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massimo rizzante

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Dialogo con carlos Fuentes © 2010-2014 Massimo rizzante

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londra, maggio 2010

Signor Fuentes, la sua è stata un’infanzia nomade e co-smopolita. Figlio di un diplomatico, è nato a Panama nel 1928 e ha vissuto negli anni trenta e quaranta del secolo scorso a Montevideo, Rio de Janeiro, Washington, Santia-go del Cile, Quito, Buenos Aires, trascorrendo le vacanze in Messico. La sua educazione è stata protestante?

e cattolica.

Entrambe?

sì. Mia madre era cattolica e ricordo di non aver mai avuto delle vere vacanze.

Mai?

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negli stati uniti e in Messico i periodi di vacanza non coincidevano. negli stati uniti l’estate giungeva tra giugno e settembre, proprio quando in Messico era in pieno svolgimento il periodo scolastico. così andavo in Messico durante la stagione delle vacanze negli stati uniti, ma in classe... ero costretto a imparare lo spa-gnolo nelle scuole cattoliche. all’epoca c’era un certo equilibrio tra la trasmissione dell’eredità protestante e dell’eredità cattolica.

In Messico, sotto la presidenza di Lázaro Cárdenas (1934-1940), ci fu una ripresa degli ideali della rivoluzione: lotta contro l’analfabetismo, riforma agraria, nazionaliz-zazione delle ferrovie e soprattutto l’espropriazione delle compagnie petrolifere straniere. Lei ha spesso descritto questo passaggio storico come il momento della sua prima presa di coscienza...

Mi sono reso conto di essere messicano. a casa parla-vo spagnolo con mio padre e con mia madre. non ho mai abbandonato l’uso di questa lingua. anche nelle ambasciate parlavo spagnolo. tuttavia, ho scoperto la mia nazionalità messicana grazie alla nazionalizzazione del petrolio. ricordo un titolo della stampa americana di quegli anni: «Mexican bandits steal our oil». Mi sono ribellato. sono andato a vedere un film su sam Hou-ston (uomo politico del XiX secolo e terzo presidente della repubblica del texas). ad un tratto, avrò avuto nove o dieci anni, mi sono alzato in piedi e ho urlato: «Viva il Messico! Morte ai gringos!». Mio padre mi ha

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fatto uscire dal cinema dicendomi: «Mi farai perdere il posto all’ambasciata. non dire queste cose». Da allora ho nutrito un forte sentimento di appartenenza al mio paese. sono stati gli americani a risvegliare il mio spirito patriottico.

Si sentiva un cittadino di categoria inferiore...

all’epoca della nazionalizzazione del petrolio sì, perché non si parlava d’altro nella stampa americana. il Messi-co era descritto come un paese di ladri che espropriava-no i bene americani. Una seconda tappa della sua vita è cominciata nel 1941 tra Santiago e Buenos Aires, dove lei ha vissuto fino al 1944... sono ritornato in Messico nel 1945. a santiago ero stato iscritto a una scuola inglese. era un istituto molto noto. Molti dei miei migliori amici, con cui ancor oggi sono in contatto, li ho conosciuti lì. la disciplina era molto rigida: uniformi, regole, God save the King (all’epoca c’era un King)… e molte notizie sulla guerra. Facevo parte di un gruppo che era considerato alquanto bizzar-ro perché i suoi membri non giocavano né a rugby né a calcio! Parlavamo di libri. eravamo un club letterario più che sportivo. ci sono rimasto tre anni.

E a Buenos Aires?

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a Buenos aires ho vissuto solo un anno. Ho fatto una nuova esperienza scolastica. ricordo di aver detto a mio padre: «Papà, mi sono formato nel New Deal di roosevelt, durante le riforme socialiste di cárdenas e il Fronte Popolare in cile e tu mi iscrivi a una scuola fascista!». in classe il professore ci domandava: «chi aveva ragione: sparta o atene?». si doveva rispondere urlando: «sparta! sparta!». cose di questo genere. nel 1943 c’è stato un colpo di stato fomentato da un gruppo di ultracattolici di estrema destra capeggiati da artu-ro rawson. Perón era al Ministero della guerra. c’era un regime militare molto duro. Ho detto a mio padre: «non voglio più andare a scuola». Mio padre, sempre molto indulgente con me, mi ha risposto: «Hai ragio-ne. allora vai per le strade». avevo quindici anni. Ho cominciato così il mio apprendistato esistenziale. non facevo altro che girare per Buenos aires, una città che amo molto. andavo al cinema, a teatro, nelle librerie...

È stato a questo punto che ha conosciuto Borges... Frequentavo il caffè atenas di Buenos aires ed è lì che ho incontrato Borges e tutta la letteratura argentina. avevo letto molti libri, ma è in argentina che ho comin-ciato a leggere seriamente la letteratura.

A quell’epoca Borges non era molto conosciuto...

alfonso reyes, il grande umanista e maestro di tutti gli scrittori messicani della mia generazione, lo conosceva.

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reyes era stato ambasciatore in Brasile con mio padre. aveva scoperto Borges molto presto grazie a Victoria ocampo (le ricordo che una volta Borges ha definito reyes «il miglior prosatore della lingua spagnola di tutti i tempi»). ed anche leopoldo lugones e adolfo Bioy casares. È grazie a reyes che ho letto Borges.

Ha incontrato Reyes durante il suo soggiorno a Buenos Aires?

l’ho conosciuto all’età di due anni!

È stato il suo primo mentore?

lui e quelli della Facoltà di Diritto di città del Messico. e Manuel Martinez Pedrozo, che veniva dall’università di siviglia. Ho avuto molti maestri. Ma reyes è stato fondamentale. Ho trascorso diversi periodi a cuernava-ca. Mi sgridava. Mi domandava: «Hai letto stendhal?». «no, don alfonso». «a diciasette anni è un peccato mortale non aver letto stendhal. Dai, vai a leggerlo!». Mi sorprendo sempre che l’opera di Reyes sia pratica-mente sconosciuta in Europa. Eppure saggi come Visión de anáhuac (1917), la experiencia literaria (1942), el deslinde (1944) e i suoi retratos reales y imaginarios (1920) sono ancor oggi libri universali...

Bisogna scrivere e leggere in spagnolo per comprendere la grandezza di questo autore. ciò che reyes ha creato

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è unico: ha tradotto la civiltà occidentale in termini la-tinoamericani. che lavoro incomparabile! egli è molto più importante per noi che per i francesi o per i tede-schi. ci ha offerto su un piatto d’argento una visione di omero, di goethe. grazie a lui roma, Firenze, la cul-tura europea hanno smesso di essere lontane, straniere. si sono avvicinate e, per la prima volta, sono diventate parte di noi.

È vero che una volta Alfonso Reyes le ha detto, se non sbaglio, che «lo studio del codice civile è la scuola miglio-re per imparare a scrivere romanzi»? gli dicevo che non volevo fare l’avvocato. tuttavia, come il mio maestro, frequentavo la Facoltà di Diritto. Poi ho trascorso un anno a ginevra dove ho preso il dottorato. sono ritornato in Messico a ventidue anni.

Ha avuto il tempo comunque di passare per Parigi e di leggere uno dei suoi romanzieri più amati...

sono arrivato a Parigi nel 1950. non conoscevo nessu-no. la guerra, o meglio le sue rovine erano ancora pre-senti. la città era molto triste. non avevo amici. allora ho deciso che Balzac sarebbe stato la mia guida, che leggendo i suoi romanzi avrei trovato quello che cer-cavo. cosa che ho fatto. Per settimane e settimane ho letto Balzac con tale intensità che ogni giorno visitavo i luoghi della città seguendo i percorsi indicati nelle ope-re del mio maestro.

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La lettura di Cervantes era giunta prima, immagino...

cervantes è la base, la lingua, non è così?

Ogni volta che leggo uno dei suoi romanzi, signor Fuen-tes, o una raccolta dei suoi racconti, sento risuonare nel-le sue pagine questi due scrittori, quasi fossero le matrici della sua arte...

c’è anche Faulkner e la tradizione gongorista. le dico questo perché un critico americano (ho dimenticato il suo nome) non amava affatto Faulkner e lo chiamava Dixie gongorist. Per quel critico comparare l’opera di Faulkner con quella di gongora era un insulto, mentre per me era ed è un elogio.

A proposito di tradizione, lei ha avuto un’intuizione for-midabile allorché ha descritto la storia del romanzo mo-derno come tessuta da due tradizioni: quella della Mancia e quella di Waterloo. Potrebbe parlarne?

Prima di tutto c’è cervantes. egli continua a essere il più grande romanziere della storia del romanzo. Ha in-ventato il romanzo. come? Ha integrato tutti i generi : pastorale, picaresco, epico, la novella occidentale, il rac-conto arabo... Ha creato un romanzo di romanzi dove c’è tutto, dove tutti i generi formano un nuovo genere con la erre maiuscola, il romanzo. Qual è la differenza tra il romanzo e le altri arti? nel romanzo ci può entrare di tutto. tutto ciò che la storia, la filosofia, il saggio, il

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giornalismo e perfino la poesia non possono dire, il ro-manzo lo può dire: è l’arte più vasta, tutto vi può essere accolto. inoltre, il romanzo, grazie a cervantes, comin-cia a criticare il mondo mettendosi alla prova, critican-do i suoi stessi procedimenti.

In un suo celebre saggio ha scritto che da Cervantes in poi la critica della lettura si «proietta dalle pagine del libro verso il mondo esterno, ma anche e soprattutto e per la prima volta nel romanzo». Per la prima volta assistiamo a «una critica della creazione romanzesca all’interno dell’o-pera stessa: una critica della creazione nella creazione»...

Da cervantes in poi succede qualcosa di meraviglioso. un romanzo non ha più una vera fine, non si chiude ma resta aperto. Perché? Perché è destinato al lettore, il quale è l’unico che può mettere la parola fine. È il letto-re che decide, non il romanziere. il lettore è il secondo autore del romanzo. credo che ogni romanziere lo sap-pia. io non ho mai scritto la parola «fine» alla fine di un romanzo. sarebbe un’offesa alla sua storia.

C’è un altro aspetto. Nella tradizione della Mancia la cri-tica della realtà passa attraverso la creazione della realtà. Il romanzo cervantino apre all’immaginazione concepen-dola non meno reale della Storia. C’è una grande diffe-renza rispetto alla tradizione realista di Waterloo, dove la serietà dei fatti vince sempre sull’invito al gioco...

Ben detto! chi ha scritto, nel corso del XiX secolo, ro-

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manzi come Don Chisciotte, Tristram Shandy o Jacques il fatalista? allorché comincia il romanzo della realtà sociale, il mondo dell’immaginazione autonoma scom-pare. si scrivono solo romanzi sulla società. anche se lo stesso Balzac infrangerà le regole. romanzi come La pelle di zigrino, Seraphita, Louis Lambert sfuggono alle contraintes del realismo sociale.

Questo mi sembra importante. Lei sta affermando che Balzac rompe con la tradizione che lui stesso ha inventa-to? non può non farlo perché Balzac è uno scrittore, non un cronista. Deve fornire un margine di manovra a quella realtà imprendibile che appartiene all’immaginazione e che ha una sua autonomia. lungi dall’essere una realtà che riflette il mondo, essa annuncia senza sosta un nuo-vo mondo, quello che una volta ho chiamato «il mondo imminente». Louis Lambert, ad esempio, è un romanzo che prefigura l’uomo di nietzsche, un uomo talmente intelligente da diventare pazzo!

Lei sta dicendo che Balzac – almeno in alcune sue ope-re romanzesche – non si limita a entrare in concorrenza con il codice civile e a rappresentare la realtà sociale, ma supera quella che Kundera chiamerà «la frontiera della verosimiglianza»...

sto dicendo che Balzac non ha dimenticato la matrice romanzesca dell’immaginazione. sto dicendo che Bal-

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zac introduce l’uomo nella storia, ma gli permette allo stesso tempo di cercare una strada per uscirne al fine di osservarla con una chiarezza ancora più grande. Cosa che Kundera non dice...

no, perché Kundera non è molto balzacchiano, mentre io sì.

La tradizione di Waterloo, in quanto rappresentazione della realtà sociale, mi sembra avere una vita molto lun-ga. Penso, ad esempio, al romanzo europeo degli anni quaranta e cinquanta del XX secolo. E anche ai nostri giorni essa è ben presente, grazie alle valanghe di roman-zi-reportage, romanzi-cronaca, romanzi-documento...

si tratta di non romanzi. anche noi, in america lati-na, abbiamo avuto una lunga stagione naturalista. c’era qualcuno che avrebbe potuto aiutarci a superarla, solo che non ce ne rendevamo conto. si chiamava Machado de assis, il più grande romanziere latinoamericano del XiX secolo.

Assai dimenticato in Europa...

eppure è un romanziere fondamentale se si vuole com-prendere il modo in cui la tradizione della Mancia – Machado de assis, nel suo romanzo Memorie dell’aldilà (1881), ad esempio, si richiama magnificamente all’ope-ra di cervantes, di Diderot, di sterne – non scompare

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durante il secolo della verosimiglianza trionfante.

Pensa che gli scrittori latinoamericani del boom abbiano letto Machado de Assis?

Penso di sì. cortázar lo amava molto. credo che lo ab-biamo letto tutti, poiché rappresenta il legame con la nostra stessa realtà letteraria. io non trovo la mia realtà letteraria in Jorge icaza o in romulo gallegos. non la trovo neppure in emilio rabasa. non mi sento a casa mia quando leggo i romanzieri messicani del XiX se-colo. Mi sento a casa nelle opere di un brasiliano che si chiama Machado de assis.

Allora ci sarebbe una linea della modernità romanzesca latinoamericana che passa per Machado de Assis e giunge alla grande esplosione del romanzo della seconda metà del XX secolo...

una modernità non solo romanzesca, ma anche poetica. a mio avviso la sequenza di questa linea è la seguente: Machado de assis, rubén Darío, Pablo neruda, césar Vallejo, alejo carpentier, Jorge luis Borges, José leza-ma lima. e poi noi.

Kafka? Faulkner?

sono molto importanti. lo è anche Hemingway. Voglio dire semplicemente che esiste un patrimonio, un’eredi-tà dell’america latina. neruda e Vallejo scrivono nella

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stessa epoca di Jorge icaza e di tutti i realisti latinoama-ericani, ma non hanno niente a che vedere con loro. io, cortázar, garcía Márquez e tutta la compagnia stavamo dalla parte della poesia di neruda, dalla parte della poe-sia di Vallejo, e non da quella dei romanzi, per così dire, bananiers. la tradizione si sceglie, non viene imposta. se la tradizione ti viene imposta sei fottuto.

Bisogna creare il proprio albero genealogico...

certo, è così.

Nella sequenza che lei ha appena enumerato ci sono sia romanzieri che poeti. Ciò significa che lo strumento lin-guistico, lo stile, per lei e i suoi compagni di avventura era ed è un elemento fondamentale non solo per la poesia ma anche per la prosa romanzesca? sì. un naturalista bananier non è interessato alla «pa-rola giusta». Quello che gli interessa è raccontare una storia che abbia delle conseguenze sociali. noi, al con-trario, eravamo molto attenti alla poesia del romanzo. gli esempi più evidenti da questo punto di vista sono Paradiso di lezama lima e Rayuela di cortázar.

Mi sembra che in quello che dice lei rivendichi alla stesso tempo la specificità della tradizione moderna latinoameri-cana e la sua universalità. Sono completamente d’accordo. Bisogna conoscere in modo profondo la nostra cultura per poter incrociarne altre e costruire le fondamenta di una

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nuova creazione. È stato proprio Alfonso Reyes ad affer-mare che «Ogni cultura è vantaggiosamente nazionale se è generosamente universale». Io vi leggo un cosmopoli-tismo non conformista... Tanto più che Reyes abbraccia-va questa visione negli anni trenta e quaranta del secolo scorso quando pronunciare la parola «cosmopolita» era quasi un delitto...

oggi siamo al di là del cosmopolitismo. come ho detto più volte gli artisti, i romanzieri creano un’altra storia, pur essendo immersi nella nostra storia. Da queste due storie nasce la vera storia che è sempre il risultato di ciò è avvenuto e di ciò che sarebbe potuto avvenire. Bi-sogna perciò tener conto di ogni artista, di ogni roman-ziere affinché la storia ci venga restituita in modo legit-timo. l’immaginazione di un romanziere non ha confini nazionali. c’è l’opera individuale, l’opera di ciascun au-tore. non posso dire che Juan goytisolo è uno scrittore spagnolo. goytisolo è lui con o senza la spagna, così come Kundera lo è con o senza la cecoslovacchia. Pos-siamo dire che nadine gordimer è un’autrice sudafri-cana? So what! Questa idea, me ne rendo perfettamente conto, per me è del tutto evidente, banale, ma non lo è altrettanto per molti professori universitari o per i gior-nalisti. Queste persone desiderano collocarci in qualche corrente letteraria, in una generazione, in una nazione. Ma per i veri romanzieri questi sono problemi del tutto superati. tutto ciò non ci interessa. io mi sento più vici-no a Milan Kundera e a Juan goytisolo che a moltissimi scrittori messicani. sì, sono un cittadino messicano, la

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politica messicana mi interessa, la realtà del mio paese mi costringe a prendere spesso una posizione, ma quan-do si parla dell’arte del romanzo io sono più vicino a Hermann Broch.

Da un po’ di tempo ho cominciato a classificare i roman-zieri non più a partire dalla loro nazionalità ma dalla lin-gua in cui scrivono. Ad esempio: Honoré de Balzac, ro-manziere di lingua francese; Carlos Fuentes, romanziere di lingua spagnola; Milan Kundera, romanziere di lingua ceca e francese. In questo modo vorrei mettere in rilievo la storia dell’arte del romanzo, le singole opere romanze-sche, le quali non possiedono una nazionalità...

sono d’accordo. i giudizi accademici sono sempre limi-tati. a questo proposito sto leggendo una biografia di nietzsche che è assai istruttiva. l’accademia tedesca im-provvisamente si accorge che quest’uomo è pazzo, che non ha niente a che spartire con l’università, che insulta i professori, che nuoce alla serietà degli studi filologici e filosofici. che se ne vada al diavolo! infatti lo espello-no dal mondo universitario come fosse un apolide, un nemico. ed è esattamente quello che bisogna essere! se non rompi con la tradizione, infatti, non creerai mai nulla di nuovo. la tradizione dipende dalla creazione e la creazione dipende dalla tradizione. le due sono complementari. Ma se accetti a capo chino, con spirito gregario la tradizione non sarai mai un buon scrittore.

È anche il suo caso all’inizio della sua carriera letteraria.

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Nel 1958, quando appare la región más transparente (l’ombelico della luna), lei rompe con una certa tradizio-ne romanzesca...

la letteratura messicana aveva dato vita a una corren-te che si è soliti chiamare «il romanzo rivoluzionario». Penso soprattutto a Mariano azuela, al suo romanzo Los de abajo, pubblicato nel 1915, o ai romanzi El agui-la y la serpiente (1928) e La sombra del caudillo (1929) di Martín luis guzmán, ministro del governo Madero, poi compañero di Pancho Villa, di cui scriverà le me-morie (Memorias de Pancho Villa, 1951). Poi, in modo inatteso, emerge un grande romanziere: agustín Yáñez. il suo Al fil del agua appare nel 1947. si tratta di un romanzo sull’epoca che precede la rivoluzione, sulla tempesta che si avvicina, nel quale il romanziere utilizza procedimenti letterari che vengono dal romanzo euro-peo e americano (Kafka, Joyce, Faulkner) che nessuno in Messico è in grado di comprendere. in seguito, nel 1955, esce Pedro Páramo di Juan rulfo che porta al mas-simo livello artistico i temi del cacique, della rivoluzione, della vita dei contadini. non era possibile andare più in là di Pedro Páramo. Me ne sono reso conto quando ave-vo venticinque anni. Mi sono domandato allora quale poteva essere un argomento che gli scrittori messicani non avevano mai trattato. il romanzo rivoluzionario e post-rivoluzionario era stato una lunga epopea agraria. Perché non parlare della città! città del Messico con i suoi cinque milioni di abitanti (all’epoca. oggi ce ne sono quasi venti!) di cui nessuno aveva mai parlato, in-

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credibile, no? il mio tema era lì, davanti a me. non mi restava che sedermi e svilupparlo! La región más tran-sparente era un’opera votata fin dall’inizio a essere que-sto, un romanzo su città del Messico. un romanzo ur-bano. in Messico, una cosa del genere non era mai stata tentata. Dal punto di vista formale dov’era la novità?

innanzitutto la rottura della sequenza temporale. Defi-nitiva. non potevo mostrare il senso del tempo di città del Messico seguendo il corso lineare del tempo: uno, due, tre... il caos della città, ai miei occhi, aveva biso-gno di un altro schema: uno, venti, quindici, quattro, tre, venticinque... Poi, la pluralità delle voci. si tratta di un romanzo corale che doveva abbracciare una città dove non si sente una sola voce – storica, sociale, poli-tica – ma una moltitudine di voci divergenti. anche in La morte di Artemio Cruz (1962), in apparenza la con-fessione in prima persona, attimo dopo attimo, di una fine ineluttabile che ha luogo il 9 aprile di un anno senza primavera, le voci sono almeno tre...

In effetti nella sua opera i due procedimenti sono sempre stati presenti. Si potrebbe affermare che attraverso di essi lei aspiri a cogliere la coesistenza dei tempi o simultanei-tà? E questa non è forse una delle grandi sfide del roman-zo moderno?

È la sfida del romanzo moderno. la grande domanda

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del romanzo moderno è la seguente: perché la scrittura è condannata alla successione e non alla coesistenza? il romanzo moderno è una grande rivolta contro questa legge. un quadro si presenta per quello che è. tutto è presente e ha luogo in modo simultaneo. Picasso lo ha sottolineato. Per un romanziere è diverso. egli è sem-pre costretto a fare i conti con quella celebre «marchesa che esce di casa alle cinque del pomeriggio». il proble-ma che io mi pongo continuamente e quello di forni-re, attraverso la forma e gli strumenti del linguaggio, la sensazione della simultaneità. si tratta di un problema enorme. Ma allo stesso tempo è un gran bel problema. il romanzo, infatti, nasce sempre da ciò che gli sbarra la strada, non da ciò che lo favorisce.

Come rompere con la story, salvaguardando l’aspetto epi-co del romanzo... È quello che hanno praticato, ciascuno a suo modo, due dei suoi maestri, Faulkner e Broch…

sì. anche se Faulkner è stato molto importante agli inizi della mia carriera, mentre Broch l’ho letto un po’ più tardi. Broch mi ha confermato quello che pensavo di aver compreso per conto mio, ma lo ha fatto ai massimi livelli. Mi ha fatto capire che non avrei mai potuto scri-vere un romanzo così straordinario come I sonnambuli. È estremamente utile sapere che non si potrà mai rag-giungere certe vette, che non si riuscirà mai a scrivere Don Chisciotte o I sonnambuli. Ma ci sono parecchie cose nel mezzo. sia Faulkner che Broch confermano tutto quello che abbiamo detto sul romanzo moderno:

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pluralità di voci; simultaneità temporale; rottura della narrazione attraverso l’incursione in altri generi come la poesia, il saggio o in altri territori come la filosofia...

cambio de piel (1967) è un romanzo molto emblemati-co per comprendere ciò che lei ha chiamato una volta la «seconda realtà». I quattro personaggi che viaggiano tra Città del Messico e Veracruz e che saranno costretti a tra-scorrere una notte a Cholula, un villaggio attorniato dalle piramidi azteche, scopriranno di fronte alla Storia, al mito e alla morte la loro vera personalità...

È la realtà creata da ogni romanzo che è insostituibile.

Che cosa significa? Che per accedere alla «seconda realtà» è necessario lottare contro la prima realtà, cioè contro la propria storia personale e collettiva?

c’è tutto quello che ci circonda, ma c’è anche la pos-sibilità di andare al di là conservando tutto quello che ci circonda. la storia può essere presentata in molti modi. come le ho detto prima sto leggendo nietzsche. nietzsche se la prende con Burckhardt e con coloro che considerano la storia come passato.

Come un monumento, non è così?

esattamente. nietzsche afferma che la storia è il pre-sente. la si fa. sarà passato, ma bisogna stare attenti al presente: quello che succede oggi è anch’esso parte

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della storia. nietzsche rivoluziona la nostra concezione del passato e ci costringe a pensare il presente in termini storici. noi viviamo oggi. Domani avremo un ricordo di quello che è stato. non si può ignorare questo fatto, come non si può ignorare che il passato è stato vissuto, che, come ho detto molte volte, «l’origine del passato è il presente». si tratta di una grande rivoluzione, penso. la storia non è lo studio del passato ma la visione del presente.

Ciò significa che il tempo del romanzo è il presente stori-co, inteso come un continuo andirivieni, aperto, possibile tra il prima e il dopo?

un romanzo non possiede passato. in senso stretto esso può contenere un passato perché, ad esempio, è stato pubblicato nel 1620. Ma il suo tempo coincide con quel-la visione del presente che è possibile se non si separa quello che siamo in grado di immaginare da quello che siamo in grado di ricordare. La terra nostra del romanzo è quella in cui si può immaginare il passato e ricordare il futuro.

In cambio de piel, ma anche in molti altri romanzi – penso a gringo viejo (1985) – i personaggi devono con-frontarsi anche con un’altra realtà, una terza realtà forse, quella del mito...

Prima di tutto c’è il mito. il viaggio greco, diciamo. non è perché sono esistite l’asia Minore e la grecia che si

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passa dal mito all’epica. Prima l’uomo immagina, poi viaggia. Ma prima di viaggiare, egli ha immaginato. il mito è l’immaginazione che precede il viaggio, che pre-cede la lotta e l’epica. l’epica conferma o nega il mito, ma il mito è alle origini delle cose. le cose nascono nei miti, si sviluppano nell’epica e muoiono nella storia. a questo punto bisogna prendere il tutto e, come un al-chimista, rianimarlo.

Può capitare che la narrazione romanzesca demistifichi o relativizzi l’autorità del Principio, della verità miti-ca? Penso ad esempio alla tetralogia di Thomas Mann o all’ulisse di Joyce...

il potere romanzesco è allo stesso tempo mistificatore e demistificatore. Per questa ragione può inglobare tutto, compreso il mito. tuttavia, io intendo il mito nel senso greco, lo ripeto, non nel senso banale che gli viene at-tribuito nel linguaggio sociologico, ma nel senso di dare senso al mondo. Prima c’è il mito, poi l’epica, poi la sto-ria, poi il romanzo, cioè la lotta. Può esistere un romanzo tragico?

la tragedia è greca. la tragedia muore con il mondo greco. il mondo cristiano non può accettare la tragedia. Perché? Perché c’è la redenzione, perché, alla fine, si va in cielo o all’inferno. neppure il mondo moderno può accettare la tragedia poiché cova il suo uovo d’oro, il progresso, grazie al quale siamo tutti condannati a esse-

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re migliori, a inventare macchine sempre più perfette, a vivere sempre di più e meglio. la tragedia, in grecia, era un pensiero. nel mondo moderno è al massimo un sentimento. credo che solo Faulkner l’abbia sfiorata, ma non ha potuto toccarla. il mondo era contro di lui. il mondo moderno non ammette la tragedia. ammette il crimine. auschwitz è un crimine, non una tragedia. Bisogna distinguere.

Un argomento che in quanto romanziere dovrebbe starle particolarmente a cuore è quello del personaggio. Se la grande domanda del poeta è «Chi sono?», quella del ro-manziere potrebbe essere formulata in questo modo: «Chi è quell’io che il personaggio esplora?»... il personaggio è una possibilità biografica del romanzie-re. raskolnikov è il prodotto dello spirito di Dostoevskj, è una delle possibilità dell’uomo Dostoevskj. Ma il per-sonaggio romanzesco non sarebbe tale se non andasse al di là dell’uomo e della sua radice biografica. la grande sfida del romanziere è precisamente quella di dare una voce propria a ciascuno dei suoi personaggi. insisto sul plurale poiché non c’è mai un solo personaggio in un romanzo, ma molti e spesso in contraddizione tra loro. in Dostoevskj troviamo nastas’ja, Myškin, rogožin, aglaja, gente completamente diversa, con interessi per-fino opposti, in lotta. il romanzo è questo: una lotta sen-za quartiere. Bisogna trasformare ogni personaggio in un’entità impensabile al di fuori del romanzo. che le posso dire? Hans castorp, per quanto reale possa sem-

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brare, non esiste che in un romanzo specifico. Ma, allo stesso tempo, lo supera. ciò pone un problema che non si può risolvere. sarebbe possibile Hans castorp senza La montagna incantata o esisterebbe La montagna in-cantata senza Hans castorp? Forse sì, forse no. non ho una risposta. Proprio perché non ho una risposta posso scrivere. credo sia molto importante che un romanziere si ponga domande a cui non sa rispondere. i roman-zi non esistono per dare risposte. Questo è quello che voleva il realismo socialista e tutti i realismi di questo mondo, non crede? come si deve comportare la classe operaia? no, no, non è questa il punto. il romanzo deve porsi continuamente domande e rimanere aperto fino alla fine.

Penso a Broch, à Kiš, a Kenzaburo Oe, à Juan Goytisolo e a lei, ai suoi romanzi dove la costruzione psicologica dei personaggi è stata superata e sostituita da una concezione sovrapersonale, come di qualcuno che viaggiasse nel tem-po...

Verissimo: per illuminare il presente bisogna risalire a un passato profondo. Pasenow, esch, Huguenau, i tre personaggi dei Sonnambuli, non sono concepibili al di fuori di tutta la storia europea. Quello che lei chiama «costruzione sovrapersonale» del personaggio concer-ne sempre il problema del tempo. che ce ne facciamo del tempo? esiste un tempo del romanzo? no, non esi-ste. il tempo di Faulkner esiste solo in un romanzo di Faulkner! il passato di una famiglia che vive negli anni

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trenta del XX secolo nel sud degli stati uniti può evo-care una famiglia che vivrà nel sud degli stati uniti del futuro? il tempo diventa simultaneo. Proust e la sua ri-cerca del tempo perduto. Questo tempo esiste perché egli lo ricorda? o esiste anche se egli non riesce a tratte-nerlo? non lo sappiamo. ci deve essere un mistero. Dal momento in cui cominciamo a dare risposte semplici a un problema complesso non stiamo più dicendo la veri-tà. ogni giorno c’è meno mistero, meno complessità, e perciò meno verità.

E meno lettori…

Perché c’è troppa concorrenza. Ma, lei lo sa, il roman-zo, nel corso della sua lunga storia, è uscito vincitore da tutte le competizioni. il giornalismo doveva chiudere definitivamente i battenti al romanzo. Poi il cinema, la radio, la televisione, oggi i new media, i social network... eppure nessuno ce l’ha fatta. Forse ci sono meno letto-ri. Forse il club dei romanzieri è sempre più ristretto. Ma il romanzo è sempre vivo per il semplice fatto che è insostituibile. Mi dica il titolo di una trasmissione te-levisiva, di un sito web o su twitter o su qualsiasi altro mezzo di comunicazione che sia in grado di dare quello che un romanzo di Milan Kundera può dare. l’infor-mazione o gli archivi, siano essi cartacei o digitali, non rappresentano l’essenziale. i romanzi di Juan goytiso-lo o di nadine gordimer possono avere una base nella realtà, nella storia, ma la superano, la attraversano, la trasformano. in un buon romanzo si opera una meta-

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morfosi, un’alchimia. Penso all’epoca in cui ho scritto Terra Nostra (1975). Questo romanzo ha l’ambizione di ricreare il mondo ispanico. Qualcosa che nessuno aveva tentato prima. riscrivere allo stesso tempo la storia del-la spagna e dell’america latina. l’ho concepito come una sorta di cosmovisione del mondo ispanico e delle sue due sponde, quella mediterranea e quella atlantica. sa quanti libri sono stato costretto a leggere? centina-ia... sono andato nelle biblioteche di Washington, di new York, di londra, di Parigi, di Madrid… Volevo conoscere tutto nei minimi dettagli: chi aveva costruito quel palazzo? com’era quella collana di perle? uno dei traguardi principali di Terra Nostra: ricostruire la realtà storica, ad esempio, descrivere la successione dinastica spagnola – Filippe ii, carlo V, etc. – ma come possibi-lità. nel mio libro non è colombo che scopre il nuo-vo Mondo, ma un re di spagna che, molto più tardi di quanto sia accaduto nella realtà storica, vi invia alcune navi. la cosa, ai miei occhi, non è così importante. in questo modo si opera una ricreazione della storia se-condo la mia immaginazione. che succede nella storia? la storia è come una piazza da cui vediamo allonta-narsi a raggiera sei viali. ne scegli uno e sacrifichi gli altri cinque. tutto questo è stato possibile. o meglio, è possibile. non lo so. Ma non c’è mai una sola possibili-tà, foss’anche quella del fatto storico, dell’avvenimento storicamente accaduto. la storia è una goccia nell’oce-ano delle possibilità dell’immaginazione... Immagino che gli storici non la pensino come lei...

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sono stato accusato di aver deformato la storia. come è possibile? carlo V e carlo ii (el Hechizado) coincido-no nella stessa persona? no. eppure nel mio romanzo sono la stessa persona. non è possibile ed è possibile. ciò è vero per tutti i romanzieri. la storia scritta dai romanzieri è la storia delle possibilità che non si sono realizzate e che possono sempre realizzarsi.

Ho amato molto due suoi romanzi, l’albero delle aran-ce (1994) e la Frontera de cristal (1995). Soprattutto la loro forma: sono romanzi composti da una serie di rac-conti autonomi o variazioni sullo stesso tema. Mi hanno ricordato il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera e enciclopedia dei morti di Danilo Kiš. Nell’albero delle arance, in particolare, il tema è la relazione tra l’Europa e l’America Latina. L’albero delle arance incarnerebbe la fusione tra queste due civiltà che, del resto, come lei mo-stra nel romanzo, non si è ancora pienamente realizzata...

esiste una relazione molto particolare tra l’europa e l’america latina. ciò deriva dal fatto che mentre noi in america latina siamo molto coscienti del nostro lega-me con l’europa, l’europa non è affatto cosciente del suo legame con l’america latina. Questo squilibrio è dovuto forse a un complesso d’inferiorità dell’america latina nei confronti dell’europa? no, nessun comples-so, piuttosto il desiderio di completare il nostro mondo, di creare un mondo più ricco, più complesso. Borges e Reyes erano già perfettamente consapevoli del-

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le loro radici europee... Tuttavia, ricordo questa frase di Reyes: «L’America Latina giunge sempre in ritardo al banchetto della civiltà»...

non penso che siamo arrivati in ritardo. Ma è vero che noi veniamo da lì, dall’opera di Borges e di reyes. e forse dovremmo risalire ancora nel tempo fino al XVii secolo e all’opera di suor Juana inés de la cruz. È lei a parlare degli indios, delle erbe, della nuova spagna, delle montagne, delle cose che non non ci sono in eu-ropa e che lei, per prima, considera degne della lingua spagnola. siamo ben consapevoli di appartenere alla cultura europea, ma anche di avere le nostre radici nella cultura degli indios delle americhe e nella cultura afri-cana. siamo «policulturali»: la policultura è la defini-zione stessa della nostra modernità. se gli europei non lo comprenderanno saranno esclusi dall’avvenire. ab-biamo assimilato la parte europea delle nostre origini e stiamo guardando altrove, verso l’africa, verso i paesi del Pacifico, verso l’asia, il giappone, la cina. il nostro mondo oggi è molto più cosmopolita di quello in cui vivevamo quando esploravamo le nostre radici europee. tutto questo è finito. Penso che il Pacifico sia il futuro del mondo. la relazione atlantica, che ha contraddistin-to la mia generazione, è il passato. Nel suo saggio geografia del romanzo (1993), lei parla proprio di questo. Lungi dall’essere un eurocentrico – cosa che non ha più senso –, credo tuttavia che non si possa far finta di ignorare che la storia del romanzo sia nata in

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Europa. Prendiamo un caso esemplare: Salman Rushdie, un indiano-pakistano che scrive in inglese e che fin dal suo primo romanzo si richiama continuamente all’opera di Rabelais. Se faccio ritorno alla mia classificazione, che non accorda molta importanza alla nazionalità degli auto-ri, Rushdie è un romanziere di lingua inglese. È la storia del romanzo che conta, non la geografia linguistica. Che ne pensa?

sono del tutto d’accordo. nel mio saggio volevo sem-plicemente dire che il romanzo è diventato universale. la geografia si è enormemente allargata. trenta anni fa chi avrebbe pensato che ci sarebbero stati grandi ro-manzieri in sud africa? certo, il romanzo non è nato in sud africa, è un prodotto dell’europa. Del resto, gli europei hanno sospettato che ci fossero dei grandi ro-manzieri latinoamericani, ma il sospetto è durato piut-tosto a lungo. allo stesso modo, hanno impiegato molto tempo a riconoscere che negli stati uniti esisteva una grande arte del romanzo. Ma la domanda è: rushdie si richiama a rabelais sprovvisto della narrativa asiatica? rushdie non è semplicemente un romanziere neocolo-nialista. giunge in europa con il suo bagaglio narrativo. Questo vale per tutti noi. nel mio caso è il mondo mes-sicano con le sue radici precolombiane, i suoi miti, le sue religioni. io lo accolgo nei miei romanzi così come gli scrittori di Haiti o della Martinica portano nei loro romanzi il mondo africano. non parlo perciò di ridu-zione ma di ampliamento. ci sono numerose tradizioni orali, sonorità epiche e poetiche che vengono da molti

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mondi che si manifestano nel romanzo in modo espli-cito e personale... insisto ancora una volta sul fatto che ci sono romanzieri individuali, non scrittori che appar-tengono a un paese o a una scuola... tutto questo è fi-nito. ogni scrittore porta con sè la propria tradizione narrativa: latinoamericana, pakistana, cinese. esiste una storia dell’arte del romanzo, ma ci sono molti passati del romanzo, molte linee del romanzo che si devono an-cora scoprire, esplorare. Bisogna fare uno sforzo. tocca a lei, alla sua generazione, sondare le tradizioni segrete che forniscono al romanzo un’estensione universale e che sono incarnate da romanzieri individuali. c’è una grande povertà nella critica attuale, una povertà che non è di oggi. se gli scrittori, i romanzieri, i creatori, i poeti non scrivessero saggi critici, la critica sarebbe ancora più povera. il loro apporto è molto importante. i saggi sul romanzo di Milan Kundera sono essenziali per comprendere non solo la sua opera, ma la storia del romanzo. nel mio caso non si tratta di un obbligo, ma di un piacere, di un modo di scoprire me stesso. se non scrivessi su Kundera, comprenderei meno me stesso. Mi sentirei più isolato.

Esplorare le possibilità ancora incompiute dell’arte del romanzo: ecco, questo mi sembra essere il compito del ro-manziere... e del critico. Solo scoprendo le tradizioni se-grete del romanzo si potrà giungere a descrivere una nuo-va mappa della storia del romanzo...

stiamo creando dei mondi non solo letterari ma politici,

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sociali, culturali. la novità ci sorprende, ma è una no-vità carica di passato. È una sorpresa continua e senza sorpresa non si scriverebbe. non si scrive solo per ri-cordare il passato o per dare voce a ciò che non c’è più. ci sono mondi che si stanno avvicinando, che ci pren-dono per mano. Bisogna ricordare quello che abbiamo dimenticato e bisogna mostrare quello che è imminente: è così ed è eterno. non si mette mai la parola fine al mondo né a un romanzo.

Mi sembra l’idea chiave: un romanzo non finisce mai e in un romanzo tutto è presente. Il presente del romanzo è il più grande antidoto all’attualità...

ci sono due cose che ci spaventano: da una parte l’attua-lità e dall’altra il passato che ci nega la possibilità di una nuova creazione, il passato che ci domanda obbedienza: l’omaggio al passato in quanto passato. il romanziere rifiuta entrambe le cose. c’è un presente nel romanzo, ma allo stesso tempo questo presente è passato. siamo sempre dentro una tradizione e siamo continuamente spinti alla creazione. le due nozioni non si possono se-parare. Questo è l’essenziale...

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