Maria Beatriz Do Mar

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Fantastico. Una favola per adulti. Maria Beatriz vive a Genipabu, una spiaggia del Nord Est del Brasile. Genipabu è tanto piccola che non si è guadagnata il nome di città, cittadina, paese e neppure frazione: è la Praia de Genipabu. Poche case bianche con le imposte blu, una piccola chiesa dedicata a San Sebastiano, una grande, luminosa spiaggia e delle dune di sabbia. Maria Beatriz non parla con nessuno, mai. La chiamano “a loca”, la pazza, e tutti le vogliono bene. Per la verità lei parla, dice: «Bom dia», buongiorno, a chi scriverà la sua storia. La si incontra su quella bellissima spiaggia che termina con una duna bionda che sembra un cammello. La cosa straordinaria è che Maria Betriz parla ai delfini che si avvicinano tanto a lei da rischiare di spiaggiarsi. Forse matta lo è davvero, forse no. Maria Beatriz nelle notti senza luna fa l’amore con gli uomini di Genipabu; le donne non ne sono gelose perché si tratta solo di una povera pazza che fa tornare a casa i mariti tranquilli e

Transcript of Maria Beatriz Do Mar

In uscita il 31/3/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2015

(2,99 euro)

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CARLO MARCHI

MARIA BEATRIZ DO MAR

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MARIA BEATRIZ DO MAR Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-872-5 Copertina: immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Marzo 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Agua clara, céu azul,

suave ser, alegria contida,

moças florescem no azul

da manha recem-nascida

Diogenes Da Cunha Lima

PARTE PRIMA

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SI COMINCIA DALLA METÀ

C’erano tutti nella piazza di Genipabu che, per l’occasione,

era stata decorata con bandierine gialle e verdi appese ai fili

del telefono. La giornata non era molto calda e la brezza che

veniva dal mare era gradevole.

C’erano tutti quelli che contavano, più le comari in cerca di

argomenti per le chiacchiere serali. Dell’avvenimento, del

ritorno dal manicomio della Loca, la matta, ne avrebbero a-

vuto abbastanza per almeno due mesi, nelle sere in cui le

donne si sedevano sul muretto della chiesa di San Sebastiano

a prendere il fresco.

Non potevano mancare Pericles, che nel frattempo aveva

vinto le elezioni ed era il Vereador di Genipabu, e il suo ne-

mico politico Nixon, che aveva festeggiato col vincitore la

sconfitta elettorale con una sbronza di Pitù – o amor do bra-

sileiro – durata due giorni e tre ore. Era stata necessaria una

visita domiciliare della dottoressa Myldred.

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Viviane non aveva più il pancione, ma in compenso aveva un

seno enorme, dovuto alla nascita del piccolo bastardo Agui-

naldo. Tatiane era molto indaffarata, ciabattava di qua e di là

e salutava chi arrivava con rumorosi e falsi bacioni sulle

guance.

Jurema troneggiava. Imponente.

Josynara, la pescatrice di aragostine, per una volta non aveva

sul capo il cestino con le sue prede in vendita e la mascheri-

na da sub al collo.

Emilson osservava taciturno una fila di formiche giganti al

lavoro, seduto sui gradini del ristorante “O Grelhado do

Nordeste”, da tempo chiuso. Il proprietario – un olandese

sempre un po’ fumato – era fuggito alla fine del carnevale

lasciandosi alle spalle una montagna di debiti.

Magna Maria, quella che sapeva usare il computer, arrivò

dondolando su un paio di pericolosissimi tacchi alti forse

mezzo metro. Comunque fu un bel vedere. Molto sexy.

Pasquale il Gordo fu il primo ad avvicinarla e ad abbracciar-

la.

Janilson era lì con il berretto troppo grande e la cicca spenta

sull’angolo sinistro della bocca.

Non mancavano Graça, che camminava con la pancia in a-

vanti e una mano dietro la schiena, come si conviene per una

signora al settimo mese, Marco Antonio e la dottoressa

Myldred con il fonendoscopio attorno al collo e la valigetta

saldamente appesa alla mano destra. Non si sa mai…

I bambini correvano qua e là strillando senza senso, come

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tutti i bambini del mondo. Erano una ventina tra i quattro e i

dieci anni, ma riuscivano a fare una baraonda come se fosse-

ro stati un migliaio.

Insomma c’erano tutti quelli di Genipabu.

C’era da far festa.

Gugu ormeggiò il suo taxi davanti alla piazza, la statua di

San Sebastiano ci guardò compiacente, io mi detti da fare a

tirare fuori dal portellone posteriore la seggiola a rotelle con

il numero 46. Lui, con un gesto plateale che doveva aver vi-

sto in qualche film d’epoca, si precipitò ad aprire la portiera

della Brasilia, che gemette ruggine, poi aiutò ciò che restava

di Maria Beatriz a scendere e a sedersi sulla 46.

Mil felicidades e amor no coração

Que a sua vida seja sempre doce e emoção

Bate bate palma que é hora de cantar

Agora vamos juntos vamos lá

Parabéns, uh uh

Parabéns, uh uh…

Tutti cantavano Parabéns battendo le mani accompagnati

dalla chitarra di Fernando il pedreiro, detto Violão. Vidi, in-

credulo, cantare, battere le mani e saltellare perfino

l’imperturbabile Janilson. Il fonendo di Myldred cadde per

terra e lei non se ne accorse neppure.

Jurema troneggiava. Imponente.

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JENIPABU

Ci vado da molti anni. Il viaggio è lungo e noioso, ma ne va-

le la pena.

Jenipabu, che adesso si chiama non so per quale motivo Ge-

nipabu, è un gran bel posto. È una spiaggia di Natal. Dico

“spiaggia” perché nella sua magnificenza è così modesta che

non è mai riuscita a guadagnarsi il nome di paese o cittadina

o altro. Topograficamente è una strada, Rua Vereador Ricar-

do Afonso. Non più di cinquecento metri, un chilometro se

comprendiamo Tabu, con due file di case: una fila dà sulla

spiaggia larghissima, l’altra sul mato: la foresta di caju e

mangrovie.

L’oceano Atlantico rispetta Genipabu. Anche quando la ma-

rea è alta e lui è infuriato, non arriva mai a lambire le case e

le pousade.

Genipabu è una spiaggia dunque, che, con la marea bassa,

specialmente quella della luna di gennaio, diventa un enorme

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luccicante specchio dorato dove le grasse nuvole si guardano

vanitose e provano le loro bizzarre acconciature.

A sud l’arenile termina, dopo una dolce insenatura spesso

visitata da delfini zuzzurelloni, con una duna alta con due

grandi gobbe color miele d’acacia. Un dromedario di sabbia.

Tra le gobbe un pennacchio verde scuro, quasi nero contro-

luce. È una grande pianta di caju che Dio solo sa come abbia

fatto a nascere e crescere così rigogliosa, proprio lì sotto un

sole che non perdona, senza acqua, con il solo nutrimento di

quella silice salmastra. Un mistero, se volete un piccolissimo

mistero, ma pur sempre uno dei tanti misteri di Genipabu.

Lì tutti sono abituati a nascere e crescere con pochissimo. E

a morire con semplicità.

I colori. Sono esagerati. Pieni. Morbidi a volte e sanno esse-

re, all’occasione, dolci come le labbra di un’adolescente.

Hanno forma, danno forma a tutte le cose. Sono colori che

curano, sono una terapia per gli occhi e per l’anima. Un

grande poeta dovrebbe cantarli, descrivere le emozioni e i

sentimenti che provocano. I colori di Genipabu sono colori e

ci sono tutti quelli dell’iride e anche qualcuno in più.

Verso nord per un paio di chilometri, mentre il mare allegra-

mente ci invita spumeggiando a giocare con le sue onde,

raggiungiamo un luogo stupefacente. La barriera di rocce nel

mare è alta, separata ogni tanto solo dalla schiuma di qualche

ondata più energica che forma un’enorme piscina naturale

d’acqua calda, tranquilla: inevitabile dopo la camminata sot-

to quel sole. Poco più in là neanche dieci minuti di cammina-

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ta, una meraviglia, uno stupore: l’estuario di un piccolo fiu-

me le cui acque entrano levigate nell’affettuoso abbraccio

dell’oceano. Il ristoro di un bagno in acqua dolce.

Cielo blu, più blu che azzurro, casette bianche sullo sfondo,

palme, piccole dune di sabbia caldissima. Un uomo in acqua

con il suo cavallo, lo lava e l’animale gli è grato.

A me sembra strano: non si vede mai un solo gabbiano. Mi

mancano. Mi accontento di veder veleggiare i neri Urubù: la

mia passione è volare e li studio. Sono degli spazzini che

tengono pulite le spiagge e le dune. Sono avvoltoi. Sanno

come sfruttare il vento e volano in circolo, non battono quasi

mai le loro ali, sono veri maestri e, se li vedi scendere in pic-

chiata, vuol dire che hanno individuato un morto, una caro-

gna. In aria sono belli, a terra sono bruttini; si vede che sono

avvoltoi.

Sugli Urubù ci sono delle storie. Si dice che durante la se-

conda guerra mondiale venissero catturati, fatti fuori e spen-

nati. Ben ripuliti si vendevano come gustosi tacchini agli

americani che avevano una base aerea proprio a Natal, per

questo detta “Trampolim da vitoria”. Non risultano america-

ni morti per intossicazione alimentare.

C’è poi la leggenda del rospo e l’Urubù. Pare che il rospo

abbia una pelle brutta e bitorzoluta perché un Urubù suona-

tore di chitarra l’avrebbe fatto precipitare dall’alto, dopo che

il rospo si era nascosto dentro alla sua chitarra per burlarsi di

lui. Esiti cicatriziali da grave trauma.

Molto altro è Genipabu, ma questa è l’idea. Alla fine potrei

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dire che il vento ti accarezza e non ti fa sentire il sole che ti

sta bruciando la pelle, o che puoi perdere tempo contem-

plando il colibrì, che in portoghese si chiama con un nome

poetico “bejaflor” (bacia fiori), mentre succhia i fiori che

non mancano mai nei giardini anche più modesti. Basta dire

che è un gran bel posto dove, se la sera pianti un ombrello, la

mattina ha le foglie ed è fiorito. Nient’altro.

Questa storia nasce lì. Non poteva che nascere lì.

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IL TREDICESIMO ANNO INIZIÒ CON UNA SCIAGURA

Era il tredicesimo anno che tornavo laggiù, dall’altra parte

del mondo, dove si sta a testa in giù, ma non ce ne si accor-

ge. Per la verità qualche segnale che ti fa capire che sei a ro-

vescio c’è. Per esempio a Genipabu i cani rispondono al ri-

chiamo che si fa da noi con i gatti: «Mucci, mucci» con le

labbra atteggiate al bacio. E i gatti? I gatti si chiamano con

un fischio, proprio così, con un fischio.

E non è vero, non è assolutamente vero, che il gallo canta al

sorgere del sole.

Il gallo canta tutta la notte, almeno il galletto di Joao il casei-

ro. Sarà perché dispone di un pollaio con almeno una decina

di gallinelle molto sexy, ma quel pennuto non mi aveva la-

sciato dormire strillando tutta la notte. Non è assolutamente

vero che un gallo canta e fa chicchirichì, almeno quello di

Joao il caseiro, perché quell’infame emette suoni rauchi e

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sgradevoli che mi avevano fatto desiderare di strozzarlo con

le mie mani. L’indomani avrei imposto a Joao di prepararlo

per un bel arrosto. Galline sì, galli mai più, almeno finché io

fossi stato ospite in quella casa. Perciò ero sveglio e di pes-

simo umore, che peggiorò quando qualcuno bussò vigorosa-

mente alle imposte della mia finestra. Ci mancava solo que-

sto alle quattro e quarantadue del mattino, anzi, della notte

fonda.

Fu così che festeggiammo il primo dell’anno: portando Pe-

dro all’inferno, cioè a morire all’ospedale Santa Catarina.

Pericles, il Vereador di Genipabu, era il titolare

dell’ambulanza in dotazione a Genipabu. Ambulanza si fa

per dire. Si trattava di una vecchia scassata Brasilia Vol-

kswagen dipinta, forse a mano, di bianco e con la croce rossa

di sghembo sulla fiancata. Pericles guidava come un pazzo,

io ero in qualche modo sistemato sul fondo della macchina a

fianco di Pedro rantolante e cercavo di farmi spiegare da Jo-

ao e Pericles cosa era successo. Per via del fracasso del mo-

tore e di tutta la baracca, più l’evidente confusione mentale

dei due e la preoccupazione per il poveraccio steso al mio

fianco, capii solo che si trattava di una gran botta sulla testa.

Pazienza, pensavo, tanto nessuno arriverà vivo all’ospedale.

Invece arrivammo tutti vivi, meno Pedro che smise di ranto-

lare e stralunò gli occhi tre curve e un semaforo prima

dell’accesso al Pronto Soccorso.

Qui la faccenda si complicò.

Avevamo un morto in ambulanza e occorreva l’intervento

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della polizia. Stava albeggiando e i lampeggianti rossi e blu

ne preannunciarono l’arrivo illuminando le case prima anco-

ra dell’ultima curva.

Mi aspettavo di peggio: i due poliziotti che scesero da un e-

norme SUV non avevano un’aria particolarmente truce. Peri-

cles spiegò di essere stato chiamato da Maria alle quattro,

perché Pedro era stato accompagnato a casa e messo a letto

dagli amici da circa mezz’ora ubriaco fradicio. Maria gli a-

veva detto che dopo un po’, infastidita per il modo tanto ru-

moroso di russare, aveva cercato far smettere il marito con i

soliti metodi dolci, poi, non ottenendo reazioni, aveva prova-

to a scuoterlo. A quel punto aveva visto un grosso bozzo sul-

la nuca del poveretto e si era resa conto che Pedro, più che

ubriaco, era mezzo morto. Pericles, che aveva fatto un corso

intensivo di infermiere della durata di due settimane e mezzo

e che era il titolare ufficiale dell’ambulanza di Genipabu, a-

veva deciso di portare l’uomo all’ospedale, chiamando Joao

e il sottoscritto, gringo turista, in aiuto. Purtroppo, nonostan-

te Pericles avesse guidato il più rapidamente possibile, Pedro

aveva smesso di respirare tre curve e un semaforo prima

dell’arrivo al Pronto Soccorso, testimoniai io.

La faccenda si complicò un poco per via dei documenti: nes-

suno ne era provvisto tranne il Vereador. Neppure il morto

aveva un documento di riconoscimento in tasca.

Un morto che puzzava d’alcol con un grosso ematoma sulla

nuca, in bermuda, senza documenti di identificazione. Due

individui, di cui uno straniero in abbigliamento molto som-

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mario, per non dire scalcinato e dall’espressione infelice, for-

temente sospetti di un decesso probabilmente per via di una

botta in testa. Tutto sommato per un poliziotto, anzi due, la

situazione era imbarazzante e forse anche stimolante.

Potevano arrestarci e, per come era iniziato l’anno nuovo, mi

sentivo certo che avrei passato più di qualche giornata nella

prigione di Natal, che sapevo poco ospitale.

A questo punto val la pena che spieghi cosa e chi è il Verea-

dor. È una specie di assessore comunale. Le località, chia-

miamole frazioni, del Comune eleggono un rappresentante.

Non sapevo che Pericles fosse, oltre al titolare

dell’ambulanza, anche il Vereador di Genipabu. Una certa

autorità ce l’aveva, confabulò con il poliziotto più grasso,

che sembrava anche quello più autorevole. Quello più ma-

gro, che teneva minacciosamente la mano sul calcio della

pistola appesa alla cintura, ci teneva d’occhio.

Joao, a testa bassa, rigirava il berretto con scritto FBI. Quan-

do Joao rigirava fra le dita nodose il berretto e sudava, era un

brutto segno. E lui stava sudando.

Io ero rassegnato e pensavo che probabilmente la Farnesina

avrebbe attivato l’Unità di Crisi per tirarmi fuori dai guai in

non meno di tre o quattrocento anni. Anni in cui mi sarei nu-

trito di scarafaggi come Steve McQueen nel film Papillon.

Avevo anche considerato che, date le gigantesche dimensioni

degli scarafaggi equatoriali, avrei assimilato abbastanza pro-

teine per sopravvivere.

Il poliziotto grasso ascoltava molto, parlava poco e ci guar-

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dava in tralice con occhi che mi sembravano poco benevoli.

Pericles si accalorava e mi indicava. Indicava più me che Joao.

La faccenda durò moltissimo, almeno mi parve. Poi il grasso

si avvicinò e ci spiegò che, date le garanzie che aveva fornito

il Vereador, potevamo rientrare a Genipabu. Perentoriamente

dovevamo presentarci alla Delegacia di Polizia a Natal

l’indomani mattina entro le ore nove. Mi guardai bene dal

precisare che l’indomani mattina era già arrivato da un pez-

zo, assicurai la mia puntualità aggiustando sguardo e postura

alla massima dignità e decoro possibili. Un colpevole in ge-

nere ringrazia e si mostra servile, pensavo.

Joao si calcò il berretto sulla testa e questo era un buon se-

gno.

Ritornammo a Genipabu sulla scassata ambulanza piuttosto

silenziosi, pensando con molta tristezza alla sposa e ai bam-

bini di Pedro: a dare la cattiva notizia ci avrebbe pensato il

Vereador.

Erano già le sette e avevo solo un’ora per rendermi presenta-

bile e tornare a Natal. Bisogna sempre presentarsi a un Dele-

gato di polizia puliti e in ordine. Soprattutto se siete sospetta-

ti di un omicidio.

L’edificio era in centro città poco distante da Rio Branco. Mi

aspettavo qualcosa di più terrificante, con poliziotto armato

al portone e auto bianche e blu parcheggiate davanti, come

nei film americani. Invece sembrava una casa popolare un

po’ trasandata. Comunque era chiaro dalla targa che Joao e io

ci trovavamo davanti alla Delegacia de Policia.

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L’atrio era piccolo, dietro a un tavolino era seduta una ragaz-

za niente male. Apprezzai la maglietta nera molto scollata e

ben riempita nei due punti giusti con la scritta Policia on-

deggiante sulle collinette. Gentilmente ci chiese le generalità

che annotò scrupolosamente su un quaderno a quadretti. Era

mancina e aveva gli occhi blu, rarissimi per una moretta bra-

siliana. Il Delegato ci aspettava al piano di sopra e, sempre

con molta cortesia, la ragazza ci informò che gli altri convo-

cati erano già arrivati e che potevamo salire al primo piano,

seconda porta a destra.

La situazione mi sembrava troppo idilliaca, così cominciai a

sudare anche perché Joao aveva ripreso a maltrattare il suo

berretto del Federal Bureau of Investigation. La storia è ini-

ziata troppo bene per non finire male, pensai. Non ricordo

d’aver mai faticato tanto a salire pochi gradini, quattordici

per la precisione: sentivo un tintinnio di manette. Guarda un

po’ cosa ti va a succedere per aver tentato di salvare la pelle

a un poveraccio con la testa rotta la notte di Capodanno.

Seconda porta a destra, aperta. Stanzone illuminato dai soliti

tubi fluorescenti. Armadi metallici alle pareti, pareti con ur-

gente bisogno di un imbianchino. Scrivania metallica. Mac-

china da scrivere IBM di quelle con la pallina, non ne vede-

vo più da qualche anno. Persone in piedi, conosco quasi tutti,

parlottano. Riesco a vedere dietro la macchina da scrivere

una calvizie e poco di più. È il Delegato. La calvizie si spo-

sta all’indietro per mostrare un viso rotondo, non sorride, ma

neppure esprime minaccia e parla.

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Ci invita uno a uno all’unica sedia per la deposizione. Joao e

io saremo gli ultimi.

La storia è sempre quella. Si trovavano a una festa per soli

uomini a bere un po’ (si fa per dire) e festeggiare l’arrivo del

nuovo anno. Scherzavano, bevevano e scherzavano ancora. A

un certo punto Pedro aveva cominciato a millantare di essere

stato un grande atleta di capoeira. Nessuno aveva mai visto

Pedro cimentarsi in quella danza acrobatica e avevano co-

minciato a prenderlo in giro, lui si era infervorato e aveva

voluto cimentarsi in una mossa vorticosa. In un attimo era

successo il disastro: Pedro era caduto all’indietro e aveva

battuto la testa sul bordo del lavello. Sulle prime si era rial-

zato e addirittura voleva riprovarci, poi, in pochi secondi, era

stramazzato al suolo farfugliando parole incomprensibili.

Così avevano deciso di riportarlo a casa a smaltire la sbronza

e la botta in testa.

Tutti confermarono la stessa storia, io intanto apprezzavo la

velocità – quante battute al minuto, cinquecento, mille, mil-

lecinquecento? – del Delegato sulla tastiera della IBM.

Pericles, Joao e io raccontammo la nostra testimonianza che

già conoscete. Nel frattempo, la faccenda era durata un paio

d’ore buone. Il caldo si era fatto sentire fisicamente, suda-

vamo tutti, meno il Delegato, che si era acceso un piccolo

ventilatore sulla scrivania. Lo rinfrescava e gli faceva volare

verso l’alto quei dodici o quindici capelli che aveva conser-

vato gelosamente per il riportino sulla pelata.

I testimoni avevano testimoniato.

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Il Delegato spense il ventilatore e il riportino tornò al suo

posto automaticamente. Si raschiò la voce e disse che il me-

dico legale aveva constatato che il decesso era avvenuto in

seguito al trauma cranico occipitale, cioè dietro la testa, che

la lesione era unica e compatibile con il bordo di un lavello.

Perciò, sentite le deposizioni dei testimoni, pensava di archi-

viare il caso come morte accidentale.

Ero sbalordito. Non avrei mai supposto che si potessero fare

indagini così rapide e che la Medicina Legale a Natal fosse

così efficiente.

Ero quasi deluso, ma anche sconcertato e forse sospettoso.

Niente interrogatorio con il poliziotto buono che ti offre il

caffè e ti racconta con gli occhi umidi di lacrime di essere

infelice perché la moglie l’ha lasciato. Neppure quello catti-

vo che picchia pugni sul tavolo e si slaccia la cravatta pronto

a malmenarti. Niente faro da mille watt puntato sugli occhi.

Niente sala interrogatori con il finto specchio e il capo della

polizia nascosto dietro. Nessuno mi aveva mostrato terrifi-

canti fotografie del morto per farmi confessare. Nessuno a-

veva acceso un registratore dicendo data, ora eccetera. Nes-

suno mi aveva letto i miei diritti. Io non avevo chiesto il mio

avvocato, anche perché non ho mai avuto un mio avvocato,

mentre nei film tutti ce l’hanno.

Una cosa da niente, insomma.

Salutammo il Delegato che rispose facendo ciao con la ma-

nona.

La scollatura con la scritta Policia ci sorrise. Noi ci pic-

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chiammo grandi manate sulle spalle.

Conoscevo proprio tutti, meno uno.

Meno uno che se ne andò da solo con passo rapido e senza

stringere la mano a nessuno di noi.

Nessuno si girò per guardarlo andarsene.

Mi sembrò strano, molto strano.

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MARIA BEATRIZ

Per dodici anni di seguito l’avevo vista. Era scomparsa.

Usciva da una casupola con le imposte e la porta color “blu

del rey” dove abitava assieme a una vecchietta rinsecchita

dal sole, sempre sorridente nonostante l’evidentissima pover-

tà che doveva affliggerla. Lei era bionda ma di carnagione

scura, alta. Indossava sempre solo un bikini ridottissimo,

scalza, con un portamento da mannequin. Regale. Attraver-

sava lo stretto passaggio fra le case, andava in riva al mare e

lì stava seduta, accoccolata tutta la mattina. Ogni tanto en-

trava in acqua, giocava con le onde che pareva quasi la ri-

spettassero infrangendosi su di lei con molta delicatezza. Nei

giorni di sabato e domenica la spiaggia era più frequentata da

famiglie: s'incontravano uomini panciuti da birra, mamme

quasi tutte fuori peso i cui microbikini si infilavano in tutte

le pieghe e anfratti più o meno leciti e una moltitudine di

bambini chiassosi. I giovanotti erano impegnati a dimostrare

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le loro brasiliane abilità nel gioco del calcio. Le coppiette in

acqua avvinghiate a fare l’amore. I turisti rossi come gambe-

ri ben cotti. I venditori ambulanti di picolé caseiros, castagne

di caju, occhiali da sole e collane di conchiglie.

Lei in quei giorni restava nella catapecchia e non metteva il

naso fuori dalla porticina.

Non parlava. Mai.

Tutta Genipabu diceva che era matta e con qualche ragione.

La pazzia raramente rispetta la bellezza. Lei era semplice-

mente perfetta. Seno alto, giusto per riempire la famosa cop-

pa da champagne, gambe dritte polpacci affusolati, caviglie

sottili, cosce tornite. Da dietro un capolavoro. I capelli lun-

ghi, ramati, mai toccati dalla spazzola di qualche parrucchie-

ra incorniciavano con rispetto un viso dagli zigomi alti, naso

piccolo appena un po’ aquilino, ma poco, una bocca carnosa

al punto giusto per far nascere cattivi pensieri. O buoni pen-

sieri, a seconda del punto di vista. L’espressione del volto era

lievemente assorta, come se stesse ascoltando chissà chi o

cosa.

Dicono che non avesse mai parlato, mai con nessuno fin dal-

la nascita.

Era matta.

Eppure, eppure quando mi vedeva, a me, diceva «Bom dia».

Solo bom dia, nient’altro. Buongiorno. Una stranezza e sup-

pongo che ciò dovesse aver avviato malignità sul mio conto.

È risaputo: nelle piccole comunità si usa malignare senza

troppa cattiveria, tanto per bater papo, per fare chiacchiere.

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Mai un vestitino, solo quel minuscolo bikini bianco e blu,

che a me sembrava sempre lo stesso e mi chiedevo come non

si fosse sbiadito con quel sole perennemente a picco e la for-

za dell’acqua salata. Forse li comprava sempre uguali. Come

facesse a trovarli, data la volubilità della moda, identici, era

un altro mistero di Genipabu. Piccolissimo insignificante mi-

stero, se volete, ma pur sempre un mistero.

Poco o molto, doveva essere matta. Così pensavo tutte le

volte che la incontravo e mi diceva “bom dia” e mi sentivo

addolorato per lei.

Dicevano, pettegolezzi o verità difficile a sapere con certez-

za, che avesse avuto una figlia. Dicevano anche che era una

bambina molto bella, morena, con tanti capelli lunghi neri

fin dalla nascita, con gli occhi blu come il mare, come il cie-

lo. Gli assistenti sociali gliel’avevano portata via un giorno

di grande pioggia, quasi subito, perché lei era una mamma

che non aveva le condizioni né economiche, né psichiche per

accudirla e farla crescere.

Le voci di paese erano che fosse stata adottata da stranieri,

dei gringo bianchi come il latte di vacca, e che fosse stata

portata lontano dal Brasile, al di là dell’oceano. Verità o no,

difficile accertarlo.

Purtroppo bisogna dire che le storie tragiche sono quasi

sempre vere.

Senza vergogna, io spiavo il suo ventre: non un segno di ri-

lassamento, non una smagliatura, era piatto e sodo come

quello di una giovane vergine. Ancora un mistero.

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Tutti dicevano di sapere che, nelle notti di luna nuova in cui

le stelle sembravano luci di Natale, la matta andava sulla

spiaggia a fare l’amore con gli uomini di Genipabu. Le don-

ne non erano gelose, lasciavano fare, in fondo li faceva star

bene: quelli non tornavano a casa ubriachi e cattivi e dormi-

vano subito beati e tranquilli.

Fare l’amore con una matta non è tradimento. Neppure pec-

cato.

Alcune volte ero andato a spiare, ma l’immensità della

spiaggia, il ruggito del mare che sembrava dirmi: «Lasciala

stare, non è cosa per te, vattene!». Il buio profondo come un

buco nero dell’universo che inghiotte e annulla tutto quanto,

il cielo dell’equatore, senza luna, pieno di miliardi di stelle,

mi avevano intimidito e un pochino impaurito e me ne ero

tornato a casa a fantasticare su di un buon libro. Alla fine e-

rano solo affari suoi, delle donne e, soprattutto, degli uomini

di Genipabu.

L’unica cosa che sapevo di lei, oltre al fatto che era matta da

legare, era il suo nome: Maria Beatriz. Un bel nome. Giusto

per lei.

Per un po’ non ci avevo pensato, mancava qualcosa, non ca-

pivo cosa.

Il colibrì era fedele, compariva vibrante a succhiare i miei

fiori, tutto era come l’avevo lasciato, tutto ciò che mi dava

belle emozioni era lì, immutato e mi aveva aspettato. Il sole,

la duna che sembra un dromedario, il mare, la spiaggia dora-

ta e luccicante, le baracchine in spiaggia dove si possono

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mangiare gamberetti e bere acqua di cocco ben gelata, il

venditore di dischi clonati a prezzo stracciato, le mucche per

strada la notte a rovistare fra la spazzatura, i ragazzotti im-

pegnati nelle interminabili partite di calcio, i bambini, tanti

bambini, le mamme grasse con i loro minuscoli bikini, gli

uomini con la lattina di birra in mano e la pancia gonfia, stra-

ripante dai calzoncini, i grossi granchi blu con una chela

grande e una piccola, che entravano in casa e combattevano

con gli occhi fuori dalla testa per non essere cacciati, un for-

rò risuonava nell’aria: «Maria prendi la scopa, Maria prendi

la scopa!».

Tutto era al suo posto.

Il mango era carico di frutti, l’arancio in fioritura, la jaboti-

caba era piena di succose bacche viola scuro.

Poi capii: mancava lei. Maria Beatriz.

La cosa non avrebbe dovuto turbarmi più di tanto, in fondo

non avevo mai avuto nulla a che fare con quella ragazza, tra-

scurando il fatto che pareva fossi l’unica persona cui avesse

mai rivolto una parola, cosa misteriosa e non da poco alla

fine.

Passavo davanti alla sua casetta, la più piccola del posto e

vedevo la porticina blu sempre chiusa, l’unica finestra sul

lato destro era sbarrata da assi di recupero inchiodate alla

meglio. Sulle tegole malmesse era cresciuto un lungo spino-

so cactus con due propaggini che sembravano due braccia

alzate al cielo, come in atto di preghiera.

Un cactus implorante.

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Della vecchina secca e sorridente e di Maria Beatriz nessuna

traccia. Sparite. Per alcuni giorni mi trattenni dal chiedere

notizie. Il cielo era blu, il sole splendente, non c’era vento

forte, solo una lieve brezza faceva ondeggiare le lunghe fra-

stagliate foglie dei cocchi che, con il loro incomprensibile

linguaggio si scambiavano le notizie dell’ultima ora. Però il

mare non si stava comportando bene. Pareva non conoscesse

basse maree ed era furioso, da giorni. Neppure i pescatori

sapevano spiegarsi il fenomeno e aspettavano sconfortati se-

duti sulle loro fragili jangade tirate a secco. Era impossibile

superare quei cavalloni con quelle imbarcazioni a fondo piat-

to. Lo strano era che, al di là del promontorio formato dalla

grande duna, a Santa Rita, il mare si comportava bene, tran-

quillo come doveva essere. Mistero.

Alle tre in punto della mia terza notte a Genipabu tre tonfi

ben distinti mi allarmarono. Bira il grosso bastardone di Ari-

stófane, cane dallo sguardo mite, guardiano fedele e incorrut-

tibile, non aveva abbaiato, comunque uscii a controllare e i

miei sospetti furono confermati rassicurandomi. Nessun ma-

lintenzionato. Da quell’altissimo coqueiro dietro casa, vicino

al muro di cinta del giardino, erano cadute tre grosse noci di

cocco secco e avevano sbrecciato alcuni mattoni.

Non avevo più un gran sonno e il buio porta a rimuginare

sulle cose più assurde: tre del mattino, tre tonfi, tre noci, era

stato un segnale misterioso? Cretinate! L’indomani per far

riparare il muro avrei dovuto chiamare Fernando il pedreiro,

detto Violão perché suonava bene la chitarra soprattutto

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quando era ben carburato con alcune dosi di cachaça (alme-

no due). Violão era bravo, preciso, veloce e onesto: quando

lavorava non pensava alla chitarra e beveva solo acqua di

cocco.

E Maria Beatriz? E la vecchina? Cosa poteva essere succes-

so? Decisi che era inutile e sciocco continuare a ossessio-

narmi per fare una domanda così semplice. Appena fatta

mattina mi sarei informato. Non ci fu più verso di prendere

sonno, colpa anche del jet lag.

A Genipabu alle quattro il cielo schiarisce, alle cinque c’è

tanta luce che non si può più definire alba. Alle sei il sole è

già così alto che potrebbe sembrare mezzogiorno e i bambini

si avviano alla scuola. Alle sette a un gringo non conviene

andare in spiaggia senza spalmarsi di creme e unguenti di

protezione, tanto da ridursi tipo la gara del porco unto, pena

infernali scottature. Alle otto infilai un paio di bermuda, una

maglietta bianca con la scritta davanti e dietro “Aqui aula de

sexo de graça” e le mie logore ciabatte azzurre. In pratica ero

pronto e impeccabile per una passeggiata sul corso. Corso, si

fa per dire. Esattamente quarantadue passi verso la chiesa

cattolica dedicata a San Sebastiano, protettore del luogo, vidi

il vecchio scorbutico Janilson che stava rammendando la rete

del suo tramaglio, vecchia e malandata come lui. A dire la

verità non l’avevo mai visto al mare intento a pescare, ma

poteva essermi sfuggito dato che non mi alzo mai tanto presto.

La sua casa era a trentasei passi da quella disabitata di Maria

Beatriz.

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Ci si potrà chiedere come mai contassi le distanze in passi

precisi. Non sono affetto da nevrosi fobico ossessiva.

Tutt’altro. Solo che a Genipabu andavo per oziare e così a-

vevo aggiunto alle poche cose da fare anche il passatempo di

misurare le distanze in passi. Tanto per ridere un po’ di me.

Avrei potuto contare i respiri o i battiti del polso, ma sarebbe

stato troppo complicato.

Potevo provare a chiedere al vecchio pescatore notizie sulle

due donne, in fondo era solo un uomo di poche parole, non

era di cattivo carattere, limitava i suoi discorsi all’essenziale,

il che, alla fine, non si può neppure considerare un grande

difetto. Anzi alle volte è decisamente un pregio.

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