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Stefano Beccastrini e Maria Paola Nannicini MATEMATICA E LETTERATURA Oltre le due culture STRUMENTI PER LA DIDATTICA DELLA MATEMATICA Collana diretta da Bruno D’Amore

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Stefano Beccastrini e Maria Paola Nannicini

MateMatica e letteraturaOltre le due culture

StruMeNti Per la DiDattica Della MateMaticaCollana diretta da Bruno D’Amore

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INDICE

11 Prefazione (Emilio Pasquini)

15 Da che parte sta la matematica? (Giorgio Bolondi)

19 introduzioneOltre le due culture

21 capitolo 1la letteratura matematica

1.1. Premessa1.2. Le «Lezioni americane» di Italo Calvino: un «Discorso

sulla matematica»?1.3. Letteratura e matematica: affinità e influenze reci-

proche 1.4. Tre grandi libri di letteratura matematica

37 capitolo 2 l’influenza dei grandi matematici sulla letteratura

2.1. Premessa2.2. Archimede e la poesia latina 2.3. La rivoluzione astronomica, Isaac Newton e la lettera-

tura del XVII e XVIII secolo2.4. Nikolaj I. Lobacevskij e la letteratura russa a cavallo

tra XIX e XX secolo

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53 capitolo 3 tre matematici premi Nobel per la letteratura

3.1. Premessa3.2. Bertrand Russell 3.3. Aleksandr Solgenitsin 3.4. John M. Coetzee

69 capitolo 4 la matematica della letteratura

4.1. Premessa4.2. La matematica della narrativa e Georges Perec4.3. I numeri della poesia4.4. Matematica e critica letteraria

89 capitolo 5Numeri in versi

5.1. Premessa5.2. Odi, e lodi poetiche, della matematica5.3. Numeri e numerologia nel «Canzoniere» del Petrarca5.4. Il Pi greco nella poesia contemporanea

113 capitolo 6leonardo Fibonacci e la poesia

6.1. Premessa6.2. L’origine del sonetto alla corte di Federico II6.3. La successione di Fibonacci e la poesia contemporanea6.4. Il Phi, la poesia, l’«Eneide» di Virgilio

129 capitolo 7Poeti appassionati di matematica e matematici poeti

7.1. Premessa 7.2. Gianni Rodari: l’arte di inventare storie (anche di

matematica)

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7.3. Hans M. Enzensberger, il mago dei numeri della poesia europea

7.4. Tre matematici poeti: Piet Hein, Eugène Guillevic, Jacques Roubaud

147 capitolo 8la matematica nella narrativa

8.1. Premessa8.2. Due romanzieri di lingua tedesca e la matematica: Her-

mann Broch e Hermann Hesse8.3. Quando matematici e letterati lavorano bene insieme:

Raymond Queneau e l’Oulipo8.4. Italo Calvino e la ricerca dell’esattezza

165 capitolo 9la matematica e il romanzo dell’Ottocento

9.1. Premessa9.2. Stendhal e la matematica9.3. La matematica di «Moby Dick» e quella di «Guerra e pace»9.4. Due matematici e due romanzi neri dell’Ottocento: «Il

manoscritto trovato a Saragozza» e «Dracula»

181 capitolo 10la matematica in alcuni particolari generi letterari

10.1. Premessa10.2. La matematica e il teatro del Novecento 10.3. Matematica e letteratura poliziesca10.4. Matematica e letteratura fantascientifica

213 capitolo 11tre camei

11.1. Premessa11.2. Dante Alighieri e la matematica della «Commedia»11.3. Robert Musil ovvero Del connubio tra esattezza e anima

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11.4. Jorge Luis Borges tra paradossi logici, labirinti in-finiti e pietre che non rispettano l’aritmetica

233 capitolo 12Pensare, e scrivere, il cosmo

12.1. Premessa12.2. Galileo, il più grande scrittore della lingua italiana

d’ogni secolo 12.3. Giacomo Leopardi ovvero Del pensiero poetante12.4. Il teorema delle cifre immaginarie e la matematica

spezzata: Emily Dickinson

251 capitolo 13tre pastori anglicani tra letteratura, matematica e viag-gi immaginari: Jonathan Swift, edwin a. abbott, lewis carroll

13.1. Premessa13.2. Jonathan Swift, Gulliver e l’isola di Laputa13.3. Edwin A. Abbott, Flatland e il mondo a più dimensioni 13.4. Charles L. Dodgson, alias Lewis Carroll, e la matema-

tica quale sorriso senza gatto

267 capitolo 14ritratti

14.1. Premessa 14.2. Tra filosofia, poesia e matematica: Paul Valéry e Si-

mone Weil14.3. Tre ingegneri tra matematica e letteratura14.4. «Un matematico scrittore»

289 conclusioniFertilità pedagogica e didattica del dialogo tra matema-tica e letteratura

295 Bibliografia

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Prefazione

Non è cosa da poco stendere una prefazione a questo libro, per la sua natura policentrica e insieme enciclopedica, già annunciata dalle due epigrafi che lo aprono, tratte da Raymond Que-neau e da Giovanni Vailati. Stanno a parte, quasi canoniche, l’introduzione Oltre le due culture (da cui discende il sottotitolo) — obbligatoriamente agganciata alla magnanima lezione di Charles P. Snow, sempre attuale nonostante i suoi oltre cinquant’anni di età — e le sintetiche conclusioni in chiave pedagogica, nel segno di una «fertilità pedagogica» del dialogo tra matematica e letteratura, che prospetta la prima come una chiave essenziale per comprendere tanta poesia e narrativa. Per il resto — il blocco delle oltre duecento pagine centrali — un lettore comune si trova davanti a una sorta di labirinto borgesiano, in 14 tappe corrispondenti ad altrettanti capitoli, con 4 semitappe ciascuna (una premessa e 3 paragrafi): dunque un totale di 56 soste.

La direzione non è univoca, meno che mai quella cronologica o quella spaziale: i cronotopi si susseguono in apparente disordine, disorientando il lettore ingenuo. Così, nei capitoli 1 (La letteratura matematica) e 2 (L’influenza dei grandi matematici sulla letteratura), da Italo Calvino delle Lezioni americane (uno dei six memos è appunto l’exactitude) si passa ad Archimede, per poi risalire a Newton e a Lobacevskij; fino a Queneau e all’Oulipo, cioè l’Ouvroir de littérature poten-tielle, movimento fondato nel 1960 dallo scienziato umanista François Le Lionnais e dallo stesso Queneau, celebre per i suoi funambolici Esercizi di stile, fra lipogrammi e isomorfismi, più ancora pluralità di combinazioni e di registri (su cui è da vedere il classico Quasi come. Letteratura come

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parodia e parodia come letteratura, di Guido Almansi e Guido Fink). E via dicendo, con apparente ma calcolato disordine, una specie dunque di «disarmonia prestabilita» (per riprendere la formula escogitata da Roscioni per Gadda).

Anche la serie degli argomenti presenta un ordine non scontato, se si prescinde da certe sim-metrie, peraltro non sempre coerenti. Ad esempio, i Tre camei (Dante, Musil e Borges) andrebbero posti contigui ai Ritratti (Paul Valéry capofila, secondo Hugo Friedrich, della linea di una poesia matematica, coi suoi Cahiers capaci di attingere agli insiemi transfiniti di Cantor; Simone Weil, persuasa nei suoi Quaderni della bellezza suprema della matematica; Carlo Emilio Gadda, campione di una concezione logico-combinatoria della realtà; Leonardo Sinisgalli e il suo Furor mathema-ticus; Roberto Vacca, terzo ingegnere-scrittore tra fantastoria e fantapolitica; infine il matematico bolognese Bruno D’Amore, scrittore elegante, capace di racconti stranianti e di mandare Dante a scuola di matematica) e invece appaiono separati da Pensare, e scrivere, il cosmo, che include i profili di Galileo, Leopardi ed Emily Dickinson, dove ho apprezzato le giuste sottolineature della «matematica spezzata» della poetessa americana e di pagine straordinarie tratte dal Saggiatore (riletto sotto il riverbero di Italo Calvino) e dallo Zibaldone, ripercorso con l’ausilio dello stesso Calvino e di Cesare Luporini.

In ordine sparso si susseguono, dunque, nel capitolo 3, i Tre matematici premi Nobel per la letteratura, con Bertrand Russell, Aleksandr Solgenitsin (che chiamava in causa il Dante del nobile castello per la saraska dell’Ivan Denisovic) e John Coetzee, il quale cercava nella matematica pura «quella poesia cosmica che poi avrebbe trovato nella letteratura»; il capitolo 6, su Leonardo Fibonacci e la poesia; il 7 su Poeti appassionati di matematica e matematici poeti (con al centro la Grammatica della fantasia, le Favole al telefono e le Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari, ma anche, nell’orbita di un matematico della statura di Kurt Gödel, il teorema di Münchhausen di Hans M. Enzensberger); il 13 (Tre pastori anglicani tra letteratura, matematica e viaggi immaginari, dove si apprezzano i coloriti medaglioni di Jonathan Swift con la sua Laputa; del fantamatematico Edwin A. Abbott, l’autore di una distopica Flatlandia in uno spazio a 6 dimensioni; del «matto matico» Lewis Carroll con la celeberrima Alice nel Paese delle Meraviglie, tutta giostrata su giochi di contaminazione fra forme poetiche e numerico-geometriche). Quasi fatale, dunque, che si creino interferenze fra i vari capitoli, e che la figura di un certo personaggio o la fisionomia di un movimento debbano ricostruirsi nella loro integrità mettendo insieme tasselli anche distinti (ciò si dica ad esempio per l’onnipresente Rodari e poi per Queneau, Perec, Calvino, Simone Weil e altri, specie all’insegna dell’Oulipo). Resta il fatto che la comprensione e la disponibilità di questo vastissimo materiale sono condizionate dalla «enciclopedia» (o, se si vuole, dalla erudizione) del singolo lettore: con vertice ideale in un esperto delle due discipline, risultati soddisfacenti per il letterato o per il matematico, qualche difficoltà in più per il comune uomo di cultura (escluderei senza ambagi il lettore inge-

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Prefazione

nuo). Dunque, l’estensore di queste paginette introduttive sembrerebbe trovarsi in una situazione privilegiata: non ignaro di matematica, algebra e trigonometria (quali si facevano egregiamente nei licei classici di sessant’anni fa), con conoscenze rinvigorite dal più recente sodalizio con Bruno D’Amore, egli è un filologo e commentatore di testi (dantista, petrarcologo ma anche leopardista), che ha perfino insegnato, agli inizi del suo percorso accademico, Storia della lingua italiana.

Eppure, ammetto di aver imparato tantissimo da questo libro, nelle brillanti intersezioni con il cinema e la letteratura contemporanea (italiana e ancor più straniera), per non dire dell’universo dei grandi matematici via via evocati, da Archimede a Fibonacci (il cui Liber abaci sembra sia giunto fra le mani di Dante), a Eulero e Georg Cantor. Per un letterato una strada più agevole potrebbe essere quella che da Coleridge porta fino agli Elementi di Euclide, anche se egli non se la sente di affron-tare la revisione critica del suo 5° postulato nella geometria non-euclidea di Lobacevskij. Ignoravo del tutto, lo confesso, gli echi dell’Arenario di Archimede in Catullo e nei poeti augustei; qualcosa invece sapevo, per fortuna, dell’influenza di Copernico, Galileo, Bruno e Newton (aggiungerei solo la geniale rilettura di Leopardi, col Copernico entro le Operette morali) su Shakespeare e su John Donne, o in genere sulla cultura barocca (ma anche sull’illuminista Swift dei Gulliver’s travels).

Ciò che inoltre depone a favore della validità e utilità del libro è il fatto che mi sarebbe difficile proporre delle integrazioni non episodiche di qualche rilievo o suggerire delle formule nuove rispetto a quelle sparse a piene mani nel volume dei due studiosi, dovute agli stessi o più sovente ad altri, tutti debitamente citati. Si va dalle «affinità elettive» fra matematica e letteratura alla «irragionevole efficacia» che può apparentarle, anche se il loro scopo è più quello di «portare nel mondo l’ordi-ne della forma» che di «accertare le verità del mondo» stesso, in quanto sono entrambe «il frutto dell’immaginazione»: una visuale che si contrappone all’idea (maturata fra Jakobson e Della Volpe) che il discorso scientifico sia univoco e quello letterario polisemico: qualcosa pur significa (ce lo ha ricordato Tullio De Mauro) che, dal punto di vista etimologico, il «contare» e il «raccontare» abbiano la stessa origine, dal latino computare. Non deve dunque stupire che in area russa (fra Lobacevskij, Dostoevskij e Chlebnikov) maturi un assioma come «per certi aspetti, la matematica attuale è più vicina a un’arte che a una scienza»; e che si sia ormai d’accordo sul fatto che «l’intelligenza lingui-stica e quella numerica facciano capo a facoltà mentali e aree neurologiche assai prossime». Il che è confermato (e ne posso io stesso dare sicura testimonianza, come docente universitario, anche a prescindere dalla diagnosi di Raffaele Simone in La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, 2000) dalla difficoltà che hanno i più giovani a organizzare logicamente il pensiero: alla perdita della profondità sintattica corrisponde esattamente la difficoltà nell’uso del linguaggio matematico.

Il lettore di queste pagine, che abbia sott’occhio il libro di Beccastrini e Nannicini, si sarà a questo punto accorto del fatto che io non ho ancora quasi fatto parola di ben tre capitoli: 6, 7 e 11; la ragione è ovviamente che in essi, dove figuro generosamente citato e discusso, io mi sento più

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MateMatica e letteratura

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profondamente coinvolto e dunque tentato di aggiungere chiose forse importune. Non dico questo tanto per i 2/3 del capitolo 11, dove pagine importanti sono addette a illustrare il connubio fra esattezza e anima in Robert Musil, esaltatore del primato della matematica, «l’unica facoltà dell’in-telletto umano che, nell’epoca della crisi dei valori e del crollo catastrofico delle tradizioni sapesse coltivare e praticare uno stile di pensiero capace di apertura al senso della possibilità e alla ricerca della verità»; e i paradossi logici e i labirintici infiniti di Jorge Luis Borges, persuaso dell’affinità fra musica, poesia e matematica («non si contrappongono, sono complementari come la serratura e la chiave»).

Certo, qualcosa ho detto e qualcosa mi verrebbe da aggiungere alle pagine sulla matematica nella Commedia dantesca, ad esempio sulle valenze del 3; o alla numerologia dantesca indagata da Barbara Reynolds; per non dire delle suggestioni che vengono dalle monografie di Bruno D’Amore, specie sul numero degli angeli, Teodolinda Barolini, che chiama in causa le spirali del DNA per la terzina dantesca e Horia-Roman Patapievici sull’ipersfera dell’Empireo. E a molte tentazioni mi accade di rinunciare, per non apparire invadente (ad esempio sulla sestina lirica di Arnaldo Daniello, Dante e Petrarca o sui Seven types of ambiguity di William Empson, o sulle modalità della critica di Giacomo Debenedetti e Gianfranco Contini), nel capitolo 4. A maggior ragione, nel capitolo 5 (Numeri in versi), mi sento totalmente a mio agio e davvero gratificato leggendo le pagine che illustrano l’ode ai numeri di Pablo Neruda, gli exploits numerici di Trilussa, di Jacques Prévert, di Miguel de Unamuno e Fernando Pessoa, ma soprattutto del Petrarca volgare di Canzoniere e Trionfi (qui tuttavia ribadisco la natura cervellotica della proposta di Wilhelm Pötters su Laura = π, suggerita dalla mise en page dei sonetti negli autografi petrarcheschi: proprio quel pi greco che ha avuto invece una straordinaria fortuna nella poesia sperimentale contemporanea). Non resta che augurare al libro dei due matematici-scrittori quella meritata fortuna che spetta alle opere che sanno associare la modernità a un sapiente recupero delle radici antiche.

Emilio Pasquini

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CApItOlO 3

tre matematici premi Nobel per la letteratura

3.1. Premessa

Il premio Nobel è nato a seguito del testamento di Alfred B. Nobel, chimico svedese, inventore della dinamite nonché ricchissimo industriale con qualche velleità letteraria. Lasciò il proprio im-menso patrimonio a una Fondazione che, ogni anno e su indicazione dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma, premiasse il fior fiore degli uomini di cultura del mondo. Escluse purtroppo la ma-tematica (pare, ma forse è una leggenda, perché era un matematico l’amante della moglie). I primi premi Nobel furono assegnati nel 1901. Per la letteratura, lo vinse il francese Sully Prudhomme, poeta oggi praticamente dimenticato. D’altra parte la motivazione, fissata da Nobel stesso, era quella di assegnare il premio a quell’autore che si fosse distinto per il «valore idealistico» delle sue opere e il «valore idealistico» non è detto che coincida con quello poetico. Non ci fu assegnazione del premio in sette anni caratterizzati da gravi problemi internazionali (1914, 1918, 1935, 1940, 1941, 1942, 1943). Esso è stato rifiutato due volte dagli autori premiati. Nel 1958, da Boris Pasternak, che lo aveva vinto grazie al romanzo Il dottor Zivago, censurato in URSS (Pasternak non si recò a Stoccolma in quanto temeva che, poi, non sarebbe potuto rimpatriare). Nel 1964, da Jean-Paul Sartre, per tutt’altri e meno convincenti motivi. In genere, il Nobel per la letteratura viene vinto da persone che, di mestiere, fanno i letterati ma, a guardare con attenzione i nomi dei 105 Nobel per la

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letteratura assegnati dal 1901 al 2012, ci si accorge che ciò non è sempre vero. L’hanno vinto anche storici come Theodor Mommsen, filosofi come Henri Bergson, statisti come Winston Churchill. Comunque, per tre volte l’hanno vinto anche dei matematici: l’inglese Bertrand Russell, nel 1950; il russo Aleksandr Solgenitsin, nel 1970; il sudafricano John M. Coetzee, nel 2003.

Tre matematici su 105 premi assegnati: una percentuale non enorme ma neppure insignificante, anche in considerazione del fatto che è probabilmente destinata ad aumentare. Noi lo speriamo, pensando ad esempio a un matematico poeta come Jacques Roubaud.

3.2. Bertrand russell

Bertrand Russell, nonostante all’epoca avesse già scritto due o tre libri significativi — tra i quali una Esposizione critica della filosofia di Leibniz, filosofo che considerava «uno dei più alti intelletti di tutti i tempi» (Russell, 1991, p. 562) — balzò all’attenzione della comunità scientifica e filosofica internazionale il 16 giugno 1902, con l’ormai celeberrima lettera inviata a Gottlob Frege, il grande logico e matematico

tedesco (in seguito, con un certo snobismo, Russell affermò che quella lettera, oltre a rendere famoso lui stesso, aveva reso famoso anche Frege: «Benché la natura delle sue scoperte sia veramente degna di fare epoca, Frege rimase del tutto ignorato finché io non attrassi l’attenzione su di lui»; Russell, 1991, p. 790). Russell informava Frege d’aver rilevato nei suoi Principi dell’aritmetica — con i quali egli dava inizio al tentativo di fondazione logicista dell’intero edificio del sapere matematico — un paradosso (ma più precisamente un’an-tinomia) da allora conosciuto appunto come Paradosso di Russell. La vicenda è nota ma può valer la pena di essere rapidamente riassunta. Russell stava lavorando a un libro, poi pubblicato nel 1903 con il titolo di I principi della matematica, che voleva contribuire a quel progetto di fondazione logicista della matematica che era stato impostato da Frege e dal matematico e logico

italiano Giuseppe Peano. Frege aveva pubblicato nel 1893 il primo volume dei suoi Grundgesetze der Arithmetik, forse il tentativo più grandioso che un matematico avesse fino ad allora compiuto nella

Fig. 3.3 John M. Coetzee.

Fig. 3.2 Aleksandr Solgenitsin.Fig. 3.1 Bertrand Russell.

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tre matematici Premi nobel Per la letteratura

direzione di liberare la propria disciplina dalle ambiguità cui la costringeva il largo utilizzo, in essa, del linguaggio comune, fondandola invece su un rigoroso formalismo logico. Russell lesse l’opera di Frege proprio mentre stava lavorando ai Principi della matematica e vi trovò una contraddizione. Prese carta e penna e scrisse allo stesso Frege:

Caro collega, da un anno e mezzo sono venuto a conoscenza dei suoi Grundgesetze der Arithme-tik, ma solo ora mi è stato possibile trovare il tempo per uno studio completo dell’opera. Mi trovo completamente d’accordo con lei su tutti i punti essenziali, in modo particolare col suo rifiuto di ogni elemento psicologico nella logica e col fatto di attribuire un grande valore all’ideografia per quel che riguarda i fondamenti della matematica e della logica formale [...]. C’è solo un punto in cui ho trovato una difficoltà. Lei afferma [...] che anche una funzione può comportarsi come l’ele-mento indeterminato. Questo è ciò che io credevo prima, ma ora tale opinione mi pare dubbia a causa della seguente contraddizione. Sia w il predicato «essere un predicato che non può predicarsi di se stesso»: w può essere predicato di se stesso? Da ciascuna risposta segue l’opposto. Quindi dobbiamo concludere che w non è un predicato. Analogamente non esiste alcuna classe (concepita come totalità) formata da quelle classi che, pensate ognuna come totalità, non appartengono a se stesse. Concludo da questo che in certe situazioni una collezione definibile non costituisce una totalità. (Frege, 1983, pp. 183-184)

Lo stesso Russell offrì nel 1918, in Introduzione alla filosofia della matematica, una formulazione dell’antinomia più comprensibile a quanti non siano abituati al linguaggio logico-matematico. Essa è nota come «paradosso del barbiere». Narra di un villaggio ove gli abitanti sono divisi, rispetto al criterio del radersi, in due soli insiemi: nel primo si collocano tutti coloro che si radono da soli e nell’altro tutti quelli che vengono rasati dal barbiere. In quale dei due insiemi va collocato il barbiere? Egli non può trovare posto in nessuno dei due insiemi. L’effetto che la lettera di Russell ebbe su Frege fu devastante: egli ne ricavò la conclusione che l’intero edificio della riformulazione logicista della matematica, cui stava lavorando da decenni, risultava minato nei suoi stessi fondamenti. Russell aveva ritenuto invece, scrivendo la lettera, di porre un problema risolvibile con più riflessione e che non metteva affatto in discussione il progetto di fondazione logicista della matematica, da lui pienamente condiviso. Una decina d’anni dopo, infatti, pubblicò con Alfred North Whitehead i Principia mathematica. Essi miravano a fornire una ricostruzione dell’intero edificio della matematica finalmente tutto quanto formalizzato in senso logicista ed esente da antinomie. Un’impresa eroica, tuttavia annullata nelle sue eccessive pretese epistemologiche, nel 1931, dall’austriaco Kurt Gödel, il più geniale logico del Novecento. Egli dimostrò, con i suoi due «teoremi di incompletezza», che nessun sistema matematico coerente può essere utilizzato per dimostrare la propria coerenza. Rus-sell restò, per tutta la sua lunga esistenza, innanzitutto un matematico, tanto che scrisse nella sua Autobiografia: «Durante l’adolescenza, la vita mi era odiosa e pensavo continuamente al suicidio;

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ma questo mio proposito era tenuto a freno dal desiderio di approfondire la mia conoscenza della matematica» (Russell, 1971, p. 38). Scrisse però di tutto, coerentemente con quanto affermato di se stesso, ossia che «tre passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete di amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità» (Russell, 1971). Si occupò, pertanto, di politica (sostenendo le idee del pacifismo nonché di un socialismo libertario e nemico d’ogni totalitarismo), di morale e di sessualità (combattendo le idee conformiste in materia di amore, di rapporti tra i due sessi, di matrimonio), di religione (profes-sando il proprio rifiuto d’ogni dogma e d’ogni chiesa). Fu anche, seppure in pochi libri quali Satan in the suburbs and other stories del 1953, un autore letterario in senso stretto. Il premio Nobel per la letteratura fu complessivamente motivato con il fatto che l’intera sua opera aveva costituito «un servizio alla civilizzazione morale della società e del mondo», ma lo ricevette soprattutto grazie alla pubblicazione, e all’enorme successo internazionale, della Storia della filosofia occidentale e dei suoi rapporti con le vicende politiche e sociali dall’antichità a oggi.

L’opera vide la luce nel 1945 e nacque grazie alla lungimiranza di un benefattore americano, il dottor Albert C. Barnes. Era un chimico, si era arricchito creando un farmaco di successo, amò investire i propri lauti profitti collezionando quadri e promuovendo attività educative realizzate, in Pennsylvania, tramite la Barnes Foundation. Fu appunto dalle conferenze sulla storia della filosofia tenute da Russell presso tale fondazione che prese origine il libro. Esso risulta effettivamente ben scritto, tanto da appassionare il lettore quasi stesse leggendo un romanzo le cui protagoniste siano appunto la filosofia occidentale e le sue avventurose peripezie tra rivoluzioni scientifiche, sociali, politiche. Si tratta di un’opera assai originale e personale, sia stilisticamente che ideologicamente. In genere, nelle storie della filosofia, le preferenze e le idiosincrasie, le simpatie e i preconcetti dell’autore traspaiono dalle pagine e tra le righe, però sono raramente esplicitati ed espressi in prima persona con ardore e passione. Russell, invece, fa proprio questo e lo dichiara fin dalla Introduzione. Dopo aver affermato che, tra i tanti filosofi di cui parla nel suo libro, soltanto di uno — il grande Leibniz — egli è personalmente specialista («Forse con la sola eccezione di Leibniz, ciascun filosofo di cui io tratto e più noto ad altri che a me», Russell, 1991, p. 11), Russell continua:

Vi sono molte storie della filosofia, ma nessuna ha lo stesso scopo che io mi sono posto. I filosofi sono insieme effetti e cause: effetti delle condizioni sociali, politiche e istituzionali del loro tempo; cause (se sono fortunati) delle dottrine che modellano la politica e le istituzioni delle età successive [...]. Il problema della scelta, in un libro come questo, è difficilissimo. Se privo di dettagli, un libro diviene scipito e noioso; con troppi dettagli corre il rischio di diventare intollerabilmente prolisso. Ho cercato un compromesso, trattando soltanto quei filosofi che mi sembra abbiano avuto un’importanza considerevole, e menzionando in relazione ad essi dei particolari che, anche se non di fondamentale importanza, hanno valore di esempio e di chiarificazione. La filosofia, fin dai tempi più antichi, non

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tre matematici Premi nobel Per la letteratura

è stata soltanto un affare di scuola o di discussione tra un’élite di uomini istruiti. Ha fatto parte in-tegrante della vita della comunità, e come tale ho cercato di considerarla. Se vi è qualche merito nel presente volume, deriva da qui. (Russell, 1991, p. 13)

Sono apertamente dichiarate, nel libro, le simpatie e le antipatie filosofiche di Russell. Ad esem-pio, non stima né ammira Socrate,

disonesto e sofistico nei ragionamenti [e] c’è qualcosa di untuoso e di ricercato in lui che ricorda un tipo di cattivo prete. Il suo coraggio in faccia alla morte sarebbe stato più ammirevole se non avesse creduto di andare a godere l’eterna felicità in compagnia degli dei. A differenza di alcuni dei suoi pre-decessori, il suo pensiero, lungi dall’essere scientifico, era teso a dimostrare che l’universo coincideva con i suoi modelli etici. Questo è un tradimento della verità ed il peggiore dei peccati filosofici. Come uomo, possiamo immaginarlo ammesso nella comunione dei santi, ma come filosofo ha bisogno di una lunga permanenza in un purgatorio scientifico. (Russell, 1991, p. 154)

Di Platone apprezza l’interesse verso la matematica ma critica duramente l’idealismo. Di Aristotele apprezza i meriti nei confronti dei predecessori ma detesta i demeriti verso i successori. Dedica un bel capitolo — raro, soprattutto all’epoca, nelle storie della filosofia — alla matematica greca nei suoi rapporti, appunto, con la filosofia. Si mostra cauto estimatore delle filosofie ellenistiche (cinismo, scetticismo, epicureismo, stoicismo). È invece molto critico nei confronti del neoplatonico Plotino, addirittura sarcastico verso Sant’Agostino e spodesta drasticamente dall’alto seggio filosofico in cui solitamente è collocato Tommaso d’Aquino e, più in generale, l’intero pensiero medievale, anche quello — ad esempio, di Roger Bacon — amato da altri scienziati. Si entusiasma, com’era facile immaginare, per John Locke, per Galileo Galilei, per Isaac Newton e per Gottfried W. Leibniz e offre una convincente e appassionante sintesi del pensiero kantiano. Non stima per nulla né il pensiero né la figura di Jean Jacques Rousseau e irride all’intero Idealismo tedesco.

L’ultimo filosofo con cui fa i conti — prima del capitolo conclusivo, tutto quanto dedicato alla filosofia dell’analisi logica, nella quale pienamente si riconosce — è l’americano John Dewey. Considerando che, al tempo delle conferenze per la Barnes Foundation, Dewey era vivo e vegeto, il confronto tra i due diventa quasi un dialogo diretto, non privo di qualche strascico polemico. Erano due tra i maggiori pensatori del XX secolo, si stimavano, li univa una comune passione per la scienza, la laicità, la democrazia, l’impegno sociale e politico a fianco delle classi subalterne e contro i poteri autocratici, ovunque fossero annidati. Eppure qualcosa li divideva: possedevano una concezione diversa di cosa fossero la ricerca scientifica e la conoscenza. Il logicista Bertrand Russell credeva nella possibilità umana di raggiungere forme di verità oggettiva e in tal senso privi-legiava la logica formale, mentre il pragmatista John Dewey riteneva che la ricerca scientifica fosse un processo incessante e continuamente fallibile di indagine il cui fine non era l’acquisizione di

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la matematica e il romanzo dell’Ottocento

9.1. Premessa

Fu proprio nel XIX secolo — il secolo della rivoluzione industriale, dell’affermarsi sociale della scienza, del mito del progresso ma anche del trionfo del romanzo quale nuova forma epica della società moderna — che la matematica e i personaggi matematici cominciarono a diventare, di frequente, protagonisti della letteratura d’Europa e d’America. Di ciò dirà questo capitolo, prendendo in esame: a) l’amore giovanile per la matematica di un romanziere di grande fascino quale Stendhal; b) la presenza della matematica in due dei più grandi romanzi del secolo ovvero Moby Dick di Herman Melville e Guerra e pace di Lev Tolstoj; c) la presenza di un personaggio matematico, forse il primo della narrativa moderna, nel Manoscritto trovato a Saragozza del nobile polacco, nonché scrittore d’indubbio valore, Jan Potocki nonché il comparire sulla scena letteraria di uno dei primi matematici che si fecero scrittori di grido, Bram Stoker, l’autore di Dracula, storia del più celebre vampiro della letteratura.

9.2. Stendhal e la matematica

Marie-Henri Beyle nacque a Grenoble nel 1783. Lo pseudonimo che assunse, facendosi roman-ziere, fu scelto in riferimento alla città tedesca di Stendal, ove nacque l’ammirato Winckelman.

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Oggi il suo nom de plume è a tutti noto grazie a opere narrative quali, ad esempio, Il rosso e il nero e La certosa di Parma. Fu uomo curioso della società come delle donne e dell’amore, della musica (adorava Mozart, Rossini e Cimarosa) come delle arti figurative (scrisse una Storia della pittura in Italia e ammirava Raffaello), amante dei viaggi (scrisse un Roma, Napoli e Firenze nonché le Memorie di un turista) e delle avventure così politiche come sentimentali. Seguace di Napoleone, definito l’unico uomo che avesse mai rispettato, lasciò ai posteri un’eredità letteraria di assoluta modernità, nel proprio saper coniugare romantica ispirazione a rigore di scrittura e a una passione cronachistica che prelude al miglior giornalismo del nostro tempo. Insomma, uno scrittore «adorabile», come scrisse Leonardo Sciascia, suo fervente cultore (Sciascia, 2002). Tra i tanti suoi libri c’è anche una sorta di romanzo autobiografico il cui protagonista, Henry Brulard, altri non è che lo stesso Henri Beyle (Brulard era il cognome di uno dei suoi zii). Lo scrisse tra il 1835 e il 1836, quando aveva già assunto il celebre pseudonimo. L’inizio della Vita di Henri Brulard è indimenticabile:

Questa mattina, 16 ottobre 1832, mi trovavo a San Pietro in Montorio, sul Gianicolo, a Roma. C’era un sole splendido [...]. Che vista magnifica! È proprio qui che la Trasfigurazione di Raffaello è stata ammirata per due secoli e mezzo. Che differenza dalla triste galleria di marmo grigio dove oggi è sepolta, in fondo al Vaticano! Così, per duecentocinquant’anni, quel capolavoro è rimasto qui. Duecentocinquant’anni! Ah! Fra tre mesi avrò cinquant’anni: possibile? 1783, 93, 1803, conto sulle dita [...] e 1833: cinquanta. Possibile? Cinquanta! [...] La scoperta inaspettata non m’irritò affatto [...]. Dopo tutto, mi sono detto, non ho impiegato male la mia vita. (Stendhal, 2003, p. 9)

Egli comincia così a ripercorrere, nella memoria e nella scrittura, quella vita. Ne fa parte la giovanile frequentazione della scuola di Grenoble ove si innamorò della matematica e sperò a lungo di poter eccellere talmente in tale disciplina da essere accolto all’École Polytechnique di Parigi. Avrebbe così realizzato quelli che erano i due sogni della propria adolescenza: recarsi nella capitale e, appunto, diventare un matematico. In una pagina della sua «autobiografia mascherata da romanzo» egli scrive:

All’epoca della morte di mia madre, verso il 1790, la mia famiglia era [...] composta da M. Gagnon padre, sessant’anni; M. Romani Gagnon, suo figlio, venticinque anni; Séraphie, sua figlia, ventiquat-tro anni; Elisabeth, sua sorella, sessantaquattro anni; Chérubine Beyle, suo genero, quarantatré anni; Henri, figlio di Chérubine, sette anni; Pauline, sua figlia, quattro anni; Zenaide, sua figlia, due anni. Sono questi i personaggi del triste dramma della mia giovinezza, che mi riporta alla mente quasi solo sofferenza e profonda insoddisfazione morale. (Stendhal, 2003, p. 82)

Joseph-Chérubine Beyle era dunque il padre di Henri, futuro Stendhal; un avvocato del Parla-mento, cavaliere della Legion d’Onore, vicesindaco di Grenoble. Dice di lui, ormai defunto, il figlio cinquantaquattrenne: «Era un uomo decisamente poco amabile e non mi amava come persona ma come figlio che doveva perpetuare la stirpe [...]. La smania di allontanarmi da Grenoble, cioè da

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la matematica e il romanzo Dell’ottocento

lui, e la mia passione per la matematica [...] mi indussero a vivere in profonda solitudine dal 1797 al 1799» (Stendhal, 2003, p. 83). Fu proprio frequentando l’École Centrale di Grenoble che egli scoprì le rare virtù della matematica, innamorandosene. Vi era entrato nel 1796, ragazzo infelice e solitario, vessato da un padre di corta intelligenza e di scarsa sensibilità, dai precettori religiosi, da una zia ottusa e bigotta. Scrive Dominique Sels, matematica e scrittrice, nel suo saggio Stendhal et les mathématiques:

Nel 1796, Henri Beyle entra alla Scuola Centrale di Grenoble [...]. Ha tredici anni e la sua in-fanzia, assai solitaria, si è svolta fino ad allora rinchiusa tra le quattro mura d’una casa ov’erano suoi tutori miseri sacerdoti [...]. Henri Beyle odiava soprattutto il duro trattamento cui lo sottoponeva padre Raillane, la cui tirannia si esercitò su di lui dal 1792 al 1794. L’ingresso alla Scuola Centrale fu dunque, per il giovane Henri, sinonimo di libertà. (Sels, 2009)

Nella Vita di Henry Brulard egli scrive che fu in quegli anni che avvenne appunto «la mia caduta nella matematica» (Stendhal, 2003, p. 370). Forse, all’inizio, egli imparò ad amare tale disciplina perché era visceralmente disprezzata dal suo ottuso genitore: «Mio padre detestava la matematica per motivi religiosi, credo: la perdonava solo quando serviva a rilevare la pianta delle tenute» (p. 371). Lo studente Henri Beyle scopriva invece, cominciando a studiarla seriamente, che la matematica era qualcosa di molto più bello, non solo uno strumento utile a misurare l’ampiezza dei possedimenti del suo odiato genitore. Andava, insomma, comprendendo che «la matematica considera solo un aspetto particolare degli oggetti (la loro quantità) ma ha il fascino di dire, su questo aspetto, solo cose certe, solo la verità e quasi tutta la verità» (p. 374).

Non mancava peraltro, anche nello studiare matematica, più di un problema. Soprattutto, quello della mediocrità dei suoi insegnanti: «Quanto più amavo la matematica, tanto più disprezzavo i miei insegnanti, M. Dupuy e M. Chabert» (p. 370). Sebastian Henri Dupuy de Bordes, cultore di geometria, prima di andare a insegnare all’École di Grenoble era stato docente della Scuola Reale di Artiglieria di Valence e vi aveva avuto quale allievo nientemeno che il giovane ufficiale Napoleone Bonaparte. Stendhal lo giudicava un ignorante, assai più di quanto non considerasse tale il suo collega Andrè Laurent Chabert, da cui andava privatamente a lezione, apprezzandolo almeno per il fatto che la domenica studiava Eulero. Si recò, per un certo periodo, presso di lui, ma «aveva sempre [...] l’aria di un farmacista che conosce delle buone ricette, ma niente lasciava capire come queste ricette nascessero le une dalle altre, nessuna logica, nessuna filosofia in quella testa». Insomma, «M. Dupuy e M. Chabert sono ipocriti come i preti che vengono a dire la messa da mio nonno, e la cara matematica non è altro che un imbroglio? Non sapevo come raggiungere la verità. Ah! Come avrei ascoltato avidamente, allora, una parola sulla logica e sull’arte di trovare la verità!» (p. 375). Il giovane Henri aveva un’idea grandiosa, seppur confusa, di ciò che la matematica

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avrebbe potuto essere ma che non ritrovava nell’insegnamento di Dupuy e nemmeno in quello di Chabert: «A quattordici anni, nel 1797, immaginavo che la matematica pura, che non ho mai studiato, arrivasse a comprendere tutti o quasi tutti gli aspetti delle cose e che, approfondendone lo studio, sarei giunto a sapere delle cose certe, indubitabili, e che avrei potuto mettermi alla prova, senza limitazioni, su tutto» (p. 374). Diventò, così, un suo tormentoso cruccio il comprendere perché meno per meno fa più.

Come potevo rassegnarmi, quando mi accorsi che nessuno sapeva spiegarmi com’era che meno per meno fa più (– x – = +, è uno dei fondamenti della scienza chiamata algebra). Facevano anche di peggio: oltre a non spiegarmi questo problema (che certamente si può spiegare perché conduce alla verità), me lo presentavano con delle argomentazioni evidentemente poco chiare anche per coloro che me le esponevano. M. Chabert, assillato dalle mie domande, era a disagio, ripeteva la sua lezione, proprio quella su cui chiedevo dei chiarimenti, e sembrava che volesse dirmi: Ma questa è la consue-tudine, tutti accettano questa spiegazione. (pp. 372-373)

Anche il V postulato di Euclide finì con il procurare più d’una angustia al giovane Beyle:

Se (– x – = +) mi aveva dato tanti problemi, potete immaginare quale livore si impadronì del mio animo quando cominciai la Statique di Louis Monge, fratello del famoso Monge, e che sarebbe poi venuto a fare gli esami di ammissione all’École Polytechnique. All’inizio del trattato di geometria si trova scritto: Si definiscono parallele due rette che, prolungate all’infinito, non si incontrano mai. E, all’inizio della Statique, quell’insigne bestione di Louis Monge ha scritto all’incirca così: Due rette parallele possono essere considerate incrociantisi se le si prolunga all’infinito. Ebbi l’impressione di leggere un catechismo e, oltretutto, uno dei più scalcinati. Chiesi inutilmente spiegazioni a M. Chabert. «Figliolo — disse [con] aria paterna — figliolo, lo capirete più avanti» [...] Rischiai di lasciar perdere tutto. A quel punto un confessore, abile e buon gesuita, avrebbe potuto convertirmi commentando la massima: «Vedete bene che tutto è errore, o meglio, che non c’è niente di falso, niente di vero: tutto è convenzione». (pp. 377-378)

L’elemento curioso di tale questione è che, a parte le spiegazioni che non spiegavano nulla dei mediocri docenti del povero Henri, effettivamente, per quanto riguarda il fatto che le parallele si incontrino o meno all’infinito, si tratta davvero di una «convenzione». Ossia, come oggi sappiamo, di quale sia il tipo di universo geometrico in cui operiamo (ma al tempo in cui il giovane Henri Beyle frequentava l’École di Grenoble non lo si sapeva ancora; Sels, 2009). Assai deluso dai propri insegnanti, il futuro grande romanziere scelse alfine, quale proprio docente privato che sapesse seriamente prepararlo all’esame che gli avrebbe aperto le porte della École Polytechnique, un gio-vane ma valente matematico nonché fervente repubblicano ed ex giacobino. Scrive su ciò Stendhal/Henry Brulard:

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la matematica e il romanzo Dell’ottocento

Nella mia adorazione della matematica, da qualche tempo sentivo parlare di un giovane, noto giacobino, che di matematica ne sapeva molto di più di M. Dupuy e M. Chabert, ma che non ne faceva mestiere [...]. Non so come abbia potuto, timido com’ero, avvicinarmi a M. Gros [...]. Era un giovane dai capelli biondo scuro, molto attivo ma corpulento, avrà avuto venticinque o ventisei anni [...]. Ci disse: – Cittadini, da dove cominciamo? Bisognerebbe vedere a che punto siete. – Dunque, abbiamo fatto le equazioni di secondo grado. E, da persona sensata, si mise a spiegarci le equazioni, cioè, per esempio, la costruzione di un quadrato di a + b, che ci faceva elevare alla seconda potenza: a2 + 2ab + b2. L’ipotesi che il primo membro dell’equazione fosse un inizio di quadrato; il complemento di questo quadrato, ecc. ecc. ecc. Si schiudevano i cieli per noi, o almeno per me. Vedevo finalmente il perché delle cose; non c’era più una ricetta da farmacista caduta dal cielo per risolvere le equazioni. Provavo un piacere intenso, analogo a quello della lettura di un romanzo appassionante [...]. Senza essere assolutamente un ciarlatano, Gros aveva tuttavia i vantaggi di questa dote così utile ad un professore, come ad un generale in campo: mi aveva conquistato. (pp. 381-382)

Stendhal ha ragione: proprio questo dovrebbe saper fare, ancor oggi, un bravo insegnante (di matematica o d’altro): far appassionare i propri allievi alla disciplina studiata come ci si appassiona a un romanzo, magari di avventure (sull’attenzione rivolta da Stendhal ai metodi di d’insegnamento della matematica si veda L’éducation mathématique du jeune Stendhal di Alphonse Magnus, 1998). Il giovane Henri trascorse così l’ultimo biennio presso l’École Centrale di Grenoble: «Non mi ricordo quasi nulla degli ultimi due anni, 1798 e 1799. La passione per la matematica assorbiva a tal punto il mio tempo che [...] portavo i capelli troppo lunghi, tanto rimpiangevo la mezz’ora che bisognava perdere per farli tagliare» (p. 384). Gli esami conclusivi della scuola di Grenoble furono, per lo studente Henri Beyle, un grande successo, soprattutto in campo matematico:

Gli esami del corso di matematica di M. Dupuy arrivarono e per me fu un trionfo. Ottenni il primo premio, tra otto o nove ragazzi, quasi tutti più grandi e più benvoluti di me e che furono tutti ammessi, due mesi dopo, all’École Polytechnique [...]. M. Dupuy avrebbe dovuto farmi un secondo esame. Ero oberato di lavoro, sfinito. Ripassare l’aritmetica, la geometria, la trigonometria, l’algebra, le sezioni coniche, la statica [...] mi avrebbe fatto odiare l’amata matematica. Per fortuna, la pigrizia di M. Dupuy, tutto preso dalle vendemmie [...], venne in soccorso alla mia. Mi disse, dandomi del tu, segno di grande privilegio, che sapeva benissimo quanto ero preparato e che un nuovo esame era inutile e mi consegnò, con aria cerimoniosa e sacerdotale, un magnifico certificato attestante una falsità, come prova che avevo sostenuto un nuovo esame per l’ammissione all’École Polytechnique e che me l’ero cavata egregiamente. (p. 385)

Il giovane partì così per Parigi, lasciando Grenoble come aveva sempre desiderato. Almeno in questo, la matematica gli era servita davvero. Partendo, ricevette qualche luigi d’oro dal nonno, vide — ma senza per nulla commuoversi — spuntare due lacrimucce negli occhi del padre, venne a sapere

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dei fatti del 18 brumaio e della nomina del generale Bonaparte a primo console della Repubblica Francese (il che lo rallegrò molto). Tuffarsi nella grande capitale ebbe su di lui un effetto disorien-tante: «Giunto a Parigi, due grandi oggetti del desiderio, duraturi e intensi, svanirono di colpo nel nulla. Avevo adorato Parigi e la matematica [ma] la matematica era per me come lo scheletro di un falò ormai spento» (pp. 393-394). Non si presentò all’esame di ammissione all’École Polytechnique, decise di dedicarsi alla letteratura, intanto si arruolò nell’esercito di Napoleone recandosi in Italia.

A cose fatte, questa scelta deve rallegrarci: ci ha regalato un grande scrittore, mentre chissà che genere di matematico egli sarebbe diventato. Una domanda, però, occorre farsela: perché la passione per la matematica, così intensa negli anni dell’École Centrale, scomparve tanto presto in lui, che non ne parlò più fino a quando la rievocò, ormai cinquantenne, ne La vita di Henri Brulard? Forse quello per la matematica era stato soltanto un colpo di fulmine giovanile, legato soprattutto alla voglia di lasciare Grenoble. Forse la matematica, intesa come ricerca d’una sorta di verità assoluta, l’aveva deluso. O forse, più semplicemente, l’avevano deluso i matematici, non soltanto i miseri docenti di Grenoble (Gros a parte) ma anche i grandi nomi di Parigi — i Cuvier e i Lagrange, i Laplace e i Legendre — pronti a prostrarsi ai piedi di Napoleone ma poi anche ad abbandonarlo, per opportunismo, per servilismo, per ipocrisia. Stendhal aveva scritto, nella sua autobiografia malcelata, che alla fin fine «il mio entusiasmo per la matematica aveva avuto origine, forse, dal mio orrore per l’ipocrisia [...]. A mio avviso, l’ipocrisia era impossibile in matematica» (p. 372). In tal senso, probabilmente la matematica, pur da lui abbandonata, da parte sua non lo abbandonò mai. Proprio essa potrebbe, assieme alla lettura attenta del Codice Civile napoleonico (che Stendhal considerava un modello esemplare di scrittura sobria, precisa, cartesiana), costituire la fonte d’ispirazione del suo meraviglioso stile narrativo, così poco alato e adorno, così alieno dai vezzi letterari e dalla loro presunta eleganza, così concreto e capace di porre continuamente la propria attenzione alle passioni umane, all’esame implacabile e ironico dell’umano raziocinio.

Come ha scritto di Stendhal, ma forse pensando anche a se stesso, Paul Valéry, «dalla breve preparazione matematica trasse quella preziosa e temeraria attitudine mentale che consiste nel giu-dicare come destituite di validità le cose vaghe, e altresì tutti i valori non dimostrabili che popolano l’intelletto» (Valéry, 2012).

9.3. la matematica di «Moby Dick» e quella di «Guerra e pace»

Cesare Pavese, che mirabilmente tradusse Moby Dick in italiano, scrisse sull’autore del possente romanzo: «Un greco veramente è Melville. Voi leggete le evasioni europee della letteratura e vi

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Pensare, e scrivere, il cosmo

12.1. Premessa

Questo capitolo è dedicato a tre grandi scrittori, accomunati dal fatto che erano interessati a pensare e scrivere il cosmo. Anche quando parlavano — in prosa o in poesia, con l’intento di fare scienza o letteratura — di questo o quell’aspetto del mondo terreno, il respiro che li spingeva a scrivere, o forse che con il loro scrivere volevano raggiungere, era di natura cosmica. Apparen-temente, non molte caratteristiche li univano. Uno, Galileo Galilei, visse in Italia a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, fu scienziato e filosofo. Credeva nell’eliocentrismo ma fu costretto dal potere ecclesiastico ad abiurare a questa sua convinzione. Il secondo, Giacomo Leopardi, visse anch’egli in Italia, nel suo caso a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, fu poeta e filosofo oltre che anima tormentata e sofferente. Il terzo, infine, fu una donna, vissuta nel XIX secolo, una solitaria zitella americana di nome Emily Dickinson la quale scrisse migliaia di versi che restarono per lo più sconosciuti ai suoi contemporanei e soltanto nel Novecento rivelarono che la sua autrice era una delle più grandi menti poetiche della storia della letteratura mondiale. Tre geni, certo, ma cosa li univa? Appunto la volontà e l’intelligenza di pensare, e scrivere, il cosmo. Di sapercelo raccontare, senza paura alcuna nel descrivere la superficie lunare come fosse il giardino di casa propria, di rivolgersi alla luna come fosse una silente amica, di chiedere che le fosse portato il tramonto in una tazza.

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12.2. Galileo, il più grande scrittore della lingua italiana d’ogni secolo

Galileo Galilei nacque a Pisa, nel 1564, da famiglia d’origine fiorentina. Il padre Vincenzo esercitava la mercatura e coltivava la passione per la musica. Del giovane Galileo ha scritto un suo attento biografo, il filosofo Antonio Banfi:

Della prima età di Galileo nulla si sa di preciso, fuor che nel 1574 [...] passò con la famiglia a Firenze [...]. Gli studi, iniziati già in Pisa, furono qui proseguiti e a dar loro uno sviluppo sistematico il giovinetto fu inviato al convento di S. Maria in Vallombrosa, dove certamente apprese le discipline dell’enciclopedia scolastica del tempo [...]. Quando una temporanea infermità agli occhi offerse al padre l’occasione di ritirare dal convento il giovinetto, questi toccava i quindici anni. [...] Fu avviato agli studi artistici della musica e del disegno e a quelli umanistico-letterari [...]. Con tale [...] corredo di coltura [...] a diciassette anni [...] Galileo fu immatricolato nella facoltà degli artisti dell’Università di Pisa, per apprendervi l’arte della medicina. (Banfi, 1962, pp. 13-14)

Non divenne affatto medico e si rivolse invece alla matematica, avendo per maestro un allievo di Tartaglia ossia Ostilio Ricci, e alla fisica, seguendo il magistero di Archimede, dimostrando precoce inventività e sviluppando idee e strumenti nuovi nel campo della meccanica, dell’idraulica, dell’astro-nomia. Se avesse continuato gli studi di medicina sarebbe forse diventato un Vesalio o un Harvey, che demolirono le tradizionali concezioni del corpo umano e del suo funzionamento. Avendo scelto in-vece la matematica e la fisica, demolì quelle sulla struttura e il funzionamento dell’universo.

Insegnò a Pisa ma fu poi chiamato alla cattedra di Padova, ove si fece un nome, realizzò sco-perte importanti, cominciò a utilizzare il cannocchiale, non da lui inventato ma da lui utilizzato a scopi di rinnovamento scientifico, avvicinandosi al copernicanesimo. Restò a Padova per diciotto anni ma infine, chiamato dal granduca Cosimo II di cui aveva curato l’educazione scientifica, fece ritorno in Toscana. Poi, come si sa, iniziarono quelle dispute con le autorità ecclesiastiche che

finirono con il condurlo davanti al tribunale dell’Inquisizione, all’abiura, alla messa all’Indice dei suoi libri, alla clausura di Arcetri. Prigioniero, ma tutt’altro che intellettualmente inoperoso, scrisse di nascosto i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze attinenti la meccanica e i movimenti locali. Il libro fu pubblicato a Leida, in Olanda, l’anno stesso della sua morte, nel 1642 (lo stesso anno che vide la nascita a Woolsthorpe, in Inghilterra, di Isaac Newton, suo erede scientifico). Come sostiene Alexandre Koyré, insigne storico della scienza, Galileo riconobbe nell’antica Grecia due grandi maestri, Platone e Archimede (Koyré, 1976). Del primo, condivise Fig. 12.1 Galileo Galilei.

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Pensare, e scrivere, il cosmo

«la visione dell’universo come entità strutturata matematicamente»; del secondo, «l’applicazione delle analisi della matematica ai problemi della fisica» (Rossi, 2006, p. 210). Con il cannocchiale, che usò genialmente quale strumento tecnologico ma anche quale protesi teorica, osservò la natura «terrestre» della luna, deducendone che Terra e cielo erano fatti della medesima materia e risponde-vano alle medesime leggi di carattere matematico. L’originalità di tale approccio fu ciò che lo divise, nonostante l’adesione di entrambi al copernicanesimo, da Keplero. L’eliocentrismo di quest’ultimo, infatti, restava legato a una visione antropocentrica — nella quale il sistema solare nel suo complesso prendeva il posto da Tolomeo assegnato alla Terra — del cosmo, Galilei non trovava invece nulla di scandaloso nell’idea che l’uomo abitasse su un piccolo pianeta appartenente a un umile e perife-rico sistema planetario, perso nel cosmo infinito. A lui non interessava l’eliocentrismo in sé bensì il dimostrarne la verità nel quadro di una visione più vasta dell’universo: vuoto, infinito e scritto in linguaggio matematico: «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo) ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua [...] in cui è scritto. Egli è scritto in lingua matematica» (Galilei, 1965, p. 79) La celeberrima frase si trova ne Il Saggiatore, una delle mirabili testimonianze della linda prosa galileiana, pubblicato nel 1623 ossia nove anni prima del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, il suo capolavoro scientifico e letterario.

Galileo fu uno scienziato di formazione umanistica e sin interessò molto, dunque, di letteratu-ra. Si sa del suo amore per Dante, che lo portò a tenere nel 1588, presso l’Accademia fiorentina, due lezioni Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante. Era intensa, in Galileo, anche l’ammirazione per Ludovico Ariosto, sul quale scrisse le Postille sull’Ariosto, e per Torquato Tasso, sul quali scrisse le Considerazioni sul Tasso. Egli entrò anche nel merito di una diatriba che molto occupò i letterati del suo tempo circa quale dei due poemi fosse superiore all’altro. Galileo, pur amandoli entrambi, si pronunciò a favore dell’Ariosto e la cosa non ci stupisce affatto (Ariosto era poeta più «cosmico» del Tasso). Fu anche poeta in proprio, generalmente di carattere satirico, come per esempio in questi versi, dedicati a un collega accademico, intitolati Contro il portar la toga, che prendono in giro la boria dei professori universitari: «Pare una gatta in una via maestra/che sbalordita fugga le persone/quando è caduta giù dalla finestra,/che se ne corre via carpon carpone/tanto che la s’imbuchi e si difenda/perché le spiace la conversazione». Non basterebbero, tuttavia, i suoi scritti esplicitamente letterari (Galilei, 1970) a giustificare la famosa affermazione calviniana sul fatto che egli fu «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo» (Bucciantini, 2007). Nel 1967, in piena gara spaziale tra russi e americani, Anna Maria Ortese scrisse a Calvino, su «Il Corriere della Sera», lamentandosi del fatto che anche un serio scrittore come lui si fosse fatto prendere la mano dalla moda dei viaggi spaziali e della fantascienza, così da avere pubblicato una raccolta di racconti fantascientifici intitolata Ti con zero. L’Ortese confessava che, ogni volta

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che sentiva parlare di conquiste spaziali, provava tristezza e fastidio in quanto la troppo enfatizzata corsa alla conquista dello spazio finiva con il ridurre il cosmo a mèta di una gara tecnologica, così privandolo della sua poesia e della sua bellezza, contemplando le quali si poteva una volta scordare le brutture terrestri. Calvino rispose prontamente, mostrando ancora una volta la propria anticon-formistica intelligenza:

Cara Anna Maria Ortese, guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo [...] la mia pace interiore. Non le pare di strumentalizzarlo malamente, questo cielo? [...] Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare. (Bucciantini, 2007)

Chi reagì malamente alle affermazioni calviniane fu Carlo Cassola:

Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante [...]. Mentirei se dicessi che l’affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L’augurio che rivolgo loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia. E se no, che cambino mestiere. (Bucciantini, 2007)

La meditata risposta di Calvino venne su «L’Approdo Letterario». Essa chiariva che, dicendo «scrittore», egli intendeva «prosatore» e che, in tal senso, la questione non era se fosse più grande Galilei o Dante, ma se lo fosse lo stesso Galilei o Machiavelli. Tuttavia, Calvino sottolineava, la di-rezione verso cui stava andando il suo personale lavoro di scrittore — quella direzione che l’avrebbe fatto approdare nelle file dell’Oulipo — gli rendeva più importante, nel senso che vi trovava mag-gior nutrimento, proprio Galileo, grazie alla precisione del suo linguaggio, alla ricchezza della sua immaginazione poetico-scientifica, alla sua capacità di ragionamento congetturale. E qui Calvino si gettava in una ricostruzione della letteratura italiana che ritroveremo poi nelle Lezioni americane. C’è un filo rosso, a suo avviso, che da Dante conduce prima all’Ariosto, poi a Galileo e poi anche a Leopardi ed è quello che mira a una concezione della letteratura quale messa in questione di tutto lo scibile umano, modo di disegnare una mappa enciclopedica dell’intero cosmo e di costruire grazie alla parola — non più distinta in poetica o scientifica — un’immagine a un tempo esatta e com-

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movente dell’universo. Lungo questa linea, che in Italia ha posto per secoli la letteratura in dialogo con la scienza, la maniera con la quale nel nostro Paese si scrive può tornare grande (è improbabile che Cassola abbia compreso tale risposta). Calvino tornerà a riflettere con entusiasmo su Galileo, e sulla ricchezza espressiva e dunque poetica della sua prosa scientifica, nella Seconda delle Lezioni americane, quella dedicata alla Rapidità:

Nel Saggiatore, polemizzando col suo avversario che sosteneva le proprie tesi con una gran quantità di citazioni classiche, scriveva: «Se il discorrere circa un problema fosse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più che uno solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval berbero solo correrà più che cento frisoni». «Discorrere», «discorso», per Galileo vuol dire ragionamento, e spesso ragiona-mento deduttivo. «Il discorrere è come il correre»: questa affermazione è come il programma stilistico di Galileo, stile come metodo di pensiero e come gusto letterario: la rapidità, l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono per Galileo qualità decisive del pensar bene. A questo s’aggiunga una predilezione per il cavallo nelle metafore e nei Gedanken-Experimenten di Galileo: in uno studio che ho fatto sulla metafora negli scritti di Galileo ho contato almeno undici esempi significativi in cui Galileo parla di cavalli: come immagine di movimento, dunque come stru-mento d’esperimenti di cinetica, come forma della natura in tutta la sua complessità e anche in tutta la sua bellezza, come forma che scatena l’immaginazione nelle ipotesi di cavalli sottoposti alle prove più inverosimili o cresciuti fino a dimensioni gigantesche; oltre che nell’identificazione del ragionamento con la corda: «il discorrere è come il correre». (Calvino, 1988, p. 43)

Calvino propone anche, ricavandolo dal Dialogo sui massimi sistemi del mondo, quello che ritiene essere l’elogio più bello della più grande invenzione umana, l’alfabeto. Viene messo, da Galilei, in bocca a Sagredo:

Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché di-stante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo, parlare con quelli che son nelle Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni [...] con i vari accozzamenti di venti caratterizzi sopra una carta. (Calvino, 1988, p. 44)

In Il libro della Natura di Galileo Calvino (1991a) sottolineò come la famosa metafora del «libro della Natura scritto in linguaggio matematico» fosse orientata non soltanto a sostenere un metodo di ricerca scientifica basato sulla lettura diretta, piuttosto che mediata da ciò che ne hanno scritto gli scolastici, del «libro del mondo». In tal senso, la metafora non avrebbe avuto alcuna originalità, essendo stata usata da vari altri pensatori, da Montaigne a Bacon, da Comenio a Campanella, per incitare il prossimo a cercare la conoscenza osservando le cose piuttosto che leggendo pedantesca-

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mente i libri dei dotti. Come scrive Calvino, Galileo intendeva dire molto di più: «L’apporto più nuovo di Galileo alla metafora del libro-mondo è l’attenzione al suo speciale alfabeto, ai “caratteri ne’ quali è scritto”. Si può allora precisare che il vero rapporto metaforico si stabilisce, più che tra mondo e libro, tra mondo e alfabeto» (Calvino, 1991a, p. 104). Ciò lo porta a scoprire che gli alfabeti necessari a leggere il mondo sono due: quello fatto di lettere e quello fatto di numeri. Dice ancora Calvino: «Quando parla dell’alfabeto, Galileo intende dunque un sistema combinatorio in grado di rendere conto di tutta la molteplicità dell’universo» (p. 104). Ciò vale per le lettere e vale, anche, per i numeri e gli enti geometrici. Ciò significa che «per Galileo la matematica e soprattutto la geometria abbiano una funzione di alfabeto» (p. 105). La letteratura e la matematica risultano così le due chiavi per leggere il mondo, l’una quello degli uomini, l’altra quello della natura.

Ci avviamo a concludere il nostro dis/correre su Galileo, facendo riferimento a un altro punto di vista, diverso ma complementare a quello di Italo Calvino, teso a valorizzare la ricchezza di scrittura di Galileo, il suo stile letterario quale elemento inseparabile del suo stesso messaggio scientifico. È quello espresso nel volume Il pensiero come stile, di Ermanno Bencivenga, docente presso la Columbia University. Esso è basato sull’idea che l’anima filosofica italiana (l’espressione è, originariamente, di Richard Rorty, in riferimento all’anima filosofica americana, fondata sul pragmatismo) sia fon-data sullo stile ossia sull’intreccio tra cultura filosofica, cultura scientifica e cultura letteraria. In tal senso, Bencivenga prende in esame le idee e gli scritti nonché, appunto, lo stile di dieci pensatori italiani ossia Dante, Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Vico, Leopardi, Pirandello, Croce e Calvino. Nel saggio su Galileo, egli scrive:

La figura di Galileo s’impone maestosa nella storia della scienza, non solo italiana. [Egli fu autore del] Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, uno dei capolavori della nostra letteratura. [Egli] riunì in sé la perizia matematica di Cartesio, l’impegno programmatico di Bacone e capacità osservative e tecniche superiori a entrambi; quello che per quattro secoli è stato considerato il metodo di ogni scienziato rispettabile trovò nel suo lavoro la prima enunciazione formalmente adeguata e le prime consapevoli e fruttuose applicazioni. (Bencivenga, 2008, p. 81)

Tutto quanto il saggio dedicato da Bencivenga a Galileo è serio, preciso e illuminante, ma noi ne sottolineeremo soltanto un aspetto: quello che lega la strategia scientifica del grande scienziato alla sua strategia letteraria. Secondo Bencivenga, in riferimento al Dialogo sopra i due massimi sistemi,

Galileo, nonostante il suo ufficiale disprezzo per la retorica, finisce in sostanza per usare strategie persuasive in favore della sua ipotesi preferita. Le strategie principali sono tre: le spiegazioni fornite da Copernico sono più semplici di quelle tolemaiche; sono più eleganti e apprezzabili sul piano estetico in quanto descrivono un universo più simmetrico e ordinato; e mostrano una migliore proporzionalità fra causa ed effetti. (Bencivenga, 2008, pp. 92-93)

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Insomma, Galileo offre certamente prove oggettive ma mai disgiunte da una visione del mondo, da un gusto culturale, da una convinzione ideologico-estetica e, alla fin fine, persino poetica. «Pro-durre un’ipotesi scientifica originale è tanto frutto d’ispirazione quanto comporre una poesia o un dramma; e come [...] non esiste un metodo per diventare Dante o Shakespeare, non ne esiste uno che ci permetta di acquisire la “fertile immaginazione” di Galileo» (Bencivenga, 2008, pp. 94-95). Insomma, se Galileo resta — la definizione è ancora di Bencivenga — il filosofo italiano più in-fluente della storia, occorre interrogarsi sul perché ciò sia avvenuto. Certamente, poiché diresse il telescopio verso il cielo, così ponendosi come l’Archimede della Modernità e aprendo la strada a Newton. Certamente, perché fece scoperte astronomiche assai innovative. Certamente, perché fu un eccezionale matematico. Tutto ciò, però, non è sufficiente a spiegarne lo storico successo. Se egli resta il personaggio più celebrato d’un drammatico, ma anche esaltante, periodo della storia del sapere europeo,

il motivo non va cercato nelle sue qualità di fisico e di matematico, che per quanto straordinarie non erano uniche, ma nel fatto che intorno alle sue idee e qualità seppe costruire un libro, e che il suo libro a tutt’oggi sa trasmetterci l’eccitazione di una scienza in gioioso subbuglio, la serietà di una di-sinteressata ricerca del vero, una nobile ed eloquente rivendicazione d’indipendenza dalle tradizionali autorità [...]. Galileo è il padre della nuova scienza perché non ha solo contribuito a fondarla: ha anche saputo raccontarcela con quella cura dell’intreccio e quella dignità di espressione con cui un grande scrittore ci fa apparire sensate le vicende più strane. (Bencivenga, 2008, p. 97)

Insomma, Italo Calvino aveva ragione: Galileo è un grande scrittore, probabilmente il più gran-de della letteratura italiana. Quello che Calvino non era giunto ad affermare, pur implicitamente lasciandolo intendere, era che proprio per questo è stato anche il più grande scienziato che l’Italia abbia mai avuto.

12.3. Giacomo leopardi ovvero Del pensiero poetante

Giacomo Leopardi, come scrive Yves Bonnefoy, è stato colui che, anche grazie alla sua cultura razionalistica e scientifica, «ha fatto capire alla poesia, così facilmente inebriata dalla capacità di esprimersi per simboli e di conseguenza di sognare, che nel mondo nulla è destinato a durare, neppure il poeta, non più di qualunque altra cosa e di chiunque altro» (Bonnefoy, 2010, p. 1281). Leopardi ha affermato:

a far progressi notabili in filosofia, non basta sottilità d’ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e Descartes, Galileo, Leibniz, Newton, Vico, in quanto