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Rassegna bibliografica Memoria operaia, vita quotidiana, fascismo di Dianella Gagliani Il lavoro di Luisa Passerini su Torino ope- raia e fascismo. Una storia orale (Roma-Ba- ri, Laterza, 1984, pp. 296, lire 24.000) rap- presenta uno dei maggiori contributi alla co- noscenza della classe operaia durante il fasci- smo e, senza dubbio, si pone, per le metodo- logie e le fonti usate, per i problemi posti e le conclusioni raggiunte — a prescindere da ogni concordanza con essi — tra i punti di ri- ferimento obbligati per quanti vogliano af- frontare lo stesso tema. Di più: l’analisi delle fonti orali come percorsi di memoria, l’at- tenzione all’ambivalenza di alcune forme mentali, il rapporto stabilito tra cultura ope- raia e cultura popolare, aprono problemi e terreni di ricerca che travalicano il periodo considerato. Asse portante della ricerca è la ricostruzio- ne della memoria operaia del fascismo. Lo spazio geografico è forse il più classico, Tori- no. Meno classici i testimoni. Non sono stati privilegiati i militanti politici del movimento operaio, quanto si sono presi in considera- zione lavoratori con appartenenze ideologi- che diverse, se non addirittura indifferenti od ostili alla politica. Dei 67 intervistati, in- fatti, solamente 11 si collocano tra gli attivi- sti di organizzazioni operaie o dell’associa- zionismo cattolico (rispettivamente cinque e sei): una scelta dettata, più che dalla volontà di raccogliere testimonianze percentualmente rappresentative della collocazione politico- ideologica della classe operaia torinese, dal fine della ricerca, che si proponeva di inclu- dere nell’analisi storica “la vita degli indivi- dui oscuri e comuni” e di dare spazio ad “aspetti non direttamente politici” ma propri dell’esperienza quotidiana (p. 3). Il problema della rappresentatività dei te- stimoni, di cui il gruppo più consistente ha vissuto l’esperienza di lavoro in periodo fa- scista, si pone anche per altri aspetti, come nota Luisa Passerini, ammettendo l’impossi- bilità di costruire con le fonti orali un cam- pione esaurientemente rappresentativo “per problemi di mortalità differenziata, di diva- rio nel tempo e di sfasatura irreconciliabile tra individui e processi generali” (p. 6). A confronto con le acquisizioni della storiogra- fia sulla classe operaia durante il fascismo, il gruppo degli intervistati è maggiormente “sperequato a favore di una classe operaia relativamente più stabile e privilegiata per più lunga permanenza nella città, qualifica- zione, scolarità di quanto fosse la classe ope- raia negli anni Venti e soprattutto Trenta” (p. 11). Ma questi limiti, non celati dall’au- trice, trovano un correttivo nel gruppo degli operai più giovimi (20) e delle donne (34) e, soprattutto, anziché intaccare, danno mag- gior forza alle conclusioni della ricerca, sul ricorso, da parte della classe operaia torine- se, a espressioni culturali arcaiche e sulla convivenza, sul piano della mentalità, di aspetti progressisti e aspetti conservatori. Si- gnificativa in questo senso la contrapposizio- ne Torino/Roma, che, mentre esalta valori regionalistici, con caratteristiche anche xeno- Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155

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Rassegna bibliografica

Memoria operaia, vita quotidiana, fascismodi Dianella Gagliani

Il lavoro di Luisa Passerini su Torino ope­raia e fascismo. Una storia orale (Roma-Ba- ri, Laterza, 1984, pp. 296, lire 24.000) rap­presenta uno dei maggiori contributi alla co­noscenza della classe operaia durante il fasci­smo e, senza dubbio, si pone, per le metodo­logie e le fonti usate, per i problemi posti e le conclusioni raggiunte — a prescindere da ogni concordanza con essi — tra i punti di ri­ferimento obbligati per quanti vogliano af­frontare lo stesso tema. Di più: l’analisi delle fonti orali come percorsi di memoria, l’at­tenzione all’ambivalenza di alcune forme mentali, il rapporto stabilito tra cultura ope­raia e cultura popolare, aprono problemi e terreni di ricerca che travalicano il periodo considerato.

Asse portante della ricerca è la ricostruzio­ne della memoria operaia del fascismo. Lo spazio geografico è forse il più classico, Tori­no. Meno classici i testimoni. Non sono stati privilegiati i militanti politici del movimento operaio, quanto si sono presi in considera­zione lavoratori con appartenenze ideologi­che diverse, se non addirittura indifferenti od ostili alla politica. Dei 67 intervistati, in­fatti, solamente 11 si collocano tra gli attivi­sti di organizzazioni operaie o dell’associa­zionismo cattolico (rispettivamente cinque e sei): una scelta dettata, più che dalla volontà di raccogliere testimonianze percentualmente rappresentative della collocazione politico­ideologica della classe operaia torinese, dal fine della ricerca, che si proponeva di inclu­

dere nell’analisi storica “la vita degli indivi­dui oscuri e comuni” e di dare spazio ad “aspetti non direttamente politici” ma propri dell’esperienza quotidiana (p. 3).

Il problema della rappresentatività dei te­stimoni, di cui il gruppo più consistente ha vissuto l’esperienza di lavoro in periodo fa­scista, si pone anche per altri aspetti, come nota Luisa Passerini, ammettendo l’impossi­bilità di costruire con le fonti orali un cam­pione esaurientemente rappresentativo “per problemi di mortalità differenziata, di diva­rio nel tempo e di sfasatura irreconciliabile tra individui e processi generali” (p. 6). A confronto con le acquisizioni della storiogra­fia sulla classe operaia durante il fascismo, il gruppo degli intervistati è maggiormente “sperequato a favore di una classe operaia relativamente più stabile e privilegiata per più lunga permanenza nella città, qualifica­zione, scolarità di quanto fosse la classe ope­raia negli anni Venti e soprattutto Trenta” (p. 11). Ma questi limiti, non celati dall’au­trice, trovano un correttivo nel gruppo degli operai più giovimi (20) e delle donne (34) e, soprattutto, anziché intaccare, danno mag­gior forza alle conclusioni della ricerca, sul ricorso, da parte della classe operaia torine­se, a espressioni culturali arcaiche e sulla convivenza, sul piano della mentalità, di aspetti progressisti e aspetti conservatori. Si­gnificativa in questo senso la contrapposizio­ne Torino/Roma, che, mentre esalta valori regionalistici, con caratteristiche anche xeno-

Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155

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fobe, e salda forme di unità tra operai e fa­miglia Agnelli, acquista pure, negli anni qui considerati, una valenza antifascista, di con­trapposizione al potere centrale.

Il continuo rapporto stabilito tra le imma­gini della memoria e la realtà fattuale, per cogliere tra i due piani concordanze o discor­danze, costituisce uno dei maggiori apporti alla ricerca storica offerto dal libro e una le­zione concreta di metodo riguardo eminente­mente all’utilizzo delle fonti orali, su cui, co­me è noto, Luisa Passerini ha dato uno dei maggiori contributi in termini di elaborazio­ne teorica e metodologica. Come l’autrice chiarisce fin dalle prime pagine, la fonte ora­le si presenta maggiormente pregnante quan­do ci si voglia accostare al piano delle menta­lità; senz’altro meno pregnante quando al centro si ponga la storia dei fatti, dei com­portamenti: per quest’ultimo terreno diventa necessario il confronto con altre fonti coeve.

In realtà, Luisa Passerini ha intrecciato fonte orale e fonte scritta (di massima, fonti del ministero dell’Interno e del ministero di Grazia e Giustizia, ma anche analisi e stati­stiche elaborate dai contemporanei) non solo nella parte del libro che affronta più diretta- mente il piano dei comportamenti (i capitoli Forme di accettazione sociale del fascismo, Resistenza demografica, La visita di Musso­lini a Mirafiori), ma anche nel capitolo Fa­scismo e ordine simbolico nella quotidianità, che analizza il piano delle mentalità e delle culture.

Ci sembra opportuno premettere, prima di considerare alcune conclusioni dell’autrice che ci paiono rivestire un particolare rilievo, che, per la fonte privilegiata, i temi trattati, i metodi seguiti, i risultati raggiunti, i proble­mi sollevati, il libro riveste il carattere dell’interdisciplinarietà, in cui si trovano coinvolte, oltre a quella più propriamente storica, metodologie proprie dell’antropolo­gia, del folclore, della critica letteraria, della psicologia: un lavoro pionieristico, dunque, che sarebbe di estremo interesse analizzare

attraverso un confronto con studiosi di disci­pline diverse. Questa premessa è utile non so­lo per illustrare più correttamente il volume, ma è necessaria per precisare il taglio parzia­le della nostra lettura che non potrà dare conto della ricchezza e dell’ampiezza dei pro­blemi discussi e di tutti gli spunti offerti per ulteriori ricerche.

Non ci si può sottrarre, comunque, a me­no di precludersi la comprensione della loro pregnanza come fonte storica, da una consi­derazione di ciò che è specifico e originale delle fonti orali raccolte con il metodo della storia di vita, analizzato da Luisa Passerini nel primo capitolo, La memoria di sé. Auto­biografìa e autorappresentazione. Nella for­ma del racconto, nel modo di presentarsi, gli operai torinesi usano dei tópoi, degli schemi narrativi che rinviano a tradizioni di media e lunga durata (la contrapposizione Torino/ Roma al momento del trasferimento della capitale; alcune forme del comico, popolare a temi analizzati dalla storiografia sulle cul­ture del Cinquecento europeo) e partecipano più di generi letterari precedenti la scrittura (la favola, il mimo, il dialogo, la satira) che non delle forme dell’autobiografia scritta. Il ricorso a stereotipi nell’autopresentarsi: “io sono nata ribelle” , “io ho fatto sempre delle vite che non posso dire”, “io ho sempre avu­to fortuna” fanno emergere espressioni di “identità senza sviluppo”, proiettate in un tempo assoluto, in cui passato presente e fu­turo sono incorporati l’uno nell’altro. Ciò solo nel racconto orale, perché gli stessi sog­getti, richiesti di scrivere la loro storia, usano nella scrittura i moduli proprio dell’autobio­grafia scritta, presentandosi inseriti in uno sviluppo storico.

Muovendosi su questo terreno con molte cautele e sensibilità, Luisa Passerini, più che risposte definitive e univoche, trova nella fonte utilizzata elementi per correggere inter­pretazioni consolidate, come quella di Lu- kacs sull’evoluzione progressiva dall’epos al romanzo. Le forme culturali ed espressive

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delle autopresentazioni, che mostrano tracce di pensiero mitologico e magico, non si pos­sono ridurre a “scalini verso altre forme suc­cessive” e più alte, a meno di precludersi la comprensione della cultura di ampi strati so­ciali e del contributo a “trasmettere il senso della continuità umana della storia” — non come processo evoluzionistico, ma come “percorsi che includono, oltre al lungo lavo­ro ripetitivo, rotture, salti e sdoppiamenti” (pp. 71-73). E la stessa fonte consente di cor­reggere l’interpretazione di Asor Rosa sulla penetrazione di valori della piccola borghesia nella letteratura populista (pp. 20-21). Il pro­letario eroico che non ammette incrinature di quel filone trova un referente nella tradizio­ne popolare e folclorica e si ritrova nell’iden­tità senza sviluppo dell’autorappresentazio- ne operaia; ma, ad esso è stata amputata l’al­tra fronte, quella che oppone la risata al pianto, il comico al tono alto, l’irriverenza al rispetto dei valori. Si può parlare allora, per la letteratura populista, di una riduzione del­la ricchezza, della profondità e della ambiva­lenza della cultura popolare e operaia — che, come vedremo, tenterà di operare anche il fascismo —, non già di una completa estra­neità ad essa.

Dopo aver sottoloneato che gli stereotipi narrativi sono legati al sesso, all’età e a per­corsi di vita individuali (le donne si presenta­no come “sempre ribelli”, i più giovani come “sempre capaci di divertirsi”, i militanti co­me “capaci di aver fatto una scelta e di esser­si saputi sacrificare per essa”), l’autrice met­te in evidenza la sfasatura, all’interno di una stessa intervista, tra l’immagine di sé offerta dal testimone nel presentarsi e altre parti del racconto, in cui, come nella biografìa narra­ta di Carolina (pp. 21-25), ‘Tesser stata sem­pre ribelle” si coniuga con l’accettazione di ruoli tradizionali e subalterni.Viene qui in­trodotto uno dei leit-motiv del libro, il rap­porto tra il piano simbolico e il piano reale, la cui tensione, in una storia della cultura, non può essere risolta nella eliminazione di

ciò che non è ‘vero’, secondo una imposta­zione positivistica che ci precluderebbe la comprensione del piano simbolico, delle cre­denze e di una visione del mondo che è parte integrante di quella cultura. Vanno invece colti i diversi piani, presenti in una medesima intervista, attraverso un uso critico della stessa capace di evidenziare le contraddizioni presenti, e, nello stesso tempo, attraverso un confronto tra le diverse biografie narrate e i documenti scritti coevi. Questo procedimen­to metodologico permette all’autrice di veri­ficare atteggiamenti antifascisti ed espressio­ni che rinviano a una cultura popolare di più antica data e comportamenti di accettazione del fascismo che si richiamano a valori pree­sistenti il fascismo stesso, e, contemporanea­mente, di cogliere le novità introdotte dal fa­scismo come movimento, come regime, co­me Mussolini.

Già questo primo capitolo pone il proble­ma, che nelle parti successive verrà ripreso con più forza, del rapporto tra cultura ope­raia e cultura popolare e della parzialità e ri- duttività di ipotesi che le separino nettamen­te. Il legame stabilito tra le due culture — la cui caratterizzazione autonoma andrebbe maggiormente precisata, ma risulta fonda- mentale il contributo qui dato al problema — non ha il significato di una ricerca della “purezza operaia” attraverso il recupero del­le origini, con il rischio, risalendo all’indie- tro nel tempo, di “arrivare al contadino”, come ha notato Rieser criticando alcune ten­denze storiografiche degli studi sulla classe operaia (A proposito di memoria storica e coscienza di classe “Quaderni piacentini”, 1982, n. 4). L’analisi di Luisa Passerini è più complessa e, se le è totalmente estranea una concezione eroica della classe operaia a par­tire da una visione classocentrica, non è tara­ta all’origine dalla volontà di riscoprire pas­sati aurei. L’accento posto sull’ambivalenza di alcune forme ideologiche, che possono ri­vestire caratteri di progresso ma anche carat­teri di conservazione, fa risaltare la distanza

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di Torino operaia e fascismo da quelle pre­messe.

Nel saggio Soggettività operaia e fascismo: indicazioni di ricerca dallefonti orali (“Anna­li” , Fondazione G.G. Feltrinelli, 1979/80) già emergeva questo tema riguardo all’ideolo­gia del lavoro: il valore della professionalità, negli anni del fascismo, si caricava di conte­nuti conservatori e antidemocratici, già pre­senti in età liberale ma offuscati e inseriti in una lotta di rinnovamento. In Torino operaia e fascismo l’argomento viene ripreso (pp. 160-167), ma colto più problematicamente e soprattutto non dà luogo alle conclusioni là emerse di un “consenso quotidiano” al fasci­smo. Lo scavo in profondità che Luisa Passe­rini ha svolto sulle fonti orali e sulla cultura operaia ha arricchito quel quadro e smussato gli angoli propri di un lavoro di rottura come era il saggio sugli “Annali” Feltrinelli.

Negli ultimi tre capitoli del libro, in cui si analizza il rapporto tra gli atteggiamenti mentali e i comportamenti reali, i valori lega­ti alla quotidianità non hanno solo un risvol­to conservatore, rivestono un duplice carat­tere. Se consideriamo il tema della maternità (il capitolo è già apparso su questa rivista nel n. 151/152, con il titolo Donne operaie e aborto nella Torino fascista) verifichiamo che le donne, la cui resistenza alla politica demografica del regime è stata reale — ri­scontrabile, se pur parzialmente, anche dalle fonti coeve — rivelano nella narrazione, in­sieme alla forza decisionale di regolare la propria capacità riproduttiva in antitesi alle norme fasciste, un atteggiamento subalterno a quei valori, quando dipingono altre donne, generalmente di un’altra classe sociale o le­gate politicamente al fascismo, come deboli e incapaci fisicamente. “Sono forte da quel la­to lì come mia mamma, invece vedo delle belle signore che non riescono a comperare”, racconta Fiora parlando dei suoi falliti tenta­tivi di aborto (p. 187). “E quelli lì volevano un maschio, non una femmina. So che in quel giro lì [vicinato] c’è nato di maschi solo

il mio e mio nipote. Tutte bambine!” , si vanta Carmen, ricordando con una certa superiorità la delusione di una famiglia di fascisti di fronte alla nascita di una bambi­na (p. 188).

Nelle pieghe di alcune testimonianze, di fronte a una esplicita affermazione di antifa­scismo, compaiono riferimenti all’accetta­zione di pratiche fasciste, quali la divisa, spe­cialmente per le donne, di forme assistenzia­li, come le colonie estive per i bambini, e una valutazione sostanzialmente positiva del ruo­lo d’ordine del fascismo (pp. 155-160). Ri­prendendo alcuni giudizi di Isnenghi sul fa­scismo che non inventa ma recupera e inne­sta nel suo sistema di equilibri “modi di esse­re e di pensare preesistenti”, funzionali al suo dominio, l’autrice si chiede in quale mi­sura i tradizionali valori d’ordine, “la fami­glia, l’etica del lavoro e del sacrificio, il ri­sparmio, il senso di appartenenza locale” ab­biano influito nel creare un consenso al fasci­smo (p. 159). La risposta è complessa e non univoca.

Certo, è possibile, ammette l’autrice, usa­re le fonti orali con fini di supporto rispetto alla storiografia esistente. Questa, tuttavia, sarebbe una operazione riduttiva nei con­fronti delle testimonianze, che hanno nuovi spunti da offrire per ulteriori ricerche e rive­lano percorsi più ricchi e meno lineari, non riducibili ad un appiattimento sulle categorie consenso/dissenso. Illuminante è, al riguar­do, il paragrafo sulle Mediazioni (pp. 167- 175) nel quale è testimoniata la ricerca da parte degli operai torinesi di un modus viven­di con il potere fascista, con il quale essi scendono a compromessi — accettando l’ine­vitabile, ma anche legittimando quel potere —, tali, tuttavia, da garantire ad essi la con­servazione dell’identità antifascista. La ma­dre di Arturo Gunetti ottiene la promozione del figlio — bocciato all’esame di terza ele­mentare dal maestro, acceso fascista, perché unico allievo non iscritto ai Balilla — attra­verso la complicità, fondata sulla comune

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antipatia per i fascisti, con la direttrice della scuola, che consiglia l’iscrizione del ragazzo a quella organizzazione giovanile. Il fastidio e le difficoltà create, specialmente al padre, dal presentarsi di Arturo in divisa, per di più di fronte ai parenti, decisi antifascisti, ven­gono in qualche misura temperati dalla rico­nosciuta necessità di salvare la carriera scola­stica del figlio e dal ribadire la propria collo­cazione antifascista. L’arrendersi nella sfera pubblica alle regole del gioco viene compen­sato dal mantenimento nella sfera privata della propria scelta ideologica, che fa appari­re “momentanea e tattica quell’accettazio­ne” (p. 170).

Naturalmente, anche fra i testimoni, è pre­sente chi non si è adeguato e ha pagato la scelta di un compromesso con il carcere, le menomazioni fisiche, la continua violenza. Questa coerenza, tuttavia, non può essere considerata rappresentativa dalla maggio­ranza degli operai torinesi che scelse la me­diazione con il regime, per la quale la fami­glia giocò come potente arma di ricatto e nel­la quale un ruolo centrale fu svolto dalle donne. Ma, accanto ad esse, troviamo altre figure di mediatori, un capocasa, un fiducia­rio di reparto, un milite, che si avvalgono delle loro posizioni di piccolo potere per aiu­tare o non danneggiare gli stessi antifascisti; oppure fascisti corrotti che instaurano o per­petuano rapporti di tipo clientelare.

Il reticolo dei rapporti di mediazione, su cui in parte si innesta il fascismo ma preesi­stente e in qualche misura autonomo rispetto ad esso, pone il problema del grado di totali­tarismo del fascismo italiano, della sua capa­cità di penetrazione in tutte le pieghe della società. Certamente, furono fatti dal fasci­smo italiano tentativi di introdursi nella vita privata dei singoli, per destrutturarla, e di spezzare i legami di solidarietà interni al vici­nato e alla fabbrica, utilizzando il sospetto e la delazione, allargando i confini della sfera pubblica per inserirvi momenti fino ad allora propri di quella privata, dal canto alla bar­

zelletta all’imprecazione. Ma contempora­neamente si assiste a un restringimento dei confini della sfera pubblica in quanto sono relegate nella clandestinità le espressioni po­litiche dei partiti di opposizione, ogni mani­festazione esterna al regime, fino al più pic­colo commento sulla politica interna e inter­nazionale (pp. 175-180).

Fino a qual punto abbiano giocato nel mo­dificato rapporto tra pubblico e privato, così acutamente analizzato e problematizzato da Luisa Passerini, le organizzazioni di massa del regime non si è in grado di stabilire. Dal quasi totale silenzio delle fonti orali e dalla non accentuazione dell’autrice sul loro ruolo si dovrebbe concludere che esse non abbiano rappresentato una alternativa e una reale so­stituzione agli organismi politici ed economi­ci preesistenti. Anche se, va rilevato, sarebbe stata senz’altro utile una caratterizzazione, ad esempio, del ruolo del sindacato nei rap­porti quotidiani, filtrato attraverso le fonti di memoria.

È necessario, tuttavia, precisare che sareb­be fuorviante un giudizio su Torino operaia e fascismo basato sulle assenze e sulla pretesa di una descrizione a tutto tondo della condi­zione operaia tra le due guerre. Non solo per­ché il percorso segue il filo della memoria (e che il mosaico non sia completo di ogni sua tessera, è ben presente all’autrice), ma so­prattutto perché in una analisi di frontiera è una assurda pretesa la richiesta di una rico­struzione che proceda secondo le partizioni classiche della narrazione storica. D’altra parte, le assenze sono compensate da ben più corpose presenze, che non si ritrovano in gran parte, se non totalmente, delle ricostru­zioni sulla classe operaia (e non solo in perio­do fascista) e sono in grado di essere mag­giormente esplicative del rapporto masse-fa­scismo di molta letteratura storiografica.

Abbiamo già accennato al contributo al dibattito su consenso /dissenso, alla messa in discussione delle due categorie a partire dalla complessità e dagli intrecci diversi tra forme

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mentali e forme comportamentali. La resi­stenza oggettiva delle donne alla politica de­mografica del regime si combina anche con espressioni ideologiche subalterne a quei va­lori; l’accettazione sociale di alcune regole del sistema (ad es. la ricordata iscrizione di Arturo Gunetti all’Opera nazionale balilla) si combina con una affermazione di princìpi antifascisti. Nella pratica quotidiana e nei confronti del regime, dunque, il piano della mentalità e il piano dei comportamenti non seguono sempre il medesimo percorso: il pri­mo legato a valori antifascisti, il secondo all’adattamento al regime nella pratica; essi si intersecano e, a volte, si rovesciano; come pure, da una analisi interna al piano della mentalità si riscontrano valori di segno op­posto, e da una analisi del piano fattuale comportamenti di segno opposto.

Un ulteriore contributo al dibattito è of­ferto dal capitolo Fascismo e ordine simboli­co, in cui sono prese in considerazione le rea­zioni al fascismo nella quotidianità, i piccoli gesti che diventano oppositivi di fronte a un regime che li vieta e li punisce. In una effica­ce ricostruzione, che congiunge fonti orali e fonti scritte, l’autrice evidenzia la reazione culturale operaia alla omogeneizzazione, la resistenza sul piano simbolico al tentativo di irreggimentazione e disciplinamento del fa- scimo. La novità di questo capitolo, insieme alle conclusioni cui perviene, è rappresentata dal tipo di materiale archivistico utilizzato, che abbonda per gli anni del fascismo nel fondo del ministero dell’Interno all’Archivio centrale di Stato, ma che è stato finora poco considerato dalla storiografia per preclusioni interpretative. Ora, se è vero che la ricerca non deve per forza indirizzarsi là dove i fon­di di archivio sono più massicci, è altrettanto vero che, in assenza di distruzioni, la consi­derazione del rapporto quantitativo tra le fonti non può essere elusa. Per un soggetto quale lo Stato, essa ci fa cogliere la gerarchia dei valori e le modalità dell’intervento politi­co e, nel caso specifico, il grado e la capillari­

tà del controllo sociale, contribuendo a di­stricare quel nodo del rapporto tra sfera pub­blica e sfera privata intorno al quale, per quanto si riferisce alla repressione politica, alcune prime osservazioni di rilievo sono sta­te offerte da Paola Carucci (La repressione politica. Problemi di ricerca, Intervento al convegno su “Presenza e attività dell’antifa­scismo a Firenze”, dicembre 1979).

È interessante notare che Luisa Passerini giunge a cogliere la rilevanza di questo mate­riale a partire dalle fonti orali, in cui l’ac­centuazione dell’episodio aneddotico, come espressione di antifascismo culturale che coinvolge un intero gruppo sociale, trova una convergenza nell’azione di polizia che riduce quelle manifestazioni a forme di dis­senso politico. Vengono così criminalizzate la scritta sui muri o nei gabinetti, il motto di spirito, la barzelletta, il canto, l’imprecazio­ne, e qualsiasi indumento di color rosso sca­tena una “vera e propria guerra dei colori” (pp. 120-127). Si tratta di espressioni che, precisa l’autrice, se confrontate con i grandi “fatti” perdono il loro spessore e il loro si­gnificato, ma che sarebbe riduttivo giudicare come “ribellismo generico” e accantonarle in una ricostruzione della coscienza di classe operaia tra le due guerre (cfr. i saggi di Gianpasquale Santomassimo su questa stes­sa rivista (n. 140) e di Giulio Sapelli nella Storia del movimento operaio del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol. Ili, Ba­ri, De Donato, 1980).

Molto più sensibile su questo versante, la letteratura antifascista del quindicennio postliberazione considerava i caratteri e la violenza del fascismo nell’ingerirsi nella sfe­ra dei sentimenti e del costume e metteva in rilievo “gli aspetti simbolici del fascismo e della resistenza ad esso” (p. 75). Queste for­me della reazione operaia, se non vanno im­mediatamente interpretate come antifasci­smo politico e se da esse non si possono trar­re conclusioni sull’alterità sostanziale della classe operaia nei confronti del fascismo,

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vanno tuttavia considerate come tentativi di difesa di una identità culturale e di contrap­posizione, sul piano simbolico, di una visio­ne del mondo a un’altra. Certamente non va trascurata la cornice in cui si situano queste forme e che definisce la sconfitta e la debo­lezza della classe operaia, ridotta ad espri­mersi in modo monco e balbuziente, senza la possibilità di dispiegare le sue potenzialità e di crescere culturalmente e politicamente. Ma fino a qual punto l’uso del linguaggio fa­scista, come terminologia e schemi, per stra­volgerne il significato, l’irrisione del potere e delle sue espressioni più assurde ma anche più imposte, il vestire la maschera dello sciocco che fingendo di non sapere ridicoliz­za chi pretende di sapere, possono essere de­finiti una “regressione” culturale? La rispo­sta di Luisa Passerini è complessa e conside­ra, insieme agli aspetti di arretramento e di impoverimento culturali, il valore rivestito da queste forme “arcaiche” nel creare un fronte di difesa dietro il quale trincerarsi per riaffermare una identità culturale e “valori universali compromessi da processi materiali e culturali” (pp. 151-152). La vitalità di que­ste espressioni “più antiche” richiama, inol­tre, “gli insegnamenti di antropologi e di fol­cloristi da un lato e di psicologi dall’altro” sull’impossibilità di “interpretare le culture ‘altre’ o l’inconscio come fasi superate una volta per tutte dalle culture successive o dall’io” (p. 151) e mostra la trascuratezza della cultura del movimento operaio — so­cialista, comunista, anarchica — “di fronte ai lati ‘oscuri’ dell’individuo e della specie, che comprendono le tradizioni magiche così come l’universo psicologico” (p. 5). Ma an­che su questo versante sarebbe necessaria una ricostruzione che individuasse il momen­to della circolarità, e cioè del travaso (o del recupero) di forme culturali popolari nella cultura socialista.

L’interpretazione del fascismo come onta, vergogna, male assoluto, quale emerge dalle fonti orali, che riprendono inconsapevol­

mente l’interpretazione crociana, sfrondata del versante ideologico di difesa del modello liberale, trova una sua verità nella storia della classe operaia torinese (e non solo in essa), che, mentre cercava di mantenere la sua iden­tità, scendeva a compromessi con il regime. Da qui anche la spiegazione dei silenzi e delle rimozioni sul periodo fascista di molte testi­monianze e del sospiro di sollievo e liberazio­ne degli intervistati quando narrano del bien­nio rosso o del triennio 1943-45, che segna il riscatto da quell’onta. Ma quella interpreta­zione proviene anche dalla consapevolezza dell’impoverimento e della destrutturazione della propria cultura operati dal fascismo, di cui l’autrice fornisce alcune esemplificazioni calzanti quando individua nell’uso dell’olio di ricino, nell’immagine di Mussolini e nella ripresa da parte del regime delle tradizioni folcloriche un recupero di elementi propri della cultura popolare, depotenziati, tutta­via, delle loro ambivalenze. L’effetto del­l’olio di ricino e il riso che ne può derivare ri­chiamano la tradizione comica popolare, di cui ancora, se pur parzialmente, partecipa la cultura operaia, ma l’abbassamento al corpo­reo, alla terra, di questa ha un doppio segno: nega e afferma nello stesso tempo, distrugge e resuscita (M. Bachtin); mentre quell’abbas­samento contiene solo la morte e il riso susci­tato diventa piuttosto il ghigno che si schiera con il potere, secondo la definizione di Th. Adorno (pp. 106-7 e 117). Una analoga ridu­zione si registra nella campagna fascista di re­cupero delle tradizioni folcloriche, in cui il patrimonio culturale popolare viene destrut­turato con la formalizzazione e l’imbriglia­mento dei caratteri, ad esempio, della festa, di cui ogni momento è irrigidito di una regia prestabilita. Per gli operai torinesi intervistati il fascismo è dunque “il male” sia per la vio­lenza fisica da esso esercitata, sia soprattutto per l’aggressione psicologica e culturale alle espressioni della loro identità, sia per il tenta­tivo, in parte riuscito, di coinvolgerli e irretir­li nel suo sistema di valori.

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Da qui il piacere della maggioranza degli intervistati di raccontare la visita di Mussolini a Mirafiori del 15 maggio 1939, che nella me­moria operaia acquista il significato di un ri­scatto che anticipa e si collega con la lotta di Resistenza. La rottura dello schema dialogico mussoliniano, con il non esprimere coral­mente quel “sì” imposto dalla classica do­manda retorica “Ricordate il discorso di Mi­lano?”, è interpretata dai testimoni come espressione collettiva di dissenso. Solo un mi­gliaio dei 50.000 operai presenti avrebbe ri­sposto e applaudito, e su questa notizia le ri- costruzioni confidenziali dell’epoca coinci­dono sostanzialmente con il ricordo di oggi. Ma la memoria, anticipando di frequente l’episodio al 1938, vuole scollegare quel silen­zio massiccio dalla insoddisfazione per i provvedimenti in materia previdenziale del regime e specialmente dalle reali preoccupa­zioni per una guerra incombente: storicizzan­dolo, l’evento perderebbe la valenza di anti­fascismo assoluto, di contrapposizione totale con il regime. “Esso invece deve essere tra­mandato come il segno di un’identità cultura­le che perdura anche nel fondo del periodo fascista e come la base di un’interpretazione della storia lungo queste linee” (p. 245).

Il capitolo sulla visita di Mussolini a Mira- fiori (comparso, contemporaneamente alla pubblicazione italiana, in edizione francese in “Le Mouvement social”, 1984, n. 126) ha una sua specificità nel contesto generale del libro, dimostrando, rispetto a un evento chia­ramente datato, l’apporto della fonte orale rispetto alla fonte scritta. Sulla descrizione della visita, limitatamente al discorso del dit­tatore, vi è convergenza tra le due fonti. Le testimonianze scritte aiutano a meglio situare l’avvenimento nel contesto storico, caratte­rizzato dai preparativi dell’alleanza militare con la Germania e dall’introduzione di un prelievo fiscale per un allargamento della pre­videnza sociale; la memoria operaia deconte­stualizza l’episodio e, fissandolo per la sua eccezionalità, lo rende esemplificativo di una

identità che non ha soluzioni di continuità con il passato e con il futuro, trasmettendoci una immagine di sé che non accetta e vuole ri­muovere l’inquinamento delle coscienze ope­rate dal fascismo, ma che nello stesso tempo “prefigura una disposizione alla libertà” (p 246).

Una domanda ci segue da quando si è ini­ziata la lettura di Torino operaia e fascismo: a quale campo della ricerca storica esso ap­partenga. Una domanda che risente delle dif­ficoltà della storiografia di fare i conti, nel modo concreto di fare storia — al di là di un comune accordo sulla necessità di un con­fronto, per un ampliamento degli orizzonti della ricerca e per una maggiore profondità nell’analisi — con nuovi approcci e con meto­dologie proprie di altre discipline. Volendo dare una risposta univoca, si può collocare il libro nella storia delle culture e delle mentali­tà e, per il suo soggetto, inserirlo anche nel contesto della storia operaia, intesa non tra­dizionalmente come storia del movimento operaio organizzato, ma nel significato più ampio di una storia sociale che tenga presen­ti, a un tempo, i piani delle rappresentazioni mentali, dei valori morali e culturali, e dei comportamenti. Ma se accettiamo la defini­zione di Marc Bloch dei Re taumaturghi co­me “un contributo alla storia politica dell’Europa, in senso lato nel senso esatto del termine” — perché “occorre anche penetrare le credenze e le leggende che fiorirono attor­no alle case principesche” — e rifiutiamo una interpretazione della storia politica come esclusiva storia delle organizzazioni partiti­che e dei gruppi dirigenti, non possiamo escludere il libro di Luisa Passerini da questa storia. D’altra parte, per il metodo seguito e i soggetti sociali analizzati non si possono trac­ciare linee nette di demarcazione tra cultura, vita quotidiana e sfera politica. Si assiste, in­fatti, a una osmosi tra i due piani: ambiti pro­pri della quotidianità si politicizzano, ambiti propri della politica si privatizzano, e il lega­me tra i due momenti emerge anche là dove si

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verifica Pincontro-scontro tra forme culturali popolari e fascismo, illuminando il rapporto tra masse e potere.

L’analisi, attraverso la storia orale, della classe operaia nelle sue relazioni quotidiane e nelle sue rappresentazioni non può non ride­finire “la gerarchia delle rilevanze” nella sto­ria e non mettere in discussione la divisione

tradizionale dei campi della ricerca. Anche per queste implicazioni teoriche e metodolo­giche, che investono la disciplina storica nel suo complesso, Torino operaia e fascismo rappresenta un contributo che supera l’ambi­to territoriale e lo spazio temporale conside­rati.

Dianella Gagliani

“Tristi rottami di un triste passato”di Luciano Casali

Preceduta e accompagnata da un adeguato battage pubblicitario, la “vera storia” di co­me il 25 luglio 1943 sia caduto il fascismo (nel­la versione dell’uomo “da sempre” amico-ne­mico di Mussolini) è divenuta immediatamen­te un vero e proprio best seller ‘storiografico’. Le memorie di Dino Grandi (25 luglio. Qua­rantanni dopo, introduzione di Renzo De Fe­lice, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 501, lire 30.000), sedicente fascista antidittatoriale, giunte nelle edicole e nelle librerie da buone ultime, a conclusione di una serie di scoop storico-giornalistici che, negli ultimi anni, hanno riempito il mercato con i diari e le rive­lazioni di tutti i principali gerarchi (e dello stesso clima fanno parte anche i falsi diari di Hitler e le raffazzonate pagine di Goebbels) hanno trovato una accoglienza ed un favore di vendita certamente proporzionata, all’im­portanza del personaggio, ma accresciuti dal­la speranza di rivelazioni di cui probabilmen­te il ‘conte Grandi’ è depositario, ma che si è ben guardato dal rendere di pubblico domi­nio. D’altra parte l’immagine, avallata anche da Renzo De Felice, di un uomo la cui azione era stata determinante per allontanare dopo vent’anni Mussolini dalla presidenza del Con­siglio dei ministri, ma che per quarant’anni aveva sostanzialmente taciuto (p. 8) conser­vando per sé solo i segreti legati alle ‘dimissio­

ni’ del duce, era stata accuratamente costrui­ta, creando aspettative e curiosità.

Va ricordato come la presentazione “obiet­tiva” (o meglio: acritica) dei vari memoriali fascisti succedutisi ultimamente (da Ciano, a Bottai, a De Marsico, a Cianetti) aveva obiet­tivamente creato un clima di viva attesa per il pezzo giudicato più importante per completa­re il ricco mosaico che ha sostituito l’autorap- presentazione del ventennio allo studio ed alla analisi portati avanti con gli strumenti della critica storica. E, in quest’ultimo caso, le pa­gine di Grandi hanno raggiunto lo scopo di accreditarlo come un “simbolo dell’antifasci­smo” (p. 12), senza aggiungere nulla a quanto lo stesso Grandi, negli ultimi venticinque an­ni, aveva raccontato in numerosissime inter­viste attraverso le quali aveva già accurata­mente costruito una propria immagine pub­blica antidittatoriale ed aveva già definito praticamente tutti i particolari (reali o di fan­tasia) inerenti alla preparazione e allo svolgi­mento della ‘notte del Gran Consiglio’.

Oltre all’articolo (firmato) su “Epoca” del 18 aprile 1965, Dino Grandi ha concesso ripe­tutamente interviste; la prima, se non andia­mo errati, comparve sul “Corriere della sera” già il 9 e 10 febbraio 1955 e fu raccolta da In­dro Montanelli; l’ultima, firmata da Gian­franco Bianchi, è su “Il Giorno” del 23 luglio

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1982. Ma anche “Il Messaggero” (7 marzo 1967), il “Corriere d’informazione” (31 ago­sto e 1° settembre 1963), “Il Tempo” (21 lu­glio 1960), “Oggi” (7 maggio 1959, 4 giugno 1959, 7 giugno 1973), “La Domenica del Corriere” (23 gennaio 1968) e altri quotidiani e periodici hanno avuto ripetutamente la possibilità di “rivelare per la prima volta uno dei maggiori enigmi della storia del nostro Paese” (S. Bertoldi, Dino Grandi racconta dopo trent’anni di silenzio, in “Oggi”, 7 giu­gno 1973).

È senz’altro vero che, per le reiterate di­chiarazioni e interviste concesse, Grandi è stato al centro dell’attenzione dei mass me­dia ed ha usato ampiamente tali strumenti per diffondere la propria versione degli avve­nimenti legati al 25 luglio, oltre che per co­struire una immagine di sé calibrata e pesata dalla decennale esperienza di un consumato diplomatico: una vera e propria immagine oleografica.

Ricordava nel giugno 1981 Mario Zambo­ni, “amico fraterno” e collaboratore “fede­lissimo” di Grandi: “Le due bombe a mano che melodrammaticamente Grandi aveva raccontato di avere portato con sé in Gran Consiglio, tanto da passarne una al qua­drumviro Cesare Maria De Vecchi quando sembrava che la situazione volgesse al peg­gio, non sono mai esistite” (Dino Grandi rac­conta l ’evitabile Asse, Milano, Jaca Book, 1984, p. 233).

Ma non si tratta di una semplice invenzio­ne, aggiunta agli avvenimenti per dare un po’ di colore alla narrazione: essa è una parte profondamente integrata nella versione ed interpretazione grandiane del 25 luglio. Tan­to è vero che la versione pubblicata ora è an­cora più melodrammatica di quella presenta­ta da Gianfranco Bianchi (25 luglio crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963, pp. 506- 507): “Ci siamo — dico piano a De Vecchi che mi siede vicino —, sta per arrivare il mo­mento di vendere cara la vita. De Vecchi fa cenno di sì e accetta volentieri una delle due

bombe a mano che avevo con me e che gli passo sotto il tavolo” (p. 266).

Fu lui, Grandi, assieme ai diciannove fir­matari dell’ordine del giorno, che si sacrificò e, rischiando la vita, fu sul punto di essere passato per le armi a Palazzo Venezia nel tentativo (riuscito) di abbattere la dittatura e riportare la democrazia in Italia “ascoltando la voce del popolo” che era “contro la ditta­tura e contro la guerra” . Non ci fu alcun me­rito da parte degli antifascisti (“i più grandi attendisti...di venti anni interi”): “Essi [gli antifascisti] scrivevano, parlavano, incitava­no, ma non risulta che alcuno di essi si sia giammai offerto di lasciarsi trasportare e de­porre da aereoplani Alleati su un posto qual­siasi del territorio nazionale per organizzare, accelerare, comandare la rivoluzione popola­re. Nessuno arrischiò la propria vita prezio­sa. Seduti in comode poltrone nelle antica­mere degli uffici di propaganda in Londra e New York, ovvero di fronte al microfono lontano, i grandi esuli contavano i mesi ed i giorni che ancora li separavano dal giorno fatale della inevitabile sconfitta dell’Italia per sopraggiungere (...). Comparvero baldi e rumorosi il 26 luglio per riacquattarsi nuova­mente in cantine e conventi l’8 settembre, ri­comparendo poscia baldanzosi quando le di­visioni motocorazzate del gen. Clark entra­vano in Roma e le retroguardie tedesche si ri­tiravano oltre il Tevere per la via Flaminia verso nord” (p. 327).

I fascisti, dunque, salvarono l’Italia, per la seconda volta, come l’avevano salvata nel 1920-22; anche se il “perfido regime antifa­scista” instaurato da Badoglio (ma Grandi aveva ripetutamente avvertito Vittorio Ema­nuele di non fidarsi del Maresciallo!) aprì immediatamente la “caccia agli uomini del passato regime”: “arresti e persecuzioni si in­tensificarono di mano in mano che i giorni e le settimane passarono” (pp. 402, 403).

Questa linea interpretativa che scorre per centinaia di pagine, senza nessun intervento correttivo da parte di Renzo De Felice, cura-

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tore del volume, giunge a conclusione di una prima serie di annotazioni sulla preparazione del ‘colpo di stato’ (che viene negato come tale) e sullo svolgimento dell’ultima seduta del Gran Consiglio, annotazioni che nulla as­solutamente di qualche rilevanza aggiungono a quanto lo stesso Dino Grandi aveva rac­contato e documentato vent’anni fa a Gian­franco Bianchi, che aveva pubblicato una ri- costruzione che, secondo il giudizio del ras bolognese, “corrisponde a verità” e poteva essere da lui “avvallata in pieno” (Dino Grandi racconta, cit., p. 172).

Niente di nuovo, dunque, se non una serie di considerazioni sulle quali non vale la pena di soffermarsi, in quanto la critica storica già da tempo ha contribuito ad una loro più esatta valutazione?

Sostanzialmente le cose stanno così.Il volume di Grandi, tuttavia, è composto

da tre distinte parti e forse è opportuno sof­fermarsi un poco su ciascuna di esse, in quanto ciascuna ha caratteri suoi propri, an­che se, in qualche modo, uniformi.

La parte più corposa e sostanziosa (pp. 205-492) del libro è costituita dal memoriale redatto da Grandi “a Lisbona nel 1944, a botta calda” (p. 137), dopo e il processo di Verona e la fucilazione dei “traditori venti- cinqueluglisti” . Precisa Renzo De Felice: “Fu buttato giù tutto d’un fiato, d’impeto: se qualcosa lo caratterizza sono il dolore e la delusione e talvolta lo sdegno” (p. 10).

Una lettura più attenta non ci sembra con­fermare che ci troviamo di fronte ad un do­cumento sostanzialmente scritto di getto, senza ripensamenti, calibrature, rimeditazio­ni. Dobbiamo osservare che Grandi ha corre­dato le sue memorie con un apparato docu­mentario e di note (probabilmente, ma non è precisato, redatti contestualmente alle altre pagine) che utilizzano fonti, periodici soprat­tutto inglesi e volumi pubblicati fino ai primi mesi del 1946; inoltre alcuni riferimenti, an­che indiretti, inseriti nel corso della narrazio­

ne inducono ad individuare momenti crono­logicamente diversi nella scrittura. “Un anno è passato. Roma è stata liberata, ma la trage­dia dell’Italia non è finita” (p. 212: fissa cer­tamente l’inizio della stesura alla tarda estate1944). A p. 306 troviamo una indicazione più precisa: “Scrivo queste pagine nell’agostodel 1944”; ma, immediatamente (p. 307), ci vie­ne offerta una dilatazione dei tempi di reda­zione: “Da ormai quasi due anni la stampa nazista e fascista (e falangista) persiste nella tesi prescelta e stabilita nel processo di Vero­na, la tesi del ‘tradimento’” . Diventa quindi necessario considerare la possibilità di un in­tervento di riscrittura protrattosi fino all’in­verno 1945-46, come sembra confermare quanto troviamo a p. 318, un riferimento collocabile, forse, fra l’estate e l’autunno del 1945, se non oltre: “Gli antifascisti... sono stati messi alla direzione del governo e prepa­rano oggi la Costituente”. Inoltre (p. 488) è ricordata la pubblicazione dei termini fissati dall’armistizio (pubblicazione che avvenne il 6 novembre 1945); è citata “L’Italia libera” del 10 novembre 1945 (p. 489) e, alla stessa pagina, sono ricordati due numeri della “Tri­bune de Genève”, del 9 e dell’l l novembre 1945. Infine sono riportate alcune considera­zioni tratte dal volume di Stratolf {The Con­quest o f Italy), ora citando l’edizione ameri­cana del 1944 (p. 430), ora quella londinese del 1946 (pp. 477, 489). Potremmo continua­re, ma i riferimenti ci sembrano sufficienti per individuare fra l’estate del 1944 e l’inizio del 1946 la redazione ed una serie continua di interventi e rifacimenti delle note e, soprat­tutto, del testo.

Non ci troviamo, quindi, di fronte ad un lavoro scritto di getto ed impulsivamente, ma ad una lunga e attenta elaborazione, all’interno della quale i riferimenti e i giudizi non sono determinati dalla “botta calda” delle fucilazioni decise al processo di Vero­na. La feroce polemica contro gli antifasci­sti, la apologia del re come salvatore della Patria (anche per Vittorio Emanuele III si

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trattava di un secondo salvataggio, dopo quello del 28 ottobre 1922...), fanno forse presumere una redazione completata in vista di una pubblicazione da farsi nel corso della campagna elettorale referendaria del 2 giu­gno 1946? Secondo noi è una ipotesi da non escludere, anche se questa considerazione modificherebbe notevolmente il valore docu­mentario del testo grandiano. D’altra parte — anche se si volesse ritenere forzata questa datazione della redazione definitiva del me­moriale e le conclusioni politiche che ne traiamo — resta comunque il fatto che ci tro­viamo di fronte a pagine che hanno subito continue integrazioni (e certamente modifi­che) per quasi due anni. In esse, quindi, gran parte dei giudizi hanno risentito di tutte quel­le variazioni che il contesto internazionale e la situazione interna italiana suggerivano di fronte al variare dei rapporti di forza dopo la guerra e al delinearsi di un clima politico ben diverso da quello della alleanza internaziona­le antinazifascista. Si avvicinava la guerra fredda e forse il fascista Grandi sperava di poter ritrovare, con il mantenimento della monarchia in Italia, uno spazio nella vita pubblica: aveva ‘distrutto’ il fascismo italia­no, si qualificava da sempre come antinazi­sta (o antihitleriano), la sua attività di amba­sciatore a Londra gli aveva procurato calde amicizie a Buckingam Palace, presso Chur­chill, da gran parte del potere politico ed eco­nomico britannico. Le note lettere di Grandi a Churchill (soprattutto quella del 18 agosto 1944) si inseriscono perfettamente in tale strategia (in W.F. Deakin, Storia della Re­pubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963, pp. 699-704), come l’altrettanto noto tentativo di Vittorio Emanuele III di sostituire Badoglio con Grandi alla fine del settembre 1943 fa comprendere la stima del Savoia nei con­fronti dell’ex ambasciatore a Londra. Tale nomina, sostanzialmente non sgradita a Churchill, era stata bloccata da Roosevelt e da Stalin, ma, dopo l’aprile 1945, né l’uno né l’altro (per motivi diversi) potevano più in­

tervenire nelle scelte di politica interna italia­na (e intemazionale inglese). In ogni caso, se i fini della redazione del memoriale furono quelli di accreditarne l’autore e la monarchia quali costanti e fedeli fautori dell’antimusso- linismo e proporre Grandi e Casa Savoia quali punto di riferimento per un compatto voto di destra anticiellenistico (contro i pro­fittatori e gli attesisti, secondo le parole di Grandi), a maggior ragione vanno accettate con estrema cautela tutte le affermazioni del libro.

Riproporle dopo quarant’anni senza alcun commento, senza un apparato di note (criti­che, esplicative, correttive) che mettano in ri­lievo le omissioni, le forzature interpretative pro domo sua, le esagerazioni e gli errori (vo­luti o casuali), non ci sembra costituisca una operazione del tutto corretta, in quanto po­trebbe indurre qualche lettore non partico­larmente a conoscenza degli avvenimenti ad accettare (grazie alla assenza di qualsiasi in­tervento correttivo da parte dell’autorevole curatore e presentatore) come verità o quasi verità ogni affermazione di Dino Grandi, an­che la più lontana da quanto ormai da anni è stato accertato e documentato da storici e studiosi. Non soltanto la “feroce caccia” ai fascisti scatenata da Badoglio nel corso dei 45 giorni non trova alcuna conferma (anzi!) nelle scelte politiche effettuate dal Marescial­lo — e già questo basterebbe per annullare gran parte dell’interpretazione grandiana sul post 25 luglio —, ma anche altri numerosi episodi (piccoli e grandi, ma tutti convergen­ti allo stesso fine di dimostrare la politica an­tifascista di Badoglio) risentono di una scelta fortemente finalizzata e più o meno voluta- mente falsata nella ricostruzione degli avve­nimenti. Si veda, ad esempio, l’approssima­tivo e sbagliato elenco delle città bombardate dagli anglo-americani nel corso dell’agosto 1943 (pp. 404-405, 458, 460-461), gli errori di datazione e motivazione degli scioperi operai e delle manifestazioni di massa (pp. 281, 402- 403) la confusione e le contraddizioni nel ri­

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costruire gli incontri fra Grandi e gli altri membri del Gran Consiglio prima della sedu­ta (pp. 221, 237-240, 337). La stessa ricostru­zione dell’ordine degli interventi durante la seduta non corrisponde con quella riportata da Bottai nel suo Diario (Milano, Rizzoli, 1982, pp. 407-421), ed è proprio Grandi a sottolineare (p. 249) che la versione di Bottai è probabilmente la più esatta in quanto rica­vata da note e appunti tenuti da Federzoni, Bastianini, Bignardi, Bottai “e da altri du­rante la seduta” .

Può non stupire la sottovalutazione degli scioperi del marzo 1943 (pp. 329-330) o la mancanza di ogni accenno alla Circolare Roatta, l’elemento determinante per il man­tenimento dell’ordine pubblico (a meno che ad essa non si riferiscano le ambigue affer­mazioni di pp. 349-350 sulla “volontà ferma ed energica” delle prime disposizioni bado- gliane); né meraviglia la sopravvalutazione del 25 luglio di cui vengono indicati riflessi internazionali di incredibile portata: lo stesso Francisco Franco avrebbe rischiato di dover­si dimettere (p. 386)! Si tratta, è evidente, delle valutazioni che Grandi offriva nel 1946 per mostrare all’Italia (ed al mondo) l’im­portanza e il valore del suo “audace gesto” . Ma queste stesse considerazioni, quale valore possono avere ora se non per gli addetti ai la­vori, per quanti possono ‘smontare’ il testo e collocarlo esattamente nelle sue dimensioni, misurate sull’autore, sulle sue aspirazioni, sul contesto che lo indusse a scrivere, sugli scopi che erano sottesi a tale scrittura? Senza questi punti di riferimento (che non vengono dati dal curatore) per un lettore normale il li­bro è perlomeno fuorviante, se non cultural­mente e politicamente ‘pericoloso’. Gli stu­diosi possono semplicemente sorridere leg­gendo di un Badoglio impegnato a provocare “con ogni mezzo la rivoluzione e il caos in Italia” , o imparando che gli Alleati anglo- americani intensificarono i bombardamenti aerei fra il 7 agosto e l’8 setttembre colpendo volontariamente le città e le popolazioni civi­

li “allo scopo di portare la Nazione [cioè l’Italia] alla rivoluzione disintegratrice” (p. 427). Ma quali giudizi o conclusioni può trarre il lettore non specialista da quelle af­fermazioni o dalla seguente, lapidaria, frase ad effetto? “Ardeva in Milano la ‘Scala’ in­cendiata da fortezze volanti americane e To­scanini organizzava e dirigeva a New York un grande concerto allo scopo di inneggiare alla vittoria sull’Italia” (p. 427).

Ciò che resta, la cronaca scarna e non completa (pp. 249-268) della seduta del Gran Consiglio e il testo ‘ufficiale’, ricostruito a posteriori, di due degli interventi di Grandi in quella sede (pp. 285-303), non è né inedito né tale da giustificare la pubblicazione delle altre 250 pagine.

Alla fine della lettura qualcosa, comun­que, rimane di ancora non conosciuto (ed era forse ciò che più ci interessava): il perché, le motivazioni vere che indussero Grandi ad af­fiancare l’azione della monarchia per sosti­tuire Mussolini. Va da sé che le affermazioni (ampiamente scontate e prevedibili) del di­sinteresse più totale e della mancanza di se­condi fini nel condurre l’operazione, non convincono. Il disinteressato amor di patria, ripetutamente proclamato, non era del resto mai stato il fattore determinante nelle scelte di Grandi; non lo era stato quando si era “messo al servizio” degli agrari di Imola, non lo fu certamente neppure il 25 luglio. Quali garanzie e sollecitazioni avessero avan­zato gli agrari bolognesi e Casa Savoia e qua­li ambizioni essi avessero sollecitato in un Grandi politicamente e personalmente ridi­mensionato dopo essere stato richiamato a Roma da Londra, non ci viene svelato.

Il 22 luglio il principe di Piemonte aveva fatto sapere esplicitamente a Bottai che era tempo di muoversi se si voleva “salvare la cattolicità, la monarchia e quel tanto di fa­scismo che costituiscono i valori italiani” (G. Bottai, Diario, cit., p. 403). Nonostante i ri­petuti dinieghi di Grandi, potere economico, monarchia, esercito (e Vaticano?) non potè-

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vano che auspicare un fascismo senza Mus­solini. Caviglia (come suggeriva Grandi) o Badoglio avevano semplicemente il compito di preparare la transizione ad un governo più stabile dopo che fossero state rovesciate le al­leanze militari e lo stesso Grandi (che non ca­sualmente restò a Roma fino al 18 agosto a stretto contatto con il re e con il Vaticano) sarebbe stato un successore forse non sgradi­to alla Gran Bretagna. Questa ipotesi, di da­re continuità al regime, viene, sia pure una sola volta e non esplicitamente, ammessa da Grandi: “Il fascismo non poteva risorgere, ma bensì, morendo, compiere un grande ser­vigio al paese: salvare gli ideali, le aspirazio­ni, i motivi che avevano dato vita al fascismo medesimo ed in pari tempo gran parte del be­ne effettivo ed innegabile che lo stesso regi­me fascista aveva, in mezzo a tanti errori, compiuto e che ormai era divenuto, attraver­so laboriose esperienze, patrimonio della na­zione” (p. 338).

Una linea, questa di salvare in sostanza il fascismo, che, secondo Giuriati, trovava con­senziente lo stesso Mussolini (G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerar­ca, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 224-233).

La seconda parte del volume (pp. 137-197) è un ampio Proemio, datato 4 giugno 1983, nel quale Grandi esalta le proprie attività, ad iniziare dal misterioso attentato subito ad Imola il 19 ottobre 1920 (ma su tale episodio vale la pena di rileggere l’ampia e lucida te­stimonianza di Andrea Marabini al quale Grandi andò a “chiedere protezione”) (in L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, I, Bo­logna, Istituto per la storia di Bologna, 1967, pp. 455-456). Ancora una volta non vale la pena elencare omissioni e ‘dimenticanze’, molto più numerose e consistenti che non i ricordi. Il vero ritratto di Grandi, del fasci­smo e dei suoi uomini potrebbe essere com­posto proprio dalla segnalazione di tutto quanto oggi viene accuratamente celato sotto i falsi alibi del patriottismo. Affermazioni grottesche costellano questa parte dello scrit­

to che non serve assolutamente neppure per una approssimativa ricostruzione autobio­grafica. Un esempio, fra i tanti possibili: “La guerra d’Etiopia fu una guerra ottocentesca, per molti aspetti romantica, dettata e fatta dal patriottismo italiano risvegliato dal ri­chiamo, dopo mezzo secolo, delle tombe in­vendicate dei nostri soldati caduti durante le nostre campagne di guerra sfortunate in ter­ra d’Africa. Un gesto di unanime ribellione, non inconsueto nella storia d’Italia, contro la tirannia, la sopraffazione e l’ingiustizia” (p. 159).

Un cinismo sconcertante (pp. 167-168) si mescola all’autogiustificazionismo e ad una costante mistificazione. Tipiche le pagine in cui Grandi ci assicura che tutte le lettere di elogio e venerazione scritte per vent’anni a Mussolini erano solo “lettere strumentali” ed insincere, cosa, del resto, che “Mussolini sa­peva benissimo” (p. 162). Soprattutto il rac­conto dell’attività diplomatica a Londra du­rante le guerre di Etiopia e di Spagna, con­frontato con qualsiasi altro testo, mostra i segni di coscienti falsificazioni (pp. 168-171). E non parliamo del “miracolo della pace” ot­tenuto da Grandi a Monaco (pp. 172-177) e della monomania, persistente, di essere stato da sempre perseguitato da Hitler e da innu­merevoli sicari al soldo del nazionalsociali­smo... Non è vero che Grandi apprenda im­provvisamente il 3 giugno 1939 (p. 180) di dover lasciare la sede diplomatica di Londra, in quanto ne era già informato sin dal 23 feb­braio direttamente da Mussolini (G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli, 1980, p. 256); è sbagliato il resoconto del Consiglio dei ministri tenutosi il 1° settembre 1939 (iv i, p. 340 e G. Bottai, Diario, cit., pp. 156-157); è tutt’altro che esatto che Ciano “era partito per Salisburgo amico sincero dei tedeschi” e che solo dopo quell’ 11 agosto cambiò il pro­prio atteggiamento (G. Ciano, Diario, cit., pp. 326-327), è falso che, dopo gli “accordi di Pasqua” (16 aprile 1938) promossi da Grandi a Londra, nessun “volontario” italia­

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Rassegna bibliografica 99

no fu mandato contro la Repubblica spagno­la (cfr. J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 395-396).

Nulla apprendiamo della ‘conquista’ fasci­sta di Bologna (su cui si sorvola ‘elegante­mente’, come su tutto il periodo dello squa­drismo), fra l’eccidio di Palazzo d’Accursio (ma Grandi si iscrisse al Fascio due giorni dopo) e l’allontanamento di Grandi dal­l’Emilia con la (momentanea e provvisoria) vittoria di Leandro Arpinati; resta misteriosa l’origine dei mezzi finanziari utilizzati da Grandi per acquistare il pacchetto azionario di maggioranza de “il Resto del Carlino”.

A tutto ciò Renzo De Felice, nella sua am­pia Introduzione (pp. 7-133), oppone tre sole osservazioni, rapide e, tutto sommato, mar­ginali, indicando una certa reticenza gran- diana nel descrivere il comportamento degli altri membri del Gran Consiglio (p. 107), ri­cordando che sarebbe assurdo attribuire al solo Grandi i risultati del 25 luglio (p. 10) e avvertendo che il rapido rovesciamento di al­leanze militari dopo tale data (come auspica­va Grandi) non sarebbe stato possibile (p. 22). Altro (e speriamo di avere letto distrat­tamente) non siamo riusciti a trovare e que­sto non può che significare un riconoscimen­to completo delle tesi sostenute da Dino Grandi, di un racconto costruito (nel 1944-46 e nel 1983) ai fini di autoesaltazione acritica, di un testo (tutto sommato) reticente di fron­te ad avvenimenti giudicati, a quaranta-cin- quanta anni di distanza, senza il minimo ac­cenno di ripensamenti, di dubbi, di autocriti­che. Solo la “stella malefica di Hitler” (p. 194) ha inquinato e dirottato l’azione di Mussolini, “un grande uomo [che] si sbagliò due [sole] volte” : il 1° settembre 1939, non prendendo sufficienti distanze dalla guerra nazista, e il 10 giugno 1940, entrando in guerra (p. 190).

Nella sua Introduzione Renzo De Felice, utilizzando la ormai imponente bibliografia e memorialistica relative alla caduta di Mus­solini, ricostruisce, in chiave prevalentemen­te psicologica, il comportamento e gli atteg­giamenti del re, di Mussolini, degli alti co­mandi delle forze armate, delle gerarchie fa­sciste, di Grandi a partire dal tardo autunno 1942, quando apparve sempre più evidente la sconfitta militare.

Nessuno spazio (né accenno) è lasciato a quel potere economico e finanziario che, sia­mo convinti (ma le nostre possono essere convinzioni che sopravvalutano le influenze dell’economia e sottovalutano il disinteresse personale che mosse Vittorio Emanuele III, Grandi e gli altri nel tentativo di “salvare la Patria”), qualche pressione dovettero eserci­tare, sia di fronte alle sorti ormai segnate del conflitto, sia in conseguenza degli scioperi del marzo 1943 che avevano indicato come Mussolini non fosse più in grado nemmeno di mantenere la repressione antioperaia e la “pace sociale” e quindi non fosse più utile.

Solo l’accettazione, incredibile, dello scrit­to di Grandi e delle sue valutazioni sul fasci­smo può far comprendere come questo libro, che attraverso le parole di uno dei massimi responsabili dell’imperialismo fascista costi­tuisce una tardiva esaltazione dell’opera di violenza e sopraffazione (interna ed interna­zionale) del regime, possa essere stato pub­blicato per offrire, quale portatrice di verità, una lettura acritica, reticente, falsa e voluta- mente falsificata della storia d’Italia. Gli an­tifascisti, “tristi rottami di un triste passato” , saranno spazzati “quando risorge­rà l’Italia”, auspica Dino Grandi (p. 340). Anche a questa “profezia” Renzo De Felice dà copertura e offre credito. E ciò è vera­mente e profondamente triste.

Luciano Casali

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Fascismo

AA.VV., La dittatura fascista, Milano, Teti, 1983, pp. 533, lire 30.000 [“Storia della società ita­liana” , vol. XXII].

Le più recenti opere d’insieme sul fascismo si caratterizzano, rispetto a quelle di dieci o vent’anni fa, per un grado sem­pre più avanzato di interpreta­zione storiografica o per la mole sempre più ampia di risultati empirici che offrono o che pos­sono utilizzare.

Questo volume presenta in ef­fetti dodici contributi che non si limitano alle ipotesi di lavoro, alla pura e semplice sintesi di la­vori altrui, alla divulgazione narrativa degli avvenimenti. I singoli autori si sono sforzati di approfondire e articolare lo stu­dio di temi specifici con vari sondaggi di ricerca almeno in parte originali, potendo quindi dare fondatezza ad un ripensa­mento di tanti argomenti-chiave della storia italiana nel periodo fascista, anche se liberamente svolti senza rigidi riferimenti ad un quadro unitario, che manca al volume anche nella forma mi­nima di una presentazione dei curatori e responsabili dell’inte­ro impianto di questa “Storia della società italiana” dall’anti­chità all’età contemporanea pubblicata dall’editore Teti. Al­cune diseguaglianze, lacune e squilibri formali, di taglio e di trattazione, sono inevitabili in un volume del genere, e larga­mente compensate dall’utilità dei singoli saggi, che sarebbe im­possibile riassumere in questa sede rendendo giustizia a ciascu­no di loro. La scelta dei temi, soprattutto nella prima parte, indica che si è voluto decisamen­

te spostare l’enfasi dell’interesse interpretativo sugli aspetti eco­nomici e sociali del regime fasci­sta, che sarebbe preoccupazione scontata in una collana intitola­ta alla società se proprio la sto­ria sociale dell’Italia fascista non fosse ancora così sconosciu­ta e deliberatamente ‘scansata’ da tanti studiosi professionali. Molti dati nuovi sono fomiti da Alberto Preti (La politica inter­na fascista e l ’organizzazione del consenso), da Giulio Sapelli (Grande industria e organizza­zione del lavoro), e da C.A. Corsini (La mobilità interna del­la popolazione nel periodo fa ­scista)', Ivano Granata (Classe operaia e sindacati fascisti) offre uno spaccato concreto, con va­rie esemplificazioni locali, del rapporto reale tra sindacalismo fascista e mondo del lavoro; Domenico Preti (Fascismo, grande capitale e classi sociali) richiama il contesto internazio­nale che favorisce la stabilizza­zione del fascismo al potere, le drastiche direttive di politica economica consentite dal conso­lidamento dello Stato di polizia, le conseguenze spesso sconvol­genti, per ampi strati della po­polazione, del controllo assolu­to sulla forza lavoro, sui salari, sui consumi. La non comparabi­le presenza della Chiesa e delle opposizioni è studiata da Camil­lo Brezzi (I Patti lateranensi e il mondo cattolico) e da Aldo Ber­selli (L ’antifascismo all’interno e all’esterno), mentre le questio­ni dell’ideologia e della cultura vengono trattate da Gianpa- squale Santomassimo (Cultura, intellettuali e fascismo) e da Emilio Agazzi (Croce e l’antifa­scismo moderato: fra ideologia italiana e ideologia europea). La collocazione internazionale

Rassegna bibliografica

del fascismo italiano è affronta­ta, con approfondimenti specifi­ci, da Teodoro Sala (Fascismo e Balcani. L ’occupazione della Jugoslavia) e da Enzo Collotti (L ’alleanza italo-tedesca 1941- 1943), che mettono a frutto fon­ti documentarie nuove o poco conosciute, mentre Enzo Santa­relli (L ’espansionismo imperiali­stico del 1920-1940) traccia un profilo generale, unico nel suo genere e di grande interesse, dei caratteri originali e permanenti dell’imperialismo fascista, ricor­dandoci l’emblematica formula con cui Mussolini nel 1927 vole­va descrivere al paese un’alter­nativa di politica estera senza rendersi conto di immortalare una contraddizione storica del suo regime: “espandersi o esplo­dere” . Proprio i nessi inestrica­bili tra politica interna ed espan­sionismo fascista sollevano una questione complessiva che resta forse ai margini di questo volu­me: la natura, la fisionomia, il funzionamento dello Stato fa­scista, quali rapporti di conti­nuità e di novità mantenesse e promuovesse con le istituzioni prefasciste, quali mutamenti ge­netici introducesse nella compo­sizione della classe dirigente, quali permanenze alimentasse, col sottogoverno, le pratiche clientelali e il conformismo, in vaste zone di arretratezza mate­riale e civile del paese. Lo Stato fornisce il terreno d’incontro tra il partito fascista, i suoi famelici ‘ras’ e le vecchie consorterie, lo Stato offre le molteplici sedi ed occasioni della mediazione pra­ticata da Mussolini fra le varie forze che pattuiscono gli equili­bri del nuovo blocco di potere borghese, lo Stato si riconcilia con la Chiesa e persegue con im­personale violenza legalizzata gli

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Rassegna bibliografica 101

oppositori, lo Stato educa e coarta, lo Stato interviene nell’economia creando istituzio­ni non transitorie, lo Stato è l’autentico motore dell’imperia­lismo fascista, lo Stato è insom­ma l’elemento non transeunte di un regime che in un giorno (25 luglio 1943) scompare. Con que­sto, si vuole indicare non tanto un limite di questo volume, o esprimere ‘desiderata’ che po­trebbero essere rivolti a tanti al­tri lavori, anche non specifica­mente intitolati alla dittatura fa­scista nella storia della società italiana. Si vuole piuttosto avanzare l’ipotesi che se una storia etico-politica o puramen­te istituzionale dell’Italia fasci­sta sarebbe vuota, senza un con­tinuo e saldo riferimento alle classi e ai mercati, alle officine e alle campagne, una storia socia­le del fascismo sarebbe, senza il suo abnorme e possessivo Levia­tano, cieca.

Marco Palla

Il fascismo. Antologia di scritti critici, a cura di Costanzo Ca­suari, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 700, lire 30.000.

Si tratta della seconda edizio­ne di un lavoro già apparso nel 1961, ed ora assai modificato e arricchito, pur conservando il carattere di fondo di antologia davvero eclettica di tentativi di interpretazione ‘metapolitica’ o ‘transpolitica’, e di ambizioni definitorie e classificatorie in senso epistemologico della natu­ra del fascismo (un’antologia molto diversa, di taglio scientifi­co e storiografico, curata da Al­berto Aquarone e Maurizio Ver- nassa è stata pubblicata nel 1974 dalla stessa casa editrice). Il tito­

10 della nuova introduzione del curatore, Il fascismo caso di co­scienza della nazione, fornisce indubbiamente una chiave di lettura dell’antologia e dei sug­gerimenti che essa contiene. Nella sostanza, Casucci avanza una sua interpretazione morali­stica del fascismo, che possiede la forza supplementare di una testimonianza personale di ri­flessione quanto mai impegnata e sofferta. Non si lasci inganna­re o frastornare il lettore da qualche riferimento estempora­neo o stravagante dell’introdu­zione di Casucci, dove l’autore paria — oltre che in prima — anche in terza persona, richia­mando le sue posizioni e i suoi scritti di oltre vent’anni fa, e do­ve si menzionano il Risorgimen­to e la prima guerra mondiale, Churchill, Benedetto XV, Rosa Luxemburg, l’odierno Stato di Israele, le recenti polemiche sul progetto di scavo nella zona dei Fori imperiali a Roma, la Felix Austria, i rapporti attuali fra Ci­na e Unione Sovietica, André Glucksman, e l’aneddoto perso­nale (di Casucci) su un viaggio ferroviario in cui un giovane da­va del “fascista” a chi gli ricor­dava il divieto di fumare in quel­lo scompartimento. Il fascismo viene qui sempre trattato come un fenomeno molto (anzi, tragi­camente) “serio” della nostra storia nazionale: per intenderne11 significato, Casucci suggerisce di integrare l’interpretazione transpolitica o filosofica di Au­gusto Del Noce con quella so­ciologica di Monnerot e con quella psicosociale di Erich Fromm. Queste interpretazioni, accanto a quella scaturita dal di­battito degli anni cinquanta sul­la rivista “Terza generazione” (qui riprodotto nella seconda

parte dell’antologia), sono net­tamente privilegiate rispetto a quelle degli storici, se non tal­volta contrapposte ad esse. Il gusto della classificazione, e un’immaginazione addirittura fertile per trovare nuove catego­rie, disancorati da criteri scienti­fici di tipo filologico o storio­grafico e affidati principalmente alla tensione interpretativa eti­co-politica, producono tuttavia cadute di tono e fraintendimenti non rari. Così, oltre che bizzar­ra se non offensiva, appare piut­tosto meccanica e incongrua la semi-equiparazione compiuta da Casucci delle posizioni matu­rate nel periodo ‘postfascista’ e ‘al di fuori’ del sistema politico tradizionale, e che farebbero ca­po al neofascismo di Adriano Romualdi e alla contestazione di Guido Quazza, scelto quest’ulti­mo perché, “pur non apparte­nendo alla generazione del ’68, ha saputo dare compiuta espres­sione ai giudizi da quella formu­lati sul fascismo, mettendo a di­sposizione gli strumenti di una tecnica raffinata fino alla sofi­sticazione” (p. 50). Casucci in­clina poi verso analogie storiche tra fascismo e Risorgimento (per il comune rifiuto di una “cultura neutrale” , sarebbero entrambi fenomeni di reazione critica al Rinascimento) che suonano forzate. Qualche per­plessità suscita l’articolazione di tutta la prima parte dell’antolo­gia, che include, nella prima se­zione (“Le interpretazioni del sistema politico”), una larga rassegna di posizioni contempo­ranee dei fascisti: quelle degli intransigenti (Malaparte), dei futuristi (Marinetti), dei sinda­calisti (Rossoni, A.O. Olivetti, Panunzio), dei corporativisti (Bottai, Spirito, Costamagna),

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102 Rassegna bibliografica

dei nazionalisti (Rocco), dei re­visionisti (Bottai), dei conserva- tori (Fani, Ciotti), dei tecnocrati (G. Olivetti, Serpieri), dei giova­ni (Giani, Pallotta), e infine dei “fascisti... fascisti” (Bottai, Gentile) per intendere, spiega Casucci, “come fanno intuire i puntini sospensivi quei fascisti che sfuggono, al contrario degli altri, ad una ulteriore caratteriz­zazione” (p. 19). Queste classifi­cazioni sono largamente opina­bili, derivando dall’esplicita in­dividuazione di molteplici ‘com­ponenti’ e ‘correnti’ del fasci­smo i cui tratti comuni vengono assai diluiti se non dispersi, e in ogni caso stridono in una rac­colta antologica di “scritti criti­ci” , visto il largo predominare di fumisterie ideologiche e di acri­tiche e propagandistiche teoriz­zazioni che quegli scritti presen­tano. Rilievi di varia natura si potrebbero muovere alla pur utile rassegna delle posizioni dei cattolici, dei liberali, dell’antifa­scismo radicale, socialista, co­munista e anarchico: presentare al lettore comune, necessaria­mente non addetto ai lavori, una serie di materiali in cui non è sempre ben distinta la linea di demarcazione fra fonti e studi critici, costituisce solo un primo e limitato approccio ad una pro­blematica ancora da elaborare ed approfondire nel senso di una prospettiva che ne storicizzi i termini col minor grado di ap­prossimazione possibile. Casuc­ci infine stempera il suo impe­gno civile e la sua indiscutibile fede democratica in un’attitudi­ne didattica ad insegnarci la le­zione e la ‘morale’ che si può trarre dalla storia nazionale (in questo caso, dalla storia del fa­scismo), che assume talora il to­no di una “predica inutile” ver­

so la sinistra, che non avrebbe mai saputo contemperare 1’ “esi­genza nazionale” e quella “clas­sista” , in particolare nel giudizio sulla prima guerra mondiale e verso l’intervento che essa si ostina a non considerare obietti­vamente, come storicamente ne­cessario e “rilevante” per lo svi­luppo civile dell’Italia. Per non lasciare spazio alla “seduzione fascista” come avvenne nel pri­mo dopoguerra, il nostro paese deve oggi accettare gli eroi senza lasciarne “il monopolio ai fasci­sti” . Che per superare la crisi “più grave della sua storia” l’Italia abbia “bisogno di eroi­smo” (pp. 87-89), è esortazione discutibile quant’altre mai. Per­sonalmente, a questo proposito la penso ancora come Bertold Brecht.

Marco Palla

G i a m p a o l o B e r n a g o z z i , lim ito dell’immagine, Bologna, Clueb, 1983, VI, pp. 311, lire 16.000.

Dieci anni fa Bernagozzi pub­blicò il suo primo studio sui ci­negiornali Luce. Da allora è an­dato approfondendo e amplian­do l’analisi dei mass media del regime fascista, scientificamente e filologicamente precisando i temi della propaganda del regi­me e, specialmente, dello stru­mento cinematografico come mezzo per la conquista del con­senso, per comprendere fino in fondo quegli anni, in modo da evitare “le forzature superficiali di un lacrimoso come eravamo oppure di un compiaciuto e astioso come eravate” (p. 7), co­struendo un dialogo continuo fra cinema e storia. Ora Berna­gozzi sembra tirare le somme delle sue ricerche con un libro

estremamente documentato nel quale gli strumenti dell’analisi storica e di quella cinematogra­fica si fondono in una analisi estremamente viva ed utile che, fra l’altro, supera agevolmente, in un terreno troppo spesso faci­le alle mediazioni, ogni tentazio­ne ‘accomodante’ e superficiale, con giudizi a volte sferzatamen- te limpidi, specialmente di fron­te ad una editoria (libraria e te­levisiva) “assurda ed equivoca” . D’altra parte il centenario mus- soliniano sembra costituire non un semplice ‘riflusso’: è difficile pensare a nostalgie individuali, “siamo piuttosto nell’ambito di una vera e propria linea politica” (p. 268).

Cinema e storia, quindi, che nel racconto dell’autore debor­dano dagli anni del regime e si rovesciano nella tristezza cupa di altre reazioni e di altre violen­ze. Nello stesso modo la lettura filmica di Bernagozzi non si fer­ma alle sole immagini o allo stu­dio delle tecniche di ripresa, ma colloca l’Istituto Luce e l’indu­stria cinematografica al centro dei mezzi creati per la conquista del consenso e per la creazione dei miti ad esso necessari, ac­canto alla cultura fascista, alla scuola, alle parate ed adunate “oceaniche” ...

Con la avventura fascista in Spagna, l’antifascismo sembrò recuperare nuovo vigore e nuo­ve adesioni. Lo stesso segno, di un deterioramento in questo ca­so fra lo schermo e le platee, si avverte anche dalla propaganda visiva, un deterioramento nato per di più sugli “stilemi conven­zionali” , che proprio allora co­minciarono a mostrare la corda, in quanto “le parole giocano il ruolo del loro stesso esaurirsi in una ripetizione ossessiva e mo­

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Rassegna bibliografica 103notona” (pp. 171-72). A fianco dell’esempio della Spagna, altri ne potremmo portare a confer­ma della utilità dell’uso anche dello strumento filmico per una “lettura” tradizionale della sto­ria, o ancor meglio per leggerla più attentamente attraverso i ri­flessi sul sociale degli avveni­menti. Si vedano le pagine che Bemagozzi dedica alle donne nelle immagini del regime: “donne Rachele in miniatura: esseri inferiori, madri feconde, massaie laboriose” (pp. 67-76), o agli operai (pp. 77-82), o all’epica del mondo contadino (pp. 117-128): “la macchina da presa nel momento stesso in cui si impegna ad essere oleografi­ca riproduzione delle impenna­te del regime, può offrirci coef­ficienti essenziali per la decodi­ficazione di queste stesse im­pennate” (p. 7).

Luciano Casali

M a s s i m o C a r d i l l o , II duce in moviola. Politica e divismo nei cinegiornali e documentari Lu­ce, Bari, Dedalo, 1983, pp. 220, lire 14.000.

Tra i numerosi lavori usciti nel corso del centenario musso- liniano, questo di Massimo Cardillo si presenta come un contributo particolarmente in­teressante.

Più volte gli storici hanno se­gnalato la necessità, per appro­fondire un discorso sull’ideolo­gia e sulla propaganda fascista, di mettere direttamente le mani sul materiale prodotto dal regi­me, radio e cinema in partico­lare.

Il libro di Cardillo contribui­sce a colmare questa esigenza affrontando, in modo scorre-

le e godibile, il tema dei cine­giornali e documentari che l’Istituto Luce programmò du­rante il ventennio. E ruolo che i cinegiornali ebbero all’interno del più complesso sistema di propaganda fascista è il filo conduttore di una ricostruzione che tocca qua e là altri temi (la radio in particolare) e che si presenta come un momento im­portante anche se non unico di quel progetto di educazione po­litica delle masse che il regime attuò mescolando la retorica più antiquata e la sapienza mo­derna delle tecniche di propa­ganda.

Cardillo mette bene in eviden­za le diverse fasi in cui operò l’Istituto Luce, i progressi tecni­ci e linguistici confrontati con intelligenza con i prodotti della Germania nazista, le sollecita­zioni del regime, l’acquiescenza e la parziale autonomia degli operatori e dei tecnici. Queste tappe interne all’istituto cine­matografico di propaganda ven­gono costantemente inserite in una periodizzazione che tocca alcuni episodi cruciali della vita del regime — l’avventura colo­niale africana soprattutto — o alcune tematiche che percorro­no orizzontalmente tutta l’epo­ca fascista — il mito del rurali- smo è quello maggiormente ana­lizzato ed esemplificato.

La parte preponderante del lavoro, comunque, al di là delle generali ipotesi di ricerca e delle proposte di interpretazione dei principali materiali propagandi­stici del Luce, riguarda la figura di Mussolini, la sua soverchiarne presenza all’interno dei filmati e dei cinegiornali. In due distinti capitoli, l’uno dedicato alla psi­cologia gestuale mussoliniana, l’altro all’oratoria del dittatore,

Cardillo mostra a sufficienza come su alcuni temi — in questo caso la ricostruzione / definizio­ne di una personalità di rilievo, del suo ruolo e impatto e della sua funzione e fruizione pubbli­ca — l’ausilio della fonte audio­visiva sia qualcosa di più che un materiale sussidiario: sia in real­tà una fonte primaria di inesti­mabile valore là dove si sappia utilizzarlo affiancandolo, senza contrapposizioni, ad altri ele­menti di ricerca e ad altri filoni di indagine.

Questa ricostruzione compiu­ta da Cardillo e la sua proposta interpretativa e metodologica, pur nei limiti oggettivi di una prima ricognizione d’assieme che si auspica apra la via a in­dagini più dettagliate, è arric­chita da un’appendice con una serie di utili documenti (schede informative su numerosi film e cinegiornali prodotti dal Luce sugli argomenti “L’impero” e “Vita fascista” ; circolari, rego­lamenti, progetti e rendiconti deU’Istituto) ed un gruppo di interviste a registi, critici, poli­tici, inteUettuali che vissero in modo diverso le vicende politi­che e propagandistiche del regi­me. Ed anche questo sintetico ma significativo apparato docu­mentario non fa che suscitare ulteriore curiosità per un setto­re di ricerca che non potrà più essere considerato accessorio negli studi sulla propaganda, sul consenso e in generale sul rapporto con la società che il regime fascista aveva cercato di instaurare ed imporre.

Marcello Flores

U g o b e r t o A l f a s s i o G r i m a l d i -

M a r i n a A d d i s S a b a , Cultura a

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104 Rassegna bibliografica

passo romano. Storia e strategia dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 270, lire 25.000.

Negli studi dedicati all’educa­zione ed ai giovani durante il pe­riodo fascista, il tema dei Litto­riali della cultura e dell’arte or­ganizzati dal regime dal 1934 in avanti, è stato più volte oggetto di interessamento, di specula­zioni, di suggerimenti interpre­tativi, di accenni più o meno episodici, ma quasi mai di rico­struzioni più attente ed appro­fondite. Il volume di Ugoberto Alfassio Grimaldi e Marina Ad­dis Saba cerca di colmare questa lacuna, ricostruendo in modo più organico e puntuale il susse­guirsi dei diversi Littoriali e in­serendo la loro vicenda in quella più vasta della politica culturale del regime.

I due autori considerano, forse troppo unilateralmente, i Littoriali come il momento principale di una politica cultu­rale diretta dalla struttura ge­rarchica del regime fascista. È certo che il loro impatto, so­prattutto sui giovani, non può essere sottovalutato: special-mente ove si guardi ai nomi ri­portati in appendice dei primi classificati alle diverse edizioni dei Littoriali, per la maggior parte uomini e donne che tro­veranno nel dopoguerra — ed alcuni anche prima, nel fasci­smo stesso, nell’antifascismo, nella Resistenza — modo di af­fermarsi e di inserirsi a pieno ti­tolo nelle élites politiche e cul­turali del paese. Proprio il capi­tolo iniziale, dedicato al proble­ma della gioventù fascista nella storiografia, è di particolare in­teresse, con la sua capacità di ricostruire, seppure in un’ottica

particolare, l’atteggiamento che nei confronti del fascismo si eb­be nei decenni successivi alla caduta del regime, secondo ca­denze e periodizzazioni politi­co-culturali che andavano al di là del mero dibattito storiogra­fico.

I tre capitoli successivi sono tutti dedicati alla ricostruzione, selettiva ma puntuale, dei di­versi Littoriali, del clima che li accompagnò, degli episodi più significativi al loro interno. Il quadro d’assieme dello svolgi­mento di questa Olimpiade del­la cultura è ricostruito con effi­cacia, anche se spesso si privile­giano i momenti relativi a quei personaggi che più avrebbero fatto carriera — politica e cul­turale — nel secondo dopo­guerra. D’altra parte proprio l’utilizzazione costante delle fonti memorialistiche e di quel­le giornalistiche rende la rico­struzione vivace ed interessan­te, anche se a volte un po’ troppo impressionistica e la­sciando nell’ombra interrogati­vi adombrati più volte ma mai direttamente affrontati. Pro­prio il capitolo finale, con le sue assiomatiche definizioni di cosa rappresentarono e furono i Littoriali, di cosa costituirono alPintemo della strategia del consenso pensata dal regime, sembra chiudere un po’ troppo frettolosamente una ricchezza di interrogativi che la prima parte e la ricostruzione succes­siva avevano posto in modo pertinente. La stessa scelta, probabilmente obbligata, di ri­manere nell’ambito generale della politica culturale del regi­me, senza scendere alle sue concrete realizzazioni nei diver­si campi — compito che viene demandato a ricerche speciali­

stiche già compiute o da com­piersi —, priva di un utile terre­no di verifica una interpretazio­ne che sembra più enunciata e proposta che non discusssa e dimostrata.

Il lavoro è completato da una ricca e precisa appendice sulle classifiche e i temi dei Lit­toriali maschili e femminili, sui premi, sulle fonti archivistiche utilizzate. Una fatica in più, si­curamente utile, avrebbe potu­to essere quella di presentare anche per le gare maschili, così come fatto per quelle femmini­li, i titoli dei temi dati per le di­verse sezioni: elemento non se­condario per valutare le perio­dizzazioni proposte e il giudizio di parziale libertà (vigilata, gui­data, incanalata e poi repressa) che, attraverso i Littoriali, il re­gime avrebbe cercato di creare nel suo rapporto con i giovani.

Marcello Flores

G i u s e p p e C a r l o M a r i n o , L ’au­tarchia della cultura. Intellet­tuali e fascismo negli anni tren­ta, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. XV-240, lire 14.000

Aperto da una gustosa docu­mentazione sui fregi e le livree degli accademici d’Italia, e con­cluso dalla pubblicazione di car­teggi inediti illustranti le posi­zioni di Croce ed Einaudi non­ché di un paio di relazioni, pro­venienti dall’ACS, in merito alle posizioni del mondo cattolico alla caduta del regime, il saggio si aggira nei meandri dell’orga­nizzazione della cultura italiana in periodo fascista. Determina­to, come appare nella prefazio­ne, a superare ogni giudizio di stampo moralistico, non riesce

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Rassegna bibliografica 105tuttavia a svincolarsi dalla nota­zione, che pure è determinante, della povertà morale della socie­tà intellettuale italiana degli an­ni trenta.

Una cultura della crisi di stampo autarchico, gretta e provinciale, non può certamen­te meritare molta considerazio­ne, se questa crisi è problema di portata universale, rottura con tradizioni e certezze anima­te da un respiro secolare. Mari­no sottolinea a ragione come la coscienza della cesura irrime­diabile prodotta dal tracollo se­guito al 1929 pervada ogni set­tore della cultura italiana e si impegna a mostrare in qual modo il regime abbia avuto successo nel canalizzare la dia­lettica delle varie componenenti della cultura italiana nell’alveo di una autarchia culturale fun­zionale al suo potere. Gli stru­menti del ricatto economico si intrecciano alle lusinghe ideali e al miraggio di una specificità italiana, originale creazione tra l’americanismo e il soviettismo, centro della lotta anticomunista e — al tempo stesso — motore per un’azione mirante al supe­ramento del capitalismo e della società borghese.

Le intime contraddizioni della società italiana — modernità in- dustrialeggiante contro rurali- smo — restano tuttavia, secon­do Marino, il limite invalicabile; ed esse si scontrano in uno sce­nario reso fittizio dalla presenza di una volontà politica essen­zialmente poliziesca.

Se della cura di seguire da vicino e dall’interno le moti­vazioni e i percorsi dell’ideo­logia va reso merito a Marino, meno pregevole risulta invece la capacità di sintesi e di giudi­zio.

Da una parte, il tentativo di far affiorare i connotati della cultura italiana del periodo fa­scista approda a sottolineature interessanti di aspetti finora for­se lasciati nell’ombra; ma dal­l’altra, le considerazioni sulla portata effettiva di quanto emer­ge dall’intricato e faticoso per­corso non modificano per nulla giudizi consolidati e quasi owii. Modernità contro arretratezza, slanci futuristi accompagnati da concessioni a ideologie retrò, suggestioni cattolicheggianti, “grande e amara festa della pa­rola in libertà”, “esercitazione di scriteriata verbosità” : sono giu­dizi da non dimenticare, proba­bilmente; ma da sostanziare an­che con analisi di formazioni culturali meno scivolosamente ammantate di tipizzazioni (bor­ghese, piccolo-borghese, cattoli­co: chissà come li distinguiamo) che a mala pena reggono una let­tura attenta. Un’impressione di sfasatura costante tra il giudizio storico e la documentazione che lo sostiene accompagna infine la lettura del saggio.

È un dato che emerge in modo clamoroso dai due documenti ri­prodotti nell’Appendice II: il primo — una relazione del notis­simo Babuscio Rizzo — èia con­sueta esercitazione pettegolo­giornalistica delPinformatore della polizia fascista che semina giudizi, peraltro incontrovertibi­li in quanto lapalissiani, sull’at­teggiamento della Chiesa verso Croce e Gentile; il secondo, un’affrettata e sommaria rasse­gna stampa redatta dall’Amba­sciata d’Italia presso la Santa Se­de il 5 agosto 1943, si limita a sottolineare la perfetta “lealtà” cattolica verso il regime bado­gliano. Davvero troppo poco per ipotizzare spunti per l’approfon­

dimento della “cultura di tipo ‘salazariano’” di cui l’autore nelle ultime pagine del volume ha cercato di indicare sommaria­mente gli apporti nei primi anni di guerra. Non meno singolare è il contrapporre Croce a Einaudi (nell’Appendice I), il primo dei quali si erge in una posizione “netta e severa” , mentre il se­condo “consente di evidenziare le contrattazioni di una cultura liberale che si ostinava a ricerca­re comunque un colloquio diret­to col Duce” . In realtà, il carteg­gio di Croce si riferisce all’ordi­ne di soppressione della “Criti­ca” nel 1940, mentre quello di Einaudi (1932-34) attiene a que­stioni accademiche e a censure verso la casa editrice del figlio Giulio. Forse le date hanno scar­sa importanza sul piano della storia dello spirito; ma, senza nutrire simpatie più accentuate verso il magistero einaudiano che verso quello crociano, vorrei suggerire una onesta riflessione sulla congiuntura e sui rapporti di forza che caratterizzavano i due momenti. Tanto più che, se vogliamo lasciar cadere i morali­smi, bisognerà pur cominciare a rifiutare un uso delle carte di po­lizia da cui troppi, da che mondo è mondo, hanno spiato le debo­lezze dei grandi uomini.

Luigi Ganapini

A a .Vv ., Il pensiero reazionario la politica e la cultura dei fasci­smi, Ravenna, Longo, 1982 pp. 228, lire 12.000.

Il volume raccoglie gli atti del convegno omonimo tenutosi a Ravenna nel novembre 1980, promosso dalla Casa dello Stu­dente in collaborazione con la

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Biblioteca Oriani e con l’Istituto per la storia della Resistenza.

I saggi prendono soprattutto in considerazione le vicende po­litico-culturali della destra ita­liana e tedesca, soffermandosi particolarmente sull’arco tem­porale degli anni 1920-1930. La riduzione dell’area geopolitica risponde all’esigenza di circo­scrivere il campo di analisi alle esperienze storiche dei fascismi europei. Appaiono così trascu­rati i contributi e le esperienze di quella destra europea che operò in quegli anni nei regimi liberali, anche se spunti e osservazioni comparative sul pensiero reazio­nario francese appaiono in ordi­ne sparso nei vari saggi del volu­me.

II volume, nonostante una prima apparente frammentarie­tà, dovuta alla varietà dei campi d ’indagine affrontati, appare a lettura conclusa abbastanza coe­rente. I vari contributi sono in­fatti riconducibili a due princi­pali filoni di ricerca. Da una parte l’analisi dei fondamenti teorici, sia politici che filosofici, della cultura della destra, con particolare attenzione alla tradi­zione tedesca e mitteleuropea; dall’altra un approccio più pro­priamente storico che, sulla scia delle indicazioni di Mario Isnen- ghi (Intellettuali militanti e intel­lettuali funzionari, Torino Ei­naudi, 1979), pone al centro del­la ricerca la figura dell’intellet­tuale funzionario e militante: cinghia di trasmissione tra Stato e società, portatore di valori di senso comune, organizzatore di comportamenti collettivi. Le re­lazioni di Isnenghi e di Cacciali, che aprono il volume, propon­gono una serie di prospettive di ricerca e d’indicazioni metodo- logiche relative ai due filoni so­

pra indicati. Il saggio di Isnen­ghi ha la struttura di un vero e proprio programma di ricerca. Egli parte dal presupposto che siano esistite in Italia una serie di microculture e subculture ca­ratterizzate da una matrice cul­turale di destra, ma tra loro as­sai disarticolate e disomogenee. A partire da un censimento pre­liminare, si tratterebbe poi di se­guire la storia, d’individuarne i contenuti, le aree, i tempi e gli agenti di diffusione, tenendo conto del dislivello di piano esi­stente tra queste subculture e la cultura ufficiale. Un secondo momento della ricerca dovrebbe individuare come e quando esse siano state portate a sintesi, tro­vando uno sbocco unitario. In questo senso le indicazioni di la­voro appaiono chiare: la grande guerra rappresenta un primo momento di unificazione delle varie microculture di destra, la­sciato poi in eredità alla gestione autoritaria del fascismo, che riuscì, grazie all’uso della radio, alla centralizzazione della stam­pa, alla scuola e agli apparati di regime, a portare questo proces­so a piena maturazione.

Su questa linea interpretativa si dispongono diversi contributi del volume. D’Attore studia la vita culturale di una città di pro­vincia, Ravenna, durante il fa­scismo, puntando l’attenzione sulle istituzioni create dal regime come perno del rapporto tra in­tellettuali e società e sul ruolo della stampa locale del coinvol­gimento delle giovani generazio­ni intellettuali. Dirani si soffer­ma sulla funzione delle bibliote­che e dei bibliotecari nella tra­smissione della cultura di regi­me. Monticone individua quali stereotipi storici veicolavano i li­bri di testo delle scuole. Il breve

e interessante saggio di Fumian sulla cultura agraria della destra fa il punto sul rapporto tra agra- rismo italiano e fascismo.

Per quanto riguarda l’altro fi­lone, Cacciali individua due anime contradditorie del pensie­ro di destra europeo. Una destra organicista secondo la quale lo Stato attraverso processi autori­tari integra le differenze per for­mare un corpo unico. Una de­stra decisionista basata sull’a­zione autoritaria intesa come volontà di potenza storicamente determinata.

La prima di origine hegelia­na, contraria a ogni idea di re­lativismo e agnostismo liberale, lo supera attraverso l’azione integratrice dello Stato. La se­conda prende atto del relativi­smo dello Stato liberale e lo supera con la volontà di poten­za. Il discorso di Cacciali, oltre a individuare alcune linee di ri­cerca, si pone anche come spunto polemico a favore di una riapertura del dibattito fra pensiero di destra e pensiero di sinistra sul tema della critica della democrazia liberale. Spunto polemico peraltro ri­preso dall’autore anche in altre sedi.

Gli altri saggi contenuti nel volume: Chrnitzkj su scuola e pedagogia in Italia e Germania; Masini sulla stereoscopia magi­ca di Jiinger; Marmotti su Mar­gherita Sarfatti; Pirazzoli sullo stile littorio; Bandini sull’antise­mitismo della Germania hitleria­na; Marcoaldi sul liberalismo economico dei primi anni venti; Benelli sull’analisi di un diario parrocchiale; Schiavoni su Al­fred Baeumler; Amendolagine su Heidegger e Heisenberg.

Salvatore Adorno

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Rassegna bibliografica 107

M i c h e l O s t e n c , Intellectuels italiens et fascisme (1915-1929), Paris, Payot, 1983, pp. 340.

Già noto per uno studio sulla scuola italiana in epoca fascista (L ’educazione in Italia duran­te il fascismo, traduzione italia­na, Roma-Bari, Laterza, 1980), Ostenc ricostruisce in questo vo­lume “i rapporti di alcuni rap­presentanti della cultura italia­na, scelti tra i più conosciuti dal pubblico francese, con le corren­ti interventiste dalle quali nasce­ranno i fasci di combattimento e in seguito con lo stesso regime fascista” sino al 1929 (p. 7). Gli autori direttamente considerati (talora sulla scorta della loro produzione, più spesso attraver­so la lettura critica italiana e soprattutto francese) sono D’Annunzio e Marinetti, Papini e Soffici, Pirandello, Ungaretti e Malaparte; ad essi si affiancano, come guida del pensiero antifa­scista, Gobetti, Gramsci e Cro­ce, al quale ultimo non è espres­samente dedicata alcuna parte del libro ma la cui presenza viene costantemente evocata come ri­ferimento obbligato e discrimi­nante.

La tesi che Ostenc affaccia sin dall’inizio e limpidamente rias­sume nelle conclusioni è assai netta e riveste un carattere defi­nitorio più che problematico. Quasi tutte le correnti intellet­tuali che si manifestano nella cultura italiana del primo Nove­cento sono collegate alla nascita del fascismo visto come stru­mento eversore degli stanchi ste­reotipi positivistici sui quali si fonda la “democrazia” giolittia- na. Ma tale collegamento, prose­gue l’autore, lungi dal rappre­sentare un principio di ricompo­sizione della grande eterogeneità

di posizioni (futurismo e dan­nunzianesimo, nazionalismo e idealismo gentiliano), riflette so­prattutto la tendenza “molto diffusa tra i simpatizzanti de fa­scismo, a confondere questo movimento con il loro ideale, ad attribuire al nuovo regime obiet­tivi morali e spirituali molto lon­tani dalle ambizioni politiche” di Mussolini (p. 316). L’incontro si risolve pertanto in una coabita­zione di convenienza. Da parte degli uomini di cultura che vedo­no, in cambio dell’ossequio al principe, celebrata la loro imma­gine pubblica (si veda, nella ter­za parte, il capitolo dedicato alla fondazione dell’Accademia d’I­talia); da parte del regime che, strumentalizzando le adesioni ri­cevute, può simulare una origi­nalità culturale di cui non esisto­no nemmeno le premesse. La simbiosi cultura-fascismo, sot­tolinea ripetutamente Ostenc, resta un dato del tutto superfi­ciale. La “trahison des clercs” si manifestò, ma essa “impegnò gli individui e non le concezioni da questi propugnate. Se le persone sono compromesse, gli ideali professati nelle opere restano salvi” (p. 318). Così “non si ebbe mai un’altra cultura fascista; l’eredità idealista si mantenne prevalente e con essa l’ispirazio­ne liberale di base” (p. 319). È estremamente significativo — conclude Ostenc su questo pun­to — che “la sola ‘autentica let­teratura di Stato’ promossa dal fascismo sia quella dei funziona­ri” (p. 320).

Certo la cultura italiana di- quegli anni “perse l’indispensa­bile contatto con la società del suo tempo” (p. 320), ma, sia pu­re in modi soffocati e intermit­tenti, le più feconde correnti pre­fasciste continuarono ad opera­

re, come dimostrano gli echi go- bettiani presenti nel Montale di Ossi di seppia, o l’anticonformi­smo del Gli indifferenti di Mora- via. Le fila di una cultura di op­posizione vengono cosi rianno­dandosi, e “negli anni trenta il ritorno a Croce è in effetti il fon­damento di ogni educazione an­tifascista” (p. 325).

Privo di una propria cultura il fascismo è tuttavia portatore, sempre secondo Ostenc, di uno ‘stile’. A cominciare da Mussoli­ni, i principali esponenti del regi­me attingono largamente al dan­nunzianesimo e all’idealismo gentiliano per elaborare il loro modello retorico così che la “sin­tesi fascista si manifesta come caricatura della cultura cui si ispira” , strumento di propagan­da per organizzare un “consenso che si fonda anzitutto sul rispet­to quasi religioso d’una autorità presentata come infallibile e sul­la mistica del capo” (p. 326). Anche per questa via si approda pertanto alla conclusione che “ fascismo e cultura sono due en­tità distinte” (p. 327).

Come si vede, la proposta in­terpretativa del volume non ha certo il dono della originalità; ri­prendendo valutazioni diffuse soprattutto negli anni cinquanta e sessanta essa mescola motivi ‘giustificazionisti’ avanzati dagli stessi intellettuali in chiave auto- biografica (si veda il significati­vo riferimento a Luigi Russo a p. 324) e criteri tradizionali di iden­tificazione della storia della cul­tura con la produzione diretta da alcuni grandi intellettuali. Non è certo questa la sede per un ap­profondimento dei limiti di tale impostazione. Almeno uno di essi va tuttavia segnalato ed è il restringimento dell’analisi all’in­terno dei vari profili biografici,

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così che le correnti intellettuali compaiono solo come somma di alcune personalità e non anche come categoria che, proprio nel periodo esaminato, vede molti­plicarsi i suoi strumenti di pre­senza nella società. Perciò di­stinzioni quali quella fra “alta cultura” e “cultura di funziona­ri” non nasce dall’esame delle mutazioni in atto, ma riveste un carattere aprioristico, conserva­tivo di posizioni e comporta­menti tradizionali ricavati dalla storia precedente. Il fatto poi che il volume limiti la propria ri- cognizione della adesione al fa­scismo al mondo letterario (con l’eccezione di Gentile) accentua il carattere settoriale dell’analisi e la difficoltà di trarre da essa in­dicazioni di portata generale.

Massimo Legnani

G i u s e p p e B o t t a i , Diario 1935- 1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 579, lire 38.000.

La mancanza di accuratezza filologica e di inquadramento critico è la prima caratteristica che colpisce in questo volume, che non fa eccezione alla linea di tendenza prevalente tra le nume­rose pubblicazioni di fonti fasci­ste. L’adesione quasi agiografica del curatore al personaggio Bot­tai, espressa senza mezzi termini in un’enfatica introduzione, è perfino meno grave, si potrebbe dire secondaria, rispetto ai crite­ri di edizione del volume. Il cura­tore ha prescelto con notevole dose di arbitrio solo una parte dai trenta quaderni di Bottai che la famiglia possiede nel testo ma­noscritto e che coprono gli anni 1928-1947; l’ordine cronologico

dei quaderni non è stato rispetta­to, con l’estrapolazione di stralci del diario 1935-36 qui anticipati (pp. 35-50); non è stata pubbli­cata una parte sostanziale del diario della guerra etiopica che Bottai stesso aveva pubblicato nel 1939 col titolo di Quaderno Affricano; è stata aggiunta al diario 1941, interrotto per il pe­riodo in cui Bottai combattè in Albania, una singolare scelta di lettere alla moglie, che sono estranee — come fonte storica, e come genere letterario — ai qua­derni. Se è vero che il volume at­tuale presenta diverse pagine “inedite” , soprattutto nei con­fronti della parte già nota del diario che sempre Bottai aveva pubblicato nel 1949(Vent’annie un giorno, Milano, Garzanti, 2a ed., 1977), è stupefacente che il curatore non abbia compiuto e quindi offerto al lettore un siste­matico confronto fra i due testi: chiunque voglia farlo, si renderà immediatamente conto di quan­ti, innumerevoli abbellimenti, aggiunte, correzioni, censure e tagli avesse compiuto Bottai nel 1949, tanto che nel linguaggio stesso il testo di Vent’anni e un giorno e quello delle parti corri­spondenti ora pubblicate in que­sto volume sono in tutta eviden­za riconoscibili più per le varian­ti che per le costanti letterali.

Una certa sorpresa deriva poi dalla scarsezza di riferimenti che il diario presenta sulla attività politica e di governo di Bottai, sulla sua attività multiforme di organizzatore culturale, sui temi corporativi che gli procurano anche una certa notorietà inter­nazionale. Si obietterà che è pro­prio della natura di un diario di offrire principalmente un mate­riale di tipo introspettivo, di in­teresse psicologico e di valore

inevitabilmente limitato. Ma è anche vero che tali caratteristi­che dei diari e della memorialisti­ca fascista sono state sottovalu­tate, o implicitamente ignorate, da quelle ricostruzioni ‘dall’in­terno’ della realtà storica del re­gime fascista che hanno perciò ristretto il ventaglio necessaria­mente ampio e articolato di fonti che ogni studio critico e docu­mentato sul fascismo dovrebbe esplorare. Come fonte storica, in effetti, le informazioni ‘pri­marie’ che il diario di Bottai con­tiene si riducono in sostanza alle verbalizzazioni sui generis delle sedute del Gran Consiglio del Fascismo, del Consiglio dei mi­nistri, di qualche riunione della Commissione suprema di difesa. Ben maggiore è lo spazio occu­pato dalla registrazione, spesso passiva quando non pedissequa, dei motti del duce o dei colloqui privati con vari altri esponenti del gruppo dirigente fascista (in particolare, di quelli con Galeaz­zo Ciano). Non manca un vasto florilegio di battute cosiddette di spirito, di aneddoti più o meno gustosi, di soliloqui sempre un po’ vanagloriosi: ma, anche qui, si stenta a rintracciare il filo di una riflessione (non dirò di un pensiero) politica, di un ragiona­mento critico che non sia pura e semplice razionalizzazione di una smarrita ansia, pur genuina, di tener dietro ad una realtà che si trasforma e si svolge sempre più in contraddizione con i po­stulati ideologici e propagandi­stici del fascismo. Lo iato tra i fatti e le parole diventa, anche dall’angolazione particolare di questo diario, il luogo comune della parabola personale di tanti uomini del regime, e Bottai non sfugge, proprio attraverso le pa­gine dei suoi quaderni, ad un ri­

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Rassegna bibliografica 109dimensionamento della sua sta­tura politica e culturale nei limiti più credibili e realistici di una fi­gura non assimilabile a quelle in­colori di tanti gerarchi minori, ma pur sempre partecipe — in­sieme ai vari Ciano, Grandi, Pa- volini ecc. — di quei caratteri di improvvisazione, incompetenza e dilettantismo che Calamandrei attribuiva alla ‘paidocrazia’ fa­scista (quasi rimpiangendo la ‘gerontocrazia’ liberale’). Da queste pagine emergono con chiarezza alcuni tratti del mini­mo comune denominatore della formazione politica dei capi fa­scisti: l’imperialismo e il razzi­smo, il disprezzo per la democra­zie occidentali e l’anticomuni­smo, l’idealizzazione della vio­lenza sia nel ricordo sempre edulcorato delle imprese squa- dristiche sia nell’esasperazione nazionalistica e nel culto della guerra. In questo senso, forse, la pubblicazione di questo diario può servire a far luce sulla anti­camera del dittatore o nei recessi del regime: una luce limitata e parziale, secondaria anche se certo non irrilevante per la pro­blematica di studio della classe dirigente fascista.

Marco Palla

G i o r d a n o B r u n o G u e r r i , Italo Balbo. Lo squadrista, il gerarca, l ’aviatore. La biografìa, basata su documenti inediti, del più pe­ricoloso rivale di Mussolini, Mi­lano, Vallardi, 1984, pp. 458, li­re 25.000.

Scrivere la biografia di un ge­rarca fascista è sempre più faci­le, finché la fonte principale di questo genere letterario conti­nuano ad essere le memorie e le testimonianze di protagonisti

grandi e piccoli, più o meno abil­mente arrangiate, e la vasta pro­duzione agiografica e giornalisti­ca sfornata incessantemente da rotocalchi, collane divulgative e autori ‘specializzati’. Questa nuova biografia del Guerri, la prima di Italo Balbo apparsa con pretese di completezza, rivela appunto una straordinaria cono­scenza della produzione memo­rialistica e scandalistica sul regi­me fascista e sul personaggio in questione e un’altrettanto note­vole disponibilità a utilizzare questa massa di notizie senza al­cuna selezione né distinzione cri­tica. Il risultato è una biografia di piacevole lettura, non priva di pagine indovinate, ma in com­plesso di poco spessore e di poca affidabilità, che arricchisce la tradizione agiografica su Balbo senza cercare di verificarla né in­quadrarla.

A dire il vero, il volume del Guerri si presenta con maggiori ambizioni, come il risultato di ricerche archivistiche nuove ed ampie; ed infatti il nostro autore è riuscito ad accedere per primo ed in esclusiva assoluta (se si ac- cettua una nota biografica di C. Segré, citata a p. 296 in modo da non essere identificabile) all’archivio privato di Balbo, ge­losamente custodito dalla fami­glia. Sulla consistenza e sul ca­rattere di questo archivio nulla dice Guerri, ma si limita ad estrame singoli documenti non inquadrati e spesso non datati, che offrono notizie nuove ed in­teressanti su alcuni aspetti della vita di Balbo (in particolare sul­la milizia 1923-25 e sull’aereo- nautica 1926-33). Nulla però che possa modificare il quadro già noto, anche perché l’accesso all’archivio personale e l’ampia collaborazione della famiglia e

dei superstiti amici sono stati pagati dal nostro autore con pe­santi concessioni alla tradiziona­le agiografia del personaggio. Il Guerri comunque non dice se è l’archivio privato ad essere pic­colo e sostanzialmente deluden­te (come non sembrerebbe dalle notizie disponibili), oppure se sono le limitazioni poste dalla famiglia ad impedire che il per­sonaggio di Balbo venga alla lu­ce in tutti i suoi aspetti (possibi­le, ad esempio, che l’archivio non contenga anche una sola carta sul governo di Ferrara che Balbo tenne per vent’anni? è la famiglia che non osa toccare questi temi o il Guerri che non sa affrontarli?).

D nostro autore annuncia an­che di aver compiuto ampie ri­cerche in vari altri archivi. L’unico realmente utilizzato è però l’Archivio centrale dello Stato, o meglio la Segreteria particolare del duce, anche se l’indicazione della collocazione dei documenti è fatta con tanta approssimazione da autorizzare il dubbio che le citazioni siano per lo più di seconda mano. Chiunque abbia un minimo di familiarità con questo fondo (senz’altro il più sfruttato tra tutti quelli degli anni fascisti) sa che per il carteggio riservato oc­corre indicare prima il numero del fascicolo, poi il nome del personaggio cui il fascicolo è in­testato, infine il sottofascicolo: il Guerri invece dà soltanto il numero della busta, un’indica­zione generica e insufficiente (una busta contiene normalmen­te più fascicoli di più persone), ma in realtà confonde buste e fascicoli. Il fascicolo 278/R: Balbo, ad esempio, è citato co­me b. 54, il fascicolo 278/R: De Pinedo come b. 278 e il fascico­

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lo 278/R : Valle addirittura co­me b. Valle. Sono errori tipici di chi saccheggia lavori altrui (e in­fatti tutti questi documenti della Segreteria particolare del duce sono già stati pubblicati, come non risulta dal volume), senza riuscire a copiare con esattezza le indicazioni archivistiche per mancanza di pratica.

I limiti delle ricerche archivi­stiche del nostro autore sono del resto evidenziati dalla sua rinun­cia ad approfondire lo studio del ruolo di Balbo a Ferrara: poiché in questo campo non aveva studi altrui da utilizzare (dato che la sua scarsa familiari­tà con le riviste di livello scienti­fico non gli ha permesso di tro­vare due nostri articoli del 1982 su questo tema specifico), il Guerri liquida l’analisi della si­tuazione politico-economico-so- ciale ferrarese dal 1924 al 1940 e la ricostruzione del potere di Balbo nella provincia in una so­la paginetta generica e superfi­ciale (p. 113).

In definitiva, il volume è co­struito sulla utilizzazione (assai avaramente riconosciuta) degli studi di Paul R. Corner e Ales­sandro Roveri sullo squadrismo ferrarese, di Ranieri Cupini sulle crociere di Balbo, miei sulla sua attività come ministro dell’Ae- reonautica e di Claudio Segré sulla colonizzazione della Libia. L’apporto originale del Guerri è la sua ottima conoscenza della memorialistica e dell’agiografia fascista e la raccolta di testimo­nianze di amici di Balbo, non­ché l’utilizzazione in chiave aneddotica del suo archivio. Il volume si riduce così ad una ri­visitazione di Balbo personag­gio, condotta con vivacità e molta simpatia, ma sempre avulsa dal contesto generale:

Guerri si ferma sempre al livel­lo del diario di Ciano, per in­tenderci, indulgendo nelle note di colore interne alla dinamica del gruppo dirigente fascista senza mai cercare di cogliere la base del potere di Balbo e di studiare le ragioni del suo suc­cesso.

Anche in questi termini, il volume potrebbe avere qualche utilità se non contenesse troppi errori, dovuti alla fretta con cui è stato scritto ed alla scarsa competenza dell’autore. A tito­lo d’esempio, la riconquista della Tripolitania fu iniziata da Volpi nel 1921-22 e non da De Bono nel 1925 (pp. 298-99); Balbo non fu (e come tenente non poteva essere) comandante in seconda di un “2° battaglio­ne Cadore” mai esistito (p. 42: il battaglione era il Pieve di Ca­dore e comunque i battaglioni alpini non hanno mai avuto un numero); Teruzzi era stato go­vernatore della Cirenaica e non vicegovernatore (p. 313), men­tre Bernotti era sottocapo di Stato maggiore della marina e non capo (p. 239: comunque il suo giudizio sui limiti dell’avia­zione è successivo alla seconda crociera e non precedente); è falso che io abbia censurato un giudizio positivo sulla cultura di Balbo (p. 45: il Guerri con­fonde due rapporti diversi del maggiore Sibille); il corso nor­male dell’Istituto universitario C. Alfieri durava tre anni e non due (p. 50); Balbo fu commis­sario prefettizio a Pinzano per cinque mesi nel 1920, non per dieci (p. 227); nel 1922 non esi­steva ancora la carica di capo di Stato maggiore generale (p. 284); Cini e Volpi erano legati a Balbo dalla metà degli anni venti, non amici dell’ultima

ora, (p. 349). Anche al livello giornalistico su cui si muove il Guerri errori banali come questi (e molti altri potremmo elencar­ne!) dovrebbero essere evitati in un libro di qualche pretesa.

Giorgio Rochat

C e s a r e M. D e V e c c h i , Il qua­drumviro scomodo. Il vero Mussolini nelle memorie del più monarchico dei fascisti, Mila­no, Mursia, 1983, pp. 294, lire 18.000.

Non si può dire che la nutrita memorialistica dei gerarchi fa­scisti si distingua per onestà, lu­cidità e profondità; queste me­morie di Cesare M. De Vecchi costituiscono però un caso limi­tato di insipienza e provocazio­ne (nel senso che presuppongo­no lettori incapaci di qualsiasi riscontro critico e qualsiasi no­zione sui fatti narrati), cui si deve riconoscere come unico merito la fedeltà all’immagine di protervia e ciarlataneria che De Vecchi seppe costruirsi co­me gerarca fascista. Non sap­piamo se sarebbe più lungo l’elenco delle sciocchezze, degli errori di fatto e delle grossolane distorsioni autoincensatorie o l’elenco delle lacune e dei silen­zi su episodi piccoli e grandi, noti e documentati; in tanta ap­prossimazione si perdono anche le note interessanti ed i partico­lari inediti, che non è possibile distinguere da quelli inventati o distorti. Ciò nonostante, il cu­ratore Luigi Romersa non esita a presentare queste memorie come rivelazioni fondamentali e ricordi autentici, senza de­gnarsi di riscontrarle con la produzione memorialistica, do­

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cumentaria e storiografica degli ultimi quarant’anni (neppure ci dice quando queste memorie fu­rono scritte, verosimilmente prima del 1949, quando un’e­morragia celebrale bloccò De Vecchi a letto per gli ultimi die­ci anni della sua vita). La pub­blicazione di queste memorie senza una nota critica, né un’avvertenza per il lettore, ma con il titolo impegnativo II qua­drumviro scomodo, si configu­ra in sostanza come un’opera­zione puramente commerciale, che non può certo servire a di­fendere la figura di un gerarca assai più squalificato che sco­modo, in vita come nelle sue memorie.

Giorgio Rochat

G a e t a n o C o n t i n i , La valigia di Mussolini. I documenti segreti dell’ultima fuga del duce, Mila­no, Mondadori, 1982, pp. 185, lire 10.000.

Nel profluvio di pubblicazio­ni su Mussolini che ci hanno travolto tra lo scorcio del 1982 e il ‘fatale’ 1983 — quasi tutte inutili se non dannose — sem­bra opportuno segnalare il volu­me di Contini, dirigente del­l’Archivio centrale di Stato, perché, meglio di tante vane rie­vocazioni, mostra come, anche nella ignominiosa fuga, il duce si portasse dietro, consapevole o meno, i documenti della sua condanna incontrovertibile, una condanna morale (che fu però anche e per fortuna reale) che nessuna pietistica rievocazione potrà far dimenticare.

L’interesse dell’autore è stato attirato dai documenti contenu­ti nella valigia che Mussolini si era portata dietro nel corso del­

l’estremo tentativi di sottrarsi con la fuga alla resa dei conti ormai imminente, documenti su cui molto si è discusso, ma che nessuno aveva finora analizzato partendo dal loro esame diretto e completo. Dopo aver rico­struito sia l’avventura ‘straordi­naria’ di queste carte (dal loro sequestro al duce fino al ritorno all’Archivio di Stato), sia le vi­cende degli archivi nel periodo della Repubblica sociale italia­na, puntualizzando, con un raf­fronto delle varie testimonianze esistenti sul tema, quale può considerarsi oggi la versione più attendibile (pp. 11-43), Contini divide in quattro gruppi i docu­menti stessi: quelli relativi al pe­riodo della presa del potere; quelli relativi agli anni imme­diatamente successivi e dedicati ai ‘complotti’ contro Mussolini; quelli relativi al periodo 1939- 1943; quelli relativi al periodo della Repubblica sociale italiana e soprattutto agli scioperi del marzo 1944.

Il quesito di fondo chel’au- tore si è posto è: come mai Mussolini scelse proprio questi documenti e non altri? A cosa mirava, con quali obiettivi ope­rò tale scelta? Evidentemente — afferma Contini — egli pensava di dover subire un processo po­litico dove avrebbe potuto, con l’ausilio di tali documenti, so­stenere la sua difesa. Ed ecco quindi che il primo blocco, quello sulla presa del potere, tende a dimostrare “l’esattezza della sua analisi e della sua azio­ne politica in quel lontano 1922: il pericolo bolscevico è evitato e il potere è saldamente nelle ma­ni delle forze ‘nazionali’” (p. 57).

I documenti del periodo 1923- 26, che ci illustrano tutta una se­

rie di “complotti” contro la sua persona, sono probabilmente per Mussolini un punto forte della sua ipotetica arringa di fronte ad un tribunale che lo ac­cuserà di uno dei reati più gravi; aver distrutto la libertà del po­polo italiano. Ebbene la sua di­fesa “è nella dimostrazione che tutti, singoli e associati, trama­vano contro lo Stato, contro il capo del Governo e le istituzio­ni; era di nuovo in giro per l’Ita­lia lo spettro del comuniSmo, della sovversione socialista e massonica. Egli, capo del Go­verno, doveva salvare lo Stato” (p. 62). Per quanto riguarda l’ultimo e decisivo ‘complotto’, quello del 25 luglio 1943, Mus­solini sceglierà con cura decine e decine di lettere e telegrammi giunti a Badoglio da parte dei gararchi, uomini d ’affari, politi­ci, funzionari dello Stato, ecc.: essi lo dovevano confermare nell’idea che era stato un tradi­mento esteso a tutti i livelli a causare le difficoltà, le insuffi­cienze emerse nella condotta della guerra. Insomma nasceva forse già allora, almeno nella sua mente, la teoria del “duce tradito”, del duce “bravo ma circondato da vili e da incapaci” (p. 154), che per tanti anni una certa memorialistica ‘nostalgica’ ci ha propinato.

Le carte del quarto gruppo si riferiscono essenzialmente al­l’episodio degli scioperi operai nell’Italia settentrionale del marzo 1944, in piena occupazio­ne tedesca. La scelta in questo caso è quanto mai chiara e pre­gnante: egli aveva salvato una prima volta l’Italia dal bolscevi­smo nel 1922: “ora il bolscevi­smo italiano stava riprendendosi la rivincita” , questi documenti “lo riportano alla sua stessa ra­

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gion d’essere o almeno a quella che egli stesso aveva mitizzato” , il fascismo toma ad essere “la sola diga al dilagare del comuni­Smo e la prospettiva di un’Italia grande e potente” , così come il suo interlocutore toma ad essere “la massa piccolo-borghese del 1919” (pp. 157-158). Insomma per Mussolini la “legittimazio­ne” del potere era essenzialmen­te l’aver sconfitto la rivoluzione bolscevica in Italia, aver riporta­to la pace sociale nel paese, ed ora che “il decadere del fasci­smo riportava le cose al punto di partenza” , che la minaccia del bolscevismo era di nuovo il ne­mico da combattere, chi “aveva le carte in regola per opporsi ad esso, se non ancora il fasci­smo?” (p. 173).

Al di là di tutto resta comun­que, significativa, la scelta di questi documenti, né propagan­distici, né demagogici, che espongono senza mezzi termini la verità sugli scioperi. Ed è for­se il caso di riflettere su tale at­teggiamento, di considerare con la massima attenzione questi da­ti di fondo, queste permanenze di lungo periodo nella ideologia di Mussolini, in un periodo in cui molti storici con disinvoltura eccessiva si dimenticano tran­quillamente di analizzare l’a­spetto di “reazione di classe” che fu — certamente insieme a molti altri — il cardine, il mo­mento chiave della nascita del fascismo, del suo avvento, della sua gestione del potere, della sua ideologia.

I documenti del terzo blocco — soprattutto quelli del 1939- 1940 sono, a mio avviso, i più si­gnificativi e importanti, anche in vista dell’uso che Mussolini intendeva fame.

Sono infatti quelli relativi al

periodo della preparazione dell’intervento in guerra — os­sia dell’atto che Mussolini pen­sava avrebbe dovuto maggior­mente difendere nei ‘processi’ — e al periodo della guerra (non a caso essi costituiscono il gros­so delle carte della valigia). A questo proposito il duce “non cerca di giustificare il disastro della guerra; se sia stata un’ope­razione sbagliata o no, se poteva o no essere evitata” (p. 95). Il suo problema era piuttosto quello di far capire come si era giunti al conflitto e soprattutto “chi con lui avrebbe dovuto di­videre il pesante fardello del giu­dizio storico” (p. 95).

In questo gruppo spiccano il discorso di Mussolini al Gran Consiglio del 4 febbraio 1939 e il verbale della riunione dei capi di Stato maggiore del 18 no­vembre 1939. Una apparente contraddizione sembra correre tra essi: il primo contiene i pro­getti di espansione, il secondo evidenzia la debolezza e la crisi delle forze armate. Ma forse da una loro analisi comparata per Mussolini risultava ancora più evidente che la strada obbligata per il nostro paese — debole politicamente, economicamente e militarmente, ma che non vo­leva abdicare al ruolo di grande potenza — era quello di rita­gliarsi, nell’ambito dello scon­tro mondiale, uno spazio per i propri obiettivi: la guerra paral­lela, appunto, come egli enun- cerà nel Promemoria del 31 marzo 1940, anche esso conte­nuto nella valigia. Dunque Mussolini, nella ultima fuga, si trascinava dietro i documenti della contraddizione fondamen­tale insita in tutta la politica estera fascista, tra l’essere e il voler essere, tra la realtà di un

paese di secondo piano e il mito della grande potenza.

Il volume insomma ha il meri­to (pur se non sempre la tesi di fondo del ‘processo’ che Musso­lini ipotizzava di dover subire appare convincente e talvolta ri­mane una ipotesi suggestiva e affascinante) di tentare una in­terpretazione, condotta in ma­niera seria e corretta, del perché della scelta di quei documenti, per cui alla fine si può conclude­re che se Mussolini — come af­ferma Contini — “nella valigia portava soprattutto se stesso” , portava soprattutto la sua con­danna.

Giovanni Pariavecchia

M a r i a T e r e s a P i c h e t t o , Alle radici dell’odio. Preziosi e Beni­gni antisemiti, Milano, Angeli, 1983, pp. 148, lire 8.000.

Negli ultimi mesi stiamo assi­stendo a un rinnovato interesse verso il problema del razzismo e dell’antisemitismo, dal punto di vista ideologico, ma anche con ricerche sulla politica del fasci­smo in questo campo (si vedano “Rivista di storia contempora­nea”, 1983, n. 1 e il volume di Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Milano, Co­munità, 1982, già segnalato sul n. 150 di questa rivista).

Il volume della Pichetto posa l’attenzione più che sul razzi­smo, sull’antisemitismo, esisten­te in alcuni strati della società molto prima dell’avvento del fa­scismo, pur trovando alimento negli stessi principi ideologici che ad esso portarono. L’antise­mitismo si innestava sostanzial­mente nella lunga tradizione di matrice cattolica e non a caso i due personaggi qui studiati (a

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Rassegna bibliografica 113Benigni, figura certo meno nota di Preziosi, sono dedicate non molte ma interessanti pagine) furono entrambi sacerdoti (Pre­ziosi solo per un periodo della sua vita), provenienti da posi­zioni ideologiche diverse “ma entrambi all’interno della tradi­zione cattolica” (p. 10) e in defi­nitiva tra i pochi ‘coerenti’ anti­semiti italiani del nostro secolo. Furono insomma degli ‘antesi­gnani’ e l’attività e il pensiero di Preziosi avrà anche una certa in­fluenza (da non sopravvalutare come riconosce la stessa Pichet- to, che ricorda l’avversione pro­vata sempre da Mussolini ver­so questo personaggio) quando dalla teoria si passerà alla prati­ca: significativamente egli sarà sempre in prima fila nel tentati­vo di rendere ancora più pesante la discriminazione e la persecu­zione fascista contro gli ebrei.

L’autrice ci illustra rapida­mente ma incisivamente l’iter ideologico di Preziosi, dai con­tatti con Murri alla fondazione de “La vita italiana”, dall’ade­sione al fascismo alla insistenza sul trinomio “ebraismo-masso­neria-bolscevismo” contro cui bisognava lottare per salvare la civiltà, dalla pubblicazione dei Protocolli dei Savi anziani di Sio­ni (.L ’internazionale ebraica - / protocolli dei Savi anziani di Sion, Roma, “La vita italiana” , 1937) alla sua posizione nell’am­bito dell’ideologia del fascismo, dall’adesione alle dottrine razzi­ste del nazismo alla collaborazio­ne con Farinacci e Interlandi.

È particolarmente significati­vo poi che, al momento dello scatenarsi della campagna antie­braica nel 1938, analizzata dalla Pichetto nelle sue varie espres­sioni e cercando di sottolineare le differenziazioni tra i ‘parteci­

panti’ a questa triste pagina del­la nostra storia, Preziosi tenesse a rivendicare una sorta di pri­mogenitura del fascismo rispet­to al nazismo e soprattutto a far notare come il razzismo italiano fosse tutto spirituale, essendo la razza un insieme di valori spiri­tuali. Su questa strada si ritrova­vano infatti le gerarchie cattoli­che, disposte ad accettare “il ri­torno alle vecchie discriminazio­ni e la politica antisemita, pur­ché non fosse fondata sul razzi­smo biologico” (p. 89). Del re­sto non fu padre Agostino Ge­melli a dichiarare in una confe­renza del 1939 che vedeva “at­tuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé?”. E non fu il vescovo di Cremona ad affermare, sempre nel 1939, che la Chiesa non ne­gava allo Stato il diritto di perse­guitare gli ebrei e si guardava bene dal difenderli? (p. 90). Il fatto che emerga così chiara­mente tale oggettiva ‘comunio­ne’ di intenti dimostra come l’assunto da cui è partita l’autri­ce risulta giusto: l’antisemitismo — lo ha giustamente ricordato Rochat — godeva della piena cittadinanza nella Chiesa catto­lica anche in questo periodo.

Non meraviglia certo l’ade­sione di Preziosi alla Rsi: il fa­vore da lui sempre riscosso pres­so i tedeschi, cresciuto natural­mente dopo il settembre 1943, farà sì che, per la loro insisten­za, egli otterrà l’unica carica pubblica della sua camera poli­tica sotto il fascismo: la direzio­ne dell’Ispettorato generale per la razza, nel marzo 1944. La sua tendenza monomaniacale ad at­tribuire agli ebrei tutte le colpe, con una insistenza propagandi­stica che poteva risultare con­troproducente tanto era ossessi­

va e ripetitiva da decenni, diven­ne parossistica coll’awicinarsi della sconfitta, ma egli fu fedele alla sua ideologia sino alla fine: l’ultimo Consiglio dei ministri della Rsi, il 16 aprile 1945, die­tro sua proposta approvò una nuova legislazione antisemita! Crollato tutto, Preziosi si suici­derà il 26 aprile del 1945.

L’ultima parte del volume è dedicata a Umberto Benigni, di cui “è poco conosciuta la conti­nua e violenta polemica antie­braica”, che, per essersi svolta in parte prima dell’avvento del fascismo, conferma “la presen­za di un certo tipo di antisemiti­smo fin dai primi anni del Nove­cento” (p. 103). Partito da posi­zioni moderniste egli non esitò, per opportunismo, a compiere una virata di 180 gradi e a schie­rarsi su posizioni sempre più in- tegraliste, cui affiancò una atti­vità pubblicistica in cui gli ebrei erano avversati e accusati quali sostenitori del liberalismo, del bolscevismo, della massoneria dell’internazionalismo e dell’ ‘o- micidio rituale’ (un argomento che può apparire risibile, ma a cui Benigni dedicherà molti scritti).

È altresì poco noto che, a conferma di un itinerario paral­lelo anche se non convergente, Benigni pubblicò una propria edizione dei Protocolli dei Savi anziani di Sion nel 1921, un me­se dopo quella di Preziosi. La sua adesione al fascismo lo por­tò a divenire uno degli informa­tori della segreteria del duce e dell’Ovra, sebbene la morte, av­venuta nel 1934, non gli consen­tisse di vedere attuate anche in Italia quelle dottrine per cui ave­va tanto combattuto.

Giovanni Pariavecchia

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T u l l i o C i a n e t t i , Memorie dal carcere di Verona, a cura di Ren­zo De Felice, Milano, Rizzoli, 1983, pp. XXVI-529, lire 40.000.

“ Io sono sempre in buona fe­de” , conclude le sue memorie (p. 523) l’ultimo ministro delle Corporazioni, Tullio Cianetti, l’unico sfuggito alla condanna capitale al processo di Verona contro “i traditori del 25 luglio” firmatari dell’ordine del giorno Grandi che non riuscirono a fuggire fuori d’Italia. In attesa delle memorie di Alfredo De Marsico e di Dino Grandi, an­nunciate da Renzo De Felice (p. XXI), queste del ‘sindacalista’ Cianetti, scritte durante la per­manenza nel carcere di Verona in attesa del processo e durante lo stesso processo (letteraria­mente ben costruite, in tono drammatico — e un poco melo- drammatico — le pagine relative all’ultima notte passata in com­pagnia di Ciano, De Bono, Pa- reschi, Marinelli e Gottardi, fu­cilati I’l l gennaio 1944, pp. 493- 510), certamente servono per comprendere e valutare gli ‘uo­mini del duce’, il personale sul quale si costruirono le fortune dittatoriali di Mussolini. Utili, quindi, per gli addetti ai lavori queste pagine, spesso riempite da lunghe divagazioni pseudofi­losofiche, ma scarne di reali ri­velazioni, non meritavano pro­babilmente una divulgazione di massa. Da esse non esce un ri­tratto del regime neppure visto dall’interno e non si ricavano se non meditazioni contraddittorie sul rapporto difficile dell’autore con se stesso.

De Felice (p. IX) definisce Cianetti un “semplice” e un “buono” . Non è la stessa im­pressione che abbiamo ricavato

dalla lettura delle Memorie, o meglio la definizione non ci pare sufficiente. Basti pensare che ci troviamo di fronte a un dirigen­te politico-sindacale che, pur es­sendosi accorto, fin dal 1926, in qualche modo, della sostanziale diversità tra i programmi fascisti e la loro pratica realizzazione (pp. 132-133), tuttavia continuò tranquillamente a gestire, in no­me del fascismo, settori sempre più ampi di potere, cercando di garantire al regime un consenso e una ‘copertura’ in nome di una pretesa (e certo non influen­te) corrente di ‘sinistra’ e rosso- niana. Una scalata abbastanza rapida del giovane (era nato nel 1899) contadino umbro all’in­terno dell’organizzazione sinda­cale (fra coloro che De Felice, p. V, definisce, un po’ ‘audace­mente’ a nostro parere, “quadri centrali e periferici più preparati e più sensibili ai problemi dei la­voratori”), fino ai vertici di uno Stato di cui, nelle Memorie, continua a registrare gli errori e le contraddizioni, ma contro il quale, o per modificare il quale, nulla fa, se non mormorazioni di corridoio e una innocua fron­da, del resto largamente diffusa. Anzi, quest’uomo “sensibile ai problemi dei lavoratori” è pro­prio quello che, nel marzo 1943, di fronte alle rivendicazioni eco­nomiche (e politiche) degli ope­rai del triangolo industriale (del cui malessere non si era reso conto...), si offre volontaria­mente per andare a Milano “ad affrontare” gli scioperanti per riportare l’ordine (pp. 361 sgg.). È lo stesso uomo che, pur riem­piendo pagine e pagine con ac­cuse a Mussolini, non riesce ad essere coerente neppure con se stesso: si accoda, quasi con en­tusiasmo, nella notte del Gran

consiglio all’ordine del giorno Grandi e, aU’indomani, scrive a Mussolini ritirando la propria adesione.

Un debole? Un opportunista? Questi aggettivi sono forse trop­po netti per definirlo e giusta­mente Renzo De Felice sottoli­nea una sorta di dipendenza psi­cologica di un uomo che ha otte­nuto — e ne è consapevole — una vera e propria promozione sociale dal fascismo e da Musso­lini e che, solo grazie al regime, è stato immesso direttamente nel­la classe dirigente (p. XIII). Di qui probabilmente i limiti della sua personalità a una vera e pro­pria incapacità ad agire e a deci­dere. Di qui, senza dubbio le profonde contraddizioni tra le riflessioni critiche sul regime ed i suoi dirigenti e la scelta di conti­nuare ad agire all’interno di quel sistema e di godere del ruolo pri­vilegiato conseguito. Si vedano le pagine (324-326) nelle quali Cianetti descrive lungamente la “delusione” provocata in lui dall’atteggiamento di Mussolini che, il 18 novembre 1940, dichia­rava che l’Italia avrebbe “spez­zato le reni alla Grecia” e il com­mento che l’autore fa a tali paro­le: “E sta bene! Rimanga pure sul pulpito, si compiaccia del trono, giuochi alla plastica sta­tuaria, ma per l’Iddio dei giusti e dei saggi, stia zitto!” . Sono righe che forse sintetizzano le contrad­dizioni politiche di un Cianetti che accetta sì che, per pochi inti­mi, “l’idolo cada nella polvere”, che porti pure il paese allo sface­lo, ma che non si copra di ridico­lo in pubblico.

Quale senso dello Stato? Non è facile rispondere, ma probabil­mente la risposta è: nessuno e nessun senso di responsabilità per un potere di vita e di morte

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sui cittadini che viene usato qua­si fosse un gioco fra un gruppo di amici che si divertono a dirige­re uno Stato e a parlar male del capo. E anche la guerra diventa un wargame, nonostante la trau­matica esperienza di volontario sul fronte greco-albanese.

Certo nel volume non manca­no spunti interessanti. Si vedano le critiche alle corporazioni e al sistema Bedaux (pp. 206-207), le riflessioni sul concetto di ditta­tura (pp. 284-290), i rapidi cenni sull’intervento contro la Spagna democratica, mai discusso “in nessun consesso del regime” (pp. 269-270), le critiche a Bottai (pp. 147-150), le annotazioni sulla progressiva emarginazione del Pnf (pp. 279-284). Ma il tutto re­sta disperso e sommerso in oltre 500 pagine di un testo troppo spesso pedagogico-morale, un tono che non sempre è causato dal fatto che le Memorie furono scritte non per essere rese pub­bliche, ma quasi come testamen­to per le figlie, e da un uomo che non credeva di uscire vivo dal carcere di Verona.

Furono pochi (come Giuriati) che ebbero la capacità (e il co­raggio) di trarre adeguate conse­guenze dai giudizi che, con la fi­ne degli anni venti, si erano for­mati sul regime che avevano con­tribuito a portare al potere. E, in qualche modo, questo Cianetti, così contraddittorio, ha molti punti in comune con altri gerar­chi per i quali si è (a torto) voluta scoprire una funzione determi­nante per la crisi del regime; quei Grandi e Ciano, ad esempio, che invece ‘cospirarono’ solo quan­do si trattò, a guerra decisamen­te perduta, di tentare di salvare le proprie posizioni personali. Cianetti non seppe fare fino in fondo neppure questo e forse co­

sì rappresenta il miglior ritratto di quel ceto medio che si formò durante il regime, assurse a posti di responsabilità e di direzione, ma soprattutto tanto servì a co­prire con veli ‘rivoluzionari’ il rafforzamento delle vecchie éli­tes politiche ed economiche.

Luciano Casali

I s t i t u t o R e g i o n a l e p e r l a s t o ­

r i a d e l l a R e s i s t e n z a e d e l l a

G u e r r a d i L i b e r a z i o n e i n E m i ­

l i a - R o m a g n a , “Annale 1981/ 1982”. Le campagne emiliane in periodo fascista. Materiali e ri­cerche sulla battaglia del grano, a cura di Massimo Legnani, Do­menico Preti e Giorgio Rochat, Bologna, Clueb, 1982, pp. 636, lire 20.000.

Il volume raccoglie, come dice il titolo, “materiali e ricerche sulla battaglia del grano” : mate­riali non sempre omogenei ma certo molto utili per approfondi­re un discorso che solo in tempi recenti è stato iniziato in manie­ra più puntuale, superando una concezione del periodo fascista come periodo di pura stagnazio­ne economica. La stessa ideolo­gia ruralista del regime è analiz­zata, in più di un saggio, non so­lo e non tanto nel suo carattere mistificante ma anche nella sua relativa efficacia politica. Do­menico Preti osserva ad esempio che il protezionismo cerealicolo è in realtà — per più di una ra­gione — chiave di volta di una scelta complessivamente indu- strialista, ma osserva poi anche come il regime riesca comunque ad attivare a partire dall’ideolo­gia ruralista “un grande momen­to di catalizzazione dell’interesse collettivo” e a costruire degli im­

portanti terreni di incontro — soprattutto dopo il Concordato — con vasti settori del mondo cattolico (a questi aspetti è dedi­cato, nel volume, il contributo di Anna Paganelli).

Indubbiamente, come ricorda Massimo Legnani, la battaglia del grano, va vista nei suoi vari aspetti (propagandistico, tecni­co-economico ecc.) e soprattut­to va collocata nel quadro com­plessivo delle scelte economiche del regime: viene in piena luce, per questa via, il problema del rapporto fra fascismo come “ri­torno all’indietro, controrivolu­zione” (è d’obbligo il riferimen­to alla ‘restaurazione contrat­tuale’, alla compressione dei sa­lari e dei consumi) e fascismo come “gestione parziale alterna­tiva rispetto all’età liberale delle trasformazioni in atto” .

Subordinazione dell’agricol­tura all’industria e divaricazione fra le diverse aree agricole (con una forte penalizzazione dell’a­gricoltura meridionale) sono elementi omogeneamente indi­cati, nei vari saggi, come costi­tutivi della politica economica del regime: è però nella loro de­terminazione che emergono toni e sfaccettature diverse, che se­gnalano indubbiamente ulteriori direzioni di ricerca. Così è in particolare per gli effetti indotti nell’area dell’agricoltura capita­listica padana. Domenico Preti, ad esempio, ricorda i fattori ge­nerali che ostacolano la mecca­nizzazione agraria (“sovrappo­polazione relativa, bassi salari, entità drammatica della disoc­cupazione e larga estensione del­la sottoccupazione, alti prezzi d ’acquisto delle macchine..., inefficiente rete di assistenza tecnica..., pessimo andamento del mercato per un lungo perio­

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do...”) e osserva che quel che stupisce non è in realtà la lentez­za del processo di meccanizza­zione ma il fatto che esso abbia potuto comunque verificarsi, so­prattutto nelle grandi aziende capitalistiche padane, introdu­cendo elementi di novità reale. Sui limiti degli incrementi pro­duttivi realizzati si sofferma in­vece Luciano Bergonzini che, analizzando più da vicino la pro­duzione granaria dell’Emilia, sottolinea piuttosto gli “esiti li­mitati e irregolari della battaglia del grano nella regione” e osser­va come apprezzabili aumenti nelle rese unitarie si verifichino nei fatti solo in alcune zone (il bolognese e il ferrarese in parti­colare). Pier Paolo D’Attorre, infine, considerando i rapporti fra agrari bolognesi e fascismo ripercorre le varie tappe attra­verso cui “gli agrari perdono la guerra per il ‘primato dell’agri­coltura’” ma al tempo stesso sottolinea che incrementi pro­duttivi nelle grandi aziende capi­talistiche bolognesi indubbia­mente vi furono, mentre risultati più modesti si ebbero nelle pic­cole aziende di montagna e di collina e contemporaneamente si verificò un peggioramento dra­stico dei consumi alimentari dei lavoratori agricoli. Al mon­do degli agrari è dedicato anche il saggio di Giorgio Rochat sulla Ferrara di Italo Balbo (una Fer­rara le cui vicende sono segnate — sullo sfondo — dalla conti­nua presenza del problema brac­ciantile), e sulla stampa agraria si soffermano Maria Malatesta, Annalisa Botti e Patrizia Frac- chia. Teresa Isenburg svolge poi alcune considerazioni sulla ‘bo­nifica integrale’, mentre Cateri­na Zanella, Severina Fontana e Giuliano Muzzioli esaminano gli

indirizzi produttivi e alcune ca­ratteristiche generali del Ferrare­se, del Piacentino e del Modene­se, e infine Salvatore Adorno ci propone una interessante bio­grafia di un tecnico agricolo si­gnificativo come Vittorio Pe- glion.

Diversi saggi, anche fra quelli già citati, analizzano più da vici­no le condizioni delle classi su­balterne, e di particolare interes­se è il contributo di Dianella Ga- gliani. Considerando i compor­tamenti bracciantili la Gagliani mette in luce il multiforme ma­nifestarsi di processi di resisten­za, di opposizione, ma sottoli­nea al tempo stesso i limiti sia ‘qualitativi’ che ‘quantitativi’ di essi: ne esce un quadro estrema- mente articolato, che spinge a una riconsiderazione più pun­tuale dei comportamenti e degli atteggiamenti dei lavoratori agricoli durante il ventennio.

Guido Crainz

A n n a C e n t o B u l l , Capitalismo e fascismo di fronte alla crisi. In­dustria e società bergamasca 1923-1937, Bergamo, Il Filo di Arianna, 1983, pp. 231, lire 16.500.

Nel panorama della storiogra­fia sul fascismo, gli studi locali sugli anni trenta sono ancora troppo scarsi per autorizzare un bilancio complessivo o addirit­tura una nuova immagine di un regime centralizzato e monoliti­co (più presunto che reale). I sondaggi e i risultati che tuttavia abbiamo a disposizione fanno chiaramente intravedere la com­plessità e l’articolazione interna di una dittatura che si era neces­sariamente espressa ed adattata

a un paese diseguale come l’Ita­lia, a una società squilibrata e multiforme segnata da un grado notevole di debolezza ‘economi- co-corporativa’ e di particolari­smi. Anche questa ricerca su Bergamo dimostra l’utilità di questo tipo di ricognizioni rav­vicinate e circoscritte, se con­dotte problematicamente e non ristrette a una cronaca pura­mente descrittiva. L’autrice co­nosce bene la storiografia esi­stente e ha vagliato un’ampia se­rie di fonti statistiche, censua- rie, a stampa (pubblicazione e periodici), valorizzando in par­ticolare i dettagliati e preziosi documenti dell’archivio della lo­cale Camera di commercio. Con precisione e sicurezza d’analisi, viene ricostruito un quadro geo- grafico-economico, sociale e po­litico della provincia fino all’av­vento del fascismo, che mette in luce la relativa linearità di una struttura imperniata su industria e proprietà terriera, operai e contadini, dove stenta a farsi lu­ce una piccola borghesia urbana (impiegati) e rurale (fittavoli) che costituisce l’ossatura del movimento fascista delle origi­ni, numericamente esiguo e poli­ticamente schiacciato dalla con­correnza dei liberali e dei catto­lici anche dopo il 1922 (alle ele­zioni del 1924, il Ppi ottiene il 34 per cento dei voti e il ‘listone’ il 41 per cento). Operando solo sul terreno della violenza squadri- stica, minore che in altre zone di province confinanti, mobilitan­do i suoi seguaci dalle colonne di una stampa dai toni e dai con­tenuti rozzi e primitivi, il fascL smo bergamasco manca perfino di un ‘ras’ locale o di capi auto­revoli, ed è condizionato fin quasi a metà degli anni venti dall’appoggio unanime ma con­

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tingente dei maggiorenti clerico- moderati e liberal-nazionalisti, che sperano di potersene servire per fini transitori. Il fascismo come regime trova spazio piut­tosto come espressione di una “colossale ristrutturazione indu­striale” (p. 165) che dà vita a un nuovo blocco borghese, emanci­patosi dalle tradizioni e dalla tu­tela politica sia del patriziato terriero sia della vecchia impren­ditorialità individualista e pater­nalista (che, non a caso, resta più legata, con quasi tutto il set­tore tessile, agli ambienti cattoli­ci). Fra guerra e dopoguerra, le nuove forze industriali (elettrici, Dalmine, Italcementi) si sono coalizzate per una rapida ascesa che le porta non solo a impadro­nirsi delle leve di comando di tutta l’industria locale ma ad al­lungare le redini direttamente sul partito fascista, i cui organi dirigenti saranno negli anni trenta composti prevalentemen­te dai nuovi ‘padroni del vapo­re’. Se i quadri intermedi locali del Pnf restano emarginati dalle sedi decisionali del potere eco­nomico (consigli d’amministra­zione, banche), i ‘nuovi’ indu­striali vanno a dirigere in prima persona la Camera di commer­cio, l’amministrazione provin­ciale e quella comunale, mentre stabiliscono duraturi contatti con esponenti del regime a livel­lo nazionale, legandosi a un Volpi di Misurata più che ai fa­scisti bergamaschi, siano essi l’ex operaio e sindacalista Capo- ferri, il permaloso conte Giaco­mo Suardo, o il maestro elemen­tare e farinacciano Beratto. Po­che, ma solide e dinamiche grandi imprese, relativamente indipendenti dal mercato estero, bisognose di una moderna e po­tente struttura finanziaria (che

la rete delle casse rurali cattoli­che non può fornire) che alimen­ti ingenti crediti a lungo termine, stringono dunque un rapporto strettissimo con lo Stato, con la protezione e l’intervento statale di salvataggio durante gli anni più duri della crisi mondiale.

L’autrice fornisce qui ampia materia d’interesse storico gene­rale, per quanto riguarda l’in­treccio fra industria e regime che nasce su radici locali e si svi­luppa fino ai livelli più alti del potere politico ed economico nello Stato fascista. Di pari inte­resse (e si segnala non solo per i risultati e i dati presentati, ma per l’interpretazione suggerita), è la ricostruzione del comporta­mento reale del Pnf, dei sinda­cati fascisti e di tutte le altre or­ganizzazioni collaterali nel pie­no della crisi economica, co­strette talora a rivaleggiare con le corrispondenti organizzazioni cattoliche, che spesso le sopra­vanzano numericamente nei set­tori giovanili e femminili. Le opere assistenziali fasciste han­no l’effetto di depotenziare poli­ticamente il Pnf e lo stesso ruolo collaborazionista dei sindacati, approfondendo la storica scon­fitta operaia degli anni venti in dimensioni di vera e propria di­sfatta. Esercitandosi su un terre­no di autentica miseria, l’assi­stenzialismo fascista è ben lungi dall’ottenere un ‘consenso’ po­polare nutrito di una qualsivo­glia misura di adesione politica, pur incassando il successo deri­vante dall’accettazione pragma­tica di una beneficienza che le masse popolari ovviamente si guardavano bene dal rifiutare, e che spesso non potevano per­mettersi il lusso di respingere, oppresse da una lotta quotidia­na per la sopravvivenza materia­

le che veniva “combattuta so­prattutto nell’ambito ristretto della famiglia e che difficilmente portava a forme spontanee di aggregazione o di mobilitazione collettiva” (p. 164). La contrad­dizione del regime fascista stava nel dato elementare che questo ‘successo’ rappresentava: essen­do efficace proprio e solo per­ché si indirizzava a consumatori ridotti all’indigenza, beneficati inoltre dagli industriali e dai parroci, l’assistenzialismo fasci­sta aveva stabilito un contatto puramente contingente con gli strati popolari della popolazio­ne, rassegnati e indifferenti di fronte alle motivazioni ideali, politiche, culturali (se mai si ma­nifestavano) del fascismo, emar­ginati da una sia pur minima partecipazione alla vita politica e sociale del regime e quindi estranei a ogni prospettiva di so­stenere le iniziative o di difen­derne le sorti.

Marco Palla

D a n t e S e v e r i n , Fascismo a Co­mo 1919-1943. Carteggi inediti e stampa nella ricerca storica, Co­mo, Edizioni New Press, 1983, p. 139, sip. [Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione].

Questo libro di Dante Seve­rin, pubblicista e storiografo avente all’attivo numerose pub­blicazioni di storia locale coma­sca, costituisce il seguito ideale di un saggio pubblicato qualche anno fa sulla lotta politica a Co­mo dall’Unità al fascismo: non a caso l’introduzione e i primi capitoli esaminano il periodo giolittiano, “per il quale una meditazione non è mai troppa” , e quello della crisi dello Stato li­

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berale già trattati nel precedente volume. Indubbio merito del­l’autore e quello di aver tenta­to per primo una ricostruzione complessiva delle vicende del fascismo locale basandosi, oltre che su fonti a stampa, sul Fon­do della Prefettura, Gabinetto, conservato presso il locale Ar­chivio di Stato. Vengono così rievocati in un’ottica tipica­mente événementielle che lascia sullo sfondo i processi so­cioeconomici e, in genere, la società comasca, fatti e figure della vita cittadina degli anni tra le due guerre. Questa scel­ta, insieme a quella di lasciar “parlare le carte” poiché “tra­me, racconti e giudizi sorgono spontanei dai documenti” (p. 9), costituisce uno dei limiti del saggio. L’ingenuità metodolo­gica è particolarmente evidente nelle pagine — peraltro tra le più interessanti del volume — in cui l’autore ricostruisce il dualismo esistente tra autorità partitica, impersonata dal ‘ras’ Tarabini, coinvolto in irregola­rità amministrative, e autorità statale, rappresentata, tra gli altri, dal prefetto Rizzatti, con­siderato dal Severin uno “tra i migliori prefetti venuti a Co­mo” (p. 81): il prefetto, “inter­locutore autorevole” dell’oppo­sizione interna del partito e della “gente comune” (p. 7), finisce per assurgere nelle pagine del Severin a interpretare obiettivo delle esigenze della società co­masca.

Gilberto Bolliger

Storia della Chiesa

A n d r e a R i c c a r d i , Il “partito romano ” nel secondo dopoguer­ra (1945-1954), Brescia, Morcel­

liana, 1983, pp. XX-254, lire 18.000.

Dopo Roma “città sacra”? Dalla conciliazione all’operazio­ne Sturzo, del 1979, Andrea Riccardi prosegue le sue indagi­ni sulla presenza della chiesa cattolica nella realtà italiana contemporanea con questo stu­dio sul ‘partito romano’, ovvero — per riprendere la definizione dell’autore — “d’una lobby, in­terna al mondo ecclesiastico, d’orientamento politico clerico- moderato” che tenta, senza suc­cesso, nel primo decennio po­stbellico, di opporsi al “proget­to vincente nel mondo cattolico e nella società italiana, quello di G.B. Montini e di De Gaspari” (p. X). La ricostruzione è ricca di dati e di riferimenti documen­tari; particolarmente prezioso appare il ricorso alle carte di monsignor Ronca che, nella sua qualità di animatore del movi­mento di “Civiltà italica” , svol­ge a livello di relazioni politiche un ruolo parallelo e complemen­tare a quello sviluppato dai Co­mitati civici di Gedda nel campo della mobilitazione di massa. L’ampiezza delle fonti consente a Riccardi di riproporre con analitico puntiglio una cronaca talvolta minore, ma egualmente significativa, del moltiplicarsi di atti, incontri, prese di posizione attraverso i quali esponenti di primo piano della gerarchia ec­clesiastica si mossero nella pro­spettiva di un diretto condizio­namento della politica italiana.

Il disegno, noto nelle sue linee generali, di conferire una forte impronta cattolica al nuovo Sta­to repubblicano, si esprime in una varietà di episodi e perso­naggi i cui obiettivi subiscono continui adattamenti al variare

delle congiunture politiche. La stessa pregiudiziale anticomuni­sta — che pure rappresenta la nervatura ideologica centrale del progetto — non ignora di­stinguo, sfumature, cangianti priorità. Da Gedda a padre Lombardi a “La civiltà cattoli­ca” (che sotto la direzione di pa­dre Mortegani raccoglie organi­camente le valutazioni, e le ‘di­rettive’, del ‘partito romano’), il quadro che si viene componen­do riesce assai mosso e si inseri­sce in un orientamento dei verti­ci vaticani nel quale — al di là della diversità/contrapposizio­ne tra i due sostituti alla Segrete­ria di Stato, Tardini e Montini — Pio XII pare contraddire, con non poche oscillazioni di giudizio, l’immagine di monoli­tismo spesso attribuita al suo pontificato. Il libro segue da vi­cino i ripetuti sforzi, prima e do­po il 18 aprile 1948, di ancorare la De a forme di stretta alleanza sulla destra: dalla iniziale atten­zione a Orlando come utile cer­niera con il moderatismo prefa­scista ai rapporti privilegiati con l’‘Uomo qualunque’; dall’impe­gno a convogliare il Msi su posi­zioni ‘parlamentari’ alle apertu­re ai monarchici inserite in un più ampio disegno di riorienta­mento della vita politica meri­dionale. La discriminante che guida tutte queste iniziative è costituita, sino al 1947, dal rifiu­to del Cln e, dopo il 1947, da una battaglia anticomunista concepita come base di legitti­mità di un blocco di forze nazio­nali senza preclusioni a destra. Sono, come si vede, momenti di una cronaca certo non ignorata dalla letteratura sul dopoguerra, anche se ricostruiti più in chiave pubblicistica che storiografica (si vedano in proposito le osser­

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vazioni dell’autore all’inizio del capitolo Vili). Ma è proprio nel passaggio dall’uno all’altro li­vello che il libro si rivela carente e, in ultima analisi, deludente.

A ragione Riccardi mette in guardia dalle tentazioni di clas­sificare gli schieramenti vaticani secondo la topografia parla­mentare (p. 30); e altrettanto opportuno è il richiamo, repli­cato a ogni capitolo, a non sot­tovalutare la preminente radice religiosa di molti dei comporta­menti politici delle gerarchie ec­clesiastiche. Ma i modi nei quali l’autore accoglie il suo stesso in­vito lascia perplessi. Anziché es­sere analizzate come una soglia preliminare alle opzioni politi­che, le radici religiose sono po­stulate ma non indagate, resta­no confinate in un limbo che sottrae loro ogni capacità espli­cativa. Vi sono, è vero, passaggi nei quali Riccardi sembra coglie­re le connessioni tra i due terre­ni. Quando, ad esempio, si sof­ferma sulla ‘democrazia protet­ta’ auspicata da “Civiltà cattoli­ca” e osserva: “In effetti non c’è un riconoscimento dei partiti come espressione della volontà politica e portatori delle grandi tradizioni della storia politica del paese; si tende a vedere la stessa verifica elettorale come un confronto tra masse che han­no il loro punto di riferimento non tanto nei partiti, quanto in entità esterne alla stesa vita poli­tica, cioè, in ultima analisi, la Chiesa e l’errore, concretizzato nel movimento comunista inter­nazionale” (p. 129). Può sem­brare l’inizio di un discorso inte­so a verificare persistenze e svi­luppi della concezione ‘concor­dataria’ come strumento di ‘neutralizzazione’ del nuovo si­stema politico-sociale; e invece

le concettualizzazioni stesse che reggono l’impianto del libro va­nificano tale prospettiva. Valga per tutti l’uso del termine ‘mo­derato’ come qualificativo del ‘partito romano’, termine che si affolla a ogni pagina senza mai assumere un reale spessore in­terpretativo e anzi costituendo un sedimento di permanente ambiguità. Nella prefazione, dopo aver escluso che il “partito romano” si ponga in linea di continuità con il clerico-mode- ratismo del primo Novecento, Riccardi prosegue: “A monte di questo moderatismo c’è un’im­pronta tipicamente romana. In una mentalità scettica sul rifor­mismo sociale, la fedeltà assolu­ta alla Chiesa, espressa soprat­tutto nel pontificato romano, il senso di moderazione politico­sociale, conducono all’afferma- zione di quell’obiettivo priorita­rio che è la sconfitta delle sini­stre” (p. XVI). Dove è evidente che moderato e moderatismo acquistano significato non tanto di scelta politica, ma di compor­tamenti riflessi: “la mentalità scettica sul riformismo sociale” segnata da “un’impronta tipica­mente romana” . Non appare al­lora strano che manchi ogni ri­ferimento alla borghesia capita­listica (e alle scelte di politica economica) e che revocazione di un “partito moderato som­merso” che nel paese raccoglie­rebbe le aspettative delle classi medie sia priva di ogni determi­nazione politica e sociologica. In un unico caso quella “menta­lità scettica sul riformismo so­ciale” trova un aggancio diretto e puntuale al quadro della lotta politica ed è a proposito delle leggi agrarie e del Mezzogiorno. Ma il rapporto chiesa cattolica- ceti dominanti è ancora una vol­

ta eluso attraverso una spiega­zione tanto tautologica quanto disinvolta: nel Sud — osserva infatti Riccardi — gli “ambienti cattolici si presentano spesso non immediatamente sensibili ai problemi della trasformazione della società e quindi permeabili ad esigenze conservatrici di dife­sa dello static quo” (p. 158). In tal modo la proposta del ‘parti­to romano’ di un regime dotato di forti connotati autoritari e clericali non emerge mai come reale momento di aggregazione di forze interne ed esterne alla Chiesa, interne ed esterne alla De, ma resta una sorta di nebu­losa che l’etichetta del moderati­smo colora di toni più psicologi­ci che socioculturali e politici.

Massimo Legnani

P i e t r o B o r z o m a t i , Chiesa e so­cietà meridionale. Dalla Restau­razione al secondo dopoguerra, Roma, Studium, 1982, pp. XV- 166, lire 6.000.

“La parrocchia è sempre sta­ta, anche nel Sud, il centro prin­cipale della vita sacrale [...] ma la parrocchia è stata nel Sud an­che qualcosa d’altro. È stata 1) anagrafe, 2) gestione del sacro negli usi anche non propri reli­giosi, ma profani delle vita rura­le, 3) economia di sussistenza [...], 4) relazione con il mondo dell’emarginazione” (Gabriele De Rosa, La parrocchia nel Mezzogiorno dal Medio Evo al­l ’età moderna, Napoli, Guida, 1980, p. 19). Da tale enunciato, estensibile ai diversi ruoli assun­ti dalla Chiesa nel suo comples­so in Italia meridionale, è possi­bile enucleare alcune delle linee programmatiche e metodologi­

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che del libro in esame: eviden­ziare la funzione, spesso insosti­tuibile, e la qualità della pene- trazione sociale esercitata dal clero nel suo insieme durante i secc. XIX e XX (più precisa- mente, dal Concordato del 1818 al Concilio Vaticano I) nelle campagne e nelle città del Sud; sottolineare la specificità di un apostolato che fu, come si è det­to, non soltanto di natura pasto­rale, e che esprime la valenza in­genita della componente eccle­siastica in quel processo di me­diazione tra realtà locali e pote­re centrale che da sempre carat­terizza gli agenti storici operanti in quelle regioni; offrire un ten­tativo di lettura della religiosità popolare, se non alternativa, in­tegrativa di quella oggi predomi­nante, risolta in chiave preva­lentemente antropologica; dare nuovo impulso alla ricerca in questo settore, essendo i.contri­buti sugli anni più recenti non ancora sufficienti a costituire un corpus organico e completo di conoscenze.

Particolare interesse riveste la prima parte, non tanto per l’am­piezza del dato informativo — le è stata infatti riservata circa la metà dell’intera stesura — quanto, soprattutto, per la luci­da analisi in essa contenuta dei rapporti tra le varie componenti ecclesiastiche, al loro interno e in riferimento all’organismo centrale nonché all’impatto che tale dialettica ebbe nei successivi periodi sulle popolazioni locali. Ed è proprio questo scorrere su di un triplice piano — clero na­zionale, clero locale, società me­ridionale — che favorisce la comprensione della complessa e polivalente attività svolta dalla Chiesa nel meridione d’Italia e del suo intreccio con i rispettivi

autonomismi, le formule parti­colari, i campanilismi e le esi­genze specifiche.

Così, a partire dalla Restaura­zione, vengono illustrate le dif­ficoltà della chiesa meridionale nell’attuazione della normativa tridentina, la scomparsa del par­roco-educatore civile e la pro­gressiva influenza del politico sull’elemento spirituale, l’impe­gno di questo ad arginare l’anti­clericalismo montante del perio­do preunitario, ma anche il con­trollo sui preti e sui fedeli coin­volti nei moti postquarantotte­schi (si veda ad esempio la nasci­ta a Catanzaro della Società evangelica ecc.). Al di là delle vicende descritte, è interessante rilevare gli elementi di diversità e la loro traduzione in resistenze e incomprensioni reciproche che hanno caratterizzato la storia religiosa del Sud, come tante al­tre storie, rispetto a quella del contesto più generale.

Qualche esempio: dopo l’Uni­tà, alla Santa Sede e all’episco­pato, talora anche a quello me­ridionale, sfuggirono i contorni reali delle comunità ecclesiali nonché il particolarissimo rap­porto dei fedeli con Dio e i san­ti, non sempre e non del tutto inficiato da superstizioni; non si tenne in debito conto il fatto che la soppressione dell’asse eccle­siastico, se da un lato garantì il rilancio spirituale della Chiesa, dall’altro, nella totale mancanza di disponibilità economiche, non consentì un’efficace opera di assistenza, né un concreto programma di rinnovamento pastorale poiché i beni del Sud erano di natura prevalentemente capitolare e conventuale e quin­di risentirono in misura diversa che al Nord dei provvedimenti legislativi del 1866-67.

Un ulteriore esempio è offer­to dalla situazione consolidatasi sullo scorcio degli anni cinquan­ta, in cui lo scarto risalta con evidenza ancora maggiore: al Sud, episcopi fatiscenti, privi di collaboratori con funzioni se­gretariali, mancanza di case co­loniche e di sedi per l’Azione cattolica; al Nord, maggiore di­sponibilità di risorse e quindi di iniziative pastorali e sociali...

Il resoconto è ampio e debita­mente circostanziato: valga per tutte le testimonianze del vesco­vo di Amalfi, dalla cui lettera al clero nel 1955, integralmente ci­tata, possono trarsi spunti più che sufficienti sulle condizioni di vita e di lavoro del medio cle­ro locale.

Le problematiche inerenti e conseguenti a tale dato di fatto (crisi vocazionali, ricorrenti per­dite di strutture monasteriali, immissione e consolidamento di iniziative del clero regolare set­tentrionale e anche straniero ecc.) sono quindi appariscenti e utili per delineare il quadro di una situazione ancora oggi non del tutto definita e risolta.

Quanto alla seconda parte della trattazione, sarà opportu­no considerarne non tanto la consistenza dei contributi speci­fici, quanto la valenza e lo spes­sore propositivi: riguardo alla religiosità popolare, non si può ignorare la carenza di un’inve­stigazione adeguata, sicché i li­neamenti del mondo contadino appaiono sfocati e di corto re­spiro; più efficaci sembrano cer­te operazioni di recupero della presenza del clero all’interno del dibattito nazionale.

Anche le pagine dedicate al movimento cattolico sono dense di notizie grazie alle quali figure come de Cardona, Monterisi,

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Delle Nocche e altri acquistano una più giusta collocazione nel panorama della storia meridio­nale.

Vengono infine offerte alcune valide linee interpretative circa la lenta e difficile affermazione deH’associazionismo cattolico nel Sud; tra le altre, si segnala quella di Danilo Veneruso, se­condo cui la scarsa ricettività dell’Azione cattolica nelle cam­pagne “nasceva spontanea, qua­si per reazione all’estrazione bor­ghese della maggior parte dei suoi quadri e dei suoi componen­ti, alla scristianizzazione delle masse operaie cittadine e all’av­versione verso una cultura lonta­na dai problemi delle campagne e delle masse contadine” (Danilo Veneruso, Benedetto X V e il lai­cato cattolico italiano, in AA. VV., Spiritualità e azione del lai­cato cattolico italiano. Studi per il centenario dell’azione cattolica (1868-1968), Padova, ISEP, 1969, 2 voli.).

Mirella Colpo

O r i o G i a c c h i , Chiesa e Stato nell’esperienza giuridica (1933- 1980), Studi, raccolti e presenta­ti da Ombretta Fumagalli Carul- li: vol. I: La Chiesa e il suo dirit­to; Religione e società; vol. II: La Chiesa davanti allo Stato. Lo Stato e la vita sociale. Milano, Giuffrè, 1981, pp. XX-772 e 728, lire 32.000 - 30.000.

Quando una raccolta com­prende ben settantanove saggi, e l’autore è uno studioso apparte­nente a questa nostra generazio­ne, che ha vissuto le molteplici esperienze delle due guerre, e so­prattutto quelle dei due dopo­guerra, caratterizzati l’uno dalla tragica avventura fascista, l’al­

tro dalla faticosa cruenta rico­struzione dei liberi istituti demo­cratici, non ci si potrebbe atten­dere dal complesso dell’opera una totale asetticità scientifica, se non di fronte a uno scrittore vissuto nel più assoluto isola­mento spirituale, sordo ai pro­blemi del suo tempo e indiffe­rente alle vicende che hanno scosso e trasformato le basi stes­se della nostra società e sconvol­to gli equilibri fra le nazioni.

E Giacchi non rispondeva cer­tamente a questo prototipo, se è vero, come è vero, che, nei mo­menti più critici, non volle rifu­giarsi spiritualmente sotto le ali protettrici dell’Università catto­lica cui apparteneva, ma preferì, con una scelta ben determinata e coraggiosa, impegnarsi in prima persona nella rischiosa battaglia per la libertà, occupando ruoli di primo piano nello scacchiere politico, che della Resistenza ar­mata costituiva il necessario pre­supposto.

Se la raccolta ha quindi come parte sostanziale la raffinata scienza giuridica e storica del nostro autore posta al servizio delle discipline da lui tanto pre­stigiosamente professate: il di­ritto canonico ed ecclesiastico, non mancano numerosi scritti d’attualità attinenti la politica e l’economia avendo l’autore svolto una notevole attività poli­tica e occupato un ruolo tutt’al- tro che secondario nell’ambito dell’industria pubblica.

Questi scritti, degli anni cin­quanta e sessanta, sono conte­nuti nel secondo volume, e più specificamente nella Sezione IV: Lo Stato e la vita sociale, parti­colarmente ricca di spunti di storia contemporanea (// signifi­cato storico della Costituzione italiana, pp. 339-349); “Nessu­

no si salva”. La tragedia italiana del 25 luglio 1943, p. 425-439) e di analisi politica (Uomini e bandiere, pp. 351-385; Panora­ma politico dell’Italia odierna, pp. 387-397; La crisi della de­mocrazia e il potere del Parla­mento, pp. 399-408; L ’universi­tà nella società contemporanea, pp. 409-423; La democrazia è in crisi?, p. 441-449; Prospettive odierne per la pace nel mondo, p. 451-467). Vi sono anche saggi allora di attualità che per noi so­no oggi pagine di storia, come II fantasma laico (p. 223-229) a proposito del risorgere dell’anti­clericalismo nel periodo del cen­trismo.

In momenti difficili Giacchi testimoniò i propri convinci­menti anche in interventi di alto impegno civile. Nel settembre 1942, nella rivista “Studium” (Responsabilità nostra: sensibi­lità intellettuale, vol. I, p. 679- 686), prese posizione sul compi­to dell’intelligenza cattolica di fronte alle profonde rivoluzioni del tempo, mentre ne L ’aspira­zione alla giustizia nella società contemporanea (vol. II, pp. 685-697) — apparso ne “La scuola cattolica” del 1943 — apertamente dichiarava: “Ciò che soprattutto ci spaventa è l’abbandono della razionalità, il ritorno al mito, alla credenza cieca e fanatica in qualcosa che spesso non merita di essere cre­duto o comunque neppure viene esaminato, il naufragio di una torbida e incosciente sensibilità in cui i valori razionali annega­no quasi interamente” (p. 685), auspicando poi l’avvento di una comunità intemazionale capace di garantire la convivenza tra gli uomini. “Ma non è utopia pen­sare e volere che una norma di giustizia, realizzata in norma di

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diritto, regoli la vita sociale an­che nel campo internazionale, cioè anche tra quei soggetti di diritto che sono gli Stati. Nulla di convincente è stato finora an­cora mai detto per distinguere la intima universale speranza che dalla eliminazione della lotta cruenta tra uomo e uomo, e poi di quella tra famiglia e famiglia e poi fra città e città si salga man mano alla eliminazione della lot­ta fra nazione e nazione, in virtù non già di un infiacchimento della coscienza nazionale o del valore guerriero, ma dell’instau­rarsi di un ordinamento in cui i mezzi di forza non siano di sin­goli Stati più forti, ma della au­torità internazionale, qualunque essa sia nel domani” (p. 695).

Tra gli scritti dedicati alla vita politica ed economica che com­pletano il secondo volume, è ri­cordata anche l’azione in campo sociale dei cattolici italiani e, in modo specifico, dell’Opera dei Congressi, allorché — nell’af- frontare i problemi economici in una società che presentava con­dizioni mutate — essi seppero passare da forme puramente ca­ritative a quelle dell’economia sociale cristiana. Nella pratica realizzazione di questo passag­gio può senz’altro inquadrarsi la costituzione, nel 1896, ad opera di Giuseppe Tovini e di altri esponenti del laicato milanese, del Banco ambrosiano (Il Banco Ambrosiano nella storia sociale e bancaria italiana dalla fonda­zione ad oggi (1896-1956), Mila­no, Pirola, 1956, pp. 635-673).

C‘è, infine, da sottolineare un ultimo aspetto che traspare non solo da alcuni specifici contribu­ti (La libertà del cristiano e lo Stato democratico, vol. I, pp. 713-730; Lo Stato e la libertà re­ligiosa, vol. II, pp. 113-132; Si­

gnificato e sviluppo della libertà religiosa, vol. II, pp. 133-144) ma da tutta l’opera di Orio Giacchi e — secondo le espres­sioni della Fumagalli Carulli — “il valore supremo della persona umana e quindi della libertà reli­giosa, primo ed essenziale aspet­to della libertà dell’uomo” (p. XVI).

La libertà religiosa attuata e vissuta in modo profondo e rea­le, è — per l’illustre canonista — condizione e valore di ogni altra libertà. “Libertà per tutti, dunque, libertà generale, che ri­ceve impulso e conferma dalla libertà della Chiesa ma che dà anche ad essa piena assicurazio­ne: questa la posizione dello Stato contemporaneo di fronte alla libertà religiosa” (vol. II, p. 131).

Lazzaro Maria De Bernardis

P i e r a n t o n i o Gios, Resistenza, parrocchia e società nella dioce­si di Padova. 1943-1945, Pado­va, Marsilio Editori, 1981, pp. 463, lire 29.000.

Non è passato molto tempo da quando — sulla scia di espe­rienze francesi — anche in Italia gli archivi parrocchiali sono sta­ti riscoperti come ricchi depositi di materiale documentario e si è iniziato a utilizzare i dati sia per studi di carattere demografico, sia per ricerche volte a ricostrui­re gli aspetti quotidiani della vi­ta delle popolazioni: le espres­sioni della vita di pietà, ma an­che, più ampiamente, fenomeni di mentalità e di costume. A questo si prestano in modo par­ticolare i diari redatti, con mag­giore o minore diligenza e rego­larità, dai parroci. Si tratta di

fonti di straordinaria importan­za, specie nelle zone in cui l’an­notazione frequente, se non quotidiana, degli avvenimenti è stata per lunghi periodi una pratica largamente diffusa nel clero curato, ed è certamente utile il fatto che esse inizino ad essere catalogate, regestate e, naturalmente, utilizzate. È ciò che ha fatto l’autore di questo volume raccogliendo ed esami­nando le cronistorie di oltre cento parrocchie della diocesi di Padova, relative al periodo della guerra e della Resistenza. Il suo lavoro è, a sua volta, una cronistoria, che segue passo passo l’azione svolta dal clero in quei mesi: opera di assisten­za nei confronti delle popola­zioni, degli sbandati dell’eserci­to e degli sfollati, rapporti con l’occupatore e con il movimen­to partigiano, atteggiamenti nei confronti delle condizioni di vi­ta deteminate dalla contingenza della guerra. Tutto questo viene raccontato per mezzo dei diari, delle cui citazioni il volume è intessuto fittamente, e anche quando l’autore interviene in prima persona nella narrazione, stile e argomentazioni sono an­cora una volta quelli della sua fonte.

Si tratta certamente di un contributo utile sul piano docu­mentario, soprattutto perché condotto su vasta scala, ciò che consente di operare raffronti e individuare tendenze generali senza essere sviati da casi singo­li significativi, ma isolati. La ri- costruzione degli avvenimenti è inoltre estremamente puntuale e presenta un aspetto non con­sueto nelle opere di storia ri­guardanti quel periodo: la vi­cenda di coloro che non parte­ciparono al movimento di resi­

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stenza, dei civili che subirono nelle loro case quei tragici even­ti, degli sfollati. Dalle annota­zioni dei parroci, attenti spesso a riportare pareri e atteggia­menti dei fedeli, emerge uno spaccato della vita nei paesi, dove divisioni politiche si in­trecciano a rivalità personali, ricco di interesse.

Qualche appunto va però mosso, al di là di questo, all’utilizzo che Gios ha fatto del suo materiale. Egli infatti se ne serve per costruire una storia tutta fattuale, limitandosi nella disamina critica a stabilire la veridicità di versioni controver­se di singoli avvenimenti, senza tenere sufficientemente presen­te che si tratta di versioni dei fatti filtrate dalla mentalità, da­gli schemi di giudizio, dalla cul­tura dei loro estensori e che proprio un’analisi di questi ulti­mi elementi avrebbe potuto rappresentare un filone nuovo e fecondo di indagine. Sotto que­sto profilo infatti il materiale presenta spunti di grande inte­resse, che si sarebbero voluti maggiormente approfonditi, so­prattutto per quanto concerne la consapevolezza che questo clero ha del proprio ruolo, che gli consente di assumere — ri­spondendo del resto a un’attesa della popolazione — la funzio­ne di autorità civile oltre che religiosa nel momento in cui vengono a mancare le strutture dello Stato, e i criteri cui obbe­disce nell’esplicarlo.

Liliana Ferrari

B r u n a B o c c h i n i C a m a i a n i , Ri- costruzione concordataria e pro­cessi di secolarizzazione. L ’azio­ne pastorale di Elia Dalla Costa,

Bologna, D Mulino, 1983, pp. 366, lire 30.000.

D volume segue, nell’ambito della ricerca promossa dal “Se­minario di Storia delle istituzio­ni religiose e relazioni fra Stato e Chiesa” dell’Università di Firen­ze diretto da Francesco Mar­go tta Broglio, La Chiesa del Concordato. Anatomia di una diocesi, Firenze 1919-1943 (Bo­logna, Il Mulino, 1977). Allora s’era trattato di una serie di sag­gi intesi non solo a ricostruire le principali vicende della Chiesa fiorentina tra le due guerre, ma anche a fissare una “preliminare proposta metodologica [...] che, collocandosi nel punto d’incon­tro tra scienza storica e anato­mia sociale e valendosi della convergente utilizzazione di tec­niche diverse per analizzare l ’unica realtà di ‘Chiesa’, pre­suppone l’apporto collettivo di un gruppo interdisciplinare” (p. 22). Rispetto a tali premesse la monografia della Bocchini Ca­maiani rappresenta, più che uno sviluppo, una dilatazione crono­logica condotta sul filo del­l’azione pastorale di Elia Dalla Costa, che regge la diocesi dal 1932 al 1954 (quando Ermenegil­do Florit, nominato coadiutore, viene via via assumendo su di sé le funzioni di governo). L’ele­mento centrale è dunque offerto dalla verifica della tenuta della ‘ricostruzione concordataria’ nel primo decennio repubblica­no, di fronte — come con qual­che forzatura indica il titolo — ai ‘processi di secolarizzazione’.

L’intervallo temporale tra le due pubblicazioni è stato ricco di sviluppi per la storiografia della chiesa cattolica in Italia; e ad essi si richiama largamente Margiotta Broglio nella premes­

sa, soprattutto per ribadire la necessità che l’analisi dei rap­porti Chiesa-regime fascista su­peri decisamente una prospetti­va che “col dare particolare ri­lievo al movimento politico ideologico, finisce per essere esclusivamente diretta ad accer­tare il grado di adesione, oppo­sizione o indifferenza del cosi­detto ‘mondo cattolico’ al fasci­smo [...] rinunciando, necessa­riamente, ad ogni possibilità di recuperare gli spessori più pro­priamente religiosi del rapporto Chiesa-fascismo” (p. 8). L’ana­lisi dell’autrice muove alla sod­disfazione di questa esigenza ri­costruendo la visione del compi­to storico della Chiesa sottesa alle elaborazioni culturali e agli strumenti organizzativi posti in atto da Dalla Costa. Resta così costantemente in primo piano (modellata ai vari livelli e so­prattutto a quello della ‘discipli­na’ del clero) una concezione del magistero intrisa di cattolicesi­mo tridentino, tesa ad afferma­re la preminenza della società ecclesiastica su quella civile e a contrastare ogni pretesa interfe­renza della seconda nella prima, come inquinamento di un’im­magine — e di un destino — di potenziale perfezione. È su que­sta cultura (per tanti versi anco­rata ai modelli ottocenteschi re­cepiti da Dalla Costa nella sua formazione ‘veneta’ e resasi già evidente, dal 1923 al 1931, nella guida della diocesi di Padova) che si innesta, pienamente com­plementare, lo strumento con­cordatario sentito come ricono­scimento da parte dell’autorità civile del primato ecclesiastico. Il tragitto dagli anni trenta ai pri­mi anni cinquanta appare perciò segnato dal passaggio da una fa­se ‘protetta’, quella fascista, in

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cui l’opera pastorale si esplica prevalentemente all’interno del­la Chiesa, ad una fase ‘scoperta’, che induce al massimo impegno politico nella società. E il volu­me appare particolarmente con­vincente laddove delinea questo secondo momento come quello del più grande allarme per la Chiesa, con un riferimento co­stante e ossessivo al pericolo co­munista che va evidentemente letto (alla luce di quella cultura cui s’è fatto cenno) come forma di percezione riduttiva e impro­pria di più generali e profondi ‘processi di secolarizzazione’. In questa prospettiva il magistero di Dalla Costa si esprime con una carica di rigorismo e di sol­lecitudine spirituale che sono certo un tratto distintivo rile­vante rispetto ad altre figure della Chiesa del tempo, ma il suo nucleo centrale resta anco­rato a una visione di primato dell’istituzione ecclesiastica che contrasta, nella sostanza, con fermenti pur diversi ed eteroge­nei (da La Pira a don Milani, le cui posizioni sono tratteggiate abbastanza diffusamente nel­l’ultima parte del volume) che s’affacciano con il dopoguerra nella diocesi fiorentina sul rap­porto chiesa cattolica-società.

Massimo Legnani

A n t o n i o F i n o , Società civile e “riconquista” cattolica in una diocesi del Sud. Linee di inter­vento politico e pastorale nell’episcopato tarantino di mons. P.A. Jorio (1885-1908), Lecce, Milella, 1983, pp. 302, sip.

L’ambizione dichiarata del­l’autore è quella di contraddire

gli indirizzi storiografici che, in­dividuando la ‘continuità’ del mondo cattolico “in una pre­sunta costante propensione ad una convergenza, fondata su una sostanziale identità di inte­ressi, con i gruppi più conserva- tori, ed anche con quelli più rea­zionari, della borghesia italia­na” avrebbero indotto a “sotto­valutare, o addirittura ad esclu­dere, anche le profonde motiva­zioni etico-religiose che ispirano l’opposizione di tanti ecclesiasti­ci e laici allo Stato liberale” (p. 8).

Campo di verifica di tale as­sunto è il governo della diocesi di Taranto ad opera di monsi­gnor Jorio, governo ricostruito attraverso un sistematico spo­glio delle carte d’archivio (a co­minciare da quelle della Curia tarantina, dell’Opera dei Con­gressi e della Casa provinciale della Congregazione della mis­sione di Napoli) oltre che della ricca letteratura sulla Chiesa meridionale.

Il disegno di Jorio è fissato sin dal suo ingresso nella diocesi. “Tipico vescovo leoniano — cosi l’autore lo presenta —, aperto al mondo moderno nel quale intendeva intervenire con determinazione e con coraggio, non si arroccava su posizioni di protesta meramente negativa ma si poneva obiettivi concreti di presenza culturale in un rap­porto di confronto fermo con le autorità civili e con il regime li­berale” (p. 50). E ancora: “Con un chiaro richiamo a motivi cari al neoguelfismo affermava che la storia dimostrava anzi come proprio la religione cattolica e la presenza del Papato avessero preservato l’Italia dalle rovine e dall’imbarbarimento” (p. 52). Ed è significativo che nell’opera

di Jorio l’obiettivo di “riconqui­sta” della società, di “tutto re­staurare in Cristo” attraversi, anche cronologicamente — co­me si desume ad esempio dai quesiti via via sottoposti ai preti della diocesi (pp. 150-51) —, tre distinte fasi: dal contrasto Sta­to-Chiesa quale si era configura­to all’atto delPunificazione, al conflitto tra cultura cattolica e cultura positivista, alla “diffu­sione di un movimento cattolico intransigente, e quindi alle re­sponsabilità del laicato e del cle­ro nella vita pubblica” (p. 151). Questo percorso dall’interno all’esterno si ripete a livello delle molteplici iniziative che Jorio assume e che illuminano aspetti non secondari del quadro socia­le e istituzionale. Si coglie così un fitto intreccio tra mutazioni sociologiche (“allontanatisi dal­la vita ecclesiastica i membri del­le famiglie aristocratiche e bor­ghesi, i sacerdoti venivano or­mai, in numero sempre crescen­te, da famiglie modeste o pove­re” , p. 101), tenace autonomi­smo delle parrocchie, persisten­za di tradizioni legate alle fun­zioni civili, di ‘clientela’, delle confraternite (pp. 89-90); tutti elementi contro i quali il neoto­mismo e la cultura politica rigi­damente ancorata al Sillabo del nuovo vescovo si sfrangiano e si spuntano.

È su questo terreno, del resto, che si creano le premesse delle mancate realizzazioni in campo politico-sociale. Jorio si impe­gna senza riserve ad organizzare nelle Puglie l’Opera dei Con­gressi, ma i risultati che coglie sul finire del secolo sono vanifi­cati, all’inizio del Novecento, dal netto prevalere, nella Chiesa locale, degli indirizzi clerico- moderati. D’altro canto Tin-

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transigentismo del vescovo di Taranto (che individua la “cau­sa fondamentale” del moltipli­carsi delle opposizioni “nello scarso ‘sentimento papale’ esi­stente nel clero e nel laicato” pu­gliesi, p. 233) e la linea di conci­liazione filoliberale e filobor­ghese proprie alla maggioranza della chiesa meridionale sintetiz­zano un aspetto particolare di un processo generale. In questo senso prende rilievo non tanto l’accusa dei transigenti agli in- trasigenti di voler imporre al Sud modelli settentrionali, quanto l’incidenza dei moti del ’98 e della svolta giolittiana nel determinare un progressivo rio­rientamento della politica catto­lica.

È tuttavia soprattutto a que­sto passaggio che lo studio di Fi­no denuncia sensibili limiti. In una duplice direzione: nello scarso approfondimento dei re­ferenti sociali dell’intransigenti- smo (agli accenni alle iniziative verso Taranto operaia sono troppo rapidi e sfocati) e nell’al­trettanto insufficiente analisi del connubio tra clerico-moderati e borghesia locale. La saldatura tra organizzazione ecclesiastica, forme di religiosità e tessuto so­ciale resta così incompleta.

Massimo Legnani

“Rivista di storia della Chiesa in Italia", 1982, n. 1.

Raffaello Morghen nel breve saggio Arturo C. Jemolo storico dello Stato e della Chiesa nella crisi tra due età ricostruisce al­cuni aspetti dell’opera di storico dello Jemolo sia facendo riferi­mento agli scritti più significati­vi sul piano metodologico sia

mettendo in luce i momenti es­senziali dell’impegno personale e civile che lo portarono dall’in­teresse per le teorie politiche del passato a farsi critico vigile e partecipe delle vicende del suo tempo.

Secondo Morghen, Il Gianse­nismo in Italia prima della Ri­voluzione (Bari, Laterza, 1928), oltre a rappresentare l’anello di congiuntura tra le due opere più note, Stato e Chiesa negli scrit­tori italiani del ’600 e ’700 e Stato e Chiesa in Italia negli ul­timi cento anni, si configura nel contesto della intera produzione come un momento essenziale di consapevolezza critica: raffer­mare la rilevanza del fatto reli­gioso nella sua autonomia si contrappone alle posizioni della moderna storiografia tendenti a metterne in rilievo il solo aspet­to politico-istituzionale. Di con­seguenza la rilevanza di que­st’opera sta proprio nel vedere nel giansenismo non solo un momento spirituale che precede e prepara la rivoluzione politica del Risorgimento, ma un feno­meno culturale da considerare in tutta la complessità delle sue componenti religiose e filosofi- che.

Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, pubblicato dall’editore Einaudi nel 1948, se da una parte riassume tutti i da­ti storici, politici e religiosi del problema dei rapporti tra Chie­sa e Stato in Italia, dall’altro te­stimonia il processo di forma­zione e di evoluzione dello Je­molo, che dalle analisi di affer­mazioni ideologiche e delle dot­trine politiche, si rivolge alla narrazione di vicende e di fatti a cui partecipò in modo diretto vivendo drammaticamente du­rante il fascismo l’allontana­

mento dalla vita politica e il crollo dei valori nei quali si era formato. Gli scritti raccolti in Società civile e Società religiosa (Torino, Einaudi, 1959) rappre­sentano la continuazione di questa opera di critico del suo tempo e costituiscono un ripen­samento problematico e un rie­same continuo della crisi del mondo contemporaneo.

Paola Pirzio

“Ricerche di storia sociale e reli­giosa”, 1982, n. 21-22.

L’interesse per le opere di sto­ria della Chiesa, sviluppatosi in Italia a partire dagli anni settan­ta, è storiograficamente signifi­cativo, a giudizio di Fulvio Sa- limbeni che ha curato la pubbli­cazione delle relazioni tenute al­la tavola rotonda su “Le storie generali della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II” (Vicenza, aprile 1979) e appartiene a un quadro metodologico di ripro­posizione della dimensione in­terpretativa delle storie generali: va considerato come un momen­to di ‘crisi delle ideologie’ e nel contempo come una tappa es­senziale del processo di sistema­zione del sapere storico emerso dalle ricerche settoriali e mono­grafiche nel corso degli ultimi anni. Gli interventi di Silvio Tramontin, di Grado G. Merlo, di Luigi Mezzadri, di Maurilio Guasco, di Annibaie Zambar- bieri, di Giorgio Cracco, di An­tonio Niero, di Fulvio Salimbeni tracciano un bilancio delle storie della Chiesa pubblicate in Italia negli ultimi dieci anni sottoli­neando, e l’affermarsi di nuove prospettive storiografiche so­cioreligiose (in varia misura con­

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nesse alle linee del Concilio Va­ticano II), e il riproporsi di in­terpretazioni ormai remote e svuotate di capacità esplicativa. In tale quadro le opere di storici ecclesiastici (sacerdoti o mona­ci), animati soprattutto da fina­lità didattiche e pubblicate da case editrici cattoliche, risultano più numerose, mentre gli inter­venti di studiosi laici sono spes­so settoriali (Carlo Ginzburg, Antonio Rotondò) e presentati come momenti di una storia ge­nerale (Storia d ’Italia, Torino, Einaudi, 1974).

Di dimensioni monumentali appare l’opera diretta da Hu­bert Jedin (Handbuch der Kir- chengeschichté), tradotta in Ita­lia a metà degli anni settanta (Storia della Chiesa, Milano, Ja- ka Book, 1975-80); in particola­re Maurilio Guasco (La storia della Chiesa di Hubert Jedin - L ’età contemporanea, pp. 29- 44), per i volumi sull’età con­temporanea scritti e ispirati da Roger Aubert (presentati da Francesco Traniello e Mario Bendiscioli), sottolinea la pro­spettiva mondiale, sia per i con­tenuti proposti comprendenti tutto lo spessore della vita eccle­siale, dalla dimensione istituzio­nale e organizzativa a quella cul­turale e spirituale.

Nell’opera di Giacomo Marti­na S.J. (La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberali­smo, del totalitarismo, Roma, Studium, 1970) Zambarbieri (Una nuova storia della Chiesa nell’età moderna e contempora­nea: l ’opera di padre Giacomo Martina S.J., pp. 45-53), ritiene fondamentale la definizione del rapporto via via delineato tra storia ecclesiatica e storia eccle­siale sia in sede metodologica che nella concreta indagine. Già

nelle premesse, e poi nella deli­neazione di tutto il percorso te­matico, Martina, attenendosi al­le più recenti linee del Concilio Vaticano II, insegue l’immagine della Chiesa come “simbolo del popolo di Dio” e quindi si orien­ta verso la globalità degli atteg­giamenti del popolo cristiano in tutte le sue componenti e ricerca il vario inserirsi della Chiesa nel­le strutture della società, accan­tonando ogni prospettiva verri- cistica di storia ecclesiastica.

La relazione di Giorgio Crac- co e Antonio Niero, La storia della Chiesa in Italia (pp. 55-78) di Gregorio Penco (Storia della Chiesa in Italia, Milano, Jaka Book, 1978) mette in luce gli aspetti più datati dell’ecclesiolo­gia che sta alla base di una rico­struzione storica che sottolinea la positività della realtà della Chiesa in tutta la sua storia ve­dendo in essa la “rivelazione del Cristo” e tende quindi a ricon­durre i momenti della storia d ’Italia a epifanie che da essa promanano. I criteri interpreta­tivi che nelle altre opere di Pen­co, monaco e studioso oltreché ammiratore del monacheSimo, si presentano validi, rendono tuttavia povera di prospettive critiche e di nuovi contenuti di indagine la sua opera. Netta­mente contrapposta all’opera di Penco, appare sia nella relazio­ne di Cracco, che di Salimbeni (I contributi sulla storia religiosa nella “Storia di Italia”, Einaudi, pp. 79-105), la posizione storio­grafica di Giovanni Miccoli. Mentre Penco aveva sottolinea­to il carattere positivo della real­tà ecclesiale, l’opera di Miccoli si pone come affermazione sto­riografica del continuo tradi­mento degli ideali evangelici che dai tempi si Silvestro I sarebbe

stato condotto dalla gerarchia ecclesiastica. Secondo Salimbe­ni la posizione di Miccoli, giusti­ficata dal punto di vista perso­nale, sul piano storico risulta in­capace di documentare in modo convincente questa visione della Chiesa, anzi spinge a deviazioni interpretative dando eccessivo rilievo a fenomeni di dissenso, visti come manifestazioni di una crisi costante. Tuttavia la forte passione ‘religiosa’ che anima l’intervento di Miccoli e la serie­tà di una sintesi di un millennio di storia religiosa nazionale, si pongono come una sorta di pro­vocazione a una discussione sul­la istituzione ecclesiale in tutta la sua storia.

Tutte le relazioni si caratteriz­zano per il proporre interpreta­zioni ‘interne’ al dibattito sulla storia della Chiesa, riservando uno spazio minimo a riferimenti storiografici generali.

Paola Pirzio

Libri ricevuti

Philip Abrams, Sociologia stori­ca, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 427, lire 30.000.

A. Albertazzi e G. Campanini (a cura di), Il Partito Popolare in Emilia Romagna, 1919-1926, voli. 3, Roma, Cinque lune, 1982, pp. 504, lire 20.000.

Aldo Albònico, La mobilitazio­ne legittimista contro il Regno d ’Italia: la Spagna e il brigan­taggio meridionale postunitario, Milano, Giuffrè, 1979, pp. IX- 402, lire 13.000.

U. Alfassio Grimaldi, G. Ange­lini, M.L. Cicalese, G. Lopez,

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P. Mosetti, D. Pinardi, S. Ripe­pi, I. Tacchinardi, La cultura milanese e l’Università popolare negli anni 1901-1927, Milano, Angeli, 1983, pp. 292, lire18.000.

Aa.Vv., Antifascisti romagnoli in esilio, Firenze, La Nuova Ita­lia, 1983, pp. 848, lire 24.500.

Aa.Vv., Keynes, Torino, Cassa di Risparmio, 1983, pp. 175, sip.

Piero Bairati, Valletta, Torino, Utet, pp. 447, lire 38.000.

Claudia Bassi Angelini, Gli ‘ac­coltellatori’ di Ravenna (1865- 1875), Ravenna, Longo, 1983, pp. 249, lire 20.000.

Rosario Bentivegna, Achtung Banditen! Roma 1944, Milano, Mursia, pp. 261, lire 14.000.

Camillo Bemeri, Mussolini grande attore, Pistoia, Edizioni dell’Archivio Famiglia Bemieri, 1983, pp. 105, lire 4.000.

Gaetano Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell’Otto­cento, Palermo, Sellerio, pp. 309, lire 15.000.

Karl D. Bracher, La dittatura tedesca, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 745, lire 40.000.

Giampaolo Calchi Novati, La decolonizzazione, Torino, Loe- scher, 1983, pp. 257, lire 12.000.

Giorgio Canestri, Centoven- t ’anni di scuola in Italia. 1860- 1982, Torino, Loescher, 1983, pp. 95, lire 6.500.

Egisto Cappellini, ‘Marco’ rac­conta. Il PCI marchigiano nelle

memorie di un suo dirigente (1921-1956), Ancona, Edizioni Nuove ricerche, 1983, pp. 132, lire 11.000.

A. Cardillo, G. Gargiulo, A. Lezza, C. Papale, L. Parente, Giuseppe Garibaldi. 1805-1882. Storia, letteratura, immagine, S. Maria Capua Vetere, 1983, pp. VII-143, sip.

Stefano Casini, Alessandro Ca­valieri, Alessandro Viviani, Next. Un modello dell’export toscano. Un’analisi econometri­ca disaggregata per prodotti e mercati esteri delle esportazioni toscane, Firenze, Le Monnier- Irpet, 1983, pp. 93, lire 4.000.

Alberto Cavaglion, Otto Wei- ninger in Italia, Roma, Canicci,1982, pp. 242, lire 7.500.

Innocenzo Cervelli, Liberalismo e conservatorismo in Prussia 1850-1858, Bologna, Il Mulino,1983, pp. 456, lire 30.000.

Roberto Chiarini, Paolo Corsi­ni, Da Salò a Piazza della Log­gia. Blocco d ’ordine, neofasci­smo, radicalismo di destra a Brescia (1945-1974), Milano, Angeli, 1983, pp. 450, lire15.000.

Enzo Ciconte, A ll’assalto delle terre del latifondo. Comunisti e movimento contadino in Cala­bria (1943-1949), Milano, Ange­li, 1981, pp. 287, lire 13.000.

Daniela Coli, Croce, Laterza e la cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 237, lire20.000.

Ferdinando Cordova, Democra­zia e repressione nell’Italia di f i ­

ne secolo, Roma, Bulzoni, pp. 211, lire 15.000.

Pier Paolo D’Attorre (a cura di), Bologna città e territorio fra 800 e 900, Milano, Angeli, 1983, pp. 316, lire 20.000.

Andreina De Clementi, Politica e società nel sindacalismo rivo­luzionario. 1900-1915, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 176, lire15.000.

Giovanni De Luna, Peppino Or- toleva, Marco Rivelli, Nicola Tranfaglia (a cura di), Gli stru­menti della ricerca - Questioni di metodo, voli. 2, 2 tomi, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 1576, lire 54.000.

Andrea Devoto, L ’oppressione nazista. Considerazioni e biblio­grafia. 1963-1981, Firenze, Ol- schki, 1983, pp. XVI-204, lire26.000.

Edoardo D’Onofrio, Per Roma, Milano, Vangelista, 1983, pp. 286, lire 14.000.

Giancarlo Falco, L ’Italia e la politica finanziaria degli Alleati. 1914-1920, Pisa, Ets, 1983, pp. 120, sip.

Paolo Fameti, Il sistema dei partiti in Italia. 1946-1979, Bo­logna, Il Mulino, pp. 250, lire10.000.

Antonio Fino, Società civile e ‘riconquista’ cattolica in una diocesi del Sud tra Otto e Nove­cento, Lecce, Milella, 1983, pp. 302, sip.

Marcello Flores, Luigi Canapi­ni, Massimo Legnani, Antonio Gibelli, Claudio Della Valle, Gli

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anni della Costituente. Strategia dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, pp. 393, lire35.000.

Favio Foresti, Paola Morisi, Maria Resca (a cura di), Era co­me a mietere. Testimonianze orali e scritte di soldati sulla Grande Guerra, con immagini inedite, Comune di S. Giovanni in Persiceto, 1983, pp. 230, sip.

Leone Gasparini, La ‘banda del Matese’. La guerriglia post-uni­taria, Casalvelino Scalzo, Galze- rano, pp. 146, lire 6.000.

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Irpet, Export 83. Rapporto sulle esportazioni toscane negli anni 1981 e 1982, Firenze, Le Mon- nier, 1983, pp. 42 + 19 taw ., li­re 3.000.

Irpet, TFM 1981. Modelli per Tanalisi regionale e subregiona­le. Il caso della Toscana, Firen­ze, Le Monnier, 1983, pp. 297, lire 6.000.

Rudolf Lill e Franco Vaisecchi (a cura di), Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla prima guerra mondiale, Bolo­gna, Il Mulino, 1983, pp. 365, li­re 25.000, pubblicazioni dell’I­stituto storico italo-germanico di Trento.

Giuseppe Longoni, Ettore Rei­na. La vicenda di un riformista. Tra organizzazione sindacale e legislazione sociale, La Brianza, Mensile del Psi di Monza, pp. 109, sip.

Italo Mancini, Il pensiero nega­tivo e la nuova destra, Milano, Mondadori, 1983, pp. 362, lire16.000.

Antonio Margariti, America! America!, Casalvelino, Galzera- no, 1981, pp. 136, lire 5.000.

Jean Marie Mayeur, Partiti cat­tolici e democrazia cristiana in Europa, Milano, Jaca Book, 183, pp. 350, lire 25.000.

Gianfranco Miglio, La repub­blica migliore per gli italiani, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 157, lire 10.000.

Alberto Mortara (a cura di), / protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, Milano, An- geli-Ciriec, 1983, pp. 745, lire60.000.

Pietro Nenni, Discorsi parla­mentari (1946-1979), Roma, Ca­mera dei Deputati, 1983, pp. XXX-808, lire 30.000.

Francesco Nicoletti, Cattolici e laici di fronte al decentramento regionale in Italia (1860-1968), Firenze, Le Monnier, 1983, pp. 190, lire 15.000.

Franco Pedone (a cura di), No- vant’anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del Psi. I, 1892-1914, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 460, sip.

Bruno Pellegrino, Chiesa e rivo­luzione unitaria nel Mezzogior­no. L ’episcopato meridionale dall’assolutismo allo stato bor­ghese 1860-1861, Roma, Edizio­ni di storia e letteratura, 1979, pp. 218, lire 10.000.

Giovanni Pesce, Il giorno della bomba. Racconti, Milano, Maz- zotta, 1983, pp. 268, lire 15.000.

Claudia Petraccone, Napoli mo­derna e contemporanea, Napoli, Guida, pp. 150, lire 4.700.

Ilaria Porciani (a cura di), Edi­tori a Firenze nel secondo Otto­cento, Firenze, Olschki, 1983, pp. XIV-520, sip.

Giovanna Procacci (a cura di), Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mon­diale, Angeli, 1983, pp. 340, lire16.000.

Maurizio Rebershak, Il grande Vajont, voli. 2, Venezia, Comu­ne di Longarone, 1983, pp. 117 + 268, sip.

Giovanni Rinaldi e Paola Sobre- ro (a cura di), La memoria che resta. Mito e storia di braccianti del basso Tavoliere, Foggia, Amministrazione provinciale di Capitanata, 1981, pp. 438, sip.

Alceo Riosa (a cura di), Biogra­fìa e storiografia, Milano, An­geli, 1983, pp. 152, lire 10.000.

Enzo Santarelli, Le Marche dall’unità al fascismo, Ancona,

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Rassegna bibliografica 129

Istituto per la storia del movi­mento di liberazione delle Mar­che, 1983, pp. 310, lire 18.000.

Cosmo Schiavo, Proprietà, la­voro e potere nel corso dell’Ot­tocento. Indagine su un paese campione del Cilento, Laurino Casalvelino, Galzerano, 1980, pp. 269, lire 10.000.

Luciano Segre, La ‘Battaglia’ del grano, Milano, Clesav, 1983, pp. 108, lire 7.000.

Giovanni Spadolini, L ’Italia di minoranza. Lotta politica e cul­

tura dal 1915 ad oggi, Firenze, Le Monnier, 1983, pp. 428, lire20.000.

Jean René Suratteau, L ’idea di nazione dalla Rivoluzione fran­cese ai nostri giorni, Roma, Il Bagatto, 1983, pp. 150, lire10.000.

Pietro Tino, Le campagne saler­nitane nel periodo fascista, Na­poli, Esi, 1983, pp. 277, sip.

Leo Valiani, Scritti di storia. Movimento socialista e demo­

crazia, Milano, Sugarco, 1983, pp. 637, lire 25.000.

Giorgio Vecchio, I cattolici mi­lanesi e la politica, Milano, Vita e pensiero, pp. 560, lire 20.000.

Pasquale Villani, Trionfo e crol­lo del predominio europeo XIX- X X secolo, Bologna, Il Mulino. 1983, pp. 703, lire 30.000.

Leo Wollemborg, Stelle, strisce e tricolore. 30 anni di vicende politiche tra Roma a Washing­ton, Milano, Mondadori, 1983, pp. 596, lire 20.000.

STU D I STO RICIn. 3-4 - luglio-dicembre 1983 - anno 24

Karl Marx 1883-1983Nicola Badaloni, Forme, soggetti, prassi rivoluzionaria;Eric J. Hobsbawm, Marx e la conoscenza storica:Jerzy Topolsky, Oltre il determinismo e il volontarismo: la concezione marxiana del pro­cesso storico-,Aurelio Lepre, La funzione della storia nell’opera di Marx\Ferenc Fehér, Le rivoluzioni francesi come modelli della concezione marxiana della po­litica-,Giorgio Mori, La genesi dell'industria;Roberto Finzi, Marx e la "teoria di quattro stadi"-,Alfonso M. Iacono, Sul concetto di “feticismo" in Marx:Mauro Di Lisa, Astrazioni e meccanizzazione-,Immanuel Wallerstein, Marx e il sottosviluppo-,Oskar Negt, Per un rinnovamento del marxismo: caratteri e prospettive-,Otto Kallscheuer, Note sullo sviluppo della teoria critica marxiana nella Repubblica fe­derale tedesca;Gian Mario Bravo, L’opera di Marx in Italia fra fascismo e dopoguerra.

Libri ricevuti - Indice dell’annata

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Spoglio dei periodici stranieri 1982di Franco Pedone

Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici:Australia: “Labour History”;Belgio: “Cahiers d’histoire de la seconde guerre mondiale”;Bulgaria: “Etudes balcaniques”; Cecoslovacchia: “Studia historica slovaca”;Francia: “Actes de la recerche en sciences so­ciales”, “Annales. Economies, sociétés, civi­lisations” , “Annales de démographie histori­que”, “Cahiers d’histoire” , “Cahiers d’hi­stoire de l’Institut de recherches marxistes” , “Cahiers du monde russe et soviétique” , “Cahiers Léon Trotsky”, “Etudes rurales” , “Le mouvement social” , “Recherches”, “Relations internationales”, “Revue d’his­toire de la deuxième guerre mondiale et des conflits contemporaines”, “Revue d’histoire moderne et contemporaine” , “Revue fran­çaise de science politique”, “Revue histori­que”;Germania Rdt: “Beitrâge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, “Zeitschrift für Ge- schichtswissenschaft” ;Germania Rft: “Geschichte und Gesell- schaft”, “Historische Zeitschrift” , “Militâr- geschichtliche Mitteilungen”, “Neue Politi- sche Literatur” , “Vierteljahrschefte für Zeit- geschichte”;Gran Bretagna: “Comparative Studies in So­ciety and History” , “The Economic History Review”, “The English Historical Review”,

“History Workshop”, “The Historical Jour­nal” , “Journal of Contemporary History” , “Journal of Social Policy” , “New Left Re­view”, “Past and Present” , “Social History”;Jugoslavia: “Casopis za SuvremenuPovjest” , “Vojnoistorijski Glasnik” ;Olanda: “International Review of Social Hi­story”;Polonia: “Acta Poloniae Historica” , “Dzieje Najnowsze”, “Kwartalnik Historyczny” , “Studia historica slavo-germanica”, “Z Pola Walki” ;Romania: “Revue des études sud-est euro­péennes” , “Revue roumaine d’histoire”;Spagna: “Revista de estudios internaciona- les” ;Svezia: “The Scandinavian Economie Histo­ry Review and Economy and History” , “The Scandinavian Journal of History”; Ungheria: “Acta historica”;USA: “The American Historical Review”, “Explorations in Economic History” , “Jour­nal of Family History”, “Journal of Asian Studies” , “The Journal of Economic Histo­ry”, “Journal of History of Ideas”, “Jour­nal of Interdisciplinary History” , “Journal of Latin-American Studies”, “The Journal of Modern History” , “Political Science Quarterly”, “Proceedings of the Academy of Political Science” , “Science and Society” , “Telos” ;

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Rassegna bibliografica 131

Svizzera: “Schweizerische Zeitschrift für Ge- schichte” .

Lo spoglio è stato effettuato da Franco Pedone, con la collaborazione di Enzo Col­

lotti, Stanislaw Sierpowski e Nanda Torcel- lan. Sono stati presi in considerazione an­che alcuni numeri che al momento della stampa dei precedenti spogli non erano an­cora usciti.

Storiografia

Marek Andrzejewski, La sintesi del­la storia del movimento operaio in Svizzera, in “Z Pola Walki” , a. XXV, n. 3-4, pp. 77-101.

Bernard Bailyn, The Challenge o f Modern Historiography, in “The American Historical Review” , vol. 87, n. 1, pp. 1-24.

Jan Borkowski, Il movimento ope­raio e il movimento clandestino in Polonia. Osservazioni e riflessioni, in “Z Pola Walki” , a. XXV, n. 1-2, pp. 43-61.

Andrzej Brozek, Le espressioni “Wolk” e “Nation" nella storia tedesca, in “Kwartalnik Histo- ryczny”, n. 1, pp. 129-143.

N.F. Bugaj, Der Biirgerkrieg in Sowjetrussland in der sowjetischen Geschichtsschreibung (1970-1980), in “Zeitschrift für Geschichtswis- senschaft”, a. 30, n. 6, pp. 551-555.

Andre Burgniere, The Fate o f the History o f “Mentalités” in the "A n­nales”, in “Comparative Studies in Society and History”, voi. 24, n. 3, pp. 424-437.

Francis T. Butter, The Myth o f Per­ry Miller, in “The American Histo­rical Review”, voi. 87, n. 3, pp. 665-694.

Barbara Caine, Beatrice Webb and the “Woman Question”, in “Histo­ry Workshop”, n. 14, pp. 23-43.

Zlatko Cepo, Bukarin nuovamente attuale, in “Casopis za Suvremenu

Povjest”, n. 3 (1981), pp. 165-181.

Jozef Chlebowczyk, Il nazionalismo in generale e il nazionalismo serbo e croato in particolare, in “Kwartal­nik Historyczny”,n . l,p p . 119-128.

Communications (The) Revolution in Politics, Edited by Gerald Benja­min, in “Proceedings of the Acade­my of Political Science” , voi. 34, n. 4.

Gottfried Dittrich, Zur Geschichte der DDR als Nationalgeschichte. Bemerkungen zum Artikel von R o lf Badstübner, in “Zeitschrift für Ge- schichtswissenschaft” , a. 30, n. 8, pp. 711-716.

Claude S. Fischer, The Dispersion ofKindship Ties in Modern Society; Contemporary Data and Historical Speculation, in “Journal of Family History”, voi. 7, n. 2, pp. 353-375.

Roger Fletcher, Revision and Mili­tarism. War and Peace in the pre- 1914. Thougt o f Eduard Bernstein, in “Militârgeschichtliche Mitteilun- gen”, a. 32, n. 1, pp. 23-36.

Elizabeth Fox - Genovese, Placing Women’s History in History, in “New Left Review”, n. 133, pp. 5-29.

Francisco Granell, Aproximación tipologica a la Organización Econò­mica Internacional, in “Revista de estudios intemacionales” , n. 3, pp. 757-773.

Franz Gress - Hans-Gerd Jaschke, Neuere Tendenzen der Faschismus- analyse im deutschen und englisch-

sprachingen Bereich. Ein Dberblick, in “Neue Politische Literatur”, a. 27, n. 1, pp. 20-46.

Horst Haun, Die Diskussion iiber Reformation und Bauernkrieg in der DDR-Geschichtswissenschaft 1952-1954, in “Zeitschrift für Ge- schichtswissenschaft” , a. 30, n. 1, pp. 5-22.

lise Heller, Zur Entwicklung der sovjetischen Geschichtswissenschaft in den Jahren 1917-1928, in “Beitrâ- ge zur Geschichte der Arbeiterbewe- gung”, a. 24, n. 5, pp. 700-709.

Josef Henke, Das Schicksal deut- scher zeitgeschichtlicher Quellen in Kriegs-und Nachkriegszeit. Beschla- gnahme - Rilckführung - Verbleib, in “Vierteljahrshefte für Zeitge- schichte” , a. 30, n. 4, pp. 557-620.

Josip Broz Tito nella bibliografia jugoslava e straniera, Studi di Z. Cepo, P. Strcic, M. Vasic, F. Fili- pie, V. Kljakovic, S. Cvetkovic, S. Koprivica-Ostric, V. Ostric, B. Jan- jatovic, D. Biber, B. Kasic, D. Bi- landzic, R. Lovencic, in “Casopis za Suvremenu Povjest” , n. 2, pp. 7-94.

John Keep, Emancipation by the Axe? Peasant Revolts in Russian Thought and Literature, in “Ca­hiers du monde russe et soviétique”, a. XXIII, n. 1, pp. 45-61.

Risto Kirlazovski, Un colpo d ’oc­chio retrospettivo sulla storiografia concernente la lotta di liberazione nazionale (1914-1945) e la Guerra civile nella Macedonia egea, in “Ca­sopis za Suvremenu Povjest”, n. 3, pp. 97-110.

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Roger Martelli, À propos d ’un “Hi­stoire intérieure”, in “Cahiers d’hi­stoire de Institut de recherches mar­xistes” , n. 11, pp. 103-123 [a propo­sito di Philippe Robrieux, Histoire inferieure du PCF].

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Geschichte der Arbeiterbewegung und Sozialpolitik in Deutschland, in “Neue Politische Literatur”, a. 27, n. 3, pp. 304-318.

Günther Rose, Manipulation als im- perialistische Herrschaftstechnik, in “Zeitschrift fur Geschichtswissen- schaft”, a. 30, n. 3, pp. 195-211.

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Peter Sonnet, Heimat und Soziali- smus. Zur Regionalgeschichtsschrei- bung in der DDR, in “Historische Zeitschrift”, vol. 235, n. 1, pp. 121- 135.

Gilles Vergnon, Du nouveau sur l ’histoire du P.C.F.?, in “Cahiers Léon Trotsky”, n. 9, pp. 75-84.

Moshe Zimmermann, A Road not Taken. Friedrich Naumann’s A t­tempt at a Modern German Natio­nalism, in “Journal of Contempora­ry History” , voi. 17, n. 4, pp. 689- 708.

Rainer Zitelmann, Hitlers Erfolge- Erklarungsversuche in der Hitler- Forschung, in “Neue Politische Li­teratur”, a. 27, n. 1, pp. 47-69.

Al Zub, Nicola Jorga e l ’evoluzione dello spirito critico, in “Revue rou­maine d’histoire”, a. XXI, n. 1, pp. 119-134.

Metodologia e organizzazione della ricerca

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Pierre Favre, L ’absence de la socio­logie politique dans les classifica­tions durkheimiennes des sciences sociales, in “Revue française de science politique”, a. XXXII, n. 1, pp. 5-31.

Maurice Garden, Le bilan démogra­phique des villes: un système com­plexe, in “Annales de démographie historique”, 1982, pp. 267-275.

Horst Haun, Die Entwicklung der Forschungsgemeinschaft “Doku- mente und Materialen zur Geschich­te der deutschen Arbeiterbeweg­ung” von 1950 bis 1953, in “Beitrâ- ge zur Geschichte der Arbeiterbewe­gung”, a. 24, n. 4, pp. 514-521.

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Klaus Kinner, Methodologische Problème der Erforschung der theo- retischen Arbeit der KPD, in “Bei- trâge zur Geschichte der Arbeiterbe­wegung”, a. 24, n. 1, pp. 3-13.

Karen Ordhal Kupperman, Social Structure and Politics in American History, in “The American Histori­cal Review” , vol. 87, n. 5, pp. 1290- 1325.

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Herbert Langer, Krieges Alltag und die Bauern. Bemerkungen und Er-

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Rassegna bibliografica 133

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Ricerca (La) della storia del movi­mento comunista dal 1918 al 1941. Scritti di S. Koprivica-Ostric, V. Rajcevic, Z. Stipetic, M. Kolar-Di- mitrijevic, I. Jelic, L. Sklevicky, in “Casopis za Suvremenu Povjest”, n. 1, pp. 69-98 [a proposito del Par­tito Comunista Jugoslavo].

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Bassam Tibi, Der Islam als Gegen-

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Europa

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134 Rassegna bibliografica

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SommarioMariella Del Lungo, Aspetto dell’organizzazione sanitaria nella Genova del settecento: la cura delle malattie veneree', Giovanni Vigo, «...quando il popolo cominciò a leggere». Per una storia dell'alfabetismo in Italia-, Alessandro Polsi, Le amministrazioni locali post­unitarie fra accentramento e autonomia: il caso del comune di Pisa (1860-1885)

Orientamenti e dibattitiMauro Moretti, La nozione di "Stato moderno" nell’opera storiografica di Federico Cha- bod: note e osservazioni; Gary lanziti, Storiografia come propaganda: il caso dei "Com- mentarii" rinascimentali', Luigi Donvito, Il primo settecento napoletano attraverso la bio­grafia intellettuale del patrizio genovese Paolo Mattia Doria.

Beni culturali e organizzazione della ricercaTeresa Isenburg, Hospedaria de Imigrantes: una fonte per lo studio delle migrazioni.

Redazione'. Via Leone XIII, 27, 20145 Milano. Amministrazione e distribuzione: v.le Monza n. 106, 20127 Milano - Tel. 28.27.651 - Casella Postale 17175 - 20100 Milano. Abbonamento 1984: Italia L. 45.000 (pagando l'importo entro 30 giorni sconto di L. 2.000), estero L. 60.000, da versare sul c.c.p. 17562208 intestato a FAE Riviste s.r.l., Milano.