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Massimo Fancellu

Lavoro dal 1996 come project manager della consulenza e della

formazione, come docente esperto di sviluppo organizzativo

& change management, comportamenti organizzativi, e

competenze manageriali (comunicazione, team building & la-

voro di gruppo, leadership, life skills, gestione e sviluppo delle ri-

sorse umane), formazione formatori, sviluppo personale e

manageriale e coaching.

Sono un coach professionista (PCC – Professional Certified Coach) certificato dalla International

Coach Federation, organismo internazionale che certifica le competenze dei coach.

Ho maturato esperienza come life, business, executive e team coach, con circa 1.350 ore di at-

tività svolta con circa 400 persone.

Sono esperto in formazione esperienziale, outdoor management training (OMT), pro-

grammazione neuro linguistica (NLP) e comunicazione ipnotica e mi sono formato con al-

cuni tra i migliori esperti nazionali ed internazionali in queste attività.

Nel novembre 2002 ho costituito la società di consulenza Àgape Consulting, di Sassari che, attualmen-

te, amministro.

I MIEI NUMERI (AL 1 AGOSTO 2017)

Oltre 6.000 ore di attività, di cui (circa):

Docenza in materia di comportamenti organizzativi: 4.000 ore con 4.000 persone

Docenza in materia di gestione delle risorse umane: 1.900 ore con 1.400 persone

Docenza in materia di comunicazione: 1.250 ore con 400 persone

Formazione formatori: 900 ore con 950 persone

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Coaching: 1.350 ore con 400 persone

Team & group coaching: 600 ore con 250 persone

Enti pubblici: 2.350 ore con 2.700 persone

Aziende: 1.200 ore con 700 persone

Con questo e-book voglio proporre alcuni stimoli per aiutarti a migliorare il tuo approccio alla gestione

del personale e, soprattutto, alcune tecniche e strumenti per aumentare la motivazione dei tuoi colla-

boratori. Una parte considerevole dei risultati di un'organizzazione, infatti, dipende dall'impegno e

dall'attenzione di chi ci lavora.

Impegno e attenzione che nascono, appunto, dalla voglia di lavorare (motivazione) dei dipendenti.

Ognuno dei tuoi collaboratori ha già le sue motivazioni personali per lavorare e tu, come capo, puoi

rafforzare queste motivazioni oppure indebolirle, se tocchi il "tasto sbagliato". Questo e-book può ser-

virti per capire prima quali tasti toccare se vuoi veder scorrere la motivazione nella tua azienda e mi-

gliorarne i risultati.

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Sommario

Massimo Fancellu .................................................................................................. 3

Introduzione.......................................................................................................... 6

Cosa è la motivazione ............................................................................................................ 6

Perché parlare di motivazione? ............................................................................................. 7

Le strategie che sono indicate in questo libro funzionano?....................................................8

Il modello “6E” - Come incidere sulla motivazione................................................................ 9

Le 6E .................................................................................................................................... 11

Envisioning - Come creare un mondo al quale gli altri desiderino appartenere................... 14

Ora Tocca a te ...................................................................................................... 18

Come applicare le “6E” nella vostra organizzazione?........................................................... 18

Stili di leadership ................................................................................................................ 29

Bibliografia .......................................................................................................... 30

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Introduzione

Cosa è la motivazione

L’etimologia della parola “motivazione” (così come quella di emozione) riporta al concetto di movi-

mento: la motivazione (muovere verso) non è altro che l’insieme di forze che agiscono sulla persona e

la portano ad attivare le proprie energie per fare qualcosa.

Il concetto di motivazione è connesso ai bisogni, ai fini, alle strategie e, comunque, nel complesso, ad

una serie di fenomeni che hanno una funzione di raccordo tra la persona e l’ambiente, dal quale di-

pendono l’innesco, l’ampiezza, la durata e l’intensità, la cessazione di un comportamento.

“La persona motivata è portatrice di un bisogno da soddisfare o di un desiderio da rea-

lizzare, è orientata al perseguimento di un fine ed è impegnata nello sviluppo e nel di-

spiegamento di una strategia”1.

L’idea di motivazione è quindi connessa ad altri concetti come i bisogni, i desideri e le intenzioni,

i valori e gli obiettivi, la causalità e la libertà di pensiero e di azione, l’assunzione di respon-

sabilità.

Quindi, è meglio, per prima cosa, chiedersi quali sono i bisogni (e i desideri) che muovono l’uomo e

che stanno, quindi, alla base della motivazione.

Diversi studiosi hanno provato ad elencare questi bisogni e diversi manager, imprenditori, educatori,

formatori, politici, ecc., hanno tradotto le teorie in comportamenti organizzativi o, senza conoscere le

teorie, le hanno ispirate con le loro azioni.

Quello che ti propongo è una sintesi che tiene conto della teoria e delle ricerche elaborate ma soprat-

tutto del confronto quasi giornaliero con le due metà della mela: datori di lavoro e dipendenti, ciascu-

na parte con legittime lamentele, perplessità, richieste.

1 Da “Emozioni e motivazioni”, Gian Vittorio Caprara, in “Manuale di psicologia generale”, a cura di Paolo Legrenzi, il mulino, Bologna, 1997.

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Molti insuccessi e molti casi (per fortuna) di successo che, insieme con le migliaia di euro investiti in

letture specializzate e corsi di formazione, mi hanno portato a scrivere le considerazioni che leggerai.

Perché parlare di motivazione?

Se sei un imprenditore, sai benissimo che i tuoi dipendenti hanno sottoscritto con te un contratto di

lavoro, con il quale si sono impegnati a prestare la loro opera, le loro energie e la loro attenzione per te,

in modo da portare avanti con successo la tua attività, in base alle tue indicazioni e linee guida e met-

tendo in gioco la loro capacità critica per applicarle tenendo conto delle diverse situazioni.

Se invece sei un dirigente pubblico o privato, sai che lo stesso contratto (o giù di li) i tuoi collaboratori

lo hanno sottoscritto (più o meno come hai fatto tu) con il tuo datore di lavoro.

Questo significa che i tuoi dipendenti, collaboratori, o chiamali come vuoi, dovrebbero essere già moti-

vati, per contratto.

Ma allora perché dovresti leggere questo libro sulle strategie per motivare il personale?

Semplice, perché i tuoi collaboratori non sono motivati come vorresti: non si impegna-

no abbastanza oppure le loro performance non sono soddisfacenti. In entrambi i casi,

faresti meglio a fare qualcosa in merito!

Ho deciso di scrivere questo libro perché, dopo anni che mi occupo di motivazione e auto motivazione,

ho fatto un primo, importante bilancio delle realtà che ho osservato, pubbliche, private, piccole e gran-

di.

Dopo anni in cui mi sono sentito dire da tutti “ma noi siamo diversi”.

Dopo anni in cui ho, invece, scoperto che le radici della motivazione sono uguali per tutti e che, quindi,

a dispetto delle importanti (e delle quali tenere conto) differenze organizzative, le persone funzionano

di base nello stesso modo.

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Ho scritto questo libro perché vorrei darti alcune indicazioni che ti potrebbero essere utili nella tua

quotidiana attività di confronto diretto con il tuo personale, per aiutarti ad avere relazioni più autenti-

che ma, soprattutto, far funzionare meglio i processi di lavoro e migliorare i risultati della tua organiz-

zazione.

Le strategie che sono indicate in questo libro funzionano?

Le cose di cui ti parlo derivano dall’osservazione di cose che funzionano e cose che non funzionano.

Ho scritto questo e-book dopo anni di lavoro, fianco a fianco, con imprenditori e dirigenti pubblici e

privati, oltre che, in diversi casi, con i loro dipendenti. In questi anni ho preso nota dei comportamenti

che, in media, producono risultati positivi e di quelli che, quasi sempre, non producono risultati o, an-

cora peggio, demotivano i dipendenti.

Altra cosa: questi metodi non funzionano con tutti.

Una piccola percentuale di persone danno il massimo anche se vengono trattate nel peggiore dei modi

(se non trovano un posto di lavoro migliore o se non trovano altri interessi).

Un’altra piccola percentuale di persone non muovono più del minimo sindacale (e parlo del minimo

sindacale quando sono sotto stretta sorveglianza, altrimenti…) anche se applichi con loro le strategie di

motivazione più sofisticate: granito puro.

Ma la maggior parte delle persone si aspettano da te qualcosa che nel contratto di lavoro non è scritto.

Quindi, le strategie di motivazione con loro funzionano ed hanno un impatto enorme, soprattutto per-

ché la maggior parte di manager e imprenditori sono convinti che le persone devono lavorare, punto.

Questo sarebbe vero, ma se non lo fanno…

Se non lo fanno allora i conti non tornano, soprattutto se ai dipendenti chiedi di pensare, assumere

iniziative, responsabilizzarsi, essere flessibili, fare squadra… tutte cose difficili da inserire in un con-

tratto di lavoro e ancora più difficili da controllare.

Se pensi che i tuoi collaboratori siano motivati per dovere contrattuale e a prescindere da quello che fai

o dici tu, allora smetti di leggere, questo libro: potrebbe farti cambiare idea.

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Se pensi che i tuoi collaboratori siano già motivati, allora leggi solo se sei curioso…

Se, invece, pensi che i tuoi collaboratori siano poco motivati e cerchi strumenti, allora continua a leg-

gere: questo libro è un buon inizio.

Quindi 2 consigli:

Applica le strategie che funzionano, non applicare quelle che non funzionano e, solo dopo e solo se vuoi, scrivimi per raccontarmi e confrontarti con me.

Valuta le strategie e le soluzioni che ti propongo e, solo dopo, valuta l’effetto che hanno sui tuoi col-laboratori e anche cosa puoi fare per perfezionare i tuoi comportamenti.

Scrivimi per farmi sapere i risultati che sei riuscito ad ottenere, il mio indirizzo è:

[email protected]

Il modello “6E” - Come incidere sulla motivazione

L’etimologia della parola “motivazione” (così come quella di emozione) riporta al concetto di movi-

mento: la motivazione (muovere verso) non è altro che l’insieme di forze che agiscono sulla per-

sona e la portano ad attivare le proprie energie per fare qualcosa. Chi è motivato a lavorare

mette in gioco più energie e, di solito, ha più successo di chi non è motivato.

Nel corso della sua carriera, a ogni lavoratore è capitato, almeno una volta di porsi una o più di queste

domande:

Quale attività svolge questa organizzazione?

Qual è il mio ruolo qui? Quale potrebbe essere in futuro?

Cosa si aspettano da me? Come valuteranno il mio lavoro?

Perché dovrei continuare a impegnarmi in questa azienda?

Cosa voglio ottenere per me, veramente?

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Motivare i collaboratori significa dare risposte convincenti a queste domande: a te è capitato di fartele,

quando sei stato dipendente (se lo sei stato)?

Te le hanno, invece, mai poste i tuoi collaboratori?

In ogni caso, se vuoi esercitare la tua capacità di motivare, rispondi adesso: rappresenta un primo im-

portante test!

Per questo, chi coordina (o dirige, o guida, a seconda del ruolo ricoperto e del suo credo relazionale)

altre persone dovrebbe fare i conti con quelle che ho individuato come le “6E” della motivazione.

Ho deciso di chiamare “6E” una serie di attività strutturate che incidono in modo diretto sulla motiva-

zione del personale e che vengono sempre gestite dalle aziende che riescono a raggiungere l’eccellenza.

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Le 6E

Envisioning - Rendere chiari gli obiettivi e le strategie che l’organizzazione persegue: dob-biamo creare una visione, cioè l’idea di un futuro possibile verso il quale ci si dirige, dà modo a chi lavora nelle organizzazioni di predisporsi al percorso o, eventualmente, di assumere posizioni di di-stacco nette rispetto all’organizzazione stessa e decidere se “starci o non starci”. In questo modo, chi gestisce i processi di sviluppo organizzativo ha modo di rispondere alle obiezioni e, se lo ritiene op-portuno, di “aggiustare il tiro”.

Enabling - Organizzare il lavoro in modo che ciascun dipendente abbia gli strumenti adeguati per raggiungere gli obiettivi che tu (o che, più in generale, l’organizzazione) gli assegni: questi stru-menti sono soprattutto le attrezzature di lavoro, le procedure, le informazioni e l’autonomia deci-sionale necessarie.

Envisioning Enabling Education

Evaluation Empowerment Empathy

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Education - Aiutare le persone ad acquisire o incrementare le competenze (conoscenze, abilità, esperienze finalizzate) necessarie per mettere in atto i comportamenti organizzativi utili a svolgere il proprio lavoro e realizzare la vision. La formazione è l’attività attraverso la quale, tradi-zionalmente, le organizzazioni si occupano di sviluppare le competenze delle persone ma, oltre ad essa, ogni attività che permetta alle persone di confrontarsi (come ad esempio meeting, convegni, riunioni, valutazioni dei capi, dei colleghi, dei clienti…) produce delle occasioni potenziali perché le persone imparino. In ogni caso, le persone imparano soprattutto quando ritengono l’apprendimento utile, accessibile, interessante e alla loro portata.

Evaluation - Valutare le prestazioni, premiare i risultati positivi. Quello che le persone imparano è molto importante ma, in ogni organizzazione, è ancora più importante che le persone decidano di applicare al loro lavoro quello che hanno imparato. Cambiare abitudini (che è l’aspetto più concreto dell’apprendimento) costa impegno, attenzione e richiede convinzione, nei propri mezzi e nel fatto che ogni miglioramento raggiunto venga riconosciuto a livello materiale e psicolo-gico. I cosiddetti “sistemi premianti” servono a chiarire cosa, in termini di comportamenti organiz-zativi, è importante per l’organizzazione e a riconoscere gli sforzi e i risultati di chi decide di alli-nearsi. L’attività di “Evaluation”, quando possibile, parte proprio dalla selezione. Questo in base al famoso proverbio secondo il quale “chi ben comincia è a metà dell’opera”. Spesso gli imprenditori sottovalutano l’attività di selezione del personale e agiscono d’impulso ma proprio grazie a quest’attività si può cominciare a capire il livello di competenza, di motivazione (appunto) e il potenziale di ciascun candidato, oltre ai suoi punti critici. Questo permette di sceglie-re meglio e di non trovarsi di fronte a dipendenti poco portati per determinati incarichi quando di-venta difficile gestire l’emergenza.

Empowerment - Indicare i percorsi per migliorare come organizzazione, come singoli pro-fessionisti, come persone. Il presupposto dell’empowerment è che le persone animate dai desideri sono più vitali, più energiche, più creative e cercano di “esserci” in ogni cosa che fanno, quindi an-che nel loro lavoro. Molte delle aziende che intendono eccellere investono per sviluppare «l’IO de-siderante» dei loro “ruoli chiave” attraverso programmi di coaching, counseling, mentoring, e attraverso attività di formazione che investono sia la sfera emotiva che quella razionale, mirata più allo sviluppo della persona, vista nel suo insieme, che allo sviluppo della competenza in quanto fon-te di business.

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Empathy - Ascoltare, capire e far sentire comprese le persone in quanto tali. Il bisogno di riconoscimento è infatti comune a tutti: quando i collaboratori si sentono trattate come perso-ne si predispongono a dare il meglio di sé. L’empatia è la capacità di capire i bisogni e lo stato d’animo degli altri, nel caso specifico, dei propri collaboratori. Questa è un’area che coinvolge i co-siddetti stili relazionali e di leadership. Non importa se hai un approccio più democratico o autoritario: il riconoscere gli altri è un atteg-giamento “trasversale” che, con tutte le differenze di stile e di approccio, permette alle persone di sentirsi parte dell’organizzazione e/o di un gruppo di lavoro.

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Envisioning - Come creare un mondo al quale gli altri desiderino ap-partenere

Per capire come “creare un mondo al quale gli altri desiderino appartenere” occorre, secondo me, par-

tire dalla fine, cioè dai risultati (vedi fig. 1).

I risultati di un’organizzazione, positivi o negativi che siano, rappresentano la conclusione di un pro-

cesso che coinvolge diversi livelli.

In termini più diretti e visibili, i risultati dipendono dalle azioni, da ciò che si fa: i comportamenti or-

ganizzativi (come ci si relaziona con i clienti e con i fornitori, come si lavora insieme all’interno di

un’organizzazione, come viene promossa l’immagine dell’azienda, come vengono prese le decisioni,

come vengono risolti i problemi, come vengono introdotte le innovazioni e, in generale, come vengono

fatte le cose).

I comportamenti organizzativi, a loro volta derivano da un insieme di elementi “hard” & “soft”

dell’organizzazione: missione, visione, obiettivi, strategie e tattiche, piani e programmi (area strategi-

ca), strutture, competenze, risorse e processi di lavoro (area operativa) come è schematizzato nella

successiva figura:

La cultura organizzativa è l’insieme degli elementi fondanti l’identità di un’organizzazione insieme di

storia, miti, riti, norme, convinzioni e valori che servono a chi opera nell’organizzazione a dare un sen-

so alla realtà.

L’aspetto concreto della cultura organizzativa è il comportamento organizzativo: le organizzazioni, così

come le persone, decidono che azioni attuare, in base a chi pensano di essere e a come rappresentano

internamente il mondo (“mappa del mondo”).

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Figura 1 - gli elementi dinamici dell’organizzazione

Nel caso delle organizzazioni, la “mappa” di riferimento è proprio la cultura organizzativa, legata sia

alla storia dell’organizzazione che al “gruppo di potere” che ne guida decisioni e sorti.

La cultura organizzativa, infatti, si forma e si consolida nel tempo, mentre vengono affrontati e risolti

problemi organizzativi. La cultura organizzativa, infine, rappresenta il “contenitore”, il contesto socio-

psicologico, all’interno del quale vengono definite e rappresentate la missione e la visione

dell’organizzazione.

La missione rappresenta lo scopo dell’organizzazione, la ragione stessa della sua esistenza all’interno

del contesto nel quale opera (es. un dato mercato, per un’azienda). La missione, infatti, definisce ed

identifica il bisogno/i bisogni della collettività che l’organizzazione soddisfa con attraverso il suo ope-

rato. L’importanza della missione è data dal fatto che l’attività (il prodotto/servizio)

dell’organizzazione cambia nel tempo, la missione no.

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La visione è l’immagine che l’organizzazione ha di sé stessa (in rapporto con l’esterno), proiettata nel

futuro. Questa immagine, di solito, comprende:

1. un’analisi degli scenari futuri (evoluzione del contesto nel quale l’organizzazione opera);

2. il modo attraverso il quale, all’interno dello scenario individuato, l’organizzazione intende svolgere

la propria missione.

Robert Dilts, nel suo libro Coaching & Leadership, parlando della velocità di adattamento richiesta og-

gi alle organizzazioni (e, quindi, della capacità da parte dei leader di creare altri leader), utilizza la me-

tafora delle “armi telecomandate”, con le quali si può immediatamente fare fuoco, con progressivi ag-

giustamenti della mira in corso d’opera. Queste armi danno, rispetto ai cannoni, il vantaggio di accor-

ciare i tempi e di non risentire dello spostamento del bersaglio, come invece succede ai più tradizionali

cannoni.

Anche le nostre organizzazioni hanno il problema di doversi adeguare più velocemente possibile agli

spostamenti del bersaglio (target).

Ma, per poter cambiare a loro volta direzione, le persone devono sapere molto bene verso quale bersa-

glio ci si sta dirigendo (missione, visione, obiettivi).

Motivare qualcuno significa renderlo partecipe e corresponsabile delle cose che può andare a fare e che

gli è richiesto di fare.

Per coinvolgere e motivare gli altri bisogna costruire un obiettivo, un’idea o … un sogno, realizzabile,

insieme con loro (ricordate, a questo proposito, che Le persone possono desiderare solo ciò che vedono

o immaginano): se mi chiedi di aiutarti a realizzare una tua idea, mi interessa fino ad un certo punto,

se mi chiedi di ideare e realizzare, insieme con te un mio sogno… non vedo l’ora!!!

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Quindi, ecco alcune domande che possono aiutarti a riflettere e ad agire:

Verso quale direzione si sta avviando la tua organizzazione?

Con quali obiettivi?

Cosa dovresti comunicare al tuo personale per mettere ciascuno nelle condizioni di autogestirsi nel la-

voro, con buoni risultati per l’azienda?

Quale potrebbe essere il modo migliore per coinvolgerli?

E, a questo punto del ragionamento, quale sarà il tuo prossimo passo, in questa direzione?

In attesa di incontrarti, ti auguro buon divertimento, nella costruzione del vostro percorso aziendale.

Visione e missione aziendali oggi sono molto impor-

tanti per aiutare tutti coloro che lavorano nell’azienda

a prendere decisioni veloci quando diventa necessario

attuare delle strategie di risposta ai mutamenti del

contesto: se sai dove vuole arrivare la tua azienda, an-

che in mancanza di direttive, sei in grado di orientarti

e procedere con il tuo lavoro. Se non lo sai, sei obbli-

gato ad attendere direttive da qualcun altro.

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Ora Tocca a te

Come applicare le “6E” nella vostra organizzazione?

Nella mia carriera ventennale come formatore, consulente e coach, ho avuto la grande fortuna di poter

osservare delle realtà aziendali e dei collaboratori sempre differenti, con i quali ho potuto confrontar-

mi lavorativamente.

Adesso vorrei darti alcuni consigli generali sulla motivazione del personale, sui quali potrai riflettere.

Regola fondamentale: “un passo alla volta”.

Lanciarsi in grandi progetti ha senso solo se si ha una volontà ferrea di portarli avanti, altrimenti….

… rischiano di essere demotivanti… Paradossale eh!?!

È, invece, assolutamente basilare mantenere coerenza tra le scelte relative a tutte le aree

coinvolte nel modello delle “6E”: azioni sconnesse e contraddittorie producono incertezze e de-

motivazione, mentre regole e comportamenti semplici e coerenti tra loro infondono sicurezza e fiducia.

Ho dedicato la mia carriera allo studio del processo di influenza dei Leader sulla motivazione dei col-

laboratori, dai cui ho dedotto delle personali “non-regole”, anche se supportate da letture in merito.

Ritienimi l’unico responsabile dei suggerimenti e considerazioni, che definirei “Pillole” di questo e-

book e se hai perplessità non esitare a scrivermi, per uno scambio di idee, al mio indirizzo:

[email protected]

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1. Capricci, responsabilità e ruolo

Molti degli imprenditori e dirigenti che ho conosciuto, sostengono che i dipendenti devono essere mo-

tivati per contratto e che, siccome ricevono un compenso per il loro lavoro (lo stipendio), devono lavo-

rare contenti di farlo.

E allora si lamentano, senza fare niente, se non arrabbiarsi o attuare ritorsioni (in rarissimi casi fun-

ziona, beninteso) invece di andare a fondo al problema. La ragione per cui spesso ci si ferma in super-

fice riguarda la visione del proprio ruolo.

Molti dirigenti e/o imprenditori pensano “Motivare i collaboratori non fa parte dei miei compiti”.

Ma vorrei chiederti: chi dovrebbe farlo, io? Un altro mio collega che li vede per 1, 2, 3 giorni, 1 settima-

na all’anno, nel migliore dei casi, al posto tuo, che lavori fianco a fianco con loro per tutto l’anno?

Probabilmente la lezione l’hai già imparata prima di leggere questo libro, ma la ripeto per chi, a diffe-

renza di te, non ha ancora capito:

Motivare è una delle tipiche responsabilità di un imprenditore e di un dirigente e, quin-

di, fa parte del tuo ruolo di guida del team, è un tuo compito.

Se non ne hai voglia o non vuoi dedicare tempo a questa attività, almeno non lamentarti.

2. Filtri di direzione (e di motivazione)

Le persone “si muovono” verso qualcosa o via da qualcosa.

Quindi, per motivare qualcuno bisogna andargli incontro e soddisfare i suoi bisogni o desideri (il pro-

cesso di motivazione è, in questo caso, uno scambio: la persona agisce per avere un premio - non ne-

cessariamente in danaro – o, comunque, dei vantaggi) oppure mostrargli qualcosa che non vuole o di

cui ha paura, se non fa ciò che dovrebbe.

3. Ascoltare e assecondare

Per motivare qualcuno è quindi necessario “ascoltare lui/lei”, cioè capire qual è la visione

del mondo che ha la persona ed individuare:

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i suoi valori (che è meglio rispettare, quali che essi siano),

i suoi obiettivi,

i suoi modelli,

le sue esigenze

i suoi bisogni.

È facendo leva sui suoi bisogni e non sui nostri che possiamo convincerlo a fare qualcosa che ci inte-

ressa.

Cioè è più facile fare leva sulle motivazioni che le persone hanno già piuttosto che cercare di

imporre loro motivazioni e ragioni che non gli appartengono: asseconda le naturali tendenze dei tuoi

collaboratori e imponi il meno possibile.

4. Autostima e sponsorizzazione

Per motivare qualcuno è indispensabile fargli capire che può ottenere il risultato auspi-

cato; per fare questo è necessario portare la persona a recuperare il suo stato-risorsa, cioè avviare un

processo di riconoscimento/perfezionamento delle capacità (conoscenze, competenze, abilità, modi di

essere, attitudini) che la persona possiede e che gli servono per affrontare una determinata situazione

o per raggiungere un determinato obiettivo.

A volte, quindi, la scarsa motivazione di un collaboratore deriva da una scarsa autostima oppure dalla

convinzione di essere poco capace.

Per motivare qualcuno, insomma, è utile sostenerlo e promuoverne la crescita.

Un buon leader è il principale sponsor dei suoi collaboratori. La sponsorizzazione è il rico-

noscimento e la promozione del proprio e/o altrui valore.

La sponsorship è una modalità che dovrebbe emergere in ogni colloquio e nella relazione quotidiana

con i dipendenti e il suo valore è proprio il sostegno dell’autostima e, quindi, fonte di energia per le

persone.

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5. Mantenere le promesse e dire la verità per aumentare la fiducia

La verità, nel lungo periodo, motiva più della menzogna perché sta alla base della fidu-

cia che, come ha ricordato il Presidente della Repubblica Italiana Ciampi nel messaggio di Capodanno

del 31 dicembre del 20032 «…è tutto, è la forza che ci muove, che ci permette di costruire il futuro…».

Come ricorda Stephen Covey, nel suo libro “I 7 pilastri del successo” 3 ciascuno di noi ha, nei con-

fronti delle altre persone con cui interagisce un “conto corrente emozionale”: se mantiene ciò che pro-

mette (o, più in generale, diffonde positività) guadagna crediti, se delude le promesse che fa (o, più in

generale, diffonde negatività) perde crediti.

Un collaboratore (ma anche un collega, un amico, la persona amata) che perde la fiducia è sempre me-

no disposto ad investire, sia nella relazione che nel compito e, ogni minuto che passa, diventa più diffi-

cile recuperare ciò che è stato perso.

6. Motivazione e libertà di aderire

La motivazione presuppone un certo grado di libertà (nei limiti di ciò che riguarda eventuali contratti

e/o accordi firmati) e, quindi di scelta: fare o non fare.

La logica da adottare con chi “non fa” deve essere soprattutto quella della responsabilità (proiezione

verso il futuro) e non solo della colpa (proiezione verso il passato).

Per coloro che non fanno parte di strutture organizzative specifiche e non hanno quindi a che fare con

collaboratori che hanno firmato un contratto (e preso, quindi, certi impegni), aggiungo che:

La scelta può essere anche quella di stare a certe regole oppure non partecipare “al gioco”. È molto uti-

le (per il proprio benessere psicofisico) accettare che qualcuno decida di non stare al gioco, ogni perso-

na ha un valore in quanto tale e non in quanto accetta di giocare con noi (ovviamente, chi sceglie di

non partecipare, si fa carico delle conseguenze, pur continuando a meritare e ottenere stima e rispet-

to).

2 Fonte: ANSA. Le testuali parole sono state: “la fiducia è tutto, è la forza che ci muove, che ci permette di costruire il futuro”. 3 S.R. Covey, I sette pilastri del successo, Bompiani, Milano, 2000.

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7. Ordini e direttive ovvero la pianificazione e la delega

Uno dei più diffusi “deliri manageriali” è quello di avere delle persone talmente brave da non aver bi-

sogno di dirigerle (“vorrei distribuire i compiti ma non dovrei essere io a verificare”) … ma allora, il di-

rigente/capo/responsabile di funzione:

Non dovrebbe dare direttive

Non dovrebbe motivare

E quale ruolo dovrebbe avere?

Di cosa si dovrebbe occupare?

Lavorare con le stesse mansioni dei collaboratori?

Spesso succede proprio questo e, se ci sei dentro anche tu, accetta il consiglio: esci dal tunnel!

La pianificazione ed il controllo delle attività, magari insieme ai collaboratori migliori

(questo è sicuramente molto utile per generare consenso sugli obiettivi), è una delle

principali attività di chi gestisce risorse umane. Per questo motivo, è irrinunciabile, per un lea-

der responsabile, verificare se (e con quali risultati) i collaboratori svolgono le attività previste.

Le persone sono, di solito, molto più efficaci ed efficienti se capiscono cosa ci si aspetta da loro. Passa-

re un po’ di tempo a parlare (anche tutti insieme) di cosa è successo e di cosa succederà (o di cosa ci si

aspetta che succeda) è molto più efficace che dare per scontato che il collaboratore sappia già tutto.

Per questo motivo, la RIUNIONE è uno strumento fondamentale che, nella maggior parte dei casi,

viene gestito male: se hai partecipato al mio corso “Organizzare e gestire una riunione” oppure ad un

percorso di team coaching, ti sarai accorto della differenza tra una riunione gestita bene ed una coor-

dinata con una scarsa “presenza”, cioè senza gestirne le dinamiche.

Se vuoi approfondire l’argomento o desideri ricevere maggiori informazioni sui corsi, scrivimi a

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8. Strategie di delega

Delegare è un compito importante e delicato per chi gestisce persone perché non significa “tirarsi fuo-

ri” o “passare la patata bollente” ma assumere un ruolo diverso: quello del SUPERVISORE.

Chi delega, se vuole che il suo gruppo ottenga successo, dovrebbe:

Negoziare con i collaboratori il contenuto della delega ed assicurarsi che abbiano l’effettiva possi-bilità di portare a termine l’incarico (dando loro modo di esprimere incertezze, dubbi, difficoltà e responsabilizzandoli nel momento in cui prendono in carica l’attività da svolgere).

Informare/istruire i delegati, assicurandosi di seguire i loro ritmi di ascolto ed i loro tempi di apprendimento.

Sponsorizzare (cioè credere e confermare che hanno le capacità, la possibilità ed il mandato per portare avanti l’incarico) e difendere il loro operato anche nei confronti di altre “entità” all’interno dell’organizzazione.

Controllare lo stato di avanzamento dell’attività (da questo punto di vista, sono molto utili delle riunioni periodiche) e fornire, strada facendo, l’addestramento necessario perché le cose vengano fatte nel migliore dei modi.

Premiare (basta poco, anche solo 2 parole) i comportamenti efficaci/sanzionare (basta poco, an-che solo 2 parole ma diverse da quelle di prima, e dette con un altro tono) i comportamenti ineffica-ci o addirittura controproducenti.

Dare & ricevere Feedback dai propri collaboratori sull’operato e sul funzionamento complessivo dell’organizzazione.

Individuare gli accorgimenti necessari perché aumenti la funzionalità e la fluidità dei processi or-ganizzativi, sperimentare con uno o più test questi accorgimenti e, appena vengono individuate del-le modifiche che portano vantaggi concreti, farle diventare prassi o procedure.

9. Come proteggersi dall’insuccesso

Può darsi, che mentre state leggendo (o anche un po’ prima) ti sia chiesto:

“Ma se dopo che delego i miei collaboratori (ma basta anche uno) non svolgono l’incarico per tempo, o

lo svolgono male, come faccio a recuperare il tempo perso, considerando che anche io ho del lavoro da

fare?”

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Se qualcuno avesse ancora dubbi/difficoltà circa la delega, si ricordi che delegare correttamente

(delegare non correttamente significa “passare la patata bollente” e disinteressarsi di quello che succe-

de) significa curare la salute propria, dei propri collaboratori e la buona funzionalità

dell’organizzazione.

Delegare è un processo di apprendimento e, come tutti i processi di apprendimento, ha bisogno

di una sola cosa: voglia di imparare, tempo per provare ad applicare i processi, riflessione su cosa ha

funzionato e non ha funzionato, applicazione successiva di ciò che è andato a buon fine.

Naturalmente, una volta che ci si è messi d’accordo su obiettivi e performance, è necessario sostenere

ogni lavoratore, sottolineando quanto sia importante per lo stesso leader che tutti riescano al meglio e

si sentano, a loro volta, dei pilastri dell’organizzazione. Per fare questo bisogna imparare a saper dire,

ad ogni collaboratore, con segnali tempestivi e trasparenti, se sta lavorando “bene” o “male”. 0

10. Lodi e sgridate… in un minuto

Quasi tutti i dirigenti aspettano che i loro collaboratori facciano qualcosa esattamente in modo perfetto

prima di lodarli.

Il risultato è che molti non ci arrivano mai, perché i capi si concentrano sui loro errori, cioè su tutto ciò

che resta un momento al di qua della prestazione perfetta desiderata.

Ne consegue che la persona che, abbandonata a sé stessa, non riceve un riconoscimento per ciò che di

giusto è già riuscita a fare, dopo un po’ di volte che è stata punita senza sapere quale è il comportamen-

to considerato accettabile, adotta un atteggiamento molto diffuso in tante aziende: lavora il meno pos-

sibile, con prestazioni scadenti sia come quantità sia come qualità.

Per rendere più semplice questo concetto e capirne la sua naturalezza intrinseca ci basti provare a pen-

sare a cosa succederebbe se, ad un bambino a cui si vuole insegnare a camminare, si desse solo il co-

mando “Cammina!” e poi, quando cade, lo si sculacciasse e gli si urlasse “Ti avevo detto di cammina-

re!”.

Il comportamento di ogni buon genitore è, per fortuna, quello di sorreggere il bimbo e, appena lo si

sorprende a star su da solo, di incoraggiarlo e dare enfasi ai suoi progressi con baci e abbracci.

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Lo so che (per fortuna!) i tuoi dipendenti non sono i tuoi figli, ma ci siamo vicini: la loro parte incon-

scia funzione (e reagisce) esattamente come un bambino piccolo.

Cercare di guidare al meglio un’organizzazione significa seguire molto da vicino l’attività del dipenden-

te e farsi dare, come riscontro, dei rapporti dettagliati sui suoi progressi; questo non per controllare

(metodo largamente utilizzato, purtroppo, dalla maggior parte dei manager attualmente!), ma per es-

sere in grado di cogliere e valorizzare quanto di valido il collaboratore è già riuscito a fare.

Il principio a cui si attiene il leader in questo caso è quello per cui egli aiuta la gente a raggiungere

il massimo potenziale… e, quindi, li sorprende a fare qualcosa di giusto!

Una volta che si è individuato un comportamento o un risultato positivo del dipendente, è fondamen-

tale esternare il proprio apprezzamento con un elogio tangibile e diretto, che in pochissimo tempo fac-

cia capire al collaboratore, guardandolo negli occhi, cosa specificamente ci è piaciuto del suo lavoro.

Questo tipo di elogio funziona meglio se, preferibilmente accompagnando il nostro apprezzamento da

un breve contatto anche fisico con il collaboratore (ad es. una classica pacca sulla spalla), si è in grado

di circostanziare con precisione cosa, esattamente, stiamo elogiando, indipendentemente dal fatto che,

magari, in quel momento, le cose non vadano bene in altri settori.

Sembra incredibile ma diversi studi hanno dimostrato che, in quelle realtà aziendali in cui il lavoro di

ogni collaboratore è valorizzato con segni tangibili in più occasioni, senza che questi debba aspettare

esclusivamente la classica valutazione annuale delle prestazioni, si lavora con più soddisfazione e con

risultati maggiori in termini sia di produttività che di qualità della vita lavorativa. Inoltre, va anche

detto che le “lodi da un minuto”4, come descritte da Blanchard e Johnson nel celeberrimo (per gli ad-

detti ai lavori) libro One Minute Manager, sono importanti soprattutto nei confronti di chi ha appena

iniziato a collaborare con l’organizzazione e, più in generale, ogni volta che si inizia un nuovo progetto

o si affida una nuova responsabilità.

4 K.Blanchard, S. Johnson, L’One Minute Manager, Sperling & Krupfer Editori, Milano, 1983.

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Infatti, quando il dipendente ha capito il valore dell’elogio ricevuto dal suo superiore, è anche in grado

di iniziare, gradualmente, a “farsi i complimenti da solo”, riconoscendo in prima persona quanto di po-

sitivo è riuscito a fare.

È evidente per tutti che in ogni azienda composta di uomini, oltre ai successi, può anche succedere di

sbagliare e, quindi, è importante imparare a fare i conti con gli errori che, in un qualsiasi set-

tore, possono essere commessi.

L’atteggiamento che più di frequente viene usato in questi casi da parte dei responsabili è quello di

“puntare il dito” in tono accusatorio nei confronti del dipendente che ha sbagliato, purtroppo molto

spesso colpevolizzando la persona nella sua totalità: in questo modo è facile ledere gravemente la sua

autostima fomentando, magari, sentimenti di frustrazione o di aggressività.

È fondamentale, invece, saper gestire diversamente questo aspetto e, partendo dal fondamentale pre-

supposto che l’attacco deve sempre riguardare lo specifico comportamento e non la persona, imparare

a dire con franchezza al collaboratore, subito dopo che l’errore è stato commesso, cosa non approvia-

mo del suo modo di agire.

Nelle organizzazioni accade spesso, invece, che il dirigente si trovi ad accumulare risentimenti sul la-

voro scadente di qualcuno e un bel giorno, quando è il momento delle valutazioni annuali delle presta-

zioni o quando si arriva alla classica “goccia che fa traboccare il vaso” si parta alla carica andando

nell’ufficio del “colpevole” a vuotare il sacco, sbattendo in faccia tutti in una volta gli errori di settima-

ne o mesi!

Così facendo il dipendente, il più delle volte, non sente nemmeno quali errori ha fatto ed è facile, in un

simile contesto, che si discuta urlando o mandando giù in silenzio, covando risentimenti reciproci.

Dare feed-back sull’operato delle persone dovrebbe essere, invece, un processo costante che il collabo-

ratore è in grado di vivere come un riscontro più giusto e più chiaro rispetto alle sue performance, che

salvaguarda l’autostima della persona in quanto essere umano.

Saper sgridare in maniera efficace e costruttiva il collaboratore che ha sbagliato è una dote indispensa-

bile per essere un buon leader ed è un compito che va affrontato ogni qualvolta si riscontri l’errore, a

prescindere dall’andamento positivo che, magari, in generale sta avendo quel progetto.

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Significa infatti, dopo aver appurato i fatti, riuscire a dire in modo schietto, guardando in faccia la per-

sona, esattamente in che cosa ha sbagliato, magari anche mostrando la propria rabbia o irritazione (se

ci viene naturale farlo) e far sapere, subito dopo, al collaboratore colto “in errore” come la si pensa in

proposito.

Va chiarito che per esprimere il proprio disappunto bastano veramente pochi secondi e una pausa di

silenzio al termine della sfuriata sarà, probabilmente, molto più eloquente di tante altre parole che si

potrebbero aggiungere.

Non meno importante è la seconda parte della sgridata che va dedicata a dare, invece, sostegno al col-

laboratore ricordandogli la stima e la considerazione che si ripongono in lui e che ci inducono a pensa-

re che, in futuro, avrà le capacità necessarie per non ripetere lo stesso comportamento.

11. Ammettere gli errori

Naturalmente un’altra considerazione da fare è che, come per chiunque, anche ad un buon leader (per

quanto difficile possa essere) potrà capitare, a sua volta, di sbagliare!

Riuscire ad ammettere anche i propri errori e saperli sdrammatizzare con una sana e autoironica risata

(per quanto a volte difficile!) non può che essere la scelta migliore e più coerente che, in questa circo-

stanza, un valido dirigente possa fare; un atteggiamento simile crea, di solito, all’interno del proprio

ambiente di lavoro un clima disteso, divertente e più armonico!

Studi psicologici hanno dimostrato, infatti, che le persone hanno bisogno del contatto con altre perso-

ne che si curino di loro e che le accettino e le stimino in quanto esseri umani; la gente ha, inoltre,

l’esigenza che le si parli chiaro, senza tanti complimenti, da parte di persone che la stimano, quando

non si comporta bene. E così ai genitori viene insegnato a toccare fisicamente il bambino, anche pren-

dendolo in braccio se necessario, spiegandogli per filo e per segno che cosa ha fatto di sbagliato, che

cosa hanno provato loro al riguardo in termini molto chiari. A questo punto l’adulto si concede qualche

attimo di silenzio, così che il figlio possa sentire il suo stato d’animo, dicendogli subito dopo quanto sia

importante per mamma e papà.

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Abbiamo voluto citare anche questi aspetti psicologici semplicemente perché la cosa fondamentale da

ricordare, nel dirigere la gente, è ricordare che noi non siamo soltanto il nostro comportamen-

to e che ciò che conta davvero è che noi siamo la persona che gestisce il nostro compor-

tamento.

12. Investire nelle persone

Le regole finora illustrate, estremamente pratiche, fanno parte di un collaudato e funzionale modello

di management che, applicato da anni sia negli Stati Uniti che in Europa, ha dato risultati decisamente

positivi. Contrariamente alla maggior parte delle organizzazioni che, pur spendendo fino al 70% del lo-

ro denaro per gli stipendi ne spendono meno dell’1% per addestrare il personale, questo modello basa

invece la sua efficacia sul principio che il miglior minuto che si spende è quello che si investe

nelle persone.

Investire del tempo, appunto, per spiegare in termini comprensibili alle persone, senza mai dare nien-

te per scontato, cosa il “Capo” si aspetta da loro, pianificando insieme gli obiettivi è uno dei “segreti”

da apprendere se si vuole lavorare con lo spirito non di punire ma di migliorare i propri collaboratori.

Ricordiamoci anche che dare con costanza dei feedback ad ogni persona è un fattore essenziale per an-

dare avanti con successo, proprio perché il feed-back sui risultati è il principale stimolo per la gente.

Ricordiamoci inoltre che avere uno staff di collaboratori che va al massimo è un ottimo indicatore circa

le proprie capacità di gestione e non (come una visione distorta fa ancora credere a molti manager!) il

contrario! Per comprendere meglio questo concetto è bene partire dalla considerazione che ognuno è

un potenziale vincente…qualcuno è travestito da perdente… ma che non bisogna farsi

ingannare dalle apparenze!

Impartire una punizione alla persona che, per poca fiducia in se stessa o per mancanza di esperienza,

non fa esattamente ciò che vogliamo che faccia è meno utile che ritornare agli obiettivi già concordati e

accertarsi che capisca che cosa ci si aspetta da lei e quale sarebbe una buona prestazione nel suo cam-

po. Sarà utile per tutti, sapendo come obiettivi (gli obiettivi da un minuto) e conseguenze (le lodi e le

sgridate) influiscano sul comportamento del personale, ricordare che gli obiettivi originano i

comportamenti e che le conseguenze mantengono i comportamenti.

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Lodi e sgridate, con tutta la loro semplicità apparente, sono in fondo potentissimi mezzi per far fare al-

la gente quello che si vuole pur senza manovrarle, facendo sapere ad ogni persona, fin dall’inizio, come

ci si comporta e perché. E come in tutte le altre faccende della vita ci sono cose che funzionano e cose

che non funzionano: essere onesti con la gente alla fine funziona!

Stili di leadership

Ciascuno dei suggerimenti che ti ho presentato può essere applicato da chiunque abbia voglia di utiliz-

zare lo stile di leadership che gli è più congeniale.

Tu hai idea di quale sia il tuo stile?

Ci sono diversi modelli che descrivono lo stile di leadership dei manager.

Se approfondisci almeno uno di questi modelli (io, ad esempio, nel mio corso Gestire il gruppo di lavo-

ro utilizzo quello dell’intelligenza emotiva per dare ai partecipanti degli strumenti per

l’autovalutazione), puoi facilmente accorgerti di essere particolarmente bravo in alcuni e di essere me-

no portato per altri.

Ma è meglio usarli tutti. Non siamo tutti uguali e anche i nostri collaboratori hanno esigenze diverse e

modalità diverse di recepire una stessa modalità di approccio da parte nostra.

Ma stai tranquillo, l’autenticità è la scelta migliore e, se hai voglia di imparare, il tuo stile migliorerà di

volta in volta, soprattutto se, alle tue scelte gestionali, aggiungerai una sana autocritica.

Il mio invito e il mio augurio è, in conclusione, che anche tu sappia essere un buon leader che con

obiettivi, lodi e sgridate, sappia dire la semplice verità, sappia ridere, lavorare e divertirti e, cosa forse

ancora più importante, sappia incoraggiare le persone con cui collabori a fare lo stesso!

Massimo Fancellu

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