 3, pp. 665-694.
Barbara Caine, Beatrice Webb and the “Woman Question”, in “History Workshop”, n. 14, pp. 23-43.
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Communications (The) Revolution in Politics, Edited by Gerald Benjamin, in “Proceedings of the Academy of Political Science” , voi. 34, n. 4.
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Francisco Granell, Aproximación tipologica a la Organización Econòmica Internacional, in “Revista de estudios intemacionales” , n. 3, pp. 757-773.
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sprachingen Bereich. Ein Dberblick, in “Neue Politische Literatur”, a. 27, n. 1, pp. 20-46.
Horst Haun, Die Diskussion iiber Reformation und Bauernkrieg in der DDR-Geschichtswissenschaft 1952-1954, in “Zeitschrift für Ge- schichtswissenschaft” , a. 30, n. 1, pp. 5-22.
lise Heller, Zur Entwicklung der sovjetischen Geschichtswissenschaft in den Jahren 1917-1928, in “Beitrâ- ge zur Geschichte der Arbeiterbewe- gung”, a. 24, n. 5, pp. 700-709.
Josef Henke, Das Schicksal deut- scher zeitgeschichtlicher Quellen in Kriegs-und Nachkriegszeit. Beschla- gnahme - Rilckführung - Verbleib, in “Vierteljahrshefte für Zeitge- schichte” , a. 30, n. 4, pp. 557-620.
Josip Broz Tito nella bibliografia jugoslava e straniera, Studi di Z. Cepo, P. Strcic, M. Vasic, F. Fili- pie, V. Kljakovic, S. Cvetkovic, S. Koprivica-Ostric, V. Ostric, B. Jan- jatovic, D. Biber, B. Kasic, D. Bi- landzic, R. Lovencic, in “Casopis za Suvremenu Povjest” , n. 2, pp. 7-94.
John Keep, Emancipation by the Axe? Peasant Revolts in Russian Thought and Literature, in “Cahiers du monde russe et soviétique”, a. XXIII, n. 1, pp. 45-61.
Risto Kirlazovski, Un colpo d ’occhio retrospettivo sulla storiografia concernente la lotta di liberazione nazionale (1914-1945) e la Guerra civile nella Macedonia egea, in “Casopis za Suvremenu Povjest”, n. 3, pp. 97-110.
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Ursula Ratz, Arbeiterbewegung und Sozialpolitik. Neuerscheinungen zur
Geschichte der Arbeiterbewegung und Sozialpolitik in Deutschland, in “Neue Politische Literatur”, a. 27, n. 3, pp. 304-318.
Günther Rose, Manipulation als im- perialistische Herrschaftstechnik, in “Zeitschrift fur Geschichtswissen- schaft”, a. 30, n. 3, pp. 195-211.
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Gilles Vergnon, Du nouveau sur l ’histoire du P.C.F.?, in “Cahiers Léon Trotsky”, n. 9, pp. 75-84.
Moshe Zimmermann, A Road not Taken. Friedrich Naumann’s A ttempt at a Modern German Nationalism, in “Journal of Contemporary History” , voi. 17, n. 4, pp. 689- 708.
Rainer Zitelmann, Hitlers Erfolge- Erklarungsversuche in der Hitler- Forschung, in “Neue Politische Literatur”, a. 27, n. 1, pp. 47-69.
Al Zub, Nicola Jorga e l ’evoluzione dello spirito critico, in “Revue roumaine d’histoire”, a. XXI, n. 1, pp. 119-134.
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Pierre Favre, L ’absence de la sociologie politique dans les classifications durkheimiennes des sciences sociales, in “Revue française de science politique”, a. XXXII, n. 1, pp. 5-31.
Maurice Garden, Le bilan démographique des villes: un système complexe, in “Annales de démographie historique”, 1982, pp. 267-275.
Horst Haun, Die Entwicklung der Forschungsgemeinschaft “Doku- mente und Materialen zur Geschichte der deutschen Arbeiterbewegung” von 1950 bis 1953, in “Beitrâ- ge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a. 24, n. 4, pp. 514-521.
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Klaus Kinner, Methodologische Problème der Erforschung der theo- retischen Arbeit der KPD, in “Bei- trâge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a. 24, n. 1, pp. 3-13.
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Herbert Langer, Krieges Alltag und die Bauern. Bemerkungen und Er-
Rassegna bibliografica 133
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Ricerca (La) della storia del movimento comunista dal 1918 al 1941. Scritti di S. Koprivica-Ostric, V. Rajcevic, Z. Stipetic, M. Kolar-Di- mitrijevic, I. Jelic, L. Sklevicky, in “Casopis za Suvremenu Povjest”, n. 1, pp. 69-98 [a proposito del Partito Comunista Jugoslavo].
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Reba N. Soffer, Why do Disciplines Fail? The Strange Case o f British Sociology, in “The English Historical Review”, voi. 87, n. 385, pp. 767-803.
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Yolande Cohen, Avoir vingt ans en 1900. A la recherche d ’un nouveau socialisme, in “Le mouvement social” , n. 120, pp. 11-29.
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SOCIETÀ E STO RIAanno VI - n. 21, 1983
SommarioMariella Del Lungo, Aspetto dell’organizzazione sanitaria nella Genova del settecento: la cura delle malattie veneree', Giovanni Vigo, «...quando il popolo cominciò a leggere». Per una storia dell'alfabetismo in Italia-, Alessandro Polsi, Le amministrazioni locali postunitarie fra accentramento e autonomia: il caso del comune di Pisa (1860-1885)
Orientamenti e dibattitiMauro Moretti, La nozione di "Stato moderno" nell’opera storiografica di Federico Cha- bod: note e osservazioni; Gary lanziti, Storiografia come propaganda: il caso dei "Com- mentarii" rinascimentali', Luigi Donvito, Il primo settecento napoletano attraverso la biografia intellettuale del patrizio genovese Paolo Mattia Doria.
Beni culturali e organizzazione della ricercaTeresa Isenburg, Hospedaria de Imigrantes: una fonte per lo studio delle migrazioni.
Redazione'. Via Leone XIII, 27, 20145 Milano. Amministrazione e distribuzione: v.le Monza n. 106, 20127 Milano - Tel. 28.27.651 - Casella Postale 17175 - 20100 Milano. Abbonamento 1984: Italia L. 45.000 (pagando l'importo entro 30 giorni sconto di L. 2.000), estero L. 60.000, da versare sul c.c.p. 17562208 intestato a FAE Riviste s.r.l., Milano.