Mastodon - Nox A.M. Ruit

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Roma, anno 222 d.C. Proprio quando l’Impero è sull’orlo del baratro, giunge un prodigio a segnare per sempre il destino di Roma: i Dodici Dèi dell’Olimpo tornano a camminare fra gli uomini e si manifestano attraverso l’imperatore Adriano Severo, il primo rivelato, cioè un mortale toccato dagli dèi. Adriano Severo rifonda l’Impero e crea il Collegio della Rivelazione, che con gli anni diventerà l’organizzazione religiosa dominante, i cui membri, chiamati consacrati, possono invocare a comando il tocco degli dèi, acquisendo grandi poteri per la gloria di Roma.

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  • Nox A.M. Ruit

    MAstodon

    Casini Editore

  • 2011 Valter Casini Edizioniwww.casinieditore.com

    ISBN: 978-88-7905-193-4

  • A L. perch ha creato un vuotoche solo le Storie potevano colmare

    e a Ketipors e Ukapors, senza i qualitutto questo non sarebbe stato possibile.

  • sed comes admonuit, breviterque affata Sibylla est:nox ruit, Aenea; nos flendo ducimus horas.

    P. Virgilio Marone, Eneide

    Allora prescritta le baccanti cominciano ad agitare il tirso peri loro riti; invocavano a una sola voce il figlio di Zeus, Bromio, il dio del grido; leccitazione si era trasmessa allintero bosco, alle belve; non cera pi niente di fermo, tutto si agitava in frenesia.

    Euripide, Le baccanti

  • I. Allinizio fu la caccia

    Anno 97 dalla rifondazione di Roma, idi di settembre

    Era notte nella foresta e la caccia stava per cominciare. Bran-wen di Caledonia ne era certo. Una pallida falce di luna spuntava oltre le chiome delle querce animate da sussurri incessanti. Le fronde si agitavano al vento tormentando Branwen con un bisbi-glio crudele e maligno che lo distraeva.

    Doveva concentrarsi o avrebbe perso il segugio. Il cane, un veltro britanno tremante per leccitazione, era scattato in avanti penetrando rapido nel sottobosco.

    Branwen non lo vedeva, ma riusciva a seguirlo con facilit. A guidarlo erano lansimare frenetico dellanimale e il battito del suo cuore. Lo sentiva pulsare con chiarezza come fosse nel suo petto; un martello che gli percuoteva linterno del costato, cercando di aprirsi un varco fuori dalla gabbia che lo tratteneva.

    Ma forse si confondeva e quel cuore era proprio il suo. O forse era solo troppo concentrato.

    Sotto un ramo basso e oltre un tronco fradicio, Branwen sal-tava con piede leggero. Pass accanto a un gatto selvatico che rimase impassibile a lisciarsi il pelo, sdraiato su un sasso ancora caldo dopo la giornata assolata appena trascorsa.

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    Non riusciva a ricordare lultima volta che si era sentito cos pieno di energia. In genere non si riteneva tagliato per quel tipo di sforzi. Quando cacciava bestie o uomini sconfinando nelle terre dei damnonii o dumnonii a ridosso di Muromorto, poteva passare intere ore nascosto, immobile dietro un cespuglio di sorbo, in attesa del passaggio di un cervo vagabondo o di un esploratore solitario. Al contrario, lidea di inseguire la preda attraverso fossi e sterpaglie lo gettava nello sconforto e se il suo attacco, di solito improvviso e letale, si rivelava inefficace, pre-feriva rinunciare del tutto, scomparendo nel fitto del bosco.

    La barriera ormai dissolta, che le trib amiche di Roma si ostinavano a chiamare Vallo di Severo, era per la sua gente sol-tanto Muromorto e offriva un tempo, a Branwen, il territorio adatto per mettere alla prova le sue abilit di predatore. Lass, la sfida personale era procurarsi un trofeo di caccia nel minor tempo possibile, fosse un palco di corna maestose o una testa di damnone mozzata. La trib di picti a cui apparteneva Branwen, e per la quale non sentiva pi ormai alcun attaccamento, non lo aveva mai considerato un guerriero, ma piuttosto un uomo con lapprezzabile attributo di saper portare in dono la morte, esperto nel celarsi e nel colpire, veloce e silenzioso come un serpente. Leccitazione della battaglia e il clamore degli scudi percossi non facevano per lui. Detestava la fatica delle mischie furibonde o degli inseguimenti prolungati. A quel tempo, Bran-wen ammazzava con pigrizia.

    Questa notte diverso pens, godendosi la corsa. Diversa era anche laria, impregnata di un profumo sconosciuto che lo accarezzava con inebriante sensualit. Niente sembrava corri-spondere allesperienza, eppure Branwen non riusciva a focaliz-zare i suoi pensieri su alcune anomalie, che invece sapeva essere importanti.

    Forse era colpa di quei dannati alberi che continuavano a sus-surrare, confondendolo.

  • Si era distratto e ora la pista era perduta. Il segugio non era pi a portata dudito e Branwen si arrest di colpo. Si guard intorno e vide che si trovava allinterno di una radura di betulle. La luce debole della luna metteva in risalto lerba folta: riusciva a distin-guere ogni singolo stelo bagnato dargento. Il bosco, animato da pallide cortecce, trattenne il fiato; le fronde tacquero allimprovvi-so. Sembravano testimoni sgomenti davanti a un disastro incom-bente. Una sensazione di terribile sciagura lo trapass, come una gelida corrente sotto una superficie di acqua calda.

    Poi rivide il cane e si rinfranc. Scorse il luccichio dei suoi occhi: fissavano Branwen un po guardinghi, immersi nelle om-bre, tenebre solide acquattate dietro una radice. Fu di nuovo allinseguimento, dimentico dei suoi pensieri e della nostalgia che spesso si trascinavano dietro. Uomo e segugio volarono leg-geri come gufi in planata, sollevando a stento sbuffi di foglie secche al loro passaggio. Il cuore eccitato del veltro era un tuono in sincronia con il suo, la frenesia del sangue promesso una ban-diera svettante nella mente.

    Si stavano avvicinando: un ritmo diverso si sovrappose alle pulsazioni della coppia. Branwen poteva udirlo sempre pi di-stintamente, a mano a mano che la distanza si accorciava. Un cuore persino pi rapido del loro, che batteva con il ritmo caoti-co di sassi in un barile; un ritmo che suggeriva terrore misto alla preghiera di una morte rapida e pietosa.

    Branwen lo scorse: un giovane daino. In un attimo lanimale spar oltre una grande quercia. Gli erano addosso ormai, corre-vano sempre pi veloci. La luce lunare e le ombre fitte si sus-seguivano alternate, stordendolo. Cacciatori e preda erano una compagnia male assortita di tre suonatori con lo stesso strumen-to. Percuotevano con foga i loro cuori, ognuno perso dietro la propria musica fatta di brama, ferocia o disperazione.

    Vide la groppa del cerbiatto vibrante di muscoli pieni di speranze mal riposte, e percep che il segugio era pronto a bal-

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    zare. Per leccitazione Branwen spalanc gli occhi e trattenne il respiro.

    Fu allora che ud il bisbiglio, che si accorse dellombra stesa sopra di loro.

    Seppe di essersi sbagliato completamente. Il bisbiglio cera sempre stato: come poteva non averlo notato

    prima? In quellattimo congelato, con i pensieri che gli solcava-no la mente a larghe falcate, lo prese uninesorabile consapevo-lezza. Si sent come un condannato che scorge lombra calante della mannaia. Sto per morire pens Branwen. Non pu es-sere altrimenti.

    Gli alberi avevano tentato di metterlo in guardia: le foglie, scivolando le une sulle altre, producevano parole fioche ma ter-ribili. Da quando era iniziata la corsa, il senso di quella caccia gli era sfuggito; lavvertimento sprecato.

    Ora gli alberi gridavano e lombra alle sue spalle scendeva con il rapido avanzare di una nube nera, un sudario infetto che si stendeva con grazia spietata sopra una vittima inerme, ancora viva e lucida.

    Il tempo riprese a scorrere, il segugio lanci un guaito di ter-rore e con un balzo vol oltre il cerbiatto. La vecchia preda era dimenticata, gli stessi predatori braccati. Branwen si rese conto che non cera mai stato alcun veltro in caccia. Fin dallinizio lombra cercava il segugio e Branwen non aveva fatto altro che seguire un animale in fuga dal suo cacciatore, scambiando la paura per bramosia.

    Il sudario doscurit piomb su di loro, soffoc il chiarore lunare come il piede di un bimbo crudele fa scempio di un for-micaio. La scomparsa della luce produsse una sensazione fisica intensa, uno spostamento daria che spinse Branwen a terra, ad affossarsi con la faccia nelle foglie marce.

    Fu consapevole per un istante che il suo rango avrebbe dovu-to costringerlo a guardare, a sapere, a registrare laccaduto. Non

  • era, dunque, un consacrato dellImpero, simbolo venerabile di fede e di potenza? Si immagin il suo vecchio intercessore che storceva le labbra disgustato davanti a una cos poco evidente dimostrazione di romano officio.

    Allorco lImpero! pens Branwen. Si copr la testa con le braccia, strinse gli occhi e affond nel terriccio del sottobosco la bocca ancora aperta per gli spasmi dei polmoni ingordi daria.

    Il cane mor con un grido umano. Scese un silenzio innatu-rale: la mancanza di uneco nelle orecchie, dopo che erano state ferite da un suono cos straziante, parve a Branwen inesplicabi-le. Gli sembr ingiusto che della povera bestia, tradita nella sua primordiale essenza il predatore non poteva diventare preda non rimanesse neanche quelleco sonora.

    Finalmente trov il coraggio di alzare lo sguardo. Foglioline umide si staccarono dalle palpebre e dalle labbra socchiuse.

    Si alz in piedi e una curiosit morbosa, pi che un redivivo senso del dovere, lo spinse a frugare con lo sguardo alla ricerca di una traccia di ci che era appena successo. Con cautela si avvicin alla sagoma del cane, la cui posizione era distingui-bile sul terreno, di nuovo illuminato dalla luna, per il luccichio umido degli organi interni esposti. La testa era stata strappata via dal corpo allaltezza del garrese. Branwen si guard intor-no con uno strano presentimento, mentre il vento si alzava e le fronde tornavano a sussurrare: un suono naturale stavolta, senza sottintesi.

    Not una chiazza dargento poco distante, come una seconda luna incastonata nel sottobosco. Era la testa del cane, ne era cer-to. Le fauci erano spalancate in un ghigno di morte. Nonostante tutto, Branwen si sentiva pi calmo, ora, e osserv la povera bestia con tranquillit, quasi stupito di non provare sconcerto per ci che vedeva.

    La testa, di marmo bianco, era attraversata da venature blua-stre come varici, che assorbivano la notte; sembravano piaghe su

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    una gamba malconcia. Aveva un collare con sopra unincisione e Branwen si pieg per osservarla meglio. Improvvisamente il cuore gli si ferm come fosse diventato carne morta.

    Poi si svegli.

  • II. Corvo comanda

    Juba fu svegliato dal grido improvviso del compagno, un ran-tolo strozzato da pugnalata alla schiena, che trapass le sottili pareti del sonno, mettendolo in allarme e scatenando la reazione istintiva del soldato. In un attimo scacci il torpore residuo che, spinto fuori dalla coscienza, non spar del tutto, finendo in un certo senso per accumularsi alle estremit del corpo. Ebbe lim-pressione che le mani fossero fin troppo molli sullelsa della sica e i piedi faticassero a districarsi dalla coperta pidocchiosa. Prov vergogna al pensiero di essere troppo lento.

    Si giudicava con severit eccessiva, come al solito. In realt, Branwen aveva appena fatto in tempo a sollevare la testa dal giaciglio che Juba era gi in piedi, immobile a gambe larghe al centro della stanza.

    Il caledone si vide incombere addosso la sagoma alta e mas-siccia del numida. Ancora mezzo addormentato, si convinse che una delle querce del sogno si fosse animata con intenti maligni. Alla fine riconobbe Juba, prendendo coscienza di dove lui e la-fricano si trovassero.

    Erano ad Adrianopoli, in una locanda tranquilla ma poco confortevole. Nella stanzetta, situata proprio sopra le cucine, si soffocava. Loste che li aveva accolti allora dellultimo sole era

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    mellifluo e spilorcio come tutti quelli della sua schiatta. Bran-wen li disprezzava, ma in fondo non era molto vasta la compagi-ne di coloro che meritavano la sua approvazione.

    Tent di scuotersi di dosso la tensione accumulata durante la caccia onirica cui aveva partecipato, ma vedersi sventolare la sica di Juba a un paio di cubiti dal naso non contribu a tranquillizzarlo.

    Calmati Juba,! Ho fatto solo un brutto sogno. Se continui a svegliarti per un nonnulla, finirai per ammazzare qualcuno, in particolare il sottoscritto.

    La punta della sica baluginava nella semioscurit in modo si-nistro, raccogliendo la tenue luce lunare proveniente dallunica finestra. Il grosso numida, con la pelle scura e lucida di sudore, pareva una statua in noce strigliata con cura.

    Vedendo che il compagno non abbassava la spada, Branwen si irrit: Insomma! Sei sordo o cosa? Allontana quellarma, ti ho detto! Era consapevole di scaricare la tensione sullamico, ma non poteva farci niente.

    Il mio sonno leggero ti ha salvato la pelle pi di una volta, mi pare disse Juba. Esal laria trattenuta e si rilass, con-ficcando la sica nel tavolino che separava i due giacigli. Lanci unocchiata al cielo fuori dalla finestra: dovevano essere passate solo un paio dore dal tramonto, quando erano crollati a letto spossati dal viaggio. So riconoscere il grido di un uomo che si sveglia impaurito dai propri demoni aggiunse, fissandolo con il suo solito sguardo, schietto e imperturbabile. Era abituato alle intemperanze di Branwen.

    Il caledone lo guard di sottecchi, mordicchiandosi un labbro. Lo so anchio che i figli di Ipno si divertono a tormen-

    tare i mortali, a sorprenderli nudi come bambini appena nati, privi delle loro difese. Ci che ho sentito, per, era differente. Sembrava veramente Juba esit senza terminare la frase; avrebbe voluto dire un grido di agonia del tipo udito tante vol-te nellarena e in battaglia.

  • Allora Juba, cosa sembrava? Branwen cerc, con un certo sforzo, di tenere bassa la voce. Scalci via la coperta che lo infastidiva pi per il caldo che per i pidocchi. Aveva rizzato la testa di scatto, conficcando gli occhi spiritati in quelli di Juba.

    Il numida abbass lo sguardo, timoroso di esprimere a voce alta quel presagio di morte che aveva percepito nel grido di Branwen. Certe cose era meglio tacerle. Sventurato luomo che gli di ascoltano quando meno se lo aspetta diceva la tame-tut, la sciamana del villaggio in cui Juba era cresciuto.

    Nel vedere il compagno imbarazzato, Branwen si raddolc. La stazza del soldato ingannava. Era facile dimenticare che Juba aveva appena ventanni. Branwen si alz dal letto e prese la sua sacca. Si sofferm per qualche istante al fianco di Juba, sen-za toccarlo, limitandosi a un contatto invisibile, privo di parole. Guard a occhi bassi il braccio forte del guerriero. Ogni volta che perdeva la pazienza con lui, temeva che il giorno dopo non lo avrebbe pi ritrovato accanto a s, a difenderlo e a fornirgli quella concretezza di cui aveva assoluto bisogno.

    Con la sua semplice presenza fisica, gli occhi limpidi, il sor-riso schietto, Juba riusciva alle volte a ottenere pi di quanto capitasse a Branwen, sfoggiando le insegne di consacrato. Cer-to, nelle stanze del potere imperiale, davanti a qualche aristo-cratico funzionario romano, entrambi si trovavano in difficolt, con il loro latino asciutto e privo di fronzoli, laccento e la-spetto che tradivano la provenienza dalle province pi esterne. I modi, poi, non erano esattamente quelli di chi fosse cresciuto fra i marmi delle citt e le fontane magnificenti. Spesso, nem-meno lesposizione del dodekon era sufficiente a garantire, non tanto la collaborazione, quanto almeno la vaga benevolenza di un membro di rango senatorio. Branwen doveva dirsi sod-disfatto di ricavare un po di finta cortesia mostrando il suo ciondolo.

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    Tir fuori dalla sacca di cuoio il materiale per scrivere, escla-mando: Devo riportare nel rotolo delle visioni quanto ho so-gnato, prima che me ne dimentichi.

    Juba afferr la lanterna con movimenti esperti e la dispose sul tavolino per fargli luce. Branwen sedette sul bordo del letto, impugnando una penna di corvo. Cominci a scrivere sul papiro, borbottando sotto voce mentre ricordava le immagini del sogno.

    Juba si allontan e per ingannare lattesa di tornare a dor-mire non se ne parlava si mise ad affilare il falcio dacico, ricordo dellultima campagna a Ulpia Traiana. Dun tratto si sent avvampare, come se dallaltro lato della stanza, gi afosa, avessero acceso un focolare. Al calore si accompagn un suono indistinto, un rintocco allestremo confine della coscienza, ma in un attimo quella vaga impressione svan senza lasciare tracce. Ogni volta che succedeva, Juba si riprometteva di memorizzare il tipo di suono, associando a esso uno strumento musicale o il verso di un animale, per incatenarlo alla mente e impedirgli di scivolare via. Anche stavolta senza successo. Sollev la testa, volgendo le spalle allamico, e mormor con un filo di voce: Branwen, penso che poi si interruppe: si era accorto che il borbottio del caledone era cessato.

    Uno schiocco secco lacer laria calda della stanzetta. Juba si gir lentamente, poggiando con cautela la spada sul letto. Vide che lamico aveva spezzato il calamo della penna; ora teneva le braccia abbassate, le mani gli tremavano con lievi sussulti ritmi-ci e regolari.

    Branwen era circondato da un paesaggio che conosceva mol-to bene. Un oceano di oro liquido, con onde e creste spumose fatte tutte della stessa sostanza: luce nei suoi molteplici aspetti. Cerano flutti che si arricciavano assorbendo il colore di unas-solata giornata di mezza estate; altri si ripiegavano con dolci crespe che assumevano la sfumatura dellinverno, al culmine del

  • mattino. Le onde doro si frangevano senza riposo, illuminate dagli astri sciolti nella loro stessa sostanza, sempre rimescolati, mai fermi.

    Al centro di quelloceano di bagliori si ergeva un immenso albero dalla chioma folta; le foglie erano riflessi di luce, scintille imprigionate nel cristallo. Su un ramo basso stava una presen-za a lui nota, un corvo grosso come unaquila che, non appe-na lo vide, allarg le ali gracchiando. Era bianco come il latte, gli occhi neri fatti di buio. Per Branwen era difficile puntare lo sguardo su di lui perch lanimale si trovava controluce. Ogni volta si stupiva di non restare cieco nello sforzo di fissarlo. Il corvo aveva la testa incoronata dal sole che brillava attraverso le fronde corrusche. Gli occhi di Branwen non lacrimavano e restarono aperti nonostante un dolore lancinante li trapassasse. Aveva scoperto a suo tempo che, anche volendo, non poteva di-stogliere lo sguardo. Gli pareva di avere spilli roventi conficcati nelle pupille, gi fino alla nuca. Il dolore cavalcava la luce e ne esaltava la purezza. Per lui non cera scampo, mai.

    Giunto ai piedi dellalbero, mentre il corvo inclinava la testa per scrutarlo meglio, Branwen disse con semplicit: Signore, sono qui.

    Non ti ho forse chiamato? esclam una voce, generata dal tintinnare dei cristalli sulle foglie. Frusciavano, ma non cera vento, e se qualcosa si muoveva era di certo spinta dal respiro di un immortale.

    Vuoi parlarmi del sogno? So che un presagio e forse potrei interpretarlo da solo. Branwen non voleva apparire ar-rogante, ma pensava sul serio che ci sarebbe arrivato senza aiuto se avesse avuto il tempo di mettere per iscritto quanto ricordava. E avrebbe evitato il dolore.

    Potresti, ma la notte trascinata dalle ore, che corrono avanti gridando rovina. La posta in gioco mi costringe a illumi-narti. La voce non aveva tonalit, non mostrava stati dani-

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    mo. Per un attimo, per, Branwen si era convinto di aver scor-to un mutamento nella luce, in tutte le luci intorno, nel mare e nellalbero. Un difetto nella trama del fulgore, come lombra di una rondine che passi veloce davanti a una finestra.

    Turbato da questa variazione, questa oscillazione che mai si era manifestata durante i suoi colloqui col Corvo Bianco, rinun-ci a insistere: Allora dimmi cosa devo fare e io lo far.

    Chi caccia cacciato, il predatore diventato preda. Una grave sciagura incombe sulla citt di marmo annunci la voce. Il corvo spalanc le ali e le dimen davanti al sole, atte-nuando, per brevi frammenti di sollievo, il dolore negli gli occhi di Branwen.

    Signore, cosa cera scritto sul collare del veltro? Non sono riuscito a leggerlo. Nel momento stesso in cui lo diceva, sep-pe che non era cos. Anzi era stato proprio ci che aveva visto a gettarlo nellangoscia e a strapparlo dal sogno con un grido di sgomento. Afferr loggetto che portava al collo, il dodekon, insegna del suo rango e del suo destino, e guardandolo gli torn alla mente: il collare di marmo portava inciso lo stesso simbolo.

    Allora ti dir qualcosa che non sai disse il corvo, in-tuendo il suo pensiero. Recati nel luogo che ti mostrer, senza indugi. Non frenare il tuo cavallo, perch chi ti corre accanto sospinto da forze che non puoi fermare.

    Branwen si accorse che la luce diminuiva. Lansia minacci di travolgerlo: le risposte che aveva ottenuto erano insufficien-ti. Signore, cosa succeder laggi? chiese. Non ho il diritto di sapere?

    Intanto loceano doro si stava ritirando con la pi furiosa delle maree, lontano verso lorizzonte; ci che restava era un buio assoluto. Branwen si lasci cadere verso locchio nero del corvo che lo inghiott in unoscurit morbida e senza dolore. Lincontro con Apollo era terminato.

  • Il caledone si ridest emettendo un lungo sospiro. Juba si avvicin. Quel calore, il suono che fugge: ho ri-

    conosciuto i segni. Era in apprensione. Hai avuto una visione? stata molto breve stavolta disse. Non gli piace-va quando lamico si assentava. Ovunque fosse, non poteva n raggiungerlo n proteggerlo. Era costretto a guardarlo mentre gli occhi mostravano il bianco e il corpo era scosso dai tremiti. Odiava quella sensazione di impotenza, lincapacit di alleviare il suo dolore.

    Dobbiamo partire subito, preparati disse brusco Bran-wen, ignorando la premura di Juba. Con i nervi a fior di pelle per la sofferenza, lo scans bruscamente e ripose il rotolo nella sacca. Va a pagare quel maledetto oste e togli la met di quello che chiede per il dannato caldo di questa topaia. Sbrigati, che aspetti! Io intanto far preparare i nostri cavalli. Branwen spinse Juba verso la porta.

    Il numida era interdetto: Partire ora, di notte, con poco pi di una falce di luna? Per andare dove? Devi essere impazzito. Juba sapeva che spesso le visioni di Branwen lo costringevano ad azioni inaspettate, concitate. Cera abituato, ma stavolta gli sembrava che esagerasse.

    Tuttavia sapeva anche che era inutile resistere: condivideva-no lo stesso destino, seppure in modi differenti. Potevano deci-dere da che parte orientare le vele, ma non scegliere la direzione del vento. Juba era un protettore, un soldato del Vessillo della Rivelazione e quello era il suo compito: difendere i consacrati, talvolta anche da loro stessi.

    Davanti allindifferenza di Branwen, se ne and rassegnato a svegliare loste.

    Sbrigata con celerit la faccenda del pagamento era stra-ordinario quanto la sua corporatura rendesse veloci certe incom-benze Juba torn nella stanza, salendo le scale di corsa tre gradini alla volta. Lo seguiva il garzone assonnato, un giovane

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    schiavo di neppure dodici anni che loste gli aveva concesso per velocizzare lo sgombero della camera. Branwen era gi uscito, dopo aver radunato i pochi oggetti a cui teneva veramente; come al solito toccava a Juba occuparsi del bagaglio pi ingombran-te. Pi per gratificare la presenza del piccolo schiavo che per un effettivo bisogno, il numida ordin al ragazzino di portare gi gli scudi, guardandolo con una certa apprensione reggere larmamento in equilibrio sulle gracili spalle. Quindi con mosse esperte si allacci la corazza a squame sopra limbottitura, infil la sica nella cintura e il falcio dacico nel fodero appeso al balteo. Prese il resto dellequipaggiamento e dopo essersi assicurato di non avere dimenticato nulla, si precipit alle stalle, lasciandosi dietro i borbottii irritati degli altri ospiti, svegliati dal fracasso.

    Arrivato allingresso della stalla, incroci il garzone che usciva zoppicando. Piangeva e il labbro gli sanguinava abbondantemen-te. Scuotendo la testa, Juba entr; laria sapeva di fieno e letame. Si avvicin a Branwen, esclamando irritato: Per gli di, cosa successo? Perch il bambino sta zoppicando? Calc la voce sulla parola bambino per accentuare il suo sdegno: fare appello allumanit del caledone era una battaglia persa in partenza.

    Branwen, senza girare la testa, continu a controllare con cura maniacale che i finimenti della sua cavalla fossero in or-dine. Stavo pensando e quellidiota entrato allimprovviso. La prossima volta non mandare dei mocciosi a fare il tuo lavoro.

    Il numida, scuotendo la testa, gli lanci uno sguardo di com-pleta disapprovazione. Qualsiasi critica sarebbe stata inutile.

    E la ferita al labbro? insist. Juba era pi irritato che sorpreso. Che il bambino fosse uno schiavo era ininfluente: la misantropia di Branwen trascendeva le gerarchie e poteva abbat-tersi indifferentemente su schiavi o senatori.

    Quando lho colpito alla gamba, quello stupido ha lasciato cadere gli scudi a terra: un dannato fracasso, accidenti a lui. Ho dovuto punirlo di nuovo rispose Branwen. Sembrava inner-

  • vosito da una cinghia che non riusciva a stringere, continuava a strattonarla in modo ossessivo. Le nocche delle mani erano bian-che per la tensione e la cavalla ormai al limite della sopportazione.

    La rabbia di Juba lasci il posto allansia. Preoccupato, il nu-mida si avvicin, appoggiando una mano sulla spalla dellami-co, che si irrigid con un sussulto. Branwen, rilassati. Non vuoi dirmi cosa ti ha mostrato il Corvo Bianco? Dove andiamo cos di fretta? Il tono di voce era calmo, suadente. Con quel sistema riusciva spesso a rassicurarlo. Non stavolta per.

    Branwen si gir di scatto, sottraendosi al tocco di Juba con tanto impeto che fin per urtare la giumenta, perdendo lequili-brio. Il numida lo afferr al volo per impedirgli di cadere fra le zampe dellanimale. La giumenta scalpitava agitata. Branwen imprec, allontanando con stizza il braccio di Juba.

    Non ho chiesto io questo annasp cercando lespres-sione giusta questo dono! Branwen sput fuori la parola in tono indignato. Gli occhi, scuri e cerchiati, erano pieni di rab-bia e paura. Juba prov soggezione davanti a quello sguardo. Si impose di fissare la bocca di Branwen per sfuggire a quei grandi dischi di angoscia iniettati di sangue. Mentre il caledone parlava rabbioso, un filo di bava gli col sulla folta barba che teneva molto corta, unica sottomissione che aveva deciso di concedere alletichetta romana. Dono lo chiamano alcuni pazzi! Non immaginano il dolore che sento quando il dio mi parla. Brucia e mi acceca! Un destino di sofferenza per conoscere il vero. Non mi lascia neppure una cicatrice con cui pavoneggiarmi, soltan-to questo terribile senso di necessit a cui non posso sottrarmi! Tu non sai! Non puoi immaginare! come un prurito di fuoco dentro la testa, che diventa tanto pi insistente quanto meno ri-esci a placarlo, una bestia che raschia e si dimena senza posa. E come potrei fermarla? Affondando le unghie nella carne, forse? Scavando con un gladio finch non emerga, cos da poterla final-mente abbattere?

    corvo coManda

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    Erano parole cariche dangoscia dalle quali Juba si sent schiacciato. Era consapevole di non poter fare nulla. Anzi, uno dei suoi compiti in passato era stato proprio quello di convin-cere lamico ad accettare quel suo destino doloroso. Lo aveva spesso aiutato e talvolta costretto ad alimentare la bestia terribile di cui parlava, che azzannando e tranciando, arrivava fin dove desiderasse: cuore, testa o anima che fosse. La profezia era un mostro che non aveva piet per chiunque la custodisse.

    Branwen, ascoltami! Juba gli afferr le spalle e lo scosse con fermezza, consapevole che gli sarebbero rimasti un paio di lividi dove affondavano le dita. Altre volte hai affron-tato la luce. Altre volte Apollo ti ha chiamato. So che fa male, so che sei preso dallansia di esaudire ci che ti viene chiesto e dal dubbio di non essere allaltezza quando le sue parole sono oscure. Ormai ti conosco bene. Cosa c di diverso stavolta per reagire cos? Parlami, ora! Parlami, per gli di! Alz la voce come di rado gli capitava. Poi aggiunse pi pacatamente, quasi un sussurro accompagnato da un sorriso stanco: Sono tuo amico, Branwen, non solo la tua scorta. Fece una pausa e poi riprese: E sai che non sono un soldato come tutti gli altri, sai che io posso capirti, che io, che anche io Limbaraz-zo e la vergogna di quanto era sul punto di dire, di quanto gi aveva detto, lo fecero arrossire. Lasci andare Branwen che si afflosci come un sacco vuoto. Allultimo istante il caledone si aggrapp alla staffa del cavallo per non scivolare a terra.

    Stavolta diverso, Juba, e non so perch. Il Corvo Bianco mi ha mostrato che qualcosa di terribile sta per succedere stanot-te. Qualcosa che pu mettere a rischio la stabilit di Roma e del Collegio. Branwen non provava un grande attaccamento per lImpero, ma il Collegio della Rivelazione era diventato tutta la sua vita. Ho visto il luogo dove accadr e voglio sbrigar-mi. Ogni istante che passa, limmagine si affievolisce nella mia mente. Ora aveva una voce pi calma, un po stentata, il fiato

  • corto di chi fatica a respirare. Irrigid il volto e distolse gli occhi: E poi, anche se sapessi cosa ci attende, non potrei spiegartelo.

    Va bene, allora partiamo e facciamola finita disse Juba sforzandosi di apparire spensierato. Fin di sellare il cavallo e sistem lequipaggiamento senza smettere di chiacchierare. Parl di dettagli tecnici miglia da percorrere, andature da mantenere tutte incombenze concrete con le quali smorzare la tensione che permeava la stalla.

    Branwen guard il numida con affetto, senza darlo a vede-re. Nonostante la stazza, Juba si muoveva con leleganza di un gatto, nascondendo sotto quelle movenze languide la forza di un leone. Il vessillario era il suo protettore; alle volte, per, era Branwen che doveva proteggerlo. Proteggerlo dalla verit, so-prattutto se era della specie pi velenosa: quella che segna per sempre, facendo rimpiangere la menzogna.

    Langoscia che provo non causata dalla tragedia che dob-biamo evitare, Juba pens. Stanotte si mettono in moto forze pi grandi di noi, forze che persino il Corvo Bianco ignora. O forse che anche lui ha voluto tacermi. Non so quale delle due prospettive mi spaventi di pi.

    Branwen sentiva che quella notte qualcosa era irrimediabil-mente cambiato. Una piccola pietra si era mossa e aveva comin-ciato a rotolare gi per un lungo e ripido pendio. In un futuro non molto lontano sarebbe diventata una frana inarrestabile, che avrebbe trascinato con s lintera montagna.

    E ho il presentimento che in fondo al pendio ci siamo noi, io e te Juba pens.

    Perso nelle sue riflessioni, con le redini della giumenta in mano, il caledone usc allesterno per respirare laria frizzante della notte.

    Cavalcavano al trotto veloce, facendo risuonare gli zocco-li sul selciato delle strade deserte. Il sobborgo in cui avevano

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    scelto di alloggiare era uno dei pi tranquilli di Adrianopoli. Lo avevano preferito entrambi in questo i loro caratteri si so-migliavano perch lontano dalle zone pi frequentate della citt, dove, anche a quellora, si sarebbero imbattuti nei clienti ubriachi di qualche lupanare o nelle immancabili risse che scop-piavano fuori dalle bettole.

    Adrianopoli, antica capitale della provincia dai tempi di Dio-cleziano, aveva perso limportanza militare che aveva avuto un tempo. Lintero quadrante nordorientale si era ormai consoli-dato, i Goti apparivano domati qualcuno avrebbe detto com-prati e il Danubio era diventato un grande fiume allinterno di confini, se non sicuri, almeno stabili. Per di pi, a sole cento leghe di distanza cera Bisanzio, la potente megalopoli che aspi-rava a eguagliare la grandezza di Roma. Era quindi in un certo senso logico che fosse stata trasferita l la capitale della Tra-cia. Alleggerire gli eccessi burocratici era stato un imperativo di quasi tutti i Cesari succedutisi al soglio palatino dai tempi della rifondazione. Il prefetto Pretorio dOriente riuniva cos nelle sue mani i poteri di governatore della diocesi e di proconsole della Provincia. Questa fusione era avvenuta gi allepoca del princi-pato di Diocleziano, oltre cinquantanni prima. E tuttavia, nono-stante queste retrocessioni di natura amministrativa, Adrianopoli era fiorita come centro mercantile di prima importanza. Per la sua posizione strategica lungo la via Militare, era diventata uno snodo fondamentale per il flusso di commerci provenienti dalle province danubiane e diretti verso lEllesponto e lAsia.

    A un paio di miglia dalla citt era stato edificato il castra che ospitava un piccolo presidio della Undicesima Claudia, collo-cato a guardia di eventuali disordini che i vigilanti cittadini non fossero stati in grado di controllare. Branwen e Juba avrebbero potuto alloggiare l. Di solito per, preferivano evitare di mesco-larsi con i legionari, non tanto per lassenza di cordialit fra i due principali corpi dellesercito imperiale, Legione e Compagnie,

  • quanto per il fastidio provocato loro dagli sguardi curiosi e dalle domande invadenti che di frequente accompagnavano lingres-so di un consacrato e del proprio vessillario della Rivelazione nellaccampamento. Ultimamente, specie dopo gli eventi della Dacia, Juba e Branwen erano diventati molto discreti.

    Attraversarono i quartieri meridionali di Adrianopoli immer-si nel silenzio. Non incontrarono nessuno, solo un paio di carri merci, costretti dalla legge imperiale a spostarsi di notte per non intralciare il traffico durante il giorno. La citt sembrava riposare tranquilla, cosa che per la verit era piuttosto insolita. Consideran-do il temperamento rissoso della gente di quella provincia, chiun-que avrebbe scommesso che, complici il vino e il buio, le strade vedessero risolte di notte le molte dispute scoppiate di giorno.

    Le decine di trib, disseminate per la Tracia, erano in costante dissidio tra loro. Qualsiasi motivo era buono per spargere san-gue, purch si tenessero ben lontani dagli occhi dei legionari. Il potere centrale si limitava a mantenere lordine nelle aree urbane e in tutti gli insediamenti di rilevanza commerciale per il benes-sere dellImpero. Quello che succedeva nelle zone pi periferi-che della provincia era irrilevante, almeno agli occhi di Roma.

    Soltanto un paio di giorni prima, Juba e Branwen avevano corso il rischio di restare coinvolti in una rissa scoppiata nel-la locanda dove avevano passato la loro prima notte in Tracia. Fortunatamente gli ubriachi che li avevano infastiditi non erano abbastanza privi di senno da correre il rischio di aggredire un consacrato e il suo protettore. Branwen, per, era rimasto disgu-stato dal caratteraccio di quella gente il caledone non tollera-va concorrenti sul piano dellirascibilit e per questo aveva deciso di tenersi alla larga da strade troppo frequentate e dalle citt principali. Adrianopoli faceva eccezione, ma del resto era-no alla fine del viaggio.

    Branwen e Juba arrivarono alla grande Porta del fiume. Oltre i suoi cancelli, fuori dalla possente cinta muraria di Adrianopo-

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    li, si stendeva fino allargine dellEbro un quartiere misero, ma densamente popolato.

    Branwen, vago riguardo alla direzione da prendere, si era limitato a dire a Juba che avrebbero dovuto superare il fiume, varcando il ponte di legno che collegava le due sponde. Da un lato cera il nord della Tracia, brulicante di traffici e commerci, dallaltro si apriva un territorio poco popolato e selvaggio, abi-tato soprattutto da pastori e contadini.

    In fondo saremmo dovuti andare da quella parte comun-que disse Juba. Secondo il programma stabilito, infatti, la mattina seguente avrebbero dovuto presentarsi ad Ardagoro, nei pressi del fiume Arda, a circa venti leghe da Adrianopoli verso sud. Sia Juba che Branwen avrebbero appreso laggi i loro in-carichi successivi, secondo gli ordini ricevuti a Ulpia Traiana.

    La Compagnia della Rivelazione il corpo darmata a cui apparteneva Juba aveva stabilito solo di recente un presidio di vessillo ad Ardagoro, per proteggere il sinodo locale del Col-legio della Rivelazione. Il Collegio aveva scelto quel luogo pe-riferico come quartier generale per il secondo sinodo di Tracia, in quanto rappresentava un comodo avamposto per sondare i misteri dei monti Rodopi, le cui propaggini orientali si spinge-vano fino ad Ardagoro.

    Era raro che un consacrato viaggiasse con la scorta di un solo protettore, ma il caledone aveva preferito cos. Juba si chiede-va se presto le loro vite avrebbero preso strade separate. Gli sarebbe dispiaciuto perch si era affezionato a Branwen, anche se faticava a trovare aspetti del suo carattere quantomeno pi piacevoli della sabbia negli occhi. Comunque non era affatto sicuro che il comandante del vessillo il legato Ottavio gli avrebbe concesso di restare con Branwen, ovunque lavesse de-stinato larconte a capo del sinodo.

    Come era prevedibile, i soldati del corpo di guardia non fe-cero troppe storie nellaprire il grosso portone della citt, get-

  • tando a Juba poco pi che una semplice occhiata. Anche se i popoli dAfrica che facevano parte dellImpero erano impiegati di solito nelle unit ausiliarie dellesercito, non era affatto raro incontrare uomini darmi dalla pelle scura equipaggiati da le-gionari o da vessillari. Se fosse andato a piedi, Juba avrebbe attirato lattenzione per la sua altezza imponente e lo sguar-do fiero; mentre a cavallo, celato dal gioco di ombre mutevoli delle torce, suscitava al pi un guizzo di curiosit, accresciuto dallarmilla che portava al polso. La decorazione del bracciale, dallinsolita foggia, era lemblema che lo distingueva dalle al-tre compagnie, designando la sua appartenenza ai Vessilli della Rivelazione.

    Mentre Juba parlava con i guardiani di porta, il caledone si mostr molto irrequieto: continuava a obbligare il cavallo a un movimento circolare, lasciando che simpennasse ripetutamen-te. Non smise mai di borbottare, lamentandosi del tempo pre-zioso che stavano perdendo inutilmente e, non appena oltrepas-sarono la Porta del fiume, Juba non si stup quando Branwen, al trotto veloce, schizz in avanti.

    La strada principale puntava al ponte, tagliando in due il quartiere steso fra le mura della citt e il corso dellEbro. La zona non era fra le pi tranquille: i nottambuli che volevano divertirsi a poco prezzo e si accontentavano di vino o puttane scadenti, ne affollavano le vie, senza il rischio dincappare nei vigilanti che sorvegliavano entro la cerchia muraria. In teoria alcune attivit erano proibite, specie di notte, ma il proconso-le di Adrianopoli non sembrava interessato a ci che accadeva fuori dalle mura della citt.

    Dun tratto, girato langolo, Branwen e Juba si trovarono di fronte una rissa da strada: cerano quattro o cinque ubriachi chias-sosi che litigavano e si picchiavano, bloccando il passaggio.

    Branwen, concentrato sullurgenza della missione, si infil nel primo vicolo che si apriva di traverso alla via principale.

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    Branwen, no! Aspetta! grid Juba, mentre lo assaliva un brutto presentimento. Spron il cavallo nel tentativo di rag-giungere il compagno prima che fosse troppo tardi.

    Entr nel vicoletto buio dove era scomparso Branwen e sol-lev la torcia; poteva sentire lo scalpitio degli zoccoli della giu-menta, ma non riusciva a capire la direzione da cui proveniva. Avanz con cautela e, dopo qualche passo, scorse il bagliore di una fiamma oltre langolo di un edificio alto, senza finestre. Poteva essere la torcia di Branwen. Si diresse da quella parte e dopo un paio di giri a vuoto finalmente lo trov.

    Era fermo in una piazzetta circondata da magazzini bassi e bui; una montagnola di cocci danfora si ergeva a lato della strettoia fra due muri, quasi un bastione a difesa dellunica via duscita.

    Sopra il mucchio di rottami, ad attenderli, stava un gruppetto di uomini barbuti e malmessi.

    Juba sapeva di commettere un errore, ma non cera molto altro da fare. Diede di sprone al cavallo e affianc Branwen che nel frattempo, era rimasto immobile, reggendo alta la torcia con lo sguardo di chi concentrato a osservare qualcosa dimpor-tante. I suoi occhi, fissi nel vuoto, oltrepassavano gli edifici cir-costanti. Branwen tratteneva a stento la giumenta, innervosita dalla piccola folla apparsa allimprovviso e dalla angustia dello spazio in cui si sentiva imprigionata.

    Se lo disarciona ora, con quei tagliagole intorno, sar morto prima ancora di toccare terra pens allarmato Juba.

    Branwen! grid per richiamare la sua attenzione, ma non ottenne alcun effetto.

    Juba vide con la coda dellocchio che altri uomini uscivano dalle ombre alle sue spalle, stringendoli in una morsa. Ora erano circondati. Laveva previsto, ma la sicurezza di Branwen era pri-oritaria. Riconobbe in almeno un paio di quei banditi alcuni dei partecipanti alla rissa di prima. Per i Sacrissimi, Branwen!

  • Non sai riconoscere una trappola nemmeno quando ti si para davanti? disse imprecando fra i denti.

    A quel punto Juba estrasse il falcione: Andatevene e non vi faremo niente! Nel nome del Vessillo e dei Dodici! grid. Che fosse un vessillario era evidente e si sent immediatamente uno sciocco. Se quei banditi avevano deciso di assalirli, voleva dire che erano disperati abbastanza da non temere le loro spade. Forse la paura di commettere un sacrilegio aggredire un por-tatore del dodekon sarebbe stato un deterrente pi efficace. La decisione se rivelare o meno la propria identit ora spettava a Branwen.

    Il caledone sembrava immerso in un altro mondo. Continua-va a ripetere la stessa frase a voce bassa, come una cantilena: La notte corre le ore piangono tardi dobbiamo andare. Per il momento i suoi demoni interiori gli impedivano di reagire. Era gi qualcosa che riuscisse a tenere in mano la torcia: e Juba si accontent di quella piccola fortuna.

    I banditi, rispondendo alle minacce con una fragorosa risata, parvero comunque esitare. Evidentemente contemplavano lidea di avere catturato nella rete pesci troppo grossi le cui lische po-tevano restargli in gola e, pur avendo il numero dalla loro parte, nessuno voleva fare la prima mossa. Non si sgomita per tirare i dadi, quando la posta la morte.

    Con cautela, incitati da quello che doveva essere il capo, i briganti scesero dalla montagnola di cocci. Si avvicinarono, in-coraggiandosi lun laltro e gridando quelli che Juba intu essere insulti nel dialetto locale.

    Strette le redini fra i denti, il numida tir fuori la sica con la mano sinistra, dopo avere gettato a terra la torcia. Non cera il tempo di sciogliere i legacci che fermavano lo scudo sulla grop-pa del cavallo.

    Per gli di, vada come vada! si disse Juba, mentre si prepara-va a colpire per primo luomo che vedeva di traverso sulla destra.

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    Allimprovviso irruppero nel vicolo due cavalieri, sfondando laccerchiamento e scagliando a terra uno degli uomini. Questi piroett su se stesso e cadde a faccia in su, giusto in tempo per incontrare lo zoccolo, dritto sui denti, di un nervoso puledro gri-gio. Il suono della mandibola fracassata si confuse con il grido strozzato delluomo. Si ud il sibilare di un colpo darcobalista. Juba vide lombra del dardo saettare oltre la spalla, si gir con un tuffo al cuore, immaginando il peggio. Espir di sollievo sol-tanto quando vide lassalitore pi grosso con gli occhi sbarrati e la piuma del dardo in mezzo alla fronte.

    Vi andata male, luridi cani! Chi il prossimo? grid uno dei cavalieri.

    Di qualche anno pi grande di Juba, ma perfettamente sbar-bato, pareva un crogiolo di contraddizioni: indossava abiti da civile, pur portando anche lui larmilla della rivelazione, senza contare che la sua statura era almeno un palmo al di sotto del consentito. Laltro cavaliere, invece, aveva lequipaggiamento di un soldato, indossava una cotta di maglia e un elmo ben calza-to che nascondeva i lineamenti del volto. La luce delle fiaccole si rifletteva sui larghi guanciali del cimiero lasciando in ombra il resto del viso. Reggeva unarcobalista insolitamente piccola che Juba non aveva mai visto prima dallora. Unaltra, quella appena scaricata sulla fronte del bandito, era appesa a un gancio della sella. Anche il secondo cavaliere portava larmilla al polso. Montava un enorme stallone dal manto argentato, il petto largo come quello di un toro da esposizione e inquietanti occhi celesti.

    La marmaglia si disperse con rapidit, ritirandosi nelloscu-rit da cui era venuta, acqua putrida che scolava via nelle fogne.

    Si diffuse un silenzio innaturale, spezzato solo dagli sbuffi cadenzati prodotti dal respiro dei cavalli. Branwen aveva smesso di farneticare. Osservava i due vessillari come un naufrago fissa la cima di una corda gettata per salvarlo dai flutti. Poi cambi espressione e, come nulla fosse, si avvicin, limitandosi a fis-

  • sare tranquillo Juba, che si chiese cosa ne fosse stato di tutta la frenesia e la fretta di poco prima. Aveva quasi rischiato di farli uccidere.

    Ave, soldati esclam Juba, sfoggiando uno dei suoi toni rassicuranti. Io sono Juba di Numidia e il mio compagno Branwen di Caledonia. Chi dobbiamo ringraziare, oltre alla be-nevolenza degli di che vi hanno condotto fin qui?

    Prima che gli sconosciuti potessero parlare, Branwen sembr prendere una difficile decisione e, con un gesto non casuale, sco-st il lembo del mantello che gli copriva il dodekon, lasciando che spiccasse sopra il corpetto di cuoio. Il ciondolo di bronzo sfavill, assorbendo la fiamma della torcia.

    I due cavalieri per un breve istante sirrigidirono ma, imme-diatamente, luomo a capo scoperto si fece avanti in segno di saluto, cos come si deve ai consacrati, esclamando: Che il Tredicesimo ti illumini e ti protegga, Venerabile. Si rivolse quindi a Juba, con un sorriso contagioso che si addiceva ai ric-cioli corti e scuri che gli incorniciavano la fronte. Gli zigomi, tanto erano profondi, sembravano incisi nella pietra; le orecchie, un po sporgenti, e gli occhi, grandi e neri facevano risaltare il naso importante, dritto come nelleffigie di un conio. Aveva la posa sfacciata di chi, capace di vendere la sabbia del deserto anche ai libici, si faceva pure ringraziare.

    Sono Lucio Vibio Valeriano. Veniamo dal Vessillo di stan-za in Mesia Inferiore, i protettori del Danubio. Siamo diretti ad Ardagoro.

    Linflessione e la pronuncia perfetta del latino, pi di quanto non facesse lestrazione sociale rivelata dal nome gentilizio, evi-denziarono la provenienza dallUrbe.

    Juba e Branwen attesero che anche laltro cavaliere si presen-tasse e si girarono verso laltro vessillario, rimasto in silenzio fino a quel momento. Questi, sollevato il braccio liscio e ab-bronzato, si sfil lelmo, lasciandosi sfuggire un piccolo grido di

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    dolore. Forse uno dei suoi fermacapelli rimase impigliato nelle cerniere interne, perch la capigliatura si sciolse allimprovviso. Il soldato borbott qualcosa a mezza voce in tono irritato.

    Lunghi capelli biondi, aggrovigliati dal sudore e dalla spor-cizia, scivolarono gi sulle spalle, risaltando sopra il mantello scuro come se un contadino vi avesse sparpagliato sopra mazzi di spighe mature. Occhi dambra fissarono guardinghi Branwen e Juba che reagirono con la sorpresa di chi, pur avendo visto tanto, stato colto impreparato.

    Io sono Egle di Larissa rispose la vessillaria in tono di sfida. Peggio dellessere salvati da una donna, c solo lesserlo una seconda volta. Suggerisco quindi di allontanarci da questo buco il pi velocemente possibile, Venerabile Branwen.

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    se non a colmarlo di angoscia per lignoto?