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Progetto FEI n.7476: “Parole e luoghi d´integrazione. L´accoglienza e l´inserimento dei giovani stranieri nelle scuole e nelle comunità.” MATERIALI DI SINTESI. Percorso formativo 2011-12

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Progetto FEI n.7476: “Parole e luoghi d´integrazione. L´accoglienza e l´inserimento dei giovani stranieri nelle scuole e nelle comunità.”

MATERIALI DI SINTESI.

Percorso formativo 2011-12

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INDICE

1. L’insegnamento dell’italiano L2:multimedialità e autoapprendimento 1.1. Come attrezzare un laboratorio multimediale per l’apprendimento dell’ italiano L2 1.2. Viaggio nel sito Strarete

2. L’italiano L2 attraverso i linguaggi espressivi e la creatività

2.1 .L’italiano in rap. Apprendimento linguistico e linguaggi espressivi 2.2 .A ciascuno il suo posto … Quando le lingue si fanno teatro

3. Scrivere in italiano L2

3.1. La responsabilità della parola 3.2. Scrivere in italiano L2: indicazioni e percorsi didattici 3.3. “La grande fabbrica delle parole”. Laboratori di scrittura creativa

4. I DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) nella scuola secondaria multiculturale

4.1. Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento: percorsi di valutazione in NPIA per minori stranieri 4.2. L’informazione e l’accompagnamento tra servizi e famiglie

4.3. I DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) nella scuola secondaria multiculturale

5. I dati dei partecipanti ai seminari di formazione

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1. L’insegnamento dell’italiano L2:multimedialità e autoapprendimento

Seminario di approfondimento e scambio di pratiche

L’INSEGNAMENTO DELL’ITALIANO L2: MULTIMEDIALITA’ E AUTO-APPRENDIMENTO

1 dicembre 2011, dalle 15.00 alle 17.30 Aula Magna Istituto “Bertarelli”

c.so di Porta Romana, 110 Milano

• Se vedo ricordo; se faccio capisco….Introduzione al tema Graziella Favaro, Centro COME • Come attrezzare un laboratorio multimediale per l’apprendimento dell’italiano L2 Maria Frigo, formatrice Centro COME • Viaggio nel sito Strarete: Documentare online: tra identità, didattica e metodologia Patrizia Borghi, referente sito Strarete della Commissione Intercultura Cattaneo, Modena Documentare online: uno strumento per raccontarsi Daniela Fontanazzi, docente Istituto Cattaneo-Deledda, comandata presso la Fondazione CEIS di Modena Documentare per costruire partecipazione Angela Garuti, docente Istituto Cattaneo-Deledda, Modena

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1.1. Come attrezzare un laboratorio multimediale per l’apprendimento dell’italiano L2

di Maria Frigo. Slide tratte dall’intervento

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1.2. Viaggio nel sito Strarete di Patrizia Borghi, Daniela Fontanazzi e Angela Garuti

- Documentare online: tra identità, didattica e metodologia Patrizia Borghi, referente del Sito della Commissione Interculturale Istituto Cattaneo di Modena, Strarete. Educazione interculturale non -solo- risposta alla contingenza e alla multiculturalità delle nostre attuali realtà sociali e scolastiche, bensì modalità di confronto, scambio di visuali e di strumenti in ottica interattiva; per comunicare e affrontare, non soli, il reale che cambia. Il sito nasce da questa idea e cerca di raccontarla e documentarla, al fine di lasciare traccia del percorso, lungo e a volte faticoso, di elaborazione, di condivisione e di arricchimento professionale ed umano reciproco. Il nostro breve viaggio, all’interno della struttura e della storia del sito, parlerà del perché, del come e del cosa documentare; degli strumenti che si sono voluti condividere, sottolineando le tante collaborazioni e le tante idee suggerite dai ‘naviganti’. - Documentare online: uno strumento per raccontarsi Daniela Fontanazzi, docente Istituto Cattaneo-Deledda, comandata presso la Fondazione CEIS di Modena La costruzione e l'aggiornamento del sito Strarete ha permesso di: - raccontare il lavoro dei docenti della Commissione Intercultura della scuola concependo la documentazione come capacità di mettersi in gioco, accettando una produzione sempre perfettibile, da arricchire e modificare attraverso il confronto e lo scambio; - creare uno spazio/strumento per dare voce agli studenti, alle loro aspirazioni, difficoltà e ai loro progetti e proposte, all'interno della scuola e in dialogo con le istituzioni e il territorio; -- utilizzare il sito stesso come strumento didattico capace di contribuire alla costruzione di una cultura plurale a servizio dell'apprendimento individuale e collettivo (ad esempio attraverso la webquest). - Documentare per costruire partecipazione Angela Garuti, docente funzione strumentale intercultura Istituto Cattaneo-Deledda La documentazione multimediale di un progetto scolastico può favorire le relazioni e la partecipazione di tutti i soggetti della vita scolastica, a partire dalle famiglie di origine straniera e promuovere un’alleanza educativa fra genitori – docenti – studenti. L'utilizzo di molteplici linguaggi mediali si è dimostrato, tra le altre, scelta vincente in una scuola multiculturale.

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Slide tratte dall’intervento di Patrizia Borghi

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2. L’italiano L2 attraverso i linguaggi espressivi e la creatività

Seminario di approfondimento e scambio di pratiche

L’ITALIANO L2 ATTRAVERSO I LINGUAGGI ESPRESSIVI E L A CREATIVITA’

1 marzo 2012, dalle 15 alle 17.30 Aula Magna Istituto “Bertarelli”

c.so Porta Romana 110 Milano

• Introduzione al tema Graziella Favaro, Centro COME • Apprendere l’italiano attraverso lo sport e le canzoni Fabio Caon, Università di Venezia • L’italiano in rap. Apprendimento linguistico e linguaggi espressivi Alessia Marchiò, ASAI , Torino • “A ciascuno il suo… posto”. Quando le lingue si fanno teatro Riccardo D’Agostino, Centro interculturale città di Torino

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2.1. L’italiano in rap. Apprendimento linguistico e linguaggi espressivi

di Alessia Marchiò

Associazione Asai. L’Asai, Associazione di Animazione Interculturale, è un’associazione di volontariato che opera da più di 15 anni in diverse zone della città di Torino, tra cui i quartieri multietnici di Porta Palazzo, San Salvario e Barriera di Milano. L’associazione promuove iniziative formative ed educative sul territorio, dirette all’integrazione e alla convivenza nel tessuto urbano di cittadini italiani e stranieri. Titolo: L'italiano in rap. Apprendimento linguistico e linguaggi espressivi L’idea dell’italiano in rap nasce dal tentativo di usare sperimentalmente nella didattica dell’italiano L2, un linguaggio nuovo, appartenente al mondo degli adolescenti. Il rap è frutto di una cultura giovanile che nasce dai quartieri poveri americani, nel Bronx di New York negli anni ’60, come forma di protesta sociale, di denuncia, di ribellione fatta da coloro che hanno scarse possibilità di integrazione sociale. Il rap oggi è un codice interculturale di comunicazione, è il linguaggio dei giovani, veicolo di libertà e di denuncia sociale. Esso possiede un valore politico e partecipativo: nelle strade delle città in Tunisia, in Egitto, in Siria, e in tutti i Paesi in cui ha preso forma la “Primavera araba”, la musica rap è stata la colonna sonora della rivoluzione, il ritmo della rivolta per la libertà e per la giustizia sociale, espressa attraverso nuovi canali comunicativi come internet (youtube) e, in particolare, i social network (Facebook, Twitter). Il progetto pilota dell’italiano in rap ha preso il via, durante lo scorso autunno e prosegue tuttora, attraverso un laboratorio svoltosi nella sede di Asai, Cantiere S.O.S., situata nel cuore del quartiere di Porta Palazzo. Niente più di un genere musicale nato nel ghetto americano può essere adatto ad esprimere le emozioni, delusione e rabbia, paure e sogni, di chi vive la complessità di Porta Palazzo, un quartiere multi-etnico, crocevia di incontro e scontro tra immigrati e italiani, dove convivono 55 etnie, attorno al più grande mercato all'aperto d’Europa. I ragazzi coinvolti sono portatori di una situazione di disagio e di fragilità: si tratta in molti casi di minori soli, o privi di solidi riferimenti familiari. I loro percorsi scolastici sono poco lineari, caratterizzati sovente da una scarsa scolarizzazione nel paese di origine, da mancanza di motivazione nello studio e rischio di dispersione scolastica. Il laboratorio ha coinvolto un gruppo di adolescenti di differenti nazionalità, all’interno di un contesto plurilingue e plurilivello. I ragazzi hanno imparato non solo a conoscere un genere musicale, a cantare e riprodurre il prodotto artistico di rapper italiani e stranieri, ma si sono cimentati con la creazione personale di un proprio testo. Si tratta infatti dell’unione degli aspetti più propriamente tecnici, ritmici, musicali, metrici, per i quali i ragazzi sono stati seguiti da un “rapper” professionista che li ha introdotti alla materia, con la pratica della scrittura autobiografica per la quale sono stati guidati da una psicologa. L’apporto creativo è perciò connesso al linguaggio espressivo del testo musicale, alla narrazione, articolata secondo i vincoli del ritmo, della rima, della struttura metrica in quattro quarti della musica rap. Poiché il maestro di rap è sostanzialmente un coetaneo rispetto agli adolescenti coinvolti dal progetto, la modalità educativa utilizzata è quella che si fonda sull’educazione tra pari (“Peer Education”). Si tratta di una strategia educativa che mira ad attivare uno spontaneo passaggio di conoscenze, di emozioni e di esperienze tra individui di pari status. Rap e apprendimento dell’italiano L2 Le attività proposte per potenziare la L2 fanno riferimento alla didattica ludica, basata sul gioco e sulla creatività. Emerge infatti la necessità di lavorare sulla lingua in modo informale: il rap è uno strumento per imparare l’italiano rivolto ad una fascia di studenti eterogenea e complessa per i motivi sopra descritti. Attraverso la modalità che Krashen ha definito “rule of forgetting”(Krashen, Stephen D. e Tracy D. Terrell, The natural approach: Language acquisition in the classroom. Harvard, 1983), secondo la quale si acquisisce una lingua quando si dimentica di stare acquisendola, l'attenzione dei ragazzi si sposta dalla forma linguistica, ai significati necessari per realizzare i contenuti dei laboratori: il focus si sposta sulla musica, sul ritmo, sulla parola, sulla narrazione.

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Il rap è un genere musicale conosciuto e amato dai ragazzi, i quali apprezzano la provocazione e il desiderio di ribellione che pervadono le canzoni dei rapper, nelle quali vedono rispecchiati i loro vissuti e la loro sensibilità di adolescenti. Il rap attiva una motivazione intrinseca all’apprendimento, basata sulla capacità della musica di produrre emozioni e sul piacere di imparare ad esprimersi in modo creativo. La necessità di utilizzare le parole all’interno di una struttura, melodica e ritmica, e di pronunciare il testo seguendo il contesto metrico conducono all’integrazione di canali multisensoriali. Ne deriva l’attivazione di abilità cognitive differenti, il coinvolgimento di mente, corpo, emotività e razionalità, favorendo la memorizzazione dei contenuti semantici e sintattici. (Cfr. P. Balboni, Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse.De Agostini, Novara, 2008). Il laboratorio di musica rap si pone altri obiettivi, non strettamente didattici, e almeno in apparenza non strettamente linguistici, quali il potenziamento delle abilità relazionali, la promozione di un legame di appartenenza con il territorio, lo sviluppo della creatività, la realizzazione, pratica e condivisa, attraverso il gruppo, di un progetto artistico mediante uno specifico linguaggio espressivo. Si tratta di esperienze fortemente motivanti, che favoriscono in modo spontaneo e naturale, l'acquisizione di contenuti linguistici Rap, città e appartenenza. Essere “stranieri” significa provenire da fuori, da un altro paese, ma molto spesso essere stranieri significa allo stesso tempo essere e sentirsi “estranei” ai luoghi che costituiscono il presente in cui si vive. Il laboratorio si è focalizzato, partendo dal concetto di luogo, sul rapporto con il territorio in cui si abita. Si è infatti riscontrata nei ragazzi la tendenza a “transitare” sul territorio della città, percependo i luoghi come estranei, indifferenti. Attraverso un percorso di riflessione in aula circa i luoghi che hanno una valenza significativa, e successivamente attraverso un percorso esterno, fisico, costituito da uscite nella città, il laboratorio ha mirato ad una riappropriazione dello spazio cittadino. Al fine di suscitare un senso di appartenenza, di colorare con una valenza affettiva i luoghi della città, i ragazzi sono tornati nelle strade e nelle piazze, hanno ripercorso i luoghi per risignificarli, attraverso performance in differenti quartieri della città. Rap, emozioni e adolescenza La musica è pertanto una modalità forte di espressione di sé, che nasce dall’esigenza, intrinseca all’essere umano, di raccontare, di narrare se stesso: frammenti di storie, ricordi, sensazioni trovano manifestazione nella parola poetica, nel verso musicale. Attraverso la condivisione di emozioni e sentimenti si favorisce il senso di coesione e di appartenenza a un gruppo, si riconoscono i propri vissuti, ascoltando e trovando ascolto, si crea uno spazio condiviso di crescita e di consapevolezza. I contenuti sviluppati attraverso la scrittura autobiografica riguardano esperienze personali dei ragazzi, ad alto impatto emotivo: l’esperienza migratoria, la nostalgia e la lontananza del paese di origine, i vissuti di solitudine lontano dagli affetti familiari, il rap come canale di evasione dalla realtà e di sfogo, di denuncia, la propria identità in “costruzione” di adolescente, i sogni e le fragilità. Rap, identità e lingue migranti Nell’ottica della valorizzazione delle lingue migranti, fattore di arricchimento e fonte inesauribile di potenzialità e sfumature espressive, i testi sono stati composti dapprima nella lingua materna e poi in italiano L2. La Lingua 1 è la lingua di origine dell’identità: racconta la storia biografica di ragazzi che hanno vissuto infanzia e pre-adolescenza in altri luoghi. Scrivere in L1 consente innanzi tutto di esprimere se stessi e la propria storia, dando dignità e riconoscimento sociale alla propria lingua e alla propria cultura. In secondo luogo, permette la valorizzazione delle competenze nella produzione scritta, che in italiano L2 non emergono a causa della minore padronanza linguistica. La L2 invece è la lingua appresa, è la lingua di mediazione e comunicazione con gli altri. Scrivere in L2 consente innanzi tutto di imparare e migliorare l’uso della lingua italiana, e allo stesso tempo, permette la riflessione, conduce ad imparare a confrontarsi e a condividere con gli altri emozioni e pensieri.

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2.2. “A ciascuno il suo … posto”. Quando le lingue si fanno teatro

di Riccardo D’Agostino Il laboratorio teatrale rientra all’interno di “Giovani al Centro”, progetto della Città di Torino realizzato in collaborazione tra Centro Interculturale e Associazione ASAI. Il progetto, attivo da ottobre 2009, attraverso una serie di iniziative e attività, si occupa di percorsi aggregativi ed educativi volti a coinvolgere adolescenti che risiedono nel quartiere Barriera di Milano, periferia nord di Torino. Prima di tutto… Il progetto educativo Il laboratorio teatrale nasce e si sviluppa a partire da esigenze e istanze che gli adolescenti che frequentano il doposcuola del Centro Interculturale ci portano quotidianamente. Il fine dell’intervento, occorre specificarlo, non è costituito dall’attività stessa, ma risiede nel singolo ragazzo e nel gruppo. L’attività teatrale è dunque uno degli strumenti che abbiamo approntato per lavorare con il gruppo. Il laboratorio è il luogo inclusivo per eccellenza, dove possono coesistere diversità, anche le più marcate. Il gruppo di partecipanti al percorso teatrale annovera al suo interno il diciassettenne italiano che frequenta il liceo scientifico, il parrucchiere marocchino di 26 anni, il ragazzino Rom di 12 che a turno accompagniamo e andiamo a prendere al campo, il minore marocchino “non accompagnato”, la ventenne romena che lavora facendo le scale e non parla ancora italiano, ecc.. E dentro il percorso sono confluiti coloro che amano recitare, ma anche musicisti e appassionati di danza. Se avessi messo un annuncio su un quotidiano per costituire un “corso di teatro”, non avrei probabilmente “agganciato” 30 adolescenti e non avrei avuto l’opportunità di lavorare in una situazione così eterogenea. Il progetto educativo tiene conto che i ragazzi: - sono portatori di emozioni, talvolta forti e contrastanti. Espresse a parole o tramite i comportamenti; - possiedono una propria storia di vita che interagisce con quelle degli altri. Occorre conoscere le biografie dei ragazzi con cui lavoriamo; - possiedono competenze artistiche, relazionali, umane. Non sono tabula rasa. Pertanto il laboratorio deve prendere forma a partire da questi dati di fatto. Obiettivi del percorso: - La formazione di un gruppo che utilizzi l’arte come strumento di espressione, comunicazione e scambio, al fine di creare e ampliare relazioni - Favorire la condivisione di esperienze, conoscenze e competenze - Sviluppare dinamiche di educazione tra pari, fiducia e cooperazione - Lavorare sull’apprendimento della lingua italiana attraverso il linguaggio teatrale: apprendimento e approfondimento della lingua italiana attraverso il Role Playing a partire da un canovaccio, la scrittura del testo, l’utilizzo del corpo e della musica, della canzone. - La realizzazione di uno spettacolo teatrale con testi interamente scritti dai ragazzi, con musiche dal vivo ed un intervento coreografico. Lo spettacolo teatrale Il percorso, condotto da una regista-insegnante esperta e da un educatore del progetto, ha preso il via con una lunga fase di formazione del gruppo, che ha visto i ragazzi impegnati nella ricerca di nuovi partecipanti e contemporaneamente coinvolti in attività ludiche volte a favorire la reciproca conoscenza e la creazione di dinamiche di fiducia e cooperazione. Dopo la parte legata alla formazione del gruppo, si è passati a lavorare allo spettacolo a partire dall’improvvisazione teatrale e ricostruendo storie, pensieri, aneddoti che potessero divenire contenuto della rappresentazione. Lo spettacolo che ne è risultato, incentrato sui luoghi che caratterizzano la vita dei ragazzi, raccoglie racconti, riflessioni, sogni e nostalgie dei ragazzi stessi. Attraverso il linguaggio artistico hanno voluto esprimere la difficoltà a trovare una collocazione all’interno della società e la loro continua ricerca di senso.

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L’alternanza di momenti recitati, musiche suonate dal vivo, coreografie ha permesso di valorizzare le capacità e gli interessi presenti nel gruppo, al tempo stesso sensibilizzando tutti alle varie discipline artistiche. Dalla scheda dello spettacolo: Un gruppo casuale di viaggiatori, se il caso esiste, si incontra su un pullman di linea qualsiasi, in un giorno qualsiasi, in una città qualsiasi, che assomiglia molto a Torino. Senza mai partire, i passeggeri raggiungeranno diversi posti e vivranno esperienze sempre nuove. Ogni posto ha il suo linguaggio, il suo codice di comportamento e richiede ruoli ben definiti. Spesso si dice: “L’importante nella vita è saper stare al proprio posto”. Ma davvero c’è un posto “giusto” assegnato ad ognuno di noi? Oppure ogni posto è quello giusto per essere noi stessi? La metodologia Responsabilità nei confronti del gruppo, partecipazione e protagonismo di ciascuno, ascolto profondo dell’altro, rispetto, sostegno reciproco. Può sembrare un corso sulla cittadinanza ed invece si tratta di un laboratorio teatrale, che ha come obiettivo principale quello di dare vita ad una concreta e reale esperienza di gruppo, fondata sui principi del reciproco riconoscimento e della cooperazione. Il lavoro si è svolto nell’ottica dell’educazione tra pari, dove il ruolo degli adulti è di accompagnamento, supervisione e soprattutto stimolo all’autonomia. Abbiamo puntato sulla partecipazione di tutti alle scelte ed alle decisioni interne. A partire da come arrangiare una canzone o una scena, fino alla decisione se prendere parte o no ad una rassegna, a come comportarsi di fronte ad un conflitto, ecc. Inoltre, informazioni e comunicazioni, materiali e spunti, non provengono mai unicamente da un centro ma da ciascuno dei componenti. In questo senso, la creazione di una pagina Facebook del laboratorio ha facilitato il passaggio orizzontale delle comunicazioni. Nello spettacolo, così come nel gruppo, ciascuno si percepisce come pezzo unico e indispensabile di un meccanismo che necessita dell’apporto di tutti per funzionare. Anche il più giovane tra i partecipanti, chiamato ad esprimere il meglio di sé per contribuire all’esito positivo dell’esperienza, non può che ricevere soddisfazione dall’essere valorizzato, crescendo nel proprio senso di responsabilità. Dal punto di vista teatrale la metodologia impiegata ha compreso attività di: • conoscenza • attenzione, concentrazione e presenza scenica • consapevolezza corporea, respirazione ed utilizzo della voce • fiducia, relazione e condivisione dei propri vissuti • improvvisazione teatrale • creazione dello spettacolo Qual è il mio posto? È la domanda che ogni essere umano si pone, in particolare durante il periodo dell’adolescenza. Quale posto occupo al mondo? Nella mia famiglia? Nella scuola? Nella società? È la domanda in cui si riconoscono in particolar modo i ragazzi ricongiunti, spesso strappati alle amicizie e agli affetti del loro Paese per ritrovarsi in una terra sconosciuta, magari con una madre o un padre poco meno che sconosciuti. È l’interrogativo dei figli degli immigrati, chiamati quotidianamente a fare una sintesi tra gli elementi culturali della propria famiglia e quelli del posto, l’Italia, in cui sono nati. È la domanda che esprime la ricerca di senso da parte dei giovani, che si trovano a vivere in una società adulta e cristallizzata, che non si preoccupa di predisporre canali attraverso cui le nuove generazioni possano ridiscuterne i valori fondanti e i significati. Ai giovani non è concesso di partecipare alla costruzione di significati condivisi. Tutto è già deciso e definito. L’unica scelta possibile resta quella di adattarsi, pena il disagio, la frustrazione, l’esclusione sociale. Nello spettacolo, i giovani attori mettono in discussione i gesti e i rituali quotidiani, i luoghi comuni, i codici di linguaggio e di comportamento adatti per ogni occasione, ricercandone i significati e talvolta ricreandone di nuovi. Nel percorso svolto, non si sono limitati a porre domande, ma hanno tentato di individuare una direzione che attribuisse significato alle loro vite. In scena, suggeriscono a noi adulti che ogni tanto occorre sconfinare, uscire dal proprio posto per capire l’altro. Ci chiedono di operare nei nostri territori, nelle scuole, nel

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vicinato, per costruire legami, per rafforzare relazioni, per favorire comunità. Niente di più banale a dirsi. Nulla di più difficile a realizzarsi. Il teatro e la lingua L’attività teatrale è risultata essere un efficace strumento di lavoro sulla lingua, da cui hanno tratto beneficio soprattutto quei ragazzi arrivati da poco in Italia. In particolare, rispetto alla produzione orale abbiamo riscontrato una maggiore sicurezza nel pronunciare le frasi, la memorizzazione di nuove parole, l’acquisizione di strutture e codici comunicativi legati a diversi contesti situazionali. Lo spettacolo si prestava decisamente a quest’ultimo aspetto, ambientando le varie scene in posti diversi: l’autobus, la scuola, la discoteca, il call-center, la spiaggia, il ‘700, la palestra, il circolo per anziani…). Il lavoro sulla gestione dell’emotività e dell’ansia di parlare di fronte al gruppo, porta inevitabilmente a vincere l’imbarazzo e il blocco di esprimersi in pubblico. Vale per tutti, ma in modo specifico è tornato utile agli studenti immigrati che a scuola vivono il timore di non pronunciare bene le parole o di strutturare in modo non corretto una frase, magari durante un’interrogazione di fronte a tutta la classe. Attraverso la ripetizione e la memorizzazione, il linguaggio teatrale consente ai ragazzi stranieri di giungere ad esprimersi correttamente. La redazione del copione ha visto i ragazzi impegnati in prima persona nell’elaborazione e nella stesura dei testi, nati durante i giochi e le improvvisazioni teatrali, ridefiniti e fissati in seguito “a tavolino”. Il testo racchiude tutti gli elementi che abbiamo voluto inserire nel processo di costruzione del gruppo e della rappresentazione: 1) Valorizzazione delle lingue materne. A ciascuno abbiamo permesso di esprimersi nella lingua che riteneva più adeguata, coinvolgendo gli altri attori nel gioco di apprendere alcune frasi di un idioma diverso dal proprio. Nella prima scena, ad esempio, il conducente (romeno) dell’autobus risponde in italiano, romeno, marocchino, spagnolo a una serie di passeggeri che gli chiedono informazioni in lingue diverse. Le tre canzoni che si inseriscono nello spettacolo, corrispondono a tre lingue presenti tra i ragazzi. Suzana è un motivo pop serbo, molto amato dagli adolescenti Rom e Yemma è una canzone della cantante franco-algerina Soad Massi che racconta una faticosa storia di migrazione. Permettere di esprimersi e di cantare nella propria lingua e di insegnarla ad altri significa riconoscere la presenza di ciascuno e valorizzarne l’identità e la cultura di appartenenza. 2) Condivisione delle biografie. Per permettere a ciascuno di attribuire un senso alla condizione adolescenziale, all’esperienza migratoria e per esprimere attraverso l’uso della parola parlata e cantata sentimenti ed emozioni. 3) L’uso polisemico delle parole. Nel testo dello spettacolo la parola “posto” assume più significati. La polisemia dipende dal contesto e dall’ambito d’uso, oppure dall’uso figurato delle parole. Legame con la cultura di riferimento, per cui il significato dipende dalla comunità di parlanti. Individuare i vari modi di usare il termine “posto” è stato un vero gioco… di parole. Alcuni esempi tratti dal copione: Mi scusi , vorrei arrivare in quel posto… Tu da che posto vieni? Scusi questo è il mio posto Qui non siamo tutti a posto Tenga le mani al proprio posto! Cosa farebbe se fosse al mio posto? Vada a prendersela in quel… Tutto a posto? Da questo posto non mi sposto! Io questo posto me lo sono guadagnato

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4) L’impiego di forme linguistiche a cavallo tra due idiomi: l’interlingua. Perché mettere freno alla fantasia e all’innovazione linguistica? Alcune frasi nate “sbagliate” perché frutto di una costruzione che mescolava l’italiano con l’arabo, il francese o lo spagnolo sono state riconosciute e ufficializzate nel testo. Es. Scena in discoteca che si ispira alla trasmissione televisiva per teenager The Club. Voce fuori campo che intervista Youssef mentre balla: - Come conquisti una donna? - Con un dolcissimo di sguardo. 5) Codici linguistici e gergo giovanile. Ogni posto ha i suoi codici linguistici e di comportamento. Lo si può sperimentare attraverso i giochi di ruolo. Role taking: entrare in un ruolo in base al contesto Role Playing: creazione del personaggio a partire da un canovaccio che indica gli aspetti situazionali entro i quali muoversi. In conclusione “A ciascuno il suo… posto” è stato presentato più volte nella Città di Torino ed è andato in scena il 4 Novembre 2011 durante il XIV Convegno Nazionale dei Centri Interculturali. Attualmente il gruppo sta lavorando alla costruzione di un nuovo spettacolo.

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3.Scrivere in italiano L2

Seminario di approfondimento e scambio di pratiche

SCRIVERE IN ITALIANO L2

26 marzo 2012, dalle 15 alle 17.30 Aula Magna Istituto “Bertarelli”

c.so Porta Romana 110 Milano

• L’avventura della scrittura in L2. Introduzione al tema Graziella Favaro , Centro COME • Italiani anche noi. Storie per dirsi e per conoscersi Eraldo Affinati, scrittore e insegnanti • Scrivere in italiano L2: indicazioni e percorsi didattici Gabriella Debetto, Università di Padova • “La grande fabbrica delle parole”. Laboratori di scrittura creativa Francesca Frediani, Terre di Mezzo - Milano

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3.1. La responsabilità della parola di Eraldo Affinati

Che cos’è la Città dei Ragazzi? Insegno alla Città dei Ragazzi, una comunità educativa fondata nel 1951 da monsignor Patrick Carroll-Abbing, un sacerdote irlandese che nel secondo dopoguerra offriva una casa ai piccoli orfani. L’idea era quella di costruire una città governata dai ragazzi, i cosiddetti minori non accompagnati. La città doveva funzionare con il sistema dell’autogoverno. E’ ancora così. Con una differenza: un tempo gli ospiti erano solo italiani, oggi provengono da paesi extracomunitari, sono afghani, africani, magrebini. Spesso risultano analfabeti nella loro lingua madre. Appena vengono identificati dalla polizia, iniziano la lunga trafila che dai poliziotti, dagli educatori e dagli psicologi che li accolgono, li destina a una struttura come la Città dei Ragazzi. Qui imparano la democrazia. Nei loro paesi non c’è stato né il diritto romano, né la rivoluzione francese. Fragili e indifesi come sono, senza questa accoglienza e questi apprendimenti sarebbero facile preda della criminalità. La responsabilità della parola Chi insegna alla Città dei Ragazzi non può limitarsi a svolgere il programma. Al contrario, deve mettersi in gioco. E’ necessario rompere quella che definisco la “finzione pedagogica”. Spesso come insegnanti ci mascheriamo dietro il nostro ruolo. E così tendiamo a farlo fare anche agli alunni. A volte è inevitabile, ma con questi ragazzi occorre anzitutto creare un rapporto umano. Devi essere responsabile della parola. La responsabilità è considerata una categoria di tipo giuridico. Ma noi dobbiamo provare a pensarla anche in senso pre-giuridico. È responsabile chi risponde allo sguardo altrui, alla persona che gli sta davanti e, con la sola presenza, lo interpella, lo chiama in causa. Dovremmo sentirci responsabili dei “contesti” nei quali operiamo. Tutta la storia del Novecento ci insegna che la responsabilità giuridica non è stata quasi mai disattesa. Quindi, non è sufficiente: non è riuscita a evitare le nefandezze di cui sappiamo. L’insegnante e lo scrittore sono responsabili della parola. Ciò che dicono, nel caso dei docenti, incide sui ragazzi. Lo scrittore si esprime anche a nome di chi non può farlo. Essere responsabili della parola significa comportarsi in modo coerente. Questi ragazzi, profughi, implicitamente te lo chiedono. In più riescono a darti la misura universale su cui dovrebbero basarsi i comportamenti: onestà, rettitudine, rispetto. La promessa mantenuta Dati i rapporti umani che vengono a crearsi nella Città, due di loro, Omar e Faris, diventati maggiorenni, mi chiesero di riaccompagnarli a casa. Fu così che mi trasformai in straniero. Qualche anno fa, insieme a loro, atterrai a Casablanca. All’interno del Paese dove ci siamo diretti non c’è acqua, luce elettrica, non ci sono strade asfaltate. Le case appaiono sparse qua e là, a distanza di duecento metri l’una dall’altra. Omar e Faris erano destinati a restare lì per tutta la vita: isolati, senza prospettive di sviluppo. Ho conosciuto i genitori di Omar e Faris, scoprendo che non sono anafettivi. Anzi, ho capito la loro forza d’animo e ho compreso anche di più quando il padre di Faris mi disse: “Se avessi impedito a mio figlio di partire lo avrei perso per sempre perché era determinato a farlo. Così decisi di aiutarlo. E adesso me lo ritrovo qui insieme a te.” Trovare le parole

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In Marocco, nella casa di origine dei miei scolari, ho vissuto la vita del posto, sono diventato amico dei loro parenti e ho capito che Omar e Faris, rispetto ai coetanei rimasti a casa, hanno una carta in più: sono pronti, presenti, vitali. Lì vedi l’ignoranza, il vuoto, la miseria. Anche per questo il giudizio che formulano è severo nei confronti del Paese da cui sono partiti. Qui da noi questi giovani esprimono solo il venti per cento delle loro potenzialità perché non parlano bene l’italiano e vivono in un contesto che non è il loro. “La Città dei Ragazzi” è il testo che ho ricavato dalla mia esperienza pedagogica. Mio padre era orfano, figlio illegittimo che a dieci anni vide morire sua madre. Non era nelle condizioni di questi ragazzi ma ha vissuto come un vagabondo: nonostante ciò è riuscito a costruirsi una famiglia. Purtroppo non ha mai trovato le parole per farmi capire davvero questa sua origine oscura. Di solito chi ha simili provenienze le rimuove, le cancella, cerca di tagliarle. Con questo libro ho voluto risarcire mio padre: facendolo parlare, ora che è scomparso, ho cercato di ricostruire il senso che a lui era sfuggito. Ragazzi speciali La letteratura è stata per me una protesi della vita. Forse per questo ho sempre scritto a partire da esperienze concrete, fatte in prima persona. Mia madre, figlia di un partigiano, dopo la fucilazione di mio nonno, venne caricata su uno di quei treni che portavano ai campi di concentramento. Per fortuna, a Udine, in una situazione di trambusto, riuscì a fuggire e a dileguarsi nelle campagne. Nel 1997 ho scritto “Campo del sangue” che racconta quella vicenda. Due anni prima, insieme a due miei amici, avevo rifatto il viaggio che lei avrebbe dovuto compiere se non fosse riuscita a scappare dal treno. Il tema delle radici è ricorrente in tutti questi ragazzi che tentano di ricomporre i loro cocci sbriciolati e lo fanno in lingua italiana. Per entrare in rapporto con loro bisogna essere maestri e amici. Amico per comprendere i loro entusiasmi e le loro frustrazioni. Maestro per assegnare i limiti. La credibilità dell’adulto Un adulto risulta tanto più credibile se fa vedere che ha sacrificato qualche cosa di se stesso. Se tieni tutte le strade aperte, non sei convincente. Lo diventi se assumi un rischio, se rinunci a qualcosa, se mostri una sorta di amputazione spirituale. In altre parole, se fai vedere di aver pagato il prezzo della maturità. Molti padri e madri non compiono questo percorso: i loro figli rischiano di essere insicuri. Talvolta l’insegnante è chiamato a recitare il ruolo di controfigura del padre. L’azione rischiosa che gli viene richiesta è ad esempio quella di pronunciare dei no, quindi creare dissenso. In certi momenti l’educatore deve porsi anche ostacolo, necessario polo dialettico. Chi cresce senza nemici è destinato al vuoto interiore, allo smarrimento. Le radici: un lavoro in corso Mohamed dichiara: dentro mi sento arabo, fuori italiano. Questi ragazzi, in Italia, assumono le sembianze e le tipologie di comportamento dei ragazzi italiani. Ma è la visione del mondo a restare diversa. Sono individui lacerati. Hanno due sensibilità, due culture, due caratteri. Devono mettere insieme i valori da cui provengono con i nostri. Coniugare antico e moderno. Credo che alla fine costruiranno una terza tipologia umana: né come noi, né come i loro padri, ma un meticciato. Forse avranno sempre un senso forte della gerarchia e del rispetto umano. Noi dovremo partecipare di questo cambiamento. Per loro sarà sempre un lavoro in corso. Non si potrà mai dire: sono diventati italiani o sono rimasti ciò che erano. Essi appartengono alla prima generazione in una terra nuova: quando sono partiti, non sapevano ciò che avrebbero trovato: una città oppure uno strapiombo. Hanno avanzato alla cieca, verso l’ignoto. Quasi nessuno di loro adesso vuole tornare indietro, se non per salutare i suoi. Il futuro del mondo occidentale Quando sono stato insieme a Omar e Faris in Marocco ho visto ciò che hanno guadagnato ma anche quello che rischiano di perdere. Alì che, a differenza dell’amico Omar, non era partito per l’Italia, esprimeva una grande ricchezza spirituale. Coi padri dei miei studenti m’intendevo senza parlare. Bastava lo sguardo. C’era

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una qualità del silenzio oggi scomparsa. Questi ragazzi potrebbero insegnarci a ritrovarla, peraltro agendo da mediatori anche nei confronti dei loro compagni extracomunitari, che vengono in Italia senza passare attraverso l’educazione democratica dell’autogoverno. La Città dei Ragazzi è aperta. I giovani ospiti possono uscire e l’integrazione con l’esterno è positiva. Mantengono il rapporto con altri coetanei stranieri e spesso adulti delle loro nazionalità vengono trovarli. Nelle settimane interculturali ogni giornata viene dedicata a un diverso Paese: si cucinano cibi particolari, si fanno incontri. E’ raro che un giovane straniero non voglia avere rapporti con cittadini del suo Paese d’origine, ma può accadere in presenza di conflitti e guerre civili. Di solito sono tutti disponibili a mantenere i rapporti con chi proviene dal loro mondo perduto. L’importanza dei luoghi L’aula scolastica, in un contesto simile, rischia di essere percepita come un luogo obsoleto dove la la lezione frontale, da sola, non sarebbe sufficiente a creare fra alunni e docenti un rapporto umano privilegiato. Del resto esiste una rivoluzione informatica in atto. I giovani, posti davanti al p.c., hanno intuizioni e creatività. Si ha l’impressione che procedano per categorie associative, più che deduttive. Magari sono più incostanti nella concentrazione sul testo, ma in compenso si dimostrano molto abili nei passaggi logici da un contesto all’altro. Visto che la testa degli alunni sta cambiando, il lavoro dell’insegnante si fa di giorno in giorno più difficile. Eppure di fronte ai miti contemporanei prevalenti (successo, ricchezza, bellezza) i docenti restano fra i pochi a richiamare l’attenzione sui valori dell’autenticità, dello spirito critico, della riflessione. La Casa dei Ragazzi è un centro della parola, ma è anche un luogo protetto, dove non c’è rumore. I ragazzi sono responsabilizzati, vengono spinti a scegliere. Trovare la forma del pensiero Il linguaggio non è solo un mezzo di comunicazione. E’ soprattutto la casa del nostro pensiero. Tutto ciò che pensiamo ha una dimensione verbale. Se la lingua è un po’ malandata (nel caso degli extracomunitari o anche negli italiani che si esprimono in dialetto), anche il nostro pensiero sarà sbilenco e viziato. Cercare le parole giuste non è un semplice dovere scolastico, ma il compito della vita. Trovare la forma del pensiero significa riflettere sull’esistenza. Una scrittura senza esperienza potrebbe essere sterile, ma una vita senza scrittura sarebbe vana. Bisogna rendere universale ciò che è autobiografico. In questo senso conta soltanto ciò che avviene sulla pagina. Tuttavia, a mio avviso, la letteratura non può ridursi a una questione da studiolo. Prima dev’essere stata carne e sangue. Poi può diventare un libro. Così conquisti uno stile. Ma questo non vale solo per chi scrive. Riguarda tutti gli uomini. LA SCUOLA PENNY WIRTON di Eraldo Affinati Ho cominciato a insegnare la lingua italiana agli stranieri nella Città dei Ragazzi, la comunità educativa che monsignor John Patrick Carroll-Abbing fondò nel secondo dopoguerra alle porte della capitale per accogliere i bambini senza famiglia e che in seguito è diventata ostello per giovani in difficoltà. Il metodo pedagogico rimane, ancora oggi, quello dell'autogoverno, teso a responsabilizzare i piccoli ospti, con il sindaco, gli assessori e la moneta locale. Insieme a Ivan e Hafiz, in Via della Pisana, a Roma, ho capito che le teorie ci fanno perdere tempo prezioso. Bisogna imparare in fretta e sul campo. Allora ci siamo inventati una scuola dove si potesse rompere la finzione del professore che spiega e dello studente che ascolta. Penny Wirton è il protagonista di una favola composta da Silvio D'Arzo, grande scrittore italiano: la storia di un ragazzo che non ha mai conosciuto suo padre ma che, dopo alterne avventure, ritrova la propria dignità. Penny oggi si chiama Omar, Faris, Arif, Malik, Mustafà, Kabil, Assad… All'inizio eravamo io, mia moglie Anna Luce Lenzi e pochi altri. Ora siamo in tanti nei locali della Chiesa di San Saba. I ragazzi arrivano dai Centri di Pronto Intervento gestiti dalla Caritas. Li vedi già in fondo al

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corridoio, neri, bianchi, gialli, vestiti come i loro coetanei europei, ma con gli occhi sgranati di chi, a quindici anni, ha già vissuto cento esperienze: la fame del fuggiasco, la sete del prigioniero, il colpo ricevuto e quello dato. Nel loro sguardo decifri la mortificazione dell'adolescente costretto ad anticipare l'età adulta nel tentativo di realizzare un desiderio che lui crede essere suo ma che, in molti casi, gli è stato inoculato da qualcun altro: vai in Italia, fuggi da qui, trova un lavoro e mandami i soldi. Oppure si tratta di adulti che ancora non sanno parlare la nostra lingua e devono accontentarsi di lavori saltuari, senza riuscire a pagarsi una lezione privata. Operai, badanti, camerieri. Perfino qualche suora in incognito che, dovendo impratichirsi con l'italiano, siede vicino ai piccoli studenti e, come loro, compita il verbo essere. Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e comincia a imparare le vocali. Poi, a gruppi sparsi, si presentano gli altri: Abdì, Raissa, Dimitri, Kadigia. Chi già conosce l'italiano e chi invece non sa dire neppure buongiorno. Chi possiede l'alfabeto e chi deve ancora conquistarlo. Chi scrive da destra a sinistra. Chi non sa cos'è il quaderno a righe e chi parla arabo e inglese, magari imparato dai soldati americani in Afghanistan. Noi cerchiamo di dare a ognuno ciò di cui lui, o lei, necessita. Non facciamo gruppi classe. L'ideale sarebbe il rapporto uno a uno. Ecco perché la Penny Wirton ha bisogno di tanti insegnanti. Come trovarli? Ho cominciato a diffondere la voce negli incontri che mi capita di fare in giro per l'Italia e la risposta è stata immediata. Ecco Nadia, Gianluca, Marinella, Adele, Gabriella, Tiziana, Arturo… Questi sono docenti speciali, intanto perché non ricevono un euro, poi perché non firmano registri e non bocciano mai. Insieme a loro ho talvolta la soddisfazione di vedere qualche mio studente italiano dell'istituto professionale che di mattina veste i panni dello studente svogliato, poco incline alla disciplina, e il pomeriggio quelli del volontario serio e coscienzioso. Un anno. Due anni. Tre anni. I fogli con gli schemi e le illustrazioni, i questionari e gli esempi, sono cresciuti sugli scaffali. Il libro, appena stampato, che li raccoglie tutti, s'intitola Italiani anche noi. Ce lo hanno pubblicato gli amici del Margine di Trento. Lo abbiamo scritto io e Anna Luce Lenzi. Venticinque lezioni dense di esercizi e disegni di Emma Lenzi posti accanto alle parole. Alla fine di ogni capitolo abbiamo inserito un mio breve racconto per invogliare alla lettura i più bravi. Sono le storie che ho appreso dagli stessi ragazzi: il flauto traverso che Babul suona quando si sente triste: la cicatrice di Sofi, col nome semincancellato della fidanzata che ha lasciato prima di partire per l'Europa; il vecchio Abebe alla ricerca dei figli dispersi; il ritorno in Africa di Khaliq che ritrova la madre creduta morta; Nasir che impara i Promessi sposi in mezz'ora; Aminah, mezza araba e mezza italiana; le lotte di Baman; il padre di Pedro; le parate di Patrick; i dolci di Umbertino… Le scuole che si richiamano alla Penny Wirton si diffondono nel Bel Paese da Sud a Nord: in diverse cittadine calabresi (Mormanno, Castrovillari, Trebisacce), con Marco Gatto, pronto a rispondere così alla crisi meridionale, le frequentano molte donne arabe che si portano dietro i bambini; a Torino, con l'attivissima Anna Belpiede, nella Biblioteca "Primo Levi", si è creato un gruppo di docenti appassionati. Questo è già un piccolo bel risultato. Ma io vorrei che Penny, con tutta la sua impertinenza di ragazzino curioso e irrefrenabile, si affacciasse anche nelle aule della scuola pubblica, soffiando sui banchi per togliere un po' di polvere.

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3.2. Scrivere in italiano L2: indicazioni e percorsi didattici di Gabriella Debetto

Scrivere, come ben sappiamo, è difficile per vari motivi. La difficoltà maggiore per chi impara a scrivere è il passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta. Da un processo, infatti, di negoziazione di significati interattivo e reciproco si passa ad uno non reciproco e più nascosto. Ancor più difficile è affrontare la produzione di un testo scritto in una lingua seconda. Infatti, ai problemi esistenti nella scrittura in lingua madre si aggiungono quelli inerenti al fatto che chi scrive deve imparare una nuova fonetica, una nuova grammatica, un nuovo lessico, frasi idiomatiche e diverse convenzioni retoriche per comporre i diversi tipi di testi. Un ulteriore difficoltà per l’allievo straniero, inserito nella nostra scuola, può derivare dal fatto che la scrittura venga praticata con funzioni e scopi diversi rispetto all’uso che se ne può fare nella normalità delle interazioni comunicative. A scuola si scrive, infatti, per imparare a scrivere, si scrive molto per dimostrare conoscenze e saperi nel momento della valutazione, si scrive per esercitare il pensiero, per cui gli studenti sono talvolta impegnati nella produzione di generi testuali che hanno ragion d’essere solo nell’ambiente scolastico, quali il tema, la parafrasi di altri testi, il commento di testi letterari o la produzione di racconti fantastici. La scrittura in lingua seconda va, dunque, introdotta gradualmente, dopo che si siano almeno in parte consolidate le abilità orali, attraverso accorgimenti didattici e spazi mirati. Alcuni criteri condivisibili per impostare una didattica della scrittura: a) dare priorità alle attività di comprensione su quelle di produzione e rispettare una successione dalla lingua orale verso la lingua scritta. b) graduare i compiti di scrittura tenendo costantemente sotto controllo il livello di interlingua degli allievi. I compiti di scrittura dovranno,infatti, essere realizzabili e commisurati al livello di competenza generale da loro raggiunto. c) prevedere percorsi specifici per la scrittura in stretta connessione con le altre abilità linguistiche di base. Fermo restando che non si può pensare che lo studente acquisisca la capacità di scrivere attraverso attività glottodidattiche inerenti le altre abilità. Che, per esempio, impari a scrivere soltanto leggendo. d) adottare un “approccio didattico processuale”, non proponendo soltanto dei modelli da imitare, ma dando largo spazio ad attività di stesure intermedie e transitorie, facilitate da supporti tratti anche da linguaggi non verbali come schemi,immagini, disegni. e) prestare una particolare attenzione alla prospettiva testuale, optando una scelta di generi testuali che tenga nella dovuta considerazione la varietà delle forme testuali, dei registri linguistici e dei diversi scopi comunicativi - Esempi di tecniche per la scrittura (attività di trascrizione, guidate, semiguidate, per accompagnare le fasi di produzione di un testo). - Esempio di percorso didattico per la produzione di un testo argomentativo. Bibliografia di riferimento Beltramo M., Abilità di scrittura, 2000, Paravia, Torino Carrada L., Tre incontri sulla scrittura. Tra la scuola,la professione,la vita., 2006, www.mestierediscrivere.com Corno D., La scrittura. Scrivere, riscrivere, sapere di sapere, 1999, Rubbettino, Catanzaro Debetto G.," Sviluppo delle abilità integrate" M 14 (parti 2, 3, 4 ). 1996, MILIA a cura dell'IRRSAE Liguria, D.G.S.C., M.P. Istruzione. Debetto G., “Scrivere in italiano L2 ", in “Non uno di meno”(a cura di Favaro.,Papa N.,), FrancoAngeli, 2009, Milano Favaro G. Insegnare l’italiano agli stranieri, 2002, La Nuova Italia, Firenze Lavinio C., Le abilità di scrittura, 1996, MILIA a cura dell'IRRSAE Liguria, D.G.S.C., M.P. Istruzione. Lo Cascio V.”Grammatica dell’argomentare”,1991,La Nuova Italia, Firenze

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3.3. “La grande fabbrica delle parole” di Francesca Frediani

La Grande Fabbrica delle Parole è il progetto di scrittura creativa per bambini e ragazzi di Insieme nelle Terre di mezzo. Nasce nel febbraio del 2009 ispirandosi a 826 Valencia di Dave Eggers per promuovere il diritto all’espressione a partire dalla zona di via Padova a Milano, un quartiere che è un laboratorio di convivenze interculturali. Ad oggi ha coinvolto quasi 1500 bambini e ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado. Al lavoro con le scuole, ha affiancato l’applicazione dell’approccio della scrittura creativa all’integrazione delle attività didattiche per l’apprendimento dell’italiano L2. Parole per tutti, nessuno escluso Il laboratorio, in cui nascono continuamente nuove storie, è stato a sua volta generato da una storia: nel libro La Grande Fabbrica delle Parole, da cui abbiamo tratto ispirazione, si racconta di un Paese in cui le parole non sono a disposizione di tutti, ma solo di alcune persone privilegiate. L’idea che muove il progetto è quella di reagire ad un assetto del genere e favorire l’accesso alla lingua scritta, e più in generale la partecipazione al mondo culturale, da parte di soggetti a rischio di marginalizzazione. Le attività sono strutturate come un vero e proprio percorso di appropriazione della scrittura, in cui chi partecipa sperimenta le potenzialità di tale strumento come mezzo di espressione del proprio vissuto e come luogo a partire dal quale sviluppare il proprio punto di vista sul mondo circostante. La scrittura è uno spazio con caratteristiche particolari, in cui si può dialogare con se stessi e prendere coscienza dei propri pensieri e dei propri stati d’animo. Ma è anche un luogo a partire da cui si può interrogare il mondo, e costruire i propri percorsi di senso. L’approccio del laboratorio si è rivelato efficace per i ragazzi che sono in fase di apprendimento dell’italiano come seconda lingua. La chiave è nel focus, che si sposta sulla necessità di avere qualcosa da dire, a partire da uno spazio in cui la scrittura è al tempo stesso luogo da esplorare e mezzo di esplorazione dei propri contenuti. In questo modo la ricerca degli strumenti, lessicali e grammaticali, diventa la conseguenza di un’urgenza espressiva e comunicativa. C’è qualcosa che voglio dire, dunque cerco le parole per farlo. La forma linguistica non è percepita come vuota, ma è latrice dei significati di cui i ragazzi che partecipano al laboratorio sono portatori. Senza filtro La leva è dunque sulla motivazione intrinseca rispetto all’apprendimento dovuta alla creazione di uno spazio per l’espressione dei propri saperi pregressi, oltre che alla valorizzazione dell’unicità di ogni vissuto. Stephen Krashen ipotizza che il processo di acquisizione linguistica sia inibito da fattori emotivi quali l’ansia, o l’essere messi a confronto con attività per le quali non ci si sente adeguati. In situazioni di disagio, viene attivato quello che lo studioso chiama filtro emotivo, che corrisponde a stimoli chimici ben precisi, ed è in grado di ostacolare il processo di apprendimento. Spostare il focus dall’apprendimento linguistico all’espressione e alla scoperta, attraverso la scrittura, dei propri contenuti, attiva quella che Krashen ha definito rule of forgetting, per cui la condizione ottimale per l’acquisizione di una lingua è dimenticare che la si sta imparando. Il gioco è una cosa seria Per neutralizzare l’inibizione di alcuni contenuti, dovuta al filtro emotivo o ad altre cause, il laboratorio si rifà ad un approccio ludico, che crea terreno fertile per i processi creativi e permette di mettersi, appunto, “in gioco”, senza paura del giudizio. La natura del gioco ci riporta addirittura alle origini del fare culturale: Johan Huizinga, nel suo Homo ludens, sosteneva che “la cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata […], la cultura nelle sue fasi originarie porta il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici […]”. Qualche decennio dopo, Donald Winnicott, l’autore di Gioco e realtà, affermava qualcosa di simile quando diceva che “l’esperienza culturale comincia con il vivere in modo creativo, ciò che in primo luogo si manifesta nel gioco”.

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I ragazzi che partecipano al laboratorio sperimentano ludicamente la possibilità di essere protagonisti dell’agire culturale, e noi insieme a loro riscopriamo che all’origine del fare cultura c’è il desiderio di dire qualcosa, e il piacere di farlo trovando le forme adeguate. Scrittura creativa e apprendimento dell’italiano L2 La nostra ricerca in questo senso è culminata in una serie di laboratori messi in atto in collaborazione con l’IBVA – Centro Italiano per Tutti nell’estate del 2011, a cui ha partecipato un gruppo di ragazzi estremamente eterogeneo per età e per competenze linguistiche. Occhi per guardare, mani per scrivere Il filo rosso delle attività proposte è stato il percorso dello sguardo. La scrittura è stata inizialmente utilizzata come mezzo per indagare se stessi, i propri gusti, le proprie peculiarità. Lo sguardo era dunque rivolto all’interno e tradotto in parola scritta. I ragazzi hanno fatto esperienza dello spazio della scrittura come luogo di scoperta, e hanno così stabilito il proprio punto di vista. Poi lo sguardo si è spostato all’esterno, partendo dai propri compagni e proseguendo con un’esplorazione dei dintorni. La scrittura è diventata un’occasione per appropriarsi del territorio e tessere attorno ad esso la propria trama di senso. La zona di esplorazione si è poi allargata fino a comprendere l’intera città di Milano. Utilizzando la tecnica degli urban sketchers, nel momento di osservazione, “taccuini alla mano” si prendevano appunti, che poi venivano rielaborati in un momento successivo dedicato specificamente alla scrittura. L’ultima tappa del percorso ha permesso di scoprire che la scrittura è in grado di rendere visibile l’invisibile, ciò che è nascosto allo sguardo. I ragazzi hanno dunque costruito con le proprie mani e descritto le loro città invisibili, come quelle di Italo Calvino. Il “setting” A proposito di rendere palese l’invisibile, il lavoro di scrittura creativa è possibile all’interno di un “setting” in cui si applichi una temporanea sospensione del giudizio. Per questo ai laboratori le attività proposte sono sempre presentate esclusivamente come ludiche, e gli insegnanti e gli educatori hanno un preciso ruolo al loro interno. In questo modo i ragazzi percepiscono chiaramente che tutte le persone presenti “fanno parte del gioco”. Anche il concetto di errore è colpito dalla stessa sospensione applicata al giudizio. La decontestualizzazione rispetto all’ ambiente scolastico di provenienza, il trovarsi in un luogo altro, dà la possibilità ai ragazzi di sperimentarsi in ruoli differenti da quelli usuali. La ricchezza delle differenze Il gruppo, come si diceva, era estremamente eterogeneo. Le attività proposte erano dunque fruibili a più livelli di competenza linguistica. Alcuni ragazzi hanno agito a livello puramente lessicale, altri hanno elaborato delle vere e proprie narrazioni. Importante è stata la presenza dei tutor, che seguivano gruppi molto piccoli nel processo di scrittura e aiutavano i ragazzi a declinare l’attività rispettando la loro zona di sviluppo prossimale. Fondamentale la relazione tra pari, che ha trasformato la disomogeneità delle competenze in un fiorire di scambi reciproci. All’interno di ogni incontro sono stati utilizzati altri linguaggi, tra cui la fotografia e il “bricolage”. In questo modo è stato possibile valorizzare diverse competenze, non solo quella specifica della scrittura. Chi aveva più difficoltà nell’espressione scritta ha avuto altre occasioni per mettere a disposizione dei compagni i propri saperi. Obiettivi del percorso: • Favorire la motivazione all’apprendimento della L2 a partire dall’urgenza espressiva. • Minimizzare gli effetti del filtro emotivo.

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• Valorizzare e fare emergere l’unicità dei contenuti specifici di ognuno attraverso la scrittura. • Creare uno spazio di condivisione di esperienze. • Far sperimentare la scrittura come mezzo di esplorazione e di scoperta di sé e del mondo. • Favorire un percorso di appropriazione della scrittura come strumento da utilizzare per sé, anche al di fuori del contesto scolastico. • Invogliare ad essere parte attiva del contesto culturale. L’auspicio è che chi ha partecipato ai laboratori abbia sperimentato la scrittura come strumento in grado di dare voce alle proprie conoscenze, alla propria storia e al proprio vissuto, e abbia scoperto che queste istanze si possono condividere anche in una lingua di cui ancora si stanno esplorando i confini.

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4. I DSA (disturbi specifici dell’apprendimento)

nella scuola secondaria multiculturale

Seminario di approfondimento e scambio di pratiche I DSA (DISTURBI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO)

NELLA SCUOLA SECONDARIA MULTICULTURALE.

17 aprile 2012, dalle 15.00 alle 17.3 Aula Magna Istituto “Bertarelli”

c.so Porta Romana 110 Milano

• Introduzione al tema Graziella Favaro , Centro COME • Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento: percorsi di valutazione in neuropsichiatria per minori stranieri Barbara Dal Lago, psicologa e psicoterapeuta Fondazione IRCCS Cà Granda, Ospedale Maggiore Policlinico • L’informazione e l’accompagnamento tra servizi e famiglie Maha Anwar – Karina Scorzelli, mediatrici linguistico culturali esperte in interventi nei servizi socio-sanitari e nell’UONPIA

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4.1. Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento: percorsi di valutazione

in neuropsichiatria per minori stranieri di Barbara Dal lago, Antonella Colzani, Chiara Bellantoni

. L’intervento presenta il percorso di riflessione sulla presa in carico da parte dei Servizi di NPIA dei disturbi del linguaggio e dell’apprendimento dei minori stranieri. Il lavoro ha cercato di definire nuove modalità di presa in carico (equipe multidisciplinare, intervento della mediazione linguistico culturale,ecc.) e percorsi di valutazione che tengano conto della complessità determinata dall’acquisizione della lingua italiana (L2) e della ricerca di strumenti testali “culture and language free” o maggiormente adatti all’utenza migrante. Tale percorso è stato svolto dal tavolo di lavoro del sottoprogetto 2, che rientra nel Progetto Migranti. Quest’ultimo, avviatosi nel 2008, è un progetto di ricerca, assistenza e studio, finanziato dall’Assessorato alla Salute della Regione Lombardia e ha come obiettivo principale la creazione di pratiche condivise, coordinate e integrate tra i servizi per una presa in carico adeguata dei bisogni dei minori migranti in materia di salute mentale in età infantile, adolescenziale e nel passaggio all’età adulta. Il Progetto coinvolge diversi enti e servizi del territorio della ASL città di Milano e si articola in tre sottoprogetti che vertono sull’analisi epidemiologica, sull’adolescenza e il passaggio all’età adulta e sui minori stranieri inseriti a scuola prevalentemente con difficoltà nell’area del linguaggio, dell’ apprendimento, del comportamento e/o della disabilità, da cui nasce il presente lavoro

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4.2. L’informazione e l’accompagnamento tra servizi e famiglie di Maha Anwar e Karina Scorzelli.

Slide tratte dall’intervento

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4.3. I dsa (disturbi specifici di apprendimento) nella scuola secondaria multiculturale di Paola Pedroni

Sono Paola Pedroni, vivo e lavoro a Modena dove insegno ormai da 29 anni. Ho trascorso i primi 18 nella scuola elementare, poi otto anni in un istituto professionale per l'industria e l'artigianato frequentato quasi esclusivamente da maschi e ora, per il terzo anno, sono in un liceo scientifico. Non sono un’ esperta di dislessia, ma solo un’ insegnante che, trovatasi in prima linea nell'avventura quotidiana di misurarsi con le difficoltà di apprendimento, ha deciso di raccogliere la sfida. Ho così cercato di individuare e trasferire nella vita quotidiana in classe alcune strategie e metodologie efficaci, a parer mio, per trasformare ogni aula scolastica, durante lo svolgimento di qualsiasi lezione, in un ambiente inclusivo, cooperativo e metacognitivo: anche se immagino di non svelarvi nulla di nuovo, mi soffermerò in seguito sugli aggettivi “inclusivo, cooperativo e metacognitivo”. La mia esperienza mi ha dimostrato che, poichè le strategie non sono un dono innato ma sono trasferibili e riproducibili, cioè si possono insegnare e imparare, se applicate con professionalità, creano i prerequisiti essenziali per far sì che la scuola diventi, prima ancora che un luogo di apprendimento, un ambiente di vita in cui ognuno si sente accolto, valorizzato e motivato a dare il meglio di sé . Per chi accetta di misurarsi con alunni in difficoltà non esiste palestra migliore dell'istituto professionale: in questa realtà scolastica un elevato numero di ragazzi, vuoi perché provenienti da realtà socioculturali svantaggiate, vuoi perché migranti, vuoi perché refusi scolastici approdati sulle coste di un professionale come ultima spiaggia dopo uno o più naufragi scolastici, vuoi perché con disturbi specifici dell'apprendimento portano in classe ogni giorno un disagio che non si può,( né sarebbe deontologicamente corretto) spiegare o accantonare con frasi fatte del tipo: non si impegna abbastanza, non ha un metodo di studio, gli mancano le basi, è negato per,… Ma torniamo a noi: CHE COS'È LA DISLESSIA ? Si tratta di una difficoltà dell'apprendimento che riguarda la capacità di leggere e scrivere in modo scorrevole, e consiste nella mancata automatizzazione del processo di decodifica del testo scritto. COME SI MANIFESTA? Mi sono resa conto, durante i 18 anni di insegnamento alla scuola primaria, che, nella maggior parte dei casi, se un bambino, verso la metà della classe seconda, non ha ancora acquisito l'abilità di leggere in modo strumentale, cioè non è ancora scattato in lui l'automatismo che consente a livello neurologico di effettuare, praticamente senza doverci pensare, l'analisi e la successiva sintesi dei fonemi e dei corrispondenti grafemi su cui si basa una scrittura alfabetica, potrebbe presentare qualche disturbo specifico che gli impedisce l'operazione richiesta. La dislessia propriamente detta si accompagna spesso, anche nei gradi di scuola superiori, a errori di ortografia (disortografia), a un tratto grafico con segni contorti e confusi (disgrafia), a difficoltà nell'ambito matematico (discalculia): queste ultime sono identificabili, di solito, con l’incapacità di memorizzare le tabelline e ricordare le formule relative al calcolo di aree, volumi,… A volte un alunno con DSA fatica anche a imparare e/o ricordare, nonchè a riutilizzare, rispettandone l’ordine cronologico, i nomi dei giorni della settimana o dei mesi dell’anno (disnomia); può inoltre manifestare difficoltà nel disegno tecnico, nella lettura delle note musicali sul pentagramma, in fisica e chimica per l’evidente correlazione di tali discipline con la matematica. Macroscopiche, solitamente, le problematiche nell’apprendimento della lingua inglese, in particolare, ovviamente, nell’impiego scritto della stessa, data la discrepanza fra la pronuncia e la corrispondente forma scritta dei vari termini. In teoria ognuna di queste difficoltà specifiche si può presentare disgiunta dalle altre, cioè, tanto per intenderci, potremmo trovarci in presenza di un alunno solo dislessico o solo disgrafico o solo discalculico,… Nella realtà però, sempre stando alla mia esperienza, la situazione è di solito abbastanza complessa, in quanto esistono, all’interno di ogni disturbo, diversi livelli e tipologie di difficoltà le quali oltretutto, non dimentichiamolo mai, non sono asettiche, come appaiono nelle classificazioni teoriche, ma vive, quindi in continua evoluzione e in relazione sistemica con tutti gli altri aspetti di una personalità, di un essere umano ricco di vissuti, emozioni, paure, desideri, speranze,... Da quanto esposto, seppure sommariamente, finora, emerge quanto sia difficoltoso, per un docente, cogliere in uno dei suoi ragazzi, i segnali di una possibile dislessia: questo anche perché essa manca di marcatori

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biologici e chi ne è portatore presenta quasi sempre un buon livello di socializzazione, buone doti intuitive e creative e potenzialità artistico-espressive. Un altro aspetto che rende più difficoltoso il riconoscimento del disturbo o almeno, agli occhi di noi insegnanti di scuola superiore, il sospetto della sua presenza, consiste nel fatto che, mentre nella scuola primaria il bambino dislessico mostra una differente prestazione , nella lettura per l’appunto, rispetto ai suoi coetanei, nei gradi successivi lo scarto iniziale tende a essere compensato da meccanismi di accumulo di esperienza e dall’attivazione spontanea di strategie compensative. A volte la dislessia viene confusa con le difficoltà di comprensione del testo; la differenza consiste nel fatto che, mentre un dislessico rischia di non comprendere il testo che sta leggendo, perché tutto il suo versante cognitivo è concentrato sull’obiettivo di decodificare la sintesi grafemica, il ragazzo che decodifica la lingua scritta senza problemi, ma mostra poi di non aver ben compreso ciò che ha letto, in genere presenta qualche carenza di ordine cognitivo. Il criterio basilare per formulare la diagnosi, che va ovviamente demandata a un centro specializzato, pubblico o privato che sia, in neuropsichiatria infantile, è quello della discrepanza tra l’abilità di lettura e intelligenza generale: attraverso batterie di test standardizzati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale, vengono presi in considerazione, come parametri di valutazione, sia le abilità (rapidità, accuratezza, comprensione), sia il valore del livello intellettivo, che deve risultare nella norma e, operativamente, l’indicatore statistico del quoziente intellettivo. Non mi stancherò mai di ripetere, a costo di apparire pedante e retorica, che anche per un ragazzo dislessico, come per ognuno di noi e in qualsiasi situazione, la componente psicologica gioca un ruolo essenziale: così, ad esempio, la somministrazione delle batterie di test per perfezionare o escludere la presenza della dislessia, può far registrare esiti assai differenti a seconda della relazione che si instaura con “il somministratore”, ma anche in base alla quantità e qualità delle informazioni pregresse che il ragazzo possiede sull’argomento, alle ansie e alle aspettative che (è umanamente inevitabile ) precedono e accompagnano in famiglia tale evento. Un discorso analogo vale per l’ambiente scolastico, anzi mi viene da azzardare l’ipotesi che, essendo la scuola il terreno d’elezione in cui si manifestano gli effetti dei DSA, è proprio qui che la componente emotiva gioca un ruolo fondamentale. COME INTERVENIRE? Un DSA pone il ragazzo, in ambito scolastico, in una oggettiva situazione di handicap, cioè di difficoltà, che però può essere compensata fin quasi al suo totale azzeramento qualora ad una diagnosi precisa e il più tempestiva possibile facciano seguito, in sinergia con il percorso riabilitativo messo in atto dal personale medico-sanitario specializzato, l’adozione in classe degli strumenti compensativi e delle strategie dispensative previste dalla normativa (Legge 170/2010). A parer mio, ma è solo la mia opinione basata sull’esperienza, tutto ciò è necessario, ma non sufficiente: occorre un clima d’aula positivo, motivante, inclusivo, in cui cioè ognuno si senta accolto, sostenuto e valorizzato per quello che è, come persona prima che come alunno, in modo che possa innescarsi la spirale positiva senso di adeguatezza (sono capace di…)- autostima- motivazione (componente essenziale per sostenere lo sforzo che lo studio comporta sempre e comunque, a maggior ragione per un alunno con DSA). Prendiamo le mosse, in ogni caso, dai suggerimenti operativi concreti di cui i docenti, a ragione, lamentano sempre la carenza. Essi sono stati raggruppati, per agevolarne la consultazione, in base ad elementi comuni.

• Motivazione (indicazioni per sostenerla, accrescerla, recuperarla): 1. incoraggiare e gratificare l’alunno con DSA, spiegandogli chiaramente che, se un insegnante scommette su di lui, lo fa a ragion veduta, cioè con la precisa consapevolezza che ce la può fare. Il docente può motivare il suo atteggiamento facendo riferimento, per esempio, ai dati emersi in sede di verifica dei prerequisiti, oppure attingendo giudizi e valutazioni dai documenti provenienti dal grado scolastico precedente. Una fonte preziosa di informazioni sulle reali conoscenze e abilità con cui l’alunno entra, fin dal primo giorno, nella nostra classe, può essere costituita anche dal materiale diagnostico e riabilitativo proveniente dagli operatori socio-sanitari che hanno interagito con lui, dalle notizie raccolte nel corso del colloquio con i genitori,ecc. 2. fargli toccare con mano i progressi compiuti, in modo che egli si senta, sul campo e non in astratto, capace di...; 3. variare le attività proposte nel corso di ogni lezione; 4. cercare di non incorrere nel rischio di incentrare tutta la lezione su una sola abilità, in modo che anche gli altri alunni in difficoltà e non solo quello con DSA possano sempre trovare un loro spazio; 5. riprendere, all'inizio di ogni lezione, e con tutta la classe i punti-chiave dell’incontro precedente,

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coinvolgendo in particolare, con brevi domande, l’alunno con DSA; 6. cercare di individuare il motivo (concetto troppo complesso, registro linguistico utilizzato dall'insegnante troppo elevato, eccessivo numero di termini del lessico specifico della disciplina, ecc.) della mancata comprensione;

• Conduzione delle lezioni:

1. programmare con attenzione ogni Unità di Apprendimento; 2. presentare sempre all’intera classe finalità, obiettivi, contenuti, ecc., modalità di verifica e criteri di valutazione della stessa. E’importante che ciò avvenga comunque in ogni classe e per ogni unità di apprendimento, in quanto tutti i ragazzi devono poter inquadrare, ancora prima di dare il via al segmento didattico in questione, ciò che saranno chiamati ad apprendere e poterlo collocare all’interno di ciò che già conoscono; tale fase consente loro di situare sempre in un preciso orizzonte di senso le attività scolastiche. Solo in questo modo, l’apprendimento è avvertito dallo studente come significativo, in quanto ogni alunno, e a maggior ragione quello con DSA, conosce, ancora prima di intraprendere il viaggio, la meta, le finalità, le modalità, ecc. del percorso stesso; 3. durante la spiegazione, ripetere molte volte lo stesso concetto, ma cercando di formularlo in maniera sempre differente, in modo da sostenere la motivazione e fornire contemporaneamente più ganci possibili ad ogni ragazzo e non solo a quello con DSA; 4. controllare, con frequenti domande flash, l'avvenuta comprensione nel corso di una spiegazione; in caso di feed-back negativi, 5. al termine di un'interrogazione sospendere il giudizio e la valutazione; 6. guidarlo, invece, prima al riconoscimento dei propri errori e quindi all'autocorrezione; 7. accettare che lo svolgimento dei compiti a casa possa essere incompleto. Questi due ultimi suggerimenti per l’impostazione e la realizzazione di un’interrogazione, sono contemporaneamente anche attività e atteggiamenti attraverso i quali il docente sostiene la motivazione dell’alunno; 8. accertarsi con discrezione che le comunicazioni scuola- famiglia, se affidate al diario, siano scritte in modo corretto; 9. cercare di evitare: a) lunghe lezioni frontali, costituite solo da spiegazioni orali; b) consegne alla lavagna o verifiche scritte in corsivo ; c) l’impiego di tabelle o appunti scritti in piccoli spazi; d) di chiedergli di ricopiare dalla lavagna o da un foglio; e) di invitarlo a scrivere alla lavagna, a meno che non sia lui a chiederlo; f) di chiedergli di leggere ad alta voce, a meno che non sia lui ad offrirsi; g) di utilizzare, nella redazione di appunti o verifiche per la classe, un carattere di stampa non inferiore a 14; h) di sottoporgli fogli bianchi da riempire; i) di sottoporgli quesiti complessi su concetti appena spiegati;

• Impiego di ausili:

1. privilegiare, durante le spiegazioni, il canale visivo o, per lo meno, affiancare il più possibile a quello uditivo l’impiego di grafici, tabelle riassuntive, diagrammi di flusso, mappe concettuali; 2. permettergli, se la consegna è individuale, di essere affiancato dal tutor; 3. concedere un tempo dilatato, rispetto a quello assegnato ai compagni, per l'esecuzione di una verifica; 4. ridurre e semplificare, se necessario, i contenuti delle prove di verifica, senza dover modificare l'oggetto (conoscenze, abilità o competenze) della verifica stessa; 5. utilizzare, anche per le attività di recupero e potenziamento, i CD di cui ormai ogni libro di testo è dotato; 6. nel caso in cui si dettino appunti, fornirli a lui in fotocopia o in file; 7. chiedere al Consiglio d’istituto di provvedere all’acquisto di una o più lavagne interattive, che offrono il grande vantaggio di potergli consegnare, subito dopo il termine della lezione, il file multimediale della stessa; 8. utilizzare il computer tutte le volte in cui è possibile farlo; 9. richiedere, qualora la scuola non abbia già provveduto in tal senso:

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a) software di sintesi vocale (es. CARLO II dell’Anastasis), non solo in italiano, ma anche nelle lingue straniere (trasformano in audio il testo digitale) che permettono all’alunno con DSA di leggere aggirando il suo disturbo; b) software (come Dragon Bar) che consentono, dopo un addestramento tramite microfono e cuffie che dura 15-20 minuti e che consente al processore di riconoscere la voce dell’utente, di scrivere in word semplicemente dettando il proprio testo c) libri digitali, che corrispondono al formato digitale, in PDF aperto, dei testi scolastici adottati e che sono distribuiti, in convenzione con le case editrici, dalla biblioteca digitale AID (www.dislessia.it) a cui vanno richiesi via Internet; d) audiolibri; e) testi di narrativa in CD, disponibili presso molte librerie e Biblioteche (ad es. la Biblioteca Estense e la Delfini di Modena). Il prestito è accessibile a tutti; f) dizionari digitali; g) software per mappe concettuali, quali ad es., KNOWLEDGE MANAGER o C-map tool (free), attraverso il quale si può accedere anche ad una raccolta di mappe semplificate di argomento vari (www.dislessia.it); h) software per il disegno tecnico;

• Preparazione, da parte del docente o dei ragazzi stessi, e impiego del materiale didattico

1. evitare, se possibile, di chiedere all’alunno con DSA, di realizzare mappe concettuali da solo; 2. proporre in alternativa, l'attività di stesura di mappe e schemi riassuntivi all’intera classe che lavora in gruppi cooperativi 3. tenere comunque sempre presente che ogni mappa, affinché sia veramente utilizzabile da un alunno con DSA, non dovrebbe contenere più di sei parole chiave; 4. aiutarlo, se necessario, a semplificare il contenuto di mappe complesse già presenti sui libri di testo; 5. se possibile, far svolgere all’intera classe le prove in laboratorio di informatica. In tal modo egli non si vivrà come il solo che necessita di un supporto digitale; 6. nel caso in cui l’insegnante fornisca fotocopie, è bene attenersi ai seguenti standard: a) interlinea di 1,5-2; b) carattere uguale o maggiore di 12; c) tipo di carattere Arial o Comic, scrivendo in stampato maiuscolo. E’ consigliabile, comunque, concordare sempre con l’alunno tipo e dimensioni del carattere, perché, non dimentichiamolo, non esistono due esseri umani uguali, neanche se entrambi sono dislessici; d) evitare grassetto, sottolineature e testo giustificato che di solito gli creano ulteriori problemi; e) per alcuni è importante che lo sfondo di un testo fornito in digitale non sia bianco; f) non utilizzare comunque testi composti da più di 150-200 parole; g) non eccedere con l’uso di termini nuovi, ripeterli e farli riutilizzare da tutti, ma in particolare da lui, per verificarne l’avvenuta interiorizzazione, cioè il passaggio dal cassetto mentale del lessico passivo (contiene le parole di cui egli conosce il significato , ma che non riutilizza spontaneamente quando parla o scrive) a quello del lessico attivo. Solo in tal modo accresco veramente la sua competenza comunicativa e lo rendo più ricco di parole; h) non infarcire il testo di termini tecnici nuovi (valgono gli stessi suggerimenti di cui sopra) e fornirgli in ogni caso un glossario del linguaggio specifico della disciplina i) formulare frasi brevi; l) non omettere mai il soggetto e il complemento oggetto; m) impiegare, se possibile, verbi attivi nei modi finiti; Nel caso in cui i genitori o l’alunno stesso non accettino assolutamente di uscire allo scoperto e di produrre la segnalazione che consentirebbe di attivare le misure dispensative e gli strumenti compensativi previsti dalla normativa, è comunque opportuno che gli insegnanti adottino tutte le strategie possibili per rendere il clima d'aula positivo, inclusivo e cooperativo; anche l'attivazione di una didattica metacognitiva e la frequenza dei laboratori informatici non può che arrecare vantaggi a tutti gli alunni, indipendentemente dalla presenza o dalla

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segnalazione di un ragazzo con disturbo di apprendimento. Per ciò che concerne l'impiego del computer in classe, la strada migliore per incentivarne l'utilizzo è che il docente, in prima persona, lavori lui stesso su un PC durante le lezioni, almeno saltuariamente. Ciò porterà spontaneamente i ragazzi, o almeno alcuni di essi, a chiedere di potere usufruire dello stesso strumento.

• La metacognizione: conoscersi per aiutarsi Il termine indica nello stesso tempo lo strumento e il fine, la consapevolezza che si ottiene, attraverso la pratica della riflessione guidata dal docente, del proprio funzionamento cognitivo, dei propri punti di forza e di debolezza, della proprie difficoltà, ma anche delle potenzialità e/o inclinazioni. La capacità metacognitiva, importante per tutti, è vitale per un alunno con DSA, in quanto gli fornisce gli strumenti per riuscire a discriminare, fra le proprie criticità , quelle determinate dal disturbo di apprendimento, quindi compensabili con un aiuto adeguato, da quelle dipendenti da altri aspetti della sua personalità. L' insegnante che opera in modo metacognitivo interviene a quattro livelli diversi: 1. conoscenze sul funzionamento cognitivo in generale; il docente fornisce all'alunno informazioni generali sui vari processi cognitivi, sui meccanismi che li rendono possibili, sui limiti che, più o meno, condizionano comunque le prestazioni mentali. L'alunno impara a riconoscere, per quanto riguarda la memoria ad esempio, i vari tipi di memoria stessa (visiva, uditiva, prassica, ecc.), le varie strategie di elaborazione e conservazione delle informazioni, le diverse modalità per facilitarne il successivo richiamo: ad esempio, raggruppare gli oggetti per caratteristiche comuni può agevolare nello studio; 2. autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo: è il livello dell'introspezione, dell'autoanalisi, del “cosa e come sto pensando e ricordando”. Le informazioni raccolte su di sé servono a individuare i propri punti di forza e le proprie criticità. E’ una fase molto difficile e delicata, in quanto l'alunno riveste contemporaneamente i panni dell'osservatore e dell'osservato. E’ probabile che egli incorra in errori dovuti ad esempio a processi di rimozione o ridimensionamento delle proprie difficoltà. A questo livello, visto che l'autoanalisi è molto difficile, riveste un'importanza fondamentale il feedback che proviene dall'insegnante: l'informazione di ritorno deve essere, contemporaneamente, una continua conferma dell’indiscutibile valore di fondo della persona e un'oggettiva informazione sulle reali caratteristiche delle prestazioni dell’alunno. Solo in questo modo si può ottenere un'autentica crescita dell'autoconsapevolezza; 3. uso generalizzato di strategie di autoregolazione cognitiva: servono a fare in modo che lo studente acquisisca sempre maggiore capacità di dirigere se stesso in maniera attiva e consapevole. Ad esempio l’alunno con DSA o un qualsiasi altro si prefigge un obiettivo e lo indica chiaramente, sia in termini di risultato finale cioè come prestazione, sia in termini di processo, cioè di funzionamento cognitivo ottimale per raggiungere secondo lui, quell'obiettivo. In questa fase lo studente è chiamato a verbalizzare gli eventuali suggerimenti o aiuti che indica a se stesso nel corso del processo. Se, ad esempio, ha già sperimentato o ritiene che gli possa essere utile ripetere mentalmente cinque volte la lista di parole che devono poi essere ricordate, lo scrive su un foglio; cerca inoltre di raccogliere dati nuovi sui processi cognitivi che attiva per conseguire il risultato e sul risultato medesimo. Confronta poi i dati raccolti con prestazioni standard e con altre sue prestazioni precedenti e, di conseguenza, cerca di autoregolarsi. La grande novità dell'approccio didattico metacognitivo consiste proprio nel portare allo scoperto tutte quelle operazioni di autoregolazione che ognuno di noi, consapevolmente o inconsapevolmente, è comunque chiamato a mettere in campo per apprendere e ricordare; 4. variabili psicologiche soggettive: l'immagine che ognuno di noi ha di se stesso, positiva o negativa, reale o distorta che sia, influisce comunque sul livello che ciascuno attribuisce al proprio potere di autoregolazione dei processi cognitivi che mette in atto. A questo livello l'intervento metacognitivo serve, per esempio, ad individuare il locus of control (Mastrobuoni, De Gennaro, Solano, 2002), cioè il luogo in cui l'alunno ritiene si trovino i fattori responsabili di quello che gli accade; ciò, in termini scolastici, significa risalire alle cause del suo successo o insuccesso come studente. Ognuno di noi percepisce il proprio locus of control in maniera del tutto personale e soggettiva: ovviamente se io lo proietto completamente al di fuori di me, sono fermamente convinto, come ovvia conseguenza, di non poter in alcun modo intervenire su di esso e quindi autoregolare i miei processi e modificare i miei risultati. L'approccio metacognitivo dovrebbe guidarmi all'acquisizione della consapevolezza che il locus of control, invece, risiede quasi completamente, se non esclusivamente, dentro di me, quindi posso apprendere le strategie per intervenire su di esso e diventare così regista e protagonista del mio percorso di apprendimento. Un'altra variabile, strettamente soggettiva, su cui può concentrarsi la didattica metacognitiva a questo livello è lo stile di attribuzione (Tuffanelli, 1999 ), cioè l'importanza e il valore che l'alunno attribuisce alla conoscenza e al possesso delle strategie cognitive: non ha alcun senso, ad esempio,

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insegnare una tecnica che aiuti a ricordare a un allievo che la consideri completamente inutile, perché è convinto, invece, che dovrebbe bastare un'attenta lettura a fare in modo che le informazioni restino bene in mente. Anche il livello di autostima e il senso di autoefficacia, cioè fino può a qual punto io penso di potercela fare ad autoregolarmi sono componenti psicologiche soggettive che influenzano sensibilmente, in un senso o nell'altro, il successo formativo: proprio per questo la didattica metacognitiva presta loro molta attenzione e sottolinea quanto influisca in tale direzione il feedback, sempre positivo, dell'insegnante. A titolo puramente esemplificativo, ecco alcune semplici domande che possono fungere da guida alla metacognizione al termine di una Unità di Apprendimento:

1. Quali obiettivi ritengo di aver conseguito? 2. Cosa mi ha facilitato? 3. Quali obiettivi ritengo di non aver conseguito? 4. Perché? Cosa mi ha ostacolato? 5. Cosa mi avrebbe potuto agevolare? 6. Il tempo concesso è stato adeguato alle mie esigenze? 7. Rendermi conto che non ho conseguito un obiettivo mi deprime o mi motiva ulteriormente nella ricerca

della mia strada, per arrivare al traguardo comune? Ecco un esempio concreto di come Angelo, un alunno dislessico che frequentava la classe IV A dell’Istituto professionale, ha raccontato, in modo semplice, ma chiaro, applicando le tecniche metacognitive, la sua storia. Premetto solo che Angelo non è stato mio alunno, ma avevamo fatto conoscenza in quanto gli avevo chiesto, come a molti altri ragazzi con DSA presenti nella scuola, di narrarmi, utilizzando la videoscrittura e se era d’accordo, alcune cose di sè e della sua vita scolastica. Il tutto con la massima libertà possibile. Mi chiamo Angelo, ho 17 frequento l’istituto professionale...... Le mie difficoltà a scuola sono che leggendo un testo di qualsiase genere non riesco a capire e a memorizzare quello che sto leggendo. Il mio modo di capire è quello di ascoltare quando mi spiegani un argomento, anche alle medie i prof usavano questo tipo di metodo. A volte le verifiche le facevo al computer, oppure mi facevano fare verifiche semplificate e cn quelle riuscivo a dare meglio.... Gli insegnanti per potermi aiutare dovrebbero singolarmente spiegarmi l’argomento, questo è l’unico modo cn la quale io riesco a capire a ad apprendere qualcosa ma fino a desso in questi quattro anni di superiori nn è successo e io ho fatto sempre molta fatica per arrivare fino a qua. Se dovessi attribuire un titolo all’autobiografia di Angelo, credo che opterei per “Imparare dai nostri alunni: il livello di consapevolezza”. Essere consapevoli significa, innanzitutto, conoscere se stessi, essere in grado di individuare i proprio punti deboli (“non riesco a capire e memorizzare quello che sto leggendo”) ma sapere anche di quanti e quali assi nella manica si dispone (“il mio modo di capire è quello di ascoltare”). E infatti Angelo, dopo essersi presentato, passa immediatamente a delineare il proprio stile di apprendimento, dichiarando a chiare lettere che il canale uditivo, rispetto a quello visivo basato sulla letto-scrittura, lo agevola nel lavoro scolastico; in fin dei conti gli insegnanti delle medie lo avevano capito e privilegiavano questo "tipo di metodo" (sono parole sue). Ma non è finita qua. Con incredibile lucidità e, oserei dire, competenza didattica, Angelo prosegue con i suggerimenti:

1. impiego del computer, almeno durante le verifiche 2. prove di verifica semplificate rispetto a quelle dei compagni 3. insegnamento personalizzato

Può darsi che io mi stia sbagliando, ma ho avuto la netta sensazione che Angelo non sapesse che le sue richieste andavano esattamente nella direzione prevista dalla normativa. Come dimostra il breve testo di Angelo, potenzialmente ognuno di noi è il miglior esperto di se stesso: spesso sarebbe sufficiente che noi insegnanti, deposta ogni velleità di onnipotenza, imparassimo ad ascoltare veramente i nostri alunni, a metterci per un momento nei loro panni, a cogliere il loro punto di vista. Quest'atteggiamento presuppone però che i ragazzi, nell’ambito di una prassi didattica, (possibilmente trasversale a tutte le discipline) metacognitiva, dispongano del tempo necessario per esprimersi: il prerequisito essenziale è che noi docenti non consideriamo tali spazi come tempo perso, cioè sottratto allo svolgimento di un programma, che incombe minaccioso sulle nostre teste dal primo all'ultimo giorno di

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scuola.

• Il cooperative learning: che cosa è e a che cosa serve Come certamente ognuno di voi già sa, quando, nel corso della nostra chiacchierata, ho utilizzato l’aggettivo “cooperativo” non mi riferivo genericamente a un clima collaborativo o al mutuo insegnamento, metodologia che ha comunque una sua indiscussa validità, ma al cooperative learning: si tratta di un insieme di tecniche di conduzione della classe che permettono agli studenti di lavorare in piccoli gruppi (di solito da 3 a 6 alunni ognuno) che hanno come obiettivo gli apprendimenti disciplinari. Ogni ragazzo viene poi valutato in base alle competenze acquisite. Gli elementi che caratterizzano un gruppo di lavoro cooperativo, rispetto alla semplice collaborazione del gruppo tradizionale, sono: l’interdipendenza positiva, l’interazione faccia a faccia, l’applicazione di competenze sociali (precedentemente acquisite), da agire nei piccoli gruppi eterogenei creati dall’insegnante, la revisione ed il controllo costanti dell’attività svolta e la valutazione individuale e di gruppo. Ammesso che esista una ripartizione ideale del tempo scuola, sulla base del tipo di attività svolte, pare che tale suddivisione, in percentuale, si aggiri intorno ai seguenti valori: 50% del tempo totale per Unità di Apprendimento di tipo cooperativo, 30% per attività di tipo individuale e 20% per percorsi e prove di tipo competitivo (Comoglio, 1996). Più in dettaglio possiamo dire che: 1. nei gruppi cooperativi si stabilisce un’ interdipendenza positiva tra i membri, in quanto ognuno si sente responsabile non solo del proprio apprendimento, ma anche di quello dei compagni: di conseguenza ci si aiuta e ci si incoraggia a vicenda affinchè tutti svolgano in modo efficace la consegna affidata. 2. i gruppi cooperativi sono di solito formati dall’insegnante stesso, secondo criteri di eterogeneità in relazione sia alle caratteristiche personali, sia alle abilità pregresse di ognuno dei componenti. Nei gruppi tradizionali invece spesso l’aggregazione è libera e risponde quindi più a criteri di simpatia- antipatia o amicizia e non agevola certo il perseguimento dell’obiettivo educativo, ambizioso, ma fondamentale, di imparare a collaborare con tutti. 3. la responsabilità della leadership è condivisa da tutti i membri che assumono, di volta in volta, ruoli di gestione diversi. Si possono, a titolo esemplificativo, indicare alcuni ruoli, di solito distribuiti dal docente, finalizzati allo svolgimento della consegna assegnata: fornire informazioni ed opinioni, richiedere informazioni ed opinioni, riassumere sequenze di interventi, stimolare con nuove domande, controllare la comprensione. 4. si mira non solo a conseguire un obiettivo di apprendimento, ma anche a promuovere tra i ragazzi un clima di interrelazione positiva, che travalichi i tempi di esecuzione del compito. A tal fine si possono individuare alcuni ruoli, tipici della leadership, che però, è bene ricordare, in questa modalità di lavoro viene assunta a turno da tutti i componenti il gruppo. Tali ruoli possono essere: incoraggiare la partecipazione, facilitare la comunicazione, intervenire allentando le tensioni, monitorare il processo (cioè l’assolvimento , da parte di ciascuno, del ruolo assegnato), risolvere i problemi interpersonali, mostrare accettazione e saper gratificare chi apporta un contributo positivo. 5. sono fondamentali le competenze relazionali richieste per cooperare in maniera efficace (fiducia reciproca, abilità comunicativa, capacità di gestire i conflitti, di risolvere i problemi, di prendere decisioni, ecc.). Tali competenze sociali, la cui padronanza riveste un’importanza che va ben al di là dei confini della vita scolastica, sono i prerequisiti essenziali per poter promuovere, all’interno di una classe, attività in cooperative con buone speranze di successo: ciò significa che il docente, dopo aver accertato il livello di competenza iniziale dei suoi alunni in tale settore, deve procedere, se necessario, a insegnare o potenziare le competenze sociali. A tal fine esistono esercizi mirati e specifici (Gentile, 2003). 6. Il monitoraggio in itinere del processo, cioè dello stadio di avanzamento del compito in relazione ai tempi assegnati, e della qualità delle relazioni all’ interno del gruppo consente, grazie al feedback, di apportare, in corso d’opera, gli opportuni “aggiustamenti” e di recuperare quindi anche situazioni critiche. 7. nei gruppi cooperativi, oltre ad una valutazione di gruppo, è prevista anche una valutazione individuale per ciascun componente: ciò ovviamente accresce il senso di responsabilità di ognuno nei confronti dell’apprendimento di tutti. Come pianificare un’attività in cooperative La pianificazione di una lezione in cooperative prevede 4 fasi:

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1. identificare la lezione da svolgere 2. stabilire obiettivi e compiti cioè si tratta di specificare: a) gli obiettivi didattici e di cooperazione da perseguire b) il tipo di interdipendenza positiva da applicare per raggiungere gli obiettivi c) la responsabilità individuale in quello che dovrà essere appreso: va chiaramente esplicitata e sarà espressa da , per es.,: firma di tutti in calce all’elaborato del gruppo. Emergerà poi in sede di valutazione, attraverso ad es., una prova strutturata e/o interrogazione individuale. d) i criteri di valutazione. Occorre esplicitare chiaramente i criteri di successo, quali il tempo massimo a disposizione e la lunghezza e caratteristiche (sintetico, chiaro, esaustivo,ecc.) dell’elaborato finale. Per la valutazione individuale di solito si calcola la media ponderata fra risultato individuale (75%) e media di gruppo (25%). Definire in termini di voto un eventuale premio nel caso in cui ci sia stato un miglioramento rispetto alla valutazione dell’attività precedente. Se si ritiene opportuno, valutare l’applicazione delle competenze sociali , definire modalità e criteri della valutazione. e) i comportamenti che l’insegnante si aspetta di constatare, distinguendo competenze comunicative, competenze di leadership distribuita, competenze di negoziazione in caso di conflitto, competenze di problem solving. I comportamenti attesi, almeno per quanto attiene alle competenze comunicative (es. permettere a tutti di esprimersi e parlare, chiedere o dare risposte di aiuto, ecc.) non dovrebbero essere più di due ogni volta per agevolare il lavoro dell’osservatore e, soprattutto, per consentire ai ragazzi di agire le abilità sociali richieste, senza però perdere di vista gli obiettivi didattici. Se è stato necessario insegnare alcune abilità sociali, si richiederà ovviamente di agire innanzi tutto quelle. 3. prendere decisioni organizzative, cioè stabilire: a) il numero dei componenti di ogni gruppo b) la formazione del gruppo (casuale, eterogeneo per capacità, ecc.) c) la strutturazione dell’aula d) le modalità di insegnamento delle abilità sociali (qualora non siano già possedute) 4. definire le modalità del processo di revisione dell’attività in cooperative (processing) , cioè: a) stabilire quali aspetti del lavoro si vogliono prendere in esame b) con quali strumenti verrà effettuata la revisione (scheda strutturata, domande- guida, liberamente, ecc.) c) quando e come svolgere la fase di revisione (in gruppo senza /con l’insegnante, con tutta la classe, ecc.) d) quali domande porsi (si vedano domande esemplificative) Anche l’insegnante deve poi sottoporre a revisione il suo ruolo e , in mancanza di un terzo occhio, dovrà porsi e/o porre agli alunni le domande: a) Il compito è stato troppo difficile, troppo facile o adeguato? b) Le istruzioni sono state chiare e precise? c) Gli obiettivi erano chiari? d) L’insegnamento preliminare (qualora sia stato necessario) delle competenze sociali è stato efficace? e) In quale competenza gli alunni sono più carenti? f) Come sono le valutazioni rispetto a quelle dell’attività precedente? g) Quali possono essere le cause degli insuccessi? Un’Unità di Apprendimento di storia in cooperative (livello II) Contenuto disciplinare: la rivoluzione americana Struttura di gruppo: gruppi eterogenei di tre alunni Materiali: 1. narrazione storica dei fatti (manuale in adozione) 2. scheda per la costruzione di una mappa concettuale 3. documenti storici forniti dall’insegnante Finalità: 1. accrescere l’autostima, sperimentando l’inclusione 2. accrescere le proprie competenze cooperative 3. sperimentare e sviluppare le proprie potenzialità metacognitive Obiettivi didattici : 1. acquisire conoscenze relativamente alla rivoluzione americana 2. coglierne i tratti che ne fanno una figlia dell’Illuminismo 3. saper utilizzare documenti storici per ricavarne informazioni Abilità cognitive coinvolte: 1. comprensione

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2. attenzione 3. memoria Interdipendenza positiva : 1. di scopo 2. di compito 3. di materiali 4. di valutazione Tempi : 12 ore , suddivise in sei giorni Cooperazione : l’insegnante assegna compiti, materiali e ruoli in vista di uno scopo comune Attività: 1. l’insegnante introduce l’argomento; struttura la classe in gruppi da tre; sul manuale, fa suddividere il capitolo in questione in paragrafi 2. Ad ogni alunno viene assegnato un numero corrispondente ad un paragrafo (1, 2, 3, poi 1 bis, 2 bis, 3 bis,ecc.) fino al termine del capitolo 3. Il n. 1 di ogni gruppo ha anche il compito di controllare l’abilità sociale di tenere basso il volume della voce, il n. 2 ha il compito di annotare dubbi o domande che restano insolute, il n. 3 è il capogruppo e ha il compito di dare la parola e controllare i tempi 4. Il ruolo di osservatore verrà ricoperto dall'insegnante stesso 5. Ogni alunno segna, accanto a ciascun paragrafo, il nome del compagno cui è stata affidato 6. A turno, ognuno legge la propria parte del capitolo, un altro ne parafrasa il contenuto, il terzo annota i termini /concetti–chiave per costruire la mappa concettuale 7. Ci si scambiano, in senso orario, i ruoli di cui al punto precedente 8. Al termine viene elaborata la mappa del capitolo o dei singoli paragrafi 9. Il gruppo procede al ripasso: tutti devono sapere tutto 10. L’insegnante ritira le mappe concettuali e le corregge 11.Il docente riconsegna le mappe corrette: ogni gruppo consolida l’argomento 12. Nel gruppo un alunno ha il compito di mantenere l’attenzione sul compito e dare la parola, uno legge la mappa, l’altro controlla il tempo e il volume della voce 13. L’insegnante consegna ad ogni gruppo un documento storico diverso 14. Assegna i ruoli all’interno del gruppo: uno legge, uno parafrasa, uno annota parole e concetti- chiave . Il ruolo di controllore del tempo, in questa fase, viene svolto dal docente stesso che, ad intervalli regolari (ogni 15 minuti), ricorda quanto tempo resta 15. I ruoli di cui sopra vengono scambiati fra gli alunni, in senso orario, al termine di ogni paragrafo 16. Al termine i tre alunni, insieme, elaborano una mappa del documento analizzato 17. L’insegnante ritira le mappe e le controlla: ognuna viene esaminata insieme al gruppo che l’ha elaborato 18. Ogni gruppo consolida le conoscenze relative al documento su cui ha lavorato, secondo le modalità già esposte. Tutti devono sapere tutto 19. Ogni gruppo espone a tutta la classe il contenuto del documento su cui ha lavorato. E’ il docente che decide quale alunno comincia e chi prosegue 20.L’insegnante verifica l’apprendimento della parte manualistica tramite interrogazioni a caso fra i gruppi Verifica semistrutturata tramite questionario finale Revisione del lavoro di gruppo (processing) Una strategia per risolvere i conflitti: la controversia Ecco un esempio di pianificazione di un’attività per insegnare una competenza sociale. In questo caso si tratta della capacità di risolvere un conflitto. 1. Obiettivi:educare alla flessibilità, alla creatività, alla soluzione costruttiva dei conflitti, all'ascolto e alla riflessione 2. Organizzazione: gruppi omogenei fra loro, ma eterogenei all'interno, composti da quattro persone ognuno 3. Scelta dell’argomento: preparazione materiali pro e contro una tesi (si può anche fornire

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solo la bibliografia) 4. Tempi: ore 2,30 (complessivamente) 5. Attività (otto fasi): a) Assegnazione del compito da svolgere a ciascuna coppia del gruppo: una coppia lavora pro e l'altra contro la tesi. Si cercano tutte le argomentazioni possibili, i fatti, le statistiche, le esperienze, i pareri illustri, tutto ciò che si riesce a reperire a sostegno della posizione (tesi o antitesi) che si deve difendere; b) Ogni coppia formula le proprie argomentazioni in maniera persuasiva e chiara; c) Ogni componente della coppia deve conoscere tutte le argomentazioni reperite e saper sostenere in toto, anche da solo, la posizione della coppia; d) Completata la preparazione (tempo massimo un’ora) , ogni coppia presenta le proprie argomentazioni, mentre l'altra ascolta, annota, chiede; e) Le coppie discutono: ogni coppia cercherà di smontare le argomentazioni dell'altra e di sostenere le proprie; f) Le coppie si scambiano le posizioni: chi prima era a favore diventa contro e viceversa, cioè si mette nei panni di chi ha appena cercato di confutare. Ogni coppia cerca di aggiungere elementi o chiarire meglio quelli già acquisiti. Perorazione della propria posizione, comunicando anche le rispettive nuove acquisizioni. g)Alla ricerca di una posizione condivisa: le coppie abbandonano le posizioni contrapposte e cercano una soluzione creativa al conflitto attraverso il consenso; h) Trovata la terza via, tutti devono firmare l'elaborato finale, a riprova della condivisione della nuova posizione e della conseguente assunzione di responsabilità; 6. Valutazione: presentazione della posizione condivisa a tutta la classe o esposizione individuale delle argomentazioni pro e contro 7. Revisione del lavoro di gruppo (processing): è il momento in cui il gruppo riflette su come ha lavorato, per migliorare la propria efficacia in vista di future attività. Ogni alunno risponde individualmente alle domande poste, mettendo una crocetta sul numero, da 1 a 5, che corrisponde alla sua percezione, secondo la seguente scala: 1- Mai 2- Poco 3- Abbastanza 4- Molto 5- Sempre. La tabulazione dei dati fornirà un quadro complessivo dell’andamento del gruppo. Ecco l’esemplificazione di alcune domande-guida per la revisione: a) Mi sono prestato ad aiutare chi era in difficoltà? 1 2 3 4 5 b) Se non capivo chiedevo aiuto? 1 2 3 4 5 c) Ho accettato l’aiuto offerto dagli altri? 1 2 3 4 5 d) Ho partecipato alle decisioni del gruppo? 1 2 3 4 5 e) Mi sono sentito accettato dagli altri componenti? 1 2 3 4 5 f) Quando parlava un mio compagno, gli ho 1 2 3 4 5 mostrato un atteggiamento di ascolto? g) Ho lasciato spazio a tutti per interventi e contributi? 1 2 3 4 5 h) Il lavoro è stato ben distribuito fra i componenti? 1 2 3 4 5 i) L’argomento trattato è stato interessante? 1 2 3 4 5 l) Il lavoro è stato organizzato in modo efficace? 1 2 3 4 5 m) Sono stati rispettati i tempi stabiliti? 1 2 3 4 5 n) Sono state rispettate le consegne assegnate? 1 2 3 4 5 o) Sono stati rispettati i ruoli assegnati? 1 2 3 4 5 Di solito nelle classi in cui una parte delle attività viene svolta in cooperative, si respira un clima relazionale migliore anche negli altri momenti della vita scolastica, la motivazione all’apprendimento è maggiore, anche perché i ragazzi si sentono protagonisti in prima persona di vari tratti del loro percorso educativo-didattico e l’atteggiamento reciproco è di accettazione, valorizzazione e sostegno. Ciò non può che andare a vantaggio di tutti, compresi gli insegnanti, ma, soprattutto, agevola l’alunno con DSA nell’affrontare quotidianamente le difficoltà insite nel suo disturbo. Consentitemi ora, per rimanere fedele a me stessa, di chiudere il cerchio riprendendo il discorso iniziale e arricchendolo con una citazione di un dislessico famoso, Daniel Pennac, che nel suo celeberrimo “Diario di scuola”, dà, per così dire, forma di parola (e in maniera magistrale) alla mia ferma convinzione che

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l'apprendimento autentico, significativo, capace di far crescere sia i docenti, sia gli alunni, innanzitutto come esseri umani, passi sempre attraverso la relazione che si instaura solo qualora l’insegnante entri in classe come persona invece che sfoderando un registro. " Se voglio sperare nella loro (dei miei alunni) piena presenza, devo aiutarli a calarsi nella mia lezione. Come riuscirci? E’ qualcosa che si impara soprattutto sul campo, col tempo. Una sola certezza, la presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia, dal mio essere presente all'intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale per i 55 minuti in cui durerà la mia lezione" (Pennac, 2008, p.103). Bibliografia essenziale AA.VV. (2005), I disturbi evolutivi di lettura e scrittura , Roma, Carocci Cisotto L. (1998), Scrittura e metacognizione , Trento, Erickson Comoglio M. (2000), Educare insegnando. Apprendere e operare con il cooperative learning , Roma, LAS Comoglio M.- Cardoso M. A. (1996), Insegnare e apprendere in gruppo , Roma, LAS Cornoldi C. (1991), I disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino Cornoldi C. (1995), Metacognizione e apprendimento, Bologna, Il Mulino Cornoldi C. (1999), Le difficoltà di apprendimento a scuola, Bologna, Il Mulino De Grandis C. (2007), La dislessia:interventi della scuola e della famiglia , in “Dislessia”, Trento, Erickson Gentile M. (2000), Effetti prosociali, cognitivi e motivazionali del Cooperative learning , Dissertazione dottorale, Roma, Università salesiana, Facoltà di Scienze dell’educazione Gentile M. (2003), Apprendimento cooperativo e educazione sociale nella scuola, per Associazione Gabbiano Jonathan, nell’ambito del progetto “Dire,…fare,…e comunicare”, Pistoia, LIDEA Gentile M. (2007), Apprendimento cooperativo: spunti per l’innovazione didattica, Milano, Elmedi Ianes D. (2005), Bisogni educativi speciali e inclusione. Valutare le reali necessità e attivare tutte le risorse, Trento, Erickson Mastrobuoni G.- De Gennaro L.- Solano L. (2002), Locus of control, uno studio empirico su 260 soggetti, in “Rassegna di Psicologia”, fascicolo 1 Medeghini R. (2005), Perché è così difficile imparare? Come la scuola può aiutare gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, Gussago (Bs), Vannini Editrice Pennac D. (2008), Diario di scuola, Milano, Feltrinelli Peroni M. (2006), La sintesi vocale come strumento compensativo per i soggetti con dislessia: quali effetti? in “Dislessia”,vol.3, n.3, Trento, Erickson Singleton C. (1998), Dislessia:diagnosi e supporto col computer, Atti del Convegno internazionale “Imparare, questo è il problema” (San Marino 1998), Trento, Erickson Stella G. (2004), Dislessia, Bologna, Il Mulino Tuffanelli L. (1999), Intelligenze, emozioni, apprendimento,Trento, Erickson

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5. I dati dei partecipanti ai seminari di formazione

1 dicembre Partecipanti: 32

Schede raccolte: n° 32

Milano Provincia Regione Fuori regione

Studenti 1 1

Insegnanti 6 13 2

Insegnati in pensione 2 3

Funzionari pubblico 1

Formatori 2 1

Operatori privato sociale 1 1

TOTALE 13 19 5

1 marzo 2012 Partecipanti:77

Schede raccolte: n° 23

Milano Provincia Regione Fuori regione

Studenti

Insegnanti 5 4 2

Insegnati in pensione

Insegnanti volontari 8

Funzionari pubblico

Formatori

Operatori privato sociale 3 1

TOTALE 5 15 3

26 marzo 2012 Partecipanti: 53

Schede raccolte: n° 31

Milano Provincia Regione Fuori regione

Studenti 1

Insegnanti 11 7

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Totale partecipanti dei quattro seminari: n° 202 persone tra studenti, insegnanti, insegnanti in pensione, insegnanti volontari, funzionari pubblici, formatori, operatori del privato sociale.

Totale schede di partecipazione raccolte: 108

Provenienze: Milano 51

Provincia 52

Regione 5

Studenti 4

Insegnanti 74

Insegnanti in pensione 8

Insegnanti volontari 19

Funzionari pubblici 1

Formatori 3

Operatori privato sociale 14

Insegnati in pensione 2

Insegnanti volontari 5 1

Funzionari pubblico

Formatori

Operatori privato sociale 4

TOTALE 23 8 17 aprile 2012 Partecipanti: 40

Schede raccolte: n° 20

Milano Provincia Regione Fuori regione

Studenti 1

Insegnanti 8 6

Insegnati in pensione 1

Insegnanti volontari

Funzionari pubblico

Formatori

Operatori privato sociale 1 3

TOTALE 10 10