76-Inventare l'Organizzazione - Prof. Marocci.pdf

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OPsonline.it: la Web Community italiana per studenti, laureandi e laureati in Psicologia Appunti d’esame, statino on line, forum di discussione, chat, simulazione d’esame, valutaprof, minisiti web di facoltà, servizi di orientamento e tutoring e molto altro ancora… http://www.opsonline.it “INVENTARE L’ORGANIZZAZIONE” (Marocci) CENNI INTRODUTTIVI CAPITOLO 1: Il paradosso delle conseguenze involontarie Ogni soggetto nelle proprie strutture organizzative ed istituzionali persegue scopi e segue modelli almeno in parte predisposti per lui dal sistema sociale, quindi già esistenti quando egli assume il ruolo e da lui percepiti come “dati”. In quei ruoli il soggetto è relativamente libero di vedere la relazione tra ciò che fa e quello che ne risulta e altro ancora, anche se probabilmente non si sentirà libero di tentare di cambiare qualcosa. Partiamo per fare delle cose attese e ci troviamo a fare cose assolutamente diverse, inaspettate e indesiderate; iniziamo con cose scelte e arriviamo a cose imposte (o viceversa). Queste conseguenze involontarie non appariranno ai protagonisti dei vari ruoli come opera loro, ma verranno vissuti come fatti e obbiettivi e cogenti nella stessa misura in cui lo sono i fenomeni naturali. Il mondo delle relazioni organizzative in sé non è nulla, è un’invenzione, è la globalità delle abitudini, delle probabilità, delle credenze, degli schemi, messi in atto dalle interazioni fra gli esseri umani stessi: una invenzione del genere umano. Un problema della psicologia delle organizzazioni è quello di sensibilizzare la gente ad uscire da una rappresentazione di oggettività dell’organizzazione, intesa cioè solo come fatto esterno, naturale, non modificabile, dominato dal destino; come fatto altrui, dato e precostituito, come onere insopprimibile e inevitabile. Gli esseri umani possono riappropriarsi della capacità di intervenire sulla propria esistenza, anticipando, attraverso l’attività immaginativa della mente, le proprie azioni e riformulando un progetto. Organizzazioni quindi da conoscere per inventarle di nuovo, come nostro modo di pensarle, come nostro modo di rappresentarcele, di conoscerle. Ciò impone un lavoro difficile di cambiamento, di attenuazione del carattere istituzionale delle organizzazioni stesse nelle nostre rappresentazioni, di deistituzionalizzazione dei comportamenti relazionali che mettiamo in atto. Ciò impone nel nostro processo di conoscenza dell’oggetto organizzazione l’inserimento del “vissuto” del soggetto, ridefinendo così il nostro oggetto di studio come relazione – soggettiva – plurale. Non arriveremo a quell’organizzazione ideale che in noi funziona da idea trainante, arriveremo ad altri risultati, in parte non previsti, ma sempre modificabili in un continuo gioco di conoscenza- progetto – ridefinizione. CAPITOLO 2: Ecologia dell’azione organizzativa: soggetto, complessità e organizzazione Conoscere l’organizzazione. Le organizzazioni sono dei sistemi complessi e sono immerse in un ambiente sociale complesse. Lavorare in, o con, un’organizzazione significa pensare alla sua complessità, comprendere la sua complessità. Un’organizzazione può essere letta in molti modi contemporaneamente: il modello teorico/schematico,mette in luce caratteristiche salienti utili per una classificazione generale; l’esplorazione dettagliata, invece, permette di riconoscere punti di discontinuità, elementi di sostegno, percorsi evolutivi,eterogeneità, potenzialità, ecc. L’organizzazione è quello che ciascun membro “costruisce” tramite essa; e ciascun membro (anche un osservatore che ne faccia parte momentaneamente) è un prodotto della relazione con l’organizzazione. Non possiamo quindi più distinguere tra “realtà osservata” e “osservatore”, non possiamo separare il soggetto dall’oggetto della conoscenza, sia nella relazione fra individui come nella fisica. Il “conoscere” è solo istituzionalizzazione di una credenza socialmente condivisa o accettata (o subita). E’ la messa in crisi di ogni epistemologia naturalista. Le organizzazioni complesse. Le prime forme di impresa, agli albori dell’era industriale, probabilmente sono state relativamente semplici. Oggi sarebbe abbastanza ingenuo immaginare che non sia definibile – magari solo per alcuni aspetti – complessa. E’ cambiato il linguaggio di chi le osserva e, secondariamente, le relazioni che si

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“INVENTARE L’ORGANIZZAZIONE” (Marocci) CENNI INTRODUTTIVI CAPITOLO 1: Il paradosso delle conseguenze involontarie Ogni soggetto nelle proprie strutture organizzative ed istituzionali persegue scopi e segue modelli almeno in parte predisposti per lui dal sistema sociale, quindi già esistenti quando egli assume il ruolo e da lui percepiti come “dati”. In quei ruoli il soggetto è relativamente libero di vedere la relazione tra ciò che fa e quello che ne risulta e altro ancora, anche se probabilmente non si sentirà libero di tentare di cambiare qualcosa. Partiamo per fare delle cose attese e ci troviamo a fare cose assolutamente diverse, inaspettate e indesiderate; iniziamo con cose scelte e arriviamo a cose imposte (o viceversa). Queste conseguenze involontarie non appariranno ai protagonisti dei vari ruoli come opera loro, ma verranno vissuti come fatti e obbiettivi e cogenti nella stessa misura in cui lo sono i fenomeni naturali. Il mondo delle relazioni organizzative in sé non è nulla, è un’invenzione, è la globalità delle abitudini, delle probabilità, delle credenze, degli schemi, messi in atto dalle interazioni fra gli esseri umani stessi: una invenzione del genere umano. Un problema della psicologia delle organizzazioni è quello di sensibilizzare la gente ad uscire da una rappresentazione di oggettività dell’organizzazione, intesa cioè solo come fatto esterno, naturale, non modificabile, dominato dal destino; come fatto altrui, dato e precostituito, come onere insopprimibile e inevitabile. Gli esseri umani possono riappropriarsi della capacità di intervenire sulla propria esistenza, anticipando, attraverso l’attività immaginativa della mente, le proprie azioni e riformulando un progetto. Organizzazioni quindi da conoscere per inventarle di nuovo, come nostro modo di pensarle, come nostro modo di rappresentarcele, di conoscerle. Ciò impone un lavoro difficile di cambiamento, di attenuazione del carattere istituzionale delle organizzazioni stesse nelle nostre rappresentazioni, di deistituzionalizzazione dei comportamenti relazionali che mettiamo in atto. Ciò impone nel nostro processo di conoscenza dell’oggetto organizzazione l’inserimento del “vissuto” del soggetto, ridefinendo così il nostro oggetto di studio come relazione – soggettiva – plurale. Non arriveremo a quell’organizzazione ideale che in noi funziona da idea trainante, arriveremo ad altri risultati, in parte non previsti, ma sempre modificabili in un continuo gioco di conoscenza- progetto – ridefinizione. CAPITOLO 2: Ecologia dell’azione organizzativa: soggetto, complessità e organizzazione Conoscere l’organizzazione. Le organizzazioni sono dei sistemi complessi e sono immerse in un ambiente sociale complesse. Lavorare in, o con, un’organizzazione significa pensare alla sua complessità, comprendere la sua complessità. Un’organizzazione può essere letta in molti modi contemporaneamente: il modello teorico/schematico,mette in luce caratteristiche salienti utili per una classificazione generale; l’esplorazione dettagliata, invece, permette di riconoscere punti di discontinuità, elementi di sostegno, percorsi evolutivi,eterogeneità, potenzialità, ecc. L’organizzazione è quello che ciascun membro “costruisce” tramite essa; e ciascun membro (anche un osservatore che ne faccia parte momentaneamente) è un prodotto della relazione con l’organizzazione. Non possiamo quindi più distinguere tra “realtà osservata” e “osservatore”, non possiamo separare il soggetto dall’oggetto della conoscenza, sia nella relazione fra individui come nella fisica. Il “conoscere” è solo istituzionalizzazione di una credenza socialmente condivisa o accettata (o subita). E’ la messa in crisi di ogni epistemologia naturalista. Le organizzazioni complesse. Le prime forme di impresa, agli albori dell’era industriale, probabilmente sono state relativamente semplici. Oggi sarebbe abbastanza ingenuo immaginare che non sia definibile – magari solo per alcuni aspetti – complessa. E’ cambiato il linguaggio di chi le osserva e, secondariamente, le relazioni che si

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sviluppano all’interno e all’esterno di un’azienda sono molto più varie e numerose di un tempo. Ormai la complessità è una proprietà definente del concetto di organizzazione e non solo dell’organizzazione intesa come insieme di mezzi e di uomini perseguenti un fine. E’ complesso inoltre il funzionamento dei gruppi che in essa vi operano e che ad essa danno un senso, è complesso l’individuo nel suo strutturare forme di significanza delle sue realtà. Il pensiero semplificante. Fino a quando il numero delle dimensioni organizzative è stato sufficientemente piccolo da dare origine a strutture ordinate e coerenti, l’uomo, con la sua mente razionale, si è sentito potente nei confronti della realtà sociale ed economicamente; ha creduto di poter interpretare tutto. Improvvisamente la situazione è cambiata: come se qualcuno avesse aperto un rubinetto trasformando il flusso regolare dell’acqua in un getto turbolento e disordinato. I fenomeni fisici e sociali – anche quelli organizzativi – hanno iniziato a parlare il linguaggio delle contraddizioni, dei paradossi,del disordine, della molteplicità. La difficoltà umana a vivere nel non-senso e nell’incertezza ha obbligato la storia a rendere conto di sé dividendo lo spirito dalla materia. Ogni verità si scontra con altre verità, ciascuna delle quali è dura a morire; tanto da far riemergere, in mezzo a un così grande sapere, il disorientamento, la sorpresa, il non-senso, il rifiuto. Dobbiamo scoprire delle verità che siano parziali, fruibili, “biodegradabili”, per non concludere troppo precipitosamente che l’unica verità assoluta e da custode è il nulla. La prigione della coerenza. Tutto il pensiero scientifico, con il suo bisogno di spiegare e di prevedere, si è andato costruendo all’insegna della coerenza. Si è cercato di formulare leggi attendibili di determinazione degli eventi semplificando i fenomeni osservati; semplificazione che riduce al minimo la molteplicità. La semplicità, alimentata dal riduzionismo, per lungo tempo ha regolato il pensiero umano. Quando si è sentito il bisogno di parlare di complessità? Quando l’universo fisico, l’universo biologico e l’universo sociale hanno svelato la presenza di una innumerevole serie di contraddizioni e di paradossi; quando ci si è resi conto che il disordine prevale sull’ordine. Spesso i ricercatori tendono a dimostrare che le variabili indipendenti, di solito “obbiettive” (segnali forti assunti come già “dati”), incidono sulle variabili dipendenti, di solito soggettive (segnali deboli, sovrastrutturali): certamente una limitazione dal punto di vista epistemologico. Ne deriva l’impossibilità di affermare l’esistenza di una verità obiettiva indipendente da chi la osserva. Livelli i osservazione. Pensare con i parametri della complessità non elimina l’imprevisto, ma ci mette in “stato di allerta”, di attenzione fluttuante; ci prepara a subire una delusione delle nostre aspettative e ci dispone all’apprendimento. I fenomeni umani e sociali, per la variabilità e la molteplicità delle relazioni che vi sono coinvolte, possono essere considerati “sistemi caotici”, sistemi dissipativi che evolvono in un regime di turbolenza. Ordine e disordine. Le organizzazioni un tempo erano regolate dal principio dell’ordine, anche se paradossalmente là dove esiste un ordine è difficile che nasca un’organizzazione. L’organizzazione – il coordinamento di parti differenziate che cooperano per lo svolgimento di un’impresa – nasce il disordine. L’impresa nasce dal disordine negli scambi di risorse (mezzi di produzione e forza lavoro); scopre, grazie a Taylor, che per mettere ordine nelle relazioni, interne ed esterne, basta applicare alcune regole di razionalizzazione; raggiunge l’obiettivo di massimizzare l’efficienza ma, come diretta conseguenza della produzione di massa, avvia un processo di crescita esponenziale delle relazioni. La competizione sul mercato, la tecnologia e la cultura dell’abbondanza impongono alle aziende nuovi obiettivi: qualità e servizi. Il passaggio da un modello meccanico ad un modello organico si realizza nella disarticolazione del processo produttivo, nella multidimensionalità della struttura organizzativa, nella coesistenza di valori e di competenze molto diverse tra loro.. Inevitabilmente con l’aumentare della complessità si torna al disordine, all’agitazione delle particelle. Particelle che si agitano e producono nuovi incontri, nuovi legami, nuove forme di organizzazione. Quanto più l’organizzazione si arricchisce di interazioni, quanto più diventa complessa, tanto più deve misurarsi con il disordine. Per questo la complessità spaventa: perché si pone sul piano dell’ambiguità, della molteplicità dei significati; la complessità è scomoda

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perché può essere compresa solo da un pensiero dialogico, da un pensiero che rinuncia a risolvere le contraddizioni rimovendo una delle alternative. Se cadono i presupposti su cui si basano le leggi predittive si esce dal destino e si entra nel progetto. L’auto organizzazione. Anche nella complessità si possono riconoscere ordine e semplicità; poiché il processo non è lineare, il percorso conduce a punti di ramificazione, a bivi, in cui ogni decisione porta il sistema in una direzione o nell’altra. E poiché ogni decisione amplifica i valori ottenuti al livello precedente, una differenza impercettibile fa sentire i suoi effetti anche molto lontano (l’effetto farfalla di Lorenz). L’imprevisto non dipende più soltanto dal caso: può anche essere generato dall’intervento umano. L’ambiente fornisce elementi discontinui per quantità e qualità e il sistema deve far sì che,al cambiare dei suoi costituenti, non cambi la sua struttura generale; lo scambio con l’esterno è sempre un processo di traduzione o di ristrutturazione. In altri termini il sistema deve autorganizzarsi, richiudendosi in se stesso, per mantenere la sua identità. Paradossalmente il sistema deve essere chiuso e aperto allo stesso tempo. E grazie all’auto-organizzazione la vita riesce a vincere. In un sistema che si auto-organizza i ruoli gestionali rappresentano un punto di forza-debolezza, poiché ad essi è affidato il compito di presiediare l’evoluzione del sistema stesso. Apprendere a pensare in modo complesso Per apprendere il pensiero complesso occorre ricercare il piacere del rischio; non si può intendere la complessità quando si ha paura di perdervisi. Ogni forma di cambiamento è una forma di tendenza a complessificare. Ogni ragionamento duale è un complessificare. Il pensare psicologico è di necessità un pensiero dualistico, un sentire plurale, che per essere appreso non deve combattere l’insicurezza, bensì ricercarla. Insicurezza intesa come un “plus”, come una risorsa in più, certi di poter arrivare prima o poi ad una forma di sicurezza di qualità superiore. Questo significa accettazione della contraddizione, del conflitto, del non-senso, del paradosso in decidibile; amore per la creatività, per l’inatteso. Questo porta a considerare le realtà sociali e relazionali come qualcosa di inventato e quindi di modificabile. Qualcosa di “trattabile” che comporta il coraggio di provarci. E’ un atto di coraggio e di umiltà al tempo stesso il renderci conto con curiosità delle nostre limitatezze, del nostro non sapere. Il pensiero “complessificante” è una risorsa, il nostro benessere e il nostro ottimizzare il presente con tutte le sue caratteristiche, i limiti e le risorse che porta con sé. E’ proprio nell’attimo/luogo che non è ancora passato e non è ancora futuro che possiamo giocarci le possibilità di reinventarci il progetto plurale/futuro. E il benessere soggettivo risiede in questa sensazione di “imminenza stimolante, euforica” accompagnata dalla sensazione di essere parte attiva nella sua costruzione. Principi della complessità. Principio dell’irriducibilità del caso e del disordine – non disponiamo di strumenti adeguati concettuali per dare ordine al disordine. Tutte le azioni devono tener conto di una certa quantità di incertezza contenuta negli avvenimenti, compresa l’incertezza che il caso sia veramente dovuto al caso. Principio della dialogica – non vi è nulla in questo mondo che, in ultima analisi, non contenga in se il proprio contrario. L’ordine e il disordine si alimentano vicendevolmente nell’organizzazione. La tendenza ad unificare è sempre la nostra modalità più frequente di funzionamento, perché pensare per 2 impone un grosso impegno psicologico e richiede la capacità di raggiungere un equilibrio tra desiderio e repressione. E’ importante rendersi conto che gli opposti cooperano tra loro e che la molteplicità è nell’unità,che le parti sono nel tutto. Principio dell’ologrammatico – la società è costituita dall’insieme dei suoi membri e si riflette in ciascuno di essi. Principio di ricorsività – l’azienda produce il mercato o viceversa? In un processo ricorsivo l’effetto è anche causa, il produttore è anche prodotto. Gli individui producono le organizzazioni e le organizzazioni condizionano i comportamenti individuali. Soggetto e oggetto diventano entrambi soggetti: l’uno non esiste senza l’altro. Principio di parità fra il centro e la periferia – le organizzazioni complesse sono delle reti in cui periferia e centro hanno pari dignità, in cui le minoranze contano quanto le maggioranze.

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Principio di incompletezza – non tutta la verità può essere dimostrata; non le contraddizioni e i paradossi. Principio di autoreferenzialità – l’organizzazione non è un oggetto osservabile ma un’entità che rende conto del proprio modo di essere riflettendo su se stessa, analizzando il suo “hic et nunc”, senza il quale si perde il significato delle cose. Legami deboli e organizzazioni. Il legame debole è un modo che consente alle persone e agli eventi di interagire fra loro senza che vi sia perdita di identità da parte di alcuno; è un concetto che implica la compatibilità fra razionalità e indeterminatezza. I legami deboli offrono vantaggi e svantaggi, ad esempio: rappresentano un sensibile meccanismo di percezione ma potrebbero, al contempo, sviluppare una maggiore inclinazione nel fornire risposte bizzarre; favoriscono l’adattamento locale ma potrebbero limitare la circolarità culturale. IL PENSIERO DUALE CAPITOLO 3: Soggettività plurale Soggettività, relazione, conflitto. La soggettività è un sistema dinamico evolutivo, quindi instabile che non produce mai l’identico. Possiamo dire che la soggettività è il modo di dare un senso al mondo, alle cose, alle persone e a tutto ciò che sentiamo dentro e fuori di noi; possiamo anche aggiungere che è l’insieme dei pensieri e delle azioni che caratterizzano ogni singolo individuo. Pur essendo indiscutibile che essa sia da considerare fenomeno individuale, è anche innegabile la sua natura relazionale, culturale. Possiamo parlare di soggetto individuale, duale, sociale, collettivo: non è dunque possibile identificare soggettività con individuo, né in termini concettuali né in termini tecnici e di intervento. Soggettività è quindi relazione, è incontro con la diversità, con le parti sentite estranee in noi stessi e negli altri; è quindi potenzialmente conflitto, certamente dualità, pluralità. La soggettività può essere anche definita come l’insieme dei processi mentali che si svolgono nella nostra psiche. Nascita e sviluppo del soggetto. E’ con l’apparire della distinzione sessuale che il soggetto nasce come parte,la parzialità uomo e la parzialità donna, e si situa come identità nella coscienza: io sono. L’obiettivo principale degli esseri viventi sembra quindi essere la sopravvivenza e sopravvive chi è più adatto. Secondo Becker gli esseri umani passano buona parte della loro vita nel tentativo di negare la realtà incombente della morte. Morgan afferma che “identificandoci nelle organizzazioni riusciamo a dare un senso a noi stessi e ad avere la sensazione di permanenza nel tempo”. L’individuo quindi è sempre con gli altri. L’individualità umana è prodotta dall’insieme relazionale che ci avvolge e riempie fino a poter dire che “noi siamo le nostre relazioni” e ci sentiamo parte di insiemi sociali: le relazioni definiscono le nostre identità, i nostri diversi sé. Soggettività e cultura. L’esperienza di ciascun individuo mostra come non sia possibile la libera scelta relativamente a cosa vogliamo vedere, osservare, percepire. La realtà che noi percepiamo è quella che noi stessi attivamente costruiamo, i linguaggi della conoscenza con cui la strutturiamo, derivano dalla condivisione (cultura) e dal nostro modo di interiorizzarla. Secondo Bion ogni atto conoscitivo è un esercizio di creatività volto ad operare un’attribuzione di senso alla realtà. La cultura è quindi dimensione esterna, costruita ed anche subita da noi, ma, al tempo stesso è interiorizzata, come insieme di conoscenze e altro che tende a dare senso al nostro percepire. La cultura è un insieme di schemi espliciti ed impliciti del comportamento. Per Shein la cultura è costituita da simboli (modi di rappresentare il mondo); valori (norme, credenze); assunti di base (può essere inteso come una risposta appresa che inizialmente è stata un valore). La relazione fra simboli, valori e assunti di base è assai complessa poiché non sempre un simbolo esprime direttamente un valore sottostante. Gli individui sono pro-attivi nei confronti dell’ambiente, cioè lo costruiscono, gli danno un significato, e

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sono anche re-attivi, cioè si adattano ad un ambiente considerato come dato. Il concetto di cultura quindi è uno dei tipici modi per ricreare l’unicità. Complessità delle relazioni: il sé molteplice e lo scontro di valori. Il soggetto, scaraventato in una marea di relazioni sempre più complesse, rischia di frantumarsi, di perdere il filo che “sembrava” legare armoniosamente quei valori, quelle credenze, quelle opinioni. L’inevitabilità del molteplice pone il soggetto di fronte al problema della gestione della frammentarietà del sé e della conseguente accettazione dell’incoerenza e della non integrazione del sé. Tutte le volte che valutiamo un evento o una persona, noi siamo molte cose contemporaneamente. Siamo professionalità, siamo emotività, siamo razionalità, siamo “io” e “noi”, siamo presente e futuro. Più aumenta la complessità sociale più si valorizza il disordine, l’irrazionalità. La leggerezza della soggettività. Spaltro definisce la “psiche come una farfalla”. Una farfalla come sinonimo di anticonformismo, di antigravità, di multidimensionalità: è leggera, condizionata dalla gravità ma ancor più dall’aria e dal vento; è fragile e imprevedibile. E’ ambigua. Per la psiche ciò che pesa, non è il potere, ma il vigente. Il soggetto non è solo individualità ma anche soggetto plurale che interagisce col pensare degli altri, ma che sa anche negoziare e cambiare con gli altri. Pensiero Duale. Il punto centrale è considerare il dualismo che ci contraddistingue a livello psichico come una modalità apprendibile di pensare. Pensare dualisticamente significa seguire contemporaneamente due scemi di riferimento e di interpretazione della realtà, senza che la contraddittorietà logica ne impedisca una effettiva e reale accettazione tramite processi di rifiuto. Fitgerald dice che una persona è intelligente quando, pur avendo due idee opposte nella mente, riesce a funzionare lo stesso. Spaltro dice che “il pensiero duale accetta e vive le contraddizioni, senza rifiutarle o reprimerle”. Spaltro situa la nascita del pensiero duale al momento dello sviluppo delle relazioni interpersonali, cioè al comparire della relazione di coppia, considerata come presa di coscienza della distinzione fra soggettivo e oggettivo. Il pensare duale diviene quindi la premessa indispensabile per lo sviluppo di una relazione sociale. La modalità di apprendimento del pensiero duale è naturalmente introspettiva e nella relazione sociale trova specifiche occasioni per attuarsi e diffondersi. Il pensare dualmente ricerca l’accettazione della dualità senza sperimentazione di sentimenti di colpevolezza, ed è proponibile come strumento logico affettivo per passare al pensiero plurale. Soggetto ed ambivalenza. Ancora oggi la “coazione all’unità” è dominante, inevitabile, e ci rendiamo conto di come essa sia alla base dei processi di rimozione, repressione e aggressione che portano a forme di conflittualità non gestita, non accettata e quindi distruttiva. La ricostruzione della soggettività organizzativa: il pensiero plurale. L’organizzazione non è un fatto naturale, ma p una espressione culturale, un costrutto sociale, che si apprende e si inventa continuamente. La relazione organizzativa è uno spazio/tempo interumano basato su valori e su progetti. La relazione organizzativa si basa sul passaggio dallo sforzo solitario allo sforzo collettivo, sulla trasformazione della soggettività individuale in soggettività collettiva, sociale. Il clima, come il concetto di gruppo psicologico, è duale, è un insieme inestricabile di pluralità ed individualità, di soggettività e di obiettività, possiamo percepirlo dentro di noi, possiamo osservarlo all’esterno. La soggettività organizzativa è quindi ridefinibile in termini più complessi come potenzialità; come capacità empatica di mettersi nei panni degli altri; come dimensione relazionale e quindi come incontro con la diversità; come conflittualità generativa, pensiero dialettico, accettazione dell’ambivalenza; come capacità di pensare al contrario. La paura (angoscia) di disgregarci, di non reggere la complessità di un Io che esce da una autopercezione statica, continuativa, coerente e semplificata, può portarci a grossi problemi di rifiuto difensivo o alla disgregazione.

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Il soggetto nell’organizzazione. Le organizzazioni sono unità sociali, ovvero raggruppamenti di individui, dotate di un certo numero di meccanismi organizzativi, funzionali al perseguimento di fini ed obiettivi determinati. Simon definisce le organizzazioni come “complesso schema di comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabilirsi in un gruppo di esseri umani”. Le organizzazioni come sistemi relazionali complessi. La complessità rappresenta in un certo senso l’espressione del pensiero duale a livello collettivo. Complessità vuol dire anche che in ogni organizzazione coesistono persone, valori, vissuti e competenze diverse che si trovano improvvisamente in un contesto di relazioni più ampie. Si può quindi affermare che l’importante è imparare ad accettare il senso di complessità, e quindi a viverlo. Possiamo quindi affermare che le organizzazioni sono insiemi complessi di relazioni in un continuo processo di autodeterminazione che, da un lato le differenzia dal “resto” (creazione di identità), dall’altro, le integra con l’ambiente che le contiene, e che, a sua volta, in esse è contenuto. CAPITOLO 4: Energia Psichica Energia fisica VS Energia psichica. Il termine energia deriva dal greco energonos, dove “en” significa attivo e “ergos” significa lavoro. Si può dire che l’Energia Psichica è la capacità di fare un lavoro mentale. Analogamente per quanto riguarda l’Energia Psichica il pensiero, la coscienza e l’azione sono manifestazioni osservabili di questa. Ricchezza e povertà. L’energia psichica, in quanto costrutto ipotetico, non può essere misurata né avvertita coi sensi. Essa si manifesta concretamente sotto forma di forze in atto o in potenza. Desiderare, volere, sentire sono esempi di forze in atto, come atteggiamenti, tendenze. Ogni nostra tendenza verso uno scopo sarà denominata libido oggettuale, mentre ogni tendenza verso sé stessi, verso oggetti interni, sarà chiamata libido narcisistica. Il passaggio di energia psichica verso l’esterno, cioè l’investimento oggettuale, viene vissuto dal soggetto come euforia o entusiasmo; al contrario il riflusso di energia pshica viene vissuto come depressione o malinconia. La presenza di molta energia psichica non incanalata viene vissuta come angoscia (allargamento). Si possono dunque immaginare due tendenze opposte nell’individuo quella della ricchezza psichica, sentita come abbondanza di energia, e quella della povertà psichica, vissuta come scarsità della stessa. Si possono innescare quindi due cicli, uno virtuoso che tende produrre più energia e più oggetti d’amore su cui fissarla, e uno vizioso che tende a diminuire la produzione di energia e a rendere più scarsi gli oggetti d’amore. Tornando al concetto di povertà psichica, essa è caratterizzata da disamore, ovvero da scarsità di oggetti d’amore e da contemporanea scarsità di energia da investire. Il pericolo cui siamo esposti in uno stato di scarsità è quello di rinchiuderci nell’investimento narcisistico, che ci rende psicologicamente poveri, tanto che siamo continuamente costretti a cercare sostegni esterni. Quando siamo in stato di scarsità è più facile attribuire ad altri, visti come nemici, l’origine di tale scarsità. La povertà psichica può divenire origine, spesso, di “falsi nemici”, di “lotte contro”, di visioni prevalentemente fatalistiche della realtà. Chi vive una situazione di disamore, di povertà psichica, tende a ragionare in termini assolutamente economistici, si illude di poter risparmiare energia, diminuendo in questo modo le possibilità di avere successo e rendendo ancora più scarsa la quantità di energia disponibile. E’ importante,per definire la ricchezza psichica, la sensazione di energia investita accompagnata da un sentimento di disponibilità ed abbondanza di questa energia. Creazione dell’oggetto d’amore. Ogniqualvolta sentiamo di avvicinarci ad esperienze importanti proviamo piacere ed ansietà al tempo stesso, soddisfazione e paura di non essere adeguati alla situazione. Il crearsi di un oggetto d’amore è quindi un fenomeno duplice e contraddittorio nella nostra esperienza. L’oggetto d’amore è quindi un diverso da me. La ricchezza psichica è caratterizzata dalla doppiezza, poiché nel creare oggetti d’amore si mescolano situazioni conflittuali: volere e non volere, tendenza a fare e non fare, l’amare e l’odiare. Si costituisce un oggetto d’amore quando si attiva un bisogno (sentimento di mancanza) più o

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meno cosciente. Non dobbiamo quindi dimenticare che ogni oggetto è sempre al bivio fra il desiderio di investire energia e la paura di farlo, tra l’amore e l’odio. Se amo significa che riesco a volere una cosa che non ho, significa che riesco ad immaginare anche di non averla senza morire dalla paura, anzi, è proprio questa possibilità di non averla o di perderla che fa sì che io la voglia a tutti i costi. La nostra capacità di vivere ambulanze non è però senza fine: se desideriamo qualcosa che non riusciamo ad avere, l’oggetto d’amore ad un certo punto viene eliminato o cambiato di segno. Il punto centrale quindi nella costituzione di un oggetto d’amore è la capacità di affrontare e di gestire l’ambivalenza poiché desiderare o investire significa diventare ambivalenti. L’ambivalenza è l’uscita dall’indifferenza, ed è quindi connessa con il sentimento di “potere”, cioè la possibilità o la probabilità. In termini di relazione sociale potremmo affermare che troppo conflitto polarizza, ma troppo poco blocca. Gli individui non si sentono molto motivati se sentono gli obiettivi troppo certi o quasi impossibili. La rinuncia all’oggetto fa sparire il desiderio, ma anche il possesso dell’oggetto stesso tende a distruggere l’oggetto d’amore. E’ la paura di perdere il possesso che può ricostruire gli oggetti d’amore distrutti, introducendo la dimensione temporale di aspettativa futura. Chi è ricco psicologicamente tende ad avere una visione di abbondanza di energia, ma non di soddisfazione completa, chi è povero avrà una visione di scarsità, ma non di totale mancanza. Spazio sovrano e ricerca del privilegio. Fornari ha affermato che per l’individuo è primario vivere ed agire in uno spazio sovrano; Spaltro parla dello spazio sovrano come spazio sociale in cui ci si sente padroni; molti autori si basano sull’idea che ogni uomo desideri avere la sovranità del proprio spazio e del proprio tempo sociale. La tendenza ad impadronirsi del proprio spazio sovrano per poterlo controllare porta gli esseri umani a comportamenti ambivalenti. L’individuo di fronte al sociale dispone di 2 alternative: insistere per controllare il sociale oppure quella di rinunziarvi e scappare. Chiameremo partecipazione la prima tendenza, alienazione la seconda. Tutto ciò darà allora origine a 3 tipi di possibili conseguenze: 1. la rinuncia alla sovranità, considerata troppo difficile e costosa da raggiungere, che chiameremo alienazione; 2. la lotta per aumentare il proprio grado di sovranità, che denominiamo estraneità; 3. la percezione di una sovranità adeguata, non totale ma sufficiente, che definiamo appartenenza. La partecipazione è la lotta per sentirsi ed essere appartenente ad un gruppo sociale. L’alienazione è quindi la rinuncia alla lotta per l’appartenenza e alla sovranità nel sociale, premessa dell’esclusione anche affettiva, oggettiva. Se potenzialmente tutti gli uomini cercano di realizzare la propria sovranità, in fondo ciò che cercano è la percezione che sia possibile per loro ciò che agli altri non è dato avere o essere; in altre parole ogni uomo cerca il proprio privilegio. Privilegio che può essere soggettivo od obbiettivo, l’importante è che dia la sensazione di essere rari ed unici nella soddisfazione dei propri bisogni o desideri. Quando paliamo di desiderio e di bisogno, si dà ad essi un particolare significato: per bisogno intendiamo un sentimento di mancanza, accompagnato da una prefigurazione o aspettativa di tipo negativo, cioè se non otterrò ciò che voglio starò male. Viceversa, nella dinamica del desiderio prevarrà uno stato d’animo positivo, cioè il pensiero dominante è che se io l’avrò starò meglio. Tornando al tema del rapporto fra desiderio e repressione, possiamo affermare che occorre un mixing ottimale di desiderio e di repressione affinché si abbia l’investimento. L’investimento cresce con l’aumentare della repressione. Ciò avviene fino a un certo punto, poi diminuisce. Così la repressione cresce con l’aumentare del desiderio. Se vivere significa lottare per i propri oggetti d’amore (conflitto, investimento, ambivalenza), vincere troppo o perdere troppo (distruzione dell’oggetto d’amore) può portarci all’indifferenza (alienazione, sordità psichica). Tra partecipazione e alienazione. E’ nella relazione con gli altri che prendono forma desideri, la ricerca di privilegi, la tendenza alla sovranità, la difesa dell’identità. I nostri desideri vengono “appresi” nelle nostre relazioni, nel contatto con gli altri. La nostra soggettività, che ci sforziamo tanto di sentire come fatto nostro, individuale e cosciente, è frutto delle nostre relazioni, o meglio, è la relazione stessa. Relazione che è l’incontro con l’altro, con la diversità. Il pensiero progettuale.

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Progettare significa, in chiave ludica, negare il concetto di destino. Il futuribile può essere definito modalità con cui l’individuo tenta di sfuggire all’alienazione presente. E’ infatti caratteristica del mondo del lavoro il fenomeno dell’espropriazione, quindi della perdita degli oggetti d’amore, ovvero dell’alienazione. Questa tendenza è attualmente ineliminabile dal contesto organizzativo e al contempo dilagante anche nei rapporti sociali all’esterno della dimensione lavorativa. L’alienazione è uno stato di ritiro lipidico ed energetico, uno stato in cui non si desidera, non si investe energia psichica su niente e su nessuno. L’alienazione è lo stato estremo di “povertà” psichica, così da portare gli individui a temere troppo l’inutilità e l’impotenza delle loro azioni, orientandoli a non investire più nulla, poiché ogni investimento (Eros) determina una modifica di uno stato di fatto e quindi un sentimento di precarietà difficilmente sopportabile. Per evitare la frustrazione, cioè la perdita dell’oggetto d’amore, ripetutamente sperimentata, il desiderio viene bloccato procedendo all’eliminazione, inconsciamente, di tutti gli oggetti d’amore possibili. L’alienazione è quindi sostanzialmente uno stato di equilibrio, per uscire dal quale è necessario favorire un reinvestimento lipidico, cioè una ricostruzione dell’oggetto d’amore. L’esclusione è quindi l’effetto della nostra volontà di non investire, della volontà di una struttura sociale od organizzativa di non investire, di non cambiare, di non conoscere. Amore e morte. Ogni individuo amministra la propria energia psichica fissandola su oggetti, persone e situazioni. Se un uomo non investe muore, se investe poco è depresso, se investe molto è euforico, se investe troppo può tornare alla depressione, poi alla morte. Nella dinamica della lotta per e della lotta contro, la sfumatura che la distingue non permette dubbi: lo scopo della lotta “per” è l’eliminazione della lotta “contro”. La lotta contro vuole la morte del nemico vero o immaginario, non gli interessa avere ma distruggere. La lotta per vuole il piacere proprio, la propria vita, vuole essere, non gli importa distruggere. Cambiamento e ambivalenza. E’ centrale adottare il pensiero duale come metodo di diagnosi-intervento in ogni situazione di cambiamento. Il pensiero dualistico è connesso strettamente con il cambiamento, poiché per passare da una situazione ad un'altra occorre superare periodi di ambivalenza, quando cioè il vecchio ed il nuovo hanno pari intensità (conflitto). La colpevolezza tende, poiché fondata sulla dualità, a bloccare ogni azione e a perpetuare l’ambivalenza. Il prevalere del passato abolisce la colpevolezza in chiave statica, mentre il prevalere del futuro spegne la colpevolezza in chiave innovativa e dinamica. Il narcisismo, cioè questa immagine intoccabile di se stessi che, offesa dall’ipotesi di cambiamento e dall’aggressività ance benigna dell’altro, provoca aggressività maligna, non è riferita solo al singolo individuo, ma anche al suo piccolo gruppo ed al suo grande gruppo o collettività. Come per il singolo, così anche nel “micro” e nel “macro” gruppo si svilupperanno aggressività benigne e maligne. Come scrive Spaltro, essere contro non porta di necessità a Thanatos, cioè all’istinto di morte, alla distruttività, ma porta inizialmente ad Eros, all’istinto di vita, all’amore, alla competizione costruttiva. E’ solo in un secondo tempo che si trasforma in morte per sfuggire alla colpa e all’ansia. Amicizia e inimicizia. Il nemico tende ad essere uno e uno solo, perché possa essere aggredito e perché diventi un punto pre-selezionato e prezioso per la fissazione di energia. L’esistenza di molti nemici (o anche di molte persone amate) turba la coscienza e l’idea di un falso o vero nemico (come di un falso o vero innamorato) è causa di elevata ansietà. L’alto livello di ansia è provocato dalla pluralità che parte dall’ambivalenza e va al senso di colpa; un unico nemico permette di raggiungere 2 obiettivi: 1. la limitazione in un punto solo e 2. la possibilità di proiettare l’aggressività all’esterno. Il falso nemico. Possiamo dunque affermare che spesso i nemici sono rappresentazioni proiettate di qualcosa di nostro, che in noi non trova possibilità di essere accettato. Il falso nemico è da distruggere perché è totalmente cattivo. In effetti esso non è distruggibile perché lo si reinvesta sempre;

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Il falso nemico non è discutibile nella sua negatività e nella sua inimicizia; Il vero nemico non è da distruggere ma da controllare. Se cambia la situazione e per noi non è più di un ostacolo, non sarà più nemico; Il vero nemico è temporaneo; L’inimicizia, vera o falsa che sia, si basa su fenomeni allucinatori contraddistinti dalla proiezione sugli altri della nostra dimensione vietata. Lottare contro, crearsi dei falsi nemici, è dunque tendenza alla stasi; lottare per è fondamentalmente cambiamento. Lottare per qualcosa, cioè per cambiare, ci obbliga ad affrontare il rischio di lottare anche contro una parte di noi, per cambiare qualcosa in noi stessi. Il piacere della relazione. Il poter realizzare il piacere altrui consente una “moltiplicazione” pressoché infinita degli oggetti d’amore ed è pur sempre una dimensione di erotizzazione che potremmo denominare “il piacere di far piacere” e che diverrà sempre più importante in una società che è sempre più basata sul servizio, sulla relazione. Cercare il lato utile, piacevole, simpatico, nell’altro, pur riconoscendone i fattori “meno digeribili” (parti da noi rimosse), sta alla base della creazione dell’altro come oggetto d’amore, come possibilità di aggressione benigna, come base del progetto per un benessere collettivo. L’unico modo per convivere nella pluralità è negoziare, lottare per. La probabilità di essere delusi o sconfitti fa parte del “gioco”, di tutti i giochi “di reciprocità”, quindi è scontata, deve stare nelle nostre aspettative almeno quanto la probabilità di deludere noi stessi. Il gioco sociale è sempre,prima o poi, un gioco di reciprocità. IL PENSIERO PLURALE CAPITOLO 5: Pluralità e gruppo. Il gruppo e il pensiero duale. L’approccio della psicologia definisce il gruppo: un insieme sociale e dinamico costruito da membri che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto (Lewin) e che si sono strutturati in forme diverse per il conseguimento di determinati obiettivi. Di qualsiasi natura siano gli obbiettivi di un determinato gruppo il loro conseguimento, o non, è in grado a propria volta di condizionare in modo determinante l’esistenza stessa del gruppo. Dinamica della sicurezza e della colpevolezza. La sicurezza è il sentimento dell’unità e la colpevolezza quello della dualità. La prima è collegata all’esperienza materna e la seconda a quella paterna. Il sentimento che consente utilmente di controllare la consapevolezza è il sentimento di appartenenza, cioè il passaggio dalla dualità alla pluralità; dall’esperienza materna, rassicurante, o da quella paterna, colpevolizzante, si giunge all’esperienza fraterna, pluralizzante. L’appartenenza che è sentimento fraterno, si fonda sul sentimento di sentirsi parte di qualcosa, che significa non sentirsi tutto. L’insicurezza è uno stato d’animo particolare, un “plus”, che viene vissuto da chi ha sperimentato la sicurezza. I sentimenti di insicurezza sono caratterizzati dal senso di pluralità, di gradualità, di probabilità. La colpevolezza è caratterizzata dal sentimento di dualità insanabile: contrasto fra ciò che faccio e ciò che dovrei fare. Il gruppo gioca un ruolo di primaria importanza nella dinamica della sicurezza come in quella della colpevolezza, ma emerge una terza dinamica nell’accezione di gruppo, quella dell’appartenenza. Tale dinamica diventa la conseguenza delle 2 precedenti: il gruppo è rassicuratore (unità) e terzo differenziatore, cioè permette di passare dal 2 della colpa al 3 dell’insicurezza. L’appartenenza è quindi il sentimento di essere parte, non tutto, e, più precisamente, è la lotta per l’appartenenza ad un’entità che è qualcosa di diverso e di più (l’idea di gruppo) della somma dei singoli membri. Il gruppo come ciglia di trasmissione.

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Per ognuno dei livelli di funzionamento sociale che caratterizzano lo sviluppo sociale dell’individuo – coppia, gruppo, collettivo, comunità – esiste una cultura particolare, un insieme di elementi diversi che connotano la relazione indipendentemente dai soggetti interessati. La dimensione che maggiormente denota e connota il rapporto sociale nella vita di ogni individuo è rappresentata dalla coppia. La cultura che caratterizza questa realtà costituisce il primo gradino di una scala numericamente sempre più complessa che trova la sua soluzione nella dimensione di comunità (insieme di organizzazioni) e nella relativa cultura che questa sottende. Questo passaggio da una cultura ad un’altra, che viene chiamato interfaccia, può anche essere definito mediante 2 parole ricorrenti: a) socializzazione (o passaggio dalla cultura di coppia alla cultura di gruppo); b) collettivizzazione (o passaggio dalla cultura di gruppo alla cultura di collettivo). Il piccolo gruppo, sia nella dimensione privata che in quella lavorativa, può essere considerato come una sorta di “cinghia di trasmissione” che agisce in 2 possibili direzioni: 1. dall’organizzazione all’individuo (il gruppo adempie a una funzione adattiva) e 2. dall’individuo all’organizzazione (il gruppo svolge una funzione innovativa). Gruppo e cambiamento. Per Lewin il gruppo è il luogo dove l’individuo costruisce la sua identità, dove sperimenta le limitazioni e le resistenze che lo aiutano a definire lo spazio vitale. I gruppi sono entità dinamiche che si stabilizzano intorno ad un equilibrio risultante da forze contrastanti. Le conseguenze di questa tendenza all’equilibrio sono, le resistenze o le spinte al cambiamento, che non sarà mai solo un cambiamento individuale ma coinvolgerà consistenti componenti sociali, microsociali e ambientali. Il cambiamento si attua in 3 passaggi: a) unfreezing (disgelo) messa in discussione dell’atteggiamento precedente; b) changing (cambiamento) nel senso di introduzione dei nuovi comportamenti che dovranno essere adottati; c) refreezing (ricongelamento) il consolidamento del nuovo atteggiamento. Il gruppo diventa lo strumento attraverso cui sperimentare le tecniche di relazione per verificarne l’efficacia. La dimensione sociologica, psicologica ed emotiva dei gruppi. I gruppi sono stati studiati da diversi punti di vista differenti: come realtà oggettiva (dimensione sociologica) e/o come realtà soggettiva (dimensione psicologica ed emotiva). La dimensione sociologica. La realtà sociale dell’individuo è caratterizzata dal suo vivere “con” e “in mezzo agli altri” in dimensioni e momenti diversi, che trovano un elemento comune nel termine “gruppo”. In base a questa osservazione il gruppo è una realtà oggettiva, comune a tutti noi. Le persone alla fermata di un autobus, per esempio, sono un gruppo, tuttavia non sono un gruppo dal punto di vista psicologico. L’uomo in un gruppo non è necessariamente passivo, ma può anche essere “attivo”. Il gruppo umano ha come elemento peculiare il carattere della “flessibilità”. Il termine “flessibilità” assume un duplice significato: da una parte evidenzia come l’individuo possa conservare liberamente una certa misura d’impiego nei confronti di gruppi diversi, dall’altra sottolinea la possibilità di assumere impegni diversi all’interno dello stesso gruppo. La dimensione psicologica. La psicologia ha evidenziato come il gruppo sia primariamente una realtà composta da singoli individui, ponendo così l’accento sui singoli elementi che lo compongono, che sono “membri di un gruppo” in quanto consapevoli di fare parte di un’entità che trascende le singole individualità. Quindi per “essere gruppo” è importante sentirsi “nel gruppo”, è necessario che la presenza degli individui sia accompagnata dalla consapevolezza, espressa dal pronome personale “noi”. Esiste un gruppo psicologico quando i suoi membri sono condizionati nel loro agire dal sentimento di appartenenza. La dimensione emotiva del gruppo. Le persone nei gruppi sono mosse prevalentemente da spinte emotive; ciascuno vive sensazioni molto vivaci e ambivalenti di potenziale minaccia (dolore), quindi di paura, ma anche di potenziale benefico,

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quindi speranza (calore, nella parabola dei porcospini). La dinamica affettiva di un gruppo espone ciascuno dei propri membri alla riattivazione di antiche e profonde angosce primarie fino a parlare di veri e propri processi psicotici. La forza e lo svilupparsi di queste angosce e il loro relativo manifestarsi nelle “fenomenologie di gruppo” vengono evidenziati e vissuti particolarmente nei gruppi di laboratorio come il T-group, anche se le stesse dinamiche accadono in ogni gruppo. La dinamica di gruppo. Spaltro la definisce come l’insieme delle vicissitudini che l’idea del gruppo ha nel corso dello sviluppo psichico individuale. Essa diventa il modo in cui un gruppo ci cambia ed in cui noi cambiamo il gruppo. Spaltro vede nella dinamica di gruppo un wishful thinking, un’idea forza trainante verso il cambiamento sociale.. Il gruppo è il luogo specifico della nascita del potere; più il gruppo va verso una forma di relazione sociale, abbandonando quella più rassicuratoria di coppia, più si evolverà da “gruppo autoritario” caratterizzato dalla “fissità” della leadership, a “gruppo autoritario” connotato dalla “circolarità” della stessa. La realizzazione del cambiamento della qualità del potere è legata quindi alla scelta riguardante la “direttività” o la “non-dirrettività” del gruppo. Essere direttivi significa concentrare il gruppo sul “singolo” visto come persona, concetto scopo; al contrario la non-direttività vuole offrire ad ogni membro del gruppo opportunità di influenzamento e potere. Finalità dei gruppi. Insegnamento, comando, aiuto; ogni situazione di gruppo è sempre un mix di queste tre dimensioni. Il gruppo è stato usato come tecnica per l’apprendimento, la leadership e la terapia. Gruppo e conflitto. Per Spaltro il gruppo può essere un gestore dei conflitti se lo si guarda come una “pluralità”, costituito da persone diverse, con motivazioni e capacità diverse, ecc… Attraverso un’efficace gestione del conflitto queste differenze, nella loro interazione, possono confluire nel conseguimento di obbiettivi organizzativi in un modo più soddisfacente di stare insieme. La consapevolezza della pluralità è il più alto patrimonio di un gruppo, ma per conseguirla occorre attraversare una certa dose di conflitto. In qualsiasi gruppo il conflitto ha un andamento caratterizzato da: crescita, acme e attenuazione. Questo andamento si manifesta attraverso precisi sintomi, che costituiscono le cosiddette “fenomenologie di gruppo”. Tipologie di gruppi. Ogni tipologia fa riferimento ad una scelta di criteri: Rapporto con la realtà sociale: quando è l’organizzazione a determinare la composizione e il carattere specifico di un gruppo ci si trova di fronte ad un “gruppo istituzionale” o gruppo formale. Nell’organizzazione però sono presenti realtà grippali ulteriori di tipo informale (come ha dimostrato Mayo), ovvero si vengono a sviluppare, sovrapponendosi o meno ai gruppi istituzionali, dei casi cosiddetti “gruppi spontanei” (l’organizzazione “informale”, intrecciandosi con la dimensione “formale”, darebbe origine all’organizzazione “reale”); Le norme e la struttura dei gruppi: le regole seguite dai membri del gruppo possono preesistere alla sua costituzione, oppure possono essere definite nel corso della storia evolutiva del gruppo. Non esistono gruppi senza regole e senza ruoli, ma la differenza consiste solo nel fatto che le regole e i ruoli possono essere ricevuti dall’esterno o sviluppati all’interno del gruppo stesso.; Interesse nei confronti del gruppo: i gruppi sono distinguibili sulla base dell’interesse che i membri del gruppo hanno nei confronti dell’entità grippale, in gruppi di base e gruppi di lavoro. Gruppi di base: il gruppo è un’occasione per “essere insieme” e i membri sono legati da vincoli di sangue, affettivi o di amicizia. In questi gruppi vengono privilegiati gli aspetti affettivi e relazionali. Gruppo di lavoro: è una modalità per realizzare forme più articolate, complesse e qualitativamente migliori di un determinato prodotto e/o servizio. In questo caso prevalgono i rapporti tra individui, la formalità, una certa

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“distanza”, l’impersonalità. Un gruppo di lavoro può essere considerato un gruppo istituzionale (essendo la sua esistenza prevista a livello organizzativo), tuttavia, per quanto riguarda le relazioni interpersonali fra i membri, esso può assumere il carattere di gruppo di base. Spesso proprio nei gruppi che funzionano meglio e più efficacemente si registra che il gruppo informale ha avuto la meglio sul gruppo formale, istituzionale e di lavoro. Ne deriva che quanto più la direzione mostra di non tenere in considerazione i bisogni sociali dei lavoratori ed i sistemi di valori da essi sviluppati, tanto più gli scopi dell’organizzazione informale divergeranno da quelli previsti dalla direzione generando conflitti, insoddisfazioni e disfunzioni che incideranno sulle finalità e sul rendimento dell’intera organizzazione. Tipo di obbiettivo che ha il gruppo: 2 tipi di obbiettivi: obbiettivo esterno al gruppo (gruppi orientati al compito); o gruppo che abbia come obbiettivo se stesso (gruppi orientati al gruppo). Gruppi orientati al compito: eterocentrati. Un gruppo è orientato al compito quando ha per obbiettivo quello di elaborare e7o modificare una realtà esterna al gruppo. Poiché questi gruppi hanno una struttura in gran parte prestabilità sono detti anche gruppi strutturati, gruppi naturali, in quanto operano nella vita quotidiana. Tali gruppi sono centrati sul contenuto, sul compito da svolgere. I gruppi si differiscono per i diversi tipi di compito: Gruppi con compiti esecutivi: in una organizzazione il gruppo è, anche formalmente, l’unità fondamentale attraverso cui avviene l’erogazione del servizio. Le organizzazioni sono sempre fatte da gruppi dal cui funzionamento dipende il successo, o meno, dell’organizzazione stessa. Il gruppo primario o di base se è opportunamente coordinato e valorizzato può contribuire molto positivamente alla produttività; Gruppi con compiti decisionali: i gruppi nelle organizzazioni sono quotidianamente impegnati nella soluzione di problemi e nella implicita presa di decisioni da questi sottesa. Nelle organizzazioni esistono anche gruppi che nascono con il preciso mandato di prendere delle decisioni; Gruppi con compiti creativi: in azienda a volte si verifica l’esigenza di ricorrere alla creatività per produrre qualcosa di nuovo, di inventare nuove utilizzazioni di vecchie risorse, ecc… A fronte di queste esigenze il gruppo costituisce una risorsa se gestito con tecniche appropriate. Una delle più diffuse tecniche di gruppo con compiti creativi è quella nota come “brainstorming”, la cui caratteristica primaria è l’eliminazione di qualsiasi forma di valutazione al momento della espressione delle idee da parte dei singoli. Il brainstorming si compone di 3 momenti: Fase di analisi e preparazione: ovvero di definizione e centratura del problema con i responsabili; Fase di ricerca collettiva e produzione di idee: è la fase propriamente di gruppo più tipica del brainstorming; Fase di eliminazione e di valutazione: le idee prodotte vengono elaborate, valutate e pianificate a fronte della fattibilità: risorse disponibili, vincoli esterni, ecc… Gruppi con compiti di qualità: i circoli di qualità, forma più diffusa di utilizzazione del gruppo in ambito organizzativo, partono dall’idea che sono i lavoratori ad eseguire i compiti quotidiani, sono loro ad essere più vicini ai problemi, e ovviamente, sono sempre loro ad essere spesso in grado di trovarne la soluzione migliore. E’ stato definito dalla J.U.S.E. “un piccolo gruppo che esegue volontariamente attività di controllo della qualità nell’ambiente in cui lavorano i propri membri”; Gruppi orientati al gruppo: autocentranti. Un gruppo è orientato al gruppo quando ha come obbiettivo sé stesso; i membri centrano la loro attenzione sui processi e sulle relazioni che avvengono nel gruppo stesso. Sono chiamati anche destrutturati, per l’accentuato interesse nei confronti dei processi piuttosto che per contenuti specifici. Questa tipologia di gruppo è utilizzata a fini formativi, poiché consente al partecipante di sviluppare una certa sensibilità alla dimensione grippale attraverso la conoscenza diretta degli elementi che determinano il funzionamento di un gruppo. Il T-Group: (laboratorio di sensibilizzazione). Ha come obbiettivo quello di aumentare le capacità umane, diminuendo quelle tecniche entro limiti ragionevoli. Ai partecipanti viene richiesto di

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partecipare a sedute di laboratorio centrate sull’analisi dei processi (tramite la tecnica del “qui ed ora”). Questa tecnica incoraggia alla percezione di fattori che avvengono nella situazione reale ed attuale del gruppo che sta agendo. L’espressione di questo percepire, muove il gruppo verso prese di decisione che mettono in gioco in maniera introspettiva le dimensioni della comunicazione, della partecipazione, del dare un nuovo senso alle proprie esperienze, agendole e non tramite la tradizionale conoscenza teorica. Relativamente al trainer, non dobbiamo dimenticare che il suo ruolo è quello di partecipante attivo. Attraverso il “qui ed ora” egli può evidenziare meccanismi di difesa, episodi, fenomeni che accadono all’interno del gruppo; deve interpretare tutto quello che avviene ma non deve esprimere in maniera “selvaggia” tutto ciò che intuisce, ma sapendo esprimerlo o tacere in funzione del clima, degli stati emotivi circolanti nel gruppo. Infatti la funzione più importante è attuata tramite la presenza: essa parla più delle parole. Il trainer svolge un compito limitatissimo, ma molto definito, che consiste essenzialmente nel favorire la formazione del sentimento di appartenenza al gruppo nel più ampio numero di partecipanti, nel garantire la permanenza del gruppo, impedendole la disgregazione e, infine, nel permettere all’atmosfera del gruppo di raggiungere l’apprendimento. Come afferma Spaltro, il T-Group costituisce “un mezzo di addestramento sperimentale alle relazioni interpersonali, in cui si realizza un apprendimento, esperienziale e non nozionistico, formativo più che informativo, che può disporsi su 3 livelli: 1) d’osservazione dei fenomeni e della dinamica di gruppo; 2) d’individuazione del proprio modo di essere in un gruppo; 3) del significato e delle possibilità di una relazione”; Il gruppo drammatico (o psicodramma): elaborato da J. Moreno (1953). Si tratta di un gruppo centrato sull’azione con finalità prevalentemente terapeutiche; Il gruppo non verbale (o bioenergenito): analogamente al gruppo drammatico è utilizzato prevalentemente con finalità terapeutiche ma, a differenza del gruppo drammatico, si fonda sull’esperienza corporea ed è centrato sulla presa di coscienza del proprio corpo; Il gruppo di incontro: concepito da Rogers, l’obbiettivo è la manifestazione esplicita dei sentimenti, delle emozioni soggettive e delle reciproche percezioni fra i partecipanti. L’apporto dei gruppi rogersiani in ambito aziendale appare limitato, soprattutto perché centrato sul compito di liberare quell’emotività che, nel quotidiano, gli schemi mentali tendono a reprimere; Il gruppo socioanalitico: si avvale del modello psicoanalitico, quindi del transfert per interpretare quanto accade nel gruppo. Questo metodo fu elaborato da Jaques (1951), uno degli obbiettivi che egli si pone attraverso il gruppo consiste nell’accettazione del conflitto sociale, della trasformazione individuale, del gruppo e dell’organizzazione. CAPITOLO 6: La fenomenologia dei gruppi. Esistono 2 livelli, paralleli e interdipendenti, sempre presenti in tutte le interazioni di gruppo: uno relativo ai contenuti con effetti sui compiti; l’altro relativo ai processi, il “come” del relazionarsi fra le persone, con effetti sul funzionamento del gruppo. A propria volta il “funzionamento del gruppo” ha effetti sulla capacità del gruppo di perseguire adeguatamente i compiti. Le principali fenomenologie di gruppo sono state descritte da Spaltro (1980), che le ha suddivise in tre macro tipologie: a) difese di gruppo; b) episodi di gruppo; c) fenomeni di gruppo. A. Le difese. Si tratta di sintomi in cui si rappresenta la difficoltà ad abbandonare, sul piano relazionale, i più rassicuranti rapporti di coppia (a due) rispetto a forme di coinvolgimento più estese ma incerte. Per accoppiamento si intende un dialogo costante tra 2 individui del gruppo non la tacita complicità degli altri. Per fuga nel passato si intende la trattazione di argomenti passati; consente alle persone di allentare la pressione delle problematiche presenti. Per fuga nel futuro si intende il prolungato soffermarsi inutilmente su argomenti futuri. Per fuga all’esterno si intende il discutere di argomenti esterni non strettamente a contatto con il gruppo stesso.

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Per spostamento del conflitto si intende lo smistamento delle discussioni e degli scontri reali tra i membri del gruppo verso lontani territori popolati da nemici irraggiungibili e immaginari. Per lamento per evitare l’aiuto si intende una difesa che consiste nel criticare per primi per non essere criticati (è una fase di leadership negativa ed ha una forte capacità di blocco del gruppo). Per attacco e fuga si intendono gli attacchi costanti a qualcuno del gruppo. (strategia della tensione). La formazione di sottogruppi è un’ulteriore forma di riconduzione del conflitto a due, non persone, ma gruppi. La personalizzazione di conflitti consiste nella convinzione che quanto accade fra le persone sia il frutto solo della personalità, o del carattere, dei singoli. Gruppo Primario: quando le persone del gruppo mettono in primo piano lo stare insieme. Gruppo Secondario (di lavoro): prevalgono i rapporti tra individui, la formalità, una certa distanze, l’impersonalità. B. Gli episodi. Si tratta di sintomi che si verificano nei momenti di massima conflittualità, in cui le persone stanno vivendo forti sensazioni di “staticità” e di “dubbio” se restare o uscire dal gruppo. Gli episodi più frequenti in un gruppo sono: Le condensazioni sono improvvisi sbocchi di problemi personali ed affettivi. Sono momenti in cui il gruppo primario si appropria di quello secondario. Per transfert in un gruppo si intende il trasferimento nel gruppo, da parte di uno o alcuni membri, di esperienze personali precedenti ed emotivamente significative. Per risonanza si intende il modo in cui una persona si sintonizza sulla lunghezza d’onda di un’altra persona o di molti altri all’interno del gruppo. La dipendenza p il momento in cui il gruppo si affida acriticamente a qualcuno che condurrà successivamente il gioco. La controdipendenza è il momento in cui le persone fanno esattamente al contrario, sempre in modo acritico, di quello che viene proposto da qualcuno. Dipendenza e controdipendenza sono due modi attraverso cui il gruppo concentra su qualcuno del gruppo l’aggressività circolante. La leadership fissa, forse il più tipico episodio di gruppo. E’ un ulteriore modo attraverso cui il gruppo riduce il conflitto riportandolo a due ma, nello stesso tempo se il gruppo prosegue nel suo sviluppo, svolge anche un’importante funzione aggregante. Se il gruppo prosegue nel suo sviluppo il leader viene presto esonerato. C. I fenomeni. Si verificano quando il gruppo sta vivendo una gestione positiva del conflitto. I fenomeni sono degli indici della diminuzione del conflitto e sono da considerare dei sintomi di lento ma progressivo “consolidamento” del gruppo. In altri termini il gruppo primario (affettivo) coesiste con il gruppo secondario (formale) ottimizzando le risorse di quest’ultimo. La socializzazione del linguaggio si riferisce al fatto che le persone cominciano inconsapevolmente ad usare il pronome 2noi” riferendosi al gruppo. Nell’interdipendenza diventa irrilevante chi sia colui che propone la cosa perché quello che conta è la cosa in sé, entrare nel merito del compito. La presenza di feed-back vivaci ma costruttivi. Il feed-back è la reazione di altri a quanto uno fa, dice o esprime. Il fatto che le persone giungano ad esprimere quello che pensano l’uno dell’altro vivendolo come un arricchimento, e non come un’offesa, è sempre indice di un’ottima socializzazione.

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La presenza del capro espiatorio consiste nella fissazione dell’aggressività sul soggetto più idoneo a riceverlo. E’ un modo attraverso cui l’aggressività dei componenti il gruppo si esprime con un minimo rischio, senza essere puniti. La circolazione della leadership si verifica quando da un leader fisso si sviluppa una funzione di leadership; ovvero si verifica il passaggio della leadership da un individuo ad un altro in funzione delle esigenze del gruppo, delle conoscenze dei membri e del compito. Consente l’ottimizzazione delle risorse del gruppo in funzione del compito, è funzionale, perché di fronte a un nuovo compito sarà funzionale un leader con caratteristiche e conoscenze diverse. L’accettazione delle differenze sottolinea l’avvenuto passaggio dell’interfaccia A. Accettare gli altri per quello che sono e che possono dare, senza esercitare eccessive pressioni conformistiche, è il segno di un gruppo maturo, che si sente forte e non più minacciato dalla devianza e dalla diversità. La leadership. L’emergere di un leader in un gruppo artificiale realizza l’unità del gruppo, perché consente ai membri di tollerare i sentimenti di insicurezza e i forti conflitti che persone stanno vivendo. Il conflitto stesso può essere considerato una lotta per la leadership. La circolazione di questa è indice del fatto che il gruppo riesce a vivere positivamente un pensiero plurale e si avvale di una pluralità di riferimenti. La differenziazione della leadership. In un gruppo istituzionale possono prodursi varie forme di leadership che spesso sono funzionali al compito. La struttura a 3 leader (uno formale, uno tecnico, uno affettivo) consente ai componenti del gruppo di trovare riferimenti univoci ma differenziati ad esigenze; questo permette al gruppo non solo di avere livelli di stress relativamente più bassi, ma anche una maggiore efficacia nel raggiungimento degli obbiettivi. Le persone grazie a questa configurazione della leadership sono meno impegnate in conflitti interni e possono occuparsi meglio degli obbiettivi esterni al gruppo. In molti gruppi di lavoro è riscontrabile l’esistenza di un certo conflitto fra leader gerarchico, espressione del gruppo istituzionale e leader socio/emotivo espressione del gruppo primario. Tra questi 2 un terzo costituito dal leader tecnico7funzionale è spesso utile nel ridurre pericolosi bracci di ferro fra i primi due. Si verifica un tentativo di leadership ogni volta che qualcuno tenta di influenzare il comportamento di un altro o di un gruppo. Diviene leader chi “percepisce i bisogni del gruppo e si sforza di soddisfarli”. Il “capo” e la leadership. Se il capo è un ruolo organizzativo, il leader è un fenomeno relazionale e di gruppo che nasce nel gruppo e ne esprime la vita emotiva. Pertanto in un gruppo di lavoro non è detto che il capo sia il leader, né il contrario. Il capo svolge effettivamente pochissime azioni di leadership, causa spesso di una forte conflittualità per l’individuo fra il proprio “essere” e l’”essere il capo”. Il capo che intenda sviluppare il proprio gruppo deve concepire il proprio ruolo come una funzione all’interno del gruppo (non come un’investitura) e quindi pensarci come una risorsa a disposizione del gruppo. CAPITOLO 7: Dal gruppo al collettivo. Il soggetto plurale. L’organizzazione è la rappresentazione di una soggettività plurale, è espressione della pluralità individuale che a sua volta impregna di per sé le individualità. E’ un insieme relazionale che si autoriproduce in una interazione continua con un ambiente più vasto che tende a modificare e da cui è modificato. Spaltro ipotizza 3 livelli di cultura, riconducibili ai diversi livelli di funzionamento sociale che i soggetti sperimentano nel loro sviluppo psichico e relazionale: la cultura di coppia, la cultura di gruppo e quella collettiva e organizzativa. La cultura prevalente nella nostra realtà relazionale è quella di coppia. Le tre culture. Il soggetto collettivo contiene in sé, conflittualmente ma inevitabilmente, sia il soggetto grippale che quello duale. Possiamo quindi parlare di soggetto collettivo come affermazione di pluralismo perlomeno a 2 livelli: quello interindividuale e quello intergruppale. Il soggetto collettivo può

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sviluppare la sua triplice cultura di coppia, di gruppo e di collettivo a seconda dei suoi ruoli, climi, scopi, bisogni e contemporaneamente ogni individuo sviluppato collettivamente avrà a sua disposizione tre culture. La relazione di coppia tenta di obbiettivizzare il collettivo, che è invece il regno del convenzionale. La relazione di coppia tende a distribuire sicurezza anche agli altri livelli, esportando però anche gli svantaggi. Più la situazione è contraddistinta da un basso livello di sviluppo socio/economico, più la cultura di coppia, o dell’obbiettività, avrà la prevalenza sulle altre, con la conseguente rimozione della soggettività e della strutturazione plurale dello spazio sociale. Aumentando le capacità soggettive nell’ambito delle 3 dimensioni aumenta il potere individuale e quindi l’efficienza del sistema interumano. Si possono considerare le 3 culture come 3 qualità del potere e non si può aumentare il potere interumano se non si affrontano i diversi salti culturali, acquisendone le specifiche capacità. Potremmo chiamare i vari salti transculturali: socializzazione (dalla cultura di coppia a quella di gruppo); collettivizzazione (dalla cultura grippale a quella collettiva); politicizzazione (dal livello collettivo a quello di comunità). Le zone di frontiera. Il passaggio dalla relazione di coppia alle relazioni a tre o più di tre rappresenta uno dei fattori di mutamento più significativo nella storia della società. Il concetto di gruppo nasce come modalità psichica di controllo dell’idea di pluralità e l’appartenenza è per l’individuo il sentirsi parte di qualcosa che va oltre i singoli componenti del gruppo stesso: è quindi una relazione plurale. L’interfaccia A. Ciò che avviene nei passaggi da una cultura ad un’altra è chiamato interfaccia. Fa riferimento ad un cambiamento di densità, cioè di qualità e di pressione sociale. L’interfaccia A è il passaggio dalla cultura di coppia a quella di gruppo e il suo cambiamento di qualità. In questo passaggio troviamo i comportamenti di gruppi che compongono quella che comunemente viene definita “dinamica di gruppo”. L’interfaccia B. L’interfaccia B è il passaggio dalla cultura di gruppo a quella del collettivo. Come nella dinamica precedente il livello successivo può essere visto come minaccia ed avremo quindi comportamenti che tendono a recuperare il più rassicurante livello micro, ovvero il livello di piccolo gruppo. E’ proprio l’eccesso di coesione e di sentimento e di appartenenza nel piccolo gruppo che diventa la resistenza massima al passaggio al grande gruppo, al collettivo. Le resistenze al processo di collettivizzazione sono definite alibi ed esprimono la paura del collettivo. Ci sono 5 tipi di alibi: l’alibi strutturalista: quando pensiamo che non sia possibile cambiare niente se non cambiando prima il sistema più vasto della struttura organizzativa e sociale intorno; l’alibi tecnocratico: non è possibile tentare un cambiamento intuitivamente, bisogna affidare ai tecnici la responsabilità del cambiamento collettivo; l’alibi corporativistico: il nostro gruppo vorrebbe cambiare ma gli altri glielo impediscono. l’alibi del falso nemico: si fonda sull’idea che le cose non sono mai regolate, ma ottenute attraverso la lotta. Per lottare c’è bisogno di un nemico e viene scelto quello “più comodo” così che, presi dai problemi irrilevanti, non siamo in grado di affrontare quelli veri; l’alibi intimista: tende a psicologizzare tutto, in modo che tutto si dimensioni in termini personalistici e, spiegando tutto in termini soggettivisti, si impedisca così di affrontare il collettivo. Come gli alibi sono le forme di resistenza nel passaggio dal micro al macro, così i fenomeni di sviluppo sono rappresentati da conflitti, contraddizioni e coalizioni. Il conflitto è l’origine della vita psichica delle organizzazioni, ma anche fonte di alcuni dei mali e problemi che ne disturbano il funzionamento. Lo sviluppo è rappresentato dal conflitto. Le contraddizioni sono da intendere come insuperabili dissidi e divergenze esistenti tra i protagonisti di un’organizzazione. Gestirli significa riuscire a spostare il conflitto dall’area del conflitto guerreggiato a quello del conflitto contrattato. Le coalizioni sono quei meccanismi che tendono a trasformare il pluralismo in dualismo. I collettivi definiti. L’efficienza.

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Uno dei problemi centrali di uno studio psicologico del comportamento organizzativo è la ridefinizione del concetto di “efficienza”. Non dobbiamo dimenticare che il problema dell’efficienza è offuscato dal problema della sicurezza, dato che per essere più efficienti si perde in sicurezza ed emergono nuovi rischi, costi, consumi, ecc… Ad ogni aumento di efficienza segue un grande bisogno di sicurezza, su cui interviene la rassicurazione collettiva dell’istituzione. Il problema è dunque aumentare l’efficienza ridefinendola, evitando di accrescere eccessivamente i livelli di insicurezza per non dare troppo spazio al ritorno della dimensione istituzionale che ricerca un congelamento duraturo. Il rischio è sempre al bivio fra iniziativa e sicurezza, proprio là dove si gioca il livello dell’efficienza. L’efficienza è il rapporto tra prodotto e costo e, secondo Spaltro essa è fortemente influenzata dal sentimento del poter, cioè dalla percezione di essere attivi, di poter attuare o impedire cambiamenti. E = k * P/C P è il prodotto, C è il costo, inteso come costo umano e K è il sentimento di potere. L’efficacia: E’ = P’/O P’ è il prodotto obiettivo realizzato (risultato), O è l’obiettivo che ci si era preposti. L’eccellenza: E’’ = P’ /Pmax P’ è il risultato ottenuto e Pmax è il massimo risultato ottenibile. L’organizzazione è frutto della convergenza di bisogni, desideri e opinioni diverse, negoziabili ai diversi livelli di socializzazione e progettabili in funzione delle diverse speranze. Le relazioni diventano il punto centrale per un funzionamento ottimale dell’organizzazione. Bisogna distinguere il concetto di relazione da quello di rapporto: la prima è soggettiva ed è rivolta all’efficienza, mentre il secondo è obiettivo e produce sicurezza. Le strutture organizzative possono essere considerate un insieme di rapporti, mentre i climi sono concepibili come insieme di relazioni. Istituzione ed organizzazione. Il successo organizzativo si fonderà sulla capacità di definire le relazioni esistenti, di modificarle, di inventarne delle nuove in funzione di una progettazione continua sempre più efficiente. Nella dimensione istituzionale prevale il concetto di sicurezza, nelle sue caratteristiche di unicità, necessità e globalità; nella dimensione organizzativa prevale invece il concetto di rischio, ovvero di insicurezza, con le sue connotazioni di pluralità, probabilità e gradualità. Freud indicò 2 pulsioni: la pulsione di morte e la pulsione di vita. La prima spinge alla ripetizione dell’identico, alla stasi, alla rottura dei legami; la seconda conduce alla ricerca del nuovo, al cambiamento, alla ricerca di legami. In tutti gli interventi di cambiamento organizzativo entrambe le forze sono necessariamente sollecitate, ed entrano inevitabilmente in gioco favorendo e/o ostacolando il processo di cambiamento. La logica istituzionale si fonda sul controllo della colpevolezza e dunque sulla dinamica della sicurezza, intesa come riduzione ad uno della dualità insostenibile e come immobilismo, contrapposta alla dinamica della colpevolezza, intesa come cambiamento. Nell’istituzione prevale una concezione del potere semaforica o a somma costante. In una organizzazione da un lato abbiamo il controllo della dualità/colpa tramite una unificazione repressiva, che alla lunga sfocia nell’istituzione; dall’altro abbiamo un controllo moltiplicatore e differenziatore che tratta la colpevolezza come una continua differenziazione ed adattamento alle mutate condizioni ambientali, che alla lunga porta all’organizzazione in senso stretto. Nell’organizzazione il concetto di potere è di tipo lievitativo, cioè a somma variabile e porta ad un maggiore risultato (in assoluto). Compito della psicologia che si occupa di collettivi è depotenziare l’anima istituzionale e potenziare quella organizzativa.. E’ fondamentale quindi determinare l’obbiettivo dell’efficienza di un collettivo, poiché tale obbiettivo è certamente conflittuale, variabile e flessibile, determinato e raggiunto usando un potere strumentale e complesso.

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La pluralità degli obbiettivi collettivi fa si che la loro raggiungibilità dipenda dalla loro compatibilità e non dalla loro uguaglianza. IL PENSIERO COMPLESSO CAPITOLO 8: Le teorie organizzative. Premessa. L’organizzazione è un’associazione di individui il cui scopo è raggiungere degli obbiettivi; nella quale il lavoro è suddiviso in differenti Task (specializzazione e differenziazione); nella quale l’integrazione delle attività è perseguita e realizzata per mezzo di regole formalizzate e di una struttura gerarchica; con una certa permanenza nel tempo. Quattro approcci tradizionali. 4 tradizionali approccio allo studio delle organizzazioni: Scientific Management (efficienza): (Taylor, 1911). Concentra la propria attenzione su come la capacità lavorativa degli individui possa essere utilizzata nella maniera più efficiente e in quale modo e misura le persone possono godere dei benefici di questa efficienza. Taylor ha elencato 4 principi che distinguono il management scientifico. Il manager: 1. raccoglie conoscenze (scienza) riguardo ogni aspetto del lavoro dei suoi impiegati; 2. lavora volentieri, “di cuore”, con i suoi subordinati per essere sicuro che il lavoro sia conforme alle direttive; 3. divide con i collaboratori e subordinati il lavoro e le responsabilità; 4. si preoccupa di creare e mantenere “intense e armoniose” relazioni con i superiori e i subordinati. La Tradizione Burocratica (protezione): seguendo le indicazione di Weber (1946/47), si possono elencare le seguenti caratteristiche dell’organizzazione burocratica: le attività che hanno luogo nelle organizzazioni sono raggruppate in compiti, i quali a loro volta sono raggruppati in posizioni (uffici). I compiti, le mansioni che costituiscono un singolo ufficio devono essere di competenza della persona che verrà posta a capo di quell’ufficio, all’interno del quale ognuno svolge una parte del lavoro; le posizioni sono organizzate gerarchicamente; le attività sono guidate da un sistema coesivo di regole; il comportamento degli individui deve essere formale e impersonale; il lavoro si fonda sulle qualifiche tecniche e professionali. L’Approccio delle Relazioni Umane (bisogni): questo approccio studia come i bisogni delle persone possono essere conciliati con gli obbiettivi organizzativi. Fa perno sul riconoscimento di una “logica dei sentimenti” nelle organizzazioni, coesistenti e talvolta concorrente alla logica “economica”. In sintesi: l’organizzazione è un sistema: se un elemento cambia, l’intera organizzazione cambia; l’organizzazione è composta da gruppi di individui; nell’organizzazione è attiva una logica dei sentimenti; ogni organizzazione vive anche ad un livello informale; nelle organizzazioni ha luogo un continuo processo di valutazione sociale. Scientific Aministration (gestione/efficacia): può essere considerato uno sviluppo pragmatico dell’idea burocratico, nel suo intento di fornire direttive su come l’organizzazione può venire gestita efficacemente. I principi più importanti sono: principio scalare: la scala gerarchica; principio dell’unità di comando: ordini e istruzioni devono essere ricevuti da una sola persona; principio dell’eccezione: ai superiori competono solo le questioni eccezionali; principio dell’ampiezza del controllo: il numero dei subordinati deve essere limitato a quelli che si è effettivamente in grado di controllare; principio della specializzazione e dipartimentalizzazione: il lavoro distribuito deve essere raggruppato in dipartimenti secondo criteri di omogeneità sulla base di : obiettivi; processi;

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clienti; mercato o materiali; dislocazione. Gli approcci Individuo – Organizzazione – Ambiente. Efficienza, controllo e motivazione sono i problemi esistenti nella relazione individuo – organizzazione – ambiente cui le organizzazioni devono porre attenzione. L’approccio struttural – funzionalista (organizzazione/ambiente). Si fonde sull’ipotesi che le organizzazioni abbiano una funzione (che costituisce il loro obbiettivo) all’interno del loro ambiente. Le organizzazioni devono essere considerate sistemi naturali (Katz e Khan, 1966), che perseguono la sopravvivenza attraverso l’adattamento. Significa che i cambiamenti devono essere spiegati in termini di adattamento dell’organizzazione a perturbazioni interne ed esterne. L’approccio integrazione – motivazione (organizzazione/individuo). Argyris (1957/59/64) sottolinea che le organizzazioni formali burocratiche, richiedono un comportamento passivo e dipendente agli individui adulti, specialmente a quelli che rivestono ruoli a bassi livelli. Questo è particolarmente frustante per gli individui, che reagiscono in modi diversi (aggressività, apatia) che contrastano gli obbiettivi di efficienza diminuendo la motivazione. E’ dunque importante perseguire una migliore congruenza tra i bisogni dei membri, Task e strutture dell’organizzazione. La soluzione, secondo l’autore, è prevedere il massimo grado di autonomia possibile per gli individui, assieme ad una chiara definizione dei ruoli e delle mansioni, accettando che la struttura, lo stile della leadership, ecc…, possano cambiare con la situazione. Likert sottolinea che il superiore non deve interagire con i singoli individui separatamente, ma con l’intero gruppo come “squadra”, riuscendo così a sviluppare una reciproca fiducia e lealtà che aiuta a superare i conflitti e rende gestibili obiettivi e interessi diversi. La Teoria dei Sistemi Aperti. Un sistema può essere definito un insieme di elementi che possono essere isolati dalla realtà totale. Questi elementi hanno relazioni tra loro e possibili relazioni con altri elementi della realtà totale. Dato che il sistema può avere relazioni con elementi esterni, il sistema diviene un sistema aperto, che interagisce con l’ambiente, acquisendo così un carattere dinamico. Le organizzazioni sono i sistemi aperti la cui “superficie” appare ragionevolmente stabile. Questa stabilità è raggiunta perché gli elementi nel loro cambiamento sono compensati da cambiamenti all’interno dell’organizzazione: l’organizzazione mantiene un equilibrio dinamico. Il modello sistemico è un modello di scambio. L’unico modo per comprendere il comportamento di un’organizzazione è considerare gli individui in termini di interrelazioni che intercorrono tra loro. Gli approcci strutturali. Alcuni approcci si concentrano sulla determinazione e sul ruolo della struttura nelle organizzazioni. Le tipologie di struttura. Tipologie di struttura che si trovano nelle organizzazioni: struttura per funzioni: questo tipo di struttura interferisce con le esigenze di integrazione dell’organizzazione, favorendo la suddivisione in “parrocchie” e la creazione di sottogruppi; struttura divisionale o per prodotto: il criterio di formazione di questa struttura è l’appartenenza o l’attinenza ad una linea di prodotto. In ogni divisione si ritrovano tutte le funzioni (marketing, produzione, ecc…), relazionando un accentramento delle responsabilità relative a quello specifico prodotto che richiede però una duplicazione di posizioni e attività, a differenza della struttura per funzione. struttura matriciale: combinazione delle 2 precedenti: i professionisti della stessa area dipendono da un’unica unità organizzativa, ma lavorano all’interno delle divisioni o gruppi di progetto che richiedono il loro contributo.

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L’Approccio della contingenza (riduzione dell’incertezza). L’idea centrale di questo approccio è che quanto più la struttura è adatta alla domanda interna ed esterna, quanto meno sono le incongruenze, le contraddizioni nella struttura, tanto maggiore sarà l’efficienza dell’organizzazione. Proporzionalmente al crescere delle incertezze che un’organizzazione deve fronteggiare, debbono crescere il grado di differenziazione e l’integrazione. Le Teorie del Decision – making. E’ un processo continuo; le decisioni sono prese in modo razionale, definendo razionale la scelta tra alternative tale che il risultato atteso rappresenti il massimo risultato possibile, date le informazioni possedute dal decision – maker (individui, gruppi, organizzazioni). Se il processo che determina la composizione di una struttura organizzativa è il comportamento di un’organizzazione è così irrazionale e sensibile a molteplici tipi di disturbo, è impossibile, per definizione tentare una spiegazione delle organizzazioni per mezzo di una rappresentazione razionale. Organizzare è un processo che tenta di conciliare l’inconciliabile. Gli approcci centrati sugli obbiettivi. La caratteristica forse più distintiva della definizione di organizzazione è quella dell’essere tesa e finalizzata al raggiungimento di obiettivi. Cyert e March (1959/63), considerano una organizzazione come una coalizione, all’interno della quale operano sub-coalizioni differenti. Ogni decisione deve essere presa nel rispetto di innumerevoli e peculiari fattori organizzativi (costi, qualità) che restringono lo spettro delle decisioni e, soprattutto, ogni decisione costituisce un vincolo per decisioni successive. La totalità degli obbiettivi e/o dei vincoli si comportano come un sistema. Certe decisioni e le azioni organizzative che ne derivano sono in primo luogo determinate dalle relazioni tra le differenti richieste presenti nel sistema organizzativo. Gli obbiettivi organizzativi sono instabili e non chiaramente definiti, risultato di un implicito ed esplicito processo di negoziazione che ruota attorno ad un più o meno stabile set di mansioni e attività (l’organizzazione). Gli approcci dialettici: organizzare VS organizzazione; processo VS struttura. (non tenta di spiegare le contraddizioni, ma le riconosce come proprietà). Benson (1977) chiarisce che lo studio delle organizzazioni deve avere un approccio essenzialmente dialettico, e considerare le organizzazioni come un tutto, con una sua molteplicità di livelli e settori connessi tra loro in vari modi. Si possono differenziare 2 livelli: livello morfologico: si riferisce ad una organizzazione astratta dalla realtà quotidiana (il profilo che dovrebbe avere, come raggiungerlo, i suoi effetti); il livello delle substrutture: si riferisce agli aspetti irrazionali, alle interazioni che agiscono da catalizzatori dei cambiamenti e delle soluzioni della struttura formale. Anche in questo approccio l’organizzazione è vista come un produttore di contraddizioni; si differenzia dagli altri perché non tenta di spiegare (e quindi di risolvere) le contraddizioni, ma le riconosce come una proprietà fondamentale dei processi sociali organizzativi. CAPITOLO 9: Le mete organizzative. Cultura, organizzazione e complessità. All’immagine della gerarchia strutturale la cultura della complessità oppone quella di una struttura policentrica: all’immagine della piramide sostituisce quella della rete. La conseguenza più importante dell’approccio in questione è l’inserimento dell’attore dentro il sistema, evidenziando così le dimensioni relazionali e dando rilevanza all’interpretazione, alla comprensione, quindi al linguaggio, alla comunicazione, al dialogo, al consumo. L’approccio della complessità dà centralità alla cultura. Teoria delle contingenze strutturali: assume l’invalidità di conoscenze obiettive e della pianificazione a lungo termine afferma implicitamente la non conoscibilità e l’impossibilità di quantificare nel lungo periodo, valorizzando criteri di decisone estemporanei, capaci di contemplare ed affrontare gli imprevisti. Se la cultura è l’insieme dei modi di pensare, e relative interiorizzazioni che influenzano lo scambio dei messaggi affettivi tra individui e gruppi nelle organizzazioni, è chiaro che essa non può essere vista

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come qualcosa di compatto e di univoco. La cultura, ovvero l’organizzazione, è ambito di conflittualità diffusa e fluttuante. Le organizzazioni come sistemi di significati, credenze e valori condivisi dai membri delle stesse. Le metafore organizzative. Il Modello Meccanico. La forma organizzativa è caratterizzata da: ciascun compito o ruolo è definito con grande dettaglio e precisione; responsabilità ed autorità chiaramente definite, delegate e controllate per via gerarchica; cultura connotata da dipendenza ed esecuzione, le direttive provengono dall’alto verso il basso. La rigidità burocratica di questo modello, con le sue procedure standardizzate e con i suoi canali precostituiti, è inadatta ad affrontare con efficacia situazioni inattese. Il modello meccanico spinge gli individui ad un comportamento superficiale e deresponsabilizzato, porta alla svalutazione dell’entusiasmo e della progettualità individuale. Il Modello Organico. La metafora dell’organismo evoca un sistema aperto. I compiti individuali non sono molto preciasati e vengono continuamente ridefiniti; le responsabilità e gli obblighi sono diffuse in tutta l’organizzazione, le comunicazioni si muovono in tutte le direzioni. L’attenzione sistematica alla soddisfazione dei bisogni sostiene ola vita stessa dell’organizzazione. Vantaggi: Il processo organizzativo esprime qualcosa di più significativo ed essenziale del puro e semplice raggiungimento di obbiettivi parziali e specifici; e sono proprio tali obiettivi motivanti a creare una gratificazione crescente per uno sviluppo dinamico rivolto al cambiamento. La sopravvivenza di queste forme organizzative si basa sulla creatività degli individui. Svantaggi:Il concetto di armonia è spesso fuorviante nell’organizzazione, poiché le contraddizioni, i conflitti, le asimmetrie permettono all’organizzazione stessa di auto-riprodursi in maniera vitale, innovativa, non ripetitiva. Il Modello a Rete. Con il termine rete si richiama il processo di decentramento di attività da una impresa centrale verso unità sub-fornitrici, le costellazioni di imprese, distretti industriali, i sistemi di imprese su base associativa o di servizio e gli accordi. Il sistema quindi non ha né un inizio né una fine, un confine infatti romperebbe l’intera catena di relazioni che si istaurano tra i diversi elementi. Si parla così di autopiesi dei sistemi, che si autoriproducono in quanto ogni elemento diventa parte dominante per assicurare il proprio mantenimento e quello di tutti gli altri elementi della catena. L’economia delle reti sviluppa potenzialità nuove che l’impresa è in grado di sfruttare solo dissociandosi dalla gerarchia. L’impresa cerca dunque di creare un’organizzazione policentrica, una struttura policellulare, indicatore di un meccanismo in divenire, tale da rendere efficace l’intenzione dell’impresa nelle sue parti e nel suo insieme con l’ambiente esterno, capito per svilupparsi in armonia con esso. L’interazione è operazione complementare fra diverse imprese, il cui contributo arricchisce l’intera strategia competitiva, trasformandola in quello che M. Rosa, come Mintzberg chiama “competizione”. La rete diviene la risposta più consona alle situazioni che prevedono condivisioni di esperienza e informazioni fra le parti al fine di garantire un rapporto collaborativi. L’energia è potenzialmente disponibile in ogni punto della rete, e ogni nodo è apportatore di propri caratteri che arricchiscono la rete stessa; si può anche parlare di reversibilità in quanto l’uso dell’energia non intacca il potenziale complessivo. Il potenziale energetico complessivo si rinnova in ogni momento, senza subire cambiamenti si stato che alterino la sua natura nel gioco frenetico delle relazioni. L’organizzazione a rete è in ogni caso “l’organizzazione per imparare”. L’alta interazione tra le parti propone la rete come disegno organizzativo fortemente dissipativo e creativo”. Ogni nodo non svolge funzioni meramente esecutive ed ha un potere contrattuale collegato alle conoscenze specifiche che può apportare. L’interdipendenza dinamica fra le pareti è condizione assoluta dell’esistenza della rete, ma il nodo non deve in alcun modo essere o sentirsi obbligato ad essere parte della rete. Esistono diversi tipi di realtà aziendali riconducibili a reti: le reti diffuse, quando una rete ha come nodi persone che fanno parte della stessa organizzazione;

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le reti dinamiche, quando siamo in presenza di nodi appartenenti a realtà gerarchiche diverse; In ambedue i casi sopramenzionati si può parlare di “imprenditorialità diffusa coordinantesi”. le imprese reti, quando una stessa organizzazione è suddivisa in sottoinsiemi in relazione reticolare tra loro; le reti di imprese, queste possono dividersi poi in dinamiche (deboli) o gerarchiche (forti). Le reti diffuse e il soggetto. Il problema del soggetto in questa prospettiva è quello di riapprovarsi del significato dell’azione organizzativa. La sua autonomia può essere considerata un processo di conoscenza che porta alla costruzione della realtà secondo le forme consentite della propria organizzazione interna. Secondo Landier (1987) assistiamo, per quanto riguarda la centralità del soggetto, all’azione di due tendenze alienanti osservabili nella dimensione psicosociale. Una che si manifesta come eccesso di socializzazione, per cui il soggetto fruisce contemporaneamente di molti ruoli con il conseguente rischio di indebolire la propria identità personale. Una seconda tendenza è relativa ad un rafforzamento dell’autoreferenzialità dell’attore sociale, ovvero un prevalere di investimento di energia psichica sul sé, più che sugli oggetti esterni. Il problema è dunque ricercare una attenuazione di queste forme di esproprio e di repressione addizionale tramite la ricerca di spazi di espressione e di autonomia, spazi soggettivi ed operativi, in cui l’individuo possa allontanare le minacce di spersonalizzazione senza perdere di vista l’interazione con gli altri, per mezzo di una presa di coscienza, attraverso una continua riprogettazione della dimensione relazionale che l’individuo agisce e della quale è continuamente definito e ridefinito. L’organizzazione a rete si basa sulla capacità di agire relazioni interpersonali che diventano condizione e vincolo all’espressione del metamodello delle reti diffuse. Informatica, reti e clienti. La possibilità offerta dall’evoluzione dell’informazione tecnologica ha reso possibile il dare vita ad imprese che possono coniugare elevati livelli di integrazione con elevati livelli di parcellizzazione sul territorio, delle funzioni o delle fasi di produzione, il tutto in un quadro di autorganizzazione e di costrategia che non necessita di coordinamento e controllo neppure a livello strategico. L’impresa viene percepita in funzione dei lavoratori di prima linea, che oggi assumono valore di sensori indispensabili all’espressione di costrategie in quanto gli uomini a diretto contatto con i bisogni della clientele. Si capovolge l’organizzazione e si guarda dalla prospettiva del cliente, i vari livelli gerarchici sono giustificabili solo se aggiungono valore al lavoro sul campo. La gerarchia viene così riproposta come struttura di supporto e non più come strumento di dominio. Le reti a legame debole. Dalla letteratura che si ispira al modello weberiano, siamo portati a considerare l’organizzazione come un qualcosa di razionale che in modo meccanicistico stabilisce relazioni, connessioni nei termini della linearità causa-effetto. Questo tipo di approccio fu messo in crisi dalla trattazione dello psicologo del lavoro Karl Weick, che avanzò l’ipotesi che alcune organizzazioni, nel loro assetto strutturale, fossero qualcosa di assai diverso dal modello burocratico. Un’organizzazione è quindi a legame debole quando le sue articolazioni sono dotate di forte autonomia e indipendenza o interdipendenza generica. Certamente non è pensabile una struttura costituita solo da legami deboli, poiché porterebbe fatalmente alla dissoluzione dell’organizzazione, come è altrettanto insostenibile un organizzazione a legami troppo rigidi, costituita soltanto di relazioni forti, poiché il sistema andrebbe incontro ad un congelamento, divenendo sempre più incapace di produrre cambiamenti interni ed esterni ai soggetti. CAPITOLO 10: Il conflitto. Il conflitto è una qualità umana, come il mangiare, il bere, solo che non si riferisce ad una qualità individuale, ma ad una qualità relazionale. Il conflitto è presente in ogni situazione lavorativa; ogni organizzazione deve quindi essere anche un modo di amministrare uno o più conflitti. Nelle organizzazioni, dove si instaurano particolari relazioni, si costruiscono e si vivono particolari tipi di conflitto, che divengono elementi determinanti per il perseguimento e il raggiungimento dei fini

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organizzativi. Organizzare significa massimizzare l’utilità che deriva dai conflitti e dalle relazioni interpersonali, sociali e collettive. La letteratura e il concetto di conflitto: una sintesi. In generale, parlando di conflitto ci si riferisce a situazioni in cui vi siano circostanze, motivi, scopi, comportamenti, impulsi, ecc… reciprocamente antagonisti. La psicoanalisi (Laplanche Pontalis) individua un conflitto quando nel soggetto si contrappongono esigenze interne contrastanti. Freud riconduce il conflitto psichico ad un dualismo irriducibile, fondato su un antagonismo tra 2 grandi forze contrastanti. Lewin definisce (1955) il conflitto come una situazione in cui forze contrapposte di intensità pressoché uguale vengono attivate simultaneamente in un individuo. In termini di dinamica di gruppo (Spaltro, 1990), poiché livelli di funzionamento sociale sono essenzialmente 3 (coppia, piccolo gruppo, collettivo) il confronto fra 2 forze agenti a livelli diversi potrebbe portare ad una situazione conflittuale. Si possono individuare alcuni caratteri generali: il conflitto agisce a vari livelli: intrapsichico, interpersonale, di ruolo, ecc: e presenta molteplici tipologie; il conflitto è spesso un tentativo di compiere una scelta ottimale entro una varietà di opzioni (Coombs e Avrunin, 1988); le opzioni sono sostenute da forze contrapposte di intensità pressoché uguale attivate simultaneamente (Lewin); il conflitto è connesso a situazioni in cui si presentino possibilità alternative di azione, le opzioni si autoescludono; il conflitto può essere sempre ricondotto ad un dualismo irriducibile date le condizioni esistenti. Tipologie di conflitto. Lewin (1953) distingue 3 tipi principali, ed una variante: conflitto avvicinamento – avvicinamento (approach – approach conflict): conflitto che deriva dall’essere spinti verso 2 traguardi ugualmente desiderabili, ma reciprocamente incompatibili. Es: l’asino di Buridano; conflitto avvicinamento – esitamento (approach – avoidance conflict): conflitto che risulta dall’essere sia attirati che respinti dallo stesso traguardo. Questo tipo di conflitto è particolarmente difficile da risolvere, in quanto con la distanza, il traguardo appare più desiderabile che temibile, mentre con la vicinanza tendono a dominare le sue qualità negative. 2bis) conflitto da duplice avvicinamento – esitamento: variazione del semplice conflitto avvicinamento – esitamento, nel quale due traguardi hanno aspetti sia positivi che negativi. conflitto di esitamento – esitamento (avoidance – avoidance conflict): conflitto che risulta dall’essere riluttante verso 2 traguardi ugualmente indesiderabili, in presenza di forti pressioni a scegliere l’uno o l’altro. Un’altra classificazione delle tipologie di conflitto è quella elaborata da Coombs (1988), che distingue 3 tipi di conflitto: intrapersonali, insorgono quando un individuo è combattuto tra scopi incompatibili; desiderio di mangiare e voglia di fare il bagno in mare; interpersonali con doppia opzione e una soluzione, che insorgono quando due o più individui vogliono cose differenti, ma debbono farne una sola, la stessa e insieme; dove andare al cinema; interpersonali con unica opzione e soluzioni plurime, che insorgono quando due o più individui vogliono la stessa cosa, ma devono fare cose differenti; due uomini corteggiano la stessa donna. Spaltro aggiunge altre tre categorie alla classificazione di Coombs: intrapersonali ritardanti o temporaneamente dislocanti, in cui le opzioni sono diluite nel futuro, nel tempo, e non sono di necessità incompatibili; meglio un viaggio oggi o uno fra un mese; inconsci, in cui due o più individui devono decidere in mancanza di obiettivi coscienti, quindi in condizioni di istintività rispetto allo status quo;

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socializzanti, in cui due o più individui devono prendere una decisione che coinvolge categorie di equità e giustizia interiori, contrapponendo utilità personale e utilità percepita di gruppo. Riferendosi in specifico all’ambito dell’azienda, i conflitti si sviluppano nell’impresa a tutti i livelli e per varie ragioni. Nel contesto organizzativo si possono scegliere criteri differenti per distinguere i conflitti. Fustier (1975) propone diversi tipi di classificazioni. Una prima classificazione è fatta in base ai soggetti “opposti”: conflitti individuali, conflitti da uguale a uguale, conflitti ideologicamente neutri, conflitti spontanei, conflitti con finalità costruttive e conflitti con finalità distruttive, conflitti d’avere. Una seconda classificazione dei conflitti nell’impresa è fatta in base alla natura dell’oggetto del conflitto: sui fatti, sulle cause, sugli obbiettivi, sui valori. Una terza classificazione riguarda le cause dei conflitti nelle organizzazioni, che possono essere raggruppati in 4 classi: l’interesse diretto, le condizioni sociali e l’organizzazione, le tensioni psicologiche, le divergenze intellettuali. Conflitti nell’impresa. La complessità delle istanze che caratterizzano il contesto organizzativo facilitano l’insorgere di conflitti, le relazioni industriali possono essere considerate un sistema per la gestione della conflittualità lavorativa, per mezzo di modelli conflittuali, allo scopo di ottenere una massima utilizzazione delle risorse umane e delle relazioni interumane in modo parallelo, sia nella progettazione che nella gestione delle situazioni conflittuali. Le organizzazioni quasi sempre costringono gli individui a collaborare per un obbiettivo comune pur essendo in lotta gli uni contro gli altri per l’ottenimento di risorse limitate, per gli avanzamenti di carriera, di status. La qualità femminile e la qualità maschile nelle organizzazioni. Un problema che sta lentamente ma progressivamente emergendo è dato dall’esigenza di un recupero della soggettività femminile nel lavoro. Le organizzazioni dovranno femminilizzarsi, dovranno recuperare tutta una serie di (sensibilità) caratteristiche, che si sono evidenziate come patrimonio del femminile più che del maschile nello sviluppo culturale dell’occidente. L’attenzione alla relazione, la resistenza allo stress, l’orientamento ai segnali deboli e altro ancora, sono certamente caratteristiche sviluppatesi storicamente più nel genere femminile che in quello maschile. La dinamica del conflitto: conflitto, dualità e senso di colpa. E’ importante focalizzare la natura duale del conflitto. La dinamica dei conflitti si colloca in una logica dualistica del tipo lewiniano approach – avoidance (avvicinamento – allontanamento). La sua natura prevalentemente dualistica fa entrare il conflitto nel campo dei sentimenti di colpa, fenomenologicamente definibili come sentimenti di dualità insanabili; la dualità porta con sé dei vissuti di colpa, frutto del conflitto tra essere, potere essere e dover essere. Per questo motivo, uno studio dei conflitti deve comprendere uno studio della colpevolezza, aspetto fondamentale e costante di ogni sentimento di conflittualità. Non vi è conflitto se non vi è ambivalenza e colpevolezza. Le caratteristiche del senso di colpa secondo Cargnello (1965) sono: il vissuto di dualità irrisolvibile; la destrutturazione del tempo; la perdita del socio; la necessità impellente e coatta di controllare questi sentimenti dolorosissimi e paurosissimi. Il conflitto fa perdere il socio e crea, attorno a chi vive il conflitto l’universo della colpa, un sentimento di solitudine a volte “contro” tutti gli altri, la paura di sbagliare, di essere puniti. Le strategie di controllo e gestione del conflitto. Le reazioni ad un vissuto di colpa derivante da un conflitto possono essere diverse. I sentimenti di alienazione e solitudine possono condurre alla creazione di un “nemico”, di solito falso, che possa essere accusato in vece nostra e che incarni un socio, se pur negativo, che consenta di ricostruire uno spazio di relazioni. Molti nemici nel contesto organizzativo rappresentano un modo di sopportare sentimenti di colpa altrimenti intollerabili. Un criterio di studio delle modalità di reazione al conflitto è quello che si fonda (Spaltro, 1991) su un collegamento diretto tra atteggiamento nei confronti del conflitto e livello di socializzazione raggiunto (coppia, gruppo, collettivo). Si individuano 3 diversi atteggiamenti che sono:

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C.U.R: controllo unificante rimotivo o riduttivo (è l’atteggiamento più frequente). Corrisponde alla classica concezione tayloristica dell’organizzazione, intesa come eliminazione del conflitto tramite la parcellizzazione del lavoro e la delimitazone netta delle aree di influenza; C.M.E: controllo moltiplicante espiatorio. E’ un atteggiamento progressista che tende a non soffocare il conflitto, ma a mediarlo e risolverlo. Ad esso corrisponde una continua “triplicazione” della situazione psicologica, seguendo la logica o dell’espiazione o della mediazione del “terzo partito” cui possono convergere sia interventi di consulenti sia somatizzazioni, lavori di gruppo, policrazia e non direttività, differenziazioni della leadership e organizzazioni flessibili, con divisioni e numeri “dispari” che consentono una punizione esemplare; C.C.C: controllo conflittuale conservativo. Considerato l’atteggiamento ottimale, rarissimo, una specie di forza utopistica. E’ un atteggiamento di controllo del senso di colpa che avviene mediante una sopportazione dello stesso, una messa a punto delle nostre capacità di sopportare la dualità, tanto da permetterci di vivere il conflitto e di “gestirlo” nei suoi termini originali, senza bisogno di reprimerli o moltiplicarli per evitare l’insopportabile contrapposizione di istanze. Il C.C.C. corrisponde ad un atteggiamento positivo verso il conflitto. Sopportare il senso di colpa significa allenarsi ad affrontare produttivamente una società conflittuale complessa basata sul modello dialettico del pensiero duale come normalità e non come incidente o necessità di momenti eccezionali della vita psichica. La logica del conflitto. La logica conflittuale è strettamente legata alle relazioni interumane e al loro utilizzo per impiegare l’energia psichica. Questa, cioè l’investimento in oggetti d’amore, coincide spesso con il sentimento del potere e con l’euforia – ricchezza psichici, contrapposti al sentimento di impotenza e alla depressione – povertà psichica. Un conflitto è sempre al bivio tra processi di espropriazione – approvazione, e dunque connesso con un dilemma tra povertà e ricchezza energetica. La paura della povertà energetica o la speranza della ricchezza, rappresentano un punto fondamentale per il trattamento del conflitto. Il modo è la questione dell’utilizzo delle energie psichiche disponibili collegata alla situazione conflittuale, che pone in primo piano il problema del rapporto tra desiderio/opzione e repressione/preferenza. Non vi è desiderio senza repressione, l’eccesso di repressione rende la scelta obbligata, ma radicalizza la frustrazione dovuta alla repressione del desiderio. La liberazione sta nell’equilibrio tra desiderio e repressione: se prevale il desiderio può esservi rivolta, anarchia; se prevale la repressione si deve affrontare il problema della frustrazione. Conflitto e cambiamento. Cambiare significa dover gestire un conflitto. Cambiare fa paura, poiché significa generalmente abbandonare una situazione che in precedenza era ritenuta adeguata, o comunque nota, a favore di una situazione nuova e non sperimentata. Esiste anche l’ansia che è un’altra paura legata al cambiamento, detta anche paura senza oggetto. E’ un sentimento legato a 3 dinamiche: la dinamica della sicurezza/insicurezza, della colpevolezza e dell’appartenenza/alienità, caratterizzate dal fatto che tutte e tre implicano il vissuto di una dualità. In un processo di cambiamento/evoluzione l’impossibilità di “fermare” queste dinamiche su un fronte rassicurante (certezza, sentimento di essere nel giusto, appartenenza), l’alternarsi di sentimenti contrastanti è fonte di ansia e, in alcuni casi, di angoscia. Il fenomeno del cambiamento può rappresentare la rottura di una unicità forse duramente conquistata: quella della propria identità. Sul lavoro ci si crea una specie di immagine che, bene o male, ci rappresenta nella società. Essa è fatta di aspettative e di e di riconoscimenti, di potere e di privilegi accumunati nel tempo in un determinato contesto. Se questo contesto cambia si dovrà ricominciare tutto da capo. La reazione di panico si scatena il più delle volte quando un individuo passa da un livello di funzionamento ad un altro. Il cambiamento può sommare diverse tipologie di conflitto, ed essere reso ancora più minacciante e faticoso della necessità di effettuare, oltre ad una ristrutturazione della propria identità, una scelta fra alternative nell’ottica lewiniana approach – avoidance, quindi sommando alla paura del cambiamento il senso di colpa legato alla conflittualità. Tecnologie di intervento sul conflitto.

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Una prima distinzione va fatta tra le metodologie a – conflittuali, che tendono a sottovalutare la funzione del conflitto, e metodologie conflittuali, che tendono a centrare l’intervento sulla possibilità di una conflittualità “giusta”, “normale”, produttiva. Un’altra distinzione è quella relativa alla tripartizione classica degli interventi sociali distinguibili in: interventi di comando (o influenzamento); interventi di insegnamento (informativi o didattici) e interventi di aiuto (o terapeutici). In questa tripartizione si trova tutta la gamma di interventi sulle organizzazioni, raggruppabili in 6 gruppi: interventi basati sul cambiamento individuale: il cambiamento di un sistema sociale deriva dal cambiamento degli individui che lo compongono; interventi basati sulle strutture socio tecniche: il cambiamento della struttura tecnica è fondamentale per il cambiamento della struttura sociale e viceversa; interventi basati sull’informazione e sulla socializzazione della comunicazione; interventi basati sul cambiamento culturale e lo sviluppo organizzativo; interventi basati sulla coercizione e la violenza: si basa sull’assunto che il conflitto debba essere gestito unilateralmente, esercitando il potere di coercizione fisica e legale (gli scioperi, i licenziamenti); interventi basati sull’azione sulla non violenza: azione esemplare che convince le persone della giustizia e della verità. Le tecnologie di intervento organizzativo specificamente rivolte alla gestione del conflitto si concentrano su 2 principali tipologie di obbiettivi distinti: interventi finalizzati ad uno specifico addestramento alla pratica del controllo/gestione del senso di colpa (conflitto intrapsichico, interpersonale, sociale, collettivo); e interventi tesi a migliorare le capacità di identificazione della situazione conflittuale e di elaborazioni di “soluzioni” creative e generative del conflitto (conflitti sostanziali, formali, pseudo-conflitti,ecc..). Infine le tecnologie dell’intervento e del cambiamento organizzativo possono essere classificate, se pur in maniera non esaustiva, distinguendo tra tecnologie che tendono ad eliminare il conflitto e tecnologie che si sforzano di mantenerlo gestendolo. Le tecnologie di Sviluppo Organizzativo (Organizzational Development). Lo sviluppo organizzativo è una strategia di base molto complessa che si prefigge come scopo il mantenimento delle convinzioni, degli atteggiamenti, dei valori, delle strutture organizzative così che esse possano meglio adattarsi alle nuove tecnologie, ai nuovi mercati, alle nuove sfide. Le strategie educative dell’O.D si pongono come obbiettivo la maturazione verso una situazione psicologicamente adulta e di interdipendenza attiva e creativa, generativo/cumulativa e non distruttivo/competitiva, maturazione che richiede una cultura organizzativa di reciprocità, partecipazione responsabile, valorizzazione delle differenze,ecc…. Sviluppo organizzativo è dunque il nome che viene dato alle azioni di mutamento pianificato, a livello di sistema totale. I 3 problemi essenziali dell’OD sono: come entrare nel sistema sociale definito, come creare bisogni sentiti di cambiamento nel sistema e nei suoi membri; come effettuare precocemente dei cambiamenti di norme che diano corpo al cambiamento di valori e che consentono di esporre un grande numero di membri del sistema sociale a queste nuove norme; come realizzare cambiamenti strutturali tali da permettere, tra l’altro, agli operatori di OD di disporre della sufficiente protezione per realizzare le strategie di cambiamento culturale. I sistemi socio-tecnici. Il concetto di sistema socio-tecnico, formulato da Trist, considera l’organizzazione come la combinazione di un sistema tecnologico e di un sistema sociale: si deve progettare la loro combinazione ottimale. L’analisi socio-tecnica: identifica le caratteristiche determinanti del sistema e dell’ambiente e i problemi relativi; identifica le unità operative, ovvero le fasi essenziali del processo; identifica le “varianza chiave”; analizza il sistema sociale: struttura, relazioni, flessibilità,ecc…; analizza la percezione dei ruoli; identifica le forze ambientali in rapporto alle linee di sviluppo; struttura le risposte di cambiamento. La Socioanalisi. Il concetto di organizzazione socioanalitico si concentra su alcune caratteristiche determinanti: organizzazione come sistema sociale; organizzazione come comunità globale; organizzazione come

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sistema di difesa, contro le ansie psicotiche, persecutorie , depressive e le resistenze al mutamento. “La capacità di lavoro dipende dalla coerenza dei processi mentali consci e incosci, dalla forza e dell’integrazione della mente, dalla sua capacità di continuare a svolgere le sue funzioni nonostante l’ansia e l’incertezza, mantenendo fermo il suo aggancio con la realtà e sforzandosi di rendere conscio l’inconscio”. (Jacques, 1960). L’analisi istituzionale. Si riferisce a interventi su collettivi istituzionali più che organizzazioni industriali. L’analisi istituzionale è l’analisi dell’istituto allo scopo di ritrovare il momento istituente dell’organizzazione/istituzione che porti ad individuare un momento di istituzione nuovo, comune, partecipato. La negoziazione. Le tecniche negoziali sono interventi conflittuali nelle organizzazioni, che consistono essenzialmente nel creare uno “spazio negoziale”, ovvero introdurre nelle organizzazioni alcuni principi. Le tecniche negoziali, per poter essere funzionali, devono trovare nelle organizzazioni alcuni atteggiamenti condivisi, che possiamo così riassumere: ogni conflitto è una relazione fisiologica, non un sintomo di patologia. Il ruolo del negoziatore consiste nella realizzazione di interessi e di desideri propri o altrui, inventando processi e rapporti con altre persone, gestendo e realizzando relazioni, controllando soluzioni e ricercando il consenso di tutte le parti, rinunciando alle soluzioni totali nello spazio e nel tempo. La negoziazione interviene in situazioni di contraddizione, di conflitto, dove il non affrontare il problema creerebbe un danno certo. Il negoziatore interviene nelle organizzazioni per passare dalla diversità alla comunità, mantenendo il plurale, ma tenendo a renderlo comune. CAPITOLO 11: Climi e Culture. Approcci teorici alla definizione dei concetti di clima e cultura. Nella prospettiva comportamentista la cultura è un insieme di risposte che il gruppo ha appreso per garantire la sua sopravvivenza nell’ambiente esterno e superare i problemi di integrazione al suo interno. E’ più difficile cambiare una cultura esistente che costruirne una nuova. Il clima di un’organizzazione non è altro che l’insieme delle condizioni rinforzanti o non – rinforzanti entro cui si sviluppa l’apprendimento. L’approccio cognitivista ritiene che le culture organizzative si formino con il contributo di tutti i membri dell’organizzazione e sono costituite da un insieme di soluzioni ai problemi che permettono alle persone di interagire con l’ambiente senza particolari sforzi e senza nessuna esplicita sanzione da parte di un potere centrale (Johannenson, 1987). All’interno di ogni organizzazione si sviluppano più culture in funzione di diversi modi di percepire l’ambiente; gruppi diversi con problemi diversi generano le sub-culture che, in alcuni casi, possono entrare in conflitto, in altri si combinano fra loro. Il clima è costituito dalle percezioni degli elementi culturali, sviluppate a livello individuale. L’interazionismo simbolico concentra la propria attenzione sulle interazioni sociali, nel corso delle quali i processi di attribuzione e le spiegazioni causali dei fenomeni si basano sul patrimonio di conoscenze comuni e socialmente condivise. Le persone trovandosi faccia a faccia con gli altri cercano di comprendere il significato della situazione chiedendosi perché l’altro si comporta in un certo modo. Tutti gli attori coinvolti costruiscono una rappresentazione simbolica della relazione osservando il comportamento dell’altro e monitorando il proprio. I processi psicologici che intervengono nella costruzione di senso della realtà non sono più indipendenti e individuali, ma sono il risultato di una negoziazione con l’altro. I significati acquisiti nell’interazione sono dei costrutti sociali che vengono interiorizzati, a livello di collettivo, e vengono utilizzati nel valutare gli eventi. Il clima non può essere considerato il risultato di un processo di scambi simbolici dal quale siano escluse le componenti storiche, individuali. Il concetto di rappresentazione sociale si lega alla tradizione sociologica iniziata da Durkhein, il quale avanza l’ipotesi dell’esistenza di una coscienza collettiva in cui si producono rappresentazioni individuali. Secondo le teorie tradizionali della Social Cognition 3 sono le condizioni che favoriscono l’emergenza di una rappresentazione sociale: 1. ipotesi della desiderabilità: un individuo o un gruppo crea immagini in grado di esprimere o nascondere bisogni e intenzioni; 2. ipotesi di squilibrio: le ideologie e i concetti sono mezzi per risolvere tensioni psichiche o

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emotive; 3. ipotesi di controllo: le rappresentazioni vengono create per controllare il comportamento individuale. Mentre la cultura è generata dai valori del sistema, il clima è un processo di valori soggettivi; e in condizioni di novità, di ambiguità e di pressione sociale all’inferenza, il clima, o alcuni dei suoi elementi, può affrontare al collettivo in quanto rappresentazione sociale generata da percezioni condivise. Questioni di metodo. La cultura è vista in quanto espressione del modo di essere di un’organizzazione, i climi, il modo di vivere l’organizzazione. Sul piano metodologico si pongono 2 problemi fondamentali: 1. se ricorrere a tecniche standardizzate; 2. se utilizzare misure quantitative o misure qualitative. Occorre tener presente che tanto per la cultura quanto per il clima le informazioni che contribuiscono a tracciarne un profilo possono essere molto diverse. L’approccio migliore sembra essere l’approccio quali – quantitativo o multimetodo, per mezzo del quale si possono sondare i soggetti a diversi livelli di consapevolezza e si possono trattare i dati sia in termini esplicativi che interpretativi. Non tutti i dipendenti di un’azienda percepiscono la cultura con lo stesso grado di intensità: contano molto la natura del compito e la missione dell’impresa. Gregory (1983) afferma che la multiculturalità non corrisponde semplicemente all’esistenza di sottoculture controllate da una cultura dominante, ma piuttosto ad una convivenza di culture diverse che attraversano trasversalmente l’organizzazione. Climi e culture difficili da definire e ancor più da misurare. Il clima è percezione più descrittiva, la cultura maggiormente valutativa. Più mutevole e osservabile il primo, più duraturo e “non detto” (assunti di base) il secondo. Inoltre, essendo il clima più legato alla relazione potremmo definirlo come soggettività collettiva, è certamente più influenzabile; molto più ostica, e difficile da modificare, la cultura. Studi ed approcci al concetto di clima. Secondo Forehand e Gilmer (1964) il clima è l’effetto prodotto dalle variabili organizzative sui comportamenti delle persone e, pur essendo correlato alle differenze individuali, non deve essere considerato come la somma delle singole opinioni, ma piuttosto come una percezione condivisa, relativa ad almeno 5 dimensioni: la struttura dell’autorità, la dimensione dei gruppi di lavoro, lo stile di leadership, la complessità del sistema organizzativo e la direzione delle mete. Litwin e Stringer, in accordo con questa ipotesi teorica, concludono che i climi esercitano una notevole influenza sulla motivazione personale e incidono sulla soddisfazione al lavoro. Relativamente alla questione della classificazione degli approcci, Ekvall (1985) distingue 2 diversi approcci concettuali cui fanno riferimento i diversi autori: quello “realistico-oggettivo” e quello “fenomenologico”. Nel primo approccio il clima può essere osservato e studiato, ma esiste indipendentemente dalle percezioni dei membri dell’organizzazione stessa. L’approccio “fenomenologico”, invece, arriva alla conclusione che, all’interno dell’organizzazione, vi è un flusso continuo di eventi ed azioni, consuetudini e processi. Gli individui che in essi si imbattono cercano di interpretarli in modo da attribuire al mondo circostante un significato creando una specie di “mappa cognitiva”. Gli individui nelle loro interazioni reciproche mettono a confronto le loro mappe facendone derivare un modo comune di percepire e di interpretare ciò che succede nell’organizzazione. Schneider e Reichers (1983) intendono spiegare come il clima nasce, si manifesta e si insedia in una organizzazione seguendo l’approccio dell’interazionismo simbolico, elaborato sulla base del lavoro di Mead (1956) sul Self e sul significato. Per questo autore la mente si articola a 3 livelli interdipendenti di organizzazione: l’Io, il Me, il Sé. L’Io è quell’istanza che tende ad organizzare l’istintualità come pressioni interne che vanno verso la realizzazione esterna; il Me organizza nella mente quegli atteggiamenti e quelle immagini che l’Altro manifesta nei nostri confronti. Questo dialogo circolare fra Io e Me da origine al Sé, che li comprende entrambi, che è più complesso e riflessivo. Contributi e ricerche in Italia. Per Spaltro il concetto di clima organizzativo è l’equivalente del “soggetto collettivo”. Condivide con Sheinder (1975) la definizione di “percezione di clima come descrizioni molari psicologicamente significativa che le persone accettano come caratteristiche delle pratiche e procedure di un sistema”. Il

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clima è quindi il sentimento dell’organizzazione e delle sue dimensioni, originatesi e sviluppatesi nel piccolo gruppo e da questo proiettato su tutta l’organizzazione. Il modo in cui il singolo individuo sotto l’influenza del gruppo di appartenenza, percepisce l’organizzazione; l’attenzione è posta sulle dinamiche dei fatti organizzativi, vale a dire sulle relazioni grippali, considerando il gruppo come l’elemento centrale, privilegiato di conoscenza, diagnosi e intervento. Le variabili che possono essere considerate, in senso teorico, come componenti principali di un clima sono: Importanza, Credibilità, Speranza, Stili di Gestione, Socializzazione e Sicurezza. Il clima nella psicologia è un fenomeno, relativamente stabile, all’interno di un sistema di individui e si manifesta attraverso “condizioni socio/psicologiche” che caratterizzano tale gruppo. Jones e Pfeiffer affermano che è il funzionamento della struttura organizzativa a creare quell’ambiente emozionale che possiamo definire clima. Qualità e variabili del clima: clima organizzativo e clima psicologico. Alcuni autori si pongono il problema di distinguere il clima “psicologico” da quello “organizzativo”, il primo sarebbe costituito dalle descrizioni individuali di pratiche e procedure organizzative; il secondo invece corrisponderebbe alle descrizioni collettive dell’ambiente; in un caso la descrizione è individuale, nell’altro è di gruppo. Il clima psicologico, in sostanza, è la percezione del clima organizzativo. Scheider sostiene che alla base del fenomeno percettivo ci sono i processi e non le strutture. Il problema della definizione della cultura organizzativa. La cultura può definirsi come l’insieme dei significati acquisiti che orientano e regolano i comportamenti delle persone e più in generale gli eventi, ovvero “l’organizzazione ideologica dell’azienda, costituita da quei sistemi di concetti e convinzioni mediante i quali si esprimono i valori usati dall’organizzazione e i simboli attorno ai quali i valori stessi sono organizzati”. Cultura, in sostanza, è l’insieme dei modi di soluzione che vengono prevalentemente adottati nell’affrontare i problemi di esistenza della società. La cultura di un’organizzazione, infatti, si esprime nel modo di relazionarsi con l’ambiente esterno, in particolare con le altre organizzazioni; nel modo di perseguire gli obbiettivi, di gestire i conflitti, di regolare le interazioni fra i membri e le sottounità del sistema. L’organizzazione con la sua cultura è il risultato di ciò che ciascun membro si modella sulla relazione con l’organizzazione. Ne consegue che ciascuna unità sociale, ciascuna azienda, produce e consolida una sua specifica cultura e che questa solo a grandi linee può essere ricondotta ad un idealtipo. Il concetto di cultura in quattro scuole classiche di studi organizzativi. Sviluppo Organizzativo (Organizational Development). Le organizzazioni sono organismi che producono beni e servizi e si dotano di una identità culturale. E’ centrale il ruolo diretto e indiretto della cultura organizzativa, sia come strumento a disposizione per il “mutamento degli atteggiamenti, dei valori, delle strutture organizzative” (Bennis, 1966), sia come fonte di significanti che attivano il processo di percezione-cognizione; gli interventi nelle organizzazioni sono sostanzialmente interventi di tipo culturale. I Sistemi Sociotecnici. “La cultura di un’impresa è data dal modo abituale e tradizionale di pensare e di comportarsi al suo interno. Esso può essere più o meno sviluppata dai suoi membri, ma i nuovi devono comunque apprenderla e accettarla”. La cultura agisce sul grado di coerenza interno e sulla percezione dell’integrazione e del coordinamento interno, anche in ottica micro; in maniera determinante sui meccanismi di controllo e delega, sostanziandone i processi. Approccio Sistemico-Funzionalistica. La soppravivenza di un sistema sociale è connessa all’accettazione di un sistema interamente coerente che deve essere condiviso da tutti i suoi membri, se non si vuole rischiare la dissoluzione. I valori sono la premessa logica delle norme, che indirizzano e permettono di valutare i comportamenti. Le norme a loro volta sostanziano, definiscono e legittimano i ruoli, indicano le forme di comportamento appropriate. Norme e valori sono espressione della vita di gruppo. La cultura organizzativa è espressione e rappresentazione delle norme e dei valori del sistema formale e della loro traduzione e ricodificazione nel sistema informale, e riflette la storia dell’organizzazione.

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La socioanalisi. Secondo Jaques le tre principali forze che agiscono nelle organizzazioni sono: la struttura dell’organizzazione, la sua cultura e la personalità dei suoi membri. L’interazione di queste dimensioni determina il comportamento organizzativo. Le espressioni e i parametri della cultura organizzativa. Schein (1990) definisce la cultura come: “un insieme di assunti di base, inventati, scoperti o sviluppati dai membri di una organizzazione per affrontare problemi di adattamento o di integrazione interna che si è dimostrato così funzionale da essere considerato valido”. Egli sostiene che la cultura di un’organizzazione si esprime a tre livelli. Il livello più visibile è costituito dagli artefatti, l’ambiente fisico (architettura, arredamento, oggetti fisici e non), la tecnologia in uso, il linguaggio scritto e parlato. Ad un livello più levante ci sono i valori, condivisi dal gruppo e presidiati dal management. I valori sono preferenze accordate, convincimenti circa il miglior modo di fare le cose. Se il valore ha funzionato si trasforma in assunto. Gli assunti di base, costituiscono il livello più profondo, latente; rappresentano le concezioni fondamentali sulla natura delle cose, la natura dell’uomo, delle relazioni, delle attività di lavoro; tutti insieme costituiscono la Welthanshauug di una unità sociale. Quando si consolida un assunto le persone non lo discutono più scartano automaticamente tutte le alternative di scelta. Similmente Rousseu (1990) sostiene che i parametri più usati per analizzare e descrivere una cultura sono: artefatti, patterns di comportamenti (modi di prendere le decisioni), norme comportamentali, valori, assunti di base (riguardano atteggiamenti inconsci come il modo di reagire agli errori). Osservando il funzionamento quotidiano del gruppo o dell’organizzazione possiamo cogliere dei segnali, dei veri e propri marker culturali, che ci aiutano a riconoscere il modello vigente: i miti, i riti, i simboli, il linguaggio.