Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

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BIBLIOTECA DEGLI SCRITTORI LATINI CON TRADUZIONE E NOTE

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BIBLIOTECA

D E G L I

SCRITTORI LATINI

CON TRADUZIONE E NOTE

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M. TERENTIUS VARRO

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QUAE SUPERSUNT OPERA

VENET1ISE X C U D I T J O S E P H A N T O N E L L !

ACHF.I* DO SATUS * O U I t | | A TllC »

3I.DCTC.XLVI

Page 5: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

OPERED I

M. TERENZIO VARRON0

CON TRADUZIONE E NOTE

VENEZIADALLA TIP. DI GIUSEPPE ANTONELL1 ED.

P R ra iA T O DI M I O i G M I Ù OBO

l846

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M. TERENZIO VARRONE

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SÀGGIO STORICO

S O P R A

M. TERENZIO YARRONE

---------- M 4-----------

^ d a r o o Terenzio Vairone nacque ¥ anno di Roma 633 sotto il consolato di

L o d o Cedlio Metello e di Quinto. Chi fosse suo padre non é noto ; notissima

bensì nella romana storia si è la famiglia Térenzia fra le plebee ed antichissima

ed illastre : questa probabilmente uscita era di Sabina, Sabino essendo, al dir di

'Varrone stesso, quel cognome. Ebbi essa poscia il soprannome da uno dei suoi

maggiori, il quale guerreggiando nell* Illirio, e<f azzuffatosi con un capitano, o re

nemico, robustamente lo abbrancò, e viro a forza il trasse ne’romani accampa­

menti ; e per tale egregio fatto.fu col nome del superato nemico, che Varrone

dicerasi, dai suoi popolani chiamato, di cui poi, come di domestico preziosissimo

monumento, i suoi posteri si compiacquero, e V adottarono.

Varrone fin dalla prima età si applicò alle lettere, nelle quali ebbe a precet­

tore Lucio Elio Stilone, cavalier romano, die a que’ tempi nella città distinguevasi

per gli egregi costumi e per lo studio delle ottime discipline ; uomo della romana

letteratura, la quale cominciava allora a mettere profonde radici, ampiamente

benemerito. E poiché ebb' egli sotto la disciplina di quel valentuomo acquistata

ogni parte di letteraria coltura , passò in A tene, ed ivi alla filosofia si consecrò

sotto il magisterio di Antioco Aacalonita, soggetto nell' Accademia celebratissimo.

Sotto qoest’ insigne letterato ebbe a compagno de" suoi studii Marco Tullio Gce- M. Tamiauo V a io li 1

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rone, col quale fin d'alora contrasse U stretta amicizia, che poi costantemente

conservò.

Questi due rari ingegni, i quali poi e nelle lettere e nell1 amministrazione

della repubblica ebbero tanta parte , avevano allora lasciata la città in mano di

Lucio Siila, il quale abusando della forza delle armi, e per 1’ indole sua e per la

protervia de1 suoi favoriti, la reggeva da tiranno.

Varrone si restituì finalmente in Roma, non si sa poi ben dire , se prima o

dopo la morte del Dittatore ; é bensì certo che tosto cominciò egli la sua vita

pubblica, che si diede all'eloquenza, che esercitò diversi magistrali, e che fu con­

giunto in amicizia coi piò insigni uomini in quell’ età viventi, tra quali contansi

Gn. Pompeo, G. Cesare, Pomponio Attico , M. Marcello, Servio Sulpizio , G.

Fundanio, Appio Claudio, Turanio Negro ed altri molli.

Quelli i quali suppongono che il nostro Varrone sia stato console, non hanno

della loro asserzione fondamenti chiari abbastanza ; poiché ne" Fasti Consolari

non trovasi altro che M. Terenzio Varrone Lucullo, il quale non é certamente il

nostro. Ma se non ebb' egli l1 onore del consolato in una età, nella quale ad otte­

nerlo valeva pia la cabala, che il merito, ebbe però insigni cariche : imperciocché

toffezkmàto a Pompeo fa da lui nella famosa guerra de1 Pirati messo al comando

delle flotte greche, e per Mtraordmaria destinazione fatto governator di Glicia, da

lui chiamata perciò provincia sua.

É quanta intelligenza nella condotta dette navali cose egli avesse, e quanto

ardimento , chiaramente manifestasi da ciò che siamo per dire. Primieramente

'votmdo dall' Italia passar coll' esercito in Grecia, pensò di gittare un ponte sul

mare da Idrante ad Apollonia, onde quel tratto di verso cento miglia valicassero

a piedi le truppe : impresa che avanti di lui tentata avea pel primo il solo Pirro.

In secondo luogo trovatosi a battaglia coi Pirati nelle acque di G licia, con tale

ingegno e militar valore si diportò, che assaliti i nemici, si spinse il primo contro

la loro nave maggiore, la fermò, e armata mano in essa salito, la prese. Per cotale

bravura ottenne da Pompeo la corona rostrata ; onore dianzi da ninno ancora

avuto , e che dopo lui non si ebbe fino ai tempi di Vespasiano, che da Marco

Agrippa per favore di Augusto.

Avea Marco Terenzio Varrone settantotto anni, quando scoppiò la guerra

civile tra Pompeo e Cesare , nella quale , comunque a cagion dell' età potesse

dispensarsi di prender parte, volle nondimeno seguir Pompeo, che lo mandò suo

379 SAGGIO STORICO 38o

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36i SOPRA M. T&RKNZIO VARRONE 302

legato in ispagna^ ore, quantunque vi fossero del medeiioio due altri legati; cioè

Afranio e Pelreo , ebbe per sua maiuioDe la difesa di tutta la provincia detta

ulteriore.

Ma poco gli accadde di operare per codesto capo del partito de" nobili ; con*

dossiacké avendo saputo che Pompeo aveva abbandonata l ' Italia, e che le cose

di lai piegavano male, cominciò a diffidare della fazione del medesimo, e a parlar

bene di Cesare. Diceva egli conoscersi prevenuto della legazione affidatagli, sentire

la forza della fede che lo legava a Pompeo, ma non dissimulare la propensione

che tolta la provincia aveva per Cesare, e l 'amicizia che, non men che a Pompeo,

a Cesare lo stringeva. Per lo che né all' una, né all' altra parte declinando per

aleno tempo, si stette spettater tranquillo degli avvenimenti.

E poiché egli udì sequestrato Cesare a Marsiglia % e,che Petreo ed Airanio

radunavano le loro truppe per meditar grandi operazioni, alle quali tutta la pro­

vincia sembrava prestarsi; e poiché ebbe lettere da Airanio, che non solo dell'ac­

caduto ad Uerda intorno alle vettuaglie lo ragguagliavano , ma con fidanza mara-

vigliosa lo eccitavano ad agire, cominciò anch' egli a darsi moto.

E primieramente reclutò per tutta la provincia onde compir due legioni, ed

aggiunse da trenta coorti : raccolse quindi quantità di frumento da spedire ad Afra­

nio ed a Petreo ; ammassò in Gade tutto il denaro e tutte le supellettili preziose

del tempio di Ercole, e spedi colà in presidio sei coorti, delle quali ne diede il

comando a G. Gallonio cavalier romano, nella cui casa depose quante armi tro­

vate aveva di pertinenza privata o pubblica. Ciò Catto, si mise ad arringar contro

Cesare; e spesse volte montato in tribunale annunziava saper di certo che la for­

tuna delle armi non era a colui favorevole, e che gran numero di soldati disertando

dal medesimo volgevasi al campo di Afranio. Le quali cose gli giovarono per

modo, che avendo spaventati i cittadini romani di quella provincia, gl' indusse a

promettergli grossissime somme di denaro, e quantità enorme di grani, onde con

tali soccorsi reggersi nel governo di que' paesi. Né di tali disposizioni Sa egli

contento, ma ad ogni minuto affare discendendo, procedeva con gran rigore,

imponendo esorbitami tasse alle città che stimasse amiche di Cesare, confiscando

e facendo vendere all' incanto i beni di coloro che parlassero contro la causa di

Pompeo, chiamala da lui causa della Repobblica ; mettendo forti presidi! ovun-

qne temesse movimenti ; tenendo d'occhio ogni privalo» e sentenziando severa-

■e n te ; ed obbligando Urti nella provincia a giurare fedeltà a sé ed a Pompeo.

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Appena fa ragguagliato delle cose succedute nella Spagna citeriore, che si

preparo alla guerra, meditando di portarsi a Gade con due legioni, e di tener in

ferme tutte le navi e il frumento, perciocché comprendeva die tutta la provincia

favoriva Cesare.

Cesare intanto vedendo d ie , arrestate le navi e le biade radunate in Gade,

non era diffidle ridurre in quella parte le sue cose a buon esito, sebbene maggiori

afiari lo chiamassero in Italia, pure deliberò di non lasdare guerra aperta -in Ispa*

gna ; tanto più che gli era noto, come nella provinvia citeriore Pompeo aveva

grande partito. Spedite dunque due legioni nella Spagna ulteriore, alla testa delle

quali aveva posto Quinto Cassio tribuno della plebe, egli con sdcento uomini a

cavallo s'inoltrò a marcia sforzata, facendosi precedere da un manifesto,nel quale

ordinava che tutt’ i magistrati e gli abitatori prinrìpali delle dttà fossero in aiuto

a Cordova. Ora divulgatosi tale manifesto, né fuvvi d ttà , la quale subitamente

non mandasse a Cordova deputati ; né fawi dttadino romano alcun poco noto,

che non s’ affrettasse d’andarvi in persona. Accadde inoltre che Y assemblea di

Cordova di suo moto proprio chiuse le porte della dttà a Varrone, mettendo

guarnigione sulle mura e sulle torri , la quale aumentò di due coorti, che per

ordine di Varrone capitate a Cordova a presidio della dttà, contro Varrone furono

ritenute. In que* giorni altro simile sinistro caso era a Varrone sacceduto, percioc­

ché gli abitanti di Carmona avevano discacdato dalla loro rocca tre coorti, colle

quali Varrone signoreggiava. In questo frattempo Varrone alla testa delle legioni

sue affrettava il cammino verso Gade, sia per non vedersene tagliato I’ accesso

ritardando, sia per mettersi in luogo forte e vantaggioso, poiché tutta ornai la

provincia era sorta a favor di Cesare. Ma strada facendo, eccoti lettere di quella

isola, dalle quali intende die gianlo colà il manifesto di Cesare, inaspettato movi­

mento era nato fra9popolani, i quali d'accordo coi tribuni delle coorti del presidio

cacdato ne avevano Gallonio, ritenendo per Cesare la città e il paese. Fu egli

per tale fatto in grande imbarazzo ; ma piò quando divulgatasi nel suo campo la

cosa, una delle legioni da lui comandata, sotto i suoi occhi stessi piegò le bandiere,

e si ritirò, volgendosi ad Ispali, ove andò ad accantonarsi, senza dare inquietezza

alcuna a quegli abitanti. Or vedendosi fuor di stato di operare, nè avendo libera

la ritirata in alcun luogo, prese la risoluzione di scrivere a Cesare, c di dirgli,

essere lui pronto a consegnargli la legione che gli rimaneva, quante volte alcuno

spedisse, il quale ne assumesse il comando. Cesare in fatti spedi a tal uopo Sesto

383 SAGGIO STORICO 3*4

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365 SOPRA M. TERENZIO VARRONE *86

Cesare, e Varrone i incamminò a Cordova anch’egli, dove onoratamente diede

conto de) denaro pubblico che aveva presso di sé , e l1 esatta Usta consegnò dei

magazzini e delle navi ; poi prese il cammino di Roma.

Stett* egli in Roma aleno tempo aspettando il fine della guerra d* Africa : e

come seppe che Cesare veniva in Italia, partì, ito a rifugiarsi in campagna, finché

passate fossero le allegrezze del trionfo civile, e gli affari pubblici avessero preso

alcun ordine. Gli ottimi studii da lui coltivati sempre gran servizio gli prestarono

in quella solitudine, ed essi incremento maggiore da lui ricevettero : né per avven­

tura é da porsi in dubbio che molti dei tanti suoi libri non sieno stati composti

da lui a quel tempo.

Ma cedette egli in breve sia al genio di vivere neHa città, sia agl’ inviti dei

suoi amici ; e ritornato a Róma, in piena intimità visse coi piò distinti soggetti, e

con Oppio singolarmente, e con Balbo, e con Irzio, amici di Cesare, e con Cesare

stesso ; il quale d' alto animo essendo, in Varrone contemplò sempre non il

partigiano di Pompeo, ma il cittadino onorato e il dottissimo uomo ; e a lui diede

la cura di mettere insieme e di ordinare le insigni librerìe greche e latine, che a

servigio pubblico intendeva d 'istituire.

I bei giorni di Cesare passarono rapidamente, e nuove discordie e tumulti

nuovi afflissero Roma ; e vennero aspre guerre e proscrizioni atroci, per le quali

i più onorati cittadini perirono.

L 1 iracondia sanguinaria di Marcantonio segnò decreto di morte anche per

Varrone, o perchè fosse questi troppo di Cicerone amico, o perchè Marcantonio

fosse avido dei beni di lui, che copiosissimi e doviziosissimi possedeva. Ebbe

infatti Varrone ricchezze di bestiami e di gregge : ebbe splendentissime ville ed

ubertose,' fra le quali ancora si rammentano e la Cumana, e la Tusculana, e la

Pontina. Ma fu celebre oltre le altre quella eh’ egli ebbe alle falde di Monte Cas­

sino, la quale per la eleganza e per I' artificio tutte le più famose vinceva. Eravi

in essa un’ uccelliera che dicesi per I’ ampiezza e per la maravigliosa sua strattura

avere superato non solo quella di Marco Lenio Strabone, stata il modello di tutte,

ma eziandio la vastissima, che nella Tusculana fece fabbricare Lucullo.

Or fu questa superba villa di Cassino, che l’ ingordigia di Marcantonio prepo­

tentemente si usurpò. Che se in qualche modo v’ è da rallegrarsi, che contento di

essa p i non insistesse a volere eseguita l’ ordinata proscrizione ; ben molto poi

abbiamo a dolerci che pel sacco a quella villa dato perissero insigni monumenti

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dèllà dottrina di Varrone, né le copie soltanto di molte opere da esso lai date alb

luce, ma esemplari di nuove non ancor pubblicate, siccome egli stesso di avvisa

nel libro primo delle Settima**.

Sopravvisse pertanto Varrooe alla Repubblica e a Marcantonio ; e poiché,

Citta Roma stato di Angusto, negli aSari non poteva egli piò aver parte, alla

campagna si ritirò, non di altro occupandosi che dello stadio. Nel che certo é

maravigliosa cosa che giunto agli ottani" anni, tanto vigor ritenesse da scrìvere i

tre libri delle cose Rustiche, senza che per 1’ enorme numero delle altre opere dai

lui scrìtte dianzi, le quali ascendevano a ^aattrocento novanta libri, apparisse

stanchezza alcuna nel sno spirito.

Per la quale cosa non é a stupirsi, se presso i suoi contemporanei ebb’ egli

altissima riputazione, della quale grande argomento deve riputarsi e il panegirico

che di lui vivente scrisse Pomponio Attico, e che Cicerone dice d’aver letto, e il

ritratto che di lui, divenuto il Nestore della romana letteratura, Asinio Pollione

collocò nella celebre sua biblioteca, unico di scrittore ancor vivo. Pare eziandio

che Poltiooe ciò facendo non temesse di sospitare V invidia, sebbene a quella età

molti e chiarissimi aomini fiorissero in ogni maniera di discipline e di stùdi] ; i

quali siccome per la langa carriera, così per 1’ ampiezza delle cognizioni e per la

profondità della dottrina il nostro Varrone superò manifestamente. « Noi, diceva

di lai Cicerone nelle Qaistioni Accademiche, al pari di viaggiatori forestieri in

questa città siamo dai tuoi libri guidati a conoscere e l’origine e i costumi nostri,

e questi luoghi che abitiamo. Imperciocché tu hai spiegata 1’ epoca della patria

nostra, tu ci hai descritti i tempi, tu ci hai esposti i riti religiosi e le funzioni

de’ sacerdoti ; e tu ne hai additata la domestica economia ; tu la disciplina militare;

tu la posizione de' paesi e de* luoghi ; tu i nomi, le specie, gli officii e le cagioni

di tutte le umane e divine cose ; e sommi lami hai tu somministrati ai poeti

nostri, e ai Latini tutti, sia scrivendo, sia parlando ; ed hai composto un poema

per varietà e per eleganza pressoché perfettissimo ; ed hai a varie riprese tanta

filosofia indicata, che se non basta a farci dotti, assaissimo però giova ad eccitarcene

il desiderio, a

Ed in quanto alla erudizione Varroniana, lo stesso Cicerone nel Brato

asserisce, che seguendo Varrone le tracce di L. Elio, uomo versatissimo in

letteratura greca e latina, e dottissimo nella romana antichità, nelle invenzioni dai

vecchi, ne’ fatti e nella cognizione degli scrittori già stati, aveva poi codesta sdenta

38? SAGGIO STORICO 368

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3t y SOPRA U. TKIKUZIO VARRONE 390

di per sé amplificata e più elegantemente. spiegata cogli scrìtti • laonde del mede-

•imo parlando ad Attico, lai chiama scrittore «riversale.

Né de1 soli contemporanei sooi ottenne egli a si alto grado la stima, che ansi

crebbe questa col circolare delle sue opere nell'età susseguenti; e perciò reggiamo

Seneca chiamarlo il pio dotto dei Romani, Dionigi d’Aliearnasso, e Plutarco, e

Qmintiliano, e Adogellio, e Solino, ed Anobio, e Lattanzio per 1? eccellenza della

dottrina e per la perizia della storia commendarlo. Le testimonianne de9 quali e di

altri molti riserbando noi alla sottoposta nota (*), d contenteremo di riferire qui

nn di s. Agostino nel libro tw della GttA di Dio per ogni maniera p Varrone

vantaggiosissimo : « Chi, dioe il coltissimo vescovo d* Ippoaa, più accoratamente

di Marce Varrone ricercò tali cose ? chi più dottamente le scoprì ? chi pia atten­

tamente le considerò, chi le distinse con maggiore acote^aa, e pio diligentemente

(*) MARCUS TERENTIUS VARRO* Claruit «ole Christum Aon. jlxyiu.Philosophus el Poèta. Nascilur Ad. i. Olymp. 166 aule C. N. 114• Obiit Ad. i. Olymp. 166

•aie C. N- a6. Euseb* iu Gbroo.Composuit xxi? libro* de l'ioga» Lalina, quos Ciceroni dedicaverat ; Satyras Menippeas :

Antiquitate* rerum hum anarum diviaarum que; libro* de v iu Populi Romani: Opus Hebdo­madum, quod continebat imagines et elogia doctorum virorum ; librum de poélis el Scenica ori­ginibus, eie.

Farro Philosophus Romanorum plurimae fuit in historia lectioni#. Plutar. in Romul. Herman, Crus er. in irep re i

Farro doctissimus Romanorum. Senec. de Consol. ad Hei?, c. 8. Vir accuratissime doctas atqoe eruditus. Apul. iu. Apoiog.

Varro ille Romanus multiforia ibus «minens disciplinis, e l in vetustatis iudagalioue rima­tor. Arnob. advers. Gent. 1. v.

M. Varro, qao nemo uaquam doclior, ne apud Graecos quidem, nadum apnd Latinos vixit. Lactant, l. 1, diviu. lnslitut. c. 6.

Vir doctissimus apud eos (Ethnicos) Varra$ et gratissimae sudorilatis . Augusi. l. iv de Civit. Dei, c. 1.

Quis M. Varrone curio»ius ista (de Diis Gentium) quaesiti!? Q uisiuveail doctius? Q ub consideravit atleu li us? Quis distinxit acu li 14* ? Quis diligenUus pUniusque descripsit? Qui laroeUi m inas est snavis eloquio, doctrina tamen atque seu tenti is ita refertus est, ut in omni eruditione» qaara nos saecularem. \\U autem liberalem jocant, studiosum verum tantuin is te doceat, qoan~ tam studiosnm verborum Citerò delectat. Idem ibid. 1. ?i, c. a.

Terentius Varro , ? ir Romanorum eruditissimus. Plorimos hic libros et doctissimos com~ passi L, perilissimus Jinguae latinae, et omai* Antiquitatis, et rerum gr aecarum nostrarumque ; plue tamen scientiae collaturus quam eloqueutiae. Quintii. I. x, Inslit. c. 1.

M. Terentius Varro, scriptor inter togatos sine controversia long* doctissimas. Zumc. Casaub. De Satyr. Graec. Poél. et Rom. Sat, 1.11, c. i .

Terentius quidem Varro, ? ir cum graocis littòri* perfectus et latinis* feun Antiquitatis cum primis im itator diligens. Lipt. 1. iu , Var. lcot. c. 19.

Unicum Varronem inter Lalinos habemus libris tribus de Re Rustica qoi ?ero ao pfeiiasophatus ait, imo nullus est Graeeorum, qa i tam b eat, inter eos «altem qai ad nos per?eue- r u u t O excellens opus ex quo, qualia ejus reliqua erani opera, congedare quivis potest! Sed quod

Page 16: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

ed abbondantemente le tcrìsce? II quale quantunque non abbia latta quella soavità

dì sermone, che altri perawentura potesse desiderare, pieno é però di dottrina e

di sentenze a segno, che in ogni genere di quella erudizione, la qoale noi secola­

resca diciamo, ed essi appellano liberale, tanto egli istruisce gK studiosi di cose,

quanto que' di parole Gcerone diletta. Il qual Cicerone stesso di lai parlando nei

libri Accademici, nomo lo chiama sopra ogni ahro acutissimo e senza eccezione

alcona dottissimo. » E poco dopo aggiunge : « Tanto egli lesse, da doverci noi

giustamente maravigliare che avesse poi tempo da scrivere : e tante cose scrisse,

quante appena crediamo che alcuno abbia potuto mai leggere: uomo insignemente

grande per ogni maniera e d 'ingegno e di dottrina. »

Si estinse,dice Valerio Massimo, nello stesso letticduolo e lo spirito di lui e il

corso delle egregie sue opere. Egli morì nell' ottantesimo ottavo anno di sua vita

mirum, non minus in Poèti valuisse, fragmenta Poématum indicant. Scalile rana prima, pag.

*46, 147.Varro octogesimum agens annum, scripsit libro* de Re Rustica, et ila scripsit, a t ex hi*

videatur adbac alacri animo fuisse, et sensisse stadiorum duloedinem. Erasm. I. xxiii, epist. 5.Rerum antiquaram Varrone doctiorem neminem fuisse constat. Baron. Voi. 1, Annal. p. 35.Pleni Varronis ( doctissimi alioqain viri ) libri ineptissimarum Etymologiarum : quem eo

nomine merito Quintilianus etiam reprehendit. Nihil enim plerumque insulsius. Mer. Casaub. De qoat. linguis p. i 5a.

Vel Varro ipse quam interdum in Vocabulorum veriloquiis absurdus est? Tumeb. Ad­versar. 1. 111, c. 7.

Varro more suo anxie Etymologias commxuwxKuT.Jo. ScaU conject. in Var. de ling. lat. p.90.Varro in Ktyroologiis Varro non videtur : itaque a Quintiliano r idetu r merito. Manut.

i. 111, epist. a3.Docli haud ignorant, quid de Platonis Cratylo sit statneadum; quemadmodum et de

Varronis Originibus, qui saepe in tuis de linguae latinae libris prudens sciens fallit, fallitur-

que. Gerard. Joan. Voss. de Arte Historica, p. a.Varronis de lingua latina libri Ires, intricati, ex illo dicendi more ipsi peculiari. Lud,

Viv. do Tradeod. Discipl. p. 5s 5.Vitruvius orationem peregrinatione et plebitate, id est, verbis loquendique generibus infi­

mae plebi familiaribus, ant ad transmarini graecanici sermonis consuetudinem ineptiuaeule conformatis passim infuscat. Quae vitia una cum archaismis et novitatibus etiam apud V a r - ronem inveniuntur, coi propterea elegantiam defnisse notavit Petrus Lavinius in lib. De ver­bis Sordidis. Gasp. Sciopp. consuit. p. 4 »*

Magnam iu Varrone Antiquitatis doctrinam, magnam Veteris ritus Sacrorum e t Cere­m oniarum cognitionem : euraque in Ennii lectione assideam fuisse observo. Andr. Schot. i. 11, c. 14 observ. Human.

in Plauto et Lucretio plura, in Varrone et Terentio nonnulla occurrunt obsoleti1, q u ae hodie verius pro metallo adorandae rubiginis9 u t Juvenalis loqui amat, quam puro putoque obryzo habenda, nlcumque fuerint id temporis satis elegantia, satis aurea. Olaus Borrich. io cogitat. De variis lat. ling. aetat. p. 4«

Ejus opera sive potias operam frsymw to collectore Ausonia Popma, notis illustrata m a t , Lugdun. Batmv. in o f tek u Christoph. Plantini per Christoph. Raphelengium 1601, in 8.

SAGGIO STORICO 39«

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393 SOPRA M. TERENZIO VARRONE 3q4

sotto il consolato di Angusto e di Servio Apnleo Y anno di Roma 721« e volle

esser sepolto all1 aso pitagorico in ona olla di terra cotta, facendosi avvolgere in

foglie di mirto, di olivo e di pioppo nero.

E queste sono le poche notizie che intorno a Marco Terenzio Varrone la

storia d somministra.

M . T r i e i i i o V a k b o b *

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CATALOGO

D E L L E O P E RE VARRONI ANE

-------- * # 4 ----------

È parato a noi opportuna cosa il raccogliere qui, come a piena trattazione delle

cose appartenenti a Marco Terenzio Varrone* le memorie che delle opere di sì

valentuomo in alcun modo ci rimangono, persuasi essere questa la migliore

maniera di render utili le notizie storiche di uno scrittore.

De utilitate sermonis libri ir .

De proprietate scriptorum liber /.

De similitudine verborum Ubri ji.

Popma crede che in quest1 opera Varrone patrocinasse il sistema dell1 Ana­

logia, su del quale nell1 opera della Lingua Latina ha sospeso il giudizio, conten­

tandosi di allegare quanto può per Y una parte e per V altra riferirsi. Io osservo

che quando una lingua comincia a fissarsi, sempre avviene che qualche valente

scrittore si dia pensiero di assegnarne i principii. Così ha (atto, Dante fra noi nel

suo trattato della Eloquenza volgare.

nE P I XAPAKTHPHN libri in .

Popma crede che questa sia l'opera De formulis verborums la quale Varronc

nel libro ix della Lingua Latina promise a Cicerone di scrivere.

De poématis libri ///.

De gradibus libri . . .

De compositione satyrarum liber /.

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De comoediis Plautinis liber /.

Io questa opera imprese Varrone un esame critico sul genio e sullo stile di

Plauto, onde determinare l'autografia delle Commedie del medesimo; ed inerendo

ai principii da lui fissati, tiecise essere di Plauto non sojo le ventuna Commedie

che allora correvano come di quello scrittore, e che sono giunte fino a noi, eccet­

tuatane una, ma ancora diverse altre, le quali correvano allora o senza nome , o

con nome di altri. Queste erano 1’ Aditus, il Saturio , la Boeotia , V Astraba, il

Colax, la Comicularia, il Condalium, la Frivolaria, il Gastro, il Parasitus piger%

il Phago, il Sinteliturgus.

Plautinarum quaestionum libri //.

Epistolicarum quaestionum libri ir.

Epistolarum libri m i .

Non si sa se in questi fossero comprese, oppure formassero libri a parte Y Epi­

stole ad Fabium, ad C. Caesarem, ad Fufium, ad Maruelium, ad Servium Sulpitium%

ad Neronem, alle quali va unita l’Epistola Julii Caesaris, e Lucii Atinii a Varrone.

Complexionum libri r i.

Vengono citati da Diomede; ma si dubita che non sia stato esatto nel riferire

questo titolo, non intendendosi come Varrone abbia scritti i sei libri sopra una si

limitata materia, quale é questa, in quanto appartiene alla Rettorica.

Disciplinarum libri m i .

Questa era un1 opera, nella qaale Varrone accumulò quanti lumi possedeva

intorno alla storia e ai principii generali del gusto.

De grammatica liber /.

J)e astrologia liber i.

Di queste due opere fa menzione Cassiodoro.

De arithmetica liber /.

Vetranio Alciato dice che quest’ opera trovasi manoscritta in Roma. Egli

aveva promesso di pubblicarla, ma poi non lo ha fatto.

De geometria ad M* Coelium Rufum Uber /.

Giovanni Arcerio comunicò a Popma un frammento di questo libro scritto

in carattere longobardo e affatto mutilato. Non dispiacerà a’ nostri leggitori che

ne presentiamo loro un passo. Eccolo :

« A Casu quae p A nomen habet finis super p montem habent $ sinistra parte

aquam vivam significat p

399 CATALOGO {o»

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B orientates pflrtes x i B significat

B Casu p B nomen habet, finis grandis habentes ante seyfinis subjacet contra

sextantem runsm significai finis circa se

C Casu quae P C nomen habet fines super se non habentes proximum %>enit in

alia finis fontem habentes subtus flumini A indicat terminum, transit fluoium

transit vias multas, transit limitem ejus p co, transit labacrum significat colles

rigora seq—ris, etc. »

De musica . . . .

Fa menzione di questo trattato di Varronc Claadiano Mamerto vescovo di

Vienna.

De lingua latina.

Fa qaesta un'opera vasta, della qaale rimangono ancora alcani pezzi non

piccoli. Varrone la scrìsse sotto la Dittatura di Cesare. Ebbe essa tre parti. La

prima fa di libri vi, e in questi espose come fossero messi i nomi alle cose. La

seconda fa di libri yi parimente, e in essi trattò del come i vocaboli si declinino in

casi. La terza di xu libri, e in essi spiegò come le parole bene unite fra di loro riferi­

scano un senso. Secondo qaesta esposizione tatta l’opera sarebbe stata di xxrv libri ;

il che sembra evidentemente provato dal sapersi 1' argomento di ciascheduno dei

medesimi. È per altro opinione degli eruditi che l'opera intera fosse compresa in

x m libri, poiché si trova che altri yn furono indirizzati a M. Marcello, i quali

assolutamente non entrano nel numero dei n iv accennati.

Antiquitatum libri xzr.

Ecco un’ altr’ opera più vasta ancora, ma sventuratamente perduta tuttaquanta.

Fa ossa divisa in due volumi. Nel primo trattò delle cose amane, nel secondo delle

divine. Il primo volume fu intitolato Purum humanarum , e contenne xxv libri,

divisi in quattro parti. Nella prima parlò degli uomini, nella seconda de' luoghi,

nella terza de1 tempi, nella quarta delle cose. Questi furono XXiv in tutto. Ma ne

premise ano a modo di proemio, ove in generale parlò di tatta la materia. Ogui

libro poi ebbe il suo titolo particolare, come 1’ Xi che fa intitolato dei giorni, e il

xiz della gaerra e della pace.

Il secondo volume fu Rerum dmnarum; e Varrone lo indirizzò a Giulio Cesare

allora pontefice massimo. Questo volume comprendeva xvi libri, Y ordine e la

materia dei quali vengonci esposti da s. Agostino. « Nei primi tre libri, dice il

vescovo d’ Ippona, scriss'egli intorno agli uomini, ne* secondi tre de’luoghi, negli

{or DELLE OPERE VARRONIANE 4«,

Page 22: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

altri tre delle cose sacre ; e qui espose chi sieno gli offerenti, ore offeriscano,

quando, e cosa. Ma perchè bisognava anche dir a chi offerissero, ed era anzi questo

il capo principale ; perciò gli aitimi tre libri consecrò egli agli dei. Cosi questi

libri farono quindici. Ma tutti insieme, come dicemmo, sono sedici, ed ecco il

perchè. Varrone ne premise ano sai principio, ove parla in compendio di tatte

codeste cose. Se vuoisi poi an più minato ragguaglio della trattazione Varroniana,

eccolo. Nei tre primi libri appartenenti agli uomini parlò de1 pontefici, degli aagari

e de* quindecimviri soprantendenti alle cose sacre. Ne9 secondi tre relativi ai

luoghi parlò delle cappelle, de1 templi e di altri luoghi religiosi Ne'tre riguardanti

i tempi, cioè le festività, parlò delle ferie, de1 giuochi circensi e delle rappresen­

tazioni teatrali. Ne1 tre susseguenti, che abbracciano le cose sacre, parlò delle

consecrazioni, de' sacrifizii privati e dei pubblici. Parlò poi degli dei ne1 tre ultimi,

distinguendoli in dei certi, in dei incerti, e in dei principali e scelti, n Fin qai

s. Agostino.

Oltre a ciò sappiamo che Varrone scrisse quest'opera (mentre temeva che gli dei

de1 Romani perissero non per invasioni nemiche, ma per trascuratezza dei cittadini),

onde liberarli da una specie di ruina e repristinarli medianti questi libri nella

memoria degli uomini : con che si lusingava di prestare gran servigio a1 suoi

cittadini. E protestò sapere ben egli che i Romani erano stati gl’ inventori del

modo di venerare gli dei ; e che nel culto dei medesimi non aveva egli ascoltato

il suo proprio senso, ma bensì seguite le costumanze e le leggi della sua patria.

La quale dichiarazione prova che voleva egli allontanare da sè ogni sospetto

d’ innovazione. Petrarca nella sua lettera a Varrone dice di avere veduta da

giovinetto quest’ opera, smarrita poi quando era capace di leggerla con profitto.

Dò cultu Deorum lib. . . .

Augurum libri.........

Non è ben noto se queste fossero opere a parte, oppure porzione dell’ opera

grande che abbiamo annunziata. Macrobio parla della seconda. La prima viene da

alcuni collocata fra i LogistoricL

De gente populi romani libri i r .

In questi Varrone espose 1’ origine dei Romani, cominciando dai re di Sidone,

venendo agli Ateniesi, da questi passando ai Latini, e dai Latini ai Romani.

Nei primi due libri comprese tutte le favole della storia precedente la guerra

troiana, facendo capo dal diluvio di Ogige, che si sappone accadato mille trecento

4o3 CATALOGO 4<>4

Page 23: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

anni prima della fondazione di Roma. I due ultimi comprendevano la storia troiana,

e le cose dei Latini e de1 Romani progressivamente fino al consolato di A. Irzio

e di G. Vibio Pansa cadalo all’ anno di Roma 711.

Dò initiis urbis Romae.

Fa menzione di questo libro Qaintiliano. Noi non sappiamo se si debba consi­

derare come ona cosa diversa dal precedente.

De vita populi romani Ubri i r ad T. Pomponium Atticum.

Nel primo libro Varrone trattò delle faccende domestiche, dell* antico oso del

rito e delle vecchie discipline necessarie alla vita. Nel secondo trattò del senato,

dei consoli, de* pretori, de’ censori e d’ ogni altro magistrato, ed in fine de’giuochi

e de1 conviti. Nel terzo espose le varie sorte degli ordini militari, i diritti della

paee e della guerra, lo splendor del trionfo e il rito di piangere e di seppellire i

morti 11 quarto ebbe per oggetto le sedizioni, le guerre civili e 1’ esterne.

De rebus urbanis libri in .

Di quest’ opera non abbiamo traccia veruna.

De scaenicis originibus libri in .

De actionibus scaenicis Ubri r.

È probabilissimo che qaesta sia 1’ opera dal grammatico Servio citata sotto la

denominazione di Theatrales libri.

De famiUis trojanis ad Libonem lib. . . . .

Non sappiamo in quanti libri fosse distribuita quest1 opera, la quale probabil­

mente era genealogica.

Annalis, ossia Ephemeris.

Era qaesta un’ opera, nella quale Varrone parlava degli anni e de' mesi dopo

la riforma del Calendario fatta da G. Cesare. Carisio è quegli che ci dà il primo

titolo ; Prisciano e Nonio l’ hanno indicata col secondo.

Tribuum Ub.........

De aestuariis liber 1.

Da Varrone stesso abbiamo notizia di queste due opere.

De Uttoralibus liber 1.

Era quest’ opera scritta parte in prosa, e parte in versi.

De poètis libri 11.

De bibliothecis Ubri //.

* Siamo senza notizie affatto di queste due opere. Si crede che la seconda fosse

4o5 DELLE OPERE VARRONIANE 4o6

Page 24: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

scritta da Varronc dopo T incombenza che gli diede Cesare di mettere insieme

doe biblioteche Y una latina, l’ altra greca.

Tricipitina liber i.

Trattava della cospirazione di Pompeo, di Crasso e dì Cesare* Ne parla

Appiano nel libro i delle gaerre civili.

Aetia.

Intitolò cosi Varrone quest' opera ad imitazione di Callimaco. Callimaco ayev?

trattato di oscurissime favole tolte dalla più rimota antichità, e eh' egli diceva

d’ avere imparate dalle Mose, colle qaali era stato in sogno. Varrone spiegò le

cagioni degli antichi riti, specialmente romani.

Admiranda liber h

Servio chiama quest’ opera Mirabilium. Anche Gcerone scrisse un libro

intitolato Admiranda, qualche volta citato da Plinio.

Poliandria liber /.

In quest1 opera Varrone descrisse i sepolcri degli dei e degli eroi, cioè, come

dice Arnobio, di qaai tempii sieno co p e rti, o quali ampie moli vi si sieno innalzate

sopra. Si pretende però da alcuni che quest1 opera di Varrone fosse fatta sul

modello del Peplo di Aristotele, in coi oltre aH1 indicare i sepolcri e le iscrizioni

fatte sui medesimi, esponeva la genealogia dei priqdpi Anento va ti da Omero, e il

numero delle navi da essi condotte a Troia*

Htbdomadon^ ossia De imaginibus libri jx .

In quest1 opera Varrone diede il ritratto di più di settecento nomini illustri,

ed aggiunse ad ognuno un epigramma. Da quest1 opera noi ricaviamo nn singolare

argomento della incisione nota agli antichi, e da Varrone coltivata. Ecco il passo

di Plinio che prova questo fatto. Io lo riferisco in latino, affinchè nessuno sospetti :

M. Varrò benignissimo invento insertis voluminum suorum fecunditati non nomi♦

nibus tantum septingentorum illustrium^ sed et aliquo modo imaginibus, non passus

intercidere figuras, aut vetustatem aevi contra homines valere? inventione muneris

etiam diis invidiosus, quando immortalitatem non solum dódit, verum etiam in omnes

terras misit, ut praesentes esse ubique, et claudi possente Varrone scrisse questa

opera di ottanta quattro anni. Allora aveva scritti quattrocento nonanta libri

De vita sua liber /.

Alcuni altri Romani avevano scritto le loro proprie vite prima di Vairone :

fra gli altri P. Rutilio Rufo e Q. Emilio Scaoro. Se questo libro di Varrone non

4<>7 CATALOGO 4o8

Page 25: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

si fosse smarrito, noi avremmo delle sue geste assai cose ; laddove pochissime e

staccate notizie ci sono rimaste.

De philosophia liber /.

S. Agostino avefa letta quest* opera di Varrone ; e sappiamo da es«o lai che

in essa aveva compilate ed esposte le opinioni delle diverse sette filosofiche, e ne

aveva notate fino a a84. Varrone era della setta degli Stoici.

Deforma philosophiae libri il,

Di quest' opera non abbiamo traccia che da Carisio, il qaale ne fa menzione.

De rerum natura.

Qaintiliano ci attesta che qaesta fa un opera di Varrone scritta in versi, ma

non d dice se il piano di essa fosse diverso da quello di Lacrezio.

HPAKAEIAION.

Cosa fosse questo Eraclidion, di coi fa parola Cicerone nelle lettere ad Attico,

é cosa difficile a sapersi. Si crede che fosse an1 opera di politica, forse così intito~

lata, perchè in essa aveva imitato Eradide Pontico, il quale aveva scritto della

stessa materia.

Menippea.

Questa fu an1 opera satirica parte in prosa, e parte in versi d' ogni metro.

Forse Petronio e Marziano Capella tolsero molto dalla Menippea di Varrone, della

quale ci restano varii frammenti. Ecco i titoli dd diversi pezzi componenti la

Menippea Varroniana :

4<k) DEjLLE OPERE VARRONIANE 4io

Aborigines.

Agatho.

Age modo.

A A A O S O T T 0 2 H PA K A H S.

Andabatae.

Ammon M ETPI2 .

A N Q p n n o T P r i A .

Armorum judicium.

Bajae.

Bimargus.

Caprinum proelium.

Cave canem.11. T s a b s x io V a i 10* *

Columna Herculis.

Cosmotorine.

Cras credo : hodie nihil

Cygnus.

Cynicus.

De Salute.

De officio manti.

412 nAlAES 01 rEPONTES.Dolium, aut Serta.

Endymion.

E n iT A w n N .

E m T H / *AKH/ MTPON.3

Page 26: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

411 CATALOGO ijia

Est modus Matulae. ÒNOS ATPAS.

ETPEN H AOIIAS TO TM M A j. iu n iA S n A im o s ,

Eumenides. Parmeno.

E x n SE. nEPI AIPESEHN.E x demctricus. HEPI EAESMATX1N.EXIS nOTE. HEPI ESATXirHS.Flexibula. nEPI KEPATNOT.Gemini'. Plutoriae.

Geruntodidascalus. Pransus paratus.

m n o i SEATTON. Pseudulus Apollo.

Hecatombe. Pseudonea.

Hercules tuam fidem. Quinquatria.

Hercules Socraticus. Sardi Venales.

Hippocyon. SKIOMÀXIA vel KPIOMAXIA.

It/tm Acci quod tibi. Serranus.

KENOAOSIA nEPI flONOT. Sesquiulisses.

£0% Moenia. Sexagesis.

Logomachia. Synistor.

Longe fug it qui suos fugit. Syncphebus.

Magnum talentum. Tanaquil.

Manius. TA$H MENinnOT.Marcipor. Testamentum.

Margopolis. Tithonus.

Meleager. TOT nATPOS TO nAIAION.Modius. TPIOAITI TPI<MlAlOS.

Mutuum muli scatunt Triphalus.

Mystagogi. Vae victis.

Mysteria. Vinalia.

Nescis quid vesper serus vehat* Virgula divina.

Octogenis. TAPOKPTON.Oedipo thfest es.

Logistorici.

Questi furono vani dialoghi, ne1 quali trattò di alcune importanti massime di

Page 27: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

filosofia, aggiungendo gli esempii di alcuni illustri nomini* coi nomi dei quali

intitolò riaschedun dialogo. Eccone Y elenco :

4 >3 DELLE OPERE VARRONIANE 414

Tubero. De origine humana.

Cato. De liberis educandis.

Articulus. De numeris.

Gallus Fundanus. De miris aquarum.

Marius. De fortuna.

MesaUa. De valetudine.

Orestes. De insania.

Pappus. De indigitamentis.

f t’w. De pace.

Saserna. De historia.

Laterensis Nepos.

i& a u ra r .

IIEPinAOr <&IA020<MA2 Wr* //.

In quest* opera Varrone fece la descrizione di tutt’ i luoghi e di tutti gli nomini,

dai quali, *o ne' quali rispettivamente fu inventata e coltivata la filosofia.

Prometheus.

Varrone in questo libro ha descritto la formazione dell' uomo immaginata da

Prometeo, raccogliendo ed esponendo con istile poetico quanto di Prometeo si era

detto nelle favole, unendovi, molti fiori filosofici. Tanto la prima di quest' opere,

quanto la seconda sono scritte metà in prosa, e metà in versi.

Rerum rusticarum libri in .

Quest' è 1' unica opera di Varrone che ci sia giunta poco meno che perfet­

tamente intatta. Del merito di questa possono giudicare tutti quelli che la

leggeranno.

A perfetto compimento di questo elenco conviene finalmente notare che esiste

una preziosa raccolta di sentenze comunemente attribuite a Varrone ; ma credono

alcuni eruditi che questa sia I' opera di qualche studioso dei libri Varroniani,

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DELL’ AGRICOLTURA

L I B R I III

CON T R A D U Z I O N E E NOT E

DI GIAN GIROLAMO PAGANI

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P R E F A Z I O N E

----------------

]M[eoo dì quella di Catone é gianta a noi sfasciata e rotta l'opera che sulle cose

agrarie scrisse Marco Terenzio Varronc, nomo, se altri v'ebbe mai, in ogni genere

dì letteratura coltissimo, e dai contemporanei suoi e dagli scrittori susseguenti di

comune consenso predicato pel più dotto dei Romani. Della cui dottrina in fatti

sommo argomento si è il vasto catalogo delle opere sue, che unito ai brevi prole­

gomeni avrà riscontrato il lettore curioso.

Trasse Varrone il fondo dell'opera sua dai libri dei Saserna, cittadini romani

dell' agricoltura benemeriti oltre ogni dire, dei quali parla anche Marco Porcio

Catone. Si approfittò delle opere di Magone cartaginese, che correvano allora in

Roma tradotte per pubblica autorità ; ed è credibile che il libro di Catone gli

giovasse assai, sia che parlisi della materia che poteva somministrargli, sia che

vogliasi dir dell' esempio. Imperciocché se Marco Porcio Catone, scrittore pro­

fondo ed eloquente oratore, dopo una lunga e brillante carriera politica si era

dedicato agli studii della rurale economia ; ben poteva nascere in colto ingegno

ed in valente scrittore, siccome era Varrone, caldo desiderio d1 imitare un tanto

nomo. Il che supposto, dobbiamo poi aggiungere che di molto egli avanzò nella

prova quanti preceduto lo avevano. Conciossiachè più ordine egli pose nella trat­

tazione ; la materia ripulì stata fino allora piuttosto aspra e rustica veramente ; e

di tale eleganza e gentilezza la vestì, che potè comparire con buona fortuna anche

in mezzo ai molli e schizzignosi Luculli. Sebbene non per questi veramente si

moss’ egli a scrivere il suo libro, ma per Fundania sua moglie, la quale avendo

acquistato un vasto corpo di terreno lasciato per lo addietro poco meno che

Page 32: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

incolto, si rivolse al marito, affinchè la istruisse interno al pi& acconcio modo di

trarne buon partito. Vairone sembra essere stato anche in ciò buon imitatore di%

Catone, il qaale il libro suo aveva diana! scritto pel sao figlinolo.

Io non so, se perché appanto scriveva direttamente per Fandania, scegliesse

egli di scrivere l'opera saa m dialogo ; genere di scrivere che fa coltivato in qaei

di anche da Cicerone, e che piò di ogai altro dimostra lo spirito dell' autore, e il

grado di coltura, che al suo tempo la sua nazione distingue. Siccome poi a Var­

rone piaceva il grecizzare ; così di molte maniere greche riempì codesti saoi

dialoghi, e di molti provèrbii li sparse, e interlocutori introdusse mirabilmente

opportuni. Che se da codesto sao grecizzar frequente si volesse per avventura

argomentare che alquanto più all' ingegno suo donò, di quello che acconsentisse

la circostanza ; ben resta ogni dubbio sciolto, considerandosi che Fundania era

donna de' greci stadii pratica, e conoscitrice perfetta de' greci autori ; perciocché

se tale non fosse stata, non le avrebbe Varrone suggerito che a' greci agronomi

essa ricorresse, ove morto lui, che allora agli ottant' anni dell' eli sua era gianto,

alcana cosa le abbisognasse sapere o intendere. Per la qual cosa nel preambolo

stesso del libro una lunga enumerazione le fa dei greci letterati che scrissero

intorno all' agricoltura.

Noi pochi esempii abbiamo di dotti nomini dalle mogli loro pregati a scrivere;

e tfiuno certamente di quelli che dalla moglie sieno pregati a scrivere di cose di

agricoltura. 11 che, quanta sia la differenza del secol nostro da quello di Varrone,

facilmente dimostra.

Ma parlando ancora alcun poco dello stile Varroniano, pare a me che questo

ne sia singolarmente il carattere, eh' esso diletta colle frequenti metafore e colle

inaeri te allusioni a storie e favole, delle quali Varrone era eruditissimamente sta­

dioso, siccome dagli avanzi delle altre opere sue apertamente si vede. Se non che

a me sembra che duretto alquanto sia egli nell' andamento suo e nelle sue parole,

e che astniso riesca qualche non rara volta ne' suoi fraseggi. Le quali cose non

debbono sorprendere alcuno, sol che si voglia considerare, che siccome quando

Varrone cominciò a scrivere, la prosa latina non aveva ancora nn perfetto mo­

dello ; così nel crearsi egli ano stile, non poteva nascondere affatto le tracce dei

saoi sforzi. E tanto pia resteremo di ciò persuasi, se per avventura avvenga che

la copia delle aae idee si trovi in contrasto colla ristrettezza di ana lingua, non

ricca per anche di quella lussureggiante pompa di fraseggi e di giri, che conda-

4a3 P R E F A Z I O N E 4»4

Page 33: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

cendola a perfézione, k danno poi i sasseguenti scrittori. Che se i nostri amichi

Toscani, per paragonar cosa a cosa, vengono da noi trovati ordinariamente chiari

nella loro didtara ( il che io affermare} essere il loro distintivo pregio ), dò non

viene al certo dall'essere stati aomini di profonda dottrina, parlando almeno dd

pio, o dall1 avere trattato i primi astrosa materia di arti o di sdenze.

Abbiamo detto di sopra che Y opera di Varrone è gianta a noi meno sfasdata

e rotta di quella che di Catone d rimane. Egli è danqae da avvertire che hannovi

in essa aleoni laoghi, ove apparisce la stroggitrìce mano del tempo. I dotti com­

mentatori, per «empio, non tntlasdarono di accennarli ; e noi senza tessere qai

una generale rivista del testo, ricorderemo nn passo del libro i, già a sao tempo

indicato, e ricorderemo pare il fine ddl’ opera, che non é oggi tale, qoal con

ragione presumiamo essersi da Varrone scritto. Oltre di che sappiasi che Plinio

loda nn passo di Varrone certissimamente attinente all’ opera agraria che qai

prodadamo ; il qual passo nc* libri Varroniani che d restano, in modo alcuno

non trovasi (*).

Ma fortunatissimo è stato Varrone in quanto molti illustri e dotti aomini ha

avuti diligentissimi in purgarne i vecchi codia, in rettificarne le lezioni, e in

accondarne ogni più piccola parte. Primo fra tatti vuoisi qui nominare Vittorio,

il quale consultando e confrontando codici antichissimi, molti laoghi del nostro

autore accuratamente corresse ; nel che fare discrezione molta d mostrò, e fu

sobrio assaissimo, ed oltremodo cauto ; cosicché poche novità introdusse, e queste

soltanto da forti appoggi sostenute. Condannasi Giuseppe Scaligero di arditezza

soverchia e di predpitazione, come quegli che troppo concedette alle congetture.

Nondimeno di Varrone fu assai benemerito ; e le sue note danno prova singolare

dello stadio profondo che fece sopra questo scrittore. Condannasi eziandio Ursino,

perché più sollerìto apparve in levare, che in aggiungere al testo ; ma certa cosa

è che molto agevolò anch1 egli Y intelligenza di Varrone, e che si servì di buoni

codia. E gli eruditi non cessano di fargli onore, singolarmente per un certo passo,

il quale verrà indicato a suo luogo, e che da codesto repristinatore Varroniano

dobbiamo noi assolatamente riconoscere. Ma che dirò di Ausonio Popma di tutte

4aS F R . E F A Z I O N E 4a6

(*) 11 patto, del quale parliamo, viene da Plinio riportato così ; Farro auctor est, si fid i­culae occasu quod est initium auctumni, uva picta consecretur inter vites, minus nocere tempestates.

M. T ea ib k io V a e r o s i \

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P a E F A Z I O N B 428

le Varroniane opere e di tatti i (rammenti raccoglitore laboriosissimo, e bene­

merito illastratore di qaesta che pubblichiamo qai tradotta ? Ella è per certo

amara cosa che le note di Popma sieno state sì malamente stampate, che, come

é a Gesnero accadato, pia fatica barri a riattar quelle, che lo stesso testo Varro­

niano. A tatti poi va innanzi, cred’ io, il valentissimo nostro Pontedera, uomo

per ogni maniera di dottrina filologica ornatissimo, che tutti ha sovranamente

illustrati e schiariti i passi difficili, intorno ai quali con incerta fortuna si erano

applicati gli altri commentatori : e dove la lunga età e 1’ ignoranza degli antichi

copisti aveva corrotto il testo, con acuta rettificazione ha restituito e senso e luce;

talché se Varrone oggi s’ intende, a Pontedera se ne debbe la lode. Noi non pos­

siamo pretendere di venire a competenza con aomini sì illustri. Con tatto ciò, se

le combinazioni ci hanno portati nel medesimo campo, e se siamo divenati, dirò

così, i successori loro nello stadio e nel colto de1 Rustici Latini ; a qualche parte

di gloria possiamo senza temerità anche noi aspirare, massimamente sapendosi

che sì ampia é la messe, che molto ancora rimane in che adoperarsi.

Ed ecco ciò che intorno a quest1 opera abbiamo creduto di dovere accennare,

persuasi che inopportuno sia quanto potrebbesi aggiungere, perché ai nostri leggitori

appartiene il vedere quei pia che qai tralasciamo di dire iutorno alla medesima.

Se non che alla perfetta intelligenza dell' opera di Varrone può giovare, io

credo, un breve saggio dello stato dell’ agricoltura presso i Romani dalla fonda­

zione della loro città fino al tempo nel quale egli scrisse. Al quale uopo io mi

sono proposto di dirne qui in breve le cose più importanti.

Furono i Romani fino dal loro principio agricoltori; e n’ è chiarissima la

ragione, perciocché non avevano essi altro capo d’ industria, da cui trarre costan­

temente e sicuramente la loro sussistenza; ed io credo che meno per amor di bot­

tino, che per una speculazione di economia profonda facessero le loro prime guerre;

cioè per ottenere de’ terreni migliori dei loro e più ampii. Del rimanente avevano

legata 1’ agricoltura colla religione ; ed avevano un collegio di sacerdoti chiamati

Arvali che offerivano le primizie agli dei, e ne chiedevano abbondanti raccolte. Era

in tanta estimazione questo sacro ministero , che morto uno di que1 sacerdoti al

tempo di Romolo, egli volle arrogarsene il posto : e d’ allora in poi non potè

essere uno degli Arvali, se non chi provasse nobiltà insigne di nascita.

Le frequenti guerre che Romolo fece, pregiudicarono forse ai progressi del-

1’ agricoltura ; ma ben presto venne per quest’ arte salutare un più propizio tempo.

Page 35: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

quando «afi al trono il pacifico Nomi. Egli infatti in pia maniere Y animò e

I1 onorò ; e se la vita pubblica di quel re osserviamo, parrà facilmente che del-

T agricoltura piucchè d1 altra cosa egli si occupasse. Anche Marzio seguì le orme

di Numa Pompilio ; ed era solito a raccomandare al suo popolo il rispetto alla

religione e alla coltura dei terreni e del bestiame. Allora non conoscevasi altra

ricchezza che quella, la quale procedeva dal frutto della terra ; e la porzione più

nobile, più potente, e più rispettabile del popolo romaoo era nelle tribù rustiche,

▼ale a dire ne1 coltivatori. Essi erano la parte più numerosa del senato ; essi

coprivano le più eminenti cariche della repubblica ; generali e dittatori si traevano

da esse. Dopo la presa di Cartagine e la conquista della Macedonia e della Grecia,

il lusso entrò in Roma, e ne scacciò Y amore della fatica, la frugalità, la modera*

zione ; né 1* agricoltura fu più bella, che nei libri.

Eccoci ai tempi di Varrone. È celebre il rimprovero che veggiamo fatto da

un senatore ad Appio Claudio, il quale distinguevasi per la magnificenza introdotta

nelle sue case di campagna. Mostrando quel senatore ad Appio la rustica sua

abitazione, gli disse : « Qui tu non vedi né quadri, nè statue, né intarsiature, né

terrazzi a musaico, né tavolati a rimesso ; ma ci vedi bene quanto fa d’ uopo al

lavoro delle terre, alla coltura delle vigne, e al nutrimento del bestiame. In casa

tua tutto splende d’ oro, d* argento, di marmo ; ma niun vestigio vedesi di terre a

frutto ; nè in parte alcuna incontransi buoi, o vacche, o pecore ; non fieno nelle

cascine, non nelle cantine gl’ indizii della vendemmia, non quelli delle raccolte

ne1 granai. Come puoi tu dunque chiamare la tua una casa di campagna ? e in che

si rassomiglia a quella che possedevano tuo nonno e tuo bisnonno ? »

Si vede che codesto senatore aveva bisogno di fare un gran passo indietro per

ritrovare fiorente l'agricoltura romana. Laonde convien dire che i libri di Varrone

intorno ad essa non sieno già la prova degli usi della nazione, ma siwero di quei

pochi Romani che o 1’ età, o la mala fortuna condannava nelle campagne. E forse

perciò Catone e Varrone non si applicarono allo studio dell1 agricoltura, se non

finita la carriera politica, e vecchissimi.

Checché ne sia, certo egli é però, che provano vigente un ragionato sistema

di agricoltura ; e provano che il lusso e l1 ambizione non avevano distaccati i

primarii uomini della repubblica dalla campagna, a segno che avessero peritata

ogni traccia del mestiere de1 padri loro.

Ed ecco, dirò così, il prologo, dopo il quale ognuno può mettersi ad ascoltar!

4>9 P R E F A Z I O N E

Page 36: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

F interessante commedia che Varrone ci presenta ; giacché otia specte di com­

media, per giustificare la metafora osata, può dirsi che sia il dialogo scrìtto da lai.

Io ho pensato che di alcon lame alla piena intelligenza di Yarrone esser possa

ona dissertazione del signor de la Lande intorno ai tempi, de* quali parla il nostro

autore. Se questa non ci mette a portata di rettificarlo, ove per noi resta tuttavia

oscuro, perchè Y antica astronomia era assai difettosa ; al certo serviri a darci

de* lumi intorno a quanto egli accenna circa il nascere e il tramontare delle

costellazioni, alle quali egli e gli agronomi antichi riportavano le faccende della

campagna.

Di ciò che intorno alla famosa uccelliera di Yarrone potrebbe dirsi, parlerassi

opportunamente, ove quella elegante composizione si pubblicherà. Godi intanto,

lettor benigno, di quello che ti si presenta oggi ; ed incontrandoti in cosa, la quale

ti paia meno acconcia, abbi io considerazione, che se Y illustrare i Rustici Latini

fu grave opera pe’ più valenti filologi d'Europa, opera gravissima e laboriosissima

era poi il volgarizzarli. Per la qual cosa applauso ed incoraggiamento, anzi che

riprensione ci si debbe, comunque possiamo noi essere imperfettamente riusciti

nel disegpo nostro. Ed abbi a mente soprattutto che ne" difficilissimi lavori il

tentativo solo é gran merito. Poi vivi felice.

$3i P R E F A Z I O N E

Page 37: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

S P E C C H I O

DELLE MISURE, DEI PESI E DELLE MONETE ROMANE

COLLE LORO VALUTE ATTUALI

-------- * # 4 --------

A .c p € à . Secondo il Usto di Yarrone, questo era il nome che i L ilioi davano all'acUti quadra• tus. Veggenti to di ciò le nottre annoUiioni el capitolo x del libro i di Varrone.

AcTut q u a d u td » . £ questa osa mitora della to- perfide . Cento Tenti piedi di larghezza ed al­trettan ti di longbezza formano l1 actus qua­dratus ( Vedi P ia in Catone ). Si chiamare quadratus per dutiogoerlo dàìVactussimplex, chiamato da Columella nel libro t , capitolo i

mimimus, il quale non he che quattro piedi di larghezza e cento Tenti di luoghezxa. Plinio nel libro x t i i i , capitolo n i non fa alcuna dif­ferenza tra queati due actus ; ma dice che

l ' actus è generalmente lo tpazio che due booi posto no laTorare in no tolo tratto. Cotale defi­nizione può effettivamente applioarti tanto al- I’ actus quadratus, quanto al simplex, te non ti ha in Titta che la loro lunghezza, la quale è la tte tta sì nell' uno che nell1 altro.

Ao tio ea . Veggasi qaesta parola in Catone» tra t­tandoti ìtì di un1 anfora di qualtÌTOglie capa­cità.

At ( Vedi N cnuu t in Catone ). Varrone non a torto ha detto, che avanti la prima guerra pu­nica pesava dugento ollaolollo scripula, per­chè petava una libbra, o dodici once: ogui oncia era di vèntiquattro scripula.

Bipalm is. Quetla parola nasce da bis, due volte,

e da palmus. Esso aveva la lunghezza di due palmi ( Vedi P alm us in Catone).

Bipxoalis ( Veggati Catone a quella voce ).

C l a m a , Mitora di superficie, ootì chiamata dalla parola centum, cento, perchè contenCTa

cento haeredia ( Vedi HaeeediomJ. E quetla una superficie quadrata, di cui ogouno dei lati aveva duemila quattrocento piedi di lun­ghezza ( Vedi Pat in Catone); per conseguen­za comprendeva dugento iugeri (V ed iJuoa- aum in Catone), perchè I1 hatredium era di due iugeri.

CoHGict ( Veggati quetta voce in Catone).Cuarrut. Quetta misura di dittanza era presa

aopra la lunghezza ordinaria del braccio del- V uomo, cominciando dal gomito, e terminan­do all1 apice del dito di mezzo : ai valutava un piede e mezzo ( Vedi Pxt in Catone ).

Debaeius (Veggasi la parola Nummus in Catone).D igitus (Vedi parimente questa voce in Catone).D o d eam . Si prende da Varrone per tre quarti

di un piede : ad esso si applicavano le divisioni della libbra in uncia, sextans, etc», in quelle guisa che qaeate ti applicavano a qualunque cosa che fotte lutceltibile di misura, o di divi­so n e (Veggasi Liaaa e Poh d o in Catone).

H aeekdium. Misura di superficie così chiamata, perchè quest1 era la quantità di terra stala di­stribuita da Romolo a ciascun cittadino: que­tta doveva pattare agli eredi, ed era il doppio del iugero ; per conseguenza conteneva 57,600 piedi quadrali ( Vedi Jugeaum in Catone ). t

J ugbaum. Quest1 era la misura adottata dai Ro­mani e in tutto il Lazio. Saterna pretendeva che per larorar cento iugeri di terra ballasse

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<35 SPECCHIO DELLE MISURE, DEI PESI, EC. 436

nn paio di buoi, e che an solo uomo potesse in q u ittro giorni lavorare no iogero di terra, ma in un paese piano. Per seminare on iogero d1 erba medica bastata nn sesquimodius di semenza ( reggasi Sesquimodius ), quando che bisognavano comunemente quattro modii di fava, cinqoe di biada, sei d’ orio , e dieci di formeoto ( Vedi Modici ). Un iogero si poteva mieterlo iu un giorno di lavoro. Dal libro iu, capitolo li si pnò c o n c lu d e re cbe un ingero produceva cencinquanta sestertii di rendila (Vedi Sbstbbtius ). Ai tempi di Varrone un parco di quaranta iugeri era considerabilissi- n o ; ed il più grande, di cui siasi fatta m en­zione, era quello di Ortensio, il quale ne con­teneva ciuquanW.

J ugum. Misura di superficie. Quest1 è quello spa­zio di terra, che possono lavorare in un giorno due buoi insieme aggiogati: quest'era la mi­sura di terra adottata nella Spagna ulteriore. Gli Avergnati danno anche oggidì il nome di giogo a una pari estensione di terreno.

L apis. Misura di distanze. C. Gracco aveva o r ­dinato cbe to lte le grandi strade, le qnali par­tivano da Roma, fossero marcate di mille passi in mille passi da una pietra, sopra la quale si «colpisse la cifra indicante il nnmero dei passi cbe si erano percorsi; e quindi la voce lapis si prendeva per uno spazio di mille passi ( Vedi P assus).

Modius ( Veggati questa parola io Catone). Da quanto dice Varrone nel libro i, capitolo xxiv t i può valutare qual fosse la forza motrice del torehio a olio dei Romani, perchè in uoa sola stretta si dovevano avere censessanta, o alme­no centoventi modii d1 olio. Per seminare on iogero di terra bisognavano quattro modii di fava, cinque di biada, sei d1 orzo, e dieci di formeoto (Vedi J ugebum). Gli antichi per far sì, che le biade si conservassero sane lunga­mente, bagnavano mille modii all1 incirca di biade con nn quadrantal di morchia (Veggati Q uadbahtal ).

N ummus. Per nummus debbesi intendere sester­tius nummus ( Vedi Sesteetius ).

P almabis, cioè della lunghezza di un palmus ( Vedi P almus ).

P almipedalis, cioè della lunghezza di un piede e di on palmo ( Veggaoti P bs e P aludi ).

P almus (V edi questa parola in C a tooè ).

P assus. Columella dice nel libro v, capitolo i che la misura degl1 intervalli di tal nome aveva cinque piedi di lunghezza ( Vedi Pxs); perciò colai parola è molto differente dal sostantivo passus, preso per lo spazio che trovasi tra due piedi, allora che si cammina, essendoché que­

sto spazio comune non è che di due p ied i e mezzo, quando ilpassus% del quale qui si t ra tta , è il doppio di questo spazio. Deriva d u n q ao dall1 aggettivo passus che Tuoi dire esteso , perchè suppone» essere questa la lunghezza prodotta dalle braccia e dalle mani distese.

P edalis ( Veggasi questa parola in Catone ).P es ( Vedi parimente questa parola in Catone ).P ondo ( Vedi questa parola in Catone ).Q uadeaus. Si prende pel quarto del sextarius,

cui applicavano le comoni divisiooi della lib­bra io u /icia, sextans, etc. (Vedi Libba e P ob­

do in Catone). Qoello costituiva parìmenle il valore di tre cyathi^ perchè il sextarius ne conteneva dodici ( Vedi Sbxtabius e C yathus

in Catone.Q uadeahtal ( Vedi quetta voce in Catooe ). Si

versava un quadrantal di morchia sopra mille moggia all’ incirca di biada, onde questa divenisse atta a conservarsi lungamente ( Vedi Modius ).

Saltus. Quetta parola, la quale ti usava quando traltavasi di terre eh1 erano state pubblicamen­te divise tra i cittadini, si prendeva pel valore di qoattro centuriae unite insieme con due altre di faccia ( Vedi Cebtubia ).

Sceipulum. Quest1 era nna vigesimaquarta parte dell1 oncia. O r perchè Pax, la libbra e il ingero ti dividevano tutti egualmente in dodici onoe ( vedi Libea e P ondo in Catooe ), tanto nell 'a /, quando pesava nna libbra, qnaoto net iugero si trovavano dugento ottantotto scripula; quindi il iugero conteneva ventottomila otto­cento piedi quadrati di superficie, e il tuo scripulum era uguale a dieci piedi tanto in lunghezza, quanto in larghezza.

Semipes (Vedi qneila parola in Catone).Semis, vale a dire sei once, o la metà dell’ ax

( Vedi As).Semodius ( Vedi questa parola in Catone).

Sesquimodius. Parola composta di sesqui e mo­dius. Staodo al significato della voce sesqui ( vedi Sesqilibea in Catone), bisogna dire che tal misura conteneva un modius e mezzo ( Vedi Modius). Era mestieri un sesquimodius di grano di erba medica per seminare un iu­gero di terra ( Vedi J dgeeum ).

Sesquipes ( Vedi questa parola in Catone ).S esteetius (Vedi questa parola in Catone). Al­

cuna volta i Romaoi sopprimevano la parola sestertius, e ne esprimevano soltanto la quan­tità : quando poi si servivano di un avverbio per esprimere un certo numero di sestertii, sottintendevano sempre il numero di cento* mila aggiunto a questo avterbio : così il qua­dragies del libro ni, capitolo xvii signifioa

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437 SPECCHIO DELLE MISURE» DEI PESI, EC. 438

quaranta folte cerchila sestertii, otvcto quattro milioni di sestertii.

Sextabi. Queat' è il tetto del iogero ( Tedi Juoi- i c a ) , coi ai tfdattaT* la diritione ricevuta della libbra io ancia, seaHant^ eie. (Vedi Libba e Povno in Catone ).

T e b c b ia b la b (vites). V iti che produceTano tre ­

cen to amphorae di T ino , o qu ind ic i cullei ( Vedi Culleui e Amfhoba ).

TmiMDAut. È lo «tetto del tripedaneus di Ca­tone, o tc ?edi queat1 ultima parola.

Vaatut. Era ona mitora di terre adottata dagli abitanti della Campaoia. Etaa oonteoeTa eento piedi tanto in longhezxa, qoanto in larghexsa, e per conseguenza era di diecimila piedi qua­drati ( Vedi Psa in Catone ).

UaciA. Qoetl’ è la dodiceaima parte del iogero ( ted i Jugebum )v al qoale ti adattaTa la rice-

y o ta diTitione della lib b ra in uneia9 sextans% eie, ( Vedi L uba e Povoo in Catone ).

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M. TERENTII VARRONIS

D E R E R U S T I C A

LIBER PRIMUS

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CAPUT I

G b a b o » t L ì t u i q u i d i b j m o s t i c a sc* i m » e u h t .

O tium ii e n tn consecuto*, Fondini*, oommo- dius tibi baco scriberem, quae none, ot potero, exponam, cogitans eite properandum, quod ( ot dicitor ) fi est homo bulla, eo magii senex : annoi enim octogeaimos admonet me, u | sarrioas colli­gam ante qaam proficiscar e vita. Quare, quo­niam emisti fundum, qoem bene colendo fructuo­sum conficere velis, meque ot id mihi habeam curare roges, experiar ; et non solum, ut ipse quoad vivam, quid fieri oporteat ot te moneam, sed etiam post mortem. Neque patiar Sibyllam noQ solum cecinisse, qoae, dnm viveret, prodes­sent hominibus, sed etiam qoae cum perisset ipsa, et id etiam ignotissimis quoque hominites; ad cujus libros tot anois post publice solemus redi­re, cum desideramos quid faciendam sit nobis ex •liquo portento : me, ne dnm vivo quidem, neces­sariis meis quod prosit facere. Quo circa scribam tibi tres libros indices, ad quos revertare, si qua m re qoaeres, quemadmodum quidqae te in co- leodo oporln l hcere.

M. T i u k n V i ia o i i

CAPITOLO I

A dtoxi G ebci * L atihi, c h* solissimo

DX AGIICOLTUIA.

I o t’ insegnerei,« Fandania (i), «ose migliori (a), se avessi tempo di scrivertele eoo còmodo (3) 9 le qnali al presente le esporrò in q'oella guisa che mi $a possibile, ben permaso ohe mi è me­stieri affrettarmi, essendoché ( come si dice ), se P oomo è una bolla, molto piò la è l'uomo vec­chio: di fatti V anno ottantesimo di mia eia (4) pur troppo mi avverte di piegare il fardello, avanti che esca di vita. Laonde poiché to hai comprato on fondo di terra, che vuoi rendere fruttifero per mezzo di una buooa coltura; e perchè mi preghi eh1 io voglia assumere la cor* di renderti istrutta so di ciò (5), ecco che io mi accingo : e non solo ti mostrerò quello che con­verrà che to faccia fino che io viva (6), ma ancora dopo la mia morte : nè laseerò di non imitar la Sibilla (7), la quale predisse oon solo quelle cose cbe sarebbero state utili ai suoi contemporanei, ma aocora quelle che fossero per esser tali ai sooi posteri, quantunque da lei non conosciuti. Ai quali libri antichissimi noi siamo soliti tuttora ricorrere in nome della repubblica, quando de­sideriamo di sapere quello cbe da noi è da farsi

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443 U. TERENTII VARRONIS 4 4 «

E t quoniam ( n i ajont ) dei facientes adju ­vant, prius invocabo eos: ftec, u t Homerus et Ennius, Musas, aed 111 deos consertis: neque tamen eos urbanos, quorum imagines ad forum auratHe stant, sex mares, et foeminae totidem, sed illos xii deos, qui maxime agricolarum du ­ces sant. P rim um , qui omnes fructus agricul­turae coelo et terra continent, Jovem et Tellu­rem : itaque quod ii parentes magni dicuntur, Joppiler, pater appellator, Tellus, terra mater. Secundo Solem et L unam , quorum tempora observantur, cum quaedam seruntur et condun­tur. Tertio Cererem et Liberum, qnod borum frnctus maxime necessarii ad victum : ab bis enim cibus et potio venit e fundo. Quarto Robigum ac Floram, quibus propitiis, neque rubigo frumenta atqne arbores corrumpit, neque non tempestive florent: itaque publicae Robigo feriae robigalia ; Florae ludi floralia instituti. Item adveneror Minervam et Venerem, quarum unius procuratio oliveti, alterius hortorum | q u o n mu ine rustica vinalia instituta. Nec non etiam precor Lympham, ac Bonum Eventum, quoniam sine aqua omnis arida afa misera aJjrìcoTlura, siué successu ac bono eventu, frustratio est, non coltura, lis igitur deis ad venerationem advocatis, ego referam sermone» ep#v qoos de egrioultora habaiaius nuper, ex quibus,quid te lacere oporteat, animadvertere po­teris* in queis quae non inerunt et quaeres, indi­cabo a qoibua scriptoribus reperiti e t grtecis, et nostris.

Qui graece scripserunt dispersim, alius de alia re, sunt pias quinquaginta. Hi sunt, quos tu habere iu consilio poteris, cum quid consulere voles, Hieron Siculus, et Attalus Philometor : de j philosophis, Democritus physicus, Xenophon I

dopo la comparsa di qu*Uhe prodigio. Io n o n soffrirò che si dica, che solamente fino a t a n t o che io souo vissuto sia stato utile ainniei fa m il ia ­

ri (8). Laonde ti scriverò 'tre libri, quai s o m m a - rii, ai quali potrai ricorrere ogniqualvolta c e r ­cherai di sapere quello ohe ti cenvenga àure n e l l a coltivazione.

E poiché, come si dice, gli dei aiutano q u e l l i cbe a loro s'indirizzano (9), perciò mi f a r ò dall1 invocarli : nè pregherò di aiuto le Mose (x o ) , come fece Omero (11) ed Ennio (ia), ma i d o ­dici dei consiglieri (13). Non è tuttavia m ia intenzione d’ invocar que' dodici dei, sei m a­schi e sei femmine (i4)« le cui immagini d o ra ta «i veggono nella pubblica piazza ; ma que' dod ici dei, che presiedono in ispezial guisa sopra gli agricoltori. Primieramente invocherò Giove ( i 5) e la Terra (16), nelle mani dei quali sta sì in cielo, che in terra ogni frutto dell'agricoltura (17), e perchè questi due si chiamano i gran padri (chia­mandosi Giove il padre, e la T erra la madre ) ( 18). In secondo luogo invocherò il Sole e la L una, i cui giri si osservano non solo allora cbe ai semi­nino alcune cose, ma ancora quando si raccolgo­no. In terzo luogo chiamerò in mio aiuto Cere* re (19) e Bacco (ao), perchè i frutti, che questi ca regalano, sono assolutamente necessarii alia vita ;o perchè in grazia di questi dei la terra produce il cibo e la bevanda. In quarto luogo drizzerò le mie preghiere alle dee Robigine (ai) e F lora (12), onde mercè il loro padroci io le biade e gli alberi sieno preservati dalla robigine, e i fiori non com­pariscano prima del tempo. Per la guai cosa furo­no instituite in onore di Kobigihe le pubbliche feste robigali (a3), e a onor di Flora •' io iti Coi­rono i giuochi florali (a4). Invocherò, altreaì Minerva (a5) e Venere (a6), una delle quali ha la sopranteadenza all’ oliveto, e 1’ altra agli orti, in onor delle quali furono instituite le feste rustiche vinóse (27). Nè mancherò dal non pregare aocora

la Linfa (28) e il Buon Successo (29), poiché sfeùza acqua ogni genere di c«1iura riesce arido e mi­serabile; e senza una felice riuscita e un buon successo, ogni coltivazione è opera perduta. Invo­cati adu nque questi dei con tu tta la venerazione, riferirò quei discorsi che poco fa abbiamo teouti sull1 agricoltura, dai quali potrai raccogliere quanto ti sarà mestieri di fare : e se avviene che in questi non ritrovi quello cbe tu cerchi, t*indi­cherò da quali autori greci e latini (3o) potrai trarre quei lumi che chiedi (3 i).

Sono oltre cinquanta quelli che hanno scritto in greco ; e chi di nna cosa, e chi dì un' altra. Questi sono quelli che tu all'uopo potrai consul­tare: Jerone di Sicilia (3a) e Aitalo Filometore (33) : tra i filosofi il fisico Democrito (34), il socratioo

Page 43: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

aoera tieni, Aristoteles et Teophrastos peripate­

tici, Archytas pythagoreas; itera Amphilochus Atheniensis, Anaxipolis Thasias, Apollodoro# Lemnius, Aristophanes Mfleotes, Antigonus Cy­maeos, Agatocles Chios, Apollonius Pergamenus, Aristandrus Atheniensis, Bacchius Milesios, Bion Soleus, Chaeresteus et Chaereas Athenienses, Diodorus Priennaeus, Dion Colophonius, Dio* phanes Nicensis, Epigenes R h o d ias , Evagon Tbasim , Euphranii duo, unus Atheniensis, alter Amphipolites , Hegesias M aronites, Menandri duo, unus Priennaeus, alter Heracleotes, Nice- aius Maronites, Pythion Rhodias. De reliquis, quorum quae fuerit patria non accepi, sunt An-

d ro tion , Aeschrion, Aristomencs, Athenagoras, Crates, Dadis, Dionysius, Euphiton, Euphorion, E u b o lu j , Lysimachus, Mnaseas, Menestratus, Pleuthiphanes, Persis, Theophilus. Ii, quos dixi, ouones soluta oratione scripserunt ; easdem res etiam quidam versibus, ut Hesiodus Ascraeus, Menecrates Ephesius. Hos nobilitate Mago Car­thaginiensis praeteriit poenica lingua, quod res dispersas comprehendit libris xxvm ,quos Cassius Dionysias Uticensis vertit libris x x , ac graeca lingua Sextilio praetori misit: in quae volumina de graecis libris eorum, quos dixi, adjecit non pauca>et de Magonis dempsit instar librorum vm. Hosce ipsos utiliter ad vi libros redegit Diopba- nes in Bithynia, et misit Dejotaro regi.

445

Quo brevius de ea re conor tribus libris expo­nere, uno de agricultura, altero de re pecuaria, tertio de villaticis pastionibus; hoc libro circumcisis rebus, quae noo arbitror pertinere ad agricoltu- ram . Itaque prius ostendam, quae secerni oporteat ab ea; tum de his rebus dicam, sequens naturales divisiones. Ea erun t ex radicibus trinis, et quae ipse in meis fundis colendo animadverti, et quae legi, et quae a peritis audii.

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CAPUT II

Q uA B DISJDIfOEHDA SDUT AB AGBfCULTUBA.

Sementivis feriis in aedem Telluris veneram rogatus ab aedi timo, u t dicere didicimus a patri­

bus nostris ; ut corrigimur a recentibus urbanis.

Senofonte (35), i peripatetici Aristotele (86) eT eo- frasto (37), il pitagorico Archila (38), come pure l'Ateniese Anfiloco (3g), Anasipoli di Taso, Apollo- doro di Stalimene, Aristofane di Mallo (4o), Anti­gono di Foia naova (4 0 , Agatocledi Scio, Apollo­nio di Pergamo, Aristandro di Atene, Bacchio di Mileto, Bione di i’»lesoli, Cheresleo e Cherea di A tene, Diodoro di Palazia, Dione di Altabosco, Dio* fané di Nicea (4a)t Epigene di Rodi (43), Evagone di Taso, i due Eufranii, uno Ateniese e l'altro di Antiboli, Egesia di Marogna (44), i due Menan­dri, uno di Palazia e l 'a l t ro di Eraclea, Njcesio di Marogna, Pizione di Rodi. Gli altri, dei quali non so la patria, sono Androzione (45), Eserione (46), Aristomene, Atenagora, Crate, Dadis, Dionisio, Eufitone, Euforione (47), Eubolo, Lisimaco (48), Mnasea ^ 9)i Meneatrato, P leu tifane, Persi, Teo­filo. Tutti questi, che ho nominati, hanno scritto in prosa. Altri hanno pure trattato le medesime cose, ma in verso, come Esiodo d 'A sc ra (5o) e Menecrate di Efeso. Magone Cartaginese (5i) ha superato tu tti gli anzidetti nella fama, per aver ridotto a ventotto libri, scritti in lingua punica, quanto erasi detto avanti di loi : i quali libri sono stati tradotti in greco e ridotti a venti libri da Cassio Dionisio d ' Utioa, e da questo poi spe­dili al pretore (52) Sestilio. In questi volumi vi si trovano aggiunte uon poche cose estratte dai libri greci di quelli che teste ho nominati, e dall' ope­ra di Magone levò via quanto agguaglia otto libri. Diofane di Bilinia ha ridotto utilmente (53) a sei questi stessi libri, e gli spedi al re Deiotaro (54).

Laonde per esser più breve sul medesimo argo­mento, mi sforzerò di esporlo in tre libri : il pri­mo de’ quali tratterà sopra l ' agricoltura, il se- coudo verserà sol bestiame, e il terzo si aggirerà sui pascoli villerecci. In questo primo libro omet­terò quanto io credo che non appartenga alPagri­coli ara (55). Pertanto mostrerò primieramente quanto è d ' uopo segregar dall* agricoltura, del quale poi ne parlerò altrove, seguendo le divisio­ni le più naturali. Tutto quello che io dirò, o sarà dedotto da quanto io medesimo ho osservato nel coltivar le mie terre, o sarà il risultato di quello che ho letto, o di quanto ho adito dagli

uomini periti.

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CAPITOLO n

Q u a l i cose sono da s b p a b a b s i d a l l ' a g b t c o l t u b a .

Nelle feste delle sementi (ì) entrai nel tempio della Terra, così pregato dal sagrestano, che i nostri padri ci hanno insegnato di chiamar col

446DE RE RUSTICA UB. I.

Page 44: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

ab aedituo. Offendi ibi G. Fundanium socerum menni, et C. Agrium equitem R. socraticum, et P . Agrasium publicanum, spectantes ia pariete pictam Italiam, Quid vos hic, inquam, nara fe­riae sementivae otiosos huc adduxerunt, ut pa­tres et avos solebant nostros ? Nos vero ( in­qu it Agrius), u t arbitror, eadem causa, quae te, rogatio aeditimi. Itaque si ita est, ut annuis, m o­rere oportet nobiscum, dum ille revertatur. Nam accersitus ad aedile, cujui procuratio hujus tem­pli est, nondum rediit, et nos, u t expectaremus se, reliquit qui rogaret. Vultis igitur interea vetus proverbium, quod est, Romanus sedendo vincit, usurpemus, dum ille venit? Sane, inquit Agrius; et simul cogitans, portam itineri dici lon* gissimam esse, ad subsellia sequentibus nobis proccdit.

447

Cmn consedissetnns, Agrtsius : Vos, qai mul­tas perambulasti terras, ecquam cultiorem Ita­lia vidistis? inquit. Ego vero, Agrios, nullam arbitror esse, quae tam tota sit culta. Primum cum orbis terrae divisus sil in duas partes ab Eratosthene, maxime secundum naturam ad me­ridiem versus, et ad septentriones : et sine dubio quoniam salnbrior pars septentrionali* est, quam meridiana ; et quae salubriora, illa fructuosiora : dicendum magis eam fuisse opportunam ad co­lendum quam Asiam, ibique Italiam ; primum quod est in Europa : secundo, quod haec tempe­ra tior pars est, qnam interior ; nam intus pene sempiternae hyeme*, neque mirum, quod sunt regiones inter circulum septentrionalem, et inler cardinem coeli, ubi sol etiam sex mensibus cou- tinuis non videtur : itaque in oceano in ea parte lie navigari quidem posse dicunt propter mare congelatum. Fundanius. Em ibi tu quicquam nasci putas posse, aut coli natura ? Verum enim est illud Pacuvii : Sol si perpeiuo sit, aut nox, flammeo vapore, aul frigore, lerrae fmclus om­nes interire. L"o hic, ubi nox et dies modice redit el abit, tamen aestivo die, si non diffinde­rem meo insitilio somno meridie, vivere uou possem : illic in semestri die, aut nocte, quemad­modum quicquam seri, aut alescere, aut meti possit? Contra quid in Italia utensile non modo uon nascitur, sed etiam non egregium fit ? quod far conteram Campano ? quod trilicum Appulo ? quod vinum Fal u.o? quod^oleum Venafro? Non

nome Jtdilim us (a), e che i moderni c ittad in i d dicono di nominar Aedituo. Ivi m ' imbattei in C. Fundanio mio suocero, nel socratico C. A g r io cava lier Romano (3) e in P. Agrasio p ubb lica ­

no (4)> * quali guardivano l 'I ta lia dipinta s u l la pareie (5). Che fate voi qui ? (6) dissi loro. F o r s e che vi chiamarono a goder di quest' ozio le fe s ta delle sementi, in quella guisa che solevano i n o ­stri padri e nostri avi ? Noi ( rispose Agrio ), co m eio penso, siam venuti qui per quella causa p e r cui tu vi sei, cioè perchè così pregati dal sagre ­stano. Dunque se così è, come fai cenno col capo , bisogna che tu resti con noi fino a che esso r i to r ­ni ; imperciocché essendo stato chiamilo dall' e - dile, che ha la soprantendeoza di questo tempio, non è ancora ritornato ; e lasciò chi ci pregasse, onde l'aspettassimo. Volete dunque,lo dissi loro, che, fino a tanto che ritorna, ci Appropriamo quell'antico proverbio, il qual è, che il Romano Vince sedendo ? (7) Ben volentieri, disse Agrio ; e in questo n e u tre facendo riflessione che le ce- remonie consumano piò tempo a passar per una porta di qoello che s'im piega nella strada, oude giungervi (8), s' avviò a dirittura verso i banchi, e noi il seguimmo.

Seduti che fummo, Agrasio disse ; Voi, che avete corsi molli paesi, ne vedeste per avven­tura uno, che fosse piò coltivalo dell 'Italia ? (9) Quanto a me, rispose Agrio, penso non esser- vene alcuno, il quale in tutte le sue parli sia si bene coltivato. Primieramente essendo stata di­visa la terra in due parti da Eratostene (10), una delle quali, conformemente all' ordine n a ­turale, è volta al mezzodì, e l 'a l tra a »etton­inone ; e poiché senz' alcun dubbio la parte set­tentrionale è più salubre della meridionale, e poiché i luoghi più salubri, sono anche i più fruttiferi ( n ) ; quindi è da dirsi che la parte settentrionale è quella eh' è più iu i 'ta to di esser coltivata, che l 'A sia ; e cbe l ' Italia, qual con­trada settentrionale, è quella che maggiormente gode quest1 avvantaggio : primieramente perchè è in Europa ; iu secondo luogo perchè è la parte piò temperata dell' iulerua ; imperciocché nel­l ' in terno dell1 Europa vi è quasi un continuo inverno. Nè ciò deve recar maraviglia per esser questi paesi tra il circolo settentrionale e il po­lo (ìa), ove il sole uon si vede per lo spazio di sei mesi conlioui ; e perciò dicono cbe non si può uavigare nemmeno sull' oceano verso quelle regioni per essere il mare agghiaccialo. Funda ­nio. Pensi tu cbe in questo paese possa nascer alcuna pianta, o che naia si possa coltivare ? ( i 3) essendoché è vei\> quel che disse Pacuvio (i^), cioè, che ove il sole, o la nolte è conlinua, ivi muoiono tuti ' i frulli dell# terra, sia pel troppo

4*«M. TERENTII VARRONIS

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arboribus oonsiu Italia est, o t tota pomtrieni v ideatur? An Phrygia m tgis ritibus cooperit; quam Homerus appellat dfunXotaretvi quatti haec? to l Argos, quod ideai poèta *o9U/Vityar? Ia q u a terra jugerum unum denos, et qnraoi denos culleos fert rio i, q «K quaedam m Italia regfones ? ▲ n non M. Cato soribit in libre Originum sie t ager Gallioos Romanas voettar* qai virttitn cis A rim inum dttu»eet ultra agrum Pieentium? in eo ag ro aliquotfariam in singula jo gè radena culleà

v in i fiant? Nonne item In agro Fareutino, t quo ib i trecenariae appellantur rites, qnod jugerum treceoas amphoras reddat ? Simul aspieit me : C erte , inquit, L. Martin» praefectus fcbrom tuus in fando tuo Favea lite hanc maltitodinera diee- b a t t u t t reddere viles. Duo in primis spectasse v id en tu r IUlici homipee ooleodo, poasentne fru­c tus pro impeott te labore redire, et a trum sa­luber locos esset an non ? quornm si alterutrum decollat, et nihilominus quis vult colere, mente est captus, atque ad agnatos et gentiles est dedu­cendus. Nemo eaim sanus debet felle impensa na tc sumptum faoere in culturam, si ridet non posse refici: nec,si potest reficere fructu», si f i ­det eos fore, u t pestilentia dispereant. Sed, opi­n o r , qui haec commodius ostendere possint, ad> annt. Nam C. Licinium Stolonem, et Cn. Tremet- l iu m Scrofam video ventre, unum cuja» majores d e modo agri legem tulerunt. Nam Stolonis illa lex , quae veteat pia» n jagert habere citem R. e t qoi propter diligentiam culturte Stolonum eonfirm tril cognomen, qnod nnllus in ejus fundo reperiri poterat stolo, quod effodiebat 01 ream arbores, e radicibus, quae ntscerentur e solo, quos stolones appellabant. Ejusdem gentis C. Li­cinius, tribunus pleb. cum esset, post reges exa- ctos tnnis c c c l x v , primus populum td leges tc - cipiuodas io septem jugera forensia, e comitio eduxit. Alterum collegam tnora, xx f ir qui fuit ad agrosdifidundos Campanos, rideo bue renire, Cn. Treraellium Serofrra, Tirana omnibus r ir tu - tibus polituro, qui de agricoltura Romanus pe- ritissimus existimatur. An non jure, inqoam ? Fundi enim ejus propter culturam jucutidiore tpectaculo sunt multis, quam regie polita aedifi­cia aliorum, cura hujns spectatura veniant filias, non u t apud Lucullum, u t r id e tn t, pioacothecas, ted oporothecas. Hujusce, inquam, pomaria sum­ma Sacra Vie, ubi pom t veneunt, con trt tuream

imtginem.

caldo, sit pel troppo freddo ( i5). Se io sttndo- mene in questo ptese, ore il giorno e It notte tono mediocremente lunghi, e si succedono t l te r - nativamente, non potrei virere (16), quando bene in tempo di estate non diridessi il giorno a mez­zodì, intram ettendofi il sonno (17); come m ti in que1 paesi, ne*quali il giorno dura sei mesi (18), si potrebbe semioar alcuna biada, farla crescere e mieterla? E per contrario qual pianta fruttife­ra in ltalit non solo vi nasce e non vi d iren tt tn co r t eccellente ? Qual farro paragonerò a quel­lo della Campania? qual fermento al Pugliese? qual vioo a que) di Falerno ? e qual olio para­gonerò a quello di Yenafro ? (19) Non è l ' Italia piantata d 'a lberi in guisa, che tutta sembra un giardino? Forse la Frigia, cbe Omero chiamt rinoia (ao), è pià coperte di fili dell’ Italia? o r- vero Argo, che dal medesimo poeta è chiamato fertile in biade, It supert (a i)? In qual parte di mondo un iogero di terre produce dieci ed an­che quindici cullei di fino, come fanno alcnni paesi d 'I ta lia? Forte che Marco Catone nel libro delle Origini non iscrive nel seguente modo : Si chiam t terre Gallo-Romana quella che trorasi tra Rimini e il Piceno (aa), e eh1 è sta lt ripartita sopra ogni testa di soldato (a3): o rt in questa estensione di terreno è ecceduto alcuna volta che ogni iugero abbia prodotto dieci cullei di vino(a4)? Non è egli vero altresì che nel terreno Faentino ogni iugero rende trecento anfore di vino, e che per questo ivi le fili si chiamano trecento (a5)? E ciò diceudo rivolte gli occhi a me, e soggiunse : Egli è certo che il tuo amico Libo Marzio (a6) soprantendente agli artefici, M ie ri va che le sue vigne piantate nel suo terreno Faentino gli ren­devano trecento anfore per ogni iugero; Sembra che gl’ Italiani non si sieno dati alla cottura di un terreno* se non fi concorrevano prima questi due oggetti ; cioè, guardavano se i fratti com­pensavano le spese e le fatiche, e se il luogo era sano, o no. Se uno, di questi oggetti manca (37), e se non ostante alcuno vuole coltivar quella terra, qual mentecatto deve mettersi sotto la tu­tela degli agnati (28) ; imperocché non vi è alcuno di sana mente, il quale debb* e foglia far neppur la minima spesa nella coltivazione di quello terra, se non quando fede che può esserne compensato : e ancorché la raccollt dei frulli fojse tale da* ri­sarcirlo (29), non dere incontrare alcuna jpesà, se vede che i frutti corrono il pericolo di morire pel luogo pestilenziale. Ma ecco che qui si pre­sentano soggetti, i quali, per quel che io ne pen­so, saranno più al caso di provar queste cose ; imperciocché io reggo reoire C. Licinio Stolone e Co. Tremellio Scrofa, l 'u n o dei quali conta tra i suoi t r i l1 tu to re di un t delle leggi, cbe h t

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Illi interea ad noi. E t Stolo : Nora coena corneti! inquit, venimus? nam non L. videmus Fu n d iliu m , qui nos advocavit. Booo animo ette, inquit Agrius. Nam non modo oram il- lad ta bla t ora est, quod ludit circentibus no rit ­

ti mi curricoli finem facit quadrigis, ted ne illud quidem ovum vidimus, quod in oeriali pompa aolet ette primum. Itaque dum id nobiscum nna videat it, ac venit aedi limus, docete not, agricul­tura quam tu o m am habeat,utilitatemne, an vo­luptatem, an utrumqne ; ad te enim rudem este agriculturae nunc, oli m ad Stolonem fuitte dicunt. Scrofa: P riu t,inquit, diteemendum, a tram qnae aeran tur in agro,ea tola t in t in cultura, an etiam qnae inducantur in ru ra , n t oves, et armen­ta. Video enim qui de agricultura teripserunt, et poenice, et graece, et latine, latina vagatos, quam oportuerit. Ego Tero, inquit Stolo, eo t non in omni re imitando! arbitror, e t eo melius fe­d i te quosdam, qui minore pomerio finierunt, exclusis partibus, qnae non pertinent ad hanc rem. Quare tota pallio, quae conjungitur a ple-

r itque cum agricoltura, magis ad paitorem,qoam

regolato la misura delle terre : di fatti qacU a legga è di Stolone (3o), la quale proibisce c h e ogni cittadino Romano possegga più di c in q u e ­cento ingerì di terra (3i), ed egli ha latto c h e per la ina diligenza nella coltivazione, acquistas­sero i suoi discendenti il soprannome di S to lo ­n i (3a), perchè nel sue terreno non si p o te r à giammai trovare aloono stolone, essendoché egli estirpava attorno gli alberi la tte lé radici che foster nate in terra a piè dei medesimi, e le quali si chiamavano stoloni. C< Licinio, ano de1 mag­giori del nostro Stolone (33), essendo tr ib u o e della plebe (34)i trecento sestantacinqoe anni dopa l'espulsione dei re (35), fa il primo che eaaanè il plebiscito, in vigor del qual*il popolo ricevette la legge di non posseder piò di sette ingeri per testa (36). Vedo avviarti a questa parte il tao col­lega Tremellio Scrofa, il qual fu ano de’ venti viri destinati alla distribuzione delle terre della Cam­pania (37), nomo adorno di tutte le virtù, e quegli che t ra i Romani si giudica il pià perito nclPa» gricoltnra (38). Forse che qaesta riputazione, rispondo io, non la gode per giutlo titolo? po*> sciachè le sue terre sì bene coltivale offrono a molli ano spettacolo più grato di quello che loro presenterebbero gli edifiiii ornali regalmen­te degli altri : e tanto più, poiché eglino si por­tano a veder le sue ville per ammirare in este non già, come in quelle di Lucallo (39), le gal­lerie, ma beati i granai. Aggiungo inoltre che i pometi di questo sono situali in fondo alla Via Sacra (4 o), ove le frotta si vendono a peso d ' o- ro (4 i).

In questo frattempo ti avvicinano a noi; e Stolone ci dice: Arriviamo noi forse a sena terminata ? imperocché qui non veggiamo L. Fnndilio (4a), che c’ invitò. Siate tranquilli, disse Agrio, posciachè non tolo ti è levato quell* no­vo (43), che ne ' giuochi circensi indica il fine della corta delle quadrighe, ma non abbiamo veduto ancora quell* uovo, che snoie esser il p r i ­

mo nei banchetti delle feste cereali (44)* Sicché frattanto che stiamo attendendo la comparsa del- T novo (45) e fino a che sis di ritorno il sagre- stano, intlruileci intorno l’ agricoltura, e diteci se sia'più pregevole per la sua utilità, e pel d ir letto che ci porge, ovvero per l1 aoa e per V a l ­tra ; perchè ti dice che tu ora delti le leggi del- lf agricoltura, come una volta le dettava Stolo­ne (46). Primieramente, dice Scrofd, bisogna di­stinguere, te solo quelle cote che t* introducono nel teno della terra, appartengano all1 agricoltu­ra, ovvero te questo nome abbracci ancor quelle che si conducono dentro la villa, come le pecore e gli a rm enti; perchè ostervo che quelli, i quali hanno tcritto di agricoltura, tanto in lingua pò-

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ad agrieolam perlinere ridetor. Qoocirea princi­pe s, q o ia tr iq u ere i praeponuntor, Tocabolisqao* qoe tuo i diverti, qnod unas vocator vilicus, al- ter magister pecoris. Vilicus agri colendi eaosa constitutus, atque appellata* a villa qnod ab eoio eam convehuntur fractas, e t evehantur, cam veneunt : a quo n a tic i etiam nono quoque Tram, veam appellant, propter vecturas, et vellam non villam, qao vehant, et onde v eh an t Item dican­to r , qui vectaris vi vaut, rellaturam facere. Certe, in q a it Fundania», aliud [pastio, et aliud agricul­tu ra , sed affinis : at ut desterà tibia alia quam sinistra, ita u t tamen sit quodam modo conjun­cta, quod est altera ejusdem e trm ib li modorum iaoaotiva* altera s u o M ti f i . E t quidem lioet adji­cias, inqoam , pastorum vitam «Me incentivam, agricolarum succentivam, auctore dottissimo ho­m ine Dicasa sobo, qai Graeciae Titi qualis fuerit

ab initio nobis ostendit, a t superioribus tempori­bus fuisse doceat, cum homines pastoriciam rrtanf agerent, neqoc ic ireat etiam * arare terram, aut serere arbore», aut putare ; ab bis inferiore grada aetatis' susceptam agriculturam. Quocirca et suc­cinit pastorali, qood est inferior, u t tibia sinistra a dextrae foraminibus. Agrius : Tu, inqait, tib i­cen non solam adtmis domino pecus, sed etiam servis peculium, quibus domini dant, n t pa­scant, atque etiam leges oolonIcas toRIs, In qui- bu* scribimus: C d o n n r tn agro snrcnliirio ne ca- p ra natnm pattai : qaas ethim astrologia h1 coe­lum recepit, non longe ab Tauro. Cui Fundanius: Vide, inquit, ne Agri, istftc *Tt ab hoc, conr h* legibus etiamscribataTpecttsqnoddaid. Quaedam evrim pecu des culturae sunt inimica, ac'Veneno, irt istae, qoas dixisti, caprae: eaeetiinr omnia novel­la sata carpendo corrum pant, non minimum viles alqae oleas. Itaque propterea institntnm diversa de causa, v t «x caprina gènere ad alii dei aram bostia adduoeretur, ad alii non sacrifteare-

io r, cum ab eodem odio alter videre nollet, a lter etiam ridere* pereuntem velleL Sic factum, u t Libero patri repertori viti» hirci immolarentur, proinde u t capite daren t poewas ; con Ira, ut Mi­nervae caprini generis nihil immolarent, propter oleam, quod eam, quam laeserit, fieri dveunt ste­rilem : ejuf enim salivam esse fractuis venenum. ( Licinius,) hoc nomine etiam Athenis in arcem non inigi, praeterquam seme! ad necessariam sacrificium, ne arbor olea, qaae primam dicitar ibi nata, a capra tangi possit: Nec aliae, inquam, pecudes agricoltnrae sunt proprie, nisi quae agrum opere, quo cultior sit, adjuvare, u t eae, quae janctae arare possunt. Agrasius : Si ìstne ila est, inquit, quomodo pecus removeri potest ab agro, cum stercus, quod plorimum prodest, gre­ges pecorum ministrent ? Sic, inquit Agrias, ve-

nica, quanto udì* Idioma greco e latino, P hanno estesa piò di qoello eV era mestieri. Io poi, dico Stolone, sono di parer* cbe quegli autori non si debbano imitar in tutto, e che meglio hanno

operato certuni, circonscrìvendosi e limitandosi • certi dati oggetti, escludendo da questa mate­ria quelli che non r i appartengono. Laonde tutto M che spetta ai pascoli, e che da parecchi si as­sociano all' agricoltura, sembra piottosto appar­tenere al pastore che all1 agricoltore. Quindi quelli che si fanno soprastanti a questi due og­getti, hanno del pari diverso nome, perchè uno si chiama castaido, e 1’ altro maestro del bestia­me, o pastore. 11 castalda è quello eh1 è destinato a coltivare il terreno, e trae la sua denominatione dalla villa (47), perchè da lui si oonducono den­tro la medesima i frutti (48), e dal medesimo sa trasportano fuori, quando si vendono. Per lo che i contadini anche oggidì chiamano vea la strada, e d ò in grazia delle re ttu re ; e dicono altresì velia non pilla il luogo, in cui conducono i frutti, e da cui gli estraggono (49) ) e per la stessa ra­gione quelli che vivono vettureggiando, si dice che fanno la vellatura. Egli è il vero, dice F u n ­danio, che altro è il pascolo, e altro l’ agricoltura, quantunque 1* uno coll* altra abbia dell1 affinità; a un dipresso come il destro flauto differisce dal sinistro (5o), ma in modo però che ambidue sono in certa guisa coagiunti, cosicché V uno nel me­desimo pezzo di musica fa il primo, e I1 altro il secondo. E tu poi aggiungere aUresì, gli dissi, che la vita dei pastori corrisponde al primo flau­to, e quella degli agricoltori al secondo, giusta la testimonianza del dottissimo Dicearco (5 i), il qoale dimostrandoci qua) genere di vita siasi condotto nei primi tempi della Grecia, c’ insegna che a que1 tempi gli uomini menavano una vita da p u to r i, c cbe non sapevano arar la terra, nè tampoco piantar gli alberi, nè potarli, e cbe sol­tanto ne* tempi inferiori a qoelli si è data mano all1 agricoltura. Laonde poiché V agricoltura è posteriore alla vita pastorale, così quella è subor­dinata a questa, come il flsuto sinistro è subor­dinato al destro (5a). Col metter tu in campo, dice Agrio, il sonatore di flauto, non solo togli al proprietario di aver del bestiame, ma aocora ne privi i servi, ai quali lo accordano non pure i padroni, onde lo facciano pascolare, per quindi ritrarne del peculio, come altresì le leggi relativo ai castaidi (le quali ta in cotal modo logli ), nella qnali trovasi scritto : « I l castaido non condurrà allora a pascolar le capre nel terreno piaatsto di germogli (53), le quali anche 1* astrologia le ha collocate nel cielo non lungi dal Toro (54). w Guarda bene, o Agrio, gli rispose Fnndanio, th è dal tuo discorso non s’ inferisca, così trovandosi

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paUora greges dicemus agriculturam ette, ti pro» p ier isUm rem habendam statuerimus. Sed error, hinc, quod pecui in agro esse potest, et fructns non in agro f^rre : quod non seqaendam. Nam sic etiam res aliae diversae ab agro erun t osso- m endae: ut si habeas piares in fando .textores, Qtqae insti latos histonas, sic alios artifices. Scro­

fa : Dij ungamus i git or, inquit, pastionem a coltura, e t si qnis quid volt aliad.

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Anne ego, iaqaam, sequar Sasernarum patris et filii libros ? ac magis putem perlinere, figlinas quemadmodum exerceri oporteat, qaam argenti fodioas, aut alia et alia metalla, quae sine dubio in aljqno agro fiunt? Sed a t oeqae lapicidinae, oeqoe arenariae ad agriculturam perlinent, sic figlinae :

scritto nelle leggi* che ogni pascolo è p ro ib ita ( 5 5 ). Egli k il vero eh* alcane specie di bestiame s o n oil flagello e il veleno della collora, come lo c a p r e

che hai nominata ; posdacfcè queste col loro d e n ­te distruggono i novelli germogli, come lo v i g a o e gli olivi. E da qui è veneto l'oso di im m o lo r gli animali della specie delle capre a quel tei d i o , e per oontrario di non immolarle a on tal a l t r o ;0 ciò per ragioni beo diverse, ma tratto l a t t e egualmente dal medesimo principio d ' avvers ione contro essi, in grazia di coi quel tal dio non v u o le oemmeoo averli sotto i suoi occhi, e che tal a l t r o ama di vedérli morire (56). Quindi n* è v e n a to altresì che al dio Bacco, il padre o l ' in v en to re della vigna, s’ immolano i capri, come qse lli o h e debbono perciò pagar la pena eolia lotta, e c h e per oontrario non ai sagrificano a Mioerva otti­mali di questa specie, per la ragione che q o an ào le capre hanno addentato l ' ulivo* lo ren d o n o sterile, per qoello almeno, che se ne diee (5 ?), poiché la loro saliva è on veleno per qoosti fro tta ( Licinio (59) )• Per, Ul cagione pare anche in Atene non s'in troduce la capra nel tempio (5^ se non se nna sola volta, qoando si è in necessità di sacrificarla, aeciocchè dalla capra non ai poam toccar l ' ulivo che dicesi aver avolo origine in questa città. Secondo la mia opinione non vi so­d o altre bestie più proprie per l ' agricoltore (6o) che qaelle le quali possono aiutare col loro lavoro onde il terreno riesca più coltivato (61), come altresì quelle che aggiogate possono arar la terra. Se la faccenda è cesi, dice Agrasio, come mai sfc deve tener (ontano dal campo il bestiame, quandoil concime, che giova mollissimo alle terre , et viene somministrato da quello? Per 1' istessa re­gione adunque, dice Agrio, diremo che anche ooa troppa di schiavi (6a) costituisce ooa parto

dell' agricoltura, se giudicheremo a proposito di trarne la medesima utilità. Ma il tuo errore naaeo da qui, che nella ■ tenuta vi peò esser bestiame, qoantonqoe non serva alla coltivauone, e non ostaule essere olile alla tenota io generale (63) ;il che non è da segoirsi ; perciocché per ano peri ragione si potranno introdorre molte altre cose assolutamente straniere al terreno, come p e r esempio, se nella tenota stabilirai oo gran no­merò di tessitori, operai di drappi, e varii a ltri artefici. Separiamo dunque, dice Scrofa, il pa­scolo del bestiame dall' agricoltura e tutto quello che altri vorrà che vi sia nel suo podere.

E vi sono altre cose ancora ? (64) Forse, io dico, dovrò seguire i libri deiSacerna padre c figlio(65)f

E penserò forse, ugualmente che essi, esservi maggior relazione tra l 'agricoltura e l 'a r te delio stovigliaio, che tra quella e le miniere d ’ argen­to (66), o Ira altra e altra miniera, come pure tra

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neque ideo non in quo a fro idoneo* possa ut esse, ( non ) exercendae atque ex eb capiundt fractos ; a t etiam si ager secundam viam, ot opportunos v iatoribos locai, aedificandae tabernae diverto- riae, quae tamen quamvis siol fructuosae» nihilo magis sunt agriculturae partes. Non enim si quis p ro p te r agrum, aut etiam in agro profectus do­m ino agricallurae aoceptom referre debet, aed id m odo, quod ex satiooe terra sit nalum ad fruen- dum . Suscipit Stolo : Tu, inquit, invides tanto scrip tori, et obstrigillandi causa figlinas repre ­hendis , cum praeclara quaedam, ne laudes, prae­term ittas, quae ad agriculturam vehementer per* t in ean t. Cum sobrisisset Scrofa, qood non igno­r a b a t libros, et despiciebat, et Agrasius se scire m o d o putaret, ac Stolonem rogasse!, ot diceret, coep it : Scribit cimices quemadmodum interfici oporteat bis verbis. Cucumerem anguinum con­dito io aqoam, eamqoe iofundito quo voles, nulli accedeot : te i fel bubulum cum aceto mixtum, unguito lectum. Fundanius aspicitad Scrofam: Et tamen vernm dicit, inquit, hic, u t hoe scripserit in agricultura. Ille : Tam hercle quam hoc, si quem glabrum facere velis, quod jubet ranam luridam conjicere in aquam, usque quo ad ter­tiam partem decoxeris, eoque unguere corpus. E go quod magis, ioquam, pertineat ad Fundanii valetudinem, et in eo libro est, talius dicam : nam hujusce pedes solent dolere, et in fronte contrahere rugas. Dic sodes, inquit Fundanius »

nam malo de ineis pedibus audire, quam quemad* modum pedes betaceos seri oporteat. Stolo subri­dens ; Dicam, inquit, eisdem, quibus ille verbis scripsit, velTarquennam audivi. Cum homini pe­des dolere coepi>scnt, qui tui meminisset, ei me­deri posse. Ego lui memini, medere meis pedibus : u terra pestem teoeto, salus hic maueto (in meis pedibus), n Hoc ter novies cantare jubet, terram Ungere, despuere, jejunum cantare. Multa, in ­

quam, item alia miracula apud Sasernas invenies, quae omnia sunt diversa ab agricultura, et ideo repudianda. Quasi vero, inquam, noo apud cae- teros quoque scriplores talia reperiantur. An non in magni illius Catonis libro, qui de agri­cultura est editus, scripta sunt permulta similia? ut haec, quemadmodum placentam facere opor­teat, quo pacto libum, qua ratione pernas sallire. Illud non dicis, inquit Agrius, quod scribit : Si ▼elis in convivio multum bibere, coenareque li­beat er, ante esse oportet brassicam crudam ex aceto, e t post aliqua folia v.

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M. T&BK5U0 VsaaoNe

qualsivoglia altra cosa, le quali tutte si esegui­scono io qualche fondo (67) ? No ; e comechè nè le cave di pietre, nè quelle di arena non appar­tengono all’ agricoltura, così nemmeno l 'a r to dello stovigliaio : nè io son quello che voglia bandir dal podere l ' esercirlo di quelle arti, ove ciò si possa fare comodamente, e che non voglia che dalle medesime si ritragga dell' utile (68) ; come nemmeno io voglio che essendo la tenuta s i t i l a presso la strada e in luogo opportuno pei

viaggiatori, ivi non si fabbrichino osterie, le quali però quantunque dieno dell' utile, non per questo si può dire che sieoo parti dell' agricol­

tura. Imperciocché non deve dirsi che quel pro­fitto, che ne ritrae il proprietario a motivo della sua tenuta, o ancora nella stessa tenota, appar­tenga all'agricoltura (69), ma quello solamente potrà godere il proprietario come appartenente a ll'agricoltura, che la terra avrà prodollo, dopo essere siala semioata (70). Stolone prendendo la parola (71), Tu, dice, porti invidia a un tanto scrittore, e per uno spirito di critica il riprendi sull'argomento delle stoviglie, e per non aver mo­tivo di lodarlo, passi sotto sileozio parecchie eccel­lenti cose che appartengono strettamente all* a- gricoltura. Scrofa avendo sorriso, perchè non ignorava qoantb contenevano q u e 'libri, ma H dispregiava (72) ; e Agrasio, che pensava di es­serne ugualmente instruito, avendo pregato Sto- loue, acciocché parlasse, così cominciò a dire : L ' autore dà la maniera di am m anare i cimici nel seguente modo : Riponi del cocomero selvag­gio nell' acqua, e spargendola ove tu vorrai, ivi noo si accosteranno più i cimici : ovvero col fiele bovino (7S) misto all' aceto frega il letto. Funda­nio guarda Scrofa, e gli disse : Egli è il vero quanto asserisce di quest' autore, cioè che questo metodo si trovi nella sua agricoltura (74) ? Sì in verità, risponde Scrofa, com 'è vero altresì che, se tu vorrai render liscio e depelare ateuno, egli prescrive d 'im m erger nell'acqua una rana ver­de, farvela cuocere sioo a che svaporino due terze parti, e con quanto rimane ungerli il cor­po. Quanto a me, così soggiunsi, dirò più volen­tieri quel che riguarda la maggior salute di F u n ­danio, e che trovasi in questo libro; perciocché i suoi piedi sogliono a motivo del dolore produr­gli delle rughe sul volto (75). Dillo tosto, se niente v' è che l ' impedisca, dice Fundanio ; per­chè amo più volentieri senlir ragionare de' miei piedi, che apprendere come vadano piantali i piedi di bietola. Stolone sogghigoando: Lo dirò, disse, colle medesime parole scritte dall' autore,

e che udii pronunziarsi anche da Tarquenna (;G). Clii si ricorda di te, vale a medicar i piedi do­lenti dell'uom o; poiché adunque io mi ricordo

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CAPUT m

13t i A l l SIT AOltCOLTDAA.

Ig ita r , inquit Agrafias, quae dijaugendi es- fent a callara cajusmodi sint, quoniam discre- tam , de iis rebas dicendam, qoae scientia sit, e t quid in colendo nos docet, ars an sit, an qaid aliod et a quibus carceribas decnrrat ad metas. Stolo cum aspexisset Scrofam: T a, inquit, et ae- tate, e t honore, et scientia quod praestas, dicere debes. Ille non gravatus : Prim um, inquit, non modo est ars, sed etiam necessaria ac magna: ea- qae est scientia, qaae dooel, quae sint in quoquo agro serunda ac faciunda, quaeque terra maximos perpetuo reddat fractus.

CAPUT IV

Q u a s a o e i c u l t u b a b s i h t p b iu c tp i a b t rins.

E jas principia sunt eadem, quae mnndi esse Ennius scribit, aqua, terra, anima et sol. Haeo enim cognoscenda prius, quam jacias semina, qaod initium frucluam oritur. Hinc profecti agri- aolae ad duas metas dirigere debent, ad utilità*

di te, raglio altresì t medicare i piedi (77). a T e r r a tienli il malanno, la sanità qui rimanga (78). w Egli comanda ohe ventisette volte si dicano q u e ­ste parole, che si tocchi la terra, che si spuli, a che quell* incanto si faccia a stomaco digiuno (79). Parimente, dico (80), molti altri secreti r i tro v era i nei Saserne, quali tu tti non* hanno alcuna r e la ­tione coll*agricoltura, e perciò da r igettars i. Quasi che, io dico, simili cose (81) non si d o r a s ­sero ancora negli altri scrittori. Forse cbe io q u e l libro, che il gran Catone pubblicò inlorno l’ag ri ­coltura, non si trovano scritte mollissime cose d i tal natura, come le seguenti : in qual m aniera convenga far la placenta (8a), in qual guisa il li ­bo, come siasi da salare il prosciutto. T u tralasci di accennare, dice Agrio, quanto prescriva io

altro luogo : Se tu vorrai in un banchetto b e re r molto e mangiar con appetito, bisogna m angiar prima del cavolo crudo coll* aceto, e dopo il pranxo mangiarne all' incirca cinque foglie.

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CAPITOLO in

Il QUAL MAOTBIA L* AQ&ICOLTUTA UÀ AETB.

Poiché adunque, dice Agrasio, si sono disgre­gate quelle cose che debbonri distinguere dalla coltura, e poiché si sono individuate ; chi c* in­f lu isce di quelle eose che sono necessarie a sa­persi nella coltivazione (1)? E desia un* arte , o tutt' altro che arte, e da quali principii prende le mosse, onde giugnere al suo scopo ? Stolone avendo rivolto gli occhi a Scrofa : Tu, dice, devi dircele, come quello che e per I* età, e per il po­sto che occupi, e per sapere sei superiore a tut­ti (a). Egli niente offeso di ciò : Primieramente, dice, V agricoltura non solo è un 'a rte , ma ancora u n 'a rte necessariae molto estesa : e dessa è le scienza di quelle cose che noi dobbiamo semina­re, e di quello eh' è da farsi in qualunque ter­

reno, e che dimostra da qual terra noi possiamo trarre piò copiosi frutti (3).

CAPITOLO IV

Q u a li sono 1 r a m a r r i b 1 f i s i d b l l ' a g r i c o l tu b a .

I principii dell'agricoltura sono quegli stessi che Eonio (1) scrive esser del mondo, cioè l ' a ­cqua, la terra, l 'a r ia e il fuoco: laonde questi ai debbono prima conoscere, avauti che si spargane le semenze, per esser queste i principii dei fru lli

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4 6 i DE HE RC3T1CA LIB. I.

t e a el to lapU tem . Utilitas quaerit froctum, vo- lapta» delectationem. Priore» parte» agit qnod u tile est, qaam qood delectat. Neo non ea quae fa ciao t (cultori) honestiorem agrom, pleraque n o n solum fructuosiorem euodem faciunt, u t cum io ordinem sont consita arbusta atqne oli­veta, sed ellam vendibiliorem, atqoe adjiciunt ad fondi preliam : nemo enim eadem olili tate n on formosius qood est, emere mavalt pluris, quam si est fructuosos turpis. Utilissimus aotem i» ager qui salubrior est, quam alii, qood ibi fructus certus : contra quod in pestilenti, calami­tas, quamvis io feraci agro, colonam ad fructus pervenire non patitor. Etenim ubi ratio cam orco h ab eto r, ibi non modo fractus est incertos, sed e tiam colentium vita. Quare abi salubritas non est, coltura non aliad est, a tqae «lea domici vi­tae, ao rei familiaris.

Nec haeo non diminnitnr adentia : ita enim salubritas, qaae ducitur e coelo ac terra, non est in nostra potestate, sed in natorae; o t ta­m en m ultam sit in nobis, qaod graviora quae snnt, ea diligentia leviora facere posiamo». E t ­enim si propter terram, aat aquam, odoremve, quem aliquo loco eructat, pestilentior est fun­

dos, aa t propter coeli regionem ager calidior ait, aut vento» non bonus flet; haec vitia emen­dari solent domini scientia ac sum ptu: quod permagoi interest, obi sint positae villae, quan­tae sint, quo spectent, porticibus, ostiis ac fe­nestris. An non ille Hippocrates medicus in ma­gna pestilentia, non unum agrum, sed multa op­pida scientia servavit? Sed quid ego illum voco ad testimooiom? Non hic Varro noster, cam Corcyrae esset exercito» ae classis, et omnes do­mos repletae essent aegrotis ac faneribos, im­misso fenestris novi» aquilone, et obstructis pe­stilentibus, janoaque permotata, caeteraqoe ejus generis diligentia, soos oomites ac familiam in­

coiarne» redaxil ?

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da raccogliersi (a). Quindi gli agricoltori parten­dosi dalla cognizione di questi principii, debbono diriger in progresso i lorostndii verso due scopi, all 'u tilità e al diletto: V utilità va in cerca dei frutti, e il diletto del piacere. Quello eh' è utile, deve primeggiare sopra il diletto, come altresì debbono anteporsi qnell» cose che rendono più bello il terreno (3), parecchie delle quali non solo reodono più frolli fero il terreno, come aocade quando gli olivi e gli altri alberi sono pian­tati con ord ine; ma ancora fanno sì che sia più facile a venderti, e che dalla teouta st ritrag ­ga on maggior prezzo. Imperciocché non v' è alcooo, il quale, Ira doe poderi che sono n g aa l-

mente utili, non am i di comperare a più caro prezzo quello e h 'è di bell' aspetto, che quello il quale ha una catti va apparenza (4). La tenuta poi la più olile è quella eh' è la più sana, perchè ivi il prodotlo è certo : per oontrario il fondo peslileo- ziale, quantunque sia fertile, è pieno di calamità, e non lascia che il coltivatore giunga alla raccolta dei frulli. Imperciocché dove è mestieri lottar colla morte, ivi non solo incerti sono i frutti, ma è mal sicura altresì la vita dei coltivatori : laonde ove non v 'è sanità, la coltivazione non viene ad esser altro che un rischio della vita del proprie-, tario e della sua roba.

Nè a riparare a quesl' inoonveniente vale la scienza (5) : cosi pure la salubrità locale, che proviene dall' aria e dalla terra non è in no­stro potere, ma dipende unicamente dalla na­tura (6). Non è per altro che quegl' inconve­nienti, i quali sono i più gravi, non si possano, mercè la nostra industria, render più soppor* tabili : imperciocché se il fondo è pestilenziale per la terra o per 1' acqua, o per 1' odore che esala io qualche luogo, ovvero s' è troppo caldo in grazia del clima sotto il quale è situato, ovvero se ivi non soffiano buoni venti ; tutti questi m a­lanni si possono correggere dal proprietario, per. mezzo della scienza e delle spese. È dunque della massima importanza che si esami i il paese, in cui sono le tenute, la loro estensione e la loro posizione relativamente ai portici, alle porte e alle finestre. Forse che Ippocrate (7), quel gran medico, non preservò colla sua scienza da ona gran peste, non dico nn sol laogo, ma anche molle altre città ? Ma perchè io vado in cerca di straniere testimonianze ? 11 nostro Varrone qa i presente, non ha egli sapalo ricoodur sani e sal­vi i suoi compagni di viaggio e la sua famiglia nel tempo che l 'arm ata e la flotta erano a Corfù, quantunque ivi tutte le case fossero piene di am ­malati e di cadaveri, facendo noove finestre, per le quali potesse entrare il vento aquilonare, e chiudendo quelle, per le qaali entrava I’ ana pe-

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M. T E R E N flI VARRONIS <64

CAPUT V

Q uot vaitbs habeat disciflwak culto* a.

Sed quoniam agriculturae, quod esset initium et finis d ili , relinquitur quot partes ea [disciplina habeat, a t sit videndum. Equidem innumerabi­les mihi videntur, inquit Agrius, cum lego libros Theophrasti complures, qui inscribuntur, ptniiv /fofictiy et alteri purtx** airiw . Stolo : Isti, in­quit, libri uoo tam idonei iis, qui agrum colere volunt, quam qui scholas philosophorora : taeque eo dico, quod non habeant e t utilia, e t commu­nia quaedam ; quapropter tu potius agriculturae partes nobis expone. Scrofa : Agriculturae, in­quit, quatuor suat partes summae : e queis prima cognitio fundi ; solum, partesque ejua quale* sint : secunda, quae in eo fuudo opus sunt, ac de­beant esse culturae causa: lerlia, quae io eo prae­dio colendi causa sint faciunda : quarta, quo quidque tempore in eo fundo fieri conveniat. De his quatuor generibus singulae minimum in b i ­nas dividuntur species ; quod habet prima ea, quae ad solum pertinent terrae, e t quae ad villas, et stabula : secunda pars quae moveantur, atque in fundo debeant esse culturae causa, est itero bipartita : de hominibus, per qaos colendum, et de reliquo instrumento : tertia pars quae de re­bus dividitur, quae ad qaamque rem sint prae­paranda, et ubi quaeque faciunda: quarta pars de temporibus, quae ad solis circumitum annuum fin t referenda, et quae ad lunae raenslrnom cu r­tum. De primis quatuor partibus p riu t dicam,

deinde subtilius de octo tecnndit.

tlilenztale, noti aha cangiando V apertura d e lle

porte, a mettendo io opera altre diligente d i a i- mil genere T

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CAPITOLO V

Qearrfc aowo l i *AaTi d e l l 1 a i t i a g b ab ia .

Dopo aver parlato dei principii e dei fini de l- T agrieoi tara, resta a dirsi di quante parti è com­posta quest’ arte. Per verità mi sembrano innu­merabili, dice Agrio, quando io considero i m olti libri che ha eomposti Teofrasto, e che sono in ti­tolali della Storia delle piante (i), e delle Cause della vegetatione. Questi libri, dice Stolone, sono più utili per quelli che frequentano le scuole dei filosofi, che per chi vuole coltivar la terra. Nè io dico che (a) non contengano alcune cose utili, e che alcune anche non possano giovare sì agli uni, che agli altri. Laonde tu piuttosto spiegaci le dif­ferenti parli dell1 agricoltura. Quatlro sono, dice Scrofa, le parti principali dell1 agricoltore : delle quali la prima è la cognizione del terreno, cioè la cognizione del suolo e delle sue differenze. La seconda la cognizione (3) di quanto fa mestieri Hi on podere, onde sia coltivato. La terza la cogni­zione dei lavori, che sono da farsi per ben colti­var la tenuta. La q uarta le cognitione del tempo, in cui debbonsi eseguire i lavori del podere. Ognuna di queste quattro parti (4) fi suddivide almeno in due altre. La prima parte ha di mira non solo quanto riguarda le terre, ma ancora quanto concerne le ville e le stalle.4 La seconda parte che ha per oggetto le mobiglie, che deb­bono trovarsi in un fondo per la coltura, t i divi­de parimente in due parti ; la prima delle quali comprende gli oomioi che servono alla coltive- sione, e la seconda abbraccia gli attrezzi rurali»

La terza parte, che si aggira sopra i lavori, r in ­chiude le preparazioni che si ricercano in ogni lavoro, e la cognizione dei luoghi, ne' quali at debbono fare. La quarta parte, che abbraocia i tempi distinti ne1 quali sono da eseguirai i lavo­ri, comprende quello che sta in relazione al corto annuo del sole, e al corao mestruo delia luna. D irò primieramente delle quattro parti p rinci­pali, dippoi per minuto parlerò delle otto p a r ti seconde.

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4G5 DE RE RUSTICA LIB. I. 46G

CAPUT VI

Da s o l o r m r o i qxjab s t q o o t s n r r v id b b d a .

Ig itn r prim um de solo fondi videndum haec q u a tu o r : quae sii forma, quo in genere terrae, quan lus, quam per se tutus. Forma* com duo genera sint, ooa qoam Datura dat, altera qoam sationes im ponant : prior, quod alius ager bene natos, alios male ; posterior, qood alias fandus bene consitas est, alius male : dicam prius de na­turali. Igitur cum tria genera siot a specie sim­plicia agrorum, campestre, collinum, e t monta­num , e«t ex iis tribus quartum , ut in eo fundo, in quo haec duo vel tria sunt, u t mallis locis licet videri. E quibas tribus fastigiis simplicibus, sine dubio infimis alia cultura aplior, qoam summis, quod haec calidiora quam summa : sic collinis, quod ea tepidiora quam infima, aut summa. Haec apparent magis ita esie in lalioribus regionibus, simplicia cum sunt. Itaque ubi lati campi, ibi magis aestua. E t eo in Apulia loca calidiora ae graviora. E t obi montana, u t in Vesuvio, quod leviora, e t ideo salubriora*

Qui colunt deorsam, magis aestate laborant ; qui sursum, magis hierae : verno tempore in ea u p e s tri bos maturius eadem illa se ra n tu r , quam in superioribus: et celerius h ic, quam Ulic coguntor : oec non «ursum, quam deorsum tardius seruntur, ae metuntur. Quaedam in mon­tanis prolixiora nascuntur ac firmiora, propter frigus, u t abietes ac sappini : hic, qood tepi­diora, populi ao salices : sursum fertiliora, a t arbutus ac quercus; deorsum, ot uucea grae- ese ae mariscae fici. In coitibus humilibus so­cietas major cum campestri fructus, quam cum m ontano : in altis contra. Propter haeo tria fa­stigia formae, discrimioa quaedam fiunt sationum, quod segetes meliores existimantur esse campe­stres, vio eae collinae, silvae montanae : plerum­que hiberna iis esse meliora, qui colant campe­

stria, qood tunc prata ibi herbosa, putatio arbo*

CAPITOLO VIQ o a l i * QUAVTB cosa sono d a ossk&va&si

IRTOENO IL SUOLO DBL FONDO»

Dunque intorno il suolo del fondo sono da esaminarsi queste quattro cose (i). Qual è ia sua forma, di qual natura è la sua terra, quanto è esteso, e quanto è sicuro in sè stesso. Coraechè sono due le specie di forma, una delle quali vie­ne dalla natura, e 1’ altra si procura per mezzo delle piantagioni, perchè in grazia della prima un terreno è di ottima qualità, uu altro è di cat­tiva qaalità, e io grazia della seconda un foodo è beo piantato, e l 'a l t ro malamente ; tratterò per­ciò prima della sua forma naturale. Poiché dun­que vi sono tre generi di terre, che più si acco­stano a quella specie di terra, eh' è semplice (a), cioè le terre situate in pianura, sulle colline e sui monti; havvi ancora un quarto genere misto, che trovasi in quel fondo, ove si dà ona mescolanza di due o tre specie delle indicate terre, come si può vedere in molti luoghi. T ra questi tre ge­neri semplici, è fuor di dubbio che la coltura, la

quale è acconcia per le pianure, non conviene ai luoghi elevati, per esser quelle piò calde di que­sti : del pari le colline, per esser tiepide, addi- mandano quella coltivazione (3) che oon si ad­dice alle pianure ed ai monti. Queste differenze si fanno più manifeste nelle regioni più estese, • soprattutto quando non vi sia nelle medesime che terra di un sol genere. Sicché quanto più saranno estese le pianure, tanto maggiore sarà ivi il caldo ($). Per la qualcosa nella Puglia Paria è più calda e più grossa : e similmente ne' luoghi montuosi, come sol monte Vesuvio, 1' aria é più leggiera, e per conseguenza più salubre.

Quelli checoltivanoi terreni bassi, soffrono più in tempo di esUte ; e per contrario maggiormente patiscono in tempo d ' inverno quelli che coltivanoi luoghi montuosi (5). In tempo di primavera si semina più per tempo V islessa semente nelle pianure che nei terreni elevati, e la raccolta si fa più presto io questi aitimi che in quelle : come ancora si semina e si raccoglie più o meno tardi ne’ luoghi montuosi, in proporzione della loro maggiore o minore altezza. Alcune piante che nascono sulle monlsgoe, diventano più lunghe e più solide pel maggior freddo, come sono gli abeli ed i sapini : altri alberi non nascono che in luoghi temperali, come sono i pioppi e i salci : certuni non provano bene che nei terreni elevati, come sono i corbètzoli e le querce ; qaaodo che altri non alligoano che nelle terre basse, com' èil mandorlo e il figo insìpido. Vi è maggiore ana-

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467 » • TERENTII VARRONIS 46*

rum tolerabilior. Contra aestiva montanis locis

commodiora, qaod ibi tum e t pabulum mullum, quod io campis aret : ac coitura arborum aptior, qood tum illic frigidior aer. Campester locas is melior, qni totos aequabiliter in uoara partem vergit, quam is qui est ad libellam aequas, qaod it, cam aquae non babeot delapsum, fieri solet uliginosus : eo magis si quis est inaequabilis, eo delerior, quod fit propter lacunas aquosus. Haec atque hujuscemodi tria fastigia agri ad colendum dispariliter babent momentum.

CAPUT VII

Q n u i i t ovtukus , qu is b t p e o x im u s , e t q u i i

DBlSCBPS.

Stolo: Quod ad banc formam naturalem per­tinet, de eo non incommedeCato videtur dicere, cum scribit optimam agrum esse, qui sub radice montis situs sit, et spectet ad meridianam coeli partem. Subjicit Scrofa: De formae cultura boo dico, quae specie fiant venustiora, sequi, u t ma- jore quoque fructu sint : ut qui babent arbusta, •i sata sunt io quincuncem, propter ordines at­que intervalla modica. Itaque majores nostri ex arvo aeque magno, sed male consito, et mioos mal tum, et minas bonum faciebant vinum et fru­mentum, qnod quae suo quidque loco sunt po­sita, ea minus loci occupant* et minas officit aliud alii ab sole, ac luna, et vento. Hoc licet conjectu­ra videre ex aliquot rebos, u t noces integras, qaas uno modio comprehendere possit, qaod

logia tra le fra tta delle colline basse e q u e lle delle pianure, che tra quelle delle montagne : i l contrario accade nelle colline più alte. In grazia adunque di questi tre generi differenti di fo rm a naturale, hanno origine ancora le differenze c h e si osservano nei prodotti delle seminagioni'e de lle piantagioni, essendoché le biade, che si raccol­gono nelle pianare, hanno rinomanza : così p u re godono maggior fama le viti delle colline, e le foreste delle montagne. D* ordinario V inverno èil tempo il più favorevole per quelli che colti­vano le pianure, perchè esse allora hanno i p ra ti erbosi: così il taglio degli alberi vi si può ;fare più tollerabilmente in questa stagione. L 'es ta te per contrario è più awantaggioso (6) per quelli che coltivano i luoghi montuosi di quello che per le pianure, perchè nei monti trovasi allora molto pascolo, nel mentre che le pianure hanno l ' erbe abbruciate, e la coltura degli alberi vi ai tè più comodamente per esser ivi allora P aria più fredda, che nel piano. Quella pianura è mi­gliore che latta uniformemente pende verso una sola parte, di quel che sia quella eh ' è esatta­mente a livello ; e ciò perchè non avendo scolo le acque, va soggetta a diventar maremmosa : e qaesl’ inconveniente è peggiore, quanto p iù il terreno è ineguale, poiché nelle parti basse si rac­colgono le acqoe e ristagnano. Per la qual causa questi tre generi di forme naturali nelle terre so­no altrettante ragioni che debbono determinare a coltivarle differentemente (7).

c a p it o l o v n

Q u a l s ia i l tbebbevo o t t im o , q u a l b s ia i l p i ù

V1CIWO A QUESTO, E QUALI SlEffO I TEBBEH1 IB-

FBBIOE QUALITÀ.

Stolone. Pare che non mal a proposito ap~ partenga a questa forma naturale quanto d ice Catone (1), scrivendo che il miglior terreno è quello, il quale è situato alle falde del m onte, » volto al mezzogiorno. Scrofa soggiunge : In lo ro o alla forma che un terreno riceve (a) dalla co ltu ra ,

io porto ferma opinione, che quanto più offre all’ occhio an aspetto elegante, debba seg u ir ­ne (3) che dal medesimo si abbiano a r i t r a r r e anche maggiori proveoti; come appuolo addivi** ne ne’piaoi di alberi piantati in quinoonce, i q u a li rendono più dei piani confusi, a motivo dell' o r ­dine, col quale sono disposti questi alberi, e d e ­gl’ intervalli reciprochi moderati. Per la q a a l cosa i nostri antichi da an terreno egualm ente

grande, ma piantato e seminato malamente, rac -

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puUmfoa ino loco quaeque babai natura compo­sita, cum easdem si fregerit, vix sesquimodio concipere possis. Praeterea quae arbores in ordi­nem satae innt, eas aequabiliter ex omnibns par­tibus so! ac lona c o q aao t :qao fit, u t uva et oleae plores nascantur, e l a t celerias coquantur, quas res doas sequantur altera illa doo, a t plus red­dan t mosti et olei, et pretii piaris. Sequi la r se­candam illud, qaali terra solam sit fundi, « qaa parte vel maxime bonos, aut non bonas appelle­tu r . Refert enim, qaae res in eo seri nasciqae, et eajusmodi possint. Non enim eadem omnia in eodem agro recte possaat. Nam u t alius est ad v ilem appositas, alias ad frumentum, sic de cae- te ris «lias ad aliam rem. Itaqae Cretae ad Gorty­niam dicitor platanus esse, qaae folia bieme non a m it ta t : itemqoe ia Cypro, u t Theophrestas ait, u n a : item Sybari, qui nuno T horii dicantor, qaercas simili esse natura, qnae est in oppidi conspecta. Item contra atque apud nos fieri ad Elephantinen, u t neqoe ficos neqae vites amit­tan t folia. P rop ter eandem causam m alta sant bifera, a t vites apud mare Smyrnae : malas bifera, u t in agro Consentino. Idem ostendit, quod in locis feris plora fe ran t: ia iis, qaae san t culta, meliora : eadem de causa sant, quae non possunt v ivere nisi in loco aquoso, aut etiam aqua : et id discrim inalim , a t alia in Iacubut, a t arundines in R eatino ; alia in fluminibus, u t in Epeiro arbo­res alni ; alia in mari, u t scribit Theophrastus, palmas et squillas. In Gallia Transalpina intus ad Rhenum, cam exercitam dacerem, aliqaot regio­nes accessi, ubi nec vitis, neo olea, neo poma nascerentur; ubi agros stercorarent candida fos­sicia creta : abi salem nec fossiciam, neo mariti­mum haberent, sed ex quibusdam lignis combu­sti, carbonibus salsis pro eo terentur. Stolo: Cato qnidem, inquit, gradatim praeponens, alium alio agrum meliorem dicit esse in novem discrimi-

bus, quod sit primus, ubi vineae possint esse bono vino et multo ; secundus, ubi hortus irr i­guus ; tertius, ubi salicta ; qbartus, abi oliveta ; quintus,abi pratum ; sextus, ubi campus frum en­ta riu s ; septimus, ubi caedua silva ; octavus, ubi a rbustum ; nonus, ubi glandaria silva. Scrofa: Scio, ioqoit, scribere illum : sed de hoc non con­sen tian t omnes, quod alii dant primatum bonis pratis, u t ego quoque: a quo antiqui prata parata appellarunt. Caesar Vopiscos aedilicius, causam cum ageret apud censores, campos Roseae Italiae dixit esse sumen, in quo relicta pertica postridie

non appareret propter herbam.

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469

coglievano vino e biada io minor copia, e di qua­lità più inferiore, che in un terreno, in cui tutte le cose sono al loro posto ; poiché in pieno occu­pano minore spazio, e reciprocamente meno si ouocono, per la ragione che le uoe non intercet­tano alle altre gl1 influssi del sole, della luna e delP aria. Ciò ti rileva di leggieri da un para­gone preso da certi corpi ; imperciocché se esat­tamente si empie on moggio di noci intere, a dappoi si rompono, appena possono capire in un moggio e mezzo ; e ciò perchè i gasci e la sostan­za della noce erano disposti in ciascheduna nel loro luogo, che naturalmente dovevano occupa­re (4)- Inoltre quegli alberi che sono piantati con ordine, sono maturati egualmente da tu li ' i lati dal sole e dalla luna ; dal che ne nasce che pro­ducono molta uva e molte olive ; e che queste frutta sono maturate più presto : due effetti che sono seguiti da due altri, rendendo cioè più mo­sto ed olio, e per conseguenza maggior denaro. O ra viene il secondo articolo, cioè di quale spa­zio di terra debba esser composto il suolo del fondo, per esser chiamato o sommamente buono,o non baoao ; poiché importa che si sappia qaali cose nel medesimo si possooo piantare, qoali vi alligneranno, e come vada governato. Di fatti ogni sorta di pianta non germoglia egualmente bene nel medesimo terreno ; imperciocché tal terreno è proprio per la vigna, tal altro per la biada ; e generalmente parlando un terreno è ac­concio per una cosa, e un altro per un* altra. Così si dice che in Creta presso Cortioia vi è un pla­tano, che uon si spoglia delle sue frondi in tem­po d 1 inverno (5) : parimente scrive Teofrasto es- servene ano di tal natura nell1 isola di Cipro : similmente in Sabaro, ohe oggidì' chiamasi Cala- mata, si dice esservi querce di tal natura, le quali sono in faccia alla città, la pari guisa succede ne' nostri paesi quel che accade presso Elefantine, oioè che i fichi e le vigne non si spogliano delle loro foglie (6). Per la medesima causa molte piante fruttano due volte alP anno, come sono le viti di Smirne presso il mare (7), e i pomi che vengono nel territorio di Cosenza. La medesima cosa si fa palese nei luoghi selvaggi ed incolti ove sono più varie le produzioni : in quelli però che sono coltivali, i prodotti sono migliori (8). Per lo stesso motivo sono vi piante^ che non pos­sono vivere che in luogo acquoso, od anche che

non vivono che in mezzo alPacqua. Queste pianto inoltre non tutte amaoo ogni specie di acqna, perchè alcune piante vivono meglio nei laghi, come le caoue nel lago Reatino (9) ; altre nei fiu­mi, come gli alberi dell1 alno nel fiume Epeiro ; altre nel mare, come scrive Teofrasto (10) esser le palme e le squille. Quando io era alla tetta

47*DE RE RUSTICA L1B. I.

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<7* M. TERENTII VARRONIS 47*

CAPUT v ra

Q o o d s p e c ie s v it is p l u s i m a e i i h t .

Contra vineam aant qai pa ten t sampta fru-

clam devorare. R e fert, inquam, quod genus vioeae sit, quod sunt multae species ejns ; aliae enim humiles ac sina ridicis, u t in flispania: aliae

sublimes, u t qaae appellantur jugatae, ut plerae- que in Italia : quarum nomina duo pedamenta, et juga : quibus stat rectis vinea, dicuntur peda­menta : quae transversa junguntur, juga: ab eo quoque vineae jugatae. Jugorum genera fere qualuor, pertica, arundo, restes, vites : pertica, u t in Falerno ; arundo, u t in Arpino : restes, ut in Brundisino ; vites, ut in Mediolanensi. Juga* tionis species duae, una direct», ut in agro Canu­sino : altera compluviata in longitudinem et lati­tudinem jugata, ut iu Italia pleraeque. Haec ubi domo uascuntur, vinea non m eluit sum ptum ; ubi multa ex propinqua villa, non valde. Primum genus, qnod di i, maxime quaerit salicta ; secun­dam , arundineta : tertium junce ta , aat ejus

dell' armata, trovai dei paesi1 situati nell’ i n t e r n o della'Gallia Transalpina, pretto il Redo (i i ) , n e t quali noo nascevano nè vigne, nè divi, nè p o m i , ove non si letamavano i terreni che colla c r e t a bianca estratta dalla terra, od ove non vi e r a n è sale fossile, nè marittimo, ma si adoperava so l­tanto quello che somministravano i carboni sa ls i di certi legni brnciati (12). Stolone dice: Q u a n d o Catone espoue gradatamente (i3) le varie s o r t e di terreni, per dir poi quale il migliore, le d i r i d e in nove classi : dice dunque chela prima è, o r e si possono piantar le vigne ,che abbondino d i buon vino ; la seconda, ove vi è un orlo eh’ s ' i n a ­cqua; la terxa, ove si trovano sa Ice ti ; la q u a rta , ove si danno degli oliveti ; la quinta, nella q ua le non mancano le praterie ; la sesta, ove è te rreno per biada; nella settima vi sono legne da tag lio ; P ottava abbonda di albereti ; e la nona è fornita di querceti. So bene, dice Scrofa, che così egli h a scritto ( 14) ; lutti non tono del suo parere, perchè alcuni danno il primato alle buone p ra ­terie ; del che ne convengo ancor io. Da ciò n* è venuto che gli antichi gli hanno chiamati prati comechè se fossero sempre preparali ( i5). Cesare Vopisco trattando una causa avanti i censori do­po la sua edilità (16), disse che le campagne (17) di Rosea erano le più grasse delP Italia (18), per* chè se vi si lasciava una pertica, nel giorno dopo non si poteva più ritrovare per essere cresciate 1' erbe.

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C A P I T O L O V i l i

L e s p e c ie d e l l e v i t i sono m o l t e .

Obbieltano alcuni contro la vigna (1), pen­sando che le spese, eh'essa ricerca, consumino qnanto si ha di prodotto dalla medesima, im ­porla, io dico, distinguer le varie specie d i vigne, delle quali ve ne sono molte; imperocché alcune sono basse e non bisognose di pali, come nella Spagna : altre sono alte, come quelle che si chiamano aggiogate, e delle quali ve ne sono parecchie in Italia. Queste ullime sono di due specie, chiamandosi P una vigna a palo, e l 'a ltra vigna a giogo : nella prima i pali si piantano perpendicolarmente ; e quindi è detta vite e palo : nella secooda si piantano i pali vertical­mente, e poi in questi se ne ficcano degli altri trasversali; e perciò queste vigne si cbiamauo a "iogo, e da questo nome han preso questo di aggiogate ( a ). Sono prassappoco quattro le specie di gioghi (3) : cioè le pertiche, le canne, le corde ed i sarmenti. Le pertiche si usano nel

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g e o d i rem aliquam : quartum arbusta, ubi traduoes poconl fieri viti**, u l Mediolanense» A rian i io arboribus, q u i voeant opuloi ; Canu- •in i in harandulalioiMi in fieia. PedamenUun item fera qua taor generant. Unum robustum, quod o p lim aa aolel afferri io vineam e quercu ae janipercr, el vocatur ridica: alterum palus e pertioa, melior e dura, qood diuturnior : quem cum infimam terra voluit, puter evertitur, ei fit aolum aamaeam: terjium quod horum inopiae eobndio misit arundinetum ; inde enim aliquot colligatas libris dimittant in tubulos fictile», cum fundo pertuso, quos cuspides appcilaut, qua buaaor adventicias transire possit : quartum eat pedamentum nativum ejus generis; ubi ex arbo- ribue in arbores traductis vitibus vinea sit; quos traduces, quidam rumpos, appellant. Vineae alti­tudini» modus, longitudo hominis. Intervalli pedani en torum, qua bove» juncti arare possint Ea minos sumptuosa vinea, quae aine jugo mini­strat acratophoro vinum. Hujua genera duo : unum, in quo terra cubilia praebel ovis, a t in Aaia mullis locis, quae saepe vulpibus et bomini- bos fit commuois | nee non si parit humus ma­res, minor fit vindemia, nisi tota* vineas opplea- r is muscipulis, quod iu insula Pandataria faciunt Alterum genus vineti, ubi ea modo removetor a te rra vitis, quae ostendit se afferre uvam. Sub eam, ubi nascitur uva, subjiciuntur circiter bipe­dales e surculis furcillae, ne vindemia pereat, et vindemia fo ta denique discat pendere in pal­mam aut funiculo, aut vincla» quod antiqui vocabant eestum. Ibi dominns simnl ac vidil occipitium vindemiatoria furcillas reducit hiber­natum in tecte, ul sine sumptu earum opera allero anne oli possit Hae consuetudine in Italia u tnn lar Reatini. Haec ideo varietas maxime, qood terra cojusmodi sit, refert : ubi enim natura hamida, ibi altius vitis tollenda, quod in pario e t aliaaoaio vinum, non nt in calice quaerit aquam, aed solem : itaque ideo ( ot arbitror ) primam e vinea in arborea ascendit vilis.

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M. T aaan io V a ia o s b

territorio di Falerno ; le canne nell1 Arpinate ; le corde nel territorio di Brindisi ; ed i sarmen li nel Milanese. In due maniere si attaccano le vigne al giogo : l’ una è di aitaccarvele perpen­dicolarmente, come si fa nel territorio di Canosas l ' altra è di attaccartele a guisa df pergolato facendo che i loro rami s'incrocicchino nel mezzo, come sono la piò parte delle vigne d 'I ta ­lia (4). Se questi gioghi nascono nel proprio ter­reno, non è da temerli che la vigna costi ; quando poi la maggior parte dei gioghi si traggono dalla vicina villa, la spesa viene ad esser poca. La pri­ma specie di giogo spezialmente si trae dai sai- ceti (5) ; la seoonda dai canneti; la terza dal giuncheti, o da altra cosa equivalente ; la quarta si usa in nn piano d ' alberi, ai quali si possono attaccare i rami delle viti, come fanno appunto i Milanesi con quegli alberi che chiamano oppii, e quei di Canosa coi fichi, i coi rami sono soste­nuti dalle canne (6). 1 pali sono pure pressappoco di quattro specie. La prima e la più robusta, e la migliore che si possa adoperar per la vigna, è quella che si trae dalla quercia e dal gioepro : e questa sorta di palo si chiama palanca. La secon­da specie si chiama palo : questa pertica è mi­gliore quanto più è dora, perchè sussiste lungo tem po; quando la parte piantala in terra si marcisce, si volta, e si ficca in terra l ' altra estre­mità (7). La terza specie è quella che sommini­strano i canneti, quando mancano le doe prime, A) qual effetto unite medianli le scorte alcune canne, le mattono io canaletti di terra aventi il fondo pertugiato (8), detti in latino cuspidex, onde l 'acqua della pioggia possa uscire. La quarta specie di palo ei viene somministrata dalla n a tu ra , quando da un ' albero ad un altro si tirano i rami della vite: alcuni chiamano que­st' intrecciamenti traduces, ed altri li nominano rn m ^i. L ’ altezza delle vigne deve pareggiar quella degli uom ini; e le distanze rispettive dei pali debbono esser tali, che i buoi aggiogati pos­sano passarvi, qaando si ara. La vigna meno costosa è quella che senza aver bisogrio di giogo, rende nn acratophoron di vino (9). Di qaesta ve ne sono due specie ; nell' una la terra serve di appoggio ai grappoli, come si osserva in molti luoghi dell' Asia, ove però sovente se ne appro­fittano non tanto le volpi (10), quanto gli uomi­

ni ; e se ivi la terra genera dei so rc i, è chiaro che viene a diminuirsi la vendemmia, quando bene non si distribuiscano per tutto il vigneto delle trappole, come si fa nell' isola di s. Maria. L 'a ltra specie di vigna è quella, i cui rami che promettono f ru tta , s 'inalzane sopra terra. In quel luogo, ove pendono i grappoli (11), si met­tono sotto delle forcine d 'albero, della lunghezza

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474DE &E RUSTICA L1B. L

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4;5 M. TlìRLNTll VÀHRONIS

CAPUT IX

Q o o d t b i b u s h o d i i t b b b a d i c a t o * b o i a , a u t b o i

BOBA, A UT CONMUBIS.

Terra, inquam, cu j usmodi sit refert, et ad qoam rem bona, aut non bona sit ; ea tribos mo- dii dicitar, communi, proprio, et mirto. Com­muni, a t cum dicimus orbem terrae, et terram Italiam, aut quam aliam ; in ea enim et lapis, et arena, et caetera ejus generis sunt in nominando comprehensa. Allero modo dioitur terra proprio nomine, quae nullo alio vocabulo, ncque cogno­mine adjeoto appellatur. Tertio modo dicitur terra, quae est mixta, in qna seri potest quid et «asci ; ut argillosa, aut lapidosa, sic aliae ; cum in hao species non minus sint multae, quam in illa commani, propter admixtiones : in illa enim, cum sint dissimili vi ao potestate, partes permul­tae, in qneis lapis, marmor, rudat, arena, sabulo, argilla, rubrica, pulvis, creta, glarea, oarbuneg- lus ( id est, quae sole perferve ita fit, ut radices satorum comburat ): ab iis, quae proprio nomine dioitur terra, cum est admixta ex his generibas aliqua re, tum dicitur aut cretosa, aut glareosa, et sic ab aliis generum discriminibus mixta ; «t uti horum varietates, ita genera haec, ut prae­terea subtiliora sint alia; nam minimum in sin­gula freies terna, quod alia terra est valde lapi­dosa, alia mediocriter, alia prope pura. Sic de aliis generibus reliquis admixtae Terrae tres gra-

di doe piedi allo incirca, acciocché la vendem­mia non tenga meno; e fatta che siasi la ven­demmia, si aacostuma insensibilmente il sarmento a diventare on ratto a frutto, cb« perciò si attacca alla pianta o per mezzo di una cordi­cella, o con quel legame che i nostri antichi chiamavano cingolo (ia). Non sì tosto sono partitii vendemmiatori, che il proprietario deve por­tare alla sua casa le forcine, ed ivi tenerle m coperto nelP inverno, afBnchè, sema incontrar nuove spese, possa servirtene nel vegnente anno; il che accostumano in Italia i Condoiani (i3). Importa moltissimo meUere,in opra questi diffe­renti metodi, secondo la varia natura delle terre ; imperciocché dove la terra è naturalmente umida 04), ivi è mestieri inalxar molto la vigna, acciocché il vino nella sua nascita e nel suo 'kocrescimento non cerchi P acqua, come quando è nel bicchiere, o\a il sole (i5) ; e perciò , per quel che io ne penso, i rami della vigna non si tosto lo possono, che abbandonano la pianta per arrampicarsi sugli alberi*

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CAPITOLO IX

Ih n a n i n n i si dicb csb la tbbia à bimba,o cattiva, ovvaao comma.

Importa dunque, oome dioeva ( 1), il saper di qual natura è la terra, e per qual cosa està è

buona, o cattiva. Sotto tre aspetti si prende que­sta parola terra, la quale è o comune, o propria, o mista. Noi la prendiamo in senso comune, quan­do diciamo il globo della terra, la terra d ' Italia, o qualunque altra regione | imperciocché sotto questa denominatione ti comprendono e le pie­tre e la sabbia e le altre parli, delle qoali è com­posta (2): la prendiamo poi in senso proprio, quando diciamo aemplicemente terra, senza ag- gioogervi alcun1 altra denomiaazione. Nel terso senso poi la prendiamo, quando alla parola terra vi aggiungiamo un epiteto, per indicare il miscu­glio, di cui è composta : in grazia di che riceveio sé le semenze e le fa crescere, com1 è la te rra cretosa, o pietrosa, ovvero ogn1altra specie di terra. 11 nome di terra, preso in quest1 ultimo senso, non comprende più poche differenze di specie della terra, presa in senso comune ; e ciò a motivo delle mescolanze. Imperciocché nella ter­ra, presa in senso comune, essendovi mollissime parli dolale di differente virtù e polare,tra le quali si annoverano la pietra, il marmo, i rollami di pietra, P arena, la sabbia, l1 argilla, la terra rossa, la polvere, U creta, la ghiaia e il carbone (quelle

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4 7 7 ife RK RUSTICA L1B. I. 475

das ascendant eosdem. Praeterea hae ipsae l©r- Die ipecùt Uroas in se habcnt alias, qaod par­tila sani humidiores, partim aridiores, partim mediocres. Neqoe non haeo discrimina perlioent ad frnctns vehementer. Itaqoe periti in loco ho- midiore far adoream potias serunt, qoam triti- cnm ; contra in aridiore hordeam potias, qaam far, in mediocri otraoqae. Praeterea etiam dis­crim ina omniam horqm generara sabtiliora alia, u t in sabulosa terra, qaod ibi refert, sabato albas s it , an rubicundus : quod sabalbas ad serendos forcalo* alienas, cantra rabieondior appositas. Sio m agna tria discrimina terrae, qaod refert a t r a m sit macra, an pinguis, an mediocris; qao a d coituram pingais foecundior ad malta, macra con tra . Itaqae in iis, a t in Popinia, ncque arbo­res prolixas, neqoe viles feraces ncque stramenta v idere crassa possis, neqae ficam mariscam, et arbores plerasqae, ac prata retorrida et muscosa. ConLra io agro pingai, a t in Hetraria, licet vi­dere segetes fructuosas ac restibiles, e t arborea prolixas, et omnia sine mosco. In mediocri au- tem terra, o t in T iburti, quod proprias accedit, a t non sit macra, qaam u l sit jejana, eo ad om­nes res commodior, qaam si inclinavit ad illad q ao d deterius. Stolo: Non male, inquit, qnae sit idonea terra ad oolendam, aat non, Diopbanes B ithynias scribit, signa snmi posse aat ex iis qaae n ascan tu r ex ea ; ex ipsa, si sit terra alba, si ni­gra, si levis, qaae cum fodiatur, facile frielar, naturaque non sit cineri lia neve vehementer densa : ex iis autem, quae enata san t fera, si sua t prolixa, atqne ea, qaae ex iis nasci debent, earam rerum feracia. Sed quod seqailnr, tertiam illad de modis dice*

parti cioè che il sole tanto riscalda, che giungono ad abbruciare le radici delle piante) ; del pari quando la terra, propriamente terra, è mescolata ad alcuna delle indicate parli, trae la denomina­zione dalla parte a cui si trova mista ; ed allora si dice o terra cretosa, o ghiaiosa, o aHramenti, secondo che è mescolata ad altre parli (3) : e quante sono le varietà degl1 ingredienti, altret­tante sono pare le specie di terra ; anzi ognuna di queste specie può esser ancora suddivisa al­meno in tre altre (4), poiché una terra o è moltis­simo pietrosa, o lo è mediocremente, o non lo è che in minimo grado. In simile maniera ogni spe­cie di terra mista paò suddividersi in Ire altre parti. Inoltre ognuna di queste tre parti può es­sere in sè suddivisa in tre altre, potendo essereo umidissima, o secchissima, o esser tra l1 umi­do e il secco. Tulle qaeste differenze influiscono mollissimo sopra le frolla. Per la qual cosa le persone perite in un luogo troppo umido semi­nano piuttosto il farro adoreo (5), che il fer­mento ; all* incontro nel terreno troppo secco seminano piuttosto l1 orzo, che il Carro, ed am- bidue in quello che non è nò troppo um ida, nè troppo secco. Inoltre tutte queste specie di terre hanno ancora ulteriori differenze : per esempio nella terra sabbionosa importa molto a sapersi se è bianca o rossa, perchè nella bianchiccia no» ai possono piantar gli alberi ; e per contrario è

più acconcia per questa piantagione quanto più è rossa. Parimente vi sono tre altre grandi d if­ferenze nella terra che fa mestieri conoscere), cioè ae la terra sia o magra, o pingue, o me­diocre. R igaardo alla coltura, la pingue è uni­versalmente piò fertile della m agra: sioehè m questa terra, come appunto è la campagna P o ­pinia, nè gli alberi diventano alti,, nè le vigne fertili ; nè ivi potrai vedere paglie grosse, nè fichi insipidi : ivi pure la maggior parte degli alberi sono pieni di muffa, come ancora i prati che sono inoltre aridi (6). Per contrario nel ter­reno pingue, com1 è qaeHo dell1 E traria, le terre lavorate producono molto, quantunque nessun anno si lascino in riposo: gli alberi sono siti, e tutti senza muffa. La mediocre terra, com1 è quella del territorio T iburtino, è più adattala a tutte le cose, secondo che si accosta più alla gras­sa, che alla magra (7); e il contrario succede quando il terreno si approssima maggiormente alla terra magra. Non senza ragione, dice Sto­lone, Dio fané di Bitinia indica ebe per sapersi se una terra è atta alla coltura, o no, i segnio sono da desumersi da quanto nasce nella me­desima, ovvero dalla stessa terra. Si osserva dun­que se questf sia bianca, se nera, se leggiera, se, quando si smove, facilmente si sciolga (8) ;

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479 M. TERENTII VARRONIS 480

CAPUT X

Q uot m odis i i t u i t u i x o e a .

Ille , Modos, quibus m etiren tar r a ra , i l ia i alios consti lai t Nam in Hispania ulteriore me­tian tu r jugis, io Campania Tersibus, «pad dos ia agro Romano ac Latioo jageris. Jugum vocant, qaod juncti boves ano die exarare possint Ver­sam dicant centum pedes quoquoversum qua­dratum . Jugerum , qaod qaadratos duos actus habeat. Actus quadratas, qai et latas est pedes Cxx, et longas to tidem ; U modos aoaaa Latine appellatur. Jugeri pars minima dicitar scripulum, id est decem pedes in Koagiladinem et latitudi­nem qaadratam . Ab hoc principio mensores noananqoam dicunt ia subsicivam esse andana agri, aat sextantem, aat quid aliad, cam ad joge- ram pervenerant; id habet scripula c c lx x x v iii j

quantum as antiquus noster aote beltom Punicum pendebat Bina jugera quod a Romulo prim am divisa (dicebantur) virilim, quae (quod) haeredem sequerentur, haeredium appellarunt. Baec postea (a) ccntum Centuria dicta. Centuria est quadrata in omnes qoatuor partes, a t babeat latera longa p edam od * D Hae porro qua tuor centariae conjunctae, a t sint in utramque partem binae, appellantor in agris divisis virilim poblice saltas.

CAPUT XI

Quo SIT VILLA ITATUBBTDA MODO, ST QUABIS VILLA.

In modo fandi non animadverso lapsi sunt snnlti, qaod alis villam minas m ^ n a m fecerunt quam modos postulavit; alii majorcm, e o a olrum-

•se di soa natora Don «ia eenerioia, nè m o lto densa. Gli argomenti poi, che si desa mono dallo prodaiioiy, *000, et i prodotti nati senta eo ita ra sono alti, e se sono abbondagli le fra tta che na­scono dai medesimi (9). Ma ora parlaci del te rso

punto relativo al suolo, cioè della sua misera.

CAPITOLO x

I* q u a s tb l A f r n i i ai m s u iA io l b tk b b b .

Scrofa. Intorno alla misura delle terre ehi ha adottato un modo, e ehi on altro ; imperciocché nella Spagna di là dai monti si m iserano per jugum (1), nella Campania per versus, e noi aà nel territorio Romano, come nel Laiio le m b a ­riamo per iugeri. Si chiama jugum quello spatio di terra che possono lavorare in un giorno duo buoi aggiogali (a). Si dice versus uno spailo qua­

dralo di eento piedi tanto in lunghetta , quanto in larghetta . Il iugero è il doppio delVactus qua- dratus, e questo è longo centoveoti piedi, a altrettanti largo. Qaesta misura si chiama lati­namente aenua (3). La piò piccola parte aliquota del iogero si dice scriptulum (4): essa equivale a dieci piedi quadrati. Gli agrimensori partendo da

questo principio dicono per lo più cbe sotto il iugero (5) vi è V uncia, o un ’sextansy ovvero qualche altra parte, come V ast perché il iogero i composto (6), di dugentotlanta otto scriptula (7), vale a dire che ne contiene tanti, quanti ne con­teneva il nostro antico as (8) avanti la guerra Punica (9).Due di questi iugeri che, per quanto si dice (io), sono stati anticamente distribuiti da Romolo a ciascun cittadino, sono stati chiamati haeredion, perchè psssavano agli eredi. Cento poi di questi haeredion si sono chiamati in pro­gresso centuria (it). La centuria è an quadrato, del quale ognuno dei lati ha duemila quattrocen­to piedi di lunghezta (ìa). Quattro poi di queste centurie onite, ma in maniera che sieno due in ambi i lati, si chiamano saltus nelle terre eh* sono state divise pubblicamente sui cittadini.

CAPITOLO XI

Q ual gbabdbzza debba avbbb la v il l a , ■ q u a l i

COSE dbbbansi b itbo v a b valla m edesim a .

Molti sono caduti in errore non avendo b eo atteso (1) alla misura del fondo; perchè a lcuni hanno diminaito la villa più di qaello che reai-

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qoe «il oon Ira r tm b o i l i n t t ae fraetsm ; ma» fora «oim tecta e t aedificamns p la n i , e t taem ar ja m p la majore ; m inora eom soni qaam posto­la! fondai, fro tta» solent disperire. ( Licinias. ) D ak ism eaim non est, qain cella vinaria major •Il facinnda in eo agrp, obi vineta n o i ampliora: u t horrea, si fra mentano* ager est. Villam aedi­ficandam potissimom, o t intra septa villae ha­beat a qoam : si non» qoam proxim e; primam, qnae ib i sii n a ta ; secandam, qoae iofloat pe­rennis. Si omnino aqoa non est v i t i , cisternae Jackmdae sob tectis, et lacas sab dio, ex altero loco a l bomines, ex altero o t pecoi a li posti!.

48 i

CAPUT xnQ vo s tr l o c o fo n s ta n n i s t a t u b v d a v i l l a .

B andoni operam, o t potissimam sub rad ia ­bas m ontis silvestris villam ponas, nbi pastiones rio! laxae, ila a t contra ventos, qoi saluberrimi in agro flaboot. Qoae posita es! ad exortas aequi­noctiales, aptissima, qaod aestate habet ombram, hiem e seleni. Sio eo gare secondo m flamen aedi­ficare, earaodom ne adversum eam ponas; hieme enim fiet vehementer frigida* et aestate non sa­lebris. Advertendam etiam si qaa e ran t loca pa­lustria , et propter easdem caosas, et qood are- •ean t, crescant animalia qoaedam m inata, qaae n o n possont ocoli eonseqoi, e per a€ra intas ia corpo» per os ac nares perveoioot, atqae efficiant difficiles morbos. Fondanias:Q oid potero, ioqait, facere, si istiosmodi mi fandos haeredite obve­n e rit, qao mioas pestileotia noceat T Istoc vel ego p o ts e a respondere, iaq a it Agrias. Vendas quot assibus potsis: aot si neqaeas, relinquas. At Sero- fi : Vitandam, inqoit, ne in eas partes specte! Yilla, ex qoibos veotos gravior afflare soltat ; neve in ooovaUi cava; e! a! potias io soblimi loco eedifioes ; qoi qaod perflator, si qaod est q a o d advereariam inforator, fccilius disootitar. Praeterea, qaod ab sole toto die iMastrator, sala- Brior est, qood et bestiolae, si qaae prope nascun­

tor et inferuntor, ait efflantor, aat ariladine cito

menle Io era, e per conlratfo a lt r iT hanno in ­grandita : I* ano e 1* altro inconveniente è con­t r i t io all’ interesse d d proprietario, come ai fra tti provenienti ^ t t a terra. Per verità e spen­diamo di più qoaodo gli edificii sono più grandi, e si mantengono dbn maggiore spesa : e se si faedaoo più piccoli di quello che ricerca la te­nuta, i frolli corrono per ordinario il pericolo di essere rovinati (a). Imperocché (3) oon vi è paolo dubbio che la cantina non si debba far più grande io quel terreno, ove i vignai sono molli ; come del pari che converrà fare i granai più grandi, se'il terreoo sia lotto a biada (4)- Ab­biasi attenzione particolarmente che la %jlla da fabbricarsi conteaga nel suo recinto dell’ a- cqoa (5) ; o almeno che l1 acqua sia in vicinanza. È da preferirsi qoell1 acqaa che ivi nasce, in se­condo luogo quella che d ' altronde si deriva. So non vi si trova ponto di acqoa viva, si deb­bono far delle ci»teroe coperte e degli abbe­veratoi scoperti, alcuoi dei qaali serviranno per gli uomini, e alcani altri pel bestiame.

c a p it o l o x n

I n q u a l l u o g o d b b b a s i s p e c i a l ■ eh t a

FABBB1CAB LA VILLA.

T o devi fare in maniera (i) ohe la villa s! trovi specialmente ai piedi di un monte selvag­gio, ove i pascoli sieno estesi, e che sia esposta ai veoli i più saoi che soffiaoo in qaella piaggia (a): Quella villa è migliore eh* è situata all' oriente equinoziale, perchè nell' estate gode V ombra o nell* inverno il sole. Se la necessità ci storia di fabbricarla presso il fiome, de veti procurare di non situarla rimpetto il corso del medesimo (3) ; perche in inverno sarebbe freddissima, e malsana in estate. Bisogna schivare ancora, ae ve ne sono,i looghi paludosi noo solo per le caose allegate, qoanto accora perchè diventano aridi e vi nasco­no certi aoimali m inali (4), che non si possooo veder oogli occhi, e che nell1 atto di respirar l1 a- ria eotraoo nel oorpo per la bocca e per le narici, eqoiodi prodacono difficili malattie. Se oo foodo di tal natura mi toccasse in eredità (5), che potrò mai (are, dice Fondanio, onde non mi nooccia quest'aria pestilenziale? A questa dimanda posso rispoodere aoeor io, dice Agrio : vendilo a qaa- looqoe prezzo, o, se oon puoi, lascialo io abbao- dooo. Ma Scrofa ripiglia, eh1 è da schivarsi che la viUa sia volta a qaella piaggia, da coi saole sof­fiare il vento che snerva (6) : come nemmeno si

deve fabbricarla in «na valle troppo profonda,

DE RE RUSTICA L1B. I.

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483 M. TERENTII VARRONIS 4 8 4

pereant. Nimbi repentini ac torrente* Antii* pe­ricolosi illis, qoi in humilibos ac cayis locis edi­fìci a habent,etrepeolioae praedonum manas, j a o improvisos facilius opprimere possunt. Ab hoc utroque superiora loca tuliora.

CAPUT xmQ u o d n r v il l a , p e t v i t u s pa ctu hda s i b t b u b il ia , b t

OVILIA, BT CELLAE, VASAQUB VIBAEIA, OLBABIA

BT ALIA.

Io villa facionda stabola, ita ot babilia sint ibi, hieme qoae possint esse calidiora. Fractus, o t est T in a m e t oleam, loco plano io cellis, item u t T asa vinaria, et olearia potius faciandum. Ari­das, a t est faba, et foenum in tabulatis. Familia ubi versetur providendum, si fessi opere aat fri­g o re , u t calore obi commodissime possint se quiete redperare. Vilici proxime januam cellam esje oportet, eomqoe scire, qui introeat aat exeat noeta, quidve ferat : praesertim si ostiarias est nemo. Io primis colina videnda, u t sit adraota, quod ibi hieme antelucanis temporibus aliqoot res cooficinnlar, cibus paratar ao capitur. Fa- ciuodum etiam plaustris, ac caetero instrumento omni, quibus coelam pluviam inimicam, in co­horte, a t satis magna sint tecta ; haec enim si in ­tra clausum in coosepto, et sob dio, furem mo­do non m etuunt, adversas tempestatem noceo* texn non resislaot. Cohortes ia fundo m a g n o

duae aptiores ; una, o t interius compluvium ha­beat lacum, obi aqua saliat, qui in tra stjlobatas cam venit, sit aemipisdna. Boves enim ex arvo aestate redacti hic bibant, hic perfunduntor ; nec raiaas e pabulo dum redierant anseres, sues, porci. In cohorte exteriore lacomesse oportet, ubi maceretur lupinum : item alia, quae demissa in aqoam ad usum aptiora fiunt. Cohors exterior crebro operta slrameotis ac palea ooculcata pe­dibus pecodom, fit ministra fundo, ex ea qaod ev eh a tu r. Secandum villam doo habere oportet sterqoilinia, au t unum bifariam divisam ; alte*

ma piuttosto in oo luogo elevato, perchè e s s e n d o ivi esposta ai venti, sopravvenendo qualche c o * « perniciosa, facilmente è trasportata altrove ( 7 ) .

Inoltre qael luogo, ch’è illuminato tolto il g io r n o dal sole, è più salnbre, perchè le bestioline, c h e nascono ne' contorni o che d ' altronde vi s o n o portate, o dal vento vengono portate a l t r o v e , ovvero per la t ic d t i muoiono tosto. Le p io g g e improvvise e che cadono eoo empito, come a n c o rai Borni rapidi (8) sono funesti per q u d li c h e hanno fabbricali gli edifizii ne' looghi basti e d incavati ; e tono pericolati allretì, perchè le ra­paci mani dei ladri possono facilmente sorpren­derci all' impensata. Dall1 uno e dall' altro ma­lanno possiamo g aard a rd fabbricando la villa ne1 luoghi elevati.

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CAPITOLO x m

CflB BELLA VILLA SI DEBBONO F0EMAB PRUSA I BO­

VILI, GLI OVILI, LE CARTINE, I TOBCXI DA VIBO,

DA OLIO, ED ALTBB COSE.

Nel fabbricar la casa di villa devesi aver at­tenzione che le stalle pe’ buoi sieno sitoate io quel luogo, in coi possono esser calde nel tempo d ' inverno (1). Devesi aver V occhio altresì che i fratti, com’ è il vino e V olio, possaoo ritrovarsiio istaaze sopra terra, così pure i torchi per (spre­mere il vino e 1' olio : inoltre devesi fare in gnisA che il frutto, quando è secco, ed il fieno si possa­no collocar sopra de1 solai (2). Bisogna procurare ancora che vi sieno due luoghi per la famiglia, in uno de' quali si ricovrerà o sia stanca per U fatica, o tormentala dal freddo, o dal caldo ; • nell1 altro ove possano coraodissimameote colla quiete e col sonno ristorarsi (3). La camera dei castaido bisogna che sia vicina alla porta, onda egli sappia chi entra e chi esce di notte, e vegga d ò ohe si porla ; e d ò rendesi necessario spe­cialmente se non vi è portinaio. Prim ieramente è da farsi che la cucina (4) non sia lontana da lui, perchè ivi in tempo d* inverno nelle ore to ­nam i dì si fanno alcuni lavori, si prepara il d b o , e si mangia. Bisogna ancora far nel cortile de i portici abbaslaoza grandi per riporvi i carri • tu tti gli altri attrezzi rurali, oode la pioggia oon arrechi danno ad essi : altrameoti se si rinchiu­dono soltanto nel recinto (5), e te si lasciano

esposti all' aria, corrono non solo rischio di estere rubali, ma ancora non potranno resistere ai cat­tivi tempi. Quando la tenuta è grande, faooo molto a proposito due cortili, uno dei qnali ab ­

bia una fossa esposta alP aria aperta, ed ove con­

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rata enim pariem fierri oportet e villa novam, ■lie ram veterem tolli in agmen ; qaod enim in- ie r tu r recens, m inaj bonam ; id cum flacuit* me­llas ; necnoo aierqailiniam mellas illud, cajas latera et tam m om virgis ac fronde vindicatam ab sole. Non enim sucum* qaem qaaerit terra* so­le ante exagere oportet, l taq ae periti (qai pos­sint ) a t eo aqaa influat* eo nomine faciant. Sic enim maxime retinetor sacus, in eoqae qaidam aelUs familiaricas p o n a n t Aedificiam facere opor­tet* sub qaod tectam totam fandi «abjicere posiis messem* qaod vocant qaidam nobilarinm. Id secandam aream faciundum* abi Iritaras sis fru ­mentum , magnitadine pro modo fundi ex ana pa r li apertam , et id ab area, qao e t in tritaram proroere facile possis* et si nabilare coeperit* in­de u t rorsos celeriter rejicere. Fenestras habere oportet ex ea parli* onde oommedissime perflari possit.

4*5

Fundanius: Frnetuosior, inqait* est certe fun­dus propter aedificia* si potias ad anliqaorum diligentiam* qaam ad borom laxariam dirigas aedificationem. Illi enim faciebant ad froclaum rationem* hi faciaat ad libidines indomitas, lta­q a e illorum villae rusticae erant majoris qaam urbanae* qaae nunc suut pleraeque contra ; illic laudabatur villa, si habebat culinam rasticam bo­nam , praesepias laxas, cellam vinariam et olea­riam ad modam agri aptam* et pavimento pro­clivi io lacum \ qaod saepe* ubi conditum novam

corra V acqaa piovana (6), e se vorrai che Ia fossa diventi ana piccola cisterna, vi porrai attorno dei piedistalli (7). Ivi i bovi* che ritornano dal campo in tempo di estate* beveranno e vi si bagneranno: così pare vi s*imbagneranno, quando ritorne­ranno dal pascolo (8) le oche, le troie e i porci. Nel cortile interno bisogna che vi sia ana segre­gata cisterna, ove si macerino i lupini, e tatto ciò che non paò essere acconcio pe’ nostri usi, se non dopo eh' è stato macerato nell* acqua (9). Il cor* lite esterno sarà continuamente coperto di strame e di paglia per essere calpestata dai piedi del be­

stiame* onde diventi concime, che si trasporterà poi ad ingrassare il terreno. Bisogna aver presso la casa di villa due letami, ovvero un solo diviso in due parti, nell' una delle quali si trasporterà il nuovo letame raccolto nella casa, e dall1 altra si leverà il vecchio concime per trasportarlo sul campo ; perchè non è troppo buono per le terrò quel letame che vi si trasporta ancora nuovo, e quello eh1 è infracidato è migliore (10). Quel letame inoltre è migliore eh’ è difeso dal sole la­teralmente e nella sommità per mezzo di rami e di foglie, perchò non bisogna che il sole lo spogli prima di quel succo, di coi la terra è avida. P e r la qaal cosa gli uomini periti* quando il possono* fanno sì che coll1 oggetto di conservarlo umido ivi concorra P acqua : di fatti in tal modo vi sì conserva ottimamente il suo sacco. A quest' og­getto pure certuni vi fabbricano per di sopra i cessi comuni (11). Bisogna che l’ edilìzio sia fatto in guisa che vi si trovi an laogo coperto detto da alconi porticale, sotto cui tu possa tenere a coverto tutta la messe della tenuta. Questo è da fabbricarsi in vicinanza dell’ aia, ove ta hai da trebbiare il grano ; sarà di una grandezza pro­porzionata a quella del podere ; • dovrà essere aperto in una parte, e in quel luogo che corri­sponde all1 aia, acciocché quando si sarà per treb ­biare la messe* ta possa di leggieri gettarla sul* l’ aia* e per contrario con prestezza ritiram ela sotto il porticale* se l ' aria principia ad anongo-» larsi (ia). Bisogna che 1*edilìzio abbia le fenestro volle a quella parte* da cui possa facilissimamen­te essere esposto al vento.

Egli è certo* dice Fundanio, che la tenu­ta reude maggiormente in grazia degli edificii ; massime se nel fabbricarli avremo in vista p iù la diligenza usata dagli antichi che il lusso dei nostri (13) ; imperciocché quelli facevano gli

•edificii proporzionati alla quantità dei f r a t t i ; laddove questi non guardano che alle loro sfre­nale passioni. Per la qual cosa le case ville­recce degli antichi erano di maggior prezzo che le loro case di campagoa, parecchie delle quali al presente sono per contrario di mag-

486DE RE RUSTICA LlB. 1.

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▼ in a n i, orcae ia Hispania fervore m atti ruptae, neque non et dolia io Italia ; item caetera ot es* aeot io Tilia hojuscemodi, qoae cultura quaere­re t, providebant. None con Ira T ilia m arbaoara qaam maximam ac politissimam habeant, daot operam : ac cum Metelli ao Luculli villis pessi­mo poblico aedificatis certan t: qno hi laborant,

o t specteot soa a e s t iv a inclinane ad frigos orien­tò , h i b e r n a ad solem occidentem, potius quam, yit a n tiq a i , in qaam partem cella T io a r ia aut olearia feneslras haberet, cam fructus ia ea vina- rios quaerat ad dolia a€ra frigidiorem ita olea­ria caldiorem. Item videre oportet, ai est collis ( nisi quid impedit ) a t ibi potissimam ponatur villa.

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CAPUT XIV

Q | )B P T If, Q O i> TUTANDI FCHDI CAUIA FI E U

DXBBANT, BT QUAUTIft*

Nane de aeplis, quae tatandi caasa fandi, aat

partis fiant, dicam. Earnm tatelaram genera iv ; ■n a m natorale, alleram agreste, tertiam militare, quartum fabrile. Horum nnnm qaodqae specie* habe! piares. P rim am naturale sepimentum, quod obseri solet virgultis aut spinis, qaod habet radices, ac (vivae sepis) praetereuntis lascivi non m eluct facem ardentem. Secanda sepes est ex agresti ligno, sed non vivit. F it aat palis statutis crebris, e virgultis implicatis; aut latis perforatis, ct per ea foramina trajectis longariis fere biais aut ternis : aut ex arboribos truncis demissis in terram , deinceps eonstitutis. Tertiam militare sepimeotum est fossa, et terreos agger ; sed fossa ita idonea, si omnem aqoam, qoae e ooelo venit, recipere potest, aut fastigium habet, u t eieat e

gior p re tto delle case rustiche. A que’ tem pi ai lodava una casa rusticana, se aveva una buona rustica cucina, se le stalle erano vaste, se la can­tina e il cellario da olio era proporzionato alla grandezza della tenuta, se la cantina era fornita di un pavimento, che pendesse verso uoa fossa» ove potesse raccogliersi il vino, perchè sovente accade che quando il ooovo vino si è rinchiuso* net bollir che fa, rompe non solo gli orci in Ispa- gna, ma ancora le botti in Italia ( i 4)« Final menta eglino avevano tutta le cura cbe la casa villeree» eia fosse provveduta di tutto qoello eh’ era ne­cessario per la coltura. Ora all' opposto i loro stadii sono rivolti a far si che la loro casa di cam­pagna sia grandissima ed elegantissima, e vanno a gara con quelle che Metello e Lncollo hanno fabbricate oon grande seandalo della Repubblica, perchè i moderni aono intesi a rivolgere i loro tinelli di estate al fresco dell’ oriente, a ^oeltt d ’ inverno al tram ontar del sole, piuttosto eha fare, in pari modo degli antichi, che nell* una a nell’ altra piaggia si trovino le fenestre della can­tina, ò del cellario da olio, quando che se il vino rinchiuso nelle botti fosse esposto alla prima piaggia, godrebbe un ' aria fresca, di eui abbiso­gna, e similmeote l'olio sarebbe esposto nella se­conda ad un 'a ria piò calda, di cui è amante (i5). È da vedersi inoltre se nella tenuta siavi una col­lina per piantarvi specialmente la casa rusticana, quando non siaovi impedimenti che vietino d i fabbricacela (16).

48«

CAPITOLO XIV

D ii x s c in t i c n ai d b b b o io f a s e a m o t iv o d i

D1FBBDB1 LA TBVUTA, ■ I l QUAL MABIBAA SONO

DA FOBMA1SI.

Ora dirò delle chiusure che si fanno a motivo di mettere in sicuro o tu tto il podere, o ona parta del medesimo. Questi recinti sono di quattro spe­cie : uno è naturale, l ' altro campestre, il terzo militare, e il quarto artifiziale. La prima clausura, che io chiamo natorale, è quella che suolsi for­mare piantando virgulti o sp ine; e perchè è

fornita di radici e di una siepe vegetante, perciò non teme le fiaccole accese dell’ insolente p a t-

MfSero (0* U seoondo recinto, e h 'è di qualità campereccio, è tratto dal legno, ma non vegeta (a). Questo si fa o piantando de 'pali spessi e in tro ­mettendovi de' virgulti, ovvero si pun tano la rg h i e si traforano, e dentro i fori si introducono d u e o tre perticoni; ovvero sia si forma coi t ro n ch i degli alberi distesi per terra e insieme uniti (3).

M. TLRENT1I VARRONIS

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4*9 DE RE RUSTICA LID. I. 4 9 0

fondo; agger i t^ o n o t, qui iotriosecas j a octus fossa, «ut ite ardbtv , ut eam rranscendere non sit facile. Hoc geout «epe* fieri secundum vias publicas soleat, et secundum amoes. Ad viam Sala­riare, io agro Crutiumioo, videre licei lo d i ali- qoot coojunclos aggeres cum fossis, ne flumen agris noceat. Aggeres qqi faciunt sine fossa, eos qaidam Yoctnt muros, ut in agro Reatino. Q uar­tam fabrile sepimenturo est novissimum, maceria: hajus fere species quatuor ; quod fiunt e lapide, ut in agro Tusculano; quod e lateribus coelili­bus, ut in agro Gallico ; quod e lateribus eradit, u t in agro Sabino ; quod ex terra , et lapillis com­potitis in formi*, ut in Hispania, et agro T a ­rentino.

CAPUT xv

Ad q u id i i v i i T i i u r b s .

Praeterea tino septit fines praedii, sationis, no lit arborum lulioret fiunt, ne familiae risenlur cum vicinis, ac limiles ex lilibns judicem quae­rant. Serant alii circum pinos, u t habet uxor in Sabinis ; alii cupressos, ut ego habui in Vesuvio ; alii ulmos, ut multi habent in Crustumino : quod ubi id pote, a t ibi, quod est campus, nulla potior terenda, quod maxime fructuosa, quod et tasti- net tepem, ac colit aliqnot corbulas uvarum, et frondem jucundissimam ministr»! ovibus ac bu ­bus, ac virgas praebet sepibus, et foco, ac furno. Scrofa ; Ig itu r primum haec, quae dixi, quatuor videnda agricolae; de fundi forma* terrae natu­ra, de modo agri, de finibus tuendis.

AI. T ia a m o V abbove

II terzo ricinto è il militare, ed è o d fosso e un argioe di terra ; ma il fossato è buono a questo effetto se può ricever tutta la pioggia, ovvero s’ è un poco in pendio, onde I’ acqua esca fuori del- F alveo. Q ueir argine poi è buono, che esterna­mente ha unito un fosso, e eh' è tanto alto, che non sia facile il saltarlo (4). Questa tpecie di chiu­sura suolti fare lungo le strade pubbliche e h fiumi. Nella strada Salata, nel territorio di Pa­lomba r a, si possono vedere in alcuni luoghi gli argini uniti ai fossi, acciocché i campi oon sieoo danneggiati «lai fiume (5). Gli. argini senza fosso tono chiaaaati da alcuni m ari, come nel territorio di Campo Pendente (6). Il quarto ed ultimo re­cinto è l'arlifiziale, ed è fatto di mura, delle quali ve ne tono pretto a poco di quattro tpecie; perohè te ne fanno di pietrer come nel territorio Tusculano; o di mattoni colti, come nel territorio Gallico ; o di m attoni cri^di, come nel territorio Sabino ; o di terra mista a sassi riposti tra due tavole, come nel territorio Spagnuoloe in qoello di Taranto (7).

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CAPITOLO XV

A CHS OGGETTO SONO ITATI 15VB1VTATI I B1CIHTI.

Si postono ancora tenta chiusure m ettere in sicuro i confini della teouta, o di una porzione di terreno, piantandovi degli alberi, i quali ser­viranno a fissarne i confini, onde tra quelli della famiglia e i vicini non abbiano ad insorgere risse, ed acciocché pò* F incertezza dei confini non si sia obbligati di ricorrere al giudice (1). Piantano alcuni attorno i rido li dei pini (a), come ha fallo mia moglie nel territorio Sabino: altri de1 cipressi, coroc io feci presso il Vesuvio (3): altri degli olmi, come molli hanno fatto nel ter­ritorio di Palombara; il che, ove sia postibile a farti, come in quest*ultimo territorio eh* è posto in pianura, F olmo è da preferirsi (4), perchè è l ’ albero che rende più di tutti, per la ragione che e* sostenta la chiu tnra , e ta quell* albero ti collivan delle vigne che rendono alcuni corbel­loni di uva (5), e somministra frondi le più gra­dile alle pecore e ai bnoi, e fornisce rami pei r i ­c in ti , pel fuoco e pel forno. Scrofa: Dunqne primieramente F agricoltore deve esaminar le q u a ttro cote, delle quali ho parlato, cioè la forma del podere, la natura della terra, la tua eiteotio- ne, e la ticurezza dei confiui (6).

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49' M. TERENTII VARRONIS 4 9 *

CAPUT XVI

D* BIS QUAS K1TBA FtJBDOM COMMODA FIAHT, AUT

IICOMMODA.

Relinquitor altera pars, q n e est extra fan­dam. Cajas appendices vehementer pertinent ad celtaram propter affinitatem. Ejus species toti­dem : si Ticina re fio est infesta; si qae oeque f r a ­ctos exportare expediat, neque inde, quae opus sont, apportare ; tertiam , ai viae aat flo vii qua porU ntnr, aut non suot, aut idonei n#n suot ; quartam , si qaid ita est in confinibns fundis, ut nostris agris prosit aat noceat. — G qoeis quatuor, quod est primam , refert, infesta regio sit, necne: mnltos enim agros egregios colere non expedit, propter latrocinia vicinorum, ut in Sardinia quos­dam qui sunt prope Cqliem, et in Hispaoia p ro ­pe Lusitaniam.

Quae vicinitatis invectos habent idoneos, qoae ibi nascuntur ubi vendant, ct illinc inve­ctos opportaoos ad ea, quae io fondo opus sont, qood proptefea sont fructuosa. Mulli enim ha­b e n tia praediis, quibus frumentum, aut vioum, aliudve quid desit importandum : contra, non pauci, quibus aliquid sit exportandutn. Itaque sub orbe colere hortos late expedit, sic violaria ac rosaria, item multa, quae urbs recipit, cum eadem in longiuquo praedio, obi non sit quo deferri possit venale, non expediat colere- liem, si ea oppida aul viciniae, aut etiam divitum co­

piosi agri ac villae, unde non care emere possis, quae opus soni in fundum, quibusque, quae su­persint, venire possiat; ut quibusdam pedamen­ta, aat perticae, aul arundo ; fructuosior fit fun­dus, quam si longe sint importanda, nonnunquam etiam, quam si colendo in Ino ea parare possis. Itaque in hoc genas coloni potius anniversarios habent vicinos, quibus imperant medicos, fullo­nes, fabros, quam in villa suos habeanl : quorum nonnonquam unius artificis mors tollit fundi fractum : qnam partem latifandis divites dome­sticae copiae mandare solent.. Si enim ab fundo longius abfant oppida aut vici, fabros parent, quos habeant iu v ilh : sic caeleros u e cessa rios artifices, oe de fuodo familia ab opere discedat, ac profestis diebus ambulet feriata potias, quam opere faciundo agrum fructuosiorem reddat. Ita-

CAPITOLO XVIDtQUXLLB c o s i CSBTBOTA99I HJOBI DELLA T E M I7TA,

B CHE AIBBCAKO COMODO BD (SCOMODO.

Resta a esaminarsi V altra parte, la q a a le si aggira sopra eiò che trovasi fuori del podere ; le coi appartenerne esteriori per P intima connes­sione ehe hanno colla coltura, v* influiscono m ol­lissimo. Questo artioolo si divide io tante parti, quanto il primo. Bisognerà esaminar se il vicino paese alberghi malandrini : se questo sia un paeae, in eui non ci lorni conto portarvi i nostri fra tti , nè trarne quanto ci farà mestieri ; in terzo luo­go, se non vi sieno strade o fiumi, col m e n o dei quali agevolare il trasporlo dei fra tti ; o se par vi sono, se sieno al caso : in quarto luogo, se ne' poderi limitrofi vi sieno cose che giovinoo nuocano alle nostre tenute. — Quanto alla pri­ma di queste quattro parti, è importante il sa­pere se il vicino paese sia infettato da malan­drini, o no, perchè non giova talvolta coltivar molte eccellenti terre pei ladronecci dei vici come sono certe terre nella Sardegna in vici­nanza a Celie (i), e alcune altre della Spagoa

presso il Portogallo.Quanto alla seconda, bisogna esaminare se le

terre abbiano comuuicazioni facili coi paesi allo intorno, ove portarvi a vendere i fratti cbe na­scono nelle medesime, e da quelli trarre qoelle cose che fanuo di bisogno nella tenuta ; nel qual senso le terre riescono utili (a). Perchè molti abi­tano in terre (3), nelle quali bisogna portar bia­de, vino, o altre cose, delle quali mancano : per contrario a1 tri abitano in terre, dalle qu*li si possa trarre alcuna cosa. Per lo che giova mol­lissimo coltivare i giardini in viciuauza della città : cosi pore piantarvi delle viole e delle rose, e molti altri fiori che si smerciano in città : al-’ l 'incon tro non tornerebbe conto coltivare i fiori in una terra lontana, ove non vi fosse un luogo, in cui si potessero portare per venderli. Simil­mente se le città, o i paesi viciui (4)i ovvero anche se le terre e le ville vicine souo popo­late di persone ricche, dalle quali si possano comprare a non caro prezzo quelle cose che fanno di bisogno nella tenuta, e alle quali pure si pos­sano vendere quelle cose che sono superflue, come vendere ad alcuni o de' pali, o delle per­tiche, o delle esime ; in tal caso la tenuta è più utile di quello che lo sarebbe, se si fosse io ne­cessità di procurarsi le cose bisognevoli molto luugi; e alle volle sarebbe anche più utile, an­corché quanto fa di bisogno nel podere, si ri­traesse per mezzo della coltivazione dal fondo

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qne ideo S u e r u e li ber pneeip it, ne qais de faodo e x u t p h e te t vificua et promana, et onora, qaem vilicus leg it : ti qais coatra exierit, ne irapaoe abeat ; si abierit, vi in filicara ani­madvertatur. Qaod p o t in s iu praecipiendam fait, ne quis iojassu filici exierit, neque vilicas in­jussu domini loogias, quam a l eodem die re­dierit, aeque id crebrius, quam opus esset fondo.

te»

T er fio eandem fandura fruclaosiorem faciant veci arae, si vite sant, qua plaustra agi facile pos­sint ; aa t flamina propinqua, qua navigari possit: quibus atrisqae rebus evehi atque inveht, ad mulla praedia sci mai. — Q uarto refert etiam ad fructus, quemadmodum vicinas in confinio con­sitam sgram habeat : si enim ad limitem qoer- oetum habet, non possis recte secandum eam sil~ v a n serere oleam, qood usque eo est contrarium oatora, a t arbores non solum minas ferant, sed etiam fagiani, u t inirorsam io fundum se recli­nent, ut vitis adsita ad olus facere solet : a t quer- eas, sic juglandes magnae et crebrae finitimae, fuudi oram faciant sterilem.

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del medesimo. Così i proprietarii delle terre, che godono quest’ avvantaggio, amano stipendiar, per cosi dire, all’ anno i loro vicini, onde questi somministrino ad essi, qaaodo il dimandano, i medici, i tintori e gli operai, piuttosto che man­tenerli a proprie spese nella villa (5), perchè alle volle la morte di an operaio fa perdere tutto il profitto della tenuta : laddove i ricchi, che pos­seggono tenute estese, hanno ordinariamente al loro comaodo quegli operai (6). Ma se il po­dere è troppo lontano dalle città o dai borghi, hisogna necessariamente mantener nella villa gli operai, e coti pare ogni specie di artigiano ne ­cessario, acciocché si eviti che gli operai ooa abbandonino il lavoro della tenuta, e che nei giorni di lavoro non vadano a passeggiare oo- rne se fosse festa, in veoe di rendere fruttifero il terreno per mezzo della fatica. Per questo appunto Saserna ordina nel sao libro ohe nes­suno esca fuori del podere, tranne 11 castaido, quegli che fa le provvisioni (7), e chi avrà scelto il castaido per agire una qualche còsa. Se alcuno uscirà non ostante che gli sia proibito, vuole che sia punito ; e se non ritorna p iò ,che il ca­staido abbia a portarne la pena. Ma avrebbe do­vuto piuttosto ingiungere che nessuno non avesse ad uscire della tenuta senza ordine del Castal­do, come altresì che il castaido non avfcsse ad uscirne senza ordine del padrone, nè che dovesse andar più lungi, onde non avesse a rito rnar nel- l’ islesso giorno, nè più frequeotemente di quello che ricercasse il bisogno della tenuta.

In terzo laogo la oomodità del Iràsporto fa si ohe il fondo sia più utile (8), come se le strade sono tali, che i carri vi possano facilmente scorre­re, o se i fiumi vicini sono navigabili. — Io quarto luogo il profitto di ana terra (9) dipende incora dalla maniera, con cui il vicino ha piantato l i sua sai eoo fini della tua ; imperciocché se ani confine trovasi piantato un querceto, tu non fa­rai saviamente a piantar presto il medesimo l’ ulivo, essendoché qoeste due specie di alberi ^000 tanto reciprocamente contrarie, che non solo gli alivi renderanno meno, ma aocora fug­giranno la vicinanza delle qaerce io guisa, che ai ripiegheranno verso la tenota, come h l i vigna piantata presso il cavolo (10). L* effetto che producono le qaerce, lo prò decono pare anche le noci, le quali, se sono grandi, e te molte se ne sono piantate sull’ estremità del Ibrido, lo rendono sterile (11).

49*DE RE RUSTICA LÌB. I.

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495 M. TERENTII VARRONIS 49«

CAPUT XVIIQ u ib u s b e b u s a g i i c o l a r t i?*.

De fundi i? partibus, quae cam solo haereat, et alteris it, quae extra fundum suut, et ad cul­turam pertinent, dixi. Nunc dicam agri qnibua rebus colantor: quai res alii d m d u u t in duas

partea, in homines, et adminicula hominum, sine quibus rebus colere non possunt. Alii in tres paries instrumenti genus vocale, et semivocale, et mutam : vocale, in quo sunt servi, semivocale, in

quo sunt boves, mutum, in qoo suot plaustra. Omnes agri coluntur horaioibus servit au t libe­ris, aut utrisqoe. Liberis, au t cum ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie ; aut mer­cenariis, cum conducticii* liberorum operis res

majores, u t vindemias, ac foenisicia administrant: iiqoe quos obaeratos uostri vocitarunt, et etiam nunc sunt In Asia, atque Aegypto, et iu Illyrico comploret.

De quibas universis hoc dico: Gravia loca utilius esse mercenariis colere, quam servis, et in salubribus quoque locis opera rustica majora, ut saot in condeodis fructibus vindemiae, aut messii. D e his cujosmodi esse oporteat, Cassius scribit haec: Operarios parandos esse, qui laborem ferre possint, ne minores aonorum xxn, et ad agricul­turam dociles. Eam conjecturam fieri posse ex aliarum rerum imperatis, et more incolarum e novitiis requisito, ad priorem dominum quid factitarent. Mancipia esse oporlere aeque formi­dolosa, neque animosa. Qui praesint esse oporte­re, qui literis, aliqua sint hnm anitale imbuti, frugi, aetate majore, quam operarios, quos dixi: facilius enim his, quam minoribus natu sunt di­cto audientes. Praeterea potissimum eos praeesse oportet, qoi periti sint rorum rusticarum; non solum enim debere imperare, sed etiam facere, ut facientem imitentur, et ut animadvertant eum cam causa sibi praeesse, quod scieutia praestet et usu : neque illi concedendum ila imperare, ut verberibus coerceat |>otius quam verbis, si modo idem efficere possis. Neque ejusden) naiiouis plu­re» parandos esse , ex eo eoini potissimum solere offensiones domesticas fieri. Praefectos alacriores faciundum praemiis, dandaque opera, u t habeaut

c a p it o l o x v nDi q u e l l e c o s e c h e sono v e c e s s a b ib p b b t*a

COr.TIVAXIOFB d e l t b b h e r o .

Fino ad ora ho parlato di quelle quattro d e l l a teuula, che riguardano il suolo, come a ltresì d i quelle altre quattro parli che hanno re lazione a quanto v’ è fuori del podere, e che eg u a lm en te appartengono alla collivaiione ; al presente t r a t ­terò di quelle cose che si adoperano per c o lt iv a r la terra (i) ; le quali alcuni dividono io due p a r t i , cioè in uomiui, ed in cose che aiutano gli uom in i, e senza le quali non possono coltivar la terra . Altri le dividono in tre parti, cioè in istrom en to vocale (2), io semivocale e muto. Nel vocale vi entrano i servi, nel semivocale i buoi, e nel m utoi carri. Tutti i campi sono coltivati o da uom ini schiavi, o da liberi, o dagli uni e da/li altri : si coltivano dai liberi, sia quando essi m ede­simi collivano il proprio p o d e re , come fanno parecchi poverelli unitamente alla loro figliuo- lanza, sia quando si prendono mercenarii, sia quando si prendono a giornata uomini liberi per far più gagliardi lavori, come le vendemmie e il tagliameulo dei fieni, sia quando si prendono quelli che i nostri antichi chiamarouo indebi­tali (3), e dei quali ve ne sono molti anche al di d’ oggi in Asia, in Egitlo e nellMIlirio.

Generalmente parlando di tutti questi lavo­ratori, dico essere più utile che i luoghi malsani sieno coltivati dai mercenarii, che dagli schia­vi (4), e che quelli sono da adoperarsi aoche nei luoghi sani, quando nella campagna sieno me­stieri lavori gagliardi, come sono la raccolta dei frulli della vendemmia, o delle biade. Cassio {5) scrive che bisogna in queste sorte di genti si tro­vino queste qualità. Essere mestieri provvedersi di quegli operai che possano sostener la fatica, che non abbiano meno di venlidue anni, e che sieao idonei per l’ agrieoi torà (6). Si potrà congetturare se sieno atti per i'agricullura, comandando ad essi opere di un altro genere (7), e ricercando a que­sti nuovi operai quali faccende abbiano eseguite nell* agricoltura presso il loro primo padrone (8). Gli schiavi non bisogna che sieno nè troppo pau-' rosi, uè troppo coraggiosi : quelli che presiedono, bisogna che sappiano scrivere e che abbiano una qualche cognizione (9), che sieno ouesti e di mag­gior età degli operai, dei quali ho parlalo ; per­chè quelli di maggior età obbediranno più facil­mente che i giovani il padrone (10). Inoltre b i­sogna destinare a capi quelli che sono peliti nelle cose rusticane ; poiché non debbono aoltauto co ­mandare, ma ancora agire, acciocché la famiglia

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497 DE RE RUSTICA LIB. I. 49»peculi ino, e t eonjonelas conservas, e quibus ha- beant filios: eo enim fiunt firmiores, ac conjun­ctiores fundo. Itaque propler has cognationés Epirotieae familiae saot illustriores ac canores. Ad iojicieodam foluptatem hia praefecturae, ho­nore aliquo habendi anot : et de operariis, qoi praestabunt a l iq u i , commooicaodum quoque cum iis, qoae faciunda soot opera; quod ita cum fit, minus ae putaut despici, alqne aliquo numero haberi a domino. Studiosiores ad opus fieri libe­ralius tractando, aut oibariis,aut vestita largiore, aut remissione operi*, concessioneve, u t peculiare aliquid in fundo pascere liceat, aa t hujuscemodi rerum aliis, u t quibus quid gravius sit impera­tum, au t animadversum, qui consolando eorum restituat voluntatem, ac benevolentiam in do­minum.

--«o*--

CAPUT x v m

Db u n n o f a m i l i a s b c s t ic a l is , q u o t o p i e i s q u is -

Q O I AGEB COLI POSSIT, BT N ISO DO CUJUSQUE.

De familia : Cato dirigit ad duaa roetas, ad certum m odum agri, et genua sationis, scribens de olivetis e t vinetis u t duas formulas; unam, in qua praec ip it quomodo olivetum agri jugerum c c i l in struere oporteat. Dicit enim in e o modo haec, m ancipia xjui habenda, vilioum, vilicam, operarios v, bubulcos ui, asinarium i, subulcum i, opilio nem i. Alleram formulam scribit de vinea­rum jugeribus centum, ut dioat haberi oportere baec: xv saaaeipia, vilicam, vilicam, operarios x, b o b u k n m , asinarium, subulcum. Saaerna scribit, satis esse ad jugera vm hominem uaum ; ea de*

vedendoli operare, li imiti ; come altresi perchè oonosca che quegli il quale si è destinato a suo capo, lo è io grazia del suo maggior sapere ( i t ) . Nè a questi capi è da permettersi che comandi­no in guisa, che facciano uso piuttosto del b a ­stone , che della voce. B ( quando ciò si possa ottenere ) bisogna schivare di aver molti lavora­tori della medesima nazione, perchè ciò suole d ’ ordinario dar origine alle contese domesti­che (ia). Bisogna animar l’ attività dei capi con premii, onde eseguiscano quelle cose che loro fu­rono comandale (i 3). È mestieri procurare inoltre che abbiano del danaro e che si ammoglino eoa conserve, affinchè abbiano de’figli; poiché eoo tal mezzo diventano piò strettamente attaccati al fondo : e perciò io grazia di cotali parentadi gli schiavi dell’ Epiro sono celebri e di caro prezzo. Bisogna creare in questi operai la spe­ranza di un qualche onore, e che qoelli, i quali si distingueranno piò degli altri, potranno giu- gnere anche ad essere capi: bisogna pure con­sultar coi medesimi intorno ai lavori che sooo da Carsi ( i4); il che facendosi, pensano che non sieno tanto da diaprezzarai, e che dal padrone ai tengano in qualche considerazione. Si rendono piò amanti del lavoro trattandoli più liberalme&leo nel cibo, o nel vestilo, o sollevandoli aleuna volta dalla fatica, o permettendo che nella tenuta possano far pascolare qualche bestia che sia loro propria, e altre oose di tal fatta ( i 5), acciocché quando ad essi avrà comandato qualche lavoro troppo pesànle, ovvero quando gli avrà corretti troppo severamente, abbiano on qualche sollievo che li consoli, e che rianimi io essi la loro buona volontà e benevolenza verso il padrone \i6).

c a p it o l o x v m

D b l r u m b b o d e l l a f a m ig l ia b u s t ic a h a : co ir

QUAffTE OPEBB SI PUÒ COLTIVABB OGflI TEB­

BERO : E QUAL BEGOLA K DA USABSI IH OG1TUHO.

Catone si era p r e f i s s o due scopi intorno il n u m e r o della famiglia ; guardava cioè all’ esten- aione della tenuta, e al genere di*coltivazione, cui era desliuala ; e propose il numero di peraone per 1’ oliveto e pel vigneto, quali formolo per ogni altra specie di terreno (i). NeU’una prescri­

ve il numero delle persoue, delle quali bisogna fornire un oliveto di c c x l iugeri. Egli dice, che, data questa estensione, si debbono aver x in schia­vi, cioè uu castaido, una castalda, v operai, in bi­folchi, i asinaio, i porcaio, i pecoraio (a). I / altra formola che prescrìve, riguarda un vignaio di

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499 M. TERENTII VARRONIS 5oo

bere e a m o o n f o d e r e diebus x l i , tam tlfi quaternis operit lingula jugera poistt ; sed relinquere se operat m i , valetudini, tempestati, ioertiae, indul­gentiae. Licio i a t : Horum neuter talis dilucide modulos reliquit nobi<. Quod Cato si voluit (ut debuit) uti proportione, ad raajorem fundum ?el minorem ndderemui vel demeremus, extra fami­liam debuit dieere vilicum et vilicam. Neqoe enimii m k i a t o c x l jugera oliveti 'colas, non possit n in u t uno vilieo habere : nec si bis tanto amplio­rem fundam, aat eo plut colas, ideo duo vilici, au t tret habendi fuere. Operarii modo et bubulci pro portiooe demeudi vel addendi, ad minores m ajorette modot fundorum ; hi quoque ti timi Iit e tt ager ; n o e tt ita dittim ilit, d t totus arari non

p on it, u t ti «it eonfragotut, alqae a rd u u t clivis, minus mulli opus tu n t boves et bubulci. Mitto iUud, quod modum, neque unum, nec modicum proposuit c c x l jugerum. Modicut eoim centuria, el ea cc jugerum, e quo qaum texla pars i i t ea x l ,

quae de c c x l demunlur, noo video quemadmo­dum ex ejut praecepto demam sextam partem : et de xiii mancipiis nihilo magis si vilicum et vilicam removero, quemadmodum ex xi Sextam partem demam. Quod autem ait iu c jugeribus vinearum opus esse xv maocipia, ti qu it habebit centuriaro, quae tit dimidium vioeti, dimidium oliveti, sequetur, u t daos vilicot, et duas vilieat habeat: quod e tt deridieulum. Q uars alia ratione modus mancipiorum geoeratim est animadver­tendus, e t magis in hoc Saserna probandus, qui ait singula jugera quaternis operis uno operario ad conficiendum talitetse. Sed ti hoc in Saieroae fundo in Gallia ta lit fuit ; non continuo idem in agro Ligustico moutauo.

Itaque de tamiliae magnitudine, et reliquo instrumento commodissime scies, quantum pares, si tria animadverteris diligenter. In vicinilate praedia cujutmodi ftiut, et quanta, et quot quae­que hominibus eohtntur; et quot additis operit aut demtis melius, aut deterius habeas cultum. Bivium enim nobis ad culturam dedit natura, experientiam, et imitationem. Antiquissimi agri­colae tentando pleraque oonstitueront, liberi e»* rum magnam partem imitando. Hot utnunqoe

cento ingeri, e dice che fanno mestieri xv s c h ia ­vi (3) : un castaido, una castalda, 1 bifolco, i a si­naio, i pecoraio (4). Saseroa scrive che p e r v i t i

ingerì è sufficiente mi uomo, e che dève lav o ra rli co irò x l t giorni, quantunque in quattro g io rn a ­te ti possa lavorare ogni iogero (5) ; ma egli d ice che lascia da parte xm giornate pèi casi di m ala t­tia, di cattivò tempo, di svogliatezza e di rip o so . Licinio : Nessun per altro di questi due au to ri ci hanno lasciate formolo abbastanza chiare (6). C h e se Catone ha voluto (come deve averlo voluto) che la formola foste iu proporzione della m aggiore, come pure della minor estensione del te rren o , debbonti donque accrescere e dim inoir gli o p e ­

rai. Inoltre non deve aver computato tra la fami­glia nè il castaido, nè la castalda (7). Imperciocché te la devi coltivare un oliveto minor di c c x l in ­geri, non potrai far di meno di nou avere almeno uu castaido; nè te tu coltiverai un podere dueo tre volle piò graude, devi perciò avere due o tre castaidi. Per lo più gli operai e i bifolchi ti debbono accretcere in proporzioue della g ran ­dezza del fondo (8). Parimente il numero di que ­sti deve adattarti alla minore e alla maggiore ettentione dei fondi, purché il terreno iia simile per tutto ; ma te poi è cosi dissimile, cbe non posta ararti in tutte le tue parti, per easer pie­troso e in terro tto da montagne, in allora si ri­cercano più pochi buoi e bifolchi (9). Ciò inter­pongo, perchè proponendo c c l x ingeri per misura comune, non si è punlo servilo d1 uoa misura che avesse un nome noto, ed ha ecceduto i limiti della più graode pottettione (10) ; perchè la pos­sessione la più forte è la centuria (11), e<f essa è di cc iugeri : ora te per formar questa ti levano via x l iugeri, che tooo il tedicetimo della m itora di c c x l , io oon veggo, fecondo it metodo di Ca­tone, in qual mauiera potrei levare la sesta parte dai xm schiavi, conia nemmeno da xi, postochèio levassi dal xm il cattaldo e la castalda. Quello pai, eh’ egli dica riguardo ai c iugeri di vigne, pei quali fanno mestieri xv tohiavi (ia), sa alcuno avesse una centuria, di cui una metà sia a vigne, e l 'a l t ra ad olivi, ne seguirebbe che dovrebbe aver due castaidi o due castalde (i3) ; il che è ana ridicolosità.

Laonde in altra maniera bisogna determinare in generale il numero degli schiavi 9 ed in ciò è

da lodarsi maggiormente Saserna, il qaal dice che per lavorar on iogero è sufficiente un solo opera­rio, il quale vi lavori dietro quattro giornate (i{).

Ma te ciò aoeadde alla tenuta di Saserna situata nella Gallia (15), non perciò lo stesso succede nel terreno naentuoso Ligustico (16). Sicché intorno al numero della famiglia e ad ogn1 a ltro i n s t i» mento saprai molto bene qoal mi cacto sia mestieri

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facere debemus, e t im itari alio», e t aliter o t Cada­m iu experientia tentare qaaedam , sequentes ooa altana, sed rationem aliquam: u t si altios repasti­naverim us, aut minus, qoam aliiv quod momenw (um a re i hebea t; u t fecerunt ii, in sariende ile rum , el tertio, et qui insitiones ficaloa» ex verno tempore in aeitjvaiB c o n ta k m n t

5oi

CAPUT XIX

Q dOT JUGA BOUM S1RGDL1S JUGEEIBUS SA T U SI0T ;

q o o d ì a r r a o M E a ru M a o e b s t b s e m iv o c a l i b u b -

C O H T D B .

De reliqua parie instrumenti, quod semivo­cale appellatur, Saseroa ad jugera cc arvi, boum j o g a duo satis esse scribit. C ito in olivetis c c x l

jogernm, bovts trioos : i u fit, u t Sa»erna dicat verum, a«l ceolum jugera jugum opus esse, ai Gaio, ad octogena. Sed ego ueutruni ho rum ad omnem agrurn convenire palo, el ulrum que ad aliquem, alia enim terra facilior aut difficilior est alia. T erram boves proscindere oisi magnis viribus non possunt, el uepe fracla bura relin­quunt vomeres ia arvo. Quo sequeudnm nobis

ia singulis fundis, dum sumus novicii, triplici regula, superioris domini iustiluto, et vicinorum, et experieutia quadam. Quod addit asiuos, qui

stercus vectent, treis, asinum molarium, in vinea jugerum c jugum boam» asinorum jugum, asi­num molariam : in h»>c genere semivocalium, adjicieodum de pecore, ea sola, qoae agri colendi causa e run l, u t solent esse pecuaria, pauca ba- benda, quo facilina mancipia, quae solent se (ae­ri, et assidua esse posiiot. In eo numero non modo qui prata habenl, u t potias oves quam sues habeant, curant, sed etiam qai prata non habent, quia non solum pratorum causa habere debent, sed etiam propter stercus*

■'«8» 1 ■

provvedere, se diligentemente farai attenzione a tre cose (17) ; cioè di qaal natura e di qual esten­sione sieno i poderi vicini ; e con quanti uomini si coltivi ognuno di questi ; e quanti aggiungen­done, ovvero quanti togliendone, si reoda la col­tivazione migliore, o più cattiva. Imperciocché la natura ci ha mostrato il bivio da seguirsi nel- l’ agricoltura, T esperienza e l’ imitazione. Gli antichissimi agricoltori hnnno stabilito molte re ­gole collo sperimentar molle cose, e i loro figli ne hanno stabilite una gran parte imitandoli. Noi dobbiamo fere Funo e P altro ; e imitare gli altri, e far qualche saggio da noi stessi, onde trovar nuove cose. Non dobbiamo per altro camminare a caso, ma esser guidati da una qualche ragio­ne (18): per esempio se tornando a pastinare piùo meno (19) profondamente degli altri, quale uti­lità indi ne ridondi. In pari gaisa sperimentarono quelli che sarchiarono e le due e le tre volle, come pure fecero quelli che differirono gP innesti dei fichi dalla primavera all* estate.

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CAPITOLO XIX

Q o A S T l O lO f t l I DI BUOI s o n o SUFFICIENTI P I I O O ll

n JG E E O , OSSIA QUARTI STBUMEBTl CHIAMATI SE­

MIVOCALI FA *HO MESTI E l i .

Riguardo agli altri strumenti, che si chiama­no semivocali, Saacrna scrive che per cc iugeri d i terreno sono sufficienti due gioghi di buoi. Catooe dice ohe in na oliveto di c c z l iugeri fanno mestieri Ire gioghi (1) di booi ; quindi ne nasce che, se crediamo a Saserua (a), basta on giogo per cento iugeri, e se a Catone, on giogo ò mestieri per soli ottanta (3). Oda io peuso che nè l*una nè l'altra formola di questi convenga a qual­sivoglia terreno (4), e che siauvene alcune, alle quali convenga o 1’ una o P altra ; imperciocché vi sono alcune terre più facili a coltivarsi, come d'altronde ve ne sono altre più difficili (5). Alcu­na voltai buoi non possono rompere ona terra,se non con grandi sforzi, e sovente rompendosi gli aratri, lasciano il vomere nella terra. Per la qital co n in tutti quei terreni che ancora non cono­sciamo, dobbiamo stare attaccati a tre regole, cioè alla pratica del precedente padrone, a quella dei vicini, • teular qoalcbe sperienza. Rispetto a quello che Catone aggiunge, che nell’ oliveto bi­sogna aver tre asini che portino il letame, e un asino per moliuo (6), e che uel vigneto di c iu ­geri è mestieri di un giogo di buoi, di un giogo di asini e di un asino pel molino, parlaodo di questi strum enti semivocali avrebbe dovuto

5oaDE RE RUSTICA LIB. 1.

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5o3 M. TERENTII VARRONIS 5o4

CAPUT XX

D * ELIGENDIS BUBUS, DB MODO PROBANDI BT

EDOMANDI NOVELLOS JUVENCOS.

Igitur de omnibus qaadrnpedibas prima est probatio, qai idoDei sint boves, qui arandi causa em aotur, qaos radis, neque rainoris trimos, nc­que roajoris quadrimos parandum ; u t viribus magni siot, ac paret, ne in opere firmior imbecil­liorem cooficiat: amplis cornibus, et nigris potias quam aliter : u t sint lata fronte, naribns simis, lato pectore, crassis coxendicibus. Hos veterauos ex campestribus locis non emendam in dura ac m ontana : nec non, ita si incidit a t sit, vitandum. Novellos cam quis emerit juvencos, si eorum colla in furcas deititutas incluserit, ao dederit cibam, diebas paacis erunt mansueti, et ad do­mandum proni. Tam ita sabigeodum, ot minu- tatim assuefaciant, et a t tironem cam veterano adjangant; imitando enim facilias dom atar. E t primum in aequo loco, et sine aratro, tum eo levi, et principio per arenam, aa t molliorem terram. Quos ad vectaras, item institaeodum, a t inania primam do eant plaustra, et si possis, per vicum aut oppidum. Creber crepitas, ac varietas rerum consueludine celerrima ad utilitatem ad­

ducit. Ncque pertinaciter, queip feceris dexte­ram , in eo manendum. Quod si alternis fit sini­ster, fit laboranti in alterulra parte requies. Ubi terra levit, a t in Csmpaoia, ibi non bubus gra­vibus, sed vaccis aut asinis quod arant, eo faci­lius a d aratrum leve adduci possunt, a d molas, et ad ea, si quae sunt, quae in fundo convehuntur. In qaa re alii asellis, alii vaccis ac mulis u tan- ta r , exinde ut pabuli facultas est ; b a m facilias asellus, quam T a cca a lita r; sed fractaosior haec. In eo agricolae hoc spectandam, quo fastigio sit fundus ; in confragoso enim ac difficili haec va-

aggiungere che di bestiame non è da m iD le o e r s i , se non qoel solo che sarà mestieri nella c o l t i v a ­

zione del terreno : come pure che gii schiavi a b ­biano poco bestiame in loro proprietà , M c io o c b è questi non perdendo, com’ è il solito, il t e m p o intorno a quello che ad essi appartiene, p o s s a n o essere più assidui al lavoro (7). Per questo a p ­punto non solamente quelli che hanno p r a t i fanno in modo, che riguardo al bestiame, m a n ­tengono piuttosto delle pecore, che de1 p o rc i ; ma così pure fanno quelli, i quali non lo m a n ­tengono, in grazia de ' prati per motivo del l e ­

tame (8).

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CAPITOLO XX

D i l l a s c e l t a d e i b u o i , e d e l m o do c o i c o i si

ADDIMESTICANO E Si DOMANO 1 GIOVENCHI.

Tra tu ti1 i quadrupedi, sono i buoi cbe addi- roandano la nostra prima attenzione. Quelli che si comprano per arare sono a ciò acconci, ae sono nuovi pel lavoro, se hanno meno di tre aoni (1) e se non oltrepassano i quattro , come pure se sono robustissimi egualmente e di pari statura, acciocché nel lavoro il più forte non saperi il debole; se hanno ampie corna, e piuttosto nere, che altramente colorate ; se forniti di larga fron­te, di sari schiacciale, di largo petto e di grosse cosce. Non bisogna comperar vecchi bao i assue­falli alla pianura, per quindi poi trasportarli iu terreni duri e montuosi : né per altro, qaaodo

ciò sia, è da evitarsi il contrario (a). Se alcuno avrà compralo de* buoi novelli, in pochi giornili addimesticherà, e facilmente li domerà, se i colli di questi staranno rinserrati tra la curvatura di on legno fìsso e stabile, e se in tale giacitura darà loro il cibo (3). Indi poco a poco si dovran­no assuefare al giogo, e unire al giovane nn vec­chio bue, perchè più facilmente si doma quello che vede l’ altrui esempio. E primieramente fallo camminare soggiogato su d 1 un terreno piano e senza aratro, poi attaccalo ad uno leggiero, e fa che ari prima l 'a rena, o una lerra molto tene­ra (4). Quelli che destinerai alle vetture, gli am­maestrerai nel medesimo modo (5), cosicché p ri­ma tirino carri vacui, e, se è possibile, facciasi che li menino per mezzo al borgo o alla città :lo strepito continuo e la varietà degli oggetti fa­ranno sì che prsstissimamente riescano utili (6). Nè devi ostinarli a lasciar sempre alla destra quel bne che da principio mettesti a questo lato ; che se alternativamente il farai sinistro e destro, sarà

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DE HE‘RUSTICA LIB. I, 5oG

lentiora piraod^m , «t potias e», q u e plus fro*- etam veddcre possint, caia idem opcris Cadant.

CAPUT XXI

Db c a v ib its , s u b q u ib u s u t iq u b v i l l a v a i u i

TUTA U T.

Canes potio* cora dignitate, e t aqr^spaucos b a b e n d o m , qoam molto* ; qaos consuefacias potius ndcta vigilare, a t . interdia clausos dor­m ire. D e indomitis qoadrupedrbas, ac pecore ( facinndom ). §i prata san t in* fo n d o , neqoe

pecas habet ; danda opf ra u t pabulo v en d ilo , alienam pecas in suo fondo pascal ac stabolet.

.CAPUT x x n

Q tA L IT B à UinvBBSUS mSTBUHBlTTbBUV' FUHDI

APVABATUS IjrtTITÙATUB.

De re liq ao instrnmento m oto, in quo san t corbulae, e t dolia t i alia^.haeo praecipienda. Qaae nasci in f a n d Q , ac fieri a domesticis pojne- runt, eorum ne quid ematur, a l fere sant, qaae vx viminibos et materia rustica fiunt, n i odrbes, fisci pae, «tribola, mallei, rastelli. Sic qu*e fiant de cannabi, lino, jonco, palma, scirpo, o t fanet, vtstes, tegetes. Qoae e fondo stimi non [>oterùnt,«a si empta e ran t p o tio isd atilitatem, qoam ob speciam, s a p p ia fractam non extenuabunt ; eo ]

M . T b b b b z io V a b b o v b

aleno poco alleggerì lo neU' dno dei lati. Ove la lenra è leggiera, come nella Campania (7 ), ivi per arare non faono mestieri booi fòrti (8), ma vac­che od asini (9); e qtfetti e quelle più facilmente si assoceranno a* tira r l ' aratro leggiero, a girar la macina, come p a té a trasportar nel fondo tolto quello che vi occorre. Pel quale oggetto alcuni si .servoqo di asinelli, e altri di vacche e di muli, secondo la quantità de* pasooli cbe posseggo­no (10); perciocché si notrisce più facilmente ao afioello, cbè una vacca ; ma questa rende di piò!lo torno alla scelta di qoesti animali l’ agricoltore dete fare attenzione alla nalara della superficie del terreno, perché in quello, eh* è montaoso e difficile a lavorarsi, non occorre che questi ani­mali sieno da' più robusti (11), e piottosto si deb- bono provvedere quelli che possono rendermag* gior/frutto, quando siano al caso di farcii mede­simo lavoro.

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CAPITOLO XXI

D b 1 c a v i, su rz A d b ’ q u a l i l a casa v il l b b b c c ia

à POCO I I SIÒUBO.

Torna conto mantener pochi cani, ma di va­lore c bruschi,, che averne molti : i qoali gli assuefarai a vegliar*piuttòsto la notte e a dorm ire serrati tra il giorno (1). In torno agli altri qua­drupedi, che non si addimesticano, come pure rigoardo ài bestiame ammaestrato e ai cani, de- vesi far quello che ho detto (a). Se (3) il proprie­tario ha nella stia tenuta de’ prati, e se non ha bestiame, deve procurar, di vendere i pascoli, e

che l’ alim i bestiame entri a pascolare nella soa tepata, e che alia nelle sfalle della medesima.

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CAPITOLO x x n

COMB SI PBBPABANO TUTTI GLI STBUMBBTI

HBCBSSABU ALLA TENUTA.

Ioiortìo agli strum enti m uti, nel numero dei quali vi sono le picciole corbe, le botti e le altre cose, ciò è da prescriversi t ' che non bisogna comprar niente di tutto quello che potrà nascer nel fondo e farsi dai domestici, come è a un dipresso quanto si fa coi vimini e col legno che

nasce nella tenuta: di questa fatta cono le corbe,i panieri, le trebbie, i martelli e i aastrelli : pari­mente quanto si fa colla canapa, col lino * col giunco, ©olla palma e collo sparlo (1) : tali sono

9

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M. TERliNTU VARRONIS 5o8

rnagtf, ti iude empia e ran t poliuirnum , ubi ea e t b o n a , e t proxim e, et vilittimo «mi poterant. Cdjut in» tram enìi, varia discrimina ac mollitudo agri magnitudine finitur, qaod plora oput suat, ti finet distant late. Itaque, Slolb inquit, propo­sita magnitudine fandi, de eo genere Cato acri- b it : Oliveti jugera c c x l q a i coleret, eum in ttrae - re ita oportere, a t faoeret Tata olearia juga t , qoae roembratim enomerat ; a t ex aere aheoea, urceos, nassiternam , item alia ; t i c * ligno et ferro, a t plostra majora tria, aratra cam TOtoeri-. b a t sex, cratet ttercorariaa qaatuor, item alia ; aio de ferramentis qaae sint, et que t opa t ad roultiludiuem, u t ferreat octo, aaroala totidem, dimidio m inat palat, item alia. Item alteram formulam Instrumenti fundi Tinarii fecit, ia que scribit : Si ait centom jugerum, habere oportere Tata torcularia instructa trina, dolia cuin oper­culis calleoram octingentorum , ocioaria xx , frumentaria x x ; item ejusmodi alia: quae minut molis quidem alii, ted tantam nuraeram culleo­rum scripsisse puto, ne cogeretur quotannis ven­dere vinum. Vetera eoim qutm noTa, et éadem alio tempore, quam alio pluris. Item sic de ferra­mentorum Varietate scribit permalfa», e t genere, et m ollitudine qua sibi^ u t falces, palas, rastros. Sic alit, quorum nonnulla genera species halient plures, a t falces; nam dicantur ab eodem scri­p tore vineaticae opus esse sex, tirpicalae T, silva­ticae t , arborariae in , et rntlariae x. Bic haec. At Scrofa: In tlram entam , et sapellectilem ró tti- cam omnem oportet habere scriptam in urbe et ra re dom iaam ; vilicum cón tri e i ro ri omnia certo tuo quaeque loco ad villam ( debent esse) posita. Qoae non potsónt ette sub clavi, qaam marfime facere, a t sint in conspectu, oportet ;* eo magis ea, qaae in rariore sunt uau, ut qaibos ia Tindemia a lun tn r, a t corbulae, e t tic a lia ; quae enim res qaotidie v id en tu r, m inat metuunt forem.

le corde, i canapi, 1« stuoia (a). R ig u a rd o m quell* eoae, ' le quali non si potranno t r a r r e d a lfondo, te nel comprarle ti avrà più occh io alla utiliU, che alla bellezza, la apeta non d im in u i rà mollo II profitto del. fondo; e molto p iò te si s a ra n ­no comprate particolarmente dove e ti p o tra n n o comprare b a o n e , è in vicintoxa, e a v iliaam o pretao. La grandezze del podere de te rm ina le varie specie è la quantità di questi strum enti, d ò quali ne occorrono ittolti in ana tenuta che sia molto Tasta. Per questo appunto, dice Stolone, ch£ Catone (3) comincia d tl determ inar la gran* dezza -del fo n d o , dicendo che chi coltÌTa on oliveto di c c x l iugeri, bisogna che in tal modolo fornitea, onde, faccia che >i sieno (4) v specie di utensili per F olio, che à parte a parte anno­vera, come pure (parlando di quelli di rame) (5) delle caldaie, degli orci, un vaso a tre manichi, ed altri utensili di rame : parim enti ne dorrà avere di légno e di ferro, confe tre grandi carri, sei aratri eòi loro vom eri, quattro craticci da telarne, ed altri attrezzi pure di legno e di ferro: del pari ne do trà avere di ferro, i quali tieno

' tin ti, qoanti taranno i lavoratori (6), dóe otto forche (7), altrettanti tarchi, quattro badili alake* no, ed altri attrezzi di Ul fatta. Dà ancor# un1 al* tra formoli.(8) per fornir di tiram enti ira terre­no piantato a rigne, dicendo, Che te è di cento ingerì, bisogna aver tre torchi (9) con tutte le loro pertinenze, delle botti col loro covtrchio, le quali oon tengano ottocento colei (10), xx botti per riporvi gli acini, ed altrettante per mettervi la biada, come pure altri utensili di simil genere. Questi stramenti soao, per vero dire, piò pochi negli altri autori ; ma pento che Catone abbia sqriilo un sì g r tn numero di còlei, affinchè non si fosse qella necessità di vendere il vino tulli gli anoi percioccl^ i vini vecchi ti vendono a piò cato prezzo, che i nuovi, e parimente ti vendono

a piò prezzo in u n t stagione,- che in un* altra. Scrive pure iutorno gli tiram enti di ferro, dei quali nc descrive le differenti specie e ne deter­mina il numero, quali tonò le falci, i badili -e i rastrelli. Vi sono alcuni di - quatti attrezzi, i quali si tuddividopo in .m o lte 1 paci* : tali tono le falci (11); imperciocché da quetlo scrittore t i dice che. ftnno .mestieri x l ( i a ) ronche da- tagliar

• viti,- v p e r tagliare i legami della Trte, v pe r tagliar la legna del b o jco , iu coltellacci p e r raondtr gli alberi, e x falci d a tagliare i rovi ( i3). Ciò ditte Catone* Mt Scrofa soggiunge : Bisogna che il proprietario abbia u ta nota dittinla e in città e in villa di ogni strumento e di ogni mo­bile ruslioano : per contrario il caalddo deve

nella casa villereccia disporli ta tti con ordine ai loro adattati luoghi (14). Quelli cbe non pottono

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DE RE RUSTICA LIB. 1. 5 io

serrarsi sotto chiave, bisogna procurar sopra!* tu tto d ì fare in modo che sieno sotto gli occhi (i5), e molto più quelli <;he si adoperano rare f o l te , come iono gli utensili ohe si adoperano nella

vendemmia y per esempio le piccole corbe ed altri di tal fatta ; perchè quelle cose che si t eg- g?no ogni giorno, meno corrono rischio di essere rubate.

c a pu t x x r a

Q ua* * r 90 0 Q urD qui loco maxime i t i u i

OFOATKAT.

Sascipit A gradui : E t qoonijutt habemus illa duo prima* ex di visione qdadriparlita, de fondo, et de inslrumeoto, quo coli solct ; de lerlia par- • le expecto. Sérofa : Quoniam fructum, inquit,

arbitror esse fundi eum, qoi ex eo satos nasci- iu r utilis ad aliqoam reiq ; duo consideranda^ qpae^-el quo qnidqne loco m rx im e expediat se­rere. Alia enim looa apposita sont «d foenom, alia ad fram eotum , alia ad vhram, aUa ad oleum. Sic .ad pabdlom qnae perfluent, in quò*est oci­m um , Carrago, vicia, mediefl, cytisum, lapim us. ' N e q u t in pingui terra omnia secpntur rectè^ neque in macra toihil. Recti as enitp in tenaiore terra ea, qaae non multo indigeat saco, at eytl- sam et legamioa, praeter cicer : hoc enim quo­que legumen,*at caetera, quae velluntur e terra, nOn subsecantor t quae quod ita leguntur, le­gumina dicta. Io pingui rectius, quae cibi sunt maioris, o t holos, trHieom, siligo, linam. Quae­dam etiem serenda non 'tam propter praesentem fructum, qaam ln annom prospidentem, quod Ibi. sabsecta atqùe relicta terram faciunt melio­rem. Itaque lupinum cum necdum siliculam cepit, et noonunqnam fabalia, si ad siliquas non ita per- teoiti a t fiabam legere expediat, st ager macrior est, p ro steroore toara^e «olràt. Nec minus ea discriminanda fio conserando, quae sunt fructuo­sa, propter totaptatem , o t quae pomaria ac (Io- ralla a p p e l l a n t o r . Item illa quae j d bo ta inum t i ­

fo sa ae sensam, delectalionemque non perli­

tan t, neque ab agri atiKtate itfnt dijuncta,

c a p it o l o x x m

Q o a u p i a j to , 3 m q u i i , lu o g o s p b c u lh b v t i

MSOGS A U M IIA U 00*1 »IAHTA.

A grario.im prende a parlare: E poiché hai finito di trattar delle dae parli della quadripar­

tita ditisione (0 , cioè del fondo e degli s tra ­menti, eo' quali si coltiva, sto attendendo la trat- taxione della terta . Siccome io penso, dice Scro­fa, che quello si debba d ir frutto del fondo, il qaale t i nasce in conseguenza di esservi semi­nato o piantato, e che a qualche cosa paò es­serci alile ; cosi su questo articolo sono da con­siderarsi due cote,, cioè quali generi, e in q aa l luogo ognuno di questr contenga specialmente' seminare o p ian tare; impercioediè alcuni luo­ghi sono adattati al fieno, altri alla biada, altri al* vino, e altft all’ olio : lo stesso è di tolto quel­lo d ie appartiene al pascolo, come V ofzlmo, la farragine, la teecia, la cedrangola, U citiso, il la - pino m è va bene seminare indistintamente quest! foraggi nella pingue terra, come nemmeno noo seminar niente nella m agra; imperocché se si fa bene a seminar nella debole terra (a) quelle sementi che non abbisognano di molto succo, come sono il citisò e tatt* i legumi, tranne il cece (3), essendoché anche questo legume, corno tutti gli altri che si diradicano e non si tagliano,. sono detti legumi, perchè appunto Così si raccol­gono (4) ; d ' altronde si fa ottimamente a se­minar nella pingoe terra quelle semenze che ab- * bisognano di molto nodrimento (5), come gli or­taggi, il frumento, la. siligine, il lino. Si d eb ­bono ''ancora seminare alcune piante, non tanto pe r trarne fra tto in quell* aano, quanto ancora per provveder meglio alla terra nel tegnente anno, perchè tagliandole a pelo di terra, ed ivi lasciandotele, la rendono migliore. Per la qual cosa, se la terra è magra, sogliono sotterrare, arando, il letame misto al lupino, quando non è ancora (6) comparso il baccelletto, e alle to lte ancora t i uniscono i fusti dalle fa te , purché le silique non sieno comparse, e quando non torni più conto raccoglier la fava medesima. Nè «ai-

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515 M. TEHENT1I VARRONIS 5 i C

CAPUT XXV

VlBEA QUO 4GJ10 SBBURDA SIT.

Vinea, quo Io agro seronda sit, sic observao~ dnm. Qai locas optimos vino sit, et ostentat soli, '

Amioaeam minascalum, et geminam e«geneom, helveolum minasculam seri oportere \ qai locat crassior sit, siit nebulosas, ibi Aminaeunl mejas, aa t Murgentinum, Apicium, Lacsnum teri;. eae*- tera t viles, et de his miscellas maxime, in omne genus sgri convenite.

CAPUT XXVI

Quo n LOGO BIDJCAB IV VIBIA FISI DBBBABT,BT A t QUAB PABTIM.

Id omni tinea diligenter observant, ot ridica ▼iti® ab septentrione versas leg ito r ; et si cupres­sos vivas pro ridicis ioterunt, ' alternos ordinet im ponant :• neque eas crescere fcltius, qaam 'rid i­cas patiaotar, neqne propter ess adierunt vites, qaod ialer se haec inimica. Agriar Fundanio: Ve­reor, iiiquil, ne ante aedi.timus veniat huo, qaam

‘ hic. ad qaartum actum ; vindemiam enim expé-

cto. Bono Animò es, inqitit Scfofs, ac fiscinam erpedi, et a rn a n .

c a pu t xxvnQ uot divi datu» mbbsibus bt temfobibus awtjs,

BT IB QUIBUS QUID SEBI OPOBTIAT,.. AC COLLIGI DB AGIO SOCIATA.

Et quoniam tempora duorum genertkn sunt anum tonale, qaod sol circuitu sao finit : alie* rum menstraum, qaod luaa circomieos compre* h tn d it : prius dicam de sole. Ejos cursus annalis primum fere circiter ternis mentibus ad fractus est divisus in jv partes, et idem subtilius sesqui­mensibus in yiii. In qustuor, qood dividitur in ▼ e r , et aestatem, et automnum, et hiemem. Vere sationes quaedam fiuut, terram radem proscin­dere oportet, quae sont ex ea enata, p rlasqaam ex iis quid seminis cadat, a t sint exradicata ; et

CAPITOLO xxvT* QUAL T M B IB O ^ DA PIAKTBBSI LA t I G WJL*

Ciò i da osservarti nel terreno, nel q u a l e ai pianterà la vigna. In quel luogo che sarà o t t i m o pél vino « che sarà esposto al sole, b i i o g n e r à piartarvi (i) la picciola Animine», am b e d u e Io eugenie, le piccole elveotc-j e in quel laogo '©h * è più'grasso^ ó più nebbiosi, vi J i pianta 1* A ra m i - neo maggióre^ il Myrgentjno, 1’ Apicio, jo il L a - cano. Le altre viti; e particolacmente quelle c h e - prodooooo neri grappoli, si adattino a q aa ls iv o ­glia terreno (a).

CAPITOLO XXVI

iB 'QUAL LDOOO DBLLA VIGNA SONO DA PlJfcWABlr LB PALABCHB, BD Irf QUA& PASTI.

.Scrupolosamente si osserva in ogni vigoeto, cbe la vite sia coperta dalla palanca dalli parte di settentrione ; e se in luogo*di palanche alcuni piantane cipressi vivi, q u a l i li piantano alterna­tivamente tra gli ordini (i), nè permettono che

crescano più alti delle palanche, nè in vicinam* delle vili vi mettono cavoli, perchè quetfe dué piante sonò antipatiche (a). Agrio dice a Funda­nio : Temo che qui se ne ritorni il sagrestano' p ri­ma ohe non sia terminato il quarto a lto , sospi­rando io moltissimo la vendemmia (3): Fatti co­raggio, dice Scrofa, e prepara i panierie le broc­c e (4).

CAPITOLO XXVII

In QUABTI VBSI B TBMPI SI DIVIDA L*‘AB*Ò, B IH QUALI TBMPI COHVBBOA SBMlrfAB QUELLI TALI SBMBBTI, B BACCOGLIBBB I SEMINATI.

E poiché il tempo è d i dae maniere, ano an­nuo, nel quale il sole termina il suo corso, d 'a l ­tro mestruo che comprende il girò della Iona, perciò dirò prima del sole ; il coi -corso an­nuo (i), considerato rispettivamente ai fra tti della terra, si divide prima in iv parti, ognuna delle quali è a un dipresso di tre mesi : si può ancora dividerlo più minatamente in vm parli di uo mese e mezzo. La prima divisione in quat­tro parti abbraccia la primavera, l’ estate, 1' au­tunno e l ' inverno. In primavera bisogna arar la

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DE RE RUSTICA LIB. I. 5f8

siimi) glaebis ab sole percalefactis aptiores faoere ad accipiendum imbrem^ et ad opos faciliores, relaxatas; neqne eam minos bis a ran d o * , ter melius. Aestate fieri messes oportere. Autumno siccis tempestatibus vindemias, ae silvas excoli commodissime : tane praecidi arbores oportere secundam terram. Radices autem prioribas im­b rib u s a t eflbdiaotur, ae quid ex bis nasci poa- sit.' Hieme potari arbores damtaxat bis tempo ribus, com gelo cortices et imbribus careant et glacie.

CAPUT XXVIII

Q c o t d i b s h a b e a t q u a e l ib e t q u a b t a f a e s a v x i,

ET IV QUIBUS COXL1 SIGEIS IETEEET.

Dies prim as est veris in Aquario, aestatis ia T auro , aatom oi in Leone, biemis in Scorpiooe. Cum anioscujosqoe horum qoatuor signorum dies tertios et vicesimas, quatuor tem pora li sit primus ; efficitor a t ver dies babeat xci, aestas xeiv, automnos.xci, hyems xxcix. Qaae redacta ad dies civiles nostros, qui nunc sunt primi Verni temporis ex a. d. tu Jd. Feb. aestivi ex a. d. iv Idjb. Afaji : autumnales ex a. d. v u ld ib . Sext. hi­berni ex a, d . iv ld . Novemb.

Subtilius discretis temporibus obeervanda quaedam sont, ea qoae in partes t u i dividuntur. Primum a favonio ad aeqoinoelion vernam dies x l ; h iac a d Vergiliarum exortam dies x u v ; ab boe ad solstltiom dies x l t i u ; inde ad Cani­culae sigoom dies xxix ; deitì ad aeqomocliom autumoale dies l x v h *, exin ad Vergiliarum occa­sum dies xxxii ; ab hoc ab bromam dies l v i i ;

inde ad Javoiyam dies x l t .

terra dora (a), non tanto perchè si sradichino latte le produzioni spontanee nate dalla terra* prima che lascino cadere i loro semi, quanto perchè le zolle che nell’ istesso tempo s’ innalza­no dall1 aratro siano al caso di essere riscaldate dal sole, e piè disposte a ricever la pioggia, e quindi essendo ammollite, più facilmente fannoil loro uffizio (3). Nè bisogna arar la terra meno di due volte: sarà meglio però ararla tre vol­te (4). Nell’ estate bisogoa far le raccolte ; nel­l 'au tunno bisogna vendemmiare nelle giornate secche, e coltivare i boschi : opportunamente in allora bisogna tagliar gli alberi appresso la ter­ra (5 ). Bisogoa poi fin dalle prime piogge strap­par le radici, acciocché non germoglino. Nel- T inverno è mestieri potar gli alberi, ma sola­mente j n qua’ tempi, nei qaali le cortecce non saranno coperte di brine, di pioggia, o di ghiaccio.

--«C*--

c a p it o l o x x v r a

Q oahti G joam abbia ogni quabta p a s t e b e l -

l ' ABHO, E m QUAtl SEGEI CELESTI COMIBCI

OGNUBA.

L i primavera principia qaando il sole è in Acqaario, 1’ estate qaando è in Toro, l’ autunno quando è in Lione, e V inverno quando è nello Seorpione. Siccome il primo giorno di qaeste quattro stagioni non principia se non qoaodo sooo passati ventitré giorni, dacché il sole è en­trato in ognooo de’ mentovali segni, quindi ne èegue che k primavera ha xci giorni, l’ estate, xciv, l’ autunno xci, e l’ inverno lx x x ix (i). I quali giorni se ai riferiscono ai nostri civili, quali sono presentemente (a), il primo giorno di pri­mavera corrisponderà all’ ottavo giorno avanti gl1 Idi di Febbraio (3), il primo giorno di estate al quinto avanti gl’ id i di Maggio, il primo gior­no di autunno (4) all’ottavo avanti gl’ Idi di Ago­sto (5), e il primo dell’ inverno al quinto avanti gl’ Idi di Novembre.

Se più minutamente si divide l’ anno, cioè in otto parti, questa distribuzione porta seco alcu­ne osservazioni (6). La prima comprende xl giorni, e principia dal tramontar del sole in quel punto in coi spira il vento- favonio (7) sino all’ e- quinozio di prim avera: la seconda abbraccia xliv, e principia dall’ equinòzio di primavera sino al levar delle pleiadi : la terza ha xlvui, ed è tra il le*ar delle pleiadi e il solstizio-: la qnarta è di xxix giorni, ed ha principio dal solstizio si­no al levar della canicola: la quinta è di Lxvit

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M. TERENTII VÀRRONÌS 6ao

CAPUT XXIX

Q u id i i t u f a v o b iu m e t a r q i ì o c t i u m f i e u

OPOATEAT.

In primo intervallo, inler favooiom et ae- qoiooctiom T e r n u m , haec f ie r i oportet. Semi­naria omne geuas ut serantor, putari io primis, circom vites ablaqueari, radices, quae in summa terra sont, praecidi, prata purgari, salicta seri, segetes saliri. Seges dicitur, quod aratam satum est: arvum quod aratum, nec dum salum est. Novalis, obi satum fuit ante, quam secunda ara­tione renovelur. Rursum terram cum primum a r a n t , proscindere appellant; cum iterum, of­fringere d icunt; quod prima aratione glaebae grandes solent excitari ( cum iterator, offringere vocant ) ; tertio cum arant jacto semine ( boves ), lirare dicuntur : id est, cum tabellis additis ad vomerem simul, et satum frumentum operiuntio porcis, et soleant fossas, quo pluvia aqua de ­labatur : nonnulli postea, qui segetes 'non tam latas habent ( ut in Apulia ) id genas praedii per saritores occare solent, si quae in porcis relictae grandiores -sout glaebae. Qua aratrum vomere laconam striam facit, solcus vocatur. Q aod èst ioter duos sulcos, elata terra, dicilur porca, qood e t seges frumentum porricit. Sic quoqac exta deis com dabant, porricere dicebant.

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giorni, e priocipia dal levar della canicola sino alP equinozio aataonale : la sesta contiene x x i u giorni, ed è tra questo e il tram optar delle p le ­iadi : la settima ha lyix giorni, e4 è tra il tra ­montar di qoeste e il solstizio d’ inverno : e P o l­lava comprende giorni x l v , e co mi nei a da que­sto, e termina qaando il sole tramonta al luogo da coi spira il vento favonio (8),

CAPITOLO XXIX

Q u a l i c o s e sono d a f a i s i t e a i l t e m p o , iv c u i i l

SOLE TRAMONTA, DOVE SOFFIA IL FAVONIO, ■

L* EQUI80X 10 DI PftULAVKBA.

Queste cose sono da farsi nel primo in te r ­vallo, in coi il sole tramonta, ove ‘ spira il fa­vonio, sino all’ equinozio di primavera. Biso­gna seminar de' vivai di ogni genere, potar nei luoghi temperati (i), scalzare attorno le viti, ta­gliare alle medesime quelle radici che sooo sopra la terrà, nèltare i prati, piantare’ i salceti, sar­chiar le terre arale che in latino si chiamano segetes. Si dice seget quella terra che è arata, ma oon ancora seminata (a). Si chiama novale quel terreno che si è seminato senza aver avolo bisogno di una seconda aratura. Inoltre chiamano tagliar la terra, quando arano là prima volta, e dicono romper le grandi zolle la seconda ara­tura,* perchè la prima d* ordinario non fa che alzarle (3). Quando si ara la terza, volta dopo avere sparsa la semenza, si dice formare i sol­chi (4). Questa len a operazione si fa quando at­taccano col vomere delle tavole, e quando nello stesso tempo che coprono nelle porche il gramo seminalo, scavano anehe i solchi, ove possa colar P acqua piovana. Alcuni poi, che non hanno ter­reni mollo estesi (come i coltivatori della Puglia), sogliono far erpicare siffatti terreni da quelli che sarchiano, pòstochè nelle porche sieno rimaste delle zólle troppo grandi. Sr chiama solco quella scanalatura diritta, e per totto uguale che for­ma il vomere dell* aratro (5); porca poi si dice la terra ebe trovaci inalzata tra dae solchi, per­chè appuoto questa porzione di terra alta (6) è quella che in latino si direbbe porricit, o getta ia allo il grano : cosà pare dicevaao porricere% quando sagrificavano agli dei le interiora delle v itt im e^ ).

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5ai DE RE RUSTICA LIB. I.

CAPUT XXX

Q oab i r r u aequinoctium vbbnuk bt Veeoilia-1 D1 BXOETUM FXBBI DEBBA NT.

S eco n d o iotervallo iotcr vernam aeqnino- e l io n i , e l Tergiliiniffl exortam h iee fieri. Sege­tes r a o c a r i ( herbam • segelibas ex porga ri ), bb- ve* t e r r a m proscindere, salicem caedi, prala de- fend i ; qoae soperiore tempore fieri oportoerit, e t n o n io n i abtoloU, ante quam gemmas agaot ac florescere incipiant, fieri : qaod ai, quae folia a m i t te re solent, ante frondere inceperint, sta ti m ad te re n d am idoneae non sont. Oleam aeri, in- t e rp o U n q o e oporlet.

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CAPUT XXXI

Q ua* utteb V big i li a bum bxobtuw ad solsti-T ira FIBBT OFOBTBAT.

T e r l io intervallo, Soler Vergiliarum exortom e l solatili oro, haec fieri debeat. Vioess novellas fo d e re , aot arare, et poslea occare, id est coro- voiooere, ne ait glaeba; qood ila ocddoot, occare d ic a n t . Vites pampinari, sed a seienle; nam id, q a am potare majas, neqee io arbusto, sed io viuea fieri. Pam pioare est ex sarmento cole*, qai nati jn n t, de iis, qai plurimam valeot, primum ac secundam , nonnooquam eliam tertioro, relin­quere, reliqoos decerpere, ne relictis colibas tarroenlum neqoeat m inistrare succom. Ideo io vitiario priroitos com exit vilis, tota resecari aolet, u t firmiore sarmento e terra exeat, atqoeio parieodis colibus vires habept majores. Ejun- adora eoim aarmeotam propter infirmitatem iterile, oeqoe ex se potest ejicere vilem ; qoam vocaol mioorem flagellom, majorem eliam, no de uvae nascuntor, palmam ; prior litera una mo­lata declinata a venti flato, simili ler flabellum ac flagellum ; posterior, qoo ea vilis imm itlilor ad ut** periendas, dicta primo ?idetor a parieodo parilema : exio molatis literis, a t io mallis, dici coepta palma. E x altera parte cajprea dieta, qnod parit capreolam ; is est colicalas viteos intortus, ot cincinnos ; is eoim viles, ot teoeat, serpit ad locato capiundam ; ex quo a capiendo capreolus dictos.

M. T ebbitzio Yaeeobe

CAPITOLO XXXQ u a l i cosb s i d e b b o n o f a b e t e a l ' e q u in o z io d i

FB1MAVEEA, B IL LEVAB DELLE PLEIADI.

Convien far le segatoli cose nel secondo in­tervallo, cioè tra l1 equinozio di primavera e il levar delle Pleiadi. Bisogna nettar le terre (i), tagliar la terra co1 buoi (a), tagliare il salceto, proibir cbe entri l’ acqua nei prali (3), far qoello che conveniva farsi nei tempi precedenti, e che doveva essere terminato negli alberi, avanti che compariscano le gemme e i fiori. Che se alcooi alberi, i quali sogliono gettar le foglie, haooo cominciato a frondeggiare, io allora non occorre piantarli (4)- Bisogna pisolare e diram ar 1' olivo.

CAPITOLO XXXI

Q g a l i cosb b iso g n a f a b b t e a i l lev a* d e l l e

P l e i a d i e il s o l s t it io .

Le seguenti cose sono da farsi nel terzo inter­vallo, cioè tra il levar delle Pleiadi e il solstizio. Bisogna zappare attorno le vigne novelle, ovvero arare, e poi erpicare (i) cioè ammazzare la terra,

onde non vi resti alcooa zolla. Quelli che in tal modo distraggono le zolle, fanno quello che in Ialino dicesi (a) occare, dalla parola occidere. Bisogoa spampanare le vili ; il che deve farsi da ooa persona istrutta , imperciocché qoest1 ope­razione imporla più cha il potare (3): e ciò non è da farsi in una vigna maritata all'albero, ma in quella eh1 è isolala. Si spampana quando al sar­mento non si lasciano che due e alle volte aoche tre pampaoi dei più robusti, strappando gli altri, acciocché, restando tulli, non sia pòi in caso il sarmento di somministrsre ad essi il nodrimento necessario. Perciò oel vigneto novello, quando la vigna comincia ad alzarsi, suolsi tagliarla intera­mente, onde esca della terra fornita di uu robu­sto sarmento (4), il quale anche avrà maggiori forze in produrre de' robusti pampaoi ; imper­ciocché il sarmento sonile, quanto il giunco (5), è sterile per esser troppo debole: oè poò la vite, che chiamaoo minore, produr luoghe e forti verghe, dette in latinoflagella; quando chiamano in latino palmae, o capi della vile quelli, dai quali nascono anche i grappoli (6 ).l primi trag­gono il loro nome dal soffio del vanto, che in Ialino si dioe flatus ; e ciò in grazia del pangia- mento di una lettera, onde si abbiano i sioonimi flabellum e flagellum. 1 secoodi sembrano essere

io

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AI. TERENTII VARRONIS 5 2 *

Omne pabulum, primum ocimum, farraginem, viciam, novissime foenum secari; ocioom dictum a Greco verbo tixiw, qood valet cilo. Similiter quo ocimom in horto. Hoc amplios dictom oci­num, qood citat alvum bubas, et ideo iis datur ut p u rgen tu r; id ex fabuli segete viride sectum ante quam genat siliqoas. Cootra ex segete, ubi sata admixta ordeum et vicia, et legumioa pa­buli caosa tiridia, quod (far) ferro caesa, farrago dicta, aol nisi quod primum in farracia segete seri coeptum. Ea eqoi et jomeota caetera verno1 empore purgantur ac aagioaotur. Vicia dicta a vinciendo, qood item capreolos habet o t vitis, quibus cum sursum vorsom serpit ad scapum lupioi, alinrave quem, ut haereat, id solet vin­cire. Si prata irrigua habebis, simolac foenum austoleris, irrigare. Iu poma, qoae insita erunt, siccitatibus aquam addi quotidie; a quo, quod indigent potu, poma dicta esse possunt.

alati chiamati prima parilcma dalla parola pro­durre, o parere in latino, perchè sono d es tin a li a produr le ove (7); dappoi cangiatesi a leone lettere, come si fa io molte etimologie, ai tono io progresso detti capi di vite, o in latipo palmat. La vite produce inoltre dei viticci, i qoali sono piccolissimi aarmeoti di vite attortigliali, com 'è il riccio ; questi di fatti, onde la vite col loro mezxo ai attacchi ove serpeggia, s* iooalzano dalla me­desima, e si attorligliaoo, e abbracciano i ram i degli alberi ; e perciò sono detti viticci, e in Iali­no capreoli dal preodere che faono, ossia dalla parola Ialina capere (8).

Bisogoa tagliare ogni sorta di pascolo ; e pri­ma r ozzimo, poi la farragine, iodi la Yeccta, ed ultimamente il fieno. E detto oziim o dalla pa­rola greca vxivfy perchè vieoe presto (9). Simil- meote si chiama ozzimo il basilico dei giardioi per la medesima ragione (10). Si è detto inoltre ocinum, perchè ai buoi sollecita gli scarichi di ven tre ; e perciò si dà a questi per purgarli (11). Questo ozzimo, che si trae da un terreno il quale produce favuli, si taglia verde, avanti che generi i baccelli (ia). Per contrario le mescolan­ze d* orzo, di veccia e di legami seminati insie­me nel medesimo terreno, onde servano di forag­gio (perchè qoesti miscugli si tagliano verdi eoi ferro), sono delti ferrana, e farrago io latino, quando bene qoeste mescolaoze non ai dicano così, perchè prima si seminavano in oa*terreno destinato a p rodar aoltaoto ferrana ( i 3). Con questa si purgano e s*ingrassano in tempo di primavera i cavalli e gli altri giomenli. La veccia, detta in latino oicia, è così chiamata dalTavvio- cigliarsi, ossia dalla parola latioa vincire, perchè essa ha dei viticci, come la vite, per mezxo dei quali ascende in alto, e ai attortiglia a ttorno il gambo del lupino (i4)« o ad un ' altra pianta, eoi, acciocché vi si attacchi, suole attorcigliarla. Se avrai prati che si possano adacqaare, non mancar di irrigarli, sabito che ne avrai levato il fieno. Bisognerà ogni giorno verso la aera inacquare in tempo di secchezza quegli alberi che produr­ranno fruita, e cha si saraooo innestati ( i 5), i quali possono essere alati chiamati in latino, po­ma, perchè hanno bisogao di bcYtnda che io Ialino dicesi potus (16).

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5a5 DE RE RUSX1CA MB. I. 520

Q u id i n t e b s o l s t it iu m e t can iculam

FACIUNDUM SIT.

Q uarto in te rn i lo inU r solstitium et canicu- k m plerìqae measem faciunt, q«od frumentum dicant quindecim diebos esse in vaginis, qainde- eim florere, quindecim exarescere, cum sit matu­rum . Arationes abaolvi, quae eo fructuosiores fionf, qao calidiore (erra aratur. Com proscide­ris, offringi oportet, id est iterare, ut frangantur glaebae ; prima enim aratione grandes glaebae ex terra sc induntur. Serendum viciam, lentem, ci­cerculam , ervilam, caeteraque, quae alii legumi- na, alii ( u t Gallicani quidam ) legaria appellant, utraque dicta a legendo, quod e« non secantur, sed feliendo leguntur. Vineas veteres iterum oceare, noveJlas etiam terlio, si sunt eliara tum glaebae.

CAPUT xxxn

--«0«--

CAPUT xxxraQ u i n t o i n t e e v a l l o i h t e e c a n ic u l a m e t a e q u i-

■OCT1UM AUTUMNI QUAE FIBRI OPOITEAT.

Q uin to intervallo inter canicnlam et aeqni- noctium autum nale oportet stramenta desecari, et aoervo» construi, aratro offringi, frondem cae­di, prata ir r ig u a iterum secari.

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CAPUT XXXIV

S e x t o i n t e r v a l l o a b a e q u in o c t io a u t u m s a l i

QUID FIERI OFOETEAT USQUE AD BRUXAM.

Sexto intervallo ab aeqaiooctio autumnali incipere ( scribunt ) oportere serere, usque ad diem xci post brumam, nisi quae necessaria causa coegerit non se re re , quod tantum in te rsit, ut ante brumam sata, septimo die; qoae a brama sata, x l die vix existant; ncque ante aequinoctium incipi oportere putant, quod si minus idoneae tempestates sint consecutae, putescere semina

C osa s ia d a f a r s i t e a i l so l s t iz io e l a ca n ic o l a .

Nel qainto intervallo tra il solstizio e la cani­cola alcuni fanno la raccolta, perchè dicono cheil formento sta per quindici giorni rinchiuso nel suo guscio, che in quindici'fiorisce, che in altri quindici si secca, e che maturasi nel nono me­se (i). Bisogna terminar le arazioni, le quali sa­ranno tanto più utili, quanto più sarà calda la terra, quando si ara. Quando avrai tagliala la terra, bisognerà che tu la sminuzzi, cioè che di nuovo ari, onde si rompano le zolle ; poiché nella prima aratura non si fa altro che fendere le gran ­di zolle. E da seminarsi la veccia, la lente, la ci­cerchia,.! piselli, quell* altre piante che alcuni chiamano legumi, o legumina io latino, ed altri

(come certi Galli) legaria, ambe parole tratte dal verbo legere, perchè queste piaute non si tagliano, ma si raccolgono, strappandole. Bisogna nuovamente erpicare le vecchie vigne, e tre volte le novelle, quando vi sieno ancora delle zolle.

c a pito lo x x x n

c a p it o l o x x x r a

Q u a l i cose b iso g n a f a e e b e l q u ib t o in t e r v a l ­

l o , C ioè TEA LA CABICOLA E l ’ EQUINOZIO DI

AUTUBNO.

Nel quinto intervallo tra la canicola e l’ equi­nozio autunnale (i) bisogna tagliar la paglia, e metterla in mucchi, sminuzzare la terra arata, dibrusca re gli alberi, e segar di nuovo i prati che si adacquano.

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CAPITOLO XXXIV

Q u a l i cose so no da f a r s i n e l s e st o in t e r v a l l o ,

DALL* EQUINOZIO AUTUNNALE SINO AL SOLSTIZIO

d ' in v e r n o .

Nel sesto intervallo, dopo V equinozio autan-

nsle, bisogoa cominciar a seminare (i), e progre­dire sino al giorno l x x x v i i i (2 ). Dopo il solstizio d ' inverno non è ben fatto seminare, quando non ci sforzi a farlo la necessità. E tanto importa se­minare avanti il solstizio d 'inverno (3), che queste seminagioni spuutan dalla terra nel settimo gioruo, laddove quelle che si fanno dopo, appena esceuo

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5a7 M. TERENXII VARRONIS 5a8

soleant. Fabam oplimeieri ia Vergiliarum occasu. U rat autem legere, e t vindemism facere io t e r ae­quinoctium autumnale, et Vergiliarum occasum. Dein v i te s putare incipere, et propagare, et serere poma. Haec aliquot regiooibut, ubi maturius fri­gora fiunt asperiora, melius T e r n o tempore.

c a pu t x x x v

SiPTIMO 1HTEETALLO 1RTEB VbEGILIAEUM OCCASUM

BT BEUMAM, QUAE FIBBI OPOBTBAT.

Septimo intervallo inter Vergiliarum occa­sum et brumam haec fieri oportere (d icua t). Serere lilium, et crocum, qaod jam egit rad i­cem; r o s a m : ea conciditur radicitus in T ir g o la s

palmares, et obru itu r ; haec eadem postea trans­fertur facta viviradix. Violaria in fundo facere non est utile, ideo qaod necesseest terra adrueu- da, pulvinos fieri, quos irrigationes et pluviae tempestates abluunt, e t agrum faciunt macrto-* rem. Ab favonio asque «d irc tu ri exortum re­fi te serpullum e Seminario transferri : quod d i­ctum ab eo quod serpit. Fossas novas fodere, T e te re s tergere, vineas arbuslumque putare, dum in x v diebus ante et post brum am , ut pleraque

ne facias : nec non tum aliquid reete seritur, ut ulmi.

C A P U T x x x v i

OcTATO IBTBBVALLO HfTBB BBUMAM BT PAVOVIUM

QUAB FLBB1 OPOBTBAT.

Oeta?# intervallo inter brumam et f a T o n iu m

haec fieri oportet ; de segetibus, si qua e tt aqua, deduci: sin siccitates sunt, et terra tcneritudi-

d e l la terra d o p o x l giorni (4). Sono di opinione che non sia mestieri seminare aranti l ' equinozio, perchè s o p ra T T e n e n d o tempi poco buoni, sogliono m a r c i r e le semenze. Ottimamente si t e m i n e l e

faT a T e rs o il tram ontar delle Pleiadi. E d ’ uopo poi raccoglier l’ ava e vendemmiare Ira l1 eqoi- nozio autunnale e il tram ontar delle Pleiadi. Dappoi occorre principiar a potare le T i t i , pro ­p a g a r l e , e p i a n t a r gli alberi ohe producon fra tta . In que’ paesi, ne 'quali il freddo imperversa d i buon ' ora, è meglio far queste opertiiooi io p ri­mavera.

c a p it o l o x x x v

Q u a l i cose t o n o da f a e s i b e l s e t t im o i m a v a l ­

l o , c i o à t b a i l t e a m o r t a e d b l l b P l e ia d i b i l

s o l s t iz io d * i b v b e h o .

Nel s e t t im o i n t e r v a l lo , t r a i l t r a m o n t a r d e l le

Pleiadi e il s o ls t iz io d ' i n v e r n o , b i t o g n a f*r le se­g u e n t i cose ( f ) : p i a n t a r e il g ig l io e lo z a f f e r a n o ,

che a b b i a n o g ià p r o d o t t e le r a d i c i , come p ure U r o s a (a ) , le c u i r a d i c i a n c h e s i t a g l ia n o in p ic c o le

T e r g h e l u n g h e u n p a l m o , e si p ia n t a n o in t e r r a :

q u e s t a T e rg a , d iT e n t a t a c h e s ia m a r g o t t a , t i t r a s ­

porta p o i a l t r o r e . Non è u t i l e p i a n t a r n e l la ( e n a ­

ta delle T io le , p e r c h è è n e c e s s a r io a m m u c c h ia r la

t e r r a , o n d e f o r m a r d e l le p o r c h e alte (3), d a l le

q u a l i o le i r r i g a z i o n i , o le s o p r a T v e n ie n t i p io g g e

s t r a s c i n a n o s e c o la t e r r a m i g l i o r e , e q a i o d i r e n ­

d o n o il t e r r e n o p i ù m a g r o (4). Dopo i l t e m p o ,

in coi il s o le t r a m o n t a , ove soffia i l T e n t o fa­vonio, s in o a l levar d e l l ’ a r t a r o o t t i m a m e n t e s i

estrae d a l m a i o il s e r p i l lo , c o s ì d e t to , perchè ser­peggia. Bisogna s c e T a r d e l l e nuove f o s se , n e tta r le vecchie, p o t a r le T ig n e e P a l b e r e t o . Quindici g i o r n i a T a n t i , e altrettanti d o p o il s o ls t iz io d* in- verno ta devi f a r m o l te d i q u e s t e o p e r a z io n i ; nè in q u e s t o in t e r T a l lo va bene p i a n t a r e alcune p i a n ­

te, come g l i olmi.

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CAPITOLO XXXVI

Q u a l i cose so no d a f a b s i h e i . l ’ o t t a v o i b t e b -

TALLO, C ioè TEA IL SOLSTIZIO D* ltVEERO E IL

TEMPO IH CUI IL SOLE TBAMORTA, OTB SOFFIA

IL FAVOEIO.

NelP o t t a v o in t e r v a l lo , cioè tra il s o ls t iz io d i

in T e r n o e i l t e m p o in c u i il s o le t r a m o n ta , a quel p o n t o da c u i s p i r a i l T e n to f a v o n io , b is o g n a fa i1

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DE RE RUSTICA LIB. I. 53o

nem habet, sarire ; vineas, arbuslaque potare. Cum in agri* opus fieri ooo potest, qaae sab teeto possunt, tane oonfidenda antelucano lem- po re hiberno. Qaae dixi, scripla et posila ha* b e re in villa oportet, maxime ui vilicus norit.

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CAPUT XXXVII

D« LUVABIBOS DIBBU9»

Dies lanares quoqne observandi, qai qnodam- modo bipartiti. Qaod nora lana crescit ad ple­

nam, et inde rursus ad novam lunam decrescit, quod veniat ad intermenstruum, e qao die di­c itu r luna esse extrem a, et p rim a; a quo eum diem Athenis appellant ivnv xaì vjavyTftaxafa alii; quaedam faciunda ia agris potius crescente luna quam senescente; quaedam conira, quae m etas, u t frumenta et caeduam silvam. Ego ista e lia ra , inquit Agrasias, non solum in ovibus tondendis, sed in meo capillo a patre acceptum servo, ni decrescente luna tondens calvus fiam. Agrius: Quemadmodum, inquit, luua quadripar­tita ? e t quid ea divisio ad agros pollet? T re- meilius : Nunquam rure audisti, inquit, octavo Janam ( lunam ) et crescentem, et contra sene­scentem ; e t qoae crescente Inna fieri oporteret, ( e t ) tamen quaedam melius fieri posi octavo Janam ( lanam ), qaam ante ? e t si qaae sene­scente fieri conveniret, meli as quanto minus ha­b e re t ignis id astrum ? Dixi de qaadripartita forma culturae agri.

Stolo : Csl altera, inqnit, temporum divisio conjuncta quodammodo cam sole et lana, quae in sex partita, qaod omnis fere fructus qainto denique grada pervenit ad perfectam, ac videt in villa doliam, ac modium, onde sexto prodit ad usam. Prim o praeparandam, secando seren­

dam, lerlio nutricandum, quarto legendum, qainto condendum, sexto promendam. Ad alia in praeparando, faciendi scrobes, aat repasti-

le seguenti cose. Se nelle terre arate vi è del­l'acqua, questa bisogna derivarla altrove ; ma se la terra è secca, e se non è tenace, è mestieri sar­chiarla. Conviene potar la vigna e P albereto. Quando nei campi non si può lavorare, in allora tutti que’ lavori, che si possono fare nella casa, si debbono fare in tempo d’inverno innanzi dì (i). T atto quello che ho detto, bisogoa scriverlo e metterlo in vista (a) nella casa villereccia, accioc­ché il castaido soprattutto nou lo ignori.

CAPITOLO XXXVII

Dsi GIOBBI LUtTAil.

Meritano pure osservazione i giorni lanari, i quali sono come divisi in quattro parti, perchè la luna dal nono giorno cresce sino alla sua pienez­za, e poi per contrario decresce sino al nono giorno, e da questo sino a che giunga alP inter­lunio, nel qual giorno si dice che la luna è al sao fioe e al suo principio (i), e che i Greci chiamano ad Atene il giorno antico e nuovo, e J altri il trentesimo giorno della luna (a). Alcune faccende vanno meglio fatte nelle terre a luna crescente, che a luna calante, e ceri* altre quan­do cala ; come mietere le biade e tagliare i bo­schi (3). Io, dice Agrasio, secondo P insegnamento di mio padre, pongo io esecuzione tal metodo non solo nel tosar le pecore, ma ancora nel ta­gliarmi i capelli, poiché non me li taglio che a luna calante, onde non divenga calvo (4). In quat maniera, dice Agrio, è divisa in quattro parti? e quale influenza ha questa divisione sopra le terre ? Non hai forse mai udito in villa, ripiglia Tremellio, parlar delP ottavo giorno avanti la

luna piena, e per contrario dell1 ottavo giorno dopo la luna piena, e dir di quelle operazioni che sieno da eseguirsi a lana crescente, e che alcune altre è meglio farle dopo il gioroo ottavo di lana piena (5), che avanti ; come altresì che alcone al­tre va meglio farle a lana vecchia, e allorquando qaesl’ astro dà minor !n m e ? E questo è quell<j d ie doveva dire di questi quattro quarti relativi

alla coltura delle terre (6).Vi è no’ altra divisione de* tempi, dice Sto­

lone, congiunta in certa guisa col sole e colla luna, la quale si divide in sei parti, per la ra ­gione appunto che quasi tati* i frolli non a rri­vano alla loro perfezione, e non riempiono le botti e i moggi della villa che nel qainto grado, e da questo non si traggon fuori pe' nostri usi, che nel seslo grado. Questi frutti bisogna prima prepararli (7), secondo seminarli, te n o nodrirli,

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531 m . t e Tr e n t i i v a r r o n i s 53a

nandum, aat sulcandam, a t ti arbaslam aat po­mariam facere velis; ad alia arandam , aut fo­diendam, a t si segetes instituas; ad qoaedam bipalio vertenda terra, plus aut minus ; aliae enim radices angustius diffundant, a t cupressi, aliae latius, ut platani, usqae eo, u t Theophrastus scri­bat, Athenis in Ljceo, cum etiam tane platanas novella esset, radices trium et triginta cubitorum egisse. Quaedam si bubus et aratro proscideris, et iterandum ante , quam semen jactes. Item praeparatio si quae fit in pratis, id est, a t de­fendantur a pastione, quod fere observant a pi­ro fiorente: si irrigua sant, ut tempestive irri- gentar.

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CAPUT xxxvmDb s t e b c o e b b t s t b e q u i l i u o .

Qaae loca in agro stercoranda videndum, et qai, et qoo genere potissimum facias ; nam dis­crimina ejus aliquot. Stercus optimam scribit esse Cassias volacriam, praeter palastriom «c

nantium. De hisce praestare columbinum, qaod •it calidissimam, ac fermentare possit terram. Id a t semen aspergi oportere in agro, non ut

de pecore acervatim poni. Ego arb itro r prae­stare ex aviariis turdorum ac meralarura, quod non solum ad agrum utile, sed etiam ad cibum ita bobus ac suibus, ut 6ant pingues. Itaque qui aviaria condacunt, si caveat dominus, stercus u t in fundo maoeat, minoris condacunt quam ii, quibus id accedit. C assi^ secundum columbinam scribit esse hominis. Tertio caprinum, et ovil­lam , et asininum. Minime bonum equinum, sed in segetes ; in prata enim vel optimum, ut caete- rarum veterinarum, quae ordeo pascantur, quod multam facit herbam. Sterquilinium secuudum villam facere oportet, u t quam paucissimis operis egeratar. In eo si in medio robusta aliqua ma­teria sit depacta, negant serpentem nasci.

quarto raccoglierli, quinto rinserrarli, sesto ca­varli fuori pe' nostri usi. Ve ne sono alcuni, U preparazione de1 quali rioerca delle fosse (8), o ano sfondamento del suolo, o de'solchi, com e quando vuoi fare degli albereti o de' verzieri : in prepararne altri conviene arare, o zappare, come nelle biade ; per la preparazione di altri è mestieri voltar più o meno la terra colla vanga ; imperocché alcune radici non si estendono (9) molto lungi, come sono quelle del cipresso ; altre, come quelle del platano, vanno molto lontane, e tanto che Teofrasto scrive esservi in Atene nel Liceo (10) un giovane platano, le cui radici non avevano meno di trentatrè cubili di lun­

ghezza. Alcuni altri frutti vogliono avanti dì es­sere seminali non nna aratura, ma due (11). Pa­rimente se i prati addimandano alcuna prepara­zione, questa consiste nel difenderli dall' ingres­so del bestiame ; il che per ordinario si proibisce quando il pero è in fioritura : se si possono ada­cquare, ciò è da farsi a tempo opportuno.

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CAPITOLO xxxvmD e l LETAME B DELLO STEBQUIMBIO.

Ora è da vedersi qua! terreno e quai luoghi del medesimo sono da letamarsi, e di quale spe­cie di concime eonvenga particolarmente servirsi, perchè ve ne sono di varie sorti. Cassio scrive che il migliore di tutti è quello de* volatili,

tranne quello dei volatili, ohe soggiornano nelle paludi o nell' acqua. Quello però de' colombi è da anteporsi a tutti (1), perchè è il più caldo e il più acconoio a fermentar la terra. Questo bisogna spargerlo sul terreno, come sì fa del grano, nè occorre ammucchiarlo, come si usa eon quello del bestiame. Io penso che sia da anteporsi a tutti quello che si trae dalle uccelliere dei tordi e dei merli, perchè non solameute è utile alle terre, come ancora perchè serve di cibo sì ai buoi, che ai porci, onde diventino grassi (a). Per lo che quelli che prendono a pigione le uccelliere, le prendono a un m inor prezzo, se il proprietario

■ ritiene il letame per le sue terre (3), e danno un maggior prezzo, se il concime vi è compreso. Cassio scrive che dopo il colombino viene lo sterco nmano, e in terzo luogo quello delle ca­

pre, delle pecore e degli asini (4)* H P '“ “ tfe* riore di tutti è quello dei cavalli, almeno nelle terre lavorate (5), ma pei prati è il migliore di tutti, come anche quello delle altre bestie da vet­tura, le quali perchè si pascono d' orzo, perciò questo letame produce molta erba. Bisogna fare

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533 DE RE RUSTICA LIB. I.

CAPUT XXXIX

Q u a t u o r k m b g i r e r à m i n M , f t q u a e qu o

TEMPORE AC LOCO SEBI DRBEANT.

Sationi* aotem gradus «ecandoi hanc habet na loram, ad quod tempas cujusque seminis apla sii ad serandum. Nam refert in agro ad qaam partem coeli quisque locas spectet, aie ad quod quaeqae tempas rea facillime crescat Nonne vi- demos alia fiorerà veroo tempore, alia ae?tivo : ncque eadem aatumoali, qaae hiberno t liaqae alia aeraotur, atqae iaseruotar, et m etantor ao- te a a t post, qaam alia ; et com pleraque vere meli u t, qaam aatamno ioseraotar, circitet* sol- •titiom interi ficos, nec non bramalibaa diebas ceraaoa. Qoara com semina fere qaatuor sint ge­n e ra i» , quaa transferuntor e terra in terram, vi- v ira di ccs ; qnae ex arboribaa dempta dimittitor in ham am ; quae inaerootur ex arboribus in arbores ; de aingalis rebas videndum, qaae quo­que tempore locoqoe facias.

CAPUT XL

Q oA » SINT GENERA SEMINUM, QURMADMODUM PROBA»

GARI DEBEANT, QUIBUS BT QUO LOCO SBRI DR-

BEANT.

Prim am semen qaod est prindpiam genen­di, id duplex ; unam, quod latet nostrum sen­sam ; alUram, qaod apertum : latet, si sani se­mina in atre, ot ail physicas Anaxagoras; el si aqua qaae influit in agram inferro solet, at scribit Theophrastus. Illad qaod apparii ad agri-

il letamaio presso la casa villereccia, onde par trasportarlo a* impieghino pochissime opere. Sé nel mezxo di questo si pianterà un qualche pexzo di rovere, non vi nascerà il serpente, per quanto se ne dice (6).

534

CAPITOLO XXXIX

C h b QUATTRO SOHO LB SPBCIB DI SEVEN1E, B IH QUAL

LUOGO B IH QUAL TEMPO CONVENGA SBMIBARB CIA­

SCUNA.

Riguardo al secondo grado (1), cioè al semi- namento, questo è particolarmente da osservarsi, che ogni semente devesi spargere in quel tempo che più le conviene. Imperciocché se importa a sapersi a qual piaggia del cielo sono esposte le differenti parti del campo, cosi pure è essen­ziale a sapersi il tempo in cui ogni cosa cresce più facilmente (a). Forse che non veggiamo al- enne piante fiorire in tempo di primavera, altre in estate, e che quelle, le qaali fioriscono in aatnnno, non sono le medesime di quelle che fioriscono in inverno ? E dbsì altre n seminano, altre a’ innestano, e alcune si racoolgooo prima0 dopo di altre : e poiché parecchie piante ama­no meglio enere innestate iu primavera, che in autunno, così ve ne sono alcune, come i fighi,1 quali a* innestano meglio verso il solstizio (3), e alcune altre nello atesso solstizio, come le ci­liegie. Poiché daoqae vi sono quattro specie di semenze (4), ona formata dalla natara medesi­ma, e tre altre scoperte dall’ arte, cioè le m ar­gotte, che si trapiantano da una terra in un* al­tra (5), i rami che si prendono dagli alberi e che si piantano in terra, e qnei rami di alberi, che s' innestano in altri alberi ; così è da ve­dersi qual tempo e qual luogo convenga ad ogni e singola specie.

CAPITOLO XL

Q pA L I SIERO LB SPECIE DI SEMENZE, IR QUAL MA­

RI BEA SI DEBBANO PEOPAGARB, QUALI SIERO DA

USARSI, B IR QUAL LUOGO SI DEBEARO SEMINARE.

11 primo seme, eh' è il principio della ge­nerazione (1), è di due sorte, una delle quali è nascosta ai nostri sensi, e V altra è facile a ve­dersi. Si sottraggono ai nostri sensi, se i semi sono nell* aria, come dice il fisico Anassago­ra (a), e se, come scrive Teofrasto (3), vi sono

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535 11. TERfcNTll VARRONIS 536

coit», id fidendam diligenter; quaedam enim ad genendum ( pro plere* ) usque adeo parva, ui

sint obscura, a l cupretsi ; non enim galbuli, qui nascunlur, id esi lanquam pilae parvae cor­ti ciae id semen ; sed in iis intus. Primigenia semina dedii natura, reliqua invenil experiealia coloni. Num prima, quae tine colono, priusquam sala, naia ; secunda, quae ex iis collecta, ueque priusquam tata,nata. Prim a teraina videre oportet,

ue veluslate t in i exsucta, ani ne tin t adm iita , aut ne propter similitudinem tin t adulterina. Semen vetus tantum valet in quibusdam rebus, a t na ­turam commatet ; nam ex temine brassicae ve- tere talo nasci a jant r tp t , et contra ex rapo­

rum brassicam.

Seconda semina viflere oportet, ne onde tol­las, nimiam cito, aat tarde tollat. Tempus enim idoneam, qaod scribit Theophrastus, Tere et au ­tumno, el eanicolae exorta : neqae om nibat locis ac generibas idem. In sicco e l macro loco, e t argilloso, Ternam tempas idoneam, quo mi­n a t habet bumoris. In terra bona ac piagai, aulumoo, quod T ere multas hum or, quam sa­tionem qaidam m elianlar fere diebas xxx.

Terliam genas s e m in is , qaod ex a r b o r e per s u r e a l o s d e f e r t u r i a t e r r a m , s ic i n h u m a r a de­m i t t i t u r , a t in q u ib u s d a m t a m e n s i t T i d e n d u m ,

u t e o t e m p o r e s i t d e p l a n t a t a m q a o o p o r t e t ; i d

e n i m f i t a n l e q a a m g e m m a r e a u t f l o r e r e q u i d

i n c i p i t : e t q u a e d e a r b o r e I r a o s f e r a t , u t e a d e ­

p l a n t e t p o l i u t q a a m d e f r i a g a s : q u o d p l a n t a e

s o l a m s t a b i l i a s , q a o la t ia » , a t r a d i c e s f a c i l i a s

m i t t a t ; ea c e l e r i t e r a n t e q a a m s u c a s e x a r e s c a t ,

i n t e r r a m d e m i t t a n t . Demum i n o l e a g in i s se­m i n ib u s ( a r b o r e s ) T i d e n d a m , u t s i t d e t e n e r o

r a m o ex u t r a q o e p a r t e a e q u a b i l i l e r p r a e c i s a m ,

q u a s a l i i c laT o la s , a l i i ta le a s a p p e l l a n t , a c f a ­

c i u n t c i r c i t e r p e d a le s .

strascinali dalla pioggia che cade sai campo. Gli altri semi, che cadono sotto i sensi degli agricoltori, meritano di essere esaminati dili­gentemente ; imperciocché alcuni di questi p rin ­cipii generativi sono tanto piccoli, eh1 è difficile a vederli, come sono quelli del cipresso; poi­ché le noci che nascono dal cipresso (4), non sono già le semenze, ma qaali picciole palle, che inviluppano il seme che dentro vi è nasoosto.I p r i m i s e m i g l i ha p r o d o t t i l a n a t u r a , e g l i

a l t r i g l i h a t r o v a t i 1* e s p e r i e n z a d e l l ' a g r i c o l ­

t o r e . Imperciocché i p r i m i s e m i s o n o n a t i senza

T o p e r a d e l c o l t i v a l o r e , e s e n z a che p r i m a f o s s e r o

s e m i n a t i (5) ; g li a l t r i a l l ' i n c o n t r o , che t r a g g o n o

o r i g i n e d a i p r i m i , n o n s o n o n a t i s e n z a e s s e r e

s ta t i p r i m a s e m i n a l i . Bisogna a v e r ben 1* oc­c h io a t t e n t o che i p r i m i s e m i non s i e n o s e c c h i

p e r troppa T e c c h ie z z a , cbe non sieno m i s t i a d

a l t r i , e che n o n sieno fa l s i f ic a t i i n g r a z i a d e l l a

r a s s o m ig l ia n z a . La T e e c h ia ia h a a i g r a n f o r z a

s o p r a certi semi, c h e n e c a n g ia la natura ; i m ­

p e r c io c c h é s i d ic e c h e d a l l1 aver s e m i n a to l a s e ­

mente d i c a T o li T eoch i s o n o nate d e l l e r a p e , e per contrario s o n o n a t i de* c a v o l i d a l l a s e m i n a ­

g io n e d i s e m e n z a T e c c h ia d i r a p e .

Bisogna aver attenzione c h e i semi seoonda- rii (6) non si trapiantino nè troppo presto, nè troppo tardi ; imperciocché il tempo opportuno per quest' operazione è, secondo quello che seri* veTeofrasto (7), la primavera, l’autunno e quan­do leva la canicola : nè questo tempo è da adot­tarsi indislintemente in tu tt’ i luoghi e in tutte le semenze. Il tempo acconcio per piantare nei terreni secchi, magri e cretosi è la p r im a T e r a ,

perché allora hanno poca umidità (8), e nel ter­reno baono e pingue è 1’ autunno il tempo più confacente, perchè nella primavera abbonda di troppo umido. C ertaai limitano queste pianta- gioni a xxx giorni all' incirca.

La terza specie di semeuza, la quale s i , trae dai rami dell’ albero per piantarla in terra, ri­cerca che quando si pianta in terra, sia in quello stesso momento lolla dall’ albero ; il che im porta mollo ad osservarsi (9). Queslo slrappamento poi si fa avanti che gli alberi comincino a gemmare, o a fiorire. Ed abbi attenzione che i rami, i quali tu torrai dall’ albero per piantarli, sieno dis­taccali con diligenza, onde non si rom pano (io), perchè quanto più il piede dal ramo piantato è

largo, tanto maggiormeole è sodo, e perciò più facilmente getta le sae radici. Questo ram o s i

deve piantare in terre con tulta la oelerità, a Tan­ti che si disecchi il sao socco. R iguardo ai semi degli ulivi, abbiasi attenzione di scegliere an ra ­mo tenero, e di tagliarlo uniformemente in ambe le estremità. Questi rami, che alcuni li chiamano

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537 DE RE RUSTICA UB. I. 538

Q oarlum genui seminis, qood traim i ex ar­bore io aliam. Y id e o d o a , qua ex arbore io q a a a transferatur, e t qao tempore, et quemadmodum obligetur ( oon enim piram red p it qaereos ; ne- qae eoim ci malus piram . Hoe feq aao ta r m alli, qai aruspices aad iao t m altam , a quibas prodi­tam, in singulis arboribas qao l genera ioti la fiat, o so iota tot fulmina fieri illad , qaod fal- mea concepit ; si in p iram silvatioam in tereris piram quamvis bonam, non fore tara jueundum , qaam fi in eam, qaae silvestris oon sii. In quam- cooqne arborem interas, t i ejasdem generis est daotaxsit, n t sii ntaraqne maina, ita io m e re opor­tet re fe rè n te » ad froetom, meliori genere n t cit to rca la* , qaam est, qoo veniat, arbor. Est altera spedes ex arbore ia arborem ioterendi naper animadversa in arborìbo t propinquis. E x ar­bore, e qaa qoit volt habere sor col am , io eam, qaam interere vult, ramulum tradaci*, et in e ja t ramo praeciso ae difitto implicai eom locom qai eoo tingit ; ex ntraqoe parte, qood in Irò ett, falce extenuator,.ita n t ex ona parte, qood ooe- lam v ita rnm ett, oòrticem com oortice f ia t» qaatum habeat. E ja t ramuli, qoem intereret, eaenmen n t direetam t i t ad coelom, c a r a t P o ­tie ro anno com comprehendit, node propaga­tam e tt , ( ab altera arbore ) praecidit

CAPUT XLI

Da T B vpoaiaus r m a a t m t i f o o a u n s u a c u to a u n , bt

q u i a p o c t sa tio h b ii oasxavARDA tn r r .

Qno tem p o re qoaeqae transferat, haec in primit videnda, qood qaae p rìo t verno tempore interebantur, n unc etiam to ltlitia li, o t ficai, qaod denta m ateria oon ett, et ideo teqa ita r caldorem. A quo fit, u t in locit frigidii fioeta fieri non p o t tia t . A qaa recenti im ito inim ica; tenellam enim cito faeit patre . Itaque qaod io- aeritar caniculae tigno, commodittime exislima- lur interi ; qaae aatem natara minus sunt mollia,

M. T xebnzio Vaeiobb

in latino clavolae, ed altri talca*y li lagliano lun­ghi on piede all' iuciroa (i i).

Rispetto alla quarta tpecie di temenze, la qua­le da un albero patta in no altro, è da farti at- teuzione all’ albero da cui si trae, e a quello in coi ti trapianta (ia), al tempo e al modo col

quale t* inneità ; imperciocché la quercia non ri­ceve il pero, come il pomo riceve I* innesto d d pero (iS). A ciò ahbedano quelli che confidano molto negli arutpici (i4), i qu tli danno per certo che quanti tono gl* innetti che ti trovano tu certi alberi capaci di attirare il fulmine, in un tratto tante volte vi piomberà ( i5). Se topra an pero talvalieo •* innetta un pero anche di eccel­lente qualità, le fratta non taranno tanto tapo- rite, come lo farebbero, te ti fotte fatto I1 innetto topra a a pero non lalvitico. Q aalanqae sia 1* al­bero che t* innetta, purché tia della medetima tpecie, come te ambidue tono pomi (16), biso­gna che 1* albero da cui si toglie l’ innesto, sia di miglior qualità di quello sopra cui •*inne­tta. Vi- i un* altra maniera d* innestare un al­bero topra un altro, la quale ti è scoperta poco fa, e che non ti mette in opera che negli alberi vicini. Dall* albero che ti vuole rim ettere ti fa pattare in quello che t i vnole inneità re un p io colo ra m o , e fendendo un ramo dell* albero che ti vuole innestare, vi •* interttee il ramo dell* albero vicino per mezzo dell* e t tremi l i , oon eoi reciprocamente ti toccano : quella parte, febe • 'in tro d u ce , t i assottiglia colla falce, e ti fa io guita che quella parte , la quale retta all* aria Ubera, t i unitea elettam ente eolia tua toorza alla ic o n a del ramo, nel quale è imerifa (17)» Si fa in maniera che la d m a del ramoscello, che ti è innestato (18), abbia la tua direzione versoil cielo; e quando nel tegnente anno ha ben preso topra V albero innettato, ti separa da quel­lo dal quale si è tolto per propagarlo (19).

----- 4»-----

CAPITOLO XLI

Dai T ia n n* r n u i r a i l c p u b t s , a di q u b llbCOIB GHI 10*0 DA OSfBBVABJI DQPO L* OSSUTO.

Riguardo al tempo in cui l ' innestano le pian­te, tono da osservarti prindpalm eote queste àom : che quelle, le quali in avanti s* innestayano in tempo di primavera, oggidì 1* innestano -anche nel solstizio di. estate, oòm.e tono i fichi, perchéil loro legnò non è compatto* e perciò*hanno bi­sogno di calore (1) ; dal che ne viene che nei* luoghi freddi non sì possono fare de7 fichereti. L* acqua arreca" grandi danni ai-novelli ioneiti,

i i

Page 89: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

vas aliquod supra alligant, on Je stillet lente aqua, oe prius exarescat sarculo i, qoam coalescat} cujus sarculi oorliccm integram servandum, et cum sic exacuendam, ut non denudes medullam; neexlrin- secoj imbres ooceaot aut nimios calor, argilla oblinendum, ac libro obligandum. Itaque vilem, triduo antequam ioserant, desecaot, ut qui io ea nimius est humor, diffluat ante, quam iaseratur; at io qua inserant, io ea paullo infra, qoam insi­tam est*, incidunt : aude humor adventicius ef­fluere possit; contra io fico, et malo Punica, et si qua etiam horum netura aridiora, continuo.Io aliis translationibus videndum, ot qaod trans­ferat io cacuiBco, habeat gemmam, ut in ficii.

53r)

De his ( primis ) qua t oor generibus seminum, qoaedam quad tardiora, «urcalis potias uten­dum, ut ia ficetis faciunt. Fici enim semen natu­rale iotus in ea fico, quam edimus; quae tuot minuta grana, e quibas parvis, quod enasci coli- eoli vix queunt. Omnia enim minuta et arida ad crescendam tarda ; ea quae laxiora, et foecun- diora ; ot foemina, qoam mas : ex proportione in virgoltis item ; itaque ficos, malus Pooica, et vilis, propter foemioeam mollitiam ad crescen­dam pronat contra palma, et cupresaus, et olea, in crescendo tarda; in hoc enim hamidiora qoam tfridiora ; quare ex terra potius in semina­riis sarculos de ficeto, qoam grana de fico expe­dit obroere: praeter si aliter nequeas: ut si qaando quis traos mare semina mittere, aut inde petere vult ; tum enim resticulas per ficos, quas edimus, maturai perserunt, et eas cum inarue­runt, complicant, ac quo volunt mittunt, ubi obrutae in seminario pariaot Sic genera ficoram, Cbiae, ac Chalcidicae, et Lydiae, et Africanae : item eaetera transmarina in Italiam perlata. Si­mili de causa oleae semen cum sit naclens, qood ex eo tà rd ias enascebatur cotis, qoam e taleis, id/eo potius in seminariis taleas, quas dixi, se­rimus.

poiché essendo troppo teneri, di leggeri li fa imputridire ; per lo che «i giudica essere migliori quegl* ionesti ohe li fanno al tempo della cani­cola (a). In qoelle piante poi, che sono di loro natura poco umide, sopra l ' innesto vi attacca on qualche vaso (3), da eui stilli goccia a goccia 1* aoqoa, accioochè 1* innesto non si disecchi pri- ma di essersi incorporato all'albero. Bisogna conservare intera la scoria dell* innesto, la quale si deve assottigliare in guisa, che non fi metta alto scoperto la midolla (4)* Per far poi, che esternamente non nuocano le piogge e il troppo caldo, bisogoa vestir 1* innesto di argilla e legarlo strettamente colla scoria. Per la qaal causa o taglia-

' no la vite da innestarsi tre giorni avanti, aodoc- cbè svanisca il troppo umido, di cui essa sovrab­bonda ; ovvero sia, dopo averla innestata, landò nn taglio un poco al di sotto dell* innesto, onde per quella parte possa nscire tutta 1* umidità che vi si presenta (5). Per contrario s* innestano su­bito il fico, la melagrana, e tutti quegli alberi ancora, che sono di una natura più secca (6). Ne­gli altri traspiantamenti è da tv venirsi che quella semenza la quale si traspianta,, abbia la gemma nella cima, come si osserva ne* fichi (7).

Tra queste quattro specie di semenza (8) ve ne sono alcune che tardano a crescere; e perciò è meglio piantare i germogli, oome si fa ne* fi­cheti : perciocché il seme naturale del fico è na­scosto dentro quel frutto che noi mangiamo, i quali semi per essere grani minali, possono ap­pena produrre piccoli fosti (9); perchè lult’ i semi minuti ed aridi sono tardi a crescere, e quelli che sono più grandi e meno secchi, fruttano anche a buon* ora, come veggiamo accader nelle femmine che sono più primaticce de* maschi (10):10 stesso luccede a proporzione ne* virgulti. Cosi11 fico, la melagrana e la vite crescono piò facil­mente, perchè si accostano alla femminea mol­lezza ; per contrario tardano a crescere la palma,il cipresso* 1* ulivo: laonde crescono più di leg­gieri le semenze più umide, che quelle le quali sono più secche (ii). E dunque meglio formare un vivaio di fichi coi germogli di fico, che co­prire in terra i grani del medesimo (12), almeno che oon si possa far diversamente, come quando sì è in necessità di spedir oltremare le semenze, o da di là farle trasportare: allora s* infilzano in in una cordicella i fighi maturi che noi mangia­mo (i3), e qaando sono secchi,<*’ inviluppano e si spediscono dove si vuole ; ed ivi si cuoprono di terra io un vivaio (i4), onde germoglino. In tal maniera sono stati trasportati io Italia i fichi di Scio, di Calcide, di Lidia, di Africa e lutti gli altri oltramarini. Per la medesima ragione, sic­come il seme di ulivo è il nocciolo, quindi perchè

54oM. TERENTII VARROWS

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DE Bfc RUSTICA. LIB. I. 54a

CAPUT XLD

Di V1UCA, SBC m e d ic a .

D e m«<Iica io primij observes, oe io terram nim iam aridam, sol variam, sed temperatam se- racn demittas; io ingeram unum, si est natura temperata terra , sèribant opas esse medicae sesquimodium ; id serilar ita, ut semen jactator, quemadmodum scilicet cam pabulum et frumen­tum serilar.

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CAPUT XLUI

D l CTTUO.

Cytisum seritur in terra bene subacta tan- quam semen brassicae: inde differtur, et in sesquipedem ponitur ; aut etiam de cytiso duriore virgulae deplantantur, et ita pangitur in serendo.

--4»--

CAPUT XLIV

Q u o t m o d ii s e r a r t u r f a b a e , t r i t i c i ,

HORDEI, PARRIS.

Seruntur fabae modii 111 in jugero, tritici v, ordei vi, fabris x, sed nonnullis locis paulIo am­plias, aut minus : si enim locus crassus, pias ; si macer, minos; quare observabis quantum in ea regione consuetudo erit sorendi : u t tantum facias, qaaotum valet regio, ao genus terrae ; ut ex eo­dem semine aliubi, com decimo redeat, aliubi eam qointodecimo, ut in Hetruria, et locis ali­quot, in Italia ; in Sybaritano dicuot etiam cum centesimo redire solitum ; in Syria ad Garada, et in Africa ad Byzacium item e i modio nasci cen­tum. Illad quoque multum interest in rudi terra, an in «a seras, quae quotannis obsita sit, quae vocatur restibilis : an in vervacto, qoae interdum requierit. Cui Agrius: In Olynthia quotannis re­

da questo nasceva più laydi il fasto, ebe da un ramo tagliato nelle due estremità, noi abbiamo piantato ne1 vivai' ( i5) piuttosto di questi rami, dei quali già dicemmo;

■■

CAWTOliO XLI1

D e l l 1 b r A m e d ic a *

Riguardo all1 erba medica è dà ot servarsi spe­cialmente di non spargere f i suo sema in una terra troppo arida, q frugola, ma temperata (i). Scrivono che in un iogpro, quando il terréno sia di sua natura temperato, fa mestieri uo moggio e mezzo di erba medica (a). Questa si semina gettando il seme in terra (3), in quella stessa guifa che si fa quando si seminano i foraggi e ie biade.

CAPITOLO XLIII

D e l c it is o .

Si semioa il citiso in una terra bene* lavorati, come appunto. suolsi fare pel seme dei cavoli: dappoi si traspianta, e le piaote debbono avere tra di loro la distanza di un piede e mezzo (i). Si prendono anche sopra un forte citiso dei pic­coli rami che vanno piantati coll1 acoennata d ir stanza.

--

c a p it o l o xjliv

Q u a r t i m o g g i d i p a v a , d i p o r m b r t o , d p o r z o ,

B DI PARRÒ SI SE MI RARO I » UH IUGBRO.

In un iugero si seminano tre moggi di fava, cinque di formento, sei di orzo, e dieci di farro ; ma in alcuni luoghi di queste semenze o se ne sparge un poco di più, o un poco di meno : poi­ché se il terreno è pingue, se ne accresce la qoan- tità, come si diminuisce in un magro (i). Laonde intorno alla quantità della semenza osserverai r uso del paese, aociocchè tu semini quella misnra che richiede la natura del paese e del terreno; essendoché la medesima quantità di seme dà in certi luoghi il dieci, ed in altri il quindici per uno, come nell1 Etruria e in alcuni altri paesi di Italia. Dicono ancora, che nel terreno Sibaritico suolsi ritrarre il cento per uno, e che lo stesso pure si avvera nella Siria presso Gadara (a), e in

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543 M. TERENTII VARRONIS 544

slibilia t u e dionnt,;sed iU o ì Urlio quoque anno uberiores ferant fractas» Licinias: Agrum alternis annis relioqui oportet, $o^panilo levioribus n - tkm ibas serere, id est, quae'minus sugunt ter­ram. Dicetur, inquit Agrius» de tertio g radu , de nutricationibus, atque alimoniis eorum. Liciniui: Q aae naia ian t, inquit, in fando alescunt, adulta cóncipiuot, praegftatatia cum fcunt, matura pa­r ia n t p o m f,a u t spicam :-sta alis. Simile ei, a qao profectam, redit semen. lù q a e *i florem, acer- bam que pirum, aliuère quid decerpseris, in eo­dem Jooo, eodero anno,, nihil. renascitor, qaod praegoa^oois ideil bis ha bare non po test; u t enim malieres habent a d p jr t a m diei certos, sic arbores ae fragts.

CAPUT XLV

S a *A QUOTO* QOAE QUE’ DIB DB TEEEA PEODBAHT.

Prim am plerumque t terra exit ordeum die­bus tu ; nec malto poit triticam ; legumina fere q u a trid u o , aa t quinione . d iebus, praeterquam faba; fa ' eilim serius aliqoento prodit seges. Ostendit Idem milium et sesama et caetera simi­lite r aequis* fere d ieb u t, praeterquam si quid regio, aul tempestas filii a ttulit, quo mioui ita fiat. Quae in seminario nata, si loca e ru n t frigi­diora, quae molli nalara sant, per brumalia tempora tegere oportet fronde aut stramentis: si e ran t imbres secali, fideodom neeabi aqaa eoo- s ista t; tenenam enim gelum radicibus teoellii sub terra, e t sapra f ir gallis, qaae neo eodem tempore aeque creicunt; nam radioes aatam oo aa t hieme magis sub terra, quam sapra adole* aeunt, qaod tectae terrae tepore propagantur, capra terram aere frigidiore r in g u n ta r; id que iU esee docent silfestria, ad quae sator non acces* ait ; nam prius radioes, quam ea qaae ez iis solent nasa , cresca o t; neqae radioes longias procedunt, nisi quo tempore fen it sol ; his daplex causa,

Africa ael Bixado. Parimente importa m olto a sapersi se ta semini in ana terra incolta, o in ana che si semina tolti gli anni, e che in latino m chiama restibilis ; o t fe ro in ana che si lascia quieta di tempo in tempo, che dai Latini si dice vervactum, e da noi maggese o norale. Agrio gli disse : Si pretende che in Olinto si seminino le terre tatti gli anni, ma che però oon produca­no frutti copiosi che ogni te n o anno. Licinio ri­piglia : Bisogna che la terra si lasci riposare an anno si, ed ano no ; o almeno non caricarla ogni seoondo anno che di semense leggiere, cioè di quelle ohe poco assorbano il sacoo della terra. Parlaci dunque, dioe Agrio, del te n o grado (3), cioè delle oolritioni e degli alimenti delle scanni­le . Le eemenli che sono nate, crescono, dic' egli, nel fondo ; fitte adulte concepiscono, e quando sono pregne e mature partoriscono fra tti, o spi­ghe. Similmente prodacoasi gli altri fra tti. Ogni semenza riproduce sempre una simile semente. Per lo che se tu staccherai il fiore, o il fratto immaturo del pero, o di qualsif oglia altro albero, iu quel luogo dove i m i colto o l 'u n o , o l'altro, non f i nascerà. niente in quell'anno , perchè il medesimo fratto non può essere concepito dee folte in an giorno (4) ; nella stessa gaisa che le donne hanno i loro giorni Assi pel parto, coti gli alberi e i fru tti della terra.

CAPITOLO XLV

I h q u a l g io b h o i v a b ii se m i escav o d e l l a t b e e a .

D 'ord inario esce della terra primo di tatti l ' orzo, il quale spunta sette giorni dopo essere stato seminato. Il fermento esce D òn m olto tempo dopo. 1 legumi spantano fuori quasi dopo qoat*’ tro giorni o cinque, tranne la (afa, perchè que­sta esce di terra alcuu poco piò tardi (1). 11 campo seminato fa apparire parimente tra i quattro o i cinque giorni il miglio, il sesamo ed altri simili graui, quando bene non sieoo ritardati o per di­fetto del paese, o per la catlira stagione. Se il terreoo è troppo freddo, bisogna coprire, ael lejnpo d d solstiiio d1 inferno, di foglie o di pà­glia quelle piante che sono nate oel rira io , e che sono di una natura dii ics U. Se ai freddo poi te r ­ranno dietro le piogge, si faccia in guisa che l’acqua non ristagni io alcuo luogo ; perchè il ghiaccio è un f eleno non tanto alle tenerelle radici che sono sotterra, quanto ai fusti ohe stanno *1 d i «opra, quantunque sì le une, che gli altri non crescano egualmente nel medesimo tempo, perchè le radici sotto terra crescono piò io aotaono o in in fe rn o

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545 DE BE RUSTICA LIB. L 5 4 6

quod «I radicum ma U rum aliam, qoam aliam longius projicit D a tu r a ; el quod «Ki t e r r a alia facilius viam d a t .

♦ —

CAPUT XLVI

Ex qunui ro tu i coevosa possint assi temtoea.

P ro p le r ejuimodi rei admiranda discrimina suoi naturalia , qood ex quibusdam folii» propter eorum versuram, quod iit anni tempo», dici pos­s it, u l olea, e t populus alba, et salix. Horam en im folia, cum converterunt se, solstitium dici­tu r fuisse; nec minua admirandum, qood fit in floribus quo i vocant beliotropia, ab eo qood ad •olis o rtu m mane spectant, e t ejus iter ita sequan­tur ad occasum, u t ad eum semper specient.

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CAPUT XLVn

Q u u a d m o d p m SATA TOENDA H IT .

Io seminario qoae surcolis comita, et eorum molliora e ru o t nator» cacumina, ut olea ac ficus, ea inmma integenda binis labellis dextra e t sini­stra deligatis, herbaeqoe elidendae, et dum tene­rae sunt vellendae*; prius enim aridae factae ri­xantur, ae celerius rum puntur, quam sequuntur. Contra berba in pratis ad spem foeniiiciae nata, noo modo oon evellenda io outricatu, sed etiam non calcanda ; quo pecus a prato ablegandum, et °mne jumentum, ac etiam homines ; lolum enim bdminis exitium herbae, s t semitae fundamentom.

---«0»----

dei fosti che staono al di sopra (a), per la ragione che coperte di terra, il calore di questa serve a dilatarle ; laddove quanto havvi sopra la medesi­ma, viene ristretto dall* aria eh* è più fredda (3). E che sia cosi, ce lo dimostrano le piante selvag­ge, delle quali il coltivatore non ha alcuna cura; imperciocché crescono prima le radici di quanto suole nascere dalle medesime : e le radici non si estendono più da lungi, se non in quel tempo, in cui il sole le riscalda (4). Due sono le cause dei maggiore allungamento delle radici: la prima dipende dalla natura, la quale allunga più alcune radici, che altre ; e la seconda dipende dal terre* 00, essendovene alcuni che danno più libero il passaggio alle radici di altri.

CAPITOLO XLVI

Da q u a l i f o g l ie ti p o m a t o conoscati1 TEMPI DELL* ANNO.

In grasia di consimili ragioni si osservano dif­ferenze meravigliose nella na tu ra ; perchè dal ve­dere a qual parte sono rivolte alcune foglie, si poò sapere in qoal tempo di anno si è (1). Tali sono le foglie dell* ulivo, del pioppo bianco e del salice ; perchè quando la foglia di queste piante si sono rivolte, si sa essere già passato il solstizio di siate. Nè è meno maraviglioao quello che si osserva io alcuni fiori,chiamati girasoli,! qoali oella mattìoa si volgono a quella parte, da cui nasce il sole, e lo seguono nel suo corso sino a che tramonta, dim o­doché sono sempre rivolti verso il medesimo.

c a p it o l o X Lvn

l a QUAL KANIEtA SI DIPENDANO I SEMINATI.

Qoe* vivai che sono piantati di germogli, e le cime de* quali sono di loro natura più tenere, come sono quelle dell* ulivo e del fi00, si debbono coprire nella sommità per mezzo di doe tavole insieme ooite, una delle quali sia a destra, ed una a sinistra (1). Debbonsi ancora sradicare le erbe ed estirparle prima, e fino a tanto che sono tenere ; imperciocché, Citte adulte e forti, resi­stono e piuttosto si rompono che lasciarsi sradi­care (a). Per contrario, I* erba nata ne* prati, e che dà speranza di buona raccolta di fieno, non solo non si debbe sradicare nel tempo che si nu ­trisce, ma ancora non si debbe calpestare coi pie­di (3) : in allora si dovrà tener lontano dal prato

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M. TERENTII VARRONIS 545

il b u t ta n e « ogni giumento non solo, ma anche gli uomioi, perche il piede dell’ nomo è 1« m in a dell 'e rba che calpesta, com1 è il fondamento di nuovi sentieri.

c a pu t X Lvra

Q gax » spicà s i n tocàsula , kt causai kokub.

In segetibus autem frumentum, quod cnlmus extulit. Spica ea, quae mutilata non est, in ordeo et tritico trja habet continentia, graoum, glu­mam, aristam : et etiam primitus spica cum ori- tu r, vaginam ; granum dictum, quod est intimum solidum ; glnma, qtai est folliculus ejus ; arista, quae u t acus tenuis longa eminet e gluma ; p ro ­inde ut grani theca sit gluma, et apex arista. Ari­sta et granum omnibus fere nolum : gluma pau ­cis. Itaque id apud Ennium solum scriptam scio esse in Evhemeri libris versis ; videtur vocabu­lum etymon habere a glubendo, quod eo folli­culo deglubitur granum; itaque eodem vocabulo appellant fici ejus, quam edimus, folliculum Ari­sta dicta, quod arescit prima ; granum a geren­d o ; id enim seritur, uti spica gerat frumentum, non ut glumam aut aristam gerat: ut vitis sari­tu r , non u t pampinum ferat, sed nvam. Spica autem, quam rustici, u t acceperunt antiquitus, vocant specam, a spe videtur nominata ; eam enim quod sperant fore, se ruu t Spica mutica dicitur, quae noo habet aristam : eae enim quasi cornua aunt spicarum, qoae primitus cum o riun tur, nc­que plane apparent, qua sub latent herba, ea vocatur vagioa, uti qua latet coodilum gladium. Illud aulem somma in spica jam matura, quod est minus quam granum, vocatur frit ; quod io infima spica ad culmum stramenti summam, Stem minus quam granum est, appellatur u rrun ­cum.

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CAPITOLO XLVni

Q u a r t i ho m i si d u i o v i l l a sp ic a , k p e e c h é oo t)

CHIAMATI.

T ra i grani che si annoverano nella classe del Tormento, quella parte che costituisce la sommità della pianticella, si chiama spica (1). Questa che nell’ or*o e nel fom ento non è troncata (a), ab­braccia tra parti, cioè il grano, la lolla e la barba, senta contare anche la vagina che porta la spica, quando comincia a nascere. Si dice grano il corpo solido rinchiuso nel guscio ; lolla il folli­colo del medesimo grano, e barba que’ fili che escono dalla sommità del guscio, e che si pro­lungano come un ago fino; di maniera che la barba è come la corna del grano (3). La barba ed it grano sono quasi noti a tulli ; ma la lolla è nota a pochi. Per quanto a me consta, so ohe soltanto ne fa menzione E nnio nei libri di Eu­

hemero (4)> eh’ egli ha tradotti. Pare che 1* eti­mologia della lolla, detta in latino gluma, derivi

da dilollare, ossia dal verbo latino glubere, per­chè si spoglia il grano del suo follioolo ; pereiò

questo medesimo vocabolo si dà al follicolo di quel fico che noi mangiamo. La barba è detta in latino arista, perchè è la prima a sfocarsi. Il grano si chiama in latioo granum dal verbo ge­rere, o portare, essendoché si semina il fermen­to, onde questo porli la spica, non già la lolla, o la barba ; in quella guisa che si pianta la vite, acciocché questa non porti i pampani, ma bensì 1’ uva. La spica poi, che i eontadini chiamano in latino speco, parola antica,*eh’ eglino hanno con­servata, sembra essere stata così delta dalla pa­rola spe (5), speranza, poiché seminano il grano, sperando che produrrà delle spiche. Si chiama spica scornata quella eh’ è priva della barba, perchè le reste sono oome le corna delle spiche, le quali, quando principiano anasoere, e qaando distintamente non ap p ariro n o , tono inviluppate

dall’ erba, delta vagina, come pure si chiama cosìil fodero che rinchiude la spada. Quel oorpo poi, che si trova nella aommità della spioa già ma* tura, e eh’ è più picciolo del grano, si chiama f r i t ; t si dice urruncum (6) quel corpo eh’ è nella parte più bassa della spica all’ estrem ità superiore della paglia, e che parimente è p iù pic­

ciolo del grano..

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5.<9 DE B t RUSTICA Llfi. I. 55o

D i pbucvibus là T v i r t c ip re m s , db foenisicio

BT 9K3ILITIOHB FBATOBI7M.

Com conticuisset nec interrogaretur de n u ­tricatu, credens nibil desiderari : Dicam, in qai I, de frac tiboc maturis capiendis. E l ille, primam de prati» summissis, herbe cum crescere desiit, e t «està a rese* t, subsecari falcibus debet, e t qaoad perarescat, furcillis versari ; cura peraruit, de h is manipulos Beri, ao vehi ad villam ; tam de pràlis stipulam rastellis eradi, atqae addere foe-’ nisiciae cumojom. Qao facto sicilienda prata, id est, falctbas consectanda, qaae foeniseces prae- terieront, ac qoasi herba tuberosam reliquerant campam» A qaa sectione arb itro r dictum sicilire pratum*

CAPUT XLIX

CAPUT L

D i MESIS BT CAUSA HUJUS VOCABULI, QU^BB HBSS1S

APPELLATA, QUABB PALBAB AC FTBAMINTA.

Messis proprio nomine dicitor io i is , qoae metimur, maxime io frumento, et ab eo esse vo­cabulo declinata. Frum enta tria genera sunt mes­sionis, anum , a t in Umbria, ubi falce secundam terram succidunt stramentum; et manipulum, ut quemque snbsecueruut, ponant in terra ; ubi eos fecerunt multos, iterum eos pereensent, ac de sin- gulis secant inter spicas et stramentum : spicas conjiciunt in corbem, atqoe in aream m ittu n t; stramenta relinquunt in segete, onde tollantur in acervum. Altero modo metunt, u t in Piceno, ubi ligneum babent incarvam ba tiliam, in quo sit ex­trem o serrula ferrea ; haec cum comprehendit fascem spicarum, desecat, et atramenta stantiaio segete relinquit, u t postea subsecenlor. Tertio modo metitur, u t sub urbe Roma et locis ple- risque, u t stramentum medium subsecent, quod m anu sinistra summum prehendunt: a quo me­dio messem dictam puto; infra manum stramen­tum , quod terrae haeret, postea subsecatur. Con­tra , quod cum spica stramentum haeret, cor bibas

D i l l a b a c c o l t a d b1 f r u t t i m a t u b i , d e l t a g l ia ­

v e n t o DEL FIENO, B DEL SECONDO TAGLIO DBI

PBATI.

Essendosi taciuto, nè venendo ulteriormente interrogalo, e credendo che intorno all* nutri­zione delle piante non vi sia altro a desiderare : Dirò, die1 egli, della raccolta de1 frutti maturi, e primieramente de’ prali baisi (i). Quando 1* er­ba ba terminato di crescere, e che il caldo co­

mincia a seccarla, bisogna tagliarla ralente, alla terra, e moverla colle forche, finché sia intera­mente seccata : dopo di che li formano de1 muc­chi, e si porta nella villa il fieno (2). Ciò fatto, col rastrello si rade 1' erba rimasta ne' prati, e li aggiunge al mucchio (3) dell* erba tagliala. Dopo questo, bisognerà di nuovo tagliare quell1, erbà che si sarà lasciata indietro nei prati dai segatori, e la qual erba fa che il terreno sia come lube- roio (4)> Da questo secondo taglio de* prati io penso che sia derivila 1« parola latina sicilire, ossia tagliare.

CAPITOLO L

D e l l a b a c c o l t a , b d e l l a b a g io n b f e b c o i c o s ì

s ì c h ia m a ; c o m i an che d e l l a ba g io n b p e b c u i

LA FAGLIA ì. DETTA I I LATISt) P J L E J B STUÀ-

MEitTuar.

La panHa raccolta, che in latino si dice m ej- sis, non si applica in senso proprio che alle cose, le quali misariamo (1) : e questa voce è derivata dal verbo m isurare , ossia dal latino m etir i . T i sono tre maniere di raccogliere la biada : una che si usa nell’ U m bria, e consiste in tagliare colla falce a fior di terra la paglia , e nel mettere in terra ogni manipolo che si è tagliato rasente hi stessa. Quando di questi manipoli se ne sono tagliali molti, di nuovo si prendono per mano, e si taglia ognuno tra la spica e la paglia : le spiebe si pongono in una corba per farle portare sul- 1' aia, e le paglie si lasciano in terra, e dappoi si ammucchiano. Nel Piceno si miete iu uu’ altra maniera, adoperandoli una pala di legno incur­vata, nella cui eilremilà si mette una seghetta di ferro (a). Con questa si prende un fascio di spi­che, si tagliano, e si lasciano in piedi sopra il

terreno le paglie per essere dipoi tagliate rasente terra. Nella terza maniera si miete ne* contorni di Roma e in parecchi altri luoghi, tagliandosi

CAPITOLO XLIX

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55t M. TERENTU VARRONIS 55i

io aream defertur ; ubi discedi! in aperto loco palam: a q u o potest D o m l o t l t esse palea. Alii stramentum i stando, o t stamen dictura putant. Alii ab stratu, quod id sobsteroator pecori. Cum est matura seges, metendam, com ia e a jugerom

f e r e o o a o p e r a propemodom ia facili a g t o sitis esse d icito r : messas spicis corbibus io areim deferre debent.

CAPUT LI

A b b u i q u a l i* b isb o fo b t b a t .

A retm esse oportet io egro, toblim iori loco, qaam perflare possit veotos ; hanc esse modicam pro m igoitadine tegetis, potissimum ro tundi m, et m editor piallo exlam idtm ( a t si plaerit, non consistit i q a t , et qaam brevissimo itinere extra are tm defloere possit ; orone porro brevissimam in ro tando e medio id extrem am ), solidi t e r n p iv itim , maxime si est t rg il l t , ne iet<a prtem i- nosa io rimis ejus grana oblitescint, et recipiiot •qaam , et ostii iperiaot m aribus te formicis. Itaque am aret solent perfuodere ; e t enim her- b tram (est in im ici), et fo rm ic trom ,et ttlp tru m veqenum. Qaidam tre tm o t habetn t solidam, vnnniunt lapide, aut etiam Cadoot ptTimentam ; npnnalli etiam tegunt tre ta , n t in Btgiennis, quod ibi siepe id temporis in n i o rian ta r nimbi ; ab i e t re tecti, e t loci calidi, prope aream faciundom a m b n ca lt, qao sacoedint homines io tes ta tem­pore m eriditno.

ivi Ii p ig lit alla m eti dellt sua a lle t t i , e lenendo nella m ino sinistra It so t estremità : e perchè si taglia in medio> ossia per lo m etto , credo percio che si sit delta messis, o raccolti (3) : dopo ti taglii ■ fior di terra e tolto U m iao la paglie che i t i r i t t i sop ri terra. Per oontrario quelli paglia cui è i l t io c i t i l i spici, si po rti per m e tto

di «orbe sali* aia, ore si septra d i l l i spici, e l i p ig ili si p o r ti io an laogo ip e rto e t i l t scoper­t i ; e forse d i questo può estere s t i t i detta pa­lea (4). Alcuoi pensano che la p tg lii t i d ic i ia latino stramentum d i i verbo s ta r t, o restare to p r t terra, nella stessa guisa che si dice stameJt,o stime dillo stesto verbo (5) : altri vogliono che 'derivi da stratus , o steso, perché U p ig li i st stende sotto il bestiime. Q otndo l i b itda è ma­tara , a» debbe mietere. Si dice che b ista quasi on* opera per mietere on iogero di b i td i , porcheil etmpo non sii difficile t mietersi. L t epiche mietale si mettono in corbe, e poi si portano sol- Paia.

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CAPÌTOLO LI

Q u a l e DEBBA BSS1BB L* AIA.

Bisogni che P t i t sii on campo aperto oel laogo più elevato del medesimo, e che possa es­sere esporta al vento. Questa debb* essere pro­porzion iti t i l t grandezze delle terre lavorate, piuttosto ro to n d i, ed ilcon poco e lev iti o d mezzo, cosicché piovendo l* acqua non vi si fer­mi, inzichè possi u sd re fuori dell* aia per la più

breve strada (poiché nella figura rotonda, la strada la più breve, è qaella dal centro all* estre ­mità). Bisogna che sia formata di terra solida ben ba ttu ti, e spedai mente farli di e re ti, accioc­ché il troppo ctldo non le nooet, e non vi n a ­scano delle fissare, nelle qoali si nascondino i grani, vi entri I* to q o t, e vi possino entrare sorci e formiche (t). Per l i q m l cosi sogliono b tg u a rii di m orchii, perchè qoesti è qu ii veleno per 1* er­be, per le formiohe e per le tilpe (a). Alcuni poi, per tvere un* t i t più solidi, l i listriòtno, o V am - m tllon ino . Non m tnctno altri, i qnali la coprono,

oome fanno i Bagienni (3) ; perchè ivi, ne) tempo appunto che il grano è sull* t i t . D iacono sovente de* nembi. Q utndo P t i t è allo scoperto, e che il paese è caldo (4), bisogna fare in v id n in t i ad essa degli ombracoli, ove possano andarvi sotto gli uomini, quando infierisee il caldo del m eitod ì.

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553 DE RE RUSTICA LIB. 1. 554

CAPUT LH1« S SM BIT QUEMADMODUM SPICAS SBCBBVI OPOTBAT,

BT DB TRITURA.

Qaae seges grandissima atqae optima fuerit, seorsum in aream secerni oportet spicat, u t semen optim am habeat. E spicis in aream excali grana; qao fit apud alios jamentis junctis, ac Iribulo; id fit e tabula lapidibus, aut ferro asperata, quo imposilo auriga, aut pondere grandi trah itu r ju­mentis junctis, a t discutiat e spica grana : aut ex assibus dentatis cum orbiculis, quod vocant plo- stellum poenicum. In eo quis sedeat atqne agitet, quae trahant, jumenta, u t in Hispania citeriore, et aliis locis faciunt. Apud alios ex teritu r grege jum entornm inacto, et ibi agitato perticis, qaod ungulis e spica ex teran tur grana ; iis tritis, opor­tet e terra subjactari vallis, aut ventilabris, cum ▼e n tu s spirat lenis : ita fit, nt quod levissimam est in eo, atque appellator acus, evannatur foras extra irearo, ac frumentum qood est ponderosam, parum veniat ad corbem.

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CAPUT unD b STIPULA.

Messe facta spicilegium venire oportet, aut domi legere stipulam : aut si sunt spicae rarae, et optrae carae, compasci. Summa enim spectanda, ne in ea re snmtus fractum saperet.

CAPUT LIV

D b V1EDEM1A FAC1BHDA.

Io vinetis uva caro erit matura, vindemiam ita fieri oportet, ut videas a qao genere uvarum, et a quo loco vineti incipias legere; nara et prae-

M . I s B i m o V a r r o n e

c a p it o l o L nD e l l a m a n ie b a con c u i biso g n a s e p a r a r e d a l l e

SHCH8 LA SBMBNZA, B DELLA TREBBIATURA.

Onde li abbia un 'o ttim a semenza, bisogna mettere a parte nell' aia le spiche che saraono state prodotte dalla più bella e dalla migliore pezza di terra (1). Nell'aia si traono fuori dalle spiche i* grani ; il che si fa appresso alcuni coi giumenti e colla trebbia. Questo stramento si fa con una tavola armata sotto di pietre o di ferro, sopra la quale salitovi il conduttore, o messovi un peso considerabile, si fa strascinare da1 giu­menti aggiogati, onde dalle spicbe si traggano fuori 1 g ran i: ovvero è composto di travicelli forniti di denti e di picciole ruo te; e questo stram eato si chiama carretta cartaginese (a). So­pra questa vi sede alcuno p e r condurre i g iu­menti che la tirano, come si fa nella Spagna cite­riore e in altri luoghi. Appresso altri si separa il grano, cacciando tra le spiche una truppa di giumenti, e battendole nello stesso tempo con pertiche, fino a che per mezzo delle ogoe siati interamente separato il grano (3). Battute che sieno le spicbe, bisogna trarre in alto il grano con vagli, o con palle, quando soffia un vento leggiero : con che si fa che quanto havvi misto di leggiero, ossia la lolla, si getta fuori d e ll 'a ia ; e in tal maniera la biada, per essere più pesante, si ripone senza alcun mescuglio nelle corbe.

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CAPITOLO LUI

DBLLE SPIGHE CHB LASCIAVO ADDIETRO I MIETITORI.

Fatta la raccolta, bisogna vendere (1), o co­glier le spiche lasciate addietro dai mietitori, e portarle a casa : ovvero, se le spiche tono rare e gli operai a caro prezzo, bisogna farle pascolare; imperciocché si debbe aver tempre in vitta V u-

tile, onde in tale faccenda la ipeia non superi il profitto.

CAPITOLO LIV

D e l l a m a n ie r a d i f a r e l a v e n d e m m ia .

Quando 1' uva sarà matura ne' vigneti, così bisognerà fare la vendemmia, esaminando prima

da quale specie di ava, e da qual luogo del vi­ta

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555 M. TKRKNTU VARRONIS 556oox, el miscella, quam vocant nigram, multo ante coquitur ; qoo prior legenda i et qnae pars a rb u ­sti ac vineae magis aprica, prius debet descendere de vite. In vindemiam diligentius uva non solum legitur ad bibendum, sed eligitur ad edendum. Itaque lectius defertur in forum vinarium, unde in dolium inane veniat: electa in secretam corbu­lam, unde in ollulas addatur, et 1n dolia plena vinaceorum contrudatur ; alia, quae in piscinam in amphoram picatam descendat ; alia, qnae in «ream, ut in carnarium ascendat. Quae calcatae uvae erunt, earum scopi cum folliculis subjiciendi sub prelum, ut <si quid reliqui habeant musti exprim atur in eundem lacum. Cum desiit sub prelo fluere, quidam circumcidunt e i trema, et rursus prem unt : et rursus cum expressum, cir­cumcisi tum appellant, ac seorsum, quod expres­sum est, servant, quod resipii ferrum ; expressi acinorum folliculi in dolia conjiciuntur, eoque aqua additur : ea vocatur lora, quod lota aciua, ae pro vino operariis datur hieme.

»

CAPUT LV

1>S OLIA L W I I I i .

De oliveto ; oleam quam maou tangere pos­sis e terra, ac scalis, legera oportet potius quam quatere, quod ea, quae vapulavit, macescit, nec dat tantum olei ; quae maou stricta, melior ea, quae digitis nudis legitur, qu«tm illa quae cum digitalibus; duricies enim eorum non solum stringit bacam, sed etiam ramos glubit, ac relin ­quit ad gelicidium relectos. Qui manu taogi non poterunt, ita quali debeat, ut arundine potius quam pertica feriantur ; gravior enim plaga rae- dicum quaerit. Qui quatiet, ne adversam caedat ; saepe enim ita percussa olea secura defert de ramulo plantam ; quo facto, fruelnm amittunt posteri anni ; ut haec non minima causa, quod oliveta dicant alternisanois noa ferre fructus,aut non aeque magnos. Olea u t uva per idem bivium redit ia villam, alia ad cibum eligitur, alia ut

gnaio si debba cominciare • vendemmiare ; im ­perciocché e 1’ ava primaticcia, e quella mista, che chiamano negra, si m atura lungo tem po avanti 1' altra ; per il che debbe essere la prim a a raccogliersi. Parimente dovranno essere le p ri- me a distaccarsi dalle vili quelle ave, le qaali, sieoo esse m aritate agli alberi, o no, sono espo­ste al sole. Nella vendemmia che si fa sotto un diligente proprietario, non solo si raccoglie 1* ava per bere, ma si sceglie ancora quella che si m ag­gia ; sicché l* ava raccolta (i) si porla nel luogo, ove si spreme, per riempiere dappoi le botti ; e la scelta si mette a parie oelle corbe, sia per riempiere delle picciole olle che si cacci ano den­tro le bolli piene di vinacce (a), sia per conservarla in anfore impegolate e che si mettono ia con­serve d’ acqua, sia per riporla io a a aito allo, per poi attaccarla io alto nella dispensa (3). Quan­do poi i grappoli saranno stali pigiati, bisogne­rà spremere nel torcolo i racimoli de* grappoli in uno ai gusci delle uve, onde quel poco di mo­sto che oonlengono, si unisca nella fossa al pri­mo. Quando dal torchio non esce altro mosto, alcuni sogliono tagliare attorno le vinacce, e spremerle di nuovo : e quel vino che si trae con questa seconda spremitura, si chiama in latioo cìrcumcisitum(b)y e lo mettono a parte, perchè sa di ferro. 1 gusci dei grani spremuli si ripongono in botti, e sopra vi si versa d e ir acqua. Questo vino si chiama acquerello, perchè s* innacquanoi gusci de* grani, e si dà agli operai iu luogo di vioo nell* inverno.

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CAPITOLO LV

D e l l a m a n ie r a o i a a c c o g u e e b l * o l i v a .

Dell* oliveto. Quell* oliva cha ta puoi, stando ia piedi, o per roeuo di scale, toccare colle mani, bisogna piulloslo raccoglierla colla maoo, che abbacchiarla ; perchè quella che si b a t ta s i sma­grisce e non dà molto olio. Raccogliendola colla mano, sarà meglio coglierla colle dila nude (i), che colle dita fornite di ditali ; imperciocché la durezza di questi non solo stringe di troppo la bacca (2), ma scorza ancora i rami, e li lascia esposti al ghiaccio. Que* rami che oon si potranuo

toccare colle mani, si dovranno piuttosto battere con canne, ebe ferire colle pertiche ; perchè una ferita considerabile non può far di meno di m e­dico. Chi batterà gii olivi, guardisi dal batterli • rovescio, perchè sovente abbacchiandoti in tal modo T oliva, seco strascina anche dei ramo­scelli : dal che oe nasce la sterilità ae* vegnenti

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DE EE RUSTICA L1B. I. 558

eliqoescat, ac non tolam corpos intns angaat, sed edam extrinsecus : itaqne don im im et balneas, et gymnasiam sequitor. Haec, de qaa fit oleam, eongeri solet acervatiaa por dies singulos In la- boiata» uti ibi mediocriter fracescat, ac primus qoisqne acervo* dem ittatur per seria», ao ra ta olearia ad trapeta, in qoae eam tereot molae oleàriae doro et aspero lapide. Olea lecta si ni- aaium dio fuit in acervis, caldore fracescit, et olaom foetidam fit. Itaque si neqoeas m aloreooo fice re, io acervis jictaodo ventilare oportet. Ex olea fractos duplex ; oleam, qood omnibus notam, e t amorca, cojus utilitatem qood igoo-

tant pleriqoe, licet videre e torculis oleariis floere in agros, ao non solum denigrare terram, sed moltitudine facere sterilem : cam is hamor modicos, com ad moltas res, tom ad agriculturam pertineat vehementer, qood ei ream arboram ra­dices infondi solet, maximo ad oleam, «t obicuo- qoe in agro herbo nocet.

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CAPUT LVI

D* roaao COVDSIDO.

Agrios : Jam dadom , inquit, in villa sedens expecto eom clavi te Stolo, dom flroctns io villam referas. Illo : Em qoio adsum ; venio, inqoit, ad Umeo, foros aperi ; primam foaoisteiae conduntor

melios sob tecto, qoam io acervis, quod ita fit joco odio» pabolum ; ex eo in te llig itar, qaod peen n tro q a e posito libentias est.

anni. E qaesta è ana forte ragione, per eoi di­cono che gli oliveti non produoono fra tti eho ogai seeoodo anno, o che almeno non ne p o r­tano io eguale abbondante (3). L ' oliva, ugnai* mente che 1* uva, si porta alla villa pei medesi­mo bivio ; cosicché per una strada si manda quel­la che si mangia, e per 1’ altra quella che si spre­me (4), onde il liquore che se ne trae unga non solo il corpo internamente, ma ancora esterna­mente ; poiché questo liquore dee seguire il p ro ­prietario tanto nel bagno, quanto negli eserciiu ginnastici (5). Qoella oliva, con coi si fa 1* olio, si ém macchia giorno per giorno sui tavolati (6), acciocché ivi alcun poco si ammollisca ; e rìa- acun macchio si dee portare con vasi, adattati al torchio ed al macinatoio, ove l ' oliva sarà In­frante sotto alle maeine da olio, le coi pietre dovranno essere aspre e da re (7). Se 1' oliva rac­colta si lancia lungo tempo in macchio, si am­mollisce col favore del caldo, e prodace an olio raacido (8). Sicché se non paoi spremere V olio a buon' ora, bisogoa spargere le olive ammac­chiate, e sventolarle. Dall' oliva si ritraggono doe liquori ; l ' olio, eh ' è noto a lotti, e la mor­chia ; la coi utilità, perchè molti la ignorano, perciò si vede colare dai torchi da olio sai cam­pi, ove oon solo annerisce la terra, ma collo troppa qoantità la rende sterile ; quando ohe questo liquore, adoperato moderatameote (9), può giovare a molte 00se, e specialmente all* agri- col tara ; poiché si costuma spargerlo intorno allo radici degli alberi, e particolarmeote intorno all' ulivo (10), e io tutti qae' laoghi, ove l1 erba

nuoce.

CAPITOLO LVl

D e l i i f o &ab i l f i ano.

È già da lungo tempo, dice Agrio, che me ne sto sedato in casa e che aspetto te, o Stolone, colle chiavi,onde to in trodoca nella medesima i fratti. Eccomi (1), dico Stolone, arrivato alla po rta : aprila. Primieramente è meglio mettere il fieoo sotto il tetto, che lasciarlo ammucchiato, perchè cosi riesce no pascolo piò grato al bestiam e; essendoché se a questo si metterà avanti dd l'uno e dell'a ltro , si comprenderà che proferisce il primo (a).

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M. TERENTO VARRONIS

D i TUTICO COHDEIDO.

Al triticum condi oportet in granaria subli­mia, qoae perflentur T e n to ab ex o rlo , ac septen­trionum regione, ad quae nolla aora hnrnida ex propinqui* locis adspiret ; parielet et s o la m

opere tectorio marmorato loricandi f s i minus, ex argilla mixto acere e frumento, et amurca, qood murem et vermem non patitor e s s e , et grana facit solidiora, ac firmiora; quidam ipsam triticum conspergan t, cum addant in circiter ruille modium quadrantal amnrcae. Item alias aliud adfriat, aa t aspergit, o t Chalcidicam a a t

Caricam cretam , aot absinlhiom ; i lem hojas genens alia. Qaidam granaria habent sab lerris, speluncis, qaas vocant ot io Cappado­cia ac Thracia ; a li i , o t io Hispania citeriore, p a teo s , ot in agro Carthaginiensi, et Oscensi. Horam solum paleis sabsternuot : et curant ne hum or, aot aer tangere pos>it, nisi cana prom itor ad asum ; quo enim spiritus non perven it, ibi non oritu r curculio. Sic conditam triticum ma­ne t vel annos quinquaginta : milium vero plus annos centam. Supra terram granaria in agro qaidam sublimia faciant,ut ia Hispania citeriore, et in Appolia. Qoidam quae non solum a lateri­bus per fenestras, sed etiam sobtus a solo ventas regelare possit.

CAPUT L vn

CAPUT L v m

De VABA ET LEGBMIE1B0S ET U?IS COIDBBDIS.

Faba, legumina in oleariis vasis oblita cinere perdia incolnroia servantur. Cato ait, uvam amin- neam minosculam, el rnajorem, et apiciam in ollis commodissime condi ; eadem in sapa, et musto recte; qaas sospendas opportunissimas esse du­racinas, et aminneas, et scantianas.

D e l b i p o e b i i l f o b m b b t o .

Ma il formento bisogna chiuderlo in granai

a lt i , i quali sieno esposti ai venti che soffiano dalla piaggia orientale e occidentale, e fa mestieri che sieno difesi da ogni aria umida che potesse penetrarvi dai luoghi vicini. Le pareti e il suolo debbono essere coperti di m arroorino; se no , quest'intonacato si faccia di argilla mista alla paglia del formento e alla morchi ; e ciò ad og­getto che i sorci ed i vermi non vi possano pene­trare, e che i grani diventino piò solidi e piè resistenti. Alcuni spruzzano sopra lo stesso for­mento della morchia, di cui ne mettono in opera an quadrantal (1) in mille moggi allo incirca. Altri parimente vi tr itan o , o vi spargono so­pra altre materie, come della creta diCalcide (a),o di qaella di Caris, o dell'assenzio, ovvero con­simili cose (3). Certuni, invece di granai, hanno sotterra delle spelonche che chiamano come nella Cappadocia e nella Tracia. Altri hanno de1 pozzi, come nella Spagna citeriore e nel territorio di Cartagioee di Osca. Qaesli cao- prono il suolo di paglie , e procurano che nè T amido, nè l ' aria vi penetrino, se non qaando

si estrae il formento per servirsene (4); posciachè dove non entra aria, ivi non nasce il gorgoglione. Chiudendosi il formento eòn queste cautele, si conserva anche per cinqoant1 a n n i , e il miglio poi per piò di cent'anni. Alcuni fanno aopra terra, in luogo elevato e nello stesso campo, dei granai, come gli abitanti della Spagna citeriore e della Puglia (5) : e qaesli granai non solo pos­sono essere rinfrescati lateralmente dal vento eh* entra per le fenestre, ma ancora per di sotto dal vento ripercosso dalla terra (6).

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CAPITOLO LVm

D e l l a m a h ib e a d i c o h s e & v a e l a y a v a , . i l e g u m i

E L1 UVA.

La fi va e i legumi (ì) si conservano lunga­mente sani nei vasi da olio coperti di cenere. Ca­tone dice (a), che molto bene si conservano nelle olle 1' uva amminea maggiore e minore , come anche Tfcpicia. Queste uve pare si coniervano ottimamente sane nella sapa e nel mosto. Quelle che più di tulle si mantengono sane, sospenden-» dole, sono le duracine, le amminee • le stanzia^ ne (3).

CAPITOLO LVII

Page 100: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

561 DE RE RUSTICA LIR. I. 56»

D b r o m i COVDBHDI9.

D e pomis, conditiva mala struthea, cotone», s c a n tia n a , qniriniana, orbiculata, eI qoae aotea m a s te a vocabant, nunc melimela appellant, haec o m n ia in loco arido, et frigido sapra paleas po­s ita se rv a ri recte potant. E t ideo oporothecas qui fa c iao t» ad aquilonem ut fenestras habeant, atqoe a l eae perflentur, co raol ; neque tamen sine fori- colis : a e cum humorem amiserint pertinaci vento, v ieta fiant. Ideoqoe in iis, camaras marmorato, e t parie tes , pavimentaqoe (laudabiliter) faciunt, q ao frig id ius sit : in quo etiam quidam triclinium s te ro e re solent coenandi causa. Etenim in quibos lu x n r ia concesserit, u t in pinacothece faciant, quod spectacolum datur ab arte, cur non qood n a tu ra datum o ta o tu r io venustate disposita po­m orum ? praesertim quidem, cum id non sit fa c ien d a m , qaod qoidam fecerunt, u t Romae coém pta poma ros intulerint ia oporothecen in­

s truendam convivii causa. In oporothece mala m anere potant satis commode : alii in tabulis, o t in o p ere marmorato, ali i substrata palea, vel etiam floccis : mala Punica demissis sois sarculis in dolio arenae: mala cotonea, struthea io pensili­b u s ju n c t is : contra in sapa condita manere pira A niciana, et sementiva ; sorba quidam dissecta, et io sole macerata, nt pira ; et sorba per se ubi­cunque sint posita in arido facile durare. Servare rapa consecta in sinape, noces joglaudes in arena, Punica mala e t in arena jam decerpta, ac matara, nt d ixi, e t etiam immatnra com haereat in soa virga, si demiseris in ollam sine fondo, eamqoe

si conjeceris in terram, et obteris circum ramum, si «xtrinsecos spiritus afflet, ea non modo integra eximi, sed etiam majora, quam in arbore onqoara pependerint.

CAPUT LIX

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D b LLA MAVIS* A DI COMBBVABE LB FRUTTA.

Parlando delle frotta» i pomi che si serbaoo,i cotogni, gli scanziani, i quiriniani,i rotondi (i), e quelli che prima si chiamavano pomi dolci comeil mosto, o mustea, e che oggi si chiamano pomi nani, o melimela(2) in latino: tolte qoeste frotta si couservano ottimamente, per qoanlo si dice, mettendole sopra la paglia distesa in on luogo arido e freddo (3). E perciò qoelli che faono delle conserve per le f ra tta , procorano che queste abbiano delle feneslre verso aqoilo- ne, e che il vento vi possa entrare libera­m ente: nè però trascurano di m ettervi delle por- ticelle, acciocché, in grazia della continuazione del vento, non perdano tutto il succo, e non di­ventino appassite. Per la qoal cosa incrostano le volte, le pareti e il pavimento di roarmorino (4)? onde le couserve sieno più fredde. In queste sogliono pure alconi mettervi de* Ietti per man­giare. Imperciocché qoelli, i c^oali, a motivo di lasso, mangiano (5) in tinelli forniti di quadri,

spettacolo che oon si riconosce se non dall* arte, perchè non potranno servirsi dello spettacolo somministrato loro dalla natora, distribuendo le frotta con ordine elegante? Ciò p?r verità si poò fare, porche non s ' imilino qoelli, i qoali com­prano delle fratta in Roma, e le portano a fo r­nire i tinelli di villa col solo oggetto di on con­vito (6). Alconi pensano cbe le frutta si conservino sofficieotemente sane nelle conserve: altri credono che meglio si conservino sopra tavole, o sul xnar- morino (7) ; e certuni sopra la paglia, o anche sopra la tana. Le melagrane si conservano, met­tendole attaccate al loro ramo in una botte piena

di arena ; e i pomi cotogoi e quelli che si serba­no, attaccandoli in alto (8). Per contrario le pera aniciane e quelle che sono mature, si mantengono sane, mettendole nella sapa. Alcuni tagliano le sorbe e le pera, e le fanno seccare al sole, onde si conservino facilmente in qualunque luogo cbe si mettano, purché sia secco ; e le sorbe ai man­tengono sane, sebbene si lascino nel loro stato naturale. La rapa tagliata si conserva nel senape, e la noce nell1 arena : così pure si conservano nell’ arena le melagrane raccòlte non tanto ma­ture qoanto ancora immature, ma attaccate al lorò ramo, e poste in u n 'o lla seosa fondo, e sprofondate in terra : si calpesta all' in tor­no del ramo la te r r a , se dall1 esterno pene­

trasse l ' aria nell1 olla (9). In cotale maniera non solo si trarranno fuori intere e sane, ma saranno diventale ancora piò grosse di quello che se fossero state attaccate all' albero.

CAPITOLO LIX

Page 101: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

5*5 M. TERENTII VAERONIS 564

D b o l b a c o b d b b d a .

De olivitate, oleas emi optime condi ieri bit Cato, orchi tes, et paose»s aridas, tei t irides io n o r ia , vel lenii $00 contata». Orchitei nigras, Mie si tin i confricatae dies qoinqoe, e t tum tate e s ­cono biduum ti in iole potitae fuerint, maoere idoneas solere; easdem line sale in defrutum condire.

CAPUT LX

CAPUT LXI

Db a m u b c a c o b d b b d a .

Recte amurcam periti agricolae tam in dolili condunt, quam oleum, aot tinum . Ejus conditio, cum expressa effluxit, qood stalim de ea deco­quuntur doae partes, e t refrigeratum conditur in vasa. Sunt item aliae conditiones, ut ea, in qua adjicitur m astum.

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CAPUT LXH

Db p b o m b b d is f b u g ib u s t u b b d i c a u sa .

Quod nemo fractus coodit, niti a t promat, d e eo q o o q o e vel sexto gradu animadvertenda, panca. Prom ant condita aut propterea, quod •int tuenda, aut quod utenda, aut quod ven­denda. Ea quae dinimilia inn t inter se, alind alio tempore toendom et utendum.

D l U i I U I I 1 A DI COBSBBVABB LB OUVB.

Riguardo alla maniera dr conservare le olive, Catone scrive (i), che tra quelle che si m angiano, si conservano ottimamente le orchiti, o olive gros­se, eie paosee secche (a), mettendole nella salamo­ia, se sono verdi, o nell1 olio di lentisco, ae sono ammaocate. Egli aggiunge, che te le orchiti nere si fregheranno dentro il tale, e vi si la­scino per cioque giorni, e, dopo scosso il sale, si espongano al sole* per due giorni, si conser­veranno intere e buone (3). Dice inoltre, che si possono conservare senza sale, mettendole nel vino cotto.

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CAPITOLO LXI

D i l l a m a b ib b a d i c o b s b b v a b b l a m o b c b t a .

Ottimamente i periti agricoltori rinserrano la morchia in botti (i), in quella guisa che fanno coll' olio, o col vioo. La maniera di prepararla è, che appena spremuta si fa bollire sino alla consumazione della metà, e ti verta dappoi, raf­freddata, ne* vasi (a). Vi sono pure altre maniere di prepararla, come quella, nella quale vi si

aggiunge del mosto.

CAPITOLO LX

c a pit o l o L x n

DsL TBABBB tUO BI I FBUTTV, A MOTIVO DI FBB-

SIBVABL1 SAJII.

Comechè nessuno oonserva i frutti che col- l’ oggetto di trarneli fuori in progresso, di que­sti pure, ovvero del sesto .grado (i), sono da avvertirsi alcune poche cose. Si eitraggono i fru tti rinchiusi o per preservarli da qualche danno (a), o per mangiarli, ovvero per venderli.I tempi ne* quali si debbono cavare fuori per preservarli, o per mangiarli, debbono estere va­n i , secondo la differenza de' fratti.

Page 102: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

565 D£ RE RUSTICA LiB. L 566

Q u e m a d m o d u m n u i u m i u t MLOMEVDUM.

Toendi c ium promendam id fram eotam , qaod curculiones exeue ioespianl ; id enim cam promptam est, ia «ole ponere oportet «qaae ca­lino», q ao d eo coaveniuat, a t ipsi m aecent cur- caliooes. Sub terra qui habent fram eotam io iis, quos vocaat JfWf, quod cam pericolo io- troitur recenti apertione, ita a t quibusdam sit ìo lerdasa i d ì m , aliqaaoto post prona ere, qaam aperueris,, oportet. Far, quod ia spicis condi­deris p e r messem, e t ad ojos cibatus expedire ▼alis, prom endam hieme, a t in pistrino pisetur, ac torreator.

CAPUT LXni

CAPUT LXTV

t ) s AMEBCA TUMIDA AC FBOMESDA.

Amorca cum ex olea expressa, qui est humor aquatilis, ao retri meo tora conditum io vas fictile, id quidam sic solent tueri diebus xy, eo, quod est levissimum ao fammum, dtflatum a t trajiciant in alia vasa, et hoc idem intervallis, doodecies sex m easibai proximis, item faciant. Com id no­vissime, potissimam trajksaiit, cam senescit lana ; tunc decoquunt in aheois levi igoi duas parte» qaoad regerun t, tam desiqoe ad usam recte prteaitar.

CAPUT LXV

Da viso MLoau»o.

Qood mostom conditur io doliam, a t ha- beamas vinum , non promendum dam fervet, neque etiam eam processit ita , o t sit vinom fa­cium. Si vetas bibere velis; qaod noa fit ante,

qaam acqesaerit annus, tam , cam foerit ennica-

I s QUALB M ABUSA SIA DA TSASS1 FPOBI

IL FOBMBBTO.

A motivo di preservarlo sano, si debbe estrar­re qoel formeuto che i gorgoglioui comiociano a corrodere. Tosto che sia estratto, bisogna met­terlo al sole iu catiui pieni d ' acqua, perchè nella medesima i gorgoglioni si ammazzeranno per sè stessi. Quelli che hanoo il fermento sotterra io quelle caverne che si chiamano 9% ooo deb­bono trarnelo fuori se non dopo qualche tempo, dacché si sooo aperte ; perchè appeoa fatta I* a- pertura, si oorre uo grande pericolo a entrarvi tosto ; e tanto è grande, che alcuni hanoo per­dala la respirazione (i). Quel farro che avrai rinchiuso io ispiche nel tempo della raccolta, e che vooi preparare, oode cibartene (a), si dee trar fuori io tempo d ' inverno, per pestarlo nel pistrino, e per arrosiirlo.

---C---

CAPITOLO LXTV

D i l l a m a k i s i a d i c o s s s a v a s s l a m o o c s ia

S DI BSTSAMLA.

La morchia premula dalle olive, e che oon è altro se non se no liquore acquoso e il fondi- gliuolo dell'olio rinchiuso in vasi di terra, in tal modo sogliono alcoui conservarla: passali quin­dici giorni, soffiano sopra il vase, acciocché, qoaoto vi è di p ià leggiero e di galleggiante, passi io altri vasi : replicano parimente qaesta operaziooe ogni quindici giorni fino a dodici volte, e per sei mesi continui. Nel fare quest' o- per azione l'u ltim a volta, hanoo specialmente at­tenzione di farla a lana vecchia : dopo ciò la (m m io bollire a lieve fuoco io caldaie, fio tantoché sia ridotta alla metà, e finalmente si cava foori, e a li Intente allora si può adoperare.

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CAPITOLO LXV

D il la m a s ib b a d i e s t r a s s e i l viso.

Quel mosto che si mette nelle botti, oode Cara del vioo, ooo si debbe estrarre quaodo bolle, come nemmeno subito eh' è fatto. Se vaoi beverlo vecchio, il che oon ha da soocedere che dopo passato Panno, in allora si poò estrarre (i). Se

c a p it o lo LXin

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567 M. TERENTII VARRONIS 568

Ium, prodit* Si vero est ex eo genere a vae, qood maiore coacescat, antevindem iam contami, aot venire oportet. Geoera toni yini, io quo Falerna, quae quanto plorea annos condita habaeroot, tanlo, com prompta, sont fructuosiora.

CAPUT LXVI

D i OLIA PEOMBITOA.

Oleas albas, quas condideris novas, ti celeriter prom at, niti condideris, propter amaritudinem illas respuit palatam. Item nigras, niti prius eis sale maceraris, u t libenter in os recipiantur.

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CAPUT LXVH

Da l u c a b t p a l m u l a .

Nocem juglandem, et palmulam, et ficum sabinam quaoto ciliot promas, jucoodiore alare, qood veluslate ficus fit pallidior, palmula cario­sior, nux aridior.

CAPUT LXVUI

D a UVIS, MALIS, I T SOIBIS P O S IL I BOt P10MEIDIS.

Pensilia, u t uvae,'mala, et sorba, ipsa osten- dan t, quando ad osum oporteat. promi : quod colore mutato et contractu acinorum, si non dem- seris ad edendam, ad abjiciendum descensarum se minitantur. Sorbum matorum mite conditam citius promi oportet, acerbam enim suspensam lentias est ; quod prias domi maturitatem asse- qoi vult, quam nequit in arbore qoam mitescat.

poi è di quella specie di ifva, per cui inagrisca a booo1 o m , bisogoa beverlo avanti la vendemmia,o venderlo. Vi sono alcune specie di vini, e tra qoesti si annoverano quei di Falerno, i quali quanti più anni si tengono rinchioti (a), tanto

• maggiormente rendono, qaando ti estraggono.

CAPITOLO LXVI

D l L TIMPO P I I BCTEAEIE LB OLIVI.

Le olive bianche che avrai rinchiuse, se trop­po presto le caverai ancora nnote, e se di nuovo non le rinserrerai, a motivo della troppa ama­rezza, non saranno grate al palato (i). Parimente le nere v se prima non le terrai taffete nel sale, non saranno ricevale volentieri in bocca.

c a pit o l o L x v n

D i l l a hocb i d e l d a t t b i o .

Quanto più per tempo si estraggono le noci,i datteri e i fichi sabini, tanto più riescono grati, perchè i fichi vecchi contraggono la muffa, i dat­teri si tarlano, e le noci si seccano.

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CAPITOLO LXVm

D l L TBMPO DI ISTEA EIE LB UVE, 1 POMI, L I t o a s t

SOSPESE I I AEIA.

Le fruita sospese in aria, come I* uva, i pomi e le sorbe, dimostrano di per tè tiesse, qaando bitogna estrarle per mangiarle; perchè il cangia­mento di colore e il diseccamento dei grani di ava ci minacciano, che se non ci daremo prem u­ra a distaccare queste frutta per mangiarle, ci converrà poi levarle di luogo per estere gittate altrove. Le torbe m ature e njolli rinchiuse (t), debbouti et trarre più pretto di quello che se si fossero sospese acerbe, perchè chi vuole che si maturino in casa, non dee lasciare che le sorbe diveolino prima molli soli* albero (2).

Page 104: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

569 DE RE RUSTICA LIB. I.

Da r u i i p i o m i i d o v i l ad c i i a i u , v u ad sa -

TIOIEM, T IL AD V IID U D U M .

M en a m far prom endam hieme io pii trino ad to rreo d o m , qaod ad oibatam expeditam et se

velis. Q ao d ad sationem, tam prom endam , cam •egelet m atarae to o l ad accipieodam. Itera qaae pertinent ad sationem, tuo qaoqae tempore prò- menda. Q aae tendenda, fidendum , qaae quoque

tempore oporteat prom i; alia enim, quae manere oon p o tin o t, ante qaam te commutent, a t celeri­

ter p ro m at, ao 'T e n d a t : alia qaae ter Tari pouuot, ut tom vendat, com caritas e tl; taepe enim diu- tiut servata non modo aiuram adjiciaut ; sed eliam fractum duplicant, ti tempore promas. Cura haec d icerei S to lo , T e n i t libertas aedilumi ad not f le n t , el rogai o t ig no tea mas quod tim ut relenti, et n t ei ia funai poslridie prodeamas. Oqm et coo targ im at, ac timul exclamamus, quid in f a n n t? qaod fao a t? qnid est factam? Ule flent n a r r a i , ab neteio quo percunara cultello conciditte , qaem qai esset, animadvertere in to rb a non potuiste, ted tantummodo exaaditte vocem , perperam fecitte. Ip se , cam patronam d o m a m tu ita liise t, el paeros dimisisset ut medi* com requireren t, ac mature addacerent ; .qaod p o tio t illad adrai istrtssel, qaam ad nos venisset, aequum ette tibi ignotei. Nec ti eum serrare non potuisset, q u i n non multo post animam efflaret, tamen p a lare te fedite recte. Non moleste feren­te! deicendim ot de aede, el de caso haraano ma­gia quaeren t e i , qaam admiranlet id Romae

factam, ditee dim a t omnet.

CAPUT LXIXD el te m p o d i i r r i A i i i i l p a i i o p e e m a i o i a i i i ,

O P I I IIM 1IA IS I, O P I I 'T IID B IS I .

11 farro mietuto, e che T u o i appretiare per eitere mangiato, ti debbe e tlrarre in tempo di i n T e m o , e portare oel pitlrino per a rro ilirlo (i) . Quello che deitinerai alla temina, lo caverai al­lora che le terre arate taranno in iitato di rice- T e r lo . Parimente tu lli que’ grani che t o n o detti- nati per semema, t i debbono eitrarre n e l mo­mento di etsere adoperati. Riguardo a qae* grani che t o n o da T e n d e r t i , bitogna vedere quale ta r iil tempo più conveniente a ciatcheduno per etlrarli ; imperciocché alcuoi che non poitono

durare lungamente senza guastarsi, bisogna , estrarli presto, e venderli; e quelli che si conier- Tano tani lungo tempo, non Tanno venduti, te non quando tono a caro prezzo; imperciocché alcuni grani conservali lungamente, non tolo ci danno l ' usura del T a lo re , ma raddoppiano ancheil capitale, se a tempo opportuno si estraggono.£ dicendo tali cose, ecco che a n o i ten T ie n e

piangendo il liberto del cuttode del tem pio, il qaale a n o m e del tao padrone ci prega di perdo­nargli, perchè si è fallo-aspettare, e nello s te s s o

tempo ci prega di assistere a1 suoi fanerali nel dì vegnente (a ) . Tulli ci lerammo, e insieme escla­miamo : che cosa mai la ci dici ? ai suoi funera­li? e di q n a l funerale ta parli? che mai è acca­duto ? Egli colle lagrime agli occhi ci racconta che i l suo padrone è stato ammazzato da un in­cognito con an colpo di coltello ( che tra la folla n o n ha potuto distinguere I* uccisore, e che tol- tanto ha adito una voce, la quale diceva di avere ciò fatto inavTertentemente (3). Egli aggiunte eh* era ben giuilo che gli ti dovette perdonare, te prima d ' allora non era a noi venato, per eisere stato occupatp in condurre a casa il pad rone, e in mandare per mezzo d e i fami­liari a ricercare un m edico , acciocché met­tesse in opera qaanto era necessario. E quan­tunque con tatle queste care non abbia potuto ottenere che da lì a poco tempo non morisse, credeva nonostante di aver fatto qaanto doveva. Gli menammo per baone queste scuse» e ci par­timmo dal tempio, più intesi a deplorare qaeita umana vicenda, che sorpresi di una catastrofe di

questi natura accaduti in Roma.

CAPITOLO LXIX

M. T ee sazio V Aiaosa i l

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M. TERENTII VARRONIS

D E R E R U S T I C A

LIBER SECUNDUS

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PROOEMIUM

D t B t BBCQABIA.

V i r i magni nostri majores non sine cansa prae­ponebant rustico* Romanos urbanis ; ut rori enim, qui in villa vivunt ignaviores, qaam qui in agro versantor in aliquo opere faciuudo : sic qui in oppido sederent, quam qai rura colerent, de­sidiosiores putabant. Itaque annum ita diviie- rnnl, u t nonis modo diebus urbanas res usurpa­rent, reliquis vii u t rura colerent. Quod dum servaverant institutum, utram que suut consecu­ti, n t et cultura agros foecundissimos haberent, e t ipsi valetudine firmiores essent : ac ne Grae­corum urbana desiderarent gymnasia, quae nunc vix salis singula sunt : nec putant se habere vil­lam, si non multis vocabulis reliueant Graecis, qanm vocent particolatira loca, vfoxoir£vay va-

enro4tnrnftOfi 'Tif/<fu\ov, o ? t r i -

fifUSroj otmfolhixnv. Igitur quod nane intra marum fere patres familiae correpseront relictb falce et aratro, et manas movere maluerunt in theatro ac circo, quam in segetibus ac vinetis, frumentum locamus, qui nobis advebal, qui sa­tari fiamus ex Africa, e t Sardinia : et navibos vindemiaib condimus ex insula Coa, el Chia.

INTRODUZIONE

D lL BtSTIAHB.

]V o n senia ragione i piò distinti nostri antenati preferivano i Romani della campagna a quelli di città : parimente riguardavano come pigri ed inerti quelli che vivevano nel recinto della villa, in confronto di coloro che lavoravano alla campagna ; e del pari coloro che sedevansi al- 1* ombra della villa, erano riputati infingardi a petto di qaelli che lavoravano la terra. E per questo motivo eglino divisero Tanno in maniera, che non si dovessero trattare gli affari della villa se non ogni nove giorni, e che negli altri sette si dovesse attendere alla coltivazione della terra ( i ) . Fino a tanto che si tennero a quest’ oso, due

beni ottennero ; quello di avere le terre coltiva­te, e quindi più feconde, e di godere essi mede­simi una sanità più robusta : e quello di ooo desiderare gli esercizi! ginnastici che i Greci hanno nelle loro città ; perchè oggidì che li abbiamo lutti, appena ci sono bastauli. E tanto siamo andati oltre, che non crédiamo di avere una villa, se essa non risuoua (a) di una folla di nomi greci corrispondenti ai varii luoghi che la compongono, come rfoxoirmra (3), xaXai'-

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M. TLREN TU VARRONIS

Itaque in qua terra colleram agri docuerunt pastores progeniem suam, qoi condiderunt u r­bem, ibi contra progenies eorum, propter avari- tiara, contra leges, ex segetibus fecit prata, igno­rantes non idem esse agriculturam, et pastionem; alins enim opilio, et arator : nec si possit in agro pasci, armentarius non aliud ao bubulcus. A r­mentum enim id, quod in agro natum non creat, sed tollit dentibus; contra, bos domitos causa iit, ot commodius nascatar frumentum in segete, el pabulum in novali. Alia, inquam , ratio ac scientia coloni, alia pastoris ; coloni, u t ea quae in agricultura pascantur e terra, fructum faciant; contra pastoris, u t ea quae nata ex pecore; quarum quoniam societas inler se magna, pro- ptereaquod pabulum in fundo compascere, quam vendere plerumque magis expedit domino fundi ; • t stercoratio ad fructus terrestres aptissima, el maxime ad id pecus appositum : qui habet prae­dium, habere utramque debet disciplinam, el agriculturae, et pecoris pascendi, et etiam villa­ticae pastionis. Ex ea enijn quoqne fructus tolli possunt non mediocres, ex ornithonibus, ac le­porariis, et piscinis. E queis quoniam de agricul­tura librum Fundaniae uxori propter ejus fun­dum feci : tibi Niger T urrani noster, qui vehe­menter delectaris pecore, propterea quod te emtnrientem in campos Macros ad mercatum adducunt crebro pedes, quo.facilius sumlibos multa poscentibus ministres, quod eo facilius faciam, quod et ipse pecuarias habui grandes, in Appulia ovialias, el in Beatino equarias : ( Qua ) de re pecnaria breviter ac summalim percurram, et sermonibus nostris collatis cum iis, qui pe­cuarias habuerunt in Epeiro magnas, tum cura piratico bello inter Delum et Siciliam Graeciae classibus prae essem, incipiam hinc.

(4) > (5 ) , (6) > o f r i -ScSva (7) > (8), qtvq (9). Per laqual cosa oggidì quasi tutti (10) i padri di fami­glia a poco a poco si sono introdotti dentro la mura della città, hanno abbandonato la falce • T aratro : e perchè amiamo di oonsecrare lo uostre mani al teatro e nel circo, piutloslochè alla campagna o nei vigneti ; perciò siamo ridotti al caso di eleggere all'incanto (11) chi per satol­

larci ci porti la biada dall1 Africa e dalla Sarde­gna, e siariao nella necessità di ricorrere alla navigazione per tra rre il vino dall1 isola di Coo (ia) e di Chio. Per tal motivo adunque quel paese che fu fondalo da1 pastori che insegnarono ai loro figli I1 agricoltura (iB), oggidì i discen­denti dei medesimi, per avarizia e in disprezzo delle leggi, porgono un esempio contrario, aven­do ridotto le terre lavorate in prati, senza far attenzione che l1 agricoltura è molto differente da quell’ arte eh1 è in lesa a nodrire il bestiame; imperocché altra cosa è il pastore* ed altra cosa l ' a ratore: e quantunque il bestiame si possa far pascolare ne1 campi coltivali, nulladimeno diffe­risce il cnslode del medesimo, quando pascola, dal boaro che Io conduce, quando lavora. Di fatti le mandre del bestiame non producono biade, anziché le distruggono coi denti: per contrarioil bue addomesticato, è caosa che nascano piò lietamente le biade nelle terre lavorate, ed i pascoli nel maggese. 11 metodo, io dico, e ta scienza dell1 agricoltore, differisce da quella del pastore : quegli fa in guisa che ritrae fru lli dalla

* terra, mediante i prodotti originati dairagricoU tura; per contrario questi trae profitto da quanto nasce dal bestiame (i4)* Ma poiché queste due arti hanno un intimo legame Ira di loro, perchè d 'ordinario giova p iù al proprietario del terreno che il pascolo sia consumalo dal bestiame sulla tenuta, che venduto; e poiché I1 ingrasso della terre è molto acconcio a fare che la terra frutti, e specialmente essendo mollo a proposito il con­cime del bestiame ; perciò ogni possessore di fondi debbe abbracciare questi due oggetti, Tarla cioè deli1 agricoltura, e quella d1 ingrassare non tanto il bestiame, quanto ancora gli animali che si allevano nel recioto della casa rusticaua ( i5 J. Da quest1 ultima arie si possono trarre egual­mente frutti non pochi, come dalle uccelliere, dai parchi e dalle peschiere. E siccome di una di queste, cioè dell1 agricoltura, ho composto già un libro per Fundania mia moglie, acciocché a norma di questo possa coltivare la sua tenu ta ; così a te (16), o mio Niger Turranio, indirizzo questo secondo trattato, perchè ti diletti mollis­simo del bestiame, e per comperare il quale ti porti sorente al mercato nelle terre bagnale dal

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577 DE RE RUSTICA UB. II. 57S

CAPUT I

Ds VXCVDIBUf, AEIETISDS J t t AGHI».

Cam Menste» diseessisset, Cossiniot raihi : No» te non dimittemus, inquit, sn te qaam tria ilia explicaris, qaae coeperas no per dicere, cum soma» io terpelh ti. Quae tria, inqoit Adorno»? An ea, qaae mihì beri dixisti de pasloricia re ? Ista, inqoit ille, qaae coeperat hic disserere, quae easet origo, qoae dignitas. quae ar» : cum Petam fe»snm visere venissemus, ni medici adventus nos interrupisset. Ego vero, inquam, dicam duntaxat, qood est / o-rofixor, de duabus rebus primi», quae accepi, de origine, et dignitate ; de tertia parte, abi est de arte, Scrofa suscipiet ; a t semigraecis pastoribus dicam Graece,. . . osr<r»'p fjut «ro&or aptirmv. Nam is magister C. Lucilii Hipri generi toi, cujo» nobile» pecoariae in Brotii» habeatur. Sed haec iUi a nobis accipietis, inquit Scrofa, a l vos, qui estis Epirotici, pecaarii athletae, rem a­neremini nos, ac quae sciti», proferatis in me- dium. Nemo enim omnia potest scire. Cum acce­pissem conditionem,ot meae parte» essent primae (oon quo ion ego pecoarias in Italia habeam, sed non omne» q a i habent citharam, sunt citharoedi). Igitor, inquam, et homines et pecua cura semper fuisse sit necesse natura (sive enim aliquod fuit principium generandi sniraaliutg, o t puUvit Thales Milesias, et Zeno Cittieus : sive contra principium horum extitit nu llum , ut credidit Pythagora» Samius, et Aristotele» Stagerites), necesse est humanae vitae a summa memoria gra» datim descendisse ad haoc aetatem, a t scribit Dicaearchus : et summum gradum fuisse natura­lem, cum viverent homines ex iis rehos, quae inviolata a ltro ferret terra : ex hac vita io secan ­dam descendisse pastoriciam, e feris atqae agre»

Macra (17), onde con questo mezzo poter sup­plire facilmente alle molte spe»e che per vivere si ricercano. Di leggieri soddisfarò a questo, perchè io stesso ho posseduto numerose truppe sia di pecore nella Puglia,sia di cavalli nel terri­torio di Campo Pendente. Laonde brevemente • sommariamente tratterò del bestiame, riferen­do parimente non solo i discorsi (18) che ebbi con qoelli, i quali allevarono nell1 Epiro nume­rose truppe di bestiame, ma ancora quelli che ebbi eoa altri, quando nella guerra dei Pirati presiedeva alle flotte della Grecia tra Deio e Is Sicilia (19). Darò dunque principio da qaesli discorsi.

c a p i t o l o 1

D all* o b j o i s s s d e l l 1 e c c e l l e n z a d a l l a

SCIBffZA I>s’ FASTO EX..

Essendosi partito Lena» (1), Cossinio volse il discorso a me, e disse : Non ti lasceremo partire, se prima non ci spieghi que’ tre punti che testé avevi presi per mano, quando fummo interrotti. Quali sono questi tre p a o l i , dice Murrio ? Non sono forse quelli, dei quali mi parlasti ieri, e che riguardano la scienza dei pastori ? Appunto ciò, disse Cossinio. Yarrone aveva cominciato a disser­tare sopra questa materia presso Peto (a), cui andammo a visitare, perchè ammalato, e ad esa­minare quale fosse la origine di questa scien­za, quale l'eccellenza, e in quale classe di arti si dovesse riporre, quando fummo in terrot­ti (3) dalla venata del medico. Quanto a me, dissi allora, tratterò soltanto la parte storica, cioè i due primi punti, che sono l'orig ine e l'eccel­lenza di questa scienza, e dirò tutto quello che mi fu insegnalo. La terza parte poi, che riguarda l ' arte (4), verrà trattata da Scrofa ovnri? fxv xoX- Xor àfditvàiv (5), per adoperare uoa frase greca a petto di pastori semigreci. Di fatti egli fu mae­stro di C. Lucilio Uipro (6), tuo genero, che si è reso celebre per la bellezza della gregge che pos­siede nella Calabria. Io vi consento, dice Scrofa, purché voi altri che siete molto abili sull'articolo delle gregge (7), vogliate ricompensare la mia compiacenza, dicendo quanto ne sapete, perchè nessuno può saper tatto. Avendo eglino accettata la condizione (8) che io dovessi trattare primo di tutti la parte storica (9) ( non già perchè non avessi sneh ' io delle gregge io Italia, ma perchè non lutti qoelli che hanno una cetra sanno sonar­la ), dissi adunque, che siccome è necessario ohe secondo l 'o rd in e della natura abbiano sempre

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U. TERENTII VARRONIS

■libas, al ex arboribus ac virgultis decerpendo glaudero, arbutum, mora, pomsque colligerent ad Qiom ; tic ex animalibus, cum propter eandem utilità lem quae potient silvestria deprehende­rent, ac concluderent, at mansuescerent In queif primum non tine causa potant ovet assum t as, et propter utilitatem, et propter placiditatem ; maxime enim hac natura quietae, et aptissimae ad vitam hominum ; ad cibum enim lacie at ca- aeom adhibitum, ad corpus vestitum el pelles atloleront. Tertio deoiqqe gradu a vita pastorali ad agriculturam desceoderqnt ; in qua ex duobus gradibus superioribus retinuerunt multa; et qno descenderant, ibi processerunt longe, duro ad nos perveniret. Etiam nunc in locis moltis genera pecudum ferarum sunt ajiquot, ot in Phrygia ex ovibus, ubi greges vidéntur complures ; ut in Samothrace oaprarum, quas Latine rotas appel­lant; sunl enim in Italia, circum Fiscellam et Tetricam montes, multae. De suibus nemini igno­tum, nisi qui aprot uoo putat tues vocari. Boves perferi etiam nunc soni multi io Dardania, et Media, et Thracia. Asini feri in Phrygia, et Ly­caonia. Equi feri in Hispaniae citerioris regio- nibas aliquot.

Origo, quam dixi : dignitas, quam dicam. De antiquis illustrissimus quisque pastor erat, u t ostcodit Graeca at Latioa lingua, et veteres podtae, qui alios vocant voAc/opra*, alios vo\v- fufXtft, alios qoi ipsas pecudes pro­pter caritatem aureas hahuittepelles tradideruut, ut Argis Atreus, quam sibi Thyestem subduxe queritur : u t io Colchide Aéeta, ad cojus arietis pellem profecti regio genere dicuntur Argonau-

esistito uomini e animali (io) (sia che abbia do­vuto esistere an priocipio di generazione degli animali, come pensò Talete di Mileto (n ) e Ze­none di Chite (ia) ; sia che questo principio ooo abbia esistito, giusta l'opinione di Pitagora di Samo ( i3) e di Aristotele di Stagira (i\) ) ; è ne­cessario altresì, come descrive Dicearco ( i5), che T umana vita, secondo le piò antiche memorie, sia gradatamente ascesa sino all'età presente (16); che il primo grsdo fosse conforme alla natura, vivendo'gli oomini di qoe* frutti che spontanea­mente e seni' arte produceva la terra ; e che da questo primo stato fiero e selvaggio (17) sono di­scesi gli uomini al secondo, cioè alla vita pasto­rale, nella quale raccoglievano per gli usi della vita sugli alberi e sui virgulti i frutti, come le ghiande, i corbeztoli, le more ed i pom i, a dagli animali traevano quanto poteva loro easer olile, al quale oggetto li arrestavano, li rinserra­vano, e li addomesticavano. Non seoxa ragione si crede ehc le pecore sieno state le prime ad essere prese,nou tanto perchè sono utili, quanto ancora perchè sono facili di essere ingaooate (18); im­perocché queste sono naturalmente molto quie­te e le più olili per la vita deU’ a omo, sommini­strando per nostro cibo il latte e il formaggio, e al nostro corpo la lana e la pelle (19). Finalmente gli oomioi dalla vita pastorale sono discesi al terzo grado, cioè all’ agricoltura, nella quale ri­tennero molte cose dei due primi ; e quanto più si distaccarono da questi due gradi, tanto più se ne allontanarono nel modo del vivere, cosicché è a <jnel ponto in cui lo vegglamo oggidì. Anche al giorno d’ oggi si trovano in molti luoghi alcune speci? di bestie selvagge, come nella Frigia, ove veggonsi molte troppe di pecore selvagge, e nella Samotracia, ove veggonsi delle capre selvagge, dette dai Latini rotae (ao). Di queste se ne trova­no pure molte nell'Italia p ne’coutorni delle mon­tagne di Fiscello (ai) e di Telrica. Ognuno se esservi de’ porci selvaggi quando non ti voglia dire che ai cinghiali non convenga il nome di porci. Anche oggidì sooovi buoi selvaggi io quantità nella Dardania, nella Medica (aa), e nella Tracia ; così pure degli asini selvaggi nella F r i­gia e nella Licaonia, e de’ carelli parimente sel­vaggi in alcune contrade dell* Spagna citeriore.

Ho parlato dell’ origine; ora dirò dell’ eccel­lente del bestiame. Tra gli antichi, i personaggi più illustri erano pastori, come si vede dalle esprettioni della lingua greca e latina, e dalla lettura dei poeti, i quali chiamavano i loro eroi ora voAt/ofitaf (a3), ora vo \u (i* \x ( (a4), ora <ro- Xvfin rat (a5). Questi medetimi poeti raccontano eziandio ch’eranvi del bettiame, le cui pelli era­no d’ oro, per dinotare il loro gran costo, come

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DE RE RUSTICA LIB. II. 56a

toc: a l in Libya ad Heiperidn, nude aurea mala, id est, secati dora antiquata consuetudinem, ca­pras et oves, (qnas) Hercules ex Africa io . Grae­ciam exportari t. Ea enira sua voce Graeci appel­la nini fuxka* Nec multo secos nostri ab eadem voce, aed ab alia litera ; vox earum non me, sed bee tonare videtor ; ovei baciare vocem eflferen- tes : a <pio belare dicunt, extrita litera, u l in multis. Qaod si apud antiqaos non magoae digni- tatis pecu* esset, in coelo describendo astrologi non appellassent eorum vocabulis signa, quae non modo non dubitarunt ponere, «ed etiam ab bis principibus xu signa multi nomerant : ut ab ariete et tauro, cam ea praeponerent Apollini, el Hercali ; ii enira dii ea seqauotur, sed appellan­tor Gemini. Neo salii putaront de xn signìs sextam parte» obtinere pecodom nomina, nifi adjecissent, ut quartam tenerent, caprieornnm. Praeterea a pecuariis addiderant capram, baedos, canes. An non etiam item in mari terraque ab bis regionum notae? (a pecore) in raari, quod nomi­naverunt a capris Aegeam pelagns : ad Syriam montem Tauram : In Sabinis Canterium mon­tem : Bocpborum ooum Thracium, alterum Cim­meriam. Nonne in terris multa, ul oppidam in Graecia 19*109 afyojf Denique. Italia a vitulis, u l scribit Piso. Romanorum vero popalnm a pastoribus esse ortum quis oon dicit ? quis Fau­stulum nescit pastorem fuisse nutriciam, qni

Romulum el Remora educavit ? oon ipsos quo­que fuisse pastores obtinebit, quod parilibus potissimum condidere or beni ? 000 idem, quod multa etiam nunc ex Teiere instituto bobus et ovibus dicitar? et qaod aes antiquissimum, quod est Batum, pecore esi notatam? El quod urbs cum condita est, tauro, et vacca, qui essent muri et portae definitum ? E t quod populas Romanas cam lustratur, suovitaurilibus circamaguntur ver­res, aries, taorus ? El quod nomina mulla habe­mus «b utroque pecore : a ma jore, et a minore ? À minore, Porcius, Ovinius, Caprilios : sic a majore Kquitias, Taafos cognomina adsigoifi- cari,.quod dicuntur ut Annii Caprae, Statilii Tauri, Pomponji Vituli: sic a pecndibus alii multi. Reliqoom est de scientia pastorali, de qaa est dicendam ; quo Scrofa noster, cui haec aetas defert rerum rustiearum omnium palmam, quo melius poles, dice.

quello d’ Argo, per coi Alreo (a6) st lamenta, perchè gli fa rubato da Tieste (37) ; quello di Aeta (28) nel Coleo : oolà eran vi degli arieti, e per acquistarne il vello partirono de* principi di regia stirpe, conosciuti sotto il nome di Argo­nauti (39). Tale era finalmente quello che trova* vasi presso gli Esperidi nella Libia, paese d’Afri­ca, da coi Ercole (3o) trasportò in Grecia le mala d’oro, le qoali, secondo l’ uso eolico di dire, oon sono altro che le capre e le peoore. Queste si chia­marono, a motivo della loro voce /tinXo» oome pres­sappoco i nostri, con un’ altra lettera bensì, ma a motivo della medesima voce (perchè la voce di queste non pare che n o n i m e , ma bee) dicono che le pecore esprimono la voce belare ; nel che hanno levato una lettera, come sogliono fare in molte etimologie (3i). Che se tra gli antichi non fosse stato molto stimato il bestiame, gli astrono­mi non avrebbero nella descrizione del cielo tolto da esso dei nomi per denotare i segni, e non solo non ebbero alcun dubbio in ciò fare, che anzi molti nell’ eoumerasione..dei dodici segoi misero alla testa qoelli che portano qoeate specie di nom i, dando, per esempio, all* ariete ed al toro la preferenza sopra Apollo ed Ercole : e quantunque questi sieno dei, non sono collo­cati che nel secondo posto sotto il nome di Ge­melli (3a). Nè solameute hanno creduto sufficien­te che la sesta parte dei «lodici segni traetsei nomi dal bestiame, ma hanno aggiunto ancora il C a p r i c o r n o , acciocché oocupasse (33) la quarto parie. Inoltre dal bestiame trassero anche la capra, il becco ed il cane. Forse; che molte con­trade del mare e della* terra (34) n o n si sono di­stinte con questi nomi? Trassero dal bestiame il nome per contrassegnare il mare Egeo (35), il monte Tauro (36) verso la Siria, il monte Canle- rio(37) nel paese de* Sabini, ed i due Bosfori (38), l’ uoo Tracio e l'altro Cimmerio. Forse che molti paesi di terra non furono egualmente contraddi­stinti, come quello oella Grecia (39) chiamato ' r r / o r (40) Finalmente l’ Italia è cosidetta dai vitelli (4 0 , come scrive Pisone (4*). Chi dirà poi che il popolo roipano non tragga la sua origine dai pastori ? E chi ignora che Faostulo (43) non sia stato qoel pastore ohe abbia allevato Ro­molo e Remo ? E v’ è luogo a dubbio che questi medesimi non sieno stati parimente pastori (44)> perchè nella fondazione della città scelsero spe­cialmente il giorno delle parilia (45) ? Non si può concludere lo stesso anche da ciò, cbe oggidì si condannano i colpevoli, secondo I’ uso antico, ad on’ ammenda in buoi ed io pecore (46) ? che la piò antica moneta coniata aveva un improoto di bestiame ( ^ ) ? che quando si è fabbricata la c ittà , si sono adoperati un toro ed una vacca,

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58J M. TERENTII VARRONIS

Cam convertissent io cam ora omnei, Scrofa : Igitur, inquit, est scientia pecoris parandi, ac pascendi, ut fructus quam possint maiimi capian­tur ex ea, a qoibuf ipsa pecunia nominata est; ■ u n omuis pecuniae pecus fundamentum. Ea partes habet novem discretas, ter ternas.: ut sit una da minoribus pecudibus : cujus genera tria, ovi», capra, sos; altera de pecore roajore, in quo suat item «d tres species natura discreti, boves, asini, equi ; tertia pars est in pecuaria, quae non paratur, ut ex iis capiatur fructus, sed propter eam; aut ex* ea sio t, muli, canes, pastores. Harum unaquaeque in se generales partes habet novenas, quarum in pecore paraodo neoessariae quatuor; alterae in pascendo totidem; praeterea communis una. lia fiunt omnes partes minimum octoginta •t una, el quidem necessariae, nec parvae.

Primum ut bonum pares pecus, anum scire oportet, qua aelale quamque pecudem parare, habereque expediat. Itaque in bubulo pecore minoris emitis anniculam et supra decem anno­rum, quod a bima, ant trima fructum ferre inci­pit, oeque Joógius post decimam annum procedit. Nam prima aetas omnis pecoris, et extrema, sle- rilis. £ quatuor altera £ars est cognitio formae uniuscujosque pecudis, qualis sit. Magni enim interést, cujusmodi quaeque sit, ad fructum. Ita potius bovem emunt cornibus nigrantibus, quam albis: capram amplam, quam parvam : sues pro- oero corpore, capitibus ut sint parvis. Tertia pars •st, quo sint seminio quaerendum. Hoc nomine enim asi i Arcadici in Graeoia uobilitati, io Italia

insieme Aggiogati (48), per descrivere il luogo delle mura e delle porte? che quando il popolo romano vuole purificarsi (49), le vittime solenni chittm%le suoviiaurilia (5o), che si conducono attorno di esso, sono un verre, Un ariete ed un toro? e fiqalmente da ciò, che noi medesimi ab­biamo tratto molti nomi da tultaddue le specie di bestiame? Dal piccolo (5i), per esempio, si sono tratti Porcius (5a), Ovinius (53), Capri­lius (54) ; e così dal grande quelli di Equitius (55), Taurius (56), Asinius (57); I cognomi eziandio si trassero dal bestiame, chiamandosi gli Annii Coprati gli Statilii Tauri, i Pomponii ^7 /ii/i(58): del pari molti altri cognomi si trassero dal be­stiame. Ora resta a parlare della scienza pasto­rale, di cui tratterà il nostro Scrofa, come quegli che a quest’età primeggia, e che per conseguen­za può parlarne meglio di lutti (59).

Avendo'tutti rivolti gli occhi verso Scrofa, così disse : Quella scienza che insegna a compe­rare ed a nodrire ii.besliame in guisa che da questa si traggano i maggiori frutti possibili si chiama pecuaria per questi frutti medesimi; imperciocché la base di tutta la scienza pecuaria ò il pecuSs ossia il bestiame (60). £ssa comprende nove parli dislinte* o almeno tre. La prima si aggira sopra il piccolo bestiame, di cui ve ne sono tre specie, cioè le pecore, le capre ed i por­ci : la secouda abbraccia il grosso bestiame, di cui si coniano ugualmente tre specie distinte dal­la nalnra, che sono i buoi, gli asini ed i cavalli : la terza parte comprende quel bestiame che non si compera ad oggetto di. trarue. de' frutti, ma coll’ oggetto solo che si abbiano (61) muli, cani e pastori. Ognuna di queste nove parti ne com­prende altre nove (62) ; quattro delle quali ri­guardano la compera del bestiame, quattro il mantenimento di questo, ed inoltre pna eh' è co­mune. In tal modo si forma un totale di ottan- tuna parte almeno, ma tutte necessarie, e non picciole.

Primierameote per comperare on buon be­stiame, una cosa necessaria a sapersi è 1’ età, nel­la quale giovi più provvedere le differenti specie. Sicché, parlando de' buoi, si debbono comperare a minore prezzo quelli di un anno, e quelli che oltrepassano i dieci, perchè non producono frut­ti che nel secondo, o terzo anno, e cessano di fruttare oltre il decimo ; perchè quel bestiame eh' è sterile nella sua prima età, lo è parimente anche nella sua ultima. La secooda delle quat­tro parti che hanno per oggetto la compera, consiste nel conoscere la forma di ciascheduna specie di bestiame ; importando mollissimo di saperla, perchè influisce sui frulli : per questa ragione si compera più volentieri un bue che

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565 DE RE RUSTICA LIB. II. *86

Bottini, usque eo, ut mea memoria asinus venie- rii «extertiis millibai l x , et ante quadrigae Ro­rate constiterint quadringentis roillibns. Qoarta per s est (de jure io parando), quemadmodum quamque pecudem emi oporteat civili jure. Qood enim alterius fuit, id ot fiat neam , necesse est aliquid ioteroedere. Neqoe in omaibns satis est stipulatio, aut solutio nomorum ad mutationem domini. Io emtione alias stipulandam statim, case e vale ladina rio, aliai e sano pecore,' alias e neutro.

Alterae partes qoitoor sont, com jam emeris, observandae, de pastione, de foetura, de nutricato, de sanitate. Pascendi primus locas qoi est, ejus ratio triplex. In qua regione quamqne potissi­mum pascas, et quando, et queis; ut capras io montoni potius locis et fruticibus, quam in her­bidis o m o pis; equa* coatra; neque eadem loca, aestiva et hiberna, idonea omnibus ad pascendum. Itaque greges oviura looge abigantur ex Appuliaio Samnium aestivatum, atque ad publicanum profitentur, oe, si iuscriptum pecus paverint, lege sensoria committant. Moli e Rosea campestri testate exigantur in Gurgures alios montes. Qui potissimum qoaeque pecudum pascatur, habenda ratio ; nec solum, quod foeno fit satura equa aut bosf cum sa es hoc vitent et quaerant glandem : sed quod ordeum et faba ioterdom sit quibus- daaa objiciendum, et dandum bubos Inpinom, et talariis medica et cytisom ; praeterea qnod ante admissuram dis bos xxx arietibus ac tauris datur pios cibi, u t vires habeant : foemiois bubus de* nitar, qood maceseenles melius concipere dican­tar. Seconda pars est de foetura. Nunc appello faturam a coneepto ad partum : hi enim prae- gnatioflis primi et extremi fines ; quare primum videndum de admissione, quo qoaeqoe tempore at ioeaot facere oporteat ; nam, ut suillo pecori s favonio ad aequinoctium vernora putant aptum,

ovillo ab arctari occasu osqoe ad aquilae oteasom. Praeteret habenda ratio, quanto ante

M. T i u n i o V a t o i t

abbia le corna nericce, che bianche ; una capra di grande corporatura, che una picciola ; e on porco di corpo alto e di testa picciola. La terza consiste nell1 esaminare la razza, da coi deriva il bestiame ; perchè, io grazia di questa, nella Grecia sono p à stimati gli asini di Arcadia, e nell' Italia quelli di Rieti: e tanto ciò è vero, che io mi ricorJo di aver veduto vendere on asino sessantan.ila leslerzii, e che ooa muta d i quattro cavalli si è pagata in Roma quattro- centomila. La quarta parte traila delle regolo del diritto che bisogna seguire nella compera, e delle forme prescritte dal diritto civile per la compera di ogni specie di bestiame ; imper­ciocché, oude avvenga che quello, il quale fu d’ altri, diventi mio, è necessario che abbiano luogo certe solennità : e generalmente parlando, per trasferire il dominio non basta la stipula­zione del contralto, come nemmeno lo sborso del danaro. Quando si compera del bestiame, bisogna nell* alto della compera fare alcune di­co ta de, cioè se esso proviene da un gregge mal- saoo, o se da un gregge sano ; e le risposte del veoditore dovranno essere scritte nel contratto: alcuna volta anche non si fa al venditore al­cuna domanda (63).

Le altre quattro parti da esaminarsi dopo la compera sono relative al pascolo, al portalo, alla nutrizione dei parli, ed alla sanità. Riguardo al pascolo, tre cose sono da considerarsi : il paese, in cui convenga specialmente far pasco­lare ogni specie di bestiame, il tempo del suo' pascolo, e il genere di pascolo che gli convie­ne : così le capre si debbono piuttosto far pa* scolare ne* luoghi di monte e coperti di frn- tid, che nelle terre fertili di erbe : facciasi il contrario relativamente alle cavalle. In secon­do luogo i medesimi terreni non sono ugual­mente buoni in estate ed in inverno pel pasoolo di ogni bestiame. Per la qual cosa in tempo di estate si fanoo passare le pecore dalla P a­glia nell* Abrnzzo, dandole prima in nota ai fi­nanzieri, perchè se si facessero pascolare senza averle fatte registrare, incorrerebbero nella pena pronundala dalla legge dei Censori (64). 1 muli in tempo di estate dalle pianare di Rosea si fanno passare sulle alte montagne Gurguri. F i­nalmente bisogna avere in considerazione la specie di pascolo, che conviene ad ogni bestiame: nè solamente è da sapersi che si nodrisce it cavallo o il bue di fieno, il qnale lo schivano i porci che vanno iu cerca di ghiande ; ma ezian­dio che havvi del bestiame, cui alle volte è da darsi dell* orzo e della fava, che ai buoi è da darsi de* lupini, e dell* erba medica e del citiso a quelli che allattano. Parimente è d i stptrsi

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qaam incipiat admissura fieri, mares a foemiois secretos habeant : qaod fere io omnibus biais meosibus aole faciunt et armentarii el opiliones. Altera pars est in foelora, quae sint observanda, qaod alia alio tempore parere solet ; equa euiin ventrem fert t u menses, vacca decera, ovis et capra quinos, sus quatuor. In foelura res incredi­bilis est in Hispania, sed est vera, quod iu Lusi­tania ad oceanum in ea regione, ubi est oppidum Olysippo, monte Tagro, quaedam e veuto couci- piont certo tempore equae, ut hic gallinae quo­que solent, quarnm ova ornvi/ma appellant. Sed ex his equis, qui nati pulli, oon plus triennium vivunt. Qaae nata suut matura et chorda, ut pare et molliter stent, videndum, et ne obteran­tur. Dicuntor agni chordi, qui post tempus na­scuntor, ac remanserunt in volvis intimis ; vocant

a quo chordi appellali. Tertia res est, de oatricatu quid observari oporteat, in quo, qoot diebas matris sugant mammam, et id quo tem­pore, et abi : et si parum habet laciis mater, ut •abjiciat sub alterias mammam, qai appellantor subrumi, ìd est sub mamma ; antiquo enim voca­bolo mamma ramis, ut opinor. Fere ad quatuor menses a mamma non dijunguntur agni, hoedi tres, porci duo ; e quei*, qooniam puri sunt ad sacrificium, ut immoleotur, olim appellati sacres, quos appellat Plaatus, cam ait : Qaanti sunt porci sacres? sic boves alliles, ad sacrificia publica saginati, dicuntur opimi. Quarta pars est de sani­tate : res multiplex, ac necessaria ; quod morbo­sum pecus et vitiosum, et quando non valet, saepe magna gregem afficit calamitate. Cujus scientiae geoera duo : unum ut in bomioem, ad quem adhibendi medici ; alterum, quo ipse etiam pastor diligens mederi possit. Ejus paries sont tres : nam animadvertendum, quae cujusque morbi sint caosae, quaeque signa earum causa­rum sint, et quae quemque morbum ratio curan­di sequi debeat. Fere morborum causae erunt, quod laborant propter aestus, aut propter frigora, nec non etiam propter nimium laborem, aut contra, propter nullam exercitationem, aut si cam exercueris, statim sine intervallo cibum aut potionem dederis. Signa autem sunt, ut eorum, qui sive ex aestu, sive e labore febrem habent, adapertum os, huraido spiritu crebro, el corpore calido. Curatio autem, cum hic est morbui, haec: perfunditur aqua, et perunguitor oleo et vino tepefacto, et item cibo sustinetur, et injicitur aliquid ne frigus caedat, sitienti aqua tepida datur. Si hoc geuus rebus non proficitur, dimit­titur sanguis, maxime e capite. Item ad alios morbos aliae causae, eliara alia signa in omni pecore, quae scripla habere oporlet magistrum pecoris.

58;

che per trenta giorni si dà agli arieti ed ai t o r i ,

avanti che si accoppino colla femmina, un p i ù

copioso cibo, onde acquistino forze : per con­trario si sottrae alle vacche, pretendendosi cbe concepiscano meglio quando sono magre. Lo se­conda parte versa sopra il porlato. Ora.io chiamo foetura, o porlato, il tempo compreso tra il con­cepimento ed il parto, perchè questi sono i p r i ­

mi e gli ullimi momenti della gravidanza. Laon­de primieramente è da aversi in vista V ac­coppiamento, ossia il tempo, in cui bisogna che il maschio monti la femmina : perchè siccome si crede che riguardo ai porci sia più acconcio il tempo eh' è tramezzo al tramontar del sole, nel punto da cui soffia il zaffiro e P equinozio di primavera ; così riguardo alle pecore credesi essere il tempo che scorre tra il tramontare di arlcro e quello dell' aquila. Inoltre i da sapersi quanto tempo si debbano tenere separati i ma­schi dalle femmine, avanti che si accoppino per la prima volta : questo d' ordinario io tutte le specie di bestiame è di due mesi ; e così appunto praticano i custodi del bestiame ed i pecorai. L' altro punto da esaminarsi nel portalo è, che hannovi delle bestie, le quali partoriscono più per tempo di altre, perchè la cavalla porla il feto nel ventre dodici mesi, la vacca dieci, la pecora e la capra cioque, e la troia quattro. Be­lati vameole al portato, io dirò una cosa vera, quantunque incredibile ; ed è che nella Spagna Lusitauica trovami verso I' Oceauo, e in quella provincia ov1 è la città di Lisbona e il monte di Sinara, alcune cavalle, le quali concepiscono in certo tempo per mezzo del vento (65) ; in quella stessa guisa che sogliono parimente essere fecon­dale qui le galline, le cui nova si chiamauo per-

, ciò vvntipta (66). Ma i figli oati dalle anzidette cavalle non vivono più di tre anni (67). Sia poi che i figli uascauo al tempo consueto, o più tar­di, bisogna aver cura di lenerli netti e con mol­lezza, ed evitare che non sieno schiaociati. Si dicono agnelli chordi quelli che nasoono dopo il tempo stabilito dalla natura, e che sono rima­sti più lungamente inviluppati nelle membrane interne, chiamate ® quindi chordi chia­mati (68). Il terzo oggetto si aggira sopra quello eh* è da farsi per la nutrizione de' figli, cioè quanti giorni debbano succhiare le poppe alla madre ; io qual lempo, ed ove ciò sia da farsi. Che se la madre avrà poco latte, si metteranno sotto le poppe di un' altra : questi ultimi si chiamano subrumi, vale a dire che sono sotto le mammelle ; perchè, a quel che io penso, rumis è uo vocabolo salico che significava mammella. Non si distaccano gli agnelli dalle poppe se non quasi dopo quattro mesi, i capretti in capo a tre,

5MM. TERENTII VARRONIS

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5S* DE RE RUSTICA LIB. II. .•>90

Relinquitur nonura, quod disi, de numero, utriusque partii commune. Nam et qui parat pecus, neeesteeat constituat numerum, quot gre­ges, et quanto iit pasturai, ne aut saltus desint, ant supersint, et ideo fructus dispereant. Praeter­ea scire oportet in grege quot foeminas habeat, quae parere possunt, quot arietes, quot utri usque gèneris soboles, quot tejiculae sint alienandae. In alimoniis si sunt plores nati* ut quidam fa­ciunt, sequendum, ut quosdam subducas ; quae res facere solet, ut reliqui melius crescant. Vide, inquit Atticus, ne te fallat, et novenae istae partes non exeant extra pecoris minoris ac ma- jorii nomen. Quo p e to enim erunt in mulis et pastoribus novenae partes, ubi nec admis­surae « neo foetorae observantur f In canibus enim video posse dici. Sed do etiam in homini­bus posse novenarium retineri numerum, quod in hibernis habent in T iliis mulieres, quidam etiam in aestivis, et id pertinere putant, quo

•d i porci dopo due. Quando questi erano puri per essere offerii in sacrifizio, si chiamavano una volta sacres (69). Con questo nome si chiamano da Plauto (70), quando dice : A qual presso sono i porci sacri ? Parimente i buoi pingui ed ingras­sati pei pubblici sacrifizii, si chiamano opimL La quarta parte versa lopra la sanità del bestiame ; e quest' è on oggetto diramato e necessario, per­chè il bestiame, quando è ammalato, o ha dei difetti (71), sovente arreca de’gran mali al gregge. Questa scienza ha due oggetti : nell9 uno si ado­pera il medico, comesi fa per l ' nomo, e oelPal­tro poisooo baita re le cure del pastore. Eisa ss divide in tre parti, perchè bisogna osservare le cause di ogni malattia, i segni che le caratte­rizzano, e la maniera di medicare ogni malattia. Quasi tutte le cause delle malattie o riconoscono il troppo caldo, o il troppo freddo, o un’ ec­cessiva fatica, o per contrario on difetto di esercizio, o il cibo e la bevanda data subito dopo il lavoro senza laidar correre qualche tempo.I segni poi per conoscere se la febbre nasca dal caldo o dalla fatica sono la bocca aperta, l t respirazione umida e frequente, e il corpo cal­do (72). Ecco come si guarisce questa malattia : si bagna V animale coll' acqua ; si frega coll' olio e col vino tepido 5 gli si dà poco cibo (73); si co­pre con qualche drappo, acciocché il freddo non gli arrechi qualche danno ; e avendo sete, gli si dà dell’ acqua tiepida. Se questi me­dicamenti a nulla giovano, si cava sangue (74) principalmente dalla testa. Ognuna' delle altre malattie ha altresì le proprie cause ed i proprii segni differenti in ciascheduna specie di be­stiame ; del che il sovrantendente al gregge debbe averne un regiitro in iscritto.

Reità la nona parte, la quale versa sul nu­mero del beiliame, come ho detto (75), ed è comune alle due prime divisioni ; imperciocché chi compra del bestiame, bisogoa che ne fissi il numero, che eiamini quante gregge potrà far pascolare, e di quante teste debba ognuna essere composta (76), aociocchè non vengano a mancare i pascoli, ovvero che ne restino di su­perflui, e che perciò vadano a male i frutti. Inoltre biiogna sapere quante femmine ca­paci di partorire debbansi trovare io un gregge, quanti becchi, quanti figli di ambi i sessi, e quante teste sieno da vendersi a nfotivo della età, o di qualche malattia (77). Riguardo al nodrire i figli, se la madre ne ha partoriti pa­recchi, si segue il costume di alcuni, i quali li diminuiscono di numero: e ciò si suol Aire, onde gli altri crdbeano meglio. Vedi, dice Atti- co (78), di non ingannarti, e che queste nove parti non escano dai limiti assegnati al bestiame

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M. TERENTII VARRONIS *9*facilias ad gregei putore* retineant, el puerperio familiam faciant majorem, et rem pecuariam fru­ctuosiorem. Si, inquam, oumerus non «st, ul sit adamassim, u tnoa est, oum dicimus mille naves iisse ad Trojam, centumvirale esse judicium Ro­mae ; deme (si ?is) duas res de molis, admissu­ram, el pariaram. Vaccins, Pariaram? inquit; proinde ul non aliquoties dicator Roraae pepe- risse mulam. Coi ego oi succinerem, sobjioio, Magonem et Dionysium scribere, molam et eqoam, cum conceperint, duodecimo mense pa­rere. Quare non, si hic io Italia cum peperit mola sit portentum, adsentiri omne) terras. Ne- qoe enim hirundines et ciconiae, qoae io Italia pariant, io omnibus terris pariunt. Non scitis palmulas, caryotas in Syria parere in Judaea, in Italia non posse? Sed Scrofa: Si exigere mavis sioe mularum foelura el nutricatu numerum •ctoginta et unum, est qui expleas duplicem istam lacunam : qood extraordinariae fructuum •pecies duae accedunt magnae ; quarum una est tonsura, quod oves ac capras detondent aat vel­lan t: altera, qoae latins patet, est de lacte, et caseo, qoam scriptores Graeci separatim rafo- «’•//•* appellaverunt, ac acripseroot de ea re permalta.

caput n

D b p e c u d ib u s , a b ib t ib u s b t a g h is .

Sed quoniam nos nostrum pensom absolvi- m ps, ac limitata est pecoaria qoaestio : nunc vnraoi vos reddite nobii, o Epei rotae, de una qeaque re, ot videamus, quid pastores a Perga­mide, Maledove potis siol. Aflicas, qui tunc T. Pomponius, nunc Q. Caecilias cognomine eodem : Ego opinor, inquit, incipiam primos, quoniam

compreso sotto Ia denominatione di grande e di piccolo. Di fatti, corae queste nove parti po t- •ono aver luogo nei muli e nei pastori, oe’ quali non si esamina nè accoppiamento, nè portato? Veggo bene che nei cani possono aver loogo; ed acconsento anche che tutte nove possano aver luogo negli uomini, perchè hanno delle donne nelle case villerecce d' inverno, e alcool anche in quelle di estate ; e che ciò facciasi ad oggetto che piò facilmente i pastori non si di­partano dalle gregge, e che colla figliuolaoza ai faccia pià nomerosa la loro famiglia, onde fratti maggiormente il bestiame. Se, gli risposi, il ou- mero non è esattissimo, come non lo è nem­meno quando diciamo che mille navi si sono porlate a Troia (79), e che a Roma v’ è ao tribunale di cento giudici (80), toglieoe por doe, se ti piace, dai muli, cioè V accoppiameoto ed il porlato. E perchè toglierne il portalo ? dice Vaccio, quasi che non si dica in Roma che al­cuna volta le mule hanno partorito (81). Ed io, per fiancheggiare il suo detto, aggiungo che Magone e Dionisio scrivono, che 1« mula e la ca­valla, ingravidandosi, partoriscono nel dodicesi­mo mese. Laonde se è prodigio per I' Italia il parlo della mula, non lo è certamente per tolti gli altri paesi; imperciocché nemmeno le rondi­nelle e le cicogoe partoriscono io tutti gli altri paesi, quando iu Italia realmeote partoriscono. E non sai che le palme ed i datteri frullano o d ­ia Siria e nella Giudea, e non già nell1 Italia? Ma, soggiunse Scrofa : Anche togliendo il portato eV allevamento de* figli delle mule, e volendo to che sussista il numero di otlantooo, v' è eoo che compierlo, aggiongendo due specie considerabili di fratti straordinarìi ; Puna delle quali è la to­satura delle pecore e delle capre, aia tagliando il pelo o strappandolo ; e I' altra eh1 è più estesa, e che versa sul latte e sul formaggio. Queat' ultima è quella parte che gli aotori greci haooo special- mente chiamata rtffCT9tteaf (83), e sulla qaala hanno scritto mollo.

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CAPITOLO n

D iL BBiTlAMB, DEGÙ ABI STI B OBOLI ACHILLI.

Ma poiché noi abbiamo terminato il lavoro assegnatoci, e si è limitata ogni questione relativa al bestiame, ora tocca a voi, o Epirii, a parlare, secondo l ' ordine da noi proposto, di ogni specie di bestiame, e a farci vedere la capacità de4 pa­stori di Pergamide o di Maledo (1). Io credo* dioe Attico ( qoegli il qoale una volta ehiamavasi

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5 9 $ DE RE RUSTICA LIB. II.

ia me fiderà coojeeissc oralo* : el dieam de pri­migenia pecuaria. E feris eoim pecudibus primam dicis ore# compreheosas ab hominibus ao man- soefactas; bat primom oportet bonasemere.Quae ita ab aetate, ti ncque vetolae sunl, neqae m ene ago a e : qood alterae jam nondum, alterae jam DOD possunt dare fractam; sed ea melior aetas, qoam sequitor spes, qaam ea, qaam mors. De for­ma, ovem esse oportet corpore amplo, qaae lana mulla sit et molli, villis altis et densis toto cor­pore, maxime circum cervicem et collum, ven­trem quoque ut habeat pilosam; itaque quae id non haberent, majores nostri apicas appellabant, ao rejiciebant; Mie oportet croribai hamilibns, caudis observare, a l sint ia Italia prolixis, ia Sy­ria brevibus. In primis videndam, a l boni semi­nis pecas habeas; id fere ex duabas rebus potest animadverti, ex forma, et progenie. Ex forma, si arietes sint fronte lana vestili bene, tortis cornibus pronis ad rostrum, ravis ocnlis* lana opertia aori- bos, amplis pectore et scapulis, et clunibus latis, cauda lata et longa : aniroadvcrtendorn quoqae lioguaae nigra,aut varia sit, quod fere qoi ea ha­bent, oigros ant varios procreant agnos. Ex proge­nie autem animadvertitor, si agnos procreant for­mosos. Io emlionibas jare ali id or eo, qaod lex praescripsit;in ea enim alii plnra,alii pauciora ex­cipiant. Quidam enim pretio facto in singolas oves, a t agni chordi dao pro ana ove anoame- reolor, et si cai vetustate dentes absont, itero binae pro singnlis ot procedant; de reliquo anti­qua fere formala atuntur ; cam emtor dixit: Tsuti sant mi emfae T et ille respondit : Sant, et expromisit numos : emtor stipulator prisca for­mula sio : lllasce oves, qua de re agitur, sanas reste esse, oli pecas ovillum, quod recte sanam est, extra luscam, surdam, minam, id est, ventre glabro, neqoe de pecore morboso esse, habereqoe rtcte licere, haec sio recte fieri spondesnef Cum id faetom est, tamen grex dominum non muta­vit, nisi ai est adnui&eratum. Nec non emtor pote ex enoto vendito illam damnare, si non tra­det, qaam '▼is noo solverit nomos : a t ille emto- rem simili jadicio, si non reddit pretium.

T. Pomponio, e che ora chiamssi Q. Ceeilio At­tico (a), perchè ha conservato questo cognome ), di dover essere il primo a parlare, poiché veggo che gli occhi sono rivolli verso di me ; e perciò parlerò del primitivo bestiame. Tra le bestie sel­vagge, ta dicesti, che le pecore sono le prime che gli nomini abbiano prese e addomesticale. Queste primieramente bisogna comperarle buone , le quali si conoscono (3) se sono tali riguardo alla eli, se non sono nè troppo vecchie, nè troppo giovani ; perché queste non ancora sono al caso di fruttare, • quelle hanno cessato di partorire: è meglio per altro comperarle di quell* età, da coi si possano sperare de' frutti, piuttosto che la morte. Quanto alla forma, bisogna che la pecora sia di statura alla, che sia fornita di copiosa lana e molle (4), di vello lango e densò io tatto il corpo, particolarmente attorno la cervice ed il collo : bisogna eziandio che abbia peloso il ven­tre ; e perciò quelle che non avevano questa qua­lità, erano chiamate dai nostri antichi apicae (5), e le rigettavano. Bisogoa che abbiano le gambe basse ; e facciasi attenzione che nell* Italia abbia­no la coda langa, e corta nella Siria. È da pre­curarsi speoialmenle che si abbia on ariete (6) di buona razza ; il che d’ ordinario si conosoe dal- l’ esame della forma e della stirpe. Influirà la forma, se gli arieti avranno la fronte larga e folta di lana (7), le corna torte e piegate sopra il ma so, gli occhi rossi, le orecchie ooperte di lana, il petto largo, le spalle e le natiche larghe, e la coda lan­ga : è da esaminarsi ancora se hanno, la liogoa nera o macchiata, perchè d’ ordinario qaclli che 1* hanno tale, generano agnelli neri o macchiati. Si può arguire che la loro stirpe è di boona razza, quando generano de’ belli agnelli. Nelle vendite si conformerà alle condizioni dettate dal proprie­tario, in virtò del soo diritto di proprietà, poiché aleoni v' iuseriscono molte clausole, ed altri po­che. Ye ne sono di qoelli che fissano on deter­minato prezzo per ogni pecora ; come che due agnelli nati dopo il tempo oonsneto, si oon ti no per ona pecora, e che doe pecore mancanti di denti per 1* e tà , non si contino che per u n a . Per le altre condizioni, d* ordinario si sta all* an­tica formoli : vale a dire, che qaando il compra­tore ha detto al venditore: me le Tendi per tanto T ed avutane 1* affermativa, egli promette solenne­mente di pagarne il prezzo ; indi il compratore introduce questa stipulazione presa dall'antica formola : mi prometti che qaesle pecore, delle quali si parla, sieno sane, come debb’ essere que­sto bestiame (8), il quale è sano a dovere, qaando non è cieco in oo occhio, non è sordo, e qaando non ha la mina (9), Tale a dire, ohe sia pelato •etto il ventre; oh’ esao non proviene da una

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M. TERENTII VARRONIS

De alteris qualnor rebas deinceps di etra : de pastione, foetara, nutricatu, sanitate. Primum providendum, nt lotum annum recte pascantur intos et foris: stabula idoneo loeo ut sint; ne ventosa; qnae spectent magis ad orientem, quam ad meridianum tempus : ubi steot, solum opor­tet esse eruderatum, et proclivum, nt everri fa­cile possit, ac fieri purum ; non enim solura ea uligo lanam corrumpit ovium, sed etiam ungu­las, ac scabras fieri cogit. Cum aliquot dies stete­runt, subjicere oportet virgulta alia, quo mollius requiescant, purioresque sint; libentius enim ita pascuntur. Faciendum quoque septa secreta ab aliis, quo incientes secludere possis, item quo cor­pore aegro; haec magis ad villaticos greges ani­madvertenda. Contra illae in ssltibus quae pa­scuntur, et a tectis abiunt longe, portant secum crates aut retia, quibus cohortes in solitudine faciant, caeteraque utensilia ; longe enim et late in diversis locis pasd solent, ut multa millia absint saepe hibernae pastiooes ab aestivis. Ego vero seio, inquam; nam mihi greges in Appolia hiber­nabant, qui in Reatinis montibus aestivabant. Cum inter haec bina loca, ut jogum continet sirpi culos, sic calles publicae distantes pastiones: easque ibi, ubi pascuntur in eadem regione, tamen temporibus «Julingunt, ut aestate quod cum prima luce exeunt pastum, propterea quod tunc herba roscida meridianam, qoae est aridior, jucunditate praestat : sole exorto puto propel-, lunt, ut redintegrantes rursos ad pastum alacrio­res faciant. Circiter meridianos aestus, dum de­fervescant , sub umbriferas rupes et arbores patulas subjiciunt, quoad refrigerato aSre vesper­tino, rursus pascant ad solis occasum : ita pascere pecus oportet, ut adverso sole agat ; caput enim maxime ovis molle est. Ab occasu parvo inter­vallo interposito, ad bibendum appellunt, et rur­sus pascunt, quoad contenebravit ; iterum enim tum jucunditas in herba redintegravit. Haec ab Vergiliarum exortu ad aequinoctium autumnale muxime observant. Quibos in locis messes sunt factae, inigere est utile dnplid de causa, qnod ct caduca spica saturantur, el obtritis stramentis et stercoratione Cadant in annum segetes mdio- res. Reliquae pastiones hiberno ac verno tempore

hoc mutant, qnod pruina jam exhalata, propel-

greggia malsana, e che liberamente passa in asso­luto mio potere ? Ciò fatto, oulladimeno il gregge non cangia padrone fino a cbe non si sia oontato il danaro. Può il compratore, per 1' axione della compera e ddla vendita (io), far coodaonare il venditore, se oon gli fa la consegna del gregge, quantunque non 1* abbia ancora pagato ; e pari­mente questi, per un egoale diritto, può far con­dannare quello, se non paga il pretto oonvenuto.

Ora parlerò degli altri quattro punti, che sono il pascolo, la geoeraziooe, il nodrimento de' figli, e la sanità. Primieramente è da procu­rarsi (i i) che le pecore sieno ben nodrite tutto Panno, tanto in casa, quanto fuori* Le loro stalle debbono essere collocate io un luogo convenien­te, senza essere esposte al vento; e volte piuttosto all1 oriente, che al meriggio (12). Il suolo, sa coi dimorano, deve essere uguale ( i3) ed in pendio, affinché di leggieri possa essere scopato e nettato dair orina (14) ; perchè l 'umidità guasta non solo la lana delle pecore, roa ancora le unghie che ver- rebbéro attaccate dalla soahbia. Fa duopo disten­dere sul suolo dei virgolti o delle paglie ( i5), onde le pecore riposino su d' un letto molle, e si mantengano piò nette. Dimorato ohe abbiano sa questo letto per alquanti giorni, bisogna rifarlo con altri virgulti. In tale maniera mangiano pia volentieri. Risogna fare altresì de'rednli separati, onde poter segregare qudle che sono prossime al parto (16), e anche qudle che sono ammalate. Cotali atteoiioni le ricercano sperialmenle le greggie che soggiornano nella casa rustica. Per contrario qudli (17) che le fanno pascolare sulle montagne, e che sono lontani dalle case, portano seco de’ craticd o delle reti di ginestra di Spa- goa (18) e degli altri uleusili per costruire dd parchi nd luoghi di solitudine, perchè saolsi con­durle a pascolare in luoghi lontani (79) ed anche tra di loro distanti ; ed avviene non di rado che i pascoli dell' inverno sieno distanti molte miglia da quelli ddla stale. Lo so bene, io dico, perchè le mie greggie passavano l ' ioverno ndla Puglia, e la state sui monti di Rieti. Tra questi due laoghi di pascoli lontani vi sono delle strade sdvagge che li uniscono ; io quella guisa che un giogo unisce due panieri (ao). Anche le pecore che pa­scolano sempre nella medesima contrada, cangia­no pascoli secoodo la stagione ; poiché ndl* estate si conducono a pascolare sul far del giorno, per essere allora l 'erba coperta di rugiada, la qnale fa che riesca plà grata al palalo di quelb d d m euodì, perchè è più secca. Nato che sia il sole, si conducono a bere (a i); acciocché ristorate, ripiglino con allegria il pesoolo. A oggetto che venga meoo il calore bruciante d d mestodì, si conducono sotto l*ombra ddle rocce • sotto

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Iu d I i n pabulum, el pascant diem totum, ac me­ridiano tempore semel agere polum salishabent. Qood ad pastiones attinet, haec fere sont : qaod ad foeturam, qaae dieam. Ariete» , qaibas sis asarusad foetaram, bimestri tempore anle secer- uendum, et largius pabulo explendum. Cam re­dierant ad stabula e pasta, ordeam si est datum, firmiores fiant ad laborem sustinendum. Tempas optimum ad admittendum, ab arcturi oocasu ad aqoilae occasam, qood qoae postea coocipiunt, fiunt vegrandes, atqae imbecillae. Ovis praegnans est diebus c l ; ilaqae fit partas exita autumnali, com aer est modice temperatas, et primitus ori- tur herba imbribus primoribas evocala. Quam- dio adraissara fit, eadem aqaa oli oportet, quod commutatio et lanam facit variam, et corrumpit a ter am. Cam omnes conceperunt, rarsus arietes secernendi: ita factis praegnantibos quod sant molesti, ( obsunt ). Neque pati oportet minores, quam bimas saliri, qaod neque natum ex his ido­neum est, neque non ipiae fiunt eliam delerio- res : et non meliores, quam trimae admissae ; deterrent ab saliendo fiscellis e junco, alia ve qua re, qaod alligant ad uatarara. Commodius ser- Tanlur, si secretas paicunt. In nutricatu cura pa­rere coeperunt, iniguot in stabula ea, qaae habent ad eam rem seclusa, ibique oala recenlia ad ignem prope ponunt, quoad convaluerunt, biduum aut triduum relinent j dom agnoscant matrem agni, et pabulo se satnrent ; deinde dum matres cura grege pastura prodeunt, retineut agnos, ad quos cum reductae ad vesperum, alunlur lacte, et rur­sus discernuntur, ue noclo a matribus conculcen­tur. Hoc ilem faciunt mane ante quam matres in pabnlom exeant, ut agni satulli fiant lacie. Circi­ter decem dies cam praeterierunt, palos offigunt, et ad eos alligant libro, aut qua alia re levi di­stantes, ne tolo die cnrsantes inter se teneri, delibent aliqujd membrorum. Si ad matris mam­mam non accedet, admovere oportet, et labra agni unguere butyro aut adipe suilla, et olfacere labra lacte. Diebus posi paucis objicere his viciam moli la m, aut herbam teneram, anle quam exeuot paslum , et cum reverterunt. Et sio nutricantor quoad facti sunt quadriemestres. Interea matres eorum his temporibus non mulgent quidam,qui ut melius, omnino perpetuo, quod et lanae plus feruut, et agnos plures. Cum depulsi sunt agni a malribus, diligentia adhibenda est, ne desiderio senescaut; itaque dellniendum in nutricatu pa­buli bonitate : et a frigore et aestu ne quid labo­rent, curandum. Cum oblivione jam lactis non desiderant matrem, tum denique compellendum in gregem oviom. Castrare oportet agnum non minorem quinque mensium, neque ante quam calores aut frigora se fregerunt. Qaos arietes

quella degli alberi aventi i rami distesi, finché si rinfreschi P aria (22), per far ad esse poi ripigliar* il pascolo sino al tramontar del sole. Bisogna che il bestiame pascoli, tenendo le parti di dietro verso il sole, perchè la testa del medesi/no, e massimamente quella delle pecore, è delicata. Poco tempo dopo che il sole è tramontato, si conducono a bere ; e nuovamente si fanno pasco­lare fino alla notte, perchè allora si rinnovella il sapore nell'erba. E questo è da osservarsi spe- cialmenle dal levare delle Pleiadi sino all1 equi­nozio autunnale. Giova per una doppia ragione condurre (a3) le pecore, ove già si è fatta la rac­colta : la prima è, perchè si satollano delle spiche cadute in terra ; la seconda, perchè calpestando la paglia, ed ingrassandola collo sterco, fanno sì che la terra si migliori per l1 anno venturo. Gli altri pascoli d1 inverno e di primavera differisco­no (a4) dagli anzidetti in ciò, che le pecore non si conducono al pascolo, se non quando è già esalata la brina, che si lasciano pascolare tolto il giorno, e che basta condarle a bere uoa sola T o lta

a mezzogiorno. E questo è qaasi tatto ciò che riguarda il pascolo ; e quello che sarò per dire, riguarderà la propagazione. Gli arieti che t o o ì

adoperare per la propagazione, separali due mesi avanti, e dà loro maggior copia di cibo. Se vuoi renderli più robasti per sostenere le fatiche della propagazione, dà ad essi dell1 orzo, quando ritor­nano alla stalla dopo il pascolo. 11 miglior tempo per I1 accoppiamento è dal tramontare di artnro sino a quello dell1 aquila (a5); e quegli agnelli che nascono in progresso, diventano malamente grandi e deboli (a6). La pecora porta centocin­quanta giorni ; per conseguenza partorisce alla fine di autunno, qnando l'aria è moderatamente temperata, e quando comincia a nascere l1 erba eccitata dalle prime piogge. Nel tempo che il maschio si accoppia colla femmina, bisogna dar­gli a bere sempre la medesima acqua, perchè il cangiamento di questa*^) fa che la lana diventi di vario colore e che si nuoca all1 utero. Quando tutte hanno concepito, bisogna segregare nuova­mente gli arieti ; perchè, se sono molesti (a8), noocono a quelle che hanno concepito. Non bi­sogna permettere I’ accoppiamento a qaelle che hanno meno di due anni, perché il frollo non sarebbe buono, ed esse medesime deteriorereb­bero. Le migliori di tolte, per essere montate, sono qaelle di tre anni. Si garantiscono le fem­mine dall1 accoppiamento, attaccando alle loro parti genitali dei cestelli di giunco o di qualche altra materia : meglio però si preservano, facen­dole pascolare separatamente. Riguardo alla nu­trizione de1 figli, quaodo le peoore sono vicine al parto, si fanno passare in istallo destinate a

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59# M. TERENTII VAERONIS

submittere volant, potissimum eligant ex ma­tribus, qose geminos parere tolenl. Plersqae si osili ter faciendum in oviboa peli i lit, quae pro- pter Unae booilatem, nt sunt Tarentinae et At­ticae, pellibus integuntur, ne lana inquinetur, quo minus vel infici recte possit, vel lavari, ae parari. Harum praesepia ao stabula ut sint pura, majorem adhibeant diligentiam, quam hirtis ; itaque faciunt lapide strata, ut urina necubi in stabulo cousislat. His quaecunque jubentur, ve- sountnr, ut folia ficnlnea, et palea, et vinaceae ; furfures objiciuntur modice, ne parum aut nimium saturentur; utrumque enim ad corpus alendum inimicumj at maxime amicum cytisum ct medica ; nam et pingaes facit facillime, et ge- ■ i t lao. De sanitate sunt multa , i<d e« ( ut dixi ) in libro scripta magister pecoris habet : et quae opus ad medendam, portat stcom. Relinquitur de numero, quem faciunt alii majorem, alii mi­norem; nulli enim hojus moduli naturales; illud fere omnes in Epeiro facimus, ne minus habea­mus in eentenas oves hirlas singulos homines :io pellitas binos.

quest' operatione, cd iti si mettono presso al fuoco i neooaii, e si obbligano a starvi per dueo tre giorni, finché si fortifichino, « finché cono­scano la propria madre (29), e sieoo in istato di mangiare, lodi, quaodo le maJri escono col greg­ge al pascolo, si trattengono gli agnelli in istalla ; ai qnali si fanno passare, quando ritornano la sera, acciocché li nodrisoano col latte ; e nuova­mente si separano, onde nella notte non sieno calpestati dalla madre* Pariraeote si fa lo iteao la mattina, avanti ohe U madri escano al pascolo, acciocché gli agnelli diventino beu satolli di latte. Passati dieci giorni all' incirca, piantano dei pali ; e a questi si attaocano, a uua qualche distarne, per metto di scorte d'alberi, o di qualsivoglia altro leggiero legame, per evitare che, correndo qua e là tutto il giorno, non si urtino tra di loro,• non si rompano qualche membro, perché sono teneri. Se V agnello noo si accosta alla mammella della madre, bisogna avricinarvelo, ed ungergli le labbra di burro o di grasso porcino, e fargli annasare il latte per metto delle labbra. Pochi giorni dopo, si dà agli agoelli della veccia mari* nata, o dell* erba tenera, tanto avanti di coodurli al pascolo, quanto allora che ritornano (3o). E cosi si nodriscooo finché abbiano quattro mesi. Alconi noo mungono in questo tempo le loro madri; e fanno meglio di quelli che conlinoa» mente le mungono ; perchè nel primo modo esse producono maggior copia di lana e parecchi agnelli (3 i). Quando gli agnelli aono ribattati dalle madri, è da procurarsi che oon vengano me­no pel desiderio, e perciò, a oggetto di raddolcire la loro pena, si nodrijcono con buoni pascoli, e si ha la cura di preservarli del tutto dal freddo e dal caldo. Quando uoo pensano più al latte calla madre, allora sarà il tempo di uoirli alla troppa delle pecore. Non bisogna castrare gli agnelli avanti i cinque mesi, come nemmeno avanti che si moderi il caldo od il freddo. Riguardo agli stallooi, si scelgano quegli arieti che nacquero da madri, le quali a un tratto furono solile di par­torire due agnelli. Pi'essappoco è da farsi lo stesso riguardo alle pecore che si coprono eoo pelH (3a), it che si fa per la bontà della loro lana : tali sono le Tarentine e quelle dell’Attka, le quali cosi si coprono, onde la lana non si sporchi, e possa es­sere bene tinta, lavata e nettata (33). Osano mag­giore diligenza in tener nette le mangiatoie e le stalle di queste, che quelle delle pecore di lana grossa; e perciò lastricano di pietre le stalle, af­finché non si arresti in alcun luogo I1 orina. Man~ giane qualunque oosa che si metta nelle mangia­toie, come foglie di fico (34)» P*0l>* « vinacce : si dà ad esse dalla crusca, ma moderatamente, af­finchè non ne mangino nè in troppa, nè in poca

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6#i DE RE RUSTICA LIB. II.

CAPUT in

D i c a p r is , h ir c is r t h o r d is .

Coi Cossioius : Quoniam satis baiasti, inquit,o Faustule noster, accìpe a me cam Homerico Melanthio Chordo de capellis, et quemadmodom oporteat breviter dicere, disce. Qoi caprinum gregem coottitaere vult, in eligendo animadver­tat oportet, primum aetatem, at eam paret, quae jim ferre possit fractam, et de iis eam potias, qaae diutios : novella enim qoam vetus utilior. De forma videndam, at sint firmae, magnae, cor­pus lene at habeant, crebro pilo, nisi si glabrae •ont ; dao enim genera earum : sub rostra duas ot mammulas pensiles habeaot; qood eae foecon- diores sunt ; ubere sint grandiore, ut et lac mul­tum , et pingue habeant pro portione. Hircos molliori et potissimum pilo albo, ac cervice et collo breve, gorgulione longiore. Melior fit grex, fi non est ex collectis comparatos, sed ex contue* lis una. Oe seminio dico eadem, quae Atticus in ovibos; hoc aliter, oviom semen tardios esse, quo hae'sint placidiores; contra caprile mobilius esse, de quarum velocitate in Originum libro Calo scribit haec : Io Sauracti, Fiscello eaprae ferae saot, quae saliunt e saxo pedes pias sexagenos. Oves enim, quas pascimos, ortae saot ab ovibus faris; sic caprae, qaas alimus, a capris feris sunt ortae, a que is propter Italiam Caprasia insula est nominala. D e capris qood meliore aemioe eae, qoae bis pariant, ex his polissimom mares solent sobmitti ad admissuras ; qaidam etiam dant ope­ram, nt ex insula Media capras habeant, quod ibi maximi ac pulcherrimi existimantor fieri hoedi. De emlione aliter dico alque fit, quod capras sanas sanus nemo promillit; nunquam enim sine febri sunt. Itaque stipulantur paucis exceptis ver- bis : ac Mamilius scriptum reliquit sic: HUs capras hodie recte esse, et bibere posse, habereqae recte

M. Tluebiio Vabeobb

copia ; essendoché loro nnoce il troppo • il pooo cibo. Ma particolarmente loro è utile il citiso e l’ erba medica, perchè • facilmente s ' ingrassano, e generano molto latte. Riguardo alla loro sanità vi sono moliealtrecose;ma queste, come dissi^S5), debbe averle scritte sopra il suo libro il sovrao- tendeote alla greggia, e portarle seco, quando occorra medicare. Resta a parlare del numero (36) che alcooi vogliono maggiore, ed altri minore ; in ciò la natura non ci dà una regola fissa. Quasi tutti nell' Epiro facciamo che abbiano un pastore cento pecore di lana grosse, e due pastori altret­tante capre.

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CAPITOLO m

D e l l a c i p r i , d r i b b c c h i r d i i c a p i b t t i .

Cossinio gli disse : Poiché, o nostro Faustu­lo ( i) , hailungamenle parlato intorno alle pecore, qual Melanzio Cordo (2) di Omero', impara da me ciò che riguarda le capre, e come convenga par­larne brevemente. Quegli che vuole formare un gregge di capre, dee nella scella badare primie­ramente all’ età, e provvedere qaelle che sono già al caso di fruttare, e preferire quelle che frutteranno per lungo tempo ; perchè le giovani sono più utili delle vecchie. Quanlo alla forma, bisogna aver l’ attenzione che sieno di statura grande e soda, di corpo sottile, di pelo denso, quando 000 sieno di qaelle che sono pelate, essendovene di tuttadue le specie ; che abbiano due papille peodenti sotto il m ento, il che è indizio di fecondila ; che abbiano grandi mam­melle, onde in proporzione il latte sia e copioso e grasso. Quel becco è migliore (3) , il quale ba specialmente il pelo bianco, la testa e il collo corto « grosso, e protuberanie il capo dell1 aspe- rarteria (4) • Quel gregge è migliore, eh’ è com­posto di capre solite a stare insieme, che riunite per la prima volta. Quanlo alla razza, dico lo stesso che ha dello Attico riguardo alle pecore, cou questa differenza (5), che la razza delle pe­core è più quieta e tranquilla, perchè sono più mansuete, e per contrario quella delle capre più spiritosa e leggera. Ecco quello che scrive Cato­ne nel libro delle Origioi in proposilo della loro leggerezza. Nel monte Soralte e Fiscello (6) vi s o d o delle capre selvagge, le quali saltano sopri la rocca a una distanza di sessanta piedi e più. Siccome le pecore che noi alleviamo sono nate (7) da pecore selvagge, del pari le capre che allevia­mo nacqoero da capre selvagge ; e per qaeslo appunto si è nominata Capraia quell’ isola eh’ è

6 os

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6o3 M. TERENTII VARRONIS

licere, haec spondesne ? De quibus admirandum illud, quod etiam Archelaus scribit, oon ut reli­qua animalia Daribuf, sed aoribus spiritum daoere aviere, pastores cariosiores aliquot dicuol.

De alteris quatuor , quod est de pastu hoc dico : stabulatlhr pecus melius ad hibernos exor­tas si spectat, quod est alsiosum. Id ut pleraque lapide, aut testa substerni oportet, caprile quo minus sit uliginosum ac lutulentum. Foris cum est pernoctandum, item in eandem partem coeli quae spectent, septa oportet substerni virgultis, ne oblinantur; nec multo aliter tuendum hoc pecus in pastu, atque ovillum, quod tamen habet sua propria quaedam, quod potius silvestribus sallibus delectantur, quam pratis. Studiose enim de agrestibus fruticibus pascuntur, atqae ia locis cultis virgulta carpunt; itaque a carpendo caprae nominatae: ob hoc in lege locationis fundi excipi •olet, ne colonus capra natum in fundo pascat. Harum enim dentes inimici sationis, quas etiam astrologi ita receperunt in coelum, ut extra lim­bum xii signorum excluserint. (Sunt duo hoedi et capra non longe a tauro). Quod ad foeturam pertinet, desistente autumno exigant a grege ili campos, hircos in caprilia, item ut in arietibus dictam. Quae concepit, post quartum mensem reddit tempore verno. In nutricatu hoedi, trime­stres cum sint facti, tum submittuntur, et in gre­ge incipiunt esse. Quid dicam de earum sanitate, quae nunquam sunt sanae ? nisi tamen illud unum, quaedam scripta habere magistros pecoris, quibus remediis utantar ad morbos quosdam earum, ac vulneratum corpus; qaod usu venit iis saepe, quod inter se cornibus pugnant, atque io spinosis locis pascuntnr. Relinquitur denumero, qui in gregibus est minor caprino, quam in ovil­lo, quod caprae lascivae, et quae dispergant se ; contra oves, quae se congregent, ac condensentio locum unum. Itaque iu agro Gallico greges

vicina ali' Italia. Le capre di miglior razza sono quelle che partoriscono due figli in una volta ; e perciò i maschi nati da queste sono specialmente quelli cbe si sogliono usare per istalloni (8) . Alcuni procurano ancora di avere delle capre dall’ isola Milo (9), perchè sono persuasi esserli colà de' capretti grandissimi e bellissimi. Riguar­do alla compera di queste, bisogna (are altrimen- te di quello che si usa in quella delle pecore (10), perché nessun uomo di sana mente può mante­nerle sane, essendoché non sono mai senza feb­bre (11) ; e perciò si stipala il contratto, toglien­do dalla formola poche parole. Ecco la forinoti lasciataci scritta da Manilio (ia) : Mi prometti lu, che queste capre sono oggidì in isfato di bea mangiare e bere, e che potrò possederle libera­mente? Alconi pastori curiosi raccontano una singolarità sorprendente, scritta anche da Arche­lao (13) ; ed è che le capre sogliono respirare per le orecchie, non già per le nari, come fanno gli altri animali (i4) •

QuaLto agli altri quattro punti, ecco quel ch'io dico riguardo al loro nodrimento. La stalla per questo bestiame è meglio che sia volta all’ o- rieute d1 interno ( i5) , perchè sono sensibilissime al freddo. Qaesta, come sono molte altre stalle, debbe essere lastricata di pietre o di mattoni cotti (16), onde non sia nè umida, nè fangosa. Quando si faranno pernottare foori di qaesta, si faccia che i recinti goardino parimente al mede­simo lato de) cielo, e sul suolo si distendano dei virgulti, acciocché non si sporchino (-17). Riguar­do al pascolo, questo bestiame si tratta pressap­poco egualmente delle pecore: ha però questo di particolare, che ama piultoato i luoghi selvag­gi e le rupi, che le praterie. Di fatti le capre con grande avidità pascolano i frutici selvaggi, e nei luoghi coltivati raccolgono (18) e addentano i virgulti; e perciò si sono chiamale caprae dal verbo capere, o cogliere. Per questo, quando si affitta pna tenuta, suolsi al finanziere eccettuare nel contratto che non faccia pascolare nella me­desima la capra (19) ; perchè i denti di questa sono dannosissimi alle piantagioni ; e quindi gli astronomi parimente la accolsero nel ciclo, ma la

esc lasero dal circolo dei dodici segni. 1 due ca­pretti e la capra non aono molto lungi dal toro (ao). Per ciò che spetta alla propagazione, verso il fine di autunno si fanno passare nel

1 becchi, come si è detto degli arieti (a i). Quelle che hanno concepito, partoriscono dopo il quarto mese (aa) in primavera. Quando i beccherelli che si sono allevati, hanno compito tre mesi, in allora si lasciano andare cogli altri, e cominciano ad essere parie del gregge. Che dirò della loro sanità, poiché esse non sono giammai

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6o5 DE RE RUSTICA LIB. IT.

pìarts potius faciont, quam magnos, qood in ma- gnu cito esisUI peitileoiU^ quae ad perniciem tum perdiical. Satii magnam gregem pataol esse circiter quinquagenas ; quibos atsenliri putant jd, qaod aiu venit Gaberio eqoili R. la enim, com in suburbano mille jugerum haberet, et a caprario qnodam9 qui adduxit capellaa ad orbem x, sibi in dies tiognloa denarioa tingalo* dare, audisset, coegit mille caprarum, sperant ae capta­ram de praedio io diea sioguloa denariam mille. Tantam enim fefellerit, at brevi omnea amiserit morbo. Contra in Sallentinis et in Casinati ad centenas pascunt. De maribus et foeminis idem Cure diictymeo, at alii ad deius capras singulos parent hircos, at ego : alii etiam ad xv, at Me­nai : nominili etiam, at Marrins, ad figinli.

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CAPUT IV

D i s v i .

Sòd qu ii e portai poti Italico prodit, ic de «■ilio pecore expedit ? tametsi Scrofam potissi« n a n de ea re dicere oportere, cognomen ejoj tignili eat. Gai TremeUiaa : Ignorare, inquit, vi­dere, cur appeller Scrofa. Itaqae at etiam hi pro» pter te sciant, cognoaoe meam gentem satUum eognomeu non habere, nec me esse ab Eamaeo ortam. Arne mens primam appellatas est Scrofe, qoi quaestor cam esact Licinio Nervae praetori ia Macedonia provincia relictoa, qni prieesaet exeru tos dum praetor fedirai, hostes arbitriti oeeaaionem ae habere victoriae, impressionem laeere coeperant in eistra. Avos, cam cohorta re­tor milites, ot caperent arma atque exirent ooor

sane ? Questo solo dirò, che i sovmntendehli 0! bestiame bisogna thè abbiano aerini certi rime­dii (a3), dei qnali si servano per guarire alcune delle loro malattie, e le ferite, cai sono sovente esposte, perchè pugnano tra di loro eolie corni, e perchè pascolano in luoghi ripieni di spine. Resla a parlare del numero, il quale debbe essere minore in un gregge di capre, che di pecore, perchè quelle sono lascive e vagabonde, e queste amano di stare unite e di raccogliersi in un solo luogo. E per questo gli abitanti delle Gallie fanno piuttosto parecchie troppe, che queste stesse più numerose ; perchè nelle numerose fa­cilmente le epidemie vi allignano, e quindi muo­iono. Si considera essere un gregge numeroso soffìcienlemenle, quando si hanno circa cinquan­ta capre; e pensano di confermare ciò con quanto accadde a Gaberio cavaliere Romano ; impercioc­ché egli che possedeva mill^ ingeri di terra nel sobborgo, avendo inteso dire da un certo capraio che conduceva dieci capre alla città, che ogni capra gli rendeva al giorno nn denarius (24), formò quindi una truppa composta di mille capre, colla speranza che il suo fondo di terra gli frul­lerebbe mille denarìi al giorno ; ma tanto a’ in­gannò nel suo conio, che in breve tempo mori­rono tutte per malatlie. Per contrario, i Salenlini e quelli di Cassino fanno le loro truppe di cento teste. Quasi la medesima divertila di opinioni havvi rispetto al numero de' maschi che deggio* d o coprire le femmine ; perchè alcuni, come io, danno un clprone a dieci capre, altri nn caprone a quindici, come fa Menes (25) ; .e alcuni altri, come Marrio, fanno che basti an beoco per montire venti capre.

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CAPITOLO IV

Dlt'tOlCO.

Mi qaal è quell’ Italiano ingrassatore di por­ci (1), U quale comparisca, sulla scena a trai* tare di questo bestiame? Egli è senza dubbio Scrofa, il coi soprannome annuncia (a) che que­st* argomento conviene a lui. A cui Trem o­lio rispose : Pare che tu ignori la ragione, per la quale mi chiamo Scrofa. Laonde, accioc­ché ancora quelli che sono qui presenti il sap­piano nel mentre che il vieni r sapere ancor ta, degg* io farli conoscere che la mia famiglia non he acquistato questo soprannome fra1 porci, e che io non discendo ponto da Eumeo. 11 mio evo-A il primo che sii stato chiamato Scrofa. Essendo egli questore (3) ài Licinio Nerva (4)

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6 on M. TERENTII VARRONIS 6 0 6

tra dixit, celeriter te illo» ( nl scrofa porcos ) dis­jecturam ; id qnod fecit : nam eo proelio hostes ita fodit ac fugavit, ot eo Nerva praetor Impe­rator sit appellatus* avos cognomen invenerit, ot diceretur Scrofa. Itaque proavus, ac superiores deTremelliisnemo appellatus Scrofa; nec minus septimus snm deinceps praetorios in gente nostra. JNec tamen defugio, qoin dicam qaae scto de suillo pecore. Agri eoim culturae ab initio fui atndio- tos : nec de pecore tuillo mihi el vobis, magnis •pecuariis, ea res non est communis. Quis eoim fundum colit nostram, qain sue» habeat, et qoi «00 audierit patret noitros dicere, ignavam et lamptaosum esse, qai succidiam in carnario su­spenderit potias ab laniario, qaam ex domestico fondo f

Ergo qui toum gregem valft habere idoneam, eligere oportet primum bona aetate, secondo booa forma. Ea est, cum amplitudine membro­rum, praeterquam pedibus, capite, anicoloris potius quam variat. Cum haec eadem ut habeant verres videndum, tam utique tint cervicibus am­plis. Boni seminis saes animadvertantur a facie, et progenie, et regione coeli. A facie, si formosi sint verres et scrofa ; a progenie, si porcos mul­tos pariunl ; a regione, si potius ex his locis, ubi nascuntur, amplas qoarn exilis pararis. Emi solent sic : Hiasce sues sanas esse, habereque recte licere, noxiique praestare, neque de pecore morboso esse, spondesue? Quidam adjiciunt perfunctas esse a febri et a foria. In pastu locos huic pecori aptus uliginosus, quod delectatur non solum aqua, sed etiam luto ; itaque ob eam rem ajunt lu­pos cum sint oacti sues, trahere usque ad aquam, quod dentes fervorem carnis ferre nequeant. Hoc pecus alitur maxime glande, deinde faba, et or- deo, el caelero frumento; quae res non modo pioguitudinem efficiunt, sed etiam carois jucun­dum saporem. Pastum exigunl aestate mane, et antequam aestus incipiat, subigunt in umbrosum

locum, maxime ubi aqua sit; post meridiem rur- sos lenito fervore pasco ut ; hiberno tempore non

pretore (5) della provincia di Macedonia, que­sti il lasciò colà a comandare all1 armata fino al tao ritorno. Immaginandosi gP inimici che questa fosse ona buona occasione di riportare la vittoria, cominciarono a sforzare il sao cam­po. Il mio avo, nell1 atto che etortava i soldati ad impugnare le armi, e ad andare con Ito fl nemico, ditse loro che in un momento dissipe­rebbe gP inimici, in quella guisa che nna troia dissipa 1 porci (6) : il che di falli esegui, perchè in quella battaglia tanto disfece gl* inimici, e tauto li fugò, che il pretore Nerva, in eonte- guenza della vittoria, ebbe il titolo d’ imperato­re (7), e il mio avo il soprannome di Scrofa (8). Laonde nè il mio bisavolo, oè gli altri Tremellii miei antichi ai tono mai chiamali Scrofa ; ed io tono il tetlimo pretore della mia famiglia, la quale ha etercitata qaesta carica di padre in fi­glio. Io però non ricato di direqaanto ao intornoil.bestiame porcino, perchè fino dalla mia pri­ma età fui studioso delP agricoltura ; e quanto riguarda i porci, appartiene non meno a me, che a voi, perchè alleviamo molto bestiame. Qual è di fatti quegli ohe coltiva le sue terre, senza che abbia de* porci ? E chi non ha udito dire dai no­stri padri, che quegli è negligente, e che fa tpete considerabili, quando attacca nella diapente la carne porcina salata o affumicata (9), preta piut­tosto dal beccaio, che tratta dal sao proprio fondo ?

Dunque chi vnole avere an baon gregge di porci, dee prima tcegliere ona buona età, e in secondo loogo una bella forma. E questa ha luogo nelle troie, quando hanno grandi membra, oltre i piedi e il capo ; e quando tono piuttosto di un solo colore, che screziate. È da farsi atten­zione che queste medesime qualità ti trovino an­che nei verri, come altresì che sieno di grande cervice. Si conosce, se i porci tono di buona razza, dalla loro figura, stirpe e paese (10). Dalla loro figura, quando le troie tono belle (11); dalla loro stirpe, qnando in un tratto partoriscono molti figli ; e dal paese, quando si comprano piuttosto grossi, che piccoli in quei laoghi, ove nascono tali (ia). Ecco la formola osata nel con­trailo : mi prometti che qaeate troie sono sane ; cbe esse passano in pieno mio diritto ; che sarò esente dai danni che avessero apportati ( i 3 ) ; e che non derivano da un gregge ammalato ? Al­cuni aggiungono che sieno esenti dalla febbre e dalla diarrea (14). Rispetto al pascolo, i laoghi fangosi sono quelli che convengono a qaeslo be­stiame; perchè ama non solo l'acqua, quanto anche il fango: per la qual cosa corre il detto, che quando i lupi trovano de* porci, gli strasci­nano nell* acqua, perebèi loro denti noo potreb-

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p rio i exigunt pastum, quam pruina evanuit, ae colliquefacta est glaciet. Ad foeluram Terres duo- bui mentibut ante secernendi. Optimum ad ad- jnissuram tempus a favonio ad aequiooclium

Ternum; ita enim contingit, ut aestate pariat; quatuor enim menset est praegnans ; et tunc pa­ri t, cum pabulo abundat terra. Neque minores admittendae quam anniculae ; melius xx menses expectare, ut bimae pariant. Cum coeperunt, id lacere dicuntur usque ad septimum anuum recte. Admissuras cum faciunt, prodigunt in lutosos lim ites ac lustra, ut Tolutentur in luto, quae est illorum requies, utlaTatio hominis. Cum omnes conceperunt, rursus segregant terret. Verris octo mentium incipit talire : permanet, ut id recte lacere possit, ad primum ; deinde il retro, quoad perreniat ad lanium ; hic enim conciliator suillae carnis dalut populo.

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Sut Graece dicitur <?;> olim thyias dictus, ab illo verbo quod dicunt $óitvy quod est immolare. Ab suillo enim genere pecoris immolandi initium primum aumptum videtur, cujus T e s t ig ia , quod initiis Cereris porci immolantur, et quod initiis pacis foedus cum feritur, porcus occiditur, et quod nuptiarum inilio antiqui reges ac sublimes viri in Hetruria in conjunctione nuptiali nova nupta et novos maritus primum porcum immo­lant. Prisci quoque Latini, et etiam Graeci in Italia idem faclilaise videntur. Nam et nostrae mulieres maxime natrices, naturam, qua foerai- nae sunt, io virginibus appellant porcum, et Graecae X*Tfot, significantes esse dignum insi­gni nuptiarum. Suillum pecus donatum ab natura dicunt ad epulandum. Itaque iis animam datam ww proinde ac salem, quae servaret carnem. E qoeia succidias Galli optimas et maximas facere consueverunt. Optimarum signum, quod etiam nunc quotannis e Gallia apportantur Romam

bero sopportare il calore delle earni jie' porci. Questo bestiame si alimenta particolarmente di ghiande, indi di fava, di orzo e di qualunque altro grano. Cotale nodrimento non solo lo in­grassa, ma contribuisce ancora a rendere sa­porita la sua carne. 1 porci nella state si condu~ cono a pascolare la mattina, e avanti che princi­pii il gran caldo ; e sul mezzodì si fanno passa­re ( i5) in luoghi ombrosi, ed ove specialmente siavi dell1 acqua. Rattemperato il caldo dopo il meriggio, si conducono nuovamente al pascolo. Nell1 inverno non si conducono al pascolo se non dopo eh1 è svanita la brina e ehe si è squagliato il ghiaccio. Per la propagazione, bisogna prima metterli in disparte (16) per doe mesi. 11 tempo migliore per V accoppiamento è dal momento in cui il sole tramonta al punto, dal quale soffia il ventp favonio, sino all1 equinozio di' primavera, essendoché ne viene che la troia partorisca nella stale, perchè porta quattro mesi, e partorisce al­lora che la terra abbonda di pascoli. Non si la­scino coprire le troie che hanno meno di un an* no ; ed è meglio aspettare che abbiano venti mesi, onde partoriscano di due anni. Si pretende che dopo il primo accoppiamento, generino bene an­che per altri sette anni. Nel tempo dell1 accop­piamento si conducono in siti fangosi e in lagune fangose (17), onde si voltolino nel fango, il qual è un luogo di riposo per esse, come il bagno lo è per 1’ uomo. Quando tolte hanno concepito, nuo­vamente si segregano i verri. Il verrà di otto mesi comincia a montare le troie; e continua a generare bene sino all1 età di tre anni (18) ; indi ai diminuiscono le sue forze generatrici sino a che cade nelle mani del beccaio, qual canale, per cui la carne porcina passa al popolo.

11 porco in greco si chiamò anticamente ti diceva bus (19) dal verbo £x/0/r, che tignifica in latino immolare ; perchè pare che dai porci siasi cominciato a sagrificare l1 altro bestiame (ao), le cui tracce si ravvisano nei sagrifìzii di Cerere, nei quali a1 immolano i porci, come altresì dal tagritìzio di un porco nella conclusione della pace, e da un pari sagrifizio nel principio dei matrimonii degli antichi re e dei personaggi il­lustri dell1 Etruria (ai), nei quali la sposa ed il marito facevano cotale cerimonia. Pare altresì che anche i Latini antichi ed i Greci d1 Italia abbiano fatto lo jtesso ; poiché le nostre donne, e specialmente le nutrici, chiamaoo nelle vergini porcum la parte che distingue il loro testo, e che le greche dicono fcaffor, come per fare intendere che questa parte merita di essere in­signita dell1 onore del matrimonio. Si pretende che la natura abbia regalato all1 uomo il porco, onde vivesse lautamente, e cbe non abbia dato

6 1 0DE RE RUSTICA LIB. II.

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M. TERENTII VARRONIS

pernae tomacinae, el taniacae, et petasiones. De magnitudine Gallicarum snccidiarom Cato seri- bit his verbis : io Italia in scrobes Urna atque quaterna millia anlia succidia. Vere sus uiquea- deo pinguitudine crescere solet, ut se ipsa stans sustinere non possit, neque progredi usquam. Itaque eas si quis quo trajicere vult, in plostroin imponit. In Hispania ulteriore in Lusitania sus cum esset occisus, Attilius Hispaniensis, minime mendax, et multarum rerum peritus in doctrina, dicebat L. Volumnio senatori missam esse offu- JUm cum duabns costis, qnae penderet iu et x i pondo : ejusque suis a cute ad os pedem et m digitos fuisse. Cui ego non mious res admiraoda, quam mi esset dicta, in Arcadia scio me esae spe­ctatum suem, quae prae pinguitudine carnis non modo sorgere noo poste t, sed etiam ut in ejus corporo sorex exesa carne nidum fecisset, et pe- perisset mures. Hoc etiam in vineta factum «coepi.

Sui ad foetoram quae sit foeennda, animad­verto nt fere ex primo partu, quod non multum In reliquis mutat. In nutricatu quam porculatio­nem appellabant, binis mensibus porcos sinunt cum matribus ; sed eos, cum jam pasci possunt, secernunt. Porci qui nati hieme, fiunt exiles pro­pter frigora,et quod matres aspernantur, propter exiguitatem lactis, et quod dentibus sauciantur propterea mammae ; scrofa in sua quaeque hara •uos alat oportet porcos, quo alienos aspernan­tur : et ideo si conturbali sunt in foetara, fit de­terius. Natura divisus earum annus bifariam , quod bis parit in anno; quaternis mensibus fert ventrem, binis nutricat. Haram facere oportet cirdter trium pedum altam, et latam amplius paulo, ea altitudine abs terra, ne dum exilire velit praegnans, abortet. Altitudinis modus sit ut subul­cus facile circumspicere possit, ne qui porcellus a matre opprimatur, et ut facile purgare possit cubile.In haris ostium esse oportet, et limen infe­rius (altum) palmipedale, ne porci ex hara, cum mater prodit, traosilire possint. Quotiescunque

baras subulcus purgat, toties arenam injicere oportet, aut quid aliud quod exugat humorem, ( in singulas injicere debet : ) et cum pepererit,

I' anima a quest1 animale se non qtul sale che conservasse la sua caroe (aa), I Galli accostumano di tagliare in grande copia della carne porrina, che poi salano ed affumicano, e eh1 è molto

buona. Una prova della loro bouià si è, che an­che oggidì si trasportano lutti gli anni dalla Gal­lia a Roma delle mortadelle, delle tania'cae (a3), dei prosciutti. Intorno alla carne porcina fatta ia pezzi e poi salata, o affumicata, ecco quello che dice Catone : Nella Insobria (24) si trovano sino a tre in quattromila pezzi di questa carne. Il porco (25) snoie tanto crescere in grassezza, che d'ordinario non può reggersi in piedi, molto meno camminare ; e perciò quando si vuole farlo passare in qualche luogo, si dee trasportare col carro. Lo Spagnoolo Attilio, uomo veridico, dotto a perito in molle cose, raccoutava di avera spedito al senatore (26) L. Volumnio un pezzo composto di due coste, che pesava ventitré lib­bre, tratto da un porco ammazzato nella Spagna ulteriore in Lusitania, e che dal principio della testa sino all' estremità del grugno eravi la lun­ghezza di un piede e tre diti (27). Cui io risposi di sapere un fallo noo meno sorprendente di questo, perchè ho vedulo in Arcadia una troia, la quale era tanto grassa, che non solo non po­teva alzarsi, ma aveva anche lasoiato che nel suo corpo uu sorcio vi divorasse tanta carne per farvi nido, e che ivi partorisse i suoi figli (28). Del pari ho udito uua simile cosa essere accaduta presso i Veneti (29).

Quasi dal primo parto si può sapere se una troia sarà feconda, perchè negli altri portali non vi è molta differenza (3o ) . Riguardo alla cura di allevare i porci, che si chiama iu latino porcu­latio, si lasciano per due mesi seguire le madri ; indi si separano, quando possono pascotaré di per si stessi (3 1). 1 porcelli che aasoono nell' in­verno, diventalo sten nati e pel freddo, e perchè le madri li maltrattano, a motivo che quaili ferì* scono coi denti le mammelle, nell? quali trovano

poco latte (3a). Inoltre ogni troia bisogna che no* d risca i proprii porcelle Iti in separali recinti, perehè flirtano anche gli altrui (33) ; e perciò sa sono nodriti promiscaamente, si fi mala ai figli* P e r le troie l ' anno è diviso dalla natura in due parti, perchè partoriscono due volte all’ anno» impiegando quattro mesi nel portato, e due nel nodrimento. Bisogna fare il porcile alto tra piedi incirca, e largo uu poco di piò ; e che il suolo non sia tanto sopra il livello della terra, che la troia pregna, nell' uscire del porcile, non vada soggetta a sconciarsi. L’ altezza sia tanta, che U porcaio possa di leggeri guardare all' ingiè (34) per vedere se qualche porcellino è in pericolo di essere schiacciato Arila madre ; e per far sì ohe

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largiore cibatu sostentare, qua fatilo* Ite suppe­ditare pottit; in quibas bordei circi ter binas libras aqtta madefactae dare solent , et hoc quo­que conduplicant, at tit mane et vespeti, si alia qaae objidant non habuerint Com porci depulsi sast a mamma, a qoibasdam delici appellantor, neqae jan lactentes dicantor ; qai a parto dedmo die habentor pori, ab eo appellantor ab antiquia sacret, qaod lam ad sacrifidnm idonei dicontar primom. Itaqae apad Plautam in Menaeehmis, cum intanum qnem potai, ot pietor in oppido Epidamno, interrogat: Quanti hic pord tont sacret T Si fundot ministrat, dari tolent vinacea, ac teopi ex ovit. Amisso nomine lactentis, dican­tar nefreodes» ab eo qood nondom fabam fren­dere possunt, id est, frangere. Porcos Graecam est nomea antiqnam, sed obscuratum, qaod nane eam vocant In eorum foeto scrofaebis die ot bibant, curant lactis caota. Parere tot oportet porcos, qaot mammas habeat ; si minus pariat, fructuariam idoneam non este ; si piares pariat, esse portentam. In qao illad antiquissi­mum fuisse scribitor, quod sos Aeneae Lavinii xzx porcos pepererit albot. Itaque quod porten­derit, factum xxx annia, ot Laviniensea condi­derint oppidum Albam. Hujus suis, ac poreorom etiam d o o c vestigia apparent Lavinii : qnod et timulacra eorum ahenea etiam none in publico potita, et corpns matris ab sacerdotibus, quod in saltare fuerit, demonstratur. Nutricare octonoa porcos parvulos primo possunt: incremento facto, a peritia dimidia pars removeri solet, qnod mater neque potest sufferre lac, neque congenerati d e ­scendo roborari. A partu decem diebus proximis oon producunt ex haris matrem praeterquam potam ; praeieritis decem diebus, sinant exire pastam in propinquum locum villae, at crebro redito (la ete ) alere poasit porcos. Cum creve- ruot, capiunt seqai matrem pastum : domi que secernant s matribus, ac seorsum pascant, at desiderium ferre possint parentis, quod decem dieboa aatequontar. Suboleat debet consuefacere, omnia a t fadant ad bucinam. Primo cura inclu­serant, cam bucinatum est, aperiunt, ut exire possint in eum locum, ubi ordeum fusnm in longitudine. Sic enim minus disperit, quam si in aeervot potituro, et pjures facilius accedunt, ideo ad x ii convenire dicuntur, ot silvestri loco di­spersi, ne dispereaot. Castrantor verres comodis­sime anniculi, utique ne minores, quam semestres: quo facto oooaen motant, atque e verribus dicun- flar majales. De sanilate tunm anum modo exem­pli e t a sa di eam. Porcis lactentibus si scrofa lac oon potest suppeditare, triticum frictum dari oportet, (or udum enkn solvit alvum) vd ordeum

objici e x aqua, quoad fi aut trimestres. De nume*

6i3

si posea nettare II covile, bisogna che n d porcile tiavi nna porta, la eoi et tramiti inferiore aia alta ao piede e aa palmo aopra il tivdlo dd suolo dd pordle (35) , aodocchè i porcellini non possano saltare fuori del medesimo, quando la madre si fa uscir foori. Qualooqoe volta il porcaio netta » porcili, tante volte bisogna cbe in ognono (36} getti delParena, od alcuna altra cosa che assorbr l'umidità. Quando la troia ha partorito, bisogna sottenerla con molto dbo, acciocché possa fornire più facilmente del latte Sogliono dare anito a questo cibo doe libbre all’ inoirca di orzo cotto nell’acqua (37) : raddoppiano altresì l'orzo, per­chè lo danno la mattina e la sera, quando non hanno altro da dare alla troia. Quando i porcel­lini sono slattati, da alcuni si chiamano deli- ci (38) , non già di latte. Nel giorno decimo dopo la nascita (3g) si considerano come puri ; e perciò dagli antichi ci chiamavano sacres-, perchè da quel momento pottono essere adoperati ne'sa- grifizii. Laonde Plauto nei Menechmi fa dire ad uno de' suoi personaggi, che vuole purificare nella città di Durazzo un uomo che crede insen­sato : di quale prezzo sono qui i porcelle Iti sacres ? Si danno ordinariamente ai porcdlelti delle vinacce e dei racimoli di uva, se la tenuta 11 somministra. Perdendo il nome di lattanti, si chiamano nefrendes (4o), perchè non possono ancora frendere, ossia frangere la fava. La voce porcus è un vecchio nome greco, ma disusato, essendosi sostituito oggidì quello di ^ò/for. Quan­do le troie allattano, si ha la cura di farle bere due volte al giorno, affinchè abbondino di latte. Bisogna che le troie partoriscano tanti figli,quante

sono le mammelle (40 ; se ne partoriscono di me­no, non meritano il nome di fruttifere: se ne par­toriscono di più, quest'è un prodigio.Un esempio antichissimo di questa fatta scrivesi essere stato quello della troia di Enea, che partorì trenta por- celletti bianchi in Lavinia (42): e così qaesto prodi­gio pronosticò quanto avvenne, poiché gli abitantiili Lavinia fabbricarono trentanni dopo la città d' Alba. Appariscono a Lavi ia anche oggidì le tracce di questa troia e de' tuoi porcellini, ove le loro ttatue in bronzo sono ancora esposte ia pubblico, ed ove i sacerdoti mostrano il corpo

della madre conservato nella salamoia. Nei primi gioroi possono essere nodriti otto porcellini ; ma quando sono cresciuti, suolai dai periti sottrarse­ne la metà, perché nè la madre può sommini­strare sufficiente latte, nè fortificare tutto il portato nell'atto che cresce (43). Nei primi dierì giorni dopo il parto non si permette alla troia eh' esca d d porcilo, se non per bere ; ma passati questi dieci giorni, si lascia che vada a pascolare in vidnianza alla casa, affinché spessa volte ritorni

6 1 4DE RE RUSTICA L1B. IL

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6 i5 M. TERENTII VARRONIS 616

ro, incenium tues decem terret talit ette potant; quidam etiam hinc dem ant. Greget majoret inteqaabilft habent ; ted ego modicam poto cen­tenarium ; -aliquot mtjore» faciant» ita a t ter qainqaagtnot habeant ; porcoram gregem alii duplicant, alii eliam majorem faciant; minor grex, qaam major, m inat tumptaosus, qaod comites tubulcus pauciore» quaerit..Ilaqae gregis numeram pastor ab »ua utilitate constituit, non a t quot verret habeat ; id enim a natura tum en­dum. Haec hic.

CAPUT V

D e BUBUS ET VACClt.

At Q. Lucienat senator, homo quamvis hama- nat, ac jocosas, introiens, familiaris omnium no- atrum, ctmtrtffvrcuy inquit, et Varro­nem nostram, inquit, <ro//udV« Xaur, Scrofam enim mane talutavi. Gum alius eum talulatset, alias conviciatus esset, qai tam sero venisset ad

ad allattare (44) » proprii figli. Qoando tono cresciuti, desiderano (45) di seguire la madre al pascolo : pia ritornati a casa, ti segregano dalle madri, e ti d i ad essi del iero di latte (46), ondo si avvezzino a non desiderarle (47) ; il che ti ottiene in dieci giorni. Il porcaio debbe attaefare le nutrici a far tatto a suono di corno. Fino dalla prima età si rinserrano i porcellini, e non ti apre ad essi, m non dopo che si è sonato il cor­no, affinchè possano portarsi a quel laogo, ove ti sarà formata nna linea retta di orzo ; perchè io tal modo e meno si sparpaglia di quello che foste ammucchia lo, e piò facilmente possono accostar* visi molti porcellini. Laonde si ammaestrano a raccogliersi al suono di corno, affinchè non si smarriscano, qaando si trovano sparti pei bo­schi (48). I verri si castrano molto bene di an anno (49), non mai prima che abbiano sei mesi : dopo quest’ operazione cangiano nome, e, da verri che si dicevano, si chiamano majales (5o). Intorno alla sanità dei porci, non dirò che una sola parola, la quale servirà di esempio. Se la troia non può sommioistrare il latte ai porcelletti lattanti, bisogna dare ad essi del formento arro­stito (perchè il crudo scioglie il ventre), ovvero dell1 orzo stemperato nell1 acqua finché abbiano tre meti. Quanto al namero, ti crede che dieci verri battinoper cento troie. Alcani diminuisco­no anche questo num ero. Variasi altresì nel numero componente ooa greggia di differente età e setio (5i) ; ma io penso che an centinaio di teste è un namero sofficiente ; altri la compon­gono anche di cencinquanta. Alenai fanno che il gregge dei verri tia di nn doppio numero ; ed altri il fanno ancor piò nameroto. Il gregge piccolo è di minore spesa del grande, perchè il porcaio toon ha mestieri che di pochi compagni. Laonde il pastore, intorno al numero delle teste componenti il gregge, non debbe consultare che la sua utilità, e non la qoaatità dei verri che gli sono nati, perchè qaesta quantità è on effetto puramente fortuito della natura. Ecco quello che dice Scrofa.

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CAPITOLO V

D ei b u o i a d e l l e v a c c h e .

Ma il senatore Q. Locieno, oomo che è mollo amano, burlevole e nostro amico cornane, nel­l'atto di entrare ci dice : Miei compagni di Epiro,io vi dò il buon giorno ; ma ecco, soggiunge il nostro Varrone (1), H pastore dei popoli, perchè già questa mattina ho attutalo Scrofa. Alcuni gli

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constitutam : Videbo jam vos, inquit, balatrones, at hac oSeram meam corium et flagra. Tu T e r o ,

Murri, veni mi advocatos, dum astes solvo Palili­bus, si postea a me repetant, ut testimooiom per­hibere postis. Atticus Murrio : Narra isti, mqoit, eadem, qui sermones sint habiti, et quid reliqui sit, u t ad partes paratas T e n ia t : d o s interea se­cundum actum dt.majoribus adtexamus. In quo quidem, ioquit Vaccius, meae partes, quoniam boves ibi. Quare dicam, de bubulo pecora, quam acceperim scientiam : u t si quia quid ignorat, discat ; si quis scit, nuncubi labar observet. Vide qoid agas, inquam, Vacci. Nam bos io peouaria, maxima debet esse auctoritate: praesertim in Italia, quae a bubus noupen habere sit existimata. Graecia enim antiqua (a t scribit Timaeus) taoros vocabant /roXtJf; a quorum multitudine et pul­chritudine et foelu vitulorum Italiam dixerunt. Alii scripserunt, quod e Sicilia Herculea persecu­tos sit eo nobilem taorum, qui diceretur Italus. Hie socius hominum io rustico opere, et Cereris minister. Ab hoc antiqui manus ita abstineri vo­luerunt, ut capite sanxerint, si quis occidisset; qua in re testis Attice, testis Peloponoesos. Nara ab hoc pecore Athenis Bozuges nobilitatus, Argis èvóyufof. Novi, inquit ille, majestatem boam, et ab his dici pleraque magna, ut /SaVc/aov, fiénrcu- à a , fittXtfioVf jW t/ t ; uvam quoque bumammam; praeterea scio hunc esse, in quem potissimum Juppiter se convertit, cum exportavit per mare e Phoenice amaos Europam ; hunc esse, qui filios Neptuni e Menalippa servarit, ne in stabulo in­fantes grex boum obtereret; denique ex hoc pu­trefacto ?asct dulcissimas apes mellit matres, a quo eas Graeci fittyotat appellant, el hinc Plau­tium locutum ease latine, cum Hirrium praeto­rem reonneiatum Romam in Senatum scriptum habere. Sed bono animo es, non minus satisfa* ciato tibi, quam qui Bugoniam scripsit.

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Primum in bubulo genere aetatis gradus d i­cuntur quatuor. Prima vitulorum,secunda juven-

M. T E R b B i i o V a b u o s is

corrisposero col saluto, ed altri il rampognarono, perchè fosse Tenuto più tardi dell* ora stabili* ta. Eccomi ad appagarti, riprese egli, o balatro­nes (a) ; e qui t ì presento il mio dorso e la sferza per espiare la mia colpa. Ma tu, o Murrio, aiata-

. mi e difendimi, e sii qual testimonio che possa attestare eh' io pago la mia tangente in daoaro a Pale (3), caso che dipoi me la raddomandassero. Attico'dice a Murrio : .Narragli le cose già dette ; quali discorsi si sieno tenuti, e cosa rimanga a trattai*, affinchè egli si prepari per la sua parte, che noi frattanto passeremo al secondo atto, cioè parleremo del grande bestiame. Questo argo­mento è di mia pertinenza, diefe Vaccio (4), per­chè Centrano i buoi. Laonde io vi dirò quant1 io so di questo bestiame, acciocché impari questa scienza, se v1 è chi la ignori ; e se alcuno la pos­sedè, mi corregga. Guarda bene, 0 Vaccio, gli dico io, intorno a quello che tu dirai, perchè il bue, tra il bestiame, è quello che merita grande stima, particolarmente in Italia, la quale credesi che siasi così chiamata dai buoi. Di fatti P antica Grecia, come soriTe Timeo (5), chiaraaTa7 ra>*’( i tori, i quali perchè erano molti e belli, e perchè geoera vano de1 vitelli (6) in questo paese, perciò la chiamarono Italia. Altri scrissero che sia stata così chiamata, perchè Ercole dalla Sicilia sino ia questo paese inseguì un famoso toro chiémato ltalus. Il bue è il compagno dell1 uomo ne’ lavori camperecci, ed il mioistro di Cerere. Tanto gli antichi ToleTano ohe fosse rispettato, che aTeTano stabilita la pena di morte per chi ne aTPSse am­mazzato ono ; come lo attestano le leggi dell1 At­tica e del Peloponneso (7). Per questo bestiame si rese celebre in Atene Buznges, a oréyvfof (8) in Argo. Cooosco, dice Vaccio, la digoità del buoi ; e so che da essi traggono il nome parecchie cose grandi, come fitfeuxov (9), fiiivat&a (10), fiisXt’fJtov (11), $0**1* (12), e Bumammam ( i3), parlando dell1 U Ta: so inoltre che Giove preferì quest' animale nella sua trasformazione, quando, divenuto amante di ELoropa ( 14)> 1* levò dalla Fe­nicia, ed attraversò il mare : che on boe fa que­gli, il quale preservò nell*infanzia i figli che Net­tuno ( 15) ebbe da Menalippa, e che correvano il rischio di essere schiacciali in istalla da un gregge di buoi ; e che finalmente dal bue na­scono le api (16) madri del dolcissimo miele ; per lo che i Greci lo chiamano fittyom (17): espressione che Plaocio ha latinizzata, quando disse al pretore Irrio, che denunciò come autoro di un libro scritto contro il Senato : Siate tran­quillo, io oon vi tratterò con minore equità, che se aveste composta una Bugonia (18).

Primieramente in questa specie di bestiame si contano quattro età. La prima è quella dei

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6 1 8DE RE RUSTICA LIB. II. .

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corura, (crii* boom novellorum, quarta vetulo*- rum. Discernuntur in prima vitulus et vitata ; in feconda juvencus et jnvenca ; in tertia et quarta, taurus et vacca. Qaae iterilis est vacca, laura appellata ; qoae praegnans, horda ; ab eo in faslia dies hordicalia nominantur, qood tunc hordae boves immolantur. Qui gregem armentoram e mere vult, observare debet primum, ut tint hae pecudes aetate potias ad fr oclus ferendo» inte­grae, qaam jam expartae; ut tint bene composi­tae, ut integris membria, oblongae, amplae, ni­grantibus cornibus, latis frontibus, oealis magnis et nigris» pilosis aaribus, compressis malis, subfi- raisve, gibberi spina leviter remissa, apertis nari­bus, labris subnigris, cervicibus crassis ac longis,* colio palearibus demissas, eorpore amplo, bene costatos, latis humeris, bonis clunibns, caudam profusam usque ad calces ut habeant, inferiorem partem frequentibus pilis subcrispam, cruribus potias minoribus, rectis genibas, eminulis, di­stantibus inter se, pedibus non latis, neque ingre- dieulibus qui displodantur, uec cujus ungulae divaricent, et cujus ungues sint leves et pares, corium attacta noo asperum ac durom, colore potissimam n igro , dein rubeo, tertio heluo, quarto albo ; mollissimas enim hic, ut durissimus primus. De mediis doobus prior qaam posterior melior : utrique pluris qaam nigri et albi. Neque iion praeterea, at mares seminis boni sint, quorum el forma est spectanda, et qui ex his orti suot, ut respondeant -*d parentum speciem ; et praeterea quibus regionibus nati sunt, refert; boni enim ge­neris in Italia plerique gallici ad opus: contra nu­gatorii ligustici. Transmarini epirolici non solam meliores totius Graeciae, sed etiam Italiae; tametsi quidam de italicis, quos propter amplitudinem praestare dicunt, ad victimas farciunt, atqne ad deorum servant supplicia ; qui sine dubio ad res divinas propter dignitatem ampKtudiuis et coloris praeponendi ; quod eo magis fìt, quod albi in Italia non tam frequentes, quam qui in Thracia ad niXatua xoXvovy nbi alio colore pauci. Eos r.um emimus domitos, stipulamur, sic: lllosce boves sartos esse, noxisque praestari f cum emi­mus indomitos, sic : lllosce juvencos sanos recte, deque pecore sano esse, noxisque praestari spon- desne? Paulo verbosius haec, qui Mamilii actio­nes sequuntur. Lanii, qni ad cnltrnm bovem emunt, et qui ad altaria, hostiae sanitatem non colent stipulari.

Gì»)

vitelli ; Ia seconda d«i giovenchi ; la lena dei buoi giovani ; la quarta de' vecchi. Si distinguono nella prima il vitello e la vitella ; nella seconda il gio venoo e la giovenca; nella tersa e nella quarta il toro e la vacca. La vacca eh'è sterile, si chiama /a u ­ra (ig); la pregna korda\ e quindi nal calendario si nomina il giorno intitolato hordicalia (ao), per dinotare la festa, in coi *' immolano queste vac­che. Quegli che vaole comprare ona troppa di questo bestiame, dee prima esaminare se è di nna età piuttosto atta a fruttare, che indebolita ; se • di bella forma ; se è di membra a^ne ed intere ; se è lunge e grosso; se ha le coraa nereggianti (a i ), la fronte larga, gli occhi grandi e neri, le oreeebio pelose, le guance compresse; se è alquanto schiac­cialo dalla fronte sino alla bocca ; non protabe- rante, ma bensì lievemente com prosso nel dor­so (22); se ha le nari aperte, le labbra alcun poco nericce, il collo carnoso, lungo e fornito di pelli pendenti* alP ingiù (a3), il petto ompio (a4), le costole bene rilevate, le spalle larghe, le natiche sode, la coda pendente sino aV tallone * e nella parte inferiore folta di setole uo poco crespe, le gambe piullosto picciole e ritte (a5),Ie ginocchia un poco prominenti e tra di loro distanti, i piedi stretti e che non fanno strepito qoando l 'an i­male cammina (a6) : dee avere allreà le unghia lisce fd uguali:, -e la pelle non aspra e dora al fatto ,1 colori tili filmati in questo bestiame sono it aegro, poi il rosso, in terzo luogo il palKdo- rosso, e 6nalmente il bianco. Tra i due colori medii, è migliore il primo delPultimo ; ed è piò stimato del negro e del bianco, perchè qnest* ul­timo indica debolezza, come fortezza il primo (37). Inoltre importa che i maschi sieno di buona razza : e dee farsi attenzione ai figli che nàscono da questi, per vedere se la loro forma corrispon­da a quella dei genitori (a8). Importa ancora sapere i l . paese, in coi sono nati ; perchè, per P Italia, sono di boona razza parecchi della Gal­lia (29), come quelli che resistono alla fatica ; laddove i liguri sono pigri. Gli ollvamariui dell' Epiro non solo sono i migliori di lotta la Grecia, ma anche sono da preferirsi agl' italiani; quantunque alconi pretendano che gP italiani per la loro grossezza sieno da preferirsi ne'sagri- fizii, e che si serbino quando occorra pregare gli dei (3o) ; i quali senza dubbio sono da anteporsi agli altri ne' sagrifìzii, per la superiorità che hanoo nella grossezza e nel colore : e ciò si fa tanto più, perchè nell' Italia non sono tanto co- muoi i bianchi, come Io sono nella Tracia verso il golfo Mela (3i), ove se ne trovano pochissimi di un altro colore. Quando si comperano addo­mesticati, io tal modo si stipula il contratto : Mi prometti che questi buoi sono sani, e eh' io non

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Pascantur armenta commodissime io oemo- ribas, ubi virgulta et front malta : hiemc ( com hibernent) sectindam mare; aetta abiguntur ia montes frondosos. Propter foeturam haec servare toleo : anta admissuram mensem uoum, ne cibo et potione se impleant, quod existimantur faci­lius macrae concipere; contra, tauros duobus roeosibas ante admissuram herba et palea ac foeno facio planiores, et a foeminis secerno. Ha­beo tauro»totidem, quot Atticus, a d matrices l x x

duo, unum anniculam, alterum bimum. Hoc, secundam astri exortum facio, qaod Graeci vo- eant Xt/far9 fidem noitri ; tum denique tauros in gregem redigo. Mas an foemiua sil concepta, si­gnificai descensa taurus, cum iniit ; siquidem, si mas est, in dexteriorem partem abit; si foemina, in sinisteriorem ; cur hoc fiat, vos videritis, inquit mihi, qui Aristotelem legitis. Non minores opor­tet inire bimas, ut trimae pariant, eo melius si quadrimae. Pleraeque pariunt in decem annos, quaedam etiam in piares. Maxime idoneum tem- pos ad concipiendam a delphini exortu usque ad dies XX., aot paulo plus ; quae enim ita concepe­runt, temperatissimo anui tempore pariunt; vac­cae enim mensibus decem sunt praegnantes. De quibus admirandum scriptam inveni, exemptis testiculis, si statim admiseris, concipere. Eas pasci oportet in locis viridibus et a q u o s i s . Cavere oportet, ne aut angustius stent, aut feriantur, aot concnrrant. Itaqoe quod eas aestate tabani concitare solent, et bestiolae quaedam minutae sob eaada, ne concitentur, aliqui solent includere septis; iis substerni oportet frondem, aliudve quid in cubilia, quo mollias conquiescant. Aestate ad aquatn appellendam bis, hieme semel. Cam parere coeperunt, secundam s t a b u l a pabulum servari oportet integram, quod egredientes de­gustare possint : fastidiosae enim fiunt. Et pro­videndum, quo recipiunt se, ne frigidus locus sit ; algor enim eas et famis macrescere cogit. In alimoniis armenticium pecus sic contuendum, lactentes cum matribus ne cubent: obterantur euim ; ad eas mane adigi oportet, et cam redie-

s»rò soggetto ad alcuna pena pei danni che po­tessero avere prodotti? Ma quando li compriamo non ancora addomesticati, in tal modo si stipola il contratto : Mi prometti che quei giovenchi tono realmente sani, che provengono da nn gregge sano, e che non sarò soggetto ad alcuna pena pel danni che potessero avere prodotti ? Quelli che vogliono seguire la formola di Mamilio (3a ), danno maggiore estensione alle parole de! con­tratto. I beccai che comprano il bue per isc*n~ narlo, come altresì quelli che lo comprano pel sacrifizio, non soglionÒ stipulare la condizione che sia «ano (J3).

Gli armenii si fanno pascolare molto bene nei bosehi, ove souo dei virgulti e molte foglie : nel-V inverno, e quando infierisce il freddo (34), ti conducono presso il mare ; e nelle montagne co­perte di frondi nella stale. Riguardo alla propa­gazione, ecco quello eh* io soglio praticare. Un mese avanti P accoppiamento, fo che le vacche non mangino, nè beano troppo ; perchè si erede comunemente, che quando sono magre, concepi* scano più facilmente: per contrario, due mesi avanti P accoppiamento, fo che i tori si nodri- scano bene di e rbe , di paglia e di fieno, e II separo dalle femmine. Nella stessa guisa di Attioa fo che a settanta vacche bastino due tori, uoo dei quali sia di un anno, e P altro di due. Fo che si accoppino al levare della costellazione che i Greci chiamano Xufavy ed i Latini fides (35). In questo tempo adunque permetto che i tori passi­no nel gregge. Si conosce se la vacca ha conce­pito un maschio od una femmina, osservando da qual parte discende il toro dopo il coito (36) ; perchè se un maschio, discende dalla parte de­stra ; e dalla sinistra, se una femmina. La ragio­ne di ciò, disse volgeudo il discorso a me, la saprete voi altri che leggete Aristotele. Non biso­goa che le vacche sieno montate prima che ab­biano due anni, affinchè esse partoriscano dopo i tre anni ; ma meglio sarà che figlino sui quat­tro anni. Parecchie possono partorire sugli anoi dieci ; e alcune atiche piò oltre. Il tempo più acconcio pel concepimento è dal levare del delfi­no (37) sino a quaranta giorni dopo, o nn poco di piò ; perchè quelle che concepiscono in questo tempo, partoriscono in una stagione dell* anno temperatissima, atteso che esse portano per dieci mesi. Io ho Ietto un fatto maraviglioso, ed è che se dopo la castrazione farai subito che il toro (38) monti la vacca, questa concepirà. Bisogoa con­durre a pascolare le vacche ne' luoghi coperti di verzura ed acquidosi ; e bisogoa procurare che non istieno troppo strette, che non si feriscano,o che le ane non corrano dietro alle altre. E perehè d ' ordinario i tafani le tormentino nella

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runt e pesta. Capo creverant vitali, levandae matres, pabulo viridi objiciendo iù praesepiis. Item bis, ot fere in omnibus stabnlis, lapides .substernendi, aut quid item, ne ungulae patre- scant. Ab aequinoctio autunnali una pasountar cam matribus. Castrare non oportet ante bima­tum ; quod difficalter, si aliter feceris, se reci­piant ; qai autem postea castrantur, duri et ino- liles fiunt. Itera ut ia reliquis gregibus peeasriis, delectas qaotaoois habendus, et rejiculae reji- ciundae, quod locam occapaat earam qaae. ferre possunt fructus. Si quaefcmisU vitulam, éi suppo­nere oportet eos, quibus noa satis praebent matres. Semestribas vitalis objiciant furfures triticeos, et farinam ordeaceam, et teneram her­bam : et ot-bibanf mane et vesperi, carant. De sanitate sant cora p lars, quae exseripta de Msgo* Dis libris, armentarium meam crebro ut aliqnid legat, caro. Numeras de tauris et vaccis sic ha­bendus, nt in sexaginta, unus sit anniculus, alter bimas. Qaidam habent aut miaorera, aut roajo- rem niimerum ( gregum ). Nam apud eum dao tauri in septaaginta matribus sunt. Numerum gregum alius facit aliom; qaidam centeoarium modicam potant esse, ut ego. Atticas centamvi- ginti habet, ot Ladenos. Haec ille.

state, e perchè alconi piccioli insetti (39) le tor­mentano sotto la coda, quindi alcuni sogliono rinserrarle ne1 recinti, acciocché non a' irritino* Bisogna stenderà sul saolo delle stalle o foglio od altro, affinchè riposino mollemente. Nella state si conducono (4o) a bere due volta al giorno, ed ona sola volta nell’ inverno. Qoando sono vicine al parto, bisogna mettere in disparta presso la stalla del foraggio fresco, acciocché possano assaporarne qoando escono fuori della medesima ; perchè allora hanno molto in fastidio il cibo. Bisogna procurare altresì cbe il loogov ove si ritirano, non sia freddo, perchè questo a la fame le fanno infallantemente diventare magre. Qoaodo esse allattano i proprii figli, abbiasi la cara che nella notte (40 non riposino colle loro madri che gli schiaccerebbero : bisogna condurli alle madri la mattina, e quando esse ritornano dal pascolo. Qoaodo i vitelli crescono, convien sollevare le madri, mettendo del foraggio verde nelle loro mangiatoie. Le lóro stalle, come quasi tutte quelle degli altri animali, debbono essere last ricate di pietre, o d* altra simile materia, affin­chè le unghie non si corrompano. NelPequinozio autunnale si conducono i vitelli a pascolare colle madri. Non bisogna castrarli avantj P età di due anni, altrimenti difficilmente guariscono (fa) : se poi si castrano più tardi, diventano indocili ed inutili al lavoro. Tatti gli anni bisogna fare una scelta di questo bestiame, come si fa nelle altra gregge, e rigettare qoeile femmine che sono di­fettose, perchè occupano il luogo di quelle che possono figliare. Se alcuna perde il sao vitello, si mettono sotto di essa quei vitelli, ai quali le loro madri non somministrano bastante latte. Quando i vitelli hanno sei mesi, si dà ad essi della crusca di Tormento, della farina d’ orzo e dd- l'e rb a tenera, e si fanno bere mattina e sera. Havvi on gran numero di osservazioni relative alla loro sanità, che ho trascritte dai libri di Magone, e che sovente fo leggere (43) al custode del mio armento. Il numero dei tori a delle vac­che è da regolarsi nel seguente modo ; cioè a sessanta vacche si dà un toro di un anno, ed uno di due. Sonovi di quelli che ne hanno di più, o di meno (44) ; perchè questi (45) non hanno che due tori per settanta vacche. Il numero delle bestie componenti il gregge è voluto da alcuni maggiore, e da altri minore : alcuni, come io, pensano che bastino cento teste; ma Attico e Lucieno fanno che il gregge sia di centoventi teste. Ecco quello che disse Vaccio.

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De isiwu.

Al M arnai, qui, dam loqaitar Vacci a*, cara Lucieno rediisset : Ego, inquit, de asini» polissi- iDum dieam, qaod som Reatinas, abi optimi el maiimi fiant, e qao seminio ego bio procreati pullos, el ip»is Arcadibus vendidi aliquoties. Igi- lor asinorum gregem qai facere tu li bonum, primam videndam, a l maree foeminasqoe bona aetate «amai, utique a l qaam diutissime fractam ferre possiot: firmos, omnibus partibus honestos, corpore amplo, seminio bono : ex his locis, unde optimi exeunt, quod faciunt Peloponnesii, cum potissimum eos ex Arcadia emaot ; io Italia ex agro Reatino. Non enim si muraenae optimae flutae sunt in Sicilia, el ellops ad Rhodon, con­tinuo bi pisces in omni mari similes nascantur. Horum genera duo ; anum feram, qaos vocant onagros, ia Phrygia et Lycaonia suul greges multi ; alterum mansuetum, ot saot in Iialiii omnes. Ad seminationem onagros idoneus, quod e fero fit mansuetus facile, et e mansueto' ferns nunquam. Quod similer parentum genuntur, eli­gendi et mas et foemina, com dignitate at sint. In mercando itera ut caeterae pecudes emtionibus, et traditionibus dominam matant, et de sanitate ac noxa solet caveri. Commode pascantor farre, et furfuribua ordeaceis. Admittuntur ante solsti­tium, ut eodem tempore alterius anni pariant ; duodecimo enim mense conceptum semen red­dunt. Praegnantes opere le tan t; teoter enim labore nationem reddit deteriorem. Marem non dijoDgunt ab opere, quod remissione laboria fit deterior. In pastu eadem fere observant, qoae in equis. Secundam partam palio? anno non remo- tent a ma tre ; proximo anno noctibus patiantur esse cam his, et leniter capistris, aliate qaa re habent tinctos; tertio anno domare incipiant ad eas res, ad qaas quisque eos tu lt habere in usu. Relinquitur de namero, quorum gregei non sane fiunt, nisi ii, qui onera portent. Ideo qood plerique deducantur ad molas, aat ad agricultu­ram, ubi quid tehendum est; aut etiam ad aran­dam, ubi letis est terra, ut io Campania. Greges fiunt fere mercatorum, at eorum, qui e Brandi­sco, aut Appulia asellis dossuariis comportant ad mare oleum aut tinam, ilemque frumentum, aot quid aliud.

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CAPUT VI

D e g l i a s is i .

Ma Mnrrio, il quale, nel mentre che par­lata Vaccio, era ritornato con * Lucieno : lo, disse, tratterò particolarmente degli asini, per­chè io sono di Rieti, ove trotansi i migliori e i più grandi ; e appunto di questa razza, ed es­sendo ancora piccioli, ne ho fatti tenire qui (i), ed alcuna tolta ne ho tendulo anche agli Arca­dici. Quegli adunque che vuole formare uti buon gregge di asini, dee prima procurare di prendere i maschi e le femmine di giotane eli, affinchè possano figliare per lungo tempo ; che abbiano il passo ferino e sicaro, che sieno io tu t­te le parti bene proporzionati, di grande cor­poratura, e che sieao di buoaa razza, tale a dire che si traggano da qaei paesi, ote oascono i migliori asini ; come fanno appunto que' del Peloponneso, i quali comprano specialmente quelli di Arcadia, e gl’ Italiaoi che comprano quelli di Rieli ; perchè dal trotarsi in Sicilia delle ottime murene galleggianti (a) e degli ellops a Rodi, non per questo ne segue che nascano que­sti pesci egualmente buoni io ogni mare. Sonott due specie di asini : 1' asino seltatico, che si chia­ma onàger, e di cui te ne sono molte greggio nella Frigia ed in Cogni ; e I? asino mansueto, come sono tutti quelli dell’ Italia. Per far razza è acconciò V asino saltalico, perchè da questo si procreano facilmente asini mansueti, e dal mansueto non si generano mai asini settaggi. Perchè i figli si generino simili ai genitori, si fa in guisa che si scelgano maschi e femmine di­stinte. Quanto al commercio di questi animali, cangiano padrone, egualmente dell* altro be­stiame, per mezzo di compere e di presenta- gioni ; e suolsi garantire per la loro sanità e pei danni che potessero avere arrecati. Si nodri- s c o d o bene col farro e colla crusca di orzo. Si fanno montare le asine avanti il solstizio, accioc­ché partoriscano nel vegnente anno (3) allo stesso tempo, perchè esse portano un anno. Le pregne si dispensano dal lavoro, altrimenti si danneggerebbe il feto (4) : i maschi per contrario si fanno lavorare, perchè il riposo lì renderebbe cattivi. Nel parto (5) si segue a un dipresso quanto si mette in opera per le cavalle. Dopo il parto, si lasciano i figli colla madre per un anno ; e nell* anno dopo, uou si lasciano con essa che la notte; e teugousi legati mollemente per mezzo di cavezze, o con altra specie di legame. Nel terzo anno si comincia a domarli, e si as­suefanno a quelle cosc, cui si vogliono destinare.

CAPITOLO VI

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G2 7 M. TERENTII VARRONIS G28

CAPUT VII

D b b q o is e t b q u a b u s .

Lucienas: Ego qaoqoe advenient aperiam carceres, inquit, et equos emittere incipiam, nec solum mares, quos admissarios habeo, a t Atticas, singulos in foeminas denas, e qoeis foerainas Q. Modius Eqaicalus vir fortissimas etiam patre militari juxta ac mares habere solebat. Horam eqaoram et equaram greges qai habere volue­rint, a t babent aliqai in Peloponneso et in Ap- pulia, primam spectare oportet aetatem, quam praecipiant. Videndum ne sint minores trimae, majores decem annorum. Aetas cogooscilar equo­rum, et fere omniam qai angalas indivisas ha­bent, et etiam comatarum, qaod equbs triginta mensium primnm dentes medioi dicilar amittere, duo superiores, totidem inferiores ; incipientes qaartum agere annom itidem ejiciunt, et totidem proximos eorum, quos amiserunt, et incipiunt nasci quos vocant columellares. Quinto aono in­cipienti item eodem modo amittere bioos, quos caniuos habent : tam reoasoentes eis, sexto anno impleri : septimo omnes habere solent renatos, et completos. His majores qui sant, intelligi negant posse ; praeterquam cam dentes sint facti broc­chi, et supercilia cana, et sub ea lacanae, ex observata dicunt eora equum hsbere annos sede­cim. Forma esse oportet magnitudine modica, quod oec vastos, nec minutos decet esse; equas clanibus ac ventribus latis, equos ad admissuram quod velis habere, legere oportet amplo corpore, formosos, nulla parte corporis inter se non con­gruenti. Qualis futaros sit equus, e pallo conje­ctari potest, si caput hahet noa magnam, nec membris confusis: si est oculis nigris, naribus non angustis, auribus applicatis, non angusta juba, crebra, fusca, subcrispa, subtenuibus setis, implicata ia dexteriorem partem cervicis, pectus lattina et plenum, humeris latis, ventre modico,

Reata a parlare del numero : certamente che non si formano troppe di asini,, perchè molti si de­stinano a girare la macina, o alP agricoltura, quando occorra portare qualche cosa, ovvero anche ad arare, ove la terra è leggera, come nel­la Campania (6). Alconi anche non li destinano che a portare de' pesi. Sicché nou si fanrfo tru p ­pe di asioi se non se quasi dai soli mercadanli,i quali, per mezzo di asini che portano sai dor­so (7), da Brindisi o dalla Paglia fanno traspor­tare sino al mare delP olio o del vino, come an­che della biada o altre mercanzie.

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CAPITOLO VII

Dei c a v a l l i b d b l l b c a v a l l e .

Io pare, dice Lacieno, alla mia venata aprirò la barriera, e principierò a lasciare libero il corso ai cavalli ; nè soltanto ai maschi^ dei quali, ia pari guisa di Attico, ne tengo ano per istalloot per ogni dieci femmine, ma anche alle cavalle, di cui il valoroso Q. Modius Equiculus era so­lito servirsene nelle armate (1), egualmente che de' maschi. Quelli che vogliono formare delle troppe di cavalli e di cavalle, come sono qaelle di alcune persone nel Peloponneso e nella Puglia, debbono prima esaminare P età ; e voolsi cbe si procuri (a) che non abbiano meno di tra, nè piò di dieci anni. Si conosce P età de' cavalli, come anche quella di quasi tolte le bestie che oon hanno separate le unghie, o che hanno le cor­na (3), perchè si dice che il cavallo di trenta mesi perde prima i denti di mezzo, cioè due in alto e due abbasso. Quando entra nel qoarto anno, parimente ne perde altre llan ti lateralmente a quelli che ha già perduti, e cominciano a na­scere quelli che si chiamano canini ; c nel princi­pio del quinto anno ne perde pure nella medesimi maniera due. Que' denti che allora rinascono incavati (4), si riempiono nel sesto anno ; e nel settimo suole il cavallo averli tulli rinati e riempiti. Passato qaest' anno, v' è opioione che manchiuo i segni per conoscere P età, fuorché quando i denti diventano molto promineoli, le sopracciglia bianche, gli occhi sprofondati nelle occhiaie, perchè allora si dice che il cavallo abbia sedici anni (5). Bisogna cbe le cavalle nella forma sieno di una corporatura moderata, perchè non hanoo ponto di grazia, quando sono troppo grandi o troppo picciole (6), che abbiano U groppa ed il venire largo. I cavalli che si voglio­no adoperare por istalloni, bisogna sceglierli di grande corporatura, di bella forma, e bene prò-

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lumbis Jeorsum vertam pressis, scapulis latis, spina maxime duplici ; sin mino», non extanti, coda ampla subcrispa, cruribus* rectis et aequali­bus, genibus roloodis, ne magnis, nec iotrorsa* spectantibus, ungulis duris : toto corpore ut ha­beat venas, qnae animadverti possint, qood qni hujuscemodi sit, et cum est aeger, ad medendam est appositas : corpore malto. De stirpe magni interest qoa sint* quod genera sont mulla ; itaque ad hoc oobiles a regiooibos dicantur, io Graecia Thessalici eqoi, a terra Appoli, ab Rosea Roseani. Equi boni faturi signa sóot, si cam gregalibas in pabulo contendit in cprreodo, alia ve qua re, qao polior sit : si, cum flameo travehaadam est, gregi ia primis praegreditur, ac non respectat alios. Emtio equina similis fere ac boam et asi- norom, quod eisdem rebus io emptiooe domi­num m u tan t, ot io Mamilii actionibos saot perscripta.

Equinam pecas pascendum io pratis polissi- faum herba ; in stabulis ac praesepibus, arido foeno. Cum pepererant, ordeo adjecto bis die daoda aqua. Horum foelurae ipilium admissionis facere oportet ab aequioootio verno ad solstitlam, ut partus idooeo tempore fiat ; duodecimo eoim mense, die decimo, ajoot nasci, qoae post tempos nascootur, fere vitiosa alqoe inutilia exislant. Admittere oportet, cam tempas aooi venerit, bis in die, mane et vespere perorigam ; is iU appel­latur ; qniqui admittit ; eo enim adjolaote equae alligatae celeripi admittantur, neque eqai frustra cupiditate impulsi semen ejidont. Quoad salis sit admitti, ipsae significant, quod se defendooL Si fastidiam salieodi est, scillae mediam conte­runt cum aqua ad mellis crassitudinem : tam ea re nataram eqoae, cum menses fer uni, Ungant; ntolrs, ab locis equae nares equi tangunt. TameUii incredibile, quod usa venit, memoriae man­dandum; cum eqous matrem uttaUret addaci nuo pussct, et eum capiU obvolalo peroriga

portionali in tutto le parti del corpo. Si poò oongettorare cosa farà per divenUre il giovane puledro, osservando se ha la UsU picoola, lo membra bene sviluppato (7), gli occhi neri, le na­rici aperte, le orecchie aderenti alla cote del capo e diritte, la cervice molle (8), la chioma larga, folta, bruna (9), alquanto erespa, formata di crini nu poco sottili, piegati alla parte destra della collottola ; se ha il petto largo p pieno di muscoli, gli omeri diritti eie scapole larghe (10), il ventre poco largo, i lombi verso il basso com­pressi .e larghi (11), la spina del dorso incavata,0 almeno non promipeote, la coda laoga e al­quanto crespa, le gambe diritte, molli ed alte, fi gioocchi rotondi, noo graodi, nè volti .all’ in­dentro (12), le uoghie dure, e tutto il corpo sparso di vene facili a vedersi, perchè salUodo facilmente all’ occhio, è più aoconcio ad essere medicato, quaodo si ammala ( i3). Importa molto conoscere la razza, da coi derivano, perchè hav- vene molle specie ; e perciò i più stimati si chia­mano col nome del paese, da cui derivano, come1 Testatici nella Grecia, i Pugliesi nella PogUa (i{) ed i Roseaoi che nascono nel territorio di Rosea. Quaodo an cavallo oel pascolare co’ suoi com­pagni si sforza di superare gli altri sia nella corsa, sia allramenti ; quando nel travalicare un fiume è il primo che cammina alla tesU de) greg­ge senza guardare gli altri ; questi sono segni che diveoteri buono. La compera dei cavalli è presso a poco simile a quella de' buoi e degli asioi ; cioè che per far caogiare ad essi padrone per mezzo della veudila, bisogoa adoperare • per gli ani e per gli altri le medesime formalità, a norma delle prescrizioni di Mamilio.

1 cavalli debbono pascolare l’ erba pertico- larmeote nei prati, e deggiono mangiare il fieno secco nelle mangiatoie, quando sono io isUlla. Quando le cavalle hanno partorito, si dà ad esse anche deli* orzo, e due volte del dì si dà loro a bere dell’ acqua. Perciò che spetta alla propaga- ziooe di qaesli animali ( i5), bisogna principiare 1’ accoppiamento dall’ equinozio di primavera» • contionare sino al solstizio, affinché il parto sac­ceda in tempo propizio (16), perchè dicesi che il feto nasca nel giorno decimo del mese dodicesi­mo dopo il coito ; e quelli che nasoono più Ur- di (17), sono quasi tutti difettosi ed* ioatili. Ve­nuto il tempo opportuoo, bisogoa che Yoriga (18) faccia mooUre la cavalla dallo stallooe doe volte del dì (19), cioè mattina e sera. Si chiama orìga quegli che fa qoesU funzione, e per la eoi opera le cavalle sono tenute ferme,‘acciocché sieno mònUte più presumente, e lo a tallone non perda invano il seme pel troppo ardore. Le stes­se cavalle se schivano ulteriormente il coito, è

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adduxisset, el coegisset matrem ioire, cam de- scendenti demsisset ab òcolis, ille impetam fecit ia eam, ac mordicas interfecit., Cam conceperant eqaae, videndam ne aat lsboreat plascalam, aut De frigidis locis sint, qaod algor maxime prae- gnaotibos obest. Ilaqne io stabulis ab humore prohibere oportet humbm, clansa habere ostia ac fenestras, et inter singulas • praesepibus interji­cere longurios, qai eas discernant, ne ioter sé pugnare possint. Praegnantem neque implere ci­bo, neqae esarire oportet. Alternis qui admit­tant, diuturniores equos, et meliores pullos fieri dicuot, itaque ot restibiles segetes essent exactio­res, sic quotannis qaae praegnantes fiant.

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In decem diebas secandum partam cam ma­tribus in pabalum prodigendum. Ne uùgulas com b a rat sterous cavendum. Quinquemestribus pullis factis, cum redseti sant in stabalum, obji­ciendum farinam ordeaceam molitam cum furfu­ribus, et si quid aliud terra natum libenter edent. Anniculis jam faotis dandum.ordeum et furfures, usque qaoad erunt lactentes, neqae prius biennio confecto a lacte removeodum ; eosque cum stent cum matribus, interdum tractaodum, ue cum sini dijuncti, exterreantur ; eademque causa ibi frenos suspendendam, a t eqaali consuescant et videre eorum faciem* et e mota audire crepitas. Cum jam ad manus accedere coosaerinfc, inter­dum imponere iis pueram, bis aut ler pronam in ventrem, postea jam sedentem ; haec facere cam sit trimas ; tam enim maxime crescere, ac lacer­tosum fieri. Suol qui dicant post annum et sex menses equulum domari posse, sed melius post trimum, a quo tempore farrago dari solet ; haec eoim purgatio maxime necessaria equino pecori; quod diebus decem facere oportet, nec pali alium ullum cibum gustare. Ab uudecimo die usque ad

indizio che sono state bastantemente montate. Se* lo stallooe ha a noia 1’ accoppiaménto, ai pesta della midolla di scilla (ao) nell* acqua sino a che sia ridotta alla deosità del miele ; indi con questo medicamento si fregano le parli na­turali della cavalla, quando è io amore ( a i ) ; a d ' altronde si fa che le nari dello stallone toc­chino qaelle parti della cavalla. È da eternarsi la memoria di on avvenimento certissitno, quan­tunque appaia incredibile. Uno stallone negava di montare la propria madre, e 1' origa gli bendò gli occhi, lo condusse presso di quella, e T obbligò a montarla : terminala cbe ebbe la operazione, e quando ebbe gli occhi scoperti, si gettò sopra 1’ origa, e coi denti lo ammaz­zò (aa). Quando le cavalle sono pregne, biso­gna evitare che oon lavorino p ii del dovere, e che non abitino in laoghi freddi, perchè il freddo nuoce moltissimo alle gravide. Per la qual cosa bisogoa impedire che sai suolo delle stalle si arresti P umido, e che entri per le porle e per le finestre, le quali, a quest’ oggetto, si tengono chiuse : bisogna ancora attaccare alle mangiatoie delle lunghe stanghe, onde una ca­valla sia separata dall’ altra, e non possano bat­tersi insieme. Le cavalle pregne non debbono mangiare troppo, nè soffrire la fame. Qoelli che le fanno montare ogni altro auao, asseriscono che si conservsno più lungamente (a3), e che ge­nerano migliori figli ; perchè, siccome le terra che frollano tatti gli anni, diventano saervate, così pare diventane tali le cavalle che figliano ogni anno.

Dieci giorni dopo la nascita, si coodocono i figli colle loro madri al pascolò. Si abbia atten­zione che lo slerco non abbruci (a4) le unghie di questi. Quando hanno cinqae mesi, bisogna, al­lorché ritornano alla stalla, dare ad essi della farina d’ orzo unita colla crusca, come altresì qualche altra produzione della terra, cbe potes­sero mangiar con piacere. Quando hanno dodici mesi, si dà loro dell’ orzo e della crusca ; e ciò fino a tanto che poppano ; nè bisogna slattarli prima de’ due anni. Nel mentre ohe convivono colle madri (a5), si toccano colle mani di tratto in tratto, acciocché non si spaveolino, toccan­doli quando sono slattali. Per la medesima ra­gione si attaccheranno nelle stalle, ove dimorano colle madri, dei freni, onde ipolledrucd si assue­facciano a soffrirne la vista, e ad adirne lo stre­pito, quando si muovono (26). Assuefatti che sono al tocco delle mani, bisognerà di tempo in tempo mettere sai loro dorso an fanciullo, il quale prima si sdraierà col ventre per dae o tre volle, e poi sedera sopra il dorso dei medesimi. Ciò st faccia quando il cavallo abbia Ue anni, perchè

6SaM. TERENTII VARRONIS

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M3 DE RE RUSTICA L1B. 11. 634

qeqrtam d ed ma ài dandum ordeum, quotidie adjiciendo min a la lìa j qaod quarto die fecerit,io eo deum diebat proxiorit manendum, ab eo tempore mediocriter exercendum : et cam roda­rti, perunguendum oleo. Si frigat erti, in equili iaoaeodai ignit. Eqai qaod alii tool ad rem mili­tarem idonei, ahi ad vectaram, alii ad admitto- ram, alii ad cursaram, non item tuoi speetaodi atqae habendi. Itaque peritas beiti aliot digit, alqae «Kt, ac docet : aliter quadrigarias, ac desal- tor ; neqae idem, qui vectarios facere vult, ad ephippium, aat ad pràedam ; qaod al ( ad rem ariti ta rem , qaod ) ibi ad castra habere volaat scres, sic eoo Ira io viit habere malant placidot ; propter qnod discrimen maxime inttitntom, ul eaitrentor equi ; demplis eoim testiculis fiuot quietiores, et ideo qaod temine carent, ii cantero appellali, u l m sai bòa roajatea ; gallis gallinaceis, capi. De medicina, vd plorimi suol in eqoit el sigoa morbo rara, et geaera coratiooam, qaae pastorem scripta habere oportet. Itaque ob hoc in Graecia poliaaimom lAedici pecoram /r r /e trfo i appellati.

CAPUT Vffl

Db b u l i s b t b i h i o j l i j .

Cam haec loqueremur, venit a Menate liber- lui, qui dicat liba absolata esse, et rem divioam paratam ; al velleot, veoirenl illac, el ipsi prò ae aaeri fica ren la r. Ego vero, inquam, voa ire noo patiar ao tt, qaam mihi reddideritis tertiam a-

M. T i u n i o V a b b o b b

specialmente allora cresce e diventa robutto. So- novi alcòni, i quali pretendono che si potsa do­mare il puledro quando ha un anno e mezzo; ma è meglio far ciò dopo i tre anni, oel <Juat tempo saoiii dargli della farragioe, perchè que- ata è an purgante necesaaristimo per cotale bestiame. Qaetto mescuglio d’ erbe teoere biso­gna darlo per dieci giorni, e noh permettere che mangi altro cibo. L’ undecimo giorno gli ai darà dell1 orto, Ja coi dose ai accrescerà grà- datamente ogni giorno sioo al decimoqaarrto : e quella quantità d' orzo che si darà n d dèci­mo quarto (27), la stesta si dia ogai giorno pèt altri dieci con secati vi : dopo di ohe bisognerà esercitarlo moderatamente (a8), e ungerlo d’olio, quando avrà sudatpr'Se sarà freddo, si accen­derà « fuoco nel fa alalia. Jfoo ta tti i cavalli ri­cercano il medeaimo trattamento, nè tutti tono acconei alta medesima cosa ; e perdò alcuni tono atti alla guerra, altri alla vettore, altri alla pro- pagaziooe, ed altri al eorao (»9). Di falli, il pe­rito neH’ arte militare sceglie a quest’ effetto que’ tali cavalli, ed altrameoti gli addestra (3o) del cocchiere che se maneggia qoattro sotto il cocchio, e di quello che salta da un cavalle al* I’ altro: diveraamente ti fa per qoelli che si destinano a vettura, a sella, ed a carrozza (3i) : quelli che ti deatloano atta guerra, vuoisi eh* sieno vivi e spiri tosi : e per contrario placidi queHi che ti adoperano pegli altri usi : e per questa differenza appunto si è imaginato di aa­strarli, perchè tono piò quieti, qoando ai tol­gono ad essi i testicoli, per la ragione (3a) ohe diventaoo privi di teme. Questi cavalli castrati si chiamano canttrii (33), come majalti i porci castrati, e capi i galli castrati. Quaoto all* arte di guarirli, è da sapersi ohe i cavalli hanno wm gran numero di segni che indicano le loro ma­lattie, e che sooovi varii metodi di guarirti (cose tolte che debbe avere scritte il pastore ), e appunto per ciò i medici in Grecia, che guari* scono anche l ' altro bestiame, sono chiamati/T*r/*Tfo#. (34).

CAPITOLO Vffl

Dai PIOLI VATI d a l c a v a l l o e d a l l ’ a s m a ,

b d a l l ’ a s iv o b d a l l a c a v a l l a .

E nel dire quette cose venne a noi il liberto di Menate (1) ad avvertirci che le offerte delle liba (a) erano terminate, e che tutto era proolo pel sacrifizio, e per conseguenza che dovessero colà portarsi qoelli che avessero voluto sacrifica-

*7

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ctoni, de molis, de canibus, de pastoribus. Brevis oratio de istis, inquit Murrius ; nam malli et bioni bigeneri, atqae insiticii, noo saople genere ab radicibus ; ex equa enim et asino fit mulus ; contra ex eqao et asina hinnus. Uterque eorum id osum utilis, parlu fractos neuler.^ Pullum asininum a parlu recentem subjiciant equae, cu­jas lacte ampliores fiant, quod id lacte quam asi­ninum, ac alia omnia dicant esse melius. Praeter­ea educant eum paleis, foeno, ordeo. Matri sup­positiciae quoque inserviunt, quo equa ad mini­sterium lactis cibum pullo praebere possit. Hic ita eductas a trimo, pol est admitti ; neque enim aspernatur, propter consuetudinem eqainam. Hone minorem si admiseris, et ipse citios sene­scit, et quae ex eo concipiuntur fiunt deteriora. Qui non habent eum atioam, qaem supposaerunt equae, et asinum admissariam habere volunt, de asinis,qnem amplissimam formosissimumque pos- sant, eligunt ; quique seminio natas sit bono, Arcadico, ut anliqai dicebanl, ut nos experli su­mas, Reatino : obi Ireceois ac quadrigenis milli­bus admissarii aliquot veoieruol ; quos emimus item at eqaos, slipulamurque ia emendo, ac fa- cimns io accipiendo idem, quod dicium est in equis. Hos pascimus praecipne foeno atque or­deo, et id ante admissuram largius facimus, ut cibo suffundamus vires ad foeturam. Eodem tem­pore, quo eqaos addocentes, iidemque ut ineant •qaas per origas curamas. Cum peperit equa malum, aut mulam, uotricantes educamus. Hi, si in palastribos locis, atque uliginosis nati, habeo t angulas molles ; iidem si exacti sunt aestivo tem­pore io montes, qaod fit ia agro Reatino, duris­simis ungulis fiunt. In grege mulorum parando, spectanda aelas et forma ; alleram, a t vectaris sufferre labores possint ; alterum, at oculos aspe­ctu delectare queant; hisce enim binis conjun­ctis omnia vehicala ia viis ducantur. Haec me Reatino auctore probares, mihi, inquit, nisi tu ipse domi equarum greges haberes, ac mulorum greges vendidisses. Hinnus, qui appellatur, est ex equo et asina, mioor quam mulus corpore, plerumque rubicundior, auribus ut equinis, ju­bam et caadam similem asiui. Item in ventre est (u t equus) menses duodecim. Hosce item ut equulos et educaut et alunt, el aetalem eorum ex denlibus coguoscuul.

re persoaalmeate per si stessi. Io, dissi loro, boa permetterò che partiale, ae prima oou terminate il leno atto che versa sui mali, aoi caai e sai pastori. Sooovi poche cose da dire io loro o ai pri­mi, dice Murrio, perchè i muli, sia quelli che sono generali da un cavallo e da un’ asina, sia quelli che nascono da un asino e da una cavalla, sono animali generati da differenti specie, ed in ­nestati, per coi! dire, sopra an ceppo straaiero ; perchè il molo nasce dall’ asino o dalla cavalla, eV hinnus dal cavallo e dall’ asina (3). L’ ano e P altro possono servire a Varii usi : nè V ano, nè l'altro però possono generare (4). L* asinelio ap­pena nato si di a nodrire alla cavalla, il cui latte fa che diventi piò grande, perchè iaolsi che que­sto Ulta sia migliore di quello dell’ asina, o di ogai altro auimale. Oltreciò si nodrisce di paglia, di fieoo e di orxo. Oaooo parimente alla madre posticcia una maggiore copia di cibo, onde essa possa somministrare latte baslaote aoche al pro­prio figlio (5). Allevato in tal modo P asino, può soi tre anni montare le cavalle; nè egli vieoe rigettato, perchè convive con esse. Se ai fari montare piò giovane, invecchieri piò presto ; e i figli che genereri, non saranno booni. Quelli che non hanno un asino aHevato dalla cavalla, e che vogliono avere nn asino stallooe, scelgano Ira gli asini quello eh* è più grande e più bel­lo (6), e eh’è di buona raxxa, come di Arcadia, secondo quello che dicevano gli antichi, o di Rieti, secondo la nostra esperienxa, ove alcuni di questi stalloni si sono pagati trenta e quaranta- mila sestertii (7). Noi comperiamo gli asini co­me i cavalli colla medesima formola di contratto, e in pari gaisa de’ cavalli ne facciamo la coose- gnaiione. Li uodriamo principalmente di fieno e di orxo, ed in maggior copia avanti V acooppta- mento, onde si somministrino forxe bastanti per la generatione. Noi abbiamo cura che P origa faccia montare le cavalle da questi in quel tempo che i cavalli montano queste (8). Quaodo la ca­valla partorisce uo malo o una mola, noi li alle­viamo e li nodriamo. Se qaesli uascono in luo­ghi paludosi ed umidi, hanno le unghie molli ; ma se si menano nella stale sai monti (9), 00me si pratica nel territorio di Rieti, diventano du­rissimi nelle unghie. Nel (ormare un gregge di muli, bisogoa avere in vista la loro e li e forma : la prima, onde possano tollerare le fatiche della vettura ; e la seconda, affinchè possano piacere alla vista ; perchè non vi ha vettura che non si possa condurre sulle strade da due di qoesti uniti insieme. Tutto ciò devi credermelo, disse, vol­gendo il discorso a me (10), perchè sono di Rie­li ; e potresti accertartene, se tu non possedessi che delle troppe di cavalle, e se noo avessi ven-

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doli i mali. Il molo chiamato hinnus, nasce da o d cavallo e da un1 asina (u ) : è più picciolo di corpo dell' altra specie, comunemente più rosso, ha le orecchie come il cavallo, la giubba e la co- da simili a quelle delP asino (ta). Dimora, comeil cavallo, on anno nell’ alerò. Si allevatio e si nodriscono quesli moli, cornei cavalli, e pari­mente si conosce Ja loro età dai denti.

CAPUT IX

De c a n ib u s .

Relinquitur, inquit Atticus, de quadrupedi- bos, qnod ad canes attinet, maxime ad nos, qoi pecos pascimus lanare. Canis enim ila custos pe­coris, ut ejus, quod eo cortile indiget ad se de­fendendum ; in quo genere sunt maxime oves, deinde caprae ; has enim lupus captare solet, cui opponimus canes defensores. In suillo pecore tamen sunt, quae se vindicent, sues, verres, ma­jales , scrofae ; prope enim haec apris, qui in silvis saepe dentibus canes occiderunt. Quid dicara de pecore majore? curo sciam mulorum gregem cum pasceretur, eoque venisset lupus, ultro mulos circumfluxisse, et ungulis caedendo eom occidisse? et tauros solere diversos assistere duoibus cootinuatos, et cornibus facile propul­sare lupos ? Quare de canibus, quoniam genera duo, unum venaticum, etperlinel ad feras bestias ae silvestres : alterum, quod custodiae causa pa­ratur, el pertinet ad pastorem : dicaro de eo ad formam artis expositam in novem partes. Primum aetate idonea parandi, quod catuli et vetuli neque sibi, oeque ovibus sunt praesidio, et feris bestiis noonunquam praedae. Facie debent esse formosi, magnitudine ampla, oculis nigrantibus aut ravis, naribus congruentibus, labris subnigris aut rubi­cundis, neque resimis superioribus, nec pendulis subtus, m ento suppresso, et ex eo enatis duobus dentibus dextra et sinistra, paulo eminulis, supe­rioribus directis potius, quam brocchis : acutos, quos habeant, labro tectos : capilibus et auricu­lis magnis ac flaccis: crassis cervicibus accollo: internodiis articulorum longis: croribus rectis, et potius varis, quam vatiis : pedibus magnis et altis, qui ingredienti ei displodantur : digitis discretis : unguibus duris ac curvis : solo nec ut corneo, nec nimium duro, aed ut fermentato ac molli : ac feminibus summis còrpo re suppresso : spina neque eminula, neque curva : cauda crassa : latratu gravi: hiatu magno: colore potissimum albo, quod in tenebris specie leonina. Praeterea foeminas volunt esse mammosas aequalibus papil-

CAPITOLO IX

D e i c a v i.

Sull’ argomento dei quadrupedi, non ci resta, dice Attico, che di parlare de* cani (i); punto in­teressante per noi che nutrichiamo del bestiame lanoso ; poiché il cane è il custode del bestiame, e particolarmente di quello che da esso è accom­pagnato, e che ba mestieri di difesa (a), come le pecorè in primo luogo, e poi le capre : difatti il lupo suole portarsele via; e perciò mettiamo alla loro difesa dei cani. Nella elasse dei porci però se ne trovano di quelli che sanno difendersi, come i verri (3), i maiali, 1« troie ; perchè questi anfanali si avvicinano ai cinghiali, i cui denti hanno so­vente ammazzati dei cani uei boschi. E che dirò del grosso bestiame ? Non so io forse che porta­tosi un lupo ove pascolava nn gregge di muli, quesli, per un istinto natorale, lo circondarono, e lo ammazzarono a colpi di calcio ? Non so io forse che i tori separati si riuniscono reciproca­mente per di dietro, e che facilmente rispingonoi lupi colle coma (4)? Laonde dei cani (dei quali ve ne sono due specie ; cioè quelli da caccia che si destinano a cacciare le bestie selvagge (5) e fiere; e quelli che servouo a far guardia e che appar­tengono al pastore ) parlerò ; e particolarmente di quesli ultimi : e per conformarmi (6) al tno metodo, dividerò quest* argomento in nove parli. Primieramente bisogna prendere cani di conve­niente elà, perchè i cagnolini ed i vecchi non possono difendere nè sè slessi, nè le pecore, anzi alle volte sono preda delle bestie feroci. Deggiono essere di bella figura, grandi nella corporatura (7), di occhi uericci, o di colore tanè (8); il colore del nsso dee corrispondere a questo ; le labbra deb­bono essere nericce o rossicce, oon camuse (9) superiormente, nè pendenti in basso; il mento ha da essere corto ; dalla mascella inferiore debbono nascere a sinistra e a destra due denti uu poco sporti allo iofuori ; e quelli della mascella supe­riore hanno da essere piuttosto diritti, che sporti infuori : gli acuti denti poi hanno da essere co­perti dalle labbra : bisogna che abbiano la testa

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639 Rf. TERENTII VARRONIS «4*

lis. Item videndum, ul bogi leminii sinL llaqae* refiooibas appellai?lar Lacoues, Epirotici, Sal­lentini. Videndum, ne a vena tori bu* , aut laniis cane* emas; alteri, quod ad pecua sequendum inertes ; alteri, ai viderint leporem, aut cervum, qnod enm. potius , quam oves aequentur. Quare aot a pastoribus-emta melior, quae ovea sequi consuevit : aut aine ulla consuetudine quae fue­r it; canis enim facilius quid assuescit, eaque con­suetudo firmior, quae sit ad pastores, quam quae ad pecudes. P. Aufidius Pontiauus Amiterninus, cum greges ovium emisset in Umbria ultima, quibus gregibus sine pastoribus canes accessis­sent ; pastores ut deducerent in Metapontinos saltus, et Heracleae emporium : inde cum domum redissent, qui ad locum daduxerant, e desiderio hominum diebus paucis postea canes sua aponte, cuip dierum multorum via interesset, sibi ex agris cibaria praebuerunt, atque in Umbriam ad pastores redierant ; neque eorum quisquam fece­rat quod in agricultura Saserna praecepit: Qui vellet ae a cane aectari, uti ranam objiciat coctam. Magni intereat ex semine esse canes eodem, qnod cognati maxime inler se sont praesidio. Sequitur quartum deem tioue: fit alterius, cum a priore dopino secundo traditum est. De sanitate et noxa atipulaliones fiunt eaedem, quae io pecore, nisi quod hic utiliter exceptum est. Alii pretinm fa­ciant in singula capita canum; alii ut catuli aequantur matrem ; alii ut bini catuli unius ca­nis numeram obtineant, ui solent bini agni ovis ; plerique ot accedant canes, qui consuerunt esse nna.

grande, e le orecchie grandi e pendenti, la collot­tola ed il collo grosso (io) ; che siavi una larga d i­stanza nella separatione de'nodi degli articoli; che abbiano le gambe diritte, alte e piuttosto piegata infuori, che indentro (i i ) ; le zampe larghe e eh* facciano dello strepito nel camminare; ledila sepa- rate; leunghie dure e curve (i a); la pianta del piede non cornea, nè troppo dura, ma molle, e per così dire, dilatabile ; che il corpo sia schiacciato supe­riormente ed internamente alle cosce ( i3) ; che la spina del dorso non sia nè prominente, nè curva; che la coda sia groasa ; 4' abbaiamento forte ; 1* a- pertùra della boaca grande. 1 cani deggiono essere specialmente bianchi, onde facilmente ai diatin- guano (i4) nelle tenebre. Vuolai inoltre che le femmine abbiano grandi zinne; e in ambe le parti uo eguale numero di capezzoli ( i5). Bisogna procurare altresì che sieoo di buona razza ; e perciò, secondo i paesi, da1 quali sono tratti, si chiamano Lacortes, Epirotici, Sallentini. Guar­dati dal comperare cani dai cacciatori o dai bec­cai ; questi perchè non sono assuefatti a seguire le pecore ; e quelli, perchè vedendo una lepre, od un cervo, vi corrono dietro, piuttosto che ae- guire le pecore. 1 migliori dunque sono quelli che ai comprano dai paatori, e che sono aolili a aeguirt le pecore, ovvero quelli che n«a sonoaasoe&Ui a niente ; perchè il cane di leggeri ai accoatnma * tutto. 11 fatto seguente mostra che hanno maggiore atlacaroeoto pei pastori, che pel bestiame. P. Aufi­dio Ponziano(i6)diaap Vittorino comprò nel foe­do deirUmbria delle gregge di pecore, e ooaveaaa che i cani, e non i pastori, foaaero compreai nella vendita, colla ooudiaione però», che questi doves­sero condurre le gregge ne' boschi meUpoqUnj ed al mercato di Eraplfia (17) ; e che oiò fatto, dovessero ritornare alla propria caja (1.8) : ma i cani, pochi giorni dopo, rammaricati per la pfr- dita dei pastori, ritornarono a raggiungerli nella Umbria, non nutricandosi che di quello che ritro­varono ne' campi, quaptnnqpe la dialanza da un luogo all'altro foste di molte giornate, eaebbeoe nessuno de' pastori uvesse messo in opera quanto prescrive Saserna nella sua agricoltura cioè, che qpegli, il quale vuole essere seguilo dal cane, gli presenti una rana cotta (19). Impqrta nipllisaimo che i cani del gregge sieno di nna stessa razza, perché quaudo souo parenti, si difendono in iipecialità tra loro (20). Ma (parlando del quarto punto, cioè dell* vendila) il cane passa in altrui potere, quando dal primo padrone ai conse­gua al McouflQ. IfltQrAo Mia sanità ed ai d^oni che aveiaero prodpui, ai stipula 4 cqnljrattQ come ai pratica qel he*li*me, quando ai faglia ec­cettuare u w quache azione gt^le (ai). Alcuni

y p w u > e f t « w j *

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D $ R*> RUSTICA m . a

Cibali» canis propior hominis, qaam ovis ; p a td ta r enim e culina el ostibat, noo berbij ani frondibus. Diligenter ot habeaul cibaria provi- deodum ; fames enim boa ad quaerendam eibnm dncet, ti oon praebebitur, el a pecore abducet. Niti ti (n i qjDuJam puU pt) etiam ili ac pervene- riot, proferbiacn ot tollant antiquum : vel etiam ot (iùàvy aperiant de Actaeone, atqoe in domi­nam afferant dentea. Nec non ita panem ordea- ceom dandum , «I non potint eum in lacte det intritami qood eo contacii cibo oli, a peoore non cito detcitcunl. Morlicinae ovis non patinntar vetci carne, ne dncti tepore miout te abstineant Dani etiam jo t ex ottibut, et ea ipta otta contuta. Dente# enim £acit firmioret,et ot magii patulum : propterea qood vehementius didocnntnr malte, acrioresque fino! propter medullarum saporem. Cibum capere consuescant interdia, ubi pascun­tor : vesperi, obi tlabalaniar. De foetura, prin­cipium adcqiUcodi faciunt verit principio: tunc enim dicuntur catulire, id est, ostendere velle te maritari. Quae cum admit*a*, pariunt circiter aoJalitip; praegnanlct enim toleul ette ternot «antei. Io foetoca dandam potiat ordeaceot quam trilioeoa paoet ; magit enim eo alantur, el lecti* praebeat mejorem faoultalem. In nutricatu secandam partnm ti plure* tool, ttalim eligere •portet quot babere velit, reliquot ab>icere; qoam paucittimot reliquerit, tam optimi in alen­do fiant propter copiam laelit. Subtteroilur eia acus, aut qaid item tliad, qaod molliore cubili faciliat educantur ; catuli diebut xx videre inci«* pioni. Dnobat mentibut primit a parta non di junguntur a matre, sed minutatim desuefiant. Educant eos plures in anum locum el irritant ad pugnandum, quo fiant acriores, neqae defatigari patinntur, quo fiant segniores. Coutue quoque faciant ut alUgari poatint, primo*»' levibus vin- d it : quae ti abrodere .conantur, ne id consae- tcaol facere, verbaribat. to t deterrere tolenl Ploviit diebut cubilia substernenda fronde aut pabnki, doabut de oautis, ut ne oblinantur , ani

* perfrigescant. Qoidam eot castrant, qaod eo mi­nat putaat relioqnere gregem; qaidam noa faciunt, qood eot credunt minat acret fieri» Qaidam ao ab m Graecit ia aqaa tritìi perun­gant augete e t .inter digitos : qood motcat, el rieini, et palicat soleant (ti hae anguine non tit atet) eepxnlterere. Ne vulnerentur a beatiia» im- p e n a to r ku» qua# m o n ta r maelium,

cagnolini fegyirtnno la m*dre, ed altri che da» cagnolini non saranno contati che per un cane, coinè due agnelli non ti contano d* ordinario che per una pecora : parecchi sogliono comprendere nella compera tutti que1 cani che tono assuefatti a convivere insieme.

11 nòdrimento del cane ti avvicina piò a quello dell* uomo, che della pecora, perchè si n od rim di brodo (aa) e di ossa, non già di erbe o ili frondi. Bisogna procurare con diligente che H cibo non manchi mai ai cani, altraraenii diserta* ranno dal gregge, e la fame li cotlringerà a cer­care il cibo altrove : potrebbero anche, come al­cuni pensano, fare di peggio, e rinnovare T antico proverbio (aS), od anehe scoprire il sento alle* gorico della favola di Atleone, addentando il proprio padrone (a4)> Si può etiaodio dare ad essi del pane d' orto, ma dopo averlo prima in- triso nel latte, perchè assuefatti a cotale cibo, non istanno lungamente lontani dal gregge. Non ti permette che mangino la carne delle pecore morte da sé, affinchè, allettati dal sapore, non mangino le vive. Si dà altresì a loro del brodo di ossa, ed anche le otta medesime ridotte io petti : in laL modo fanno i denti più forti, e Vapertura della bocca più larga, perchè con veemente aprono le mascelle, ed il sapore che trovano oella midolla,li reode più aspri. Sono soliti maogiare di giorno, ove pascola il gregge, e di sera, ove è rientrato. Quanlo alla loro propagatione, si priocipia ad accoppiarli nell1 ingresso della primavera : allora sì dice che le cagne vaono iu amore e che mo­strano il desiderio del maschio. Montate in quel tempo (»5), partoriscono verso il tolstiiio, perchè sogliono tiare grtvide per Ire mesi. Nel tempo della gravidanta si dà ad ette piultotto del pane d’ orto, che di formento, perchè il primo le no- dritee meglio, e fa che abbiano anche maggiore copia di latte. Riguardo al nutricare i cagnolini, te qaetti tono parecchi, fino dal priocipio della loro nascita bitogna scegliere quelli che si vogliouo serbare, e gettare gli altri : meno che ne lascerai, meglio saranno nodriti per la maggiore quantità di latte. Si mette sotto di essi della paglia (*6), od altra simile cosa, perchè quando riposano più mollemente, cou maggiore facilità si allevano. I caguolini principiano a vedere in capo a venti giorni (37). Ne’ primi due mesi dopo la loro na­scita non ai separano dalla madre ; ed in pro­gretto ti fa ciò poco a poqo. Molti ae ne condu­cono in an luogo, ove ti eccitano a pugnare insieme per renderli più vivi ed ardenti, nè ti permette che ti fianchino, onde oon diventino pigri. Si avvettapo allreal a lasci irsi legare nel principi? con legami leggeri; e quando fanno degli storti per rodarli, apolli biMeclj, acefowbft

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H. TERENTII VARRONIS 644

id est, cingulum circom collao ez corio firmo cum clavulis capiUlis, qaae intra capita insuitur pellis mollis, D e noceti collo duritia ferri. Quodii lupus, aliasve quis his volueratas esi, reliqaas quoque canes facit, quae id non babent, ot sint in iulo. Namerue canum pro pecoris multitudine solet parari ; fere modicum esse pu tan t, ut sin­guli sequantur singulos opiliones: de quo nume­ro alius aliam modum con»tituiL Quod si sunt regiones ubi bestiae sint mullae, debent esse plures ; quod accidit iis, qui per calles silvestres longinquos solent comitari in aestiva et hiberna. Villatico vero gregi in fundum satis esse duo, et id marem et foeminam. Ita enim sunt assiduio- res, qood cum allero idem fit acrior, et si alter indesinenter aeger est, ne sine cane grex sit. Cum circumspiceret Allicas ne quid praeterisset : Hoc silentium, inquam, vocat alium ad partes.

C A P U T X

Db p a s t o b ib u s .

Reliquam enim in hoc acia, quot, et qaod genus sint habendi pastores. Cossinias: ad majo­res pecades aetate saperiores, ad minores etiam poeros, et utroqae horum firmiores, qai in calli­bus versentur, quam, eos, qui io fundo quotidie ad villam redeant, ltaqoe ia sal libas licet videre javeatalem, et eam fere armatam, cam in fundis noo modo pueri, sed etiam puellae pascaot. Qai pascant, eoi cogere oportet, ia pastione diem to-

non ne contraggano I’ abito. Nei giorni di piog* già, si stendono sui loro canili delle foglie o del foraggio ; e ciò per due ragioni, perchè non si sporchino, e perchè non abbiano troppo freddo. Alcuni li castrano, perchè cosi sono meno tentati di abbandonare il gregge; ed altri ciò non fanno, perehè credono che cosi diventino meno corag­giosi. Alconi pestauo oelP acqaa delle mandorle amare, e con queste fregaao le orecchie, e tra le dita (a8), perchè le mosche, le zecche, e le pulci sogliooo ulcerare queste parti, quando non si fregano con tate unguento. Per evitare che sieoo feriti dalle bestie feroci, si adattano ad essi dei collari che si chiamaoo milla (29), vale a dire intorno il collo si mette una cintura, fatta di cuoio forte, e fornila di chiodi a testa. Sotto questa testa si cace una pelle più molle, per impedire cbe la durezza del ferro nuoca al collo. Che se il lupo, o qualche altra bestia resta ferita dai chiodi, gli altri caui si trovano in sicuro, quantunque non abhiano il collare. Suolsi provvedere quel o a mero di cani, che sia proporzionato a quello del bestia­me. Si crede comnoemenle che basti che un pastore sia seguito da uo cane; ma generalmente, riguardo al numero, ognano ha il suo metodo particolare. Che se il paese abbogda di beèlie feroci, i cani debbono estere parecchi; il che mettono in opera quelli che fanno cammini lunghi per istrade td - vagge e strette (3o), a oggetto di condurre il gregge ai quartieri di estale o d’ inverno. Pel gregge che sta oetla casa rusticana (3 1 ), basta che nella tenula si trovino due cani, cioè un maschio ed una femmina (3a) ; perchè in tal modo diven­tano più assidui, e per emulazione più vivi ed acri: d'altroode se V uno, o V altra ti amma­lano (33), il gregge non resta privo di cane. At­tico (34) guardava intorno come per dimaodare se aveva ometta qualche cosa, e veggendo che 00: Questo silenzio, io dico allora, annaozia che altri dee trattare il sao soggetto.

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CAPITOLO X

Dei p a s t o b i .

Per compiere quest’ atto, è da parlarsi del numero dei pastori e delle loro qaali là. Cossi- nio. Pel grande bestiame si ricercano uomi­ni piuttosto di età avanzala, e pel piccolo, ba­stano anche i fanciulli. Deggiono poi i pa­stori essere più forti e degli uni e degli altri, quando hanno da passare per istrade rimole, strette e selvagge, e deggiono essa re più forti di quelli che ogni giorno cooducoao il gregg*

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645 DE EE RUSTICA L1B. II.

tom ciie, pascere commaniter;contra, pdrnootare ad toam quemque gregem ; esse omnes sub ano magistro peooris : cura esse majorem nata polias qaam alio*, et peritiorem quam reliquos: quod iis, qai «elate et scientia praestant, animo aeqaio- re reliqui pareot. Ila tameo oporle 1 aetate prae­stare, ut ne propter senectutem minus sosti nere possit labores ; neque enim senes, neqae paeri calliam difficultatem, ae raoQlium arduilatem, atque asperilatem facile ferant: quod patiendum illis, qui greges sequuntur, praesertim armenti­cios sc caprinos, quibus rupes ac silvae ad pabu­landum cordi. Formae hominum legendae, a t sint firmae, ac veloces, mobiles, expeditis mem­bris: qai non solum pecus sequi possint, sed etiam a bestiis ac praedonibus defendere: qui onera extollere in jamenta possint, qai excurrere, qai jaculari. Non omnis apia nalio ad pecnariam, qaod neqae Basculus, neque Turdolus idonei: Galli appositissimi, maxime ad jumenta. In «no­tionibus dominum legitimum sex fere res perfi­ciant : si haeredi latera justam adiit: ai, ut debait, mancipio ab eo accepit, a qno jure civili potuit : aut si in jare cessit, cui potuit cedere, et id ubi oportnit: aut si usu coepit : aut si e praeda sub corona emit: lumve cum in bonis seclioneve co- jus publice veoit. In horum emiione solet acce­dere pecalium, aut si excipiet, slipalatio interce­dere, sanam eum esse, furtis noxisque solutum : aut si mancipio non datur, dupla promilti : aut si ita pacli, simpla. Cibas eorum debet esse in­terdia separatine oniascujnsque gregis, vesper- liaus in coena, qui sunt sob uno magistro, com­munis. Magistrum providere oportet, at omnia sequantur inslrumenla, qaae pecori et pastoribus opas sunt, maxime ad viciam hominum, et ad medicinam pecudum : ad quam rem habent ju- meata dossuaria domini, alii equas, alii pro bis quid aliod, quod onas dorso ferre possit.

dalla tenuta alla casa, o da questa so quella (i).E per queslo reggiamo ne’ boschi dei giovani per lo più armali, qoando nelle campagne il gregge è condotto al pascolo non solo da fan­ciulli, ma ancora da fanciolle. Quelli che fanno pascolare ne’ luoghi selvaggi, bisogna ehe di giorno tengano unite insieme lotte le gregge, affinchè pascolino unite (a) : per contrario si fa che ogni gregge dorma separatamente. Bisogna che tuti' i pastori sieno soggolii a an solo ed anico sovranlendenle al bestiame, che deve es­sere il piò vècchio ed il più sperimentalo de­gli altri (3), perchè più facilmente e volenlieri obbediranno a quello che loro è superiore di elèe di esperieosa. Bisogna per altro che l'età noo aia tale, che per la vecchiaia non possa sostenere le fatiche ; perchè tanto i vecchi, quan­to i fanciulli non sostengono facilmente le fa­tiche originate dalla difficolti delle strade e dai monti alti e dirupali ; al che debbono as­soggettarsi quelli che conducono le gregge, particolarmente se sono di bestiame grosso e di capre, come animali che ai dilettano di pasco­lare solle rupi e nelle selve. Bisogna scegliere la forma di questi uomini, i quali debbono es­ser robusti, veloci, lesti ed agili nelle membra, onde non solo possano seguire il bestiame, ma ancor» difendersi dalle bestie e dai ladri : deb­bono eziandio essere capaci d’ innalxare de’ pesi per caricare le bestie da soma, di correre e di lanciare. Non tutte le naiioni sono abili a qoe* si’ uopo : tali sono i Vasco li ed i Tordoli : per contrario i Galli sono molto acconci, e soprat­tutto per le bestie da soma. Vi sono quasi sei maniere per fare che i pastori passino Iegiltima- meute sotto un altro padrone : cioè andando al possessodi una legittima eredità, di cui facevano parte ; ricevendoli, secondo le forme della man­cipatione (4), da una persona, cui il diritto civile peribette di trasferirne la proprietà ; ov­vero ricevendoli da chi può farne la cessione, e in presenza delle persone legali (5) ; acqui­standone il dominio per diritto di possesso (6) ; comperandoli colla corona'in testa, perchè sono di preda (7); ovvero comperandoli all’ incanto, quando fanno parte di beni confiscati. Quando si vendono, il loro pecalio (8) suole, per diritto di accessione, appartenere al compratore, ovvero espressamente eccettuarsi (9). Il venditore stipu­lerà che I’ uomo è sano, che non ha rubato ed apportato danni, e che in caso di eviziooe, pro­ra e ile di dare il doppio, o solamente il prezzo ricevuto, se così si conviene. Il cibo del giorno c da prendersi separatamente dai pastori presso il loro gregge (10), e la sera debbono cenare insie- me sotto un solo sovranteodente (11). Questi

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«4? * . TERENTII tARRONlS «4#

Quod ad foeturara humanam pertioet {festo- frdm, qui in fundo perpetuo manent, facile est, quod habeant conservam in villa; nec hae venas pastoralis longius quid quaerit. Qai autem sunt in saltibus et silvestribus locis pascunt, et non villa, sed casis repentinis imbrei vitant : his mu­lieres adjungere, quae sequantur greges, ac ciba­ria pastoribus expediant, eosque assiduiores fa­ciant, utile arbitrati multi. Sed eas mulieres esse oportet firmas, non turpes, quae in opere, ut iu multis regionibus, non cedaot viris, ut in Illy­rico passim videre licet, quod vel pascere pe- cos, vel ad focum afferre ligna, ac cibum coque­re, vel ad casas instrumentum servare possunt. De nutricatu hoc dico, easdem fere et nutri­ces ct matres. Tremellius, simul asptdit ad-me, et: Ut te addii dicere, inquit, cum in Liburniam Tenisses, te vidisse matres iamilias eorum afferre ligna, et simul pueros, quos alerent, alias singu­los, alias binos, quae ostenderent foetas nostras, quae in conopeis jacent dies aliquot, esse levnn- cidas, ac contemnendas. Cui ego: Certe, ioquam, nam in Illyrico hoc amplius, praegdautem saepe, eum venit pariendi tempus, non longe ab opere discedere, ibique enixam puerum referre, quem non peperisse, sed invenisse putes; nec non etiam hoc, quas virginei ibi appellant, nonnunquam annorum xx, quibas mos eorum non denegavit, ante nuptias at succumbercnt quibus vellent, et incomitatis, ut vagari liceret, et filios habere. Qaae ad valetudinem perlinent hominum, ad pecoris, ut tine medico curari possint, magistram acripta habere oportet. Is enim sioe literis ido­neas non est, qaod rationes dominicas pecuarias conficere nequidquam recte potest.

debbe avere cara che ta tti gli stramenti neces­sarii pei pastori e pel bestiame seguitino il greg­ge, e particolarmente quelli che spettano al vitto degli uomini e alla cura delle malattìe del bestia­me : per la qaal cosa i proprietarii mantengono deHe bestie da soma, o delle cavalle, ovvero altri simili animali che possano portare sul loro dorso gli anzidetti stramenti.

Qaanto alla propagazione de’ pastori, per quelli che dimorano sempre nella tenuta, si fac­cia in guisa (ia) che abbiano nella easa rusticana una compagna di servaggio, perchè il pastore non è molto delicato ne*suoi amori. Quelli poi che vivono ne* boschi e che fanno pascolare il bestiame ne’ luoghi selvaggi, e che si difendono dalla pioggia non sotto le case di villa, ma sotto eapaone fabbricate sul momento, bisogna, se­condo il parere di molti, che abbiano delle donne per compagne, le quali accompagnino il gregge, ed apprestino il cibo ai pastori, onde attendano questi continuamente al loro dovere. Ha convie­ne che queste donne sieno robuste, non difformi, e che nel lavoro non la cedano agli uomini (i3), come si può vedere qua e là nell’ Illirio, ove o fanno pascolare il bestiame, o raccolgono le le­gna pel fuoco onde cuocere il cibo, o faono guardia agli strumenti nelle capanne. Per la nu­trizione de’ figli asserisco che comunemente è meglio che esse sieno e msdri e nutrici, la que­sto momento volge gli occhi a me (if), c dice : Appunto io t’ intesi dire, quando ti portasti in Croazia, che tu vedesti delle mogli dei pastori, che portavano delle legna, e nello stesso tempo anche degl’ infanti che allattavano ; che alcune ne portavano uno, ed altre due ; e che queat’ esem­pio dimostra che le nostre donne da parto, le quali per molti giorni giacciono dentro le u n a - riere, sono deboli come il giuoco (t5) ; e perciò da disprezzarsi. Questo fatto, io gli rispondo, è certissimo ; anzi v’ è di pià nell’ Illirio (16) ; per­chè, venuto il tempo che la donna gravida ha de partorire, essa non si discosta molto dal lavoro ; partorito che abbia, porta il nato ove era par­tita, cosicché tu diresti che 1’ abbia piuttosto trovato, che partorito. Ivi si vede ancora, che aoveote delle donne d 'anni venti ( i u c c h e in quel paese si chiamano vergini, senza andare contro l’uso, si prostituiscono avaoti il matri­monio con chi piace loro, e che hanno la libertà di vagare senza compagnia a loro piacere, e di farsk anche ingravidare. Cossinio (18). Quanto alla sanità degli uomini, bisogna (19) che il so- vrantendente al bestiame abbia uno scrìtto re­lativo, affinchè possano essere medicati senza medico : per lo che non sarebbe al caso nn nomo che non sapesse scrivere ; e questi non potrebbe

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«4* DE RE RUSTICA LIB. II.

Di ram erò pastorum iKi angusti ut, alii Iuhm e o o i t i i i M r e solent. Ego in octogent» birtas o t m

singulos pastores constitui, Alticus ia centeoas.Io gregibus o iia n , sed magnis, quos milliariof fteiuot qaidam, facilina da summa hominum de- trabere poesont, qaam de minoribas, ut suol et Attici et foei. Septingenarii enim mei: tu opinor, oetingenarios habuisti; nec tameo non ut nos arietum decimam parleo. Ad equarum gregem qainqaagenariatn bini homines ; otique aterque bonim at seeum habeat eqnas domitas singnlas in ii» regionibus* in quibas stabulari solent equa* abigere, ut Ja Appalla et m Lucanis accidit saepe.

CAPUT XIDa l a c t x , g a s b o , l a v a .

Quoniam promissa absolvimus, inquit, ea­mus. Siquidem, inquam, adjeceritis de extraor­dinario pecudum fructu, ut praedictum est, de lacte in eo, et tonsura lanae. Est omnium rerum, quas oibi causa capimus, liquentium maxime ali­bile, et id ovillum, inde caprinum. Quod autem maxime perpurget, est equinum, tum asininum, dein bubalum, tum caprinum. Sed horum sunt discrimina quaedam et a pastionibus, et a pecu­dum natura, et a m oleta. A pastionibus, quod fit ab ordeo et stipula, et omnino arido et fir­mo cibo pecude pasta, id alibile ; ad perpurgan­dum id, quod ab viridi paseno, et eo' magis flo- xe ex herba, quae ipsa sumta perpurgare cor­pora aoptra solet. A pecudnm natura, quod lac melius est a valentibus, et ab iis qnae nondnm veteres aant, quam si est contra. A mulgendo, atque o rta optimam est id quod neque emun­ctum looge abest a mulso, ueque a partu conti­nuo est aamtum.

Ex hoclaete oaiei qai fiant, maximi db iiu n l M. T u s u io V a x i o i i

tenere il registro esatto dell* amministrazione del bestiame, per renderne conte al proprietà- rio ; nè potrebbe eseguire simili cose con intelli­genza (ao).

Riguafdo al nomero dei pastori, alcuni so­gliono averne un maggiore, ed altri un minor numero. Io per ottanta pecore di lana grossa mantengo un pastore; ed Attico uno percento delle stesse. Nelle gregge composte di molte teste (a i ), come qoelle di alcuni che le fanno di mille, facilmente si paò diminuire il numero de­gli aomini, di quello che nelle piccole, come sono appunto quelle di Attico,e le mie; perchè le mie sono di settecento teste, quando che io credo che tu le faccia di ottocento, e che ugual­mente di me assegni an ariete a dieci pecore (aa). Per on gregge di cinquanta cavalle, bastano due aomini. Ognnno de* primi e dei secondi debbe •vere a sua disposizione ana cavalla addomesti­cata, per condurre le cavalle io que' luoghi, ove si sogliono rinserrare nelle stalle, ovvero ove si sogliooo condurre a passare la state o T inver­no (a3), come ordinariamente si f* nella Paglia e Basilicata.

CAPITOLO XIDel l a t t i , d b l p o i m a g g io m d e l l a l a v a .

Poiché abbiamo soddisfallo alla nostra pro­messa, die’egli, separiamoci. II faremo (i), sog­giungo io, quando tu abbia trattato, come si è convenuto di sopra (a), del frutto straordinario che si trae dal bestiame, cioè del latte, del for- maggio (3) e del tosare. Il latte tra tutti i cibi, e specialmente parlaodo di fluidi, è quello che nodrisce di più : il pecorino è il primo, ed il secondo il caprino (4). Quello che più di tutti porga, è quello di cavalla, poi di asina, indi di vacca, e finalmente quello di capra. Ma le pro­prietà di queste differenti tpecie di latte sono varie, secondo la differenza de1 pascoli, la na- tura del bestiame, e il tempo io cui si munge. Differisce in ragione del pasoolo, secondo cheil bestiame mangia orzo, paglia, o del foraggio secco e solido (5). Differisce poi nel purgare, se la bestia avrà mangiato deir erba verde ; e mollo più se avrà mangiato di quell’ erbe che prese internamente sogliono purgare inostri corpi(6). Riguardo alla natnra del bestiame, si troverà esser migliore quel latte eh’ è tratto da bestie sane e che noo sono ancora veoehie, di quello che si traesse da bestie ammalale o vecchie. Rispetto al tempo di mungere il latte, l’ottimo

j quello ohe noo si munge molto tempo dopoil parlo, nè subito dopo il parto (7).

1 formaggi più nutritivi tono quelli di latte

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651 M. TERENTII VARRONIS

bubuli, et qoi difficillime transeant •anati ; fe­condo ovilli ; minimi cibi, et qai facillime deji- ciaotar, caprini. E il etiam discrimen, utram ca­sei molles ac recentes sint, an aridi et veteres. Cam molles sont, magis alibiles, in corpore non resides : veteres et aridi contra. Caseam facere incipiant a Vergiliis vernis exortis ad aestivas Vergilias; raulgent vere ad caseam faciundam mane, aliis temporibus, meridiani* horis, tametsi propter loca et pabulum disparile non usqae qnaque idem 6t ; in laciis daos congios addant coagulum magnitudine oleae, at coeat ; qaod melius leporiaam et hoedinam qaam agninum ; alii pro coagulo addant de fici ramo lac et ace­tum ; aspergunt ilem aliis aliqaot rebus, qaod Graeci appellant alii ©Vd*, alii cfoxfi/o*. Non ne­garim, inquam, ideo apud divae Rumiae sacel­lum a pastoribus satam ficam ; ibi enim solent sacrificari lacte pro vino, et pro lactentibus; mammae enim ramis, sive rumae, ut ante dice­bant, a rumi : et inde dicuntur sabrumi agni; lactentes, a lacte. Quin aspergi solent sales : me- Kor fossilis qosm marinus.

De tonsura ovium, primum animadverto ante quam incipiam facere, uum scabiem aut ulcera habeant, ut, si opus est, ante curentur, quam tondeantur. Tonsurae tempus inter aequinoctium

vernum et solstitium, cum sudare inceperunt oves; a quo sudore recens laua lonsa sucida ap­pellita est. Tonsas recentes eodem die perungun­tur vino et oleo: oou nemo admixta cera alba, et adipe suillo ; et si ea tecta solet esse, quam habuit pellem injectam, eam intrinsecus eadem re perinungunt, et tegunt rursus. Si qua in ton- snra plagam accepit, euro locum oblinunt pice liquida. Oves hirtas tondent circiter ordeaceam messem: in aliis locis ante foenisicia. Qaidam has io anno bis tondent, ut in Hispania citeriore, ac semestres faciunt tonsuras ; duplicem impen­dunt operam, quod sic plus putant fieri lanae ; quo nomine quidam bis secant prata. Diligen- tiores tegeticulis subjectis oves tondere soleat, nequi flocci intereant. Dies ad cam rem suman­tur sereni, et iis id faciunt fere a quarta ad de­cimam horam : quoniam sole calidiore lonsa ex sudore ejus lana fit mollior, et ponderosior, et colore meliore; quam demptam ac congloba*

di vacca, ma sono più difficili a digerirsi ; ven­gono poi quelli di pecora; quelli di capra no- driscono meno degli altri, ma più facilmente si digeriscono. V1 è anche differenza tra i for­maggi molli e recenti, e quelli che sono sec­chi e vecchi. Quando sono molli, nodrisoono di più, e non si arrestano nel ventricolo ; edil contrario succede, quando sono vecchi e sec­chi. Si comincia a fare il formaggio dal levare delle Pleiadi in primavera sino alle Pleiadi del­la stale (8). Per farlo io tempo di primavera» si roaogono gli animali nella mattina, e a mez­zodì nelle altre stagioni ; quantunque altrove non si faccia lo stesso, secondo la differenza dei luoghi e dei pascoli. Per coagulare due congii di latte, vi si mette dentro la grossezza di una oliva di presame (9). Il caglio di lepre e di bec­co è migliore di quello di agnello. Alcuni, invece di presame, nsano del lalle eh1 esce dai rami del fico e del l'aceto, ovvero altre cose (10). I Greci chiamano il latte di fico ora o«rdr (11), ora èaxqvw (12). Non negherò, io dico, che per questa ragione i pastori abbiano piantaloil fico presso la cappella della dea Rumina ( i3), poiché ivi sogliono sacrificare del latte e degli animali lattanti, invece di vino e di animali di due denti (i4)* essendoché le mammelle si chia­mano rumis ( i5), ovvero sis, come dicevano gli antichi, rumina ; e da qui é nato ancora che gli agnelli lallanti si chiamano subrumi (16) da rumi. Cossinio. Suolsi spargere (19) del sale sopra il formaggio : il fossile però è migliore del marino.

Intorno al tosare le pecore, esamino prima di cominciare, se hanno della rogna o delle ulcere, affinchè, se sia d1 uopo, si medichino prima di tosarle. 11 tempo della tosatura è tra T equinozio di primavera ed il solstizio, e quan­do cominciano a sudare le pecore: e appooto per questo sudore U lana appena tosata si chia­ma sucida (18). Nel medesimo giorno che si sooo tosate le pecore, si fregano con vino ed olio : alcuni vi uniscono anche della cera bian­ca e del grasso di porco. E se si sono tosale pecore che si sogliono coprire con pelle, si frega questa internamente coll* indinata inescolan» za (19), e nuovamente si coprono. Se si feri­scono ueir allo di tosarle, sopra la ferita si fa colare della pece. Le pecore di !ana grossa si tosano verso la raccolta dell1 orzo ; ed in altri luoghi verso il tsgliamenlo del fieno. Alcuni le tyosauo due volte all1 anno, come fanno quelli della Spagua citeriore, cioè le tosano ogni sei mesi (20). Fanno una doppia tosatura, appunto perchè credono di raccogliere maggiore quan-

' tità di lana : per la stessa ragione alcuni ta- | gliano i prati doe volte all' anno. 1 più dili-

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tim alii veliera, a l i i T e la m i Da appellaat ; ex quo- ram vocabolo animadverti licet, prius lanae vul- saram qaam tonsuram inventam. Qai etiam none vellunt, ante triduo habent jejunas, qaod laogaidae mino* radices Unae retinent. Omnino tonsores in Italia primam venisse ex Sicilia di­cuntor post R. C. A. GCGCLim ; ut scriptura io publico Ardeae iu literis ex tat, eosque adduxis­se P. Ticinium Menam. Olim tonsores oon fuisse, adsignificant antiquorum statnae, quod plerae- que habent capillum et barbam magnam. Susci­pit Cossinius : Ut fructum ovis e lana ad vesti­mentum, sic capra pilos ministrat ad usum nau­ticum, e t ad bellica tormeoU, et fabrilia visa. Neqqc non quaedam nationes harum pellibus sunt vestiUe, ut in Gelulia et iu Sardinia ; cu­jus usum apud antiquos quoque Graecos fuisse apparet, quod in tragoediis senes ab hac pelle vocantur et in comoediis, qui in ru­stico opere morantur, ut apud Caecilium in Hy« pobolimaeo babet adolescens, apud Terentium io Heautontimorumeno senex. Tondentur, quod magnb villis suut, in magna parte Phrjgiae ; unde Cilicia, et caelera ejns generis ferri solent. Sed qaod primum ea tonsura io Cilicia sit in­stituta, nomen id Cilicas adjecisie dicunt. Illi hoc : neque ab hoc, quod mutaret Cossioius ; et simul Vitnli libertus in urbem veniens ex hortis divertitur ad nos : Et ego ad te missus, inquit, ibam domum rogatum, ne diem festum laceres breviorem, et mature venires. Itaque discedi­mus ego et Scrofa in hortos ad Vitulum. Nigerio Turranii nostri; illi partira domum, partim

ad Lenatem.

genti sogliono mettere sotto le pecore che to­sano delle piccole coperte, onde non si perda alcun fiocco di Una. Per quest' operazione si scelgono giorni sereni ; e si fa verso la quarta ora del giorno sino alU decima (21), perchè tosando la pecora nel tempo dell* ardore del sole, essa suda (aa) ; e perciò la lana diventa più molle, più pesante e di miglior colore. La Una tosata e ridotta in globi èchiamata da al­cuni veliera, e da altri velumina (a3). Dalle quali voci si può raccogliere (a4) che prima si è trovato il modo di strappare la lana, e poi di tosarla. Quelli che anche al presente la strap­pano, sogliono tenerle digiune (a5) per tre gior­ni, perchè quando sono Ungoide e deboli, le ra­dici della Uoa sano meno attaccate. Di fatti, dicoio (26), i barbieri, per qoanto si dice, sono venuti in Italia la prima volta dalla Sicilia quattrocen­to cioquantaquattro anni dopo la fondazione di Roma (37), come trovasi scritto in on monumen­to pubblico nel tempio di Ardea (28), dal quale si raccoglie che sono stali condottila Roma da P. Titinìo Mena. Che i Romani non sieno sUti anticamente barbieri, lo dimostrano le statue de­gli antichi, parecchie delle quali hanno i capelli ed una lunga barba. Cossioio ripiglia il discorso: Siccome la pecora somministra il frullo delU Una pei vestili ; così la capra somministra i peli per la marina, per le macchine da guerra, che lanciano i corpi da lungi, e per gli strumenti de- gli artigiani (29). Vi sono alcune nazioni, le qua­li si vestono colle pelli di questi animali, come quelli di Gelutia e di Sardegna (3o). Quest' uso, per quanto apparisce, era in vigore anche presso gli antichi Greci, perchè i vecchi nelle tragedie, a motivo di queste pelli, si chiamano fia t (3 i): e parimente si chUmano così anche nelle com­medie quelli che lavorano alla campagna, come raccogliesi dal giovane nell' Ipobolimeo di Ce- cilio (3a), e dal vecchio nell' Eautontimorumeno di Terenzio (33). NelU maggior parte delU Fri­gia si tosano le capre, perchè hanno peli lunghu- simi ; e da di là si porUno in Roma delle mani­fatture di questi peli, che si ohiamano Cilicia. Ma perchè colale tosatura si è prima eseguita in Cilicia, così a quelle manifatture si è aggiunto il nome di Cilicie (34). Così egli disae; nè fuvvi •Icano che censurasse quanto aveva detto (35). In questo un liberto di Vitulo, che dai gUrdini era arrivato in città, si accosta a me, e dice : lo soao sUto spedilo per voi, e andava alU vostra casa per pregarvi di non accorciare il giorno d| fesU, e di portarvi per tempo presso il mio pa­drone. Partimmo dunque, o mio caro Nigro Tarranio, Scrofa ed io verso gli orti di Vita-Io (36) ; e gli altri parte si portarono alla propria

| casa, e parie presso Menate (37).

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M. TERENTII VARRONIS

D E R E R U S T I C A

LIBER TERTIUS

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CAPUT I

D i VILLATICIS FASTIOIIBUS.

C o n doM vitae traditae sint hominam, rustica et urbana, Q. P im i, dubium b o o est, quia hae ooa solam locom discretae sint, sed etiam tem­pore diversam originem habeant ; antiquior enim malto rustica ; qood fok tempus, cam rara ede­rent homines, neqae arbem haberent. Etenim vetustissimum oppidum eum sit traditum Grsc- eum, Boeotiae Thebae, quod rex Ogyges aedifi­cant ; in agro Romano Roma, quam Romulas rex : (Nara in hoc nunc denique est, ut dici pos­tit, non cam Ennius scripsit : « Septingenti sunt paulo plua aut minns anni, Augusto augurio post­quam inel ita condita Roma est » ). Thebae, qoae ante cataolysmon Ogygi conditae dicuntur, eae tamen circiter duo millia annorum et centum sunt ; quod tempus si referas ad iUud principium, quo agri coli sunt coepti, atque in casis et tugu­riis habitabant, nec murus, nec porta quid esset sciebant : immani numero annorum urbanos agri­colae praestant ; nec miram, quod divina nstura dedit agros, ars humsna aedificavit orbes; eum srtea omnes dicantur in Graecia intra mille anno- nim taptrlae, agri nunquam non foerurt in ter-

CAPITOLO IO

Dell' i s g i a s s a b b o u a j u h a l i ch b n a o o i u c o a o

h b l l ' i o t i b h o d i l l i c a s i d i v i l l a .

ccome si contano due generi di vita adottati dagli uomini, o Q. Pinnio (a), cioè la villereccia e l'urbana, così non v1 ha dubbio che queste non sieno distinte tra di loro non solo per la differenza di luogo, ma anche per quella del tempo, coi sale la loro origine : di fatti la campereccia è di lunga mano piò antica, perchè fuvvi un tempo, in eai gli uomini coltivavano i campi, seoia che vi fossero città. E vaglia il vero, la pià antica città della Grecia (3), secondo la tradizione, è Tebe nella Beozia, che è stata fabbricala dal re Ogige (4), come la pià «ntiea del territorio R*» mano è Roma, ch'è stata fabbricata dal re Romo­lo (perchè soltanto adesso, e non già al tempo in cui scriveva Ennio (5), si può dire con verità che sooo settecento anni, un poco piò, no poco meno, dacché sotto gli auspicii augosti è stata fabbricata P inclita città di Roma). Quantunque si dica che Tebe sia stata fabbricata avanti H diluvio di Ogi­ge (6), si poò non ostaote far salire la fondazione di qoesta città a duemila e cento anni ali' i od rea. Ma se questa antichità si confronti col principio della coltivazione de1 campi (7), e quando gli uo-

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ris, qai coli possint. Neqae solam tnliqaior cul­tor* agri, sed etiam melior. Itaque non sine causa majores nostri ex urbe in agrii redigebant suos cives, quod et io pace a rusticis Romanis aleban­tur, et in bello ab bis toebantur. Nec sine causa Terram eandem appellabant matrem et Cererem, et qui eam colerent, piam et utilem agere vitaro credebant, atque eos solos reliquos esse ex stirpe Saturni regis. Cui consentaneum est, quod Initia vocantor potissimum ea, quae Cereri fìunt, sacra. Nec minus oppidi quoque nomen Thebae indi­cant antiquiorem esse agrura^quod ab agri gene­re, non a conditore nomen ei eit impositum. Nam lingua prisca et in Graecia Aeoleis Boeoti i sine afflatu vocant collis Tebas : et in Sabinis, quo e Graecia venerunt Pelasgi, etiam nunc ita dicunt; cujus vestigium in agro Sabino via Salaria non longe a Reate milliarius clivus appellatur Thebae.

Cum agriculturam primo propter pauperta­tem maxime indiscretam haberent, quod a pasto­ribus qui erant orti, in eodem agro et serebant et pascebant: qui postea creverunt, peculia di­viserunt, ac factum, ut dicerentur alii agricolae, alii pastores. Quae ipsa pars duplex est, tamelsi ab nullo satis discreta, quod altera est villatica pastio, altera agrestis. Haec nota et nobilis, quod et pecuaria appellatur, et multum homines locu­pletat, et ob eam rem aut conductos, aul emtos habent saltus. Altera villatica, quod humilis vide­tor, a quibusdam adjecta ad agriculturam cum esset pastio, neque explicata tota separatim, quod sciam, ab ullo. Itaque cam putarem esse rerum rusticarum, quae constituta sunt fructus causa, tria genera, unum de agricultura, alterum de re pecuaria , tertiam de villaticis pastionibus : tres

mini abitavano sotto capanne e tugurii, a e n a sapere cosa si fosse un muro od una porta, gli agricoltori precedono di uno smisurato numero di anni gli abitanti di città. Nè ciò debbe recare maraviglia, perchè i campi ci sono stati dati d«l- T autore della natura (8), e perchè le città sono state fabbricale dall* arte umana. E tanto ciò i vero, che si accerta cbe non sono più di mille anni dacché in Grecia sonò stale trovate tutte le arti, quando che non si può determinare uo tempo, in cui non vi sieno stati sulla terra campi suscettibili di coltivazione. Nè solo la coltura dei campi è il più antico genere di vita, ma anche il migliore. E per questo, non senza ragione, i no­stri maggiori facevano che i cittadini passassero dalla città alla villa, e perchè in tempo di pace venivano nodriti dai contadini Romani, e perché in leropo di guerra erano difesi dai medesimi (9). Non senza ragione davano alla Terra indistinta- menle il uome di Madre e di Cerere; e credevano che quelli, i quali la coltivavano, conducessero la vita la più innocente e più utile, e che questi fossero i soli ch’eraoo rimasti della stirpe del re

‘Saturno (10). Un'altra prova dell' antichità della coltura de' campi si desume da ciò, che Initia (11) si chiamavano specialmente quei sacrifixii che si offerivano a Cerere. Nemmeno il oome di Thebae (ia) indica che sia questa città più antica de' campi ; perchè colai nome non le fu imposto in grazia del suo fabbricatore, ma per una certa specie di terra. Di fatti nell'antica lingua, e nella Grecia gli Eolii che souo usciti dalla Beoiia, danno, senza aspirazione, il nome di Tebae (13) alle colline. Parimente i Sabini cbe abitano un paese, ove i Pelasgi vennero dalla Grecia, anche oggidì chiamano in tal modo i colli ; del che ae ne vede uo vestigio nel territorio Sabino, nella via Salaria, non lungi da Rieti, ove si chiama Thebae un colle luugo mille passi.

L'estrema povertà ha fatto che l ' agricoltura nella sua origine fosse indivisa, e che qoelli, i quali erano nati da pastori, seminassero e faces­sero pascolare il medesimo terreoo; ma dopo che si arricchirono (1 4 ), divisero il loro patrimonio ; e quindi ne venne che alcuni furooo chiamati pastori, ed altri agricoltori. I pastori per altro vanno divisi in due classi, quantunque nessuno fino ad ora le abbia beo distinte; comprendendo la prima l ' ingrassare gli animali nell' interno delle case di villa, e l'a ltra l'ingrassarli nella campagna. Questa è nota e nobile, e si chiama pe­cuaria; ed a quest' effetto gli nomini molto ric­chi o prendono in affitto, o comprano de'boschi a pascolo ( i5). L' altra, cioè il pasturare gli ani­mali dentro la casa, perchè è sembrala nmile e bassa (16), è stata aggiunta da alcuni all* agrieoi-

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6 6 i DE RE RUSTICA LIB. 111. 6 6 3

libro* io iti lui, e queis duo scripsi; primum ad Fundaniam uxorem d* «fricuilura, seoundam de pecuaria ad Torranium Nigram ; qui reliquas est tertia* de v i lia licii fructibus, in boo ad te mitto, qood risus sum debere pro nostra Ticini- tale et amore scribere potissimum ad te. Cum enim villam haberes, opere tectorio et intestino, ac pavimenti* nobilibus lithostrotis spectandam, peram putesees esse, ui tais quoque literis exor­nati parie tea essent. Ego quoque, quo ornatior ea esse posaet fructu qoam facta, quo ad facere possem, haec ad te misi, recordatas de ea re ser­mones, quos de villa perfecta habuissemus; de quibas expooendU iuiliam capiam bine.

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CAPUT II

Da villa paaracTA.

Comitiis aediliciis, cum sole caldo ego et Q. Axius senator tribulis suffragium tulissemus, et candidato, cui studebamus, vellemus esse prae­sto, cam domum rediret, Axios : Mihi dum diri- meator, io quit, suffragia, vis potius villae publi­cae olamur um bra, qoam privati candidati tabella dimidiata aedificemus nobis ? O pinor, ioquam, non solum quod dioitur: Malum consi­lium, consci tori est pessimam: sed etiam bonom consilium, qui consulit, et qui consulitur, booum habendum ; itaque imus, venimus in villam. Ibi Appiam Claudium augorem sedentem invenimusio subselliis, ut consuli, si quid usos poposcisset, essft praeolo. Sedebat ad sinistram ei Cornelius Merula consolari familia ortus, et Fircellius Pavo Reatinus ; ad dextram Minutias Pica, et M. Pe­tronios Passer. Ad quem cum accessimus, Axius Appio subridens : Recipi* nos, inquit, in tuam ornithona, abi sedes inter aves ? Ille : Ego vero, inquit, te praesertim, cujos aves hospitale* etiam

tora ; n è , per qaanto io so , è stala trattata da alcuno in tutte le soe parti. E siccome io sono persuaso che nell' economia rurale hannovi tre strade per procurarsi de* fratti, cioè l ' agricoltu­ra , il pasturare il bestiame, e l ' ingrassale gli animali dentro le case di villa ; così ho stabilito di scrivere tre libri. E perchè ne bo già scritti due, il primo de'quali, che versa sopra l ' agricol­tura, l’ho intitolato a Fundania mia moglie, edil secondo, che tratta del pasturare il bestiame, a Turranio Nigro, non mi resta che >1 terzo, il quale ha per oggetto i frutti che si traggono dal- l'ingrassare gli animali nel riduto della casa rusti­cana, e che ho deliberato d 'indirizzare a te, cui il doveva in {specialità intitolare e per la nostra vici­nanza e per lo squisito tao gusto. E possedendo ta ana casa di campagna stimabile e per l'intonaoo in­terno delle muraglie e per gli eleganti pavimenti di pietra, hai creduto che potesse esservi ana man­canza, quando le pareti non fossero anche fornite di libri (17). lo pura» a oggetto di contribuire, per quanto è in me, che sia più elegante per parte dei frutti che potrai ritrarne, che pel fab­bricato, ti spedisco quest' opera ; per comporre la quale (18) ho dovuto richiamarmi alla memoria i discorsi che ebbi unitamente ad altri intorno al modo di rendere perfetta una casa villereccia. Da quanto segue adunque comincerò a ripigliare questi discorsi.

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CAPITOLO n

Dilla piararrA casa rusticaha.

Dopo che da Q. Assio senatore della mia tri­bù (1), e da me si diede il voto nei comizii (a) per l ' elezione degli edili per quel candidato (3) che ci stava a cuore ; e volendo noi essere a por­tala di accompagnarlo a casa : Vuoi tu, mi dice Assio, che in tanto che si separano e si numerano i voti, ci mettiamo, ora che il sole abbrucia, piut­tosto all' ombra della pubblica casa villereccia, che al coperto sullo la privata casuccia del candi­dato (4) ? lo sono persuaso, gli risposi, che sia vero non solo quanto si dice che un cattivo con­siglio è pessimo per chi lo dà, ma ancora che il buon consiglio è salutare e per chi il dà, e per chi il ricusa (5). Ci portammo dunque alla casa villereccia, ove trovammo Appio Claudio augure, sedente sopra uno scagno, ed in atteggiamento di dare dei consigli, se il bisogno l ' avesse ricer­cato. Sedeva alla sua sinistra Cornelio Merula di famiglia consolare, e F irceli io Pavo di Rieti ; ed alla destra sedeva Miuuiio Pica * e M . Petro-

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663 M. TK R Einil VARRONIS

■duo rector, q u u mihi apposuisti paoeis sole diebus in villa Eeitiot ad lacum Velini, eunti de controversiis Interamnatium et Reatinorum. Sed non haec, inqoit, tìUi qoanqoam aedificarunt majores nostri, frugalior ac melior eat « quam lua iUa perpolita in Reatioo. Nuncubi hio videa citrum aut aurum ? num minium aut arme­nium ? num quod emblema aut lithostrotum ? quae illic omnia contra. Et cum haec sit com­munis universi popuK, illa solius tua ; haec quo succedant e campo cives, et reliqui omnes, illa quo equae et asini : praeterea com ad reinpubli- cam administrandam haec sit utilis, ubi cohortes •d delectum consoli adductae eonsidant, ubi arma ostendant, obi censores censo admittant populum. Tua , inquit, haec in campo Martio estremo utilis, et noa deliciis sumptuosior, quam omnes omnium Reatinae? com et oblita tabulis est pictis, nec minus signi* ornata. At mea*vestigium ubi sit nullum Lysippi aut Anliphib, sed cre­bra satoris et pastoris. Etqpm villa a*n sit siae fundo magno, et eo polito coltura, tua ista neque agrum habet ullum , nec bovem, nec equam. Denique quid tua habet simile villae illius, quam tuos avus et proavos habebat ? nec enim, ut illa, foenisicia videt arida in tabulato, nec vindemiam in cella, neque in granario messim. Nam quod extra orbem est aedificiom, nihilo magis ideo est villa, quam eorum aedificia, qui habitant extra portam flnmentanam, aut iu Aemilianis.

Appius subridens : Quoniam ego ignoro, io* j|nit, quid sit ville, velim me doceas, ne labar imprudentia» quod volo emere a M. Sejo in Ostiensi vittam» Quod ai ea aedificia villae non

nio (6) Passero. Accostatici ad Appio, Astio gli dice sorridendo 3 Vuoi riceverci nella Ina ncoel- Kera (7), ora che siedi tra gii uccelli ? Al che ri­spose: lo vi riceverà, e particolarmente, cbe alcu­ni giorni sono nella tua casa villereccia di Rieti presso il lago di Piedilnoo (8) mi facesti mangiare degli ooeelli forestieri, de1 quali ne ho anoor* il gusto in bocca, allora quando mi portava ad ag­giustare le differente eh1 erano insorte tra qoelli di Terni e di Rieti* Per altro questa, soggionge egli ( quantunque i nostri maggiori abbiano fab­bricato piuttosto con ineleganza (9)), non è forse più semplice e migliore di quella elegante e for­bita casa che tn possiedi nel territorio di Rieti T Vedi tu qui alcuna opera di legno di cedro e di oro (10) ? Ci vedi forse brillare 1* armenio (11) oil minio ? o finalmente opere intarsiate o pavi­menti di pietra f In questa v' è tutto il contra­rio (ia], quantunque sia comune a tutto il popolo Romano, e quella appartenga soltanto a te : que­sta serve di ritiro ai cittadini che escono dai co- mizii, non che a tutti gli altri ; e quella non serve di ritiro che alle cavalle ed agli asini. Questa inoltre è di una utilità relativa all'amministra­zione della Repubblica, perchè qui si conducono le coorti ( i3) avanti i consoli (14)*» foooola scelta, ove queste fanno la mostra delle loro arme, ed ove i censori ( i5) fanno passare il popolo per farne la numerazione (16). Ma ripiglia Assio, quale credi tu che sia più rozza ed inelegante (17), questa tua situata nell'estremità del campo di Marte, e che accoppia in sè una magnificenza ed nna splendidezza, cui non istanno a pareggio tolte quelle di lotti gli abitanti di Rieti insieme, per­chè è ornata di pitture non solo, ma ancora di statue ; ovvero la mia, ove non v' è alcun vestigio di Lisippo (18) o di Antifilo (19), ma aibbene ove per tutto si trovano le tracee dell' agriooltore e del putore (ao)? Se non pud darsi unacasa rusti­cana senaa on gran fondo di terra ben co! ti rata (ai); e perchè mai qaesta tua è priva di terre, di buoi e di cavalle? Finalmente questa tna easa in ehe mai rssaomiglia a qoella che possedeva il Ino avo ed H too bisavo ? Di filiti nella tua non si vede, eome in questa de' tuoi maggiori, nè fieno seeéo sopra il Amile, nè vendemmia in cantina, nè meste sol granaio. Certamente ohe non ogni edifiaio, il quale sia posto fuori della città, è da dirsi nna casa campereccia, come non lo sono nemmeno gli edifizii di quelli che gli hanno fabbricati fuori della porta del Popolo, o fuori della porta degli Emilii (ai).

Appio gli dice sorridendo : Poiché lo ignoro oosa sia una casa di campagoa, vorrei che tn melo insegnassi, affinché noo m 'inganni per igno­ra n ti ara ohe veglio comprarne m i nel territorio

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sant, qaae asinam (aam, quemmihi quadra gin la mDlibas emtom ostendebas apad te, non habent, metao, ne prò villa emam Ostiae in litore Seja­nas aede». Qaod aedifidum hio me L. Merula impulit a t caperem habere, eam diceret nallam te accepisse villam , qaa magis delectatai esiet, cum apad eam diei aliquot fuiiset ; nec tamen ibi se vidisse tabulam pictam, neque signum ah e neam, aat marmoream alium : nihilo magis torcala vasa vindemiatoria, aut serias olearias, aut trapetas. Anxius aspicit Merulam, et: Quid igitur, inquit, est ista villa, si nec urbana habet orna­menta, neque rustica membra ? Cui ille : Non minus villa tua erit ad angulum Velini, quam neque pictor, neque tector vidit anquam, quam in Rosea, quae est polita opere tectorio elegan­ter, qoam dominus habet comroanem cum asino. Cum significaste! nuto, nihilo minus esse villam eam, quae eitet simplex rustica, quam eam, in qua esset ulrnmqae (et ea, et urbana), et rogaste! qoid ex his rebas colligeret : Quid ? inquit, si propter pastiones tuus fnndus in Rosea proban­das sit; et quod ibi pasritnr pecus ac stabulatur, recte villa appellatur : haec quoque simili de causa debet vocari villa, in qua propter pastiones fructus capiuntur magni. Quid enim refert, utrum propter oves, an propter aves fructus capias ? anne dulcior est fructus apud te ex bubulo pe­core, unde apes nascantur, quam ex apibus, quae ad villam in alveariii opus faciunt? et num plu­ris nunc tu e villa illic natos verres lanio vendis, quam hic apros macellario Sejus? Qui minus ego, inqait Axius, istas habere possum in Reatina villa? nisi si apad Sejam Siculum fit me), Corsi­cam in Reatino : et hic aprum glans cum pascit emticia, facit pingaem ; illic gratuita exilem. Ap­pius. Posse ad te fieri, inquit, Seianas pastiones non negavit Merula : ego, non esse, ipse vidi. Dao enim genera cam sint pastionum : unum agreste, in quo pecuariae sunt, alterum fidati- com, in qao sant gallinae, ac columbae, et apei, et caetera, quae in villa tolent pasci ; de quibas et Poenas Mago, et Cassias Dionysias, et alii qoid separalim ao dispersim in libris reliquerunt, quos Sejus legisse videtur, et ideo ex his pastionibus ex una villa majores fractus capere, quam alii faciunt ex toto fando.

M. Tssemzio V a b e u > e

di Ostia da M. Seio. Che se gli edifizii, i qaali non rinchiudono asini, com1 è appunto quel tuo che mi mostrasti, e per coi pagasti quattrocento- mila (a3) sesteirzii, non sono case di villa, temo che invece di comprare una tal casa, faccia acqui­sto nel lidp di Ostia di una semplice casa di Seio. E per questo L. Merola mi fece nascere il desi­derio di possederla, dicendomi che nessuna casa di campagna, in cui sia entrato (2^), lo dilettò maggiormente di questa, allorché stette parecchi giorni presso Seio, quantunque ivi non abbia trovato nè quadri, nè statue di bronzo o di mar­mo, o molto meno torchi, vasi per la vendemmia, orci da olio, o macinatoi. Assio goarda Merula, e gli dice : E qual sorta di edifìzio è codesta casa (25), priva com’ è di ornamenti di città e degli attrezzi rurali? Merula gli risponde: Forse che (a6) non sarà una casa campereccia quella che possiedi all’ angolo di Velino, quantuuque non abbia mai veduto pittore e imbiancatore, ugualmente di quell’ altra che hai nella campagna di Rosea, le di cui muraglie sono elegantemente intonacate, e di cui ne hai comune la proprietà coll’ asino ? Ed avendo fatto segno Assio che taoto era una casa da villa quella che era semplice, quanto quella ohe era elegante (27), interrogò Merula quale conseguenza quindi fosse egli per trarne. Quale conseguenza ? dice Merula : che se è da commen­darsi la tenota che possiedi nella campagna di Rosea pei pascoli, e se a buon diritto essa si chia­ma una casa di villa, perchè ili pascola il bestiame e gli si dà la stalla; per una pari ragione si debbe chiamare ugualmente casa di villa ogni edifiiio, da cui si traggaqo frutti considerabili, mercè i pascoli. Che imporla di fatti che i fruiti si trag­gano dalle pecore, o dagli uccelli ? Forse che trovi piò dolci i frutti che ritrai dai buoi, ani­mali che generano le api, che qoelli delle api, quando li lavorino negli alveari presso la casa rusticana ? Forse che quegli che condisce le carni porcine, vende a piò caro prezzo i verri, appan- to perchè sono nati nella tua casa di villa, di quello cho Seio venda i cinghiali a quelli che vendono il companatico (28)? Ma chi mi vieta, dice Assio, di avere queste api nella mia casa di villa di Rieti? E sarà vero che soltanto Seio fac­cia il miele Siciliano, e che nel territorio di Rieli non se n’ abbia che di Corso (29)? Che presto Seio i cinghiali diventino pingui, perché nodriti di ghiande comprate, e che presso me si sma­griscano, perchè nodriti di ghiande non com­prate? Appio gli risponde: Merula non nega punto che anche presso te non si possano ingras­sare gli animali, egualmente che presso Seio (3o):io posso per altro accertare di avere veduto al-

I tramenìi; Baffi due specie di nodrimeati (3i) ;

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M. TERENTII VARRONIS G2 8

CAPUT VII

D b b q u is b t e q u a b u s .

Lucienns: Ego quoque adveniens aperiam carceres, inquit, et equos emittere incipiam, nec solum mares, quot admissarios habeo, a t Alticns, singulos in foeminas denas, e qoeis foerainas Q. Modius Equiculus vir fortissimas etiam patre militari juxta ac mares habere solebat. Horam eqaoram et equaram greges qai habere volue­rint, ut babent aliqai in Peloponneso et in Ap- pulia, primam spectare oportet aetatem, quam praecipiant. Videndum ne sint minores trimae, majores decem annorum. Aetas cognoscitur equo- rum, et fere omnium qoi ungulas indivisas ha­bent, et etiam comatarum, quod equbs triginta mensium primnm dentes medios dicitur amittere, duo superiores, totidem inferiores ; incipientes qaartum agere annom itidem ejiciunt, et totidem proximos eorum, quos amiserunt, et incipiunt nasci quos vocant columellares. Quinto anno in­cipienti item eodem modo amittere bioos, quos caninos habent : tum renasoentes eis, sexto anno impleri : septimo omnes habere solent renatos, et completos. His majores qui sont, intelligi negant posse ; praeterquam cum dentes sint facti broc­chi, et supercilia cana, et sub ea lacunae, ex observatu dicunt eora equum habere annos sede­cim. Forma esse oportet magnitudine modica, quod oec vastos, nec minutos decet esse; equas clunibus ac ventribus latis, equos ad admissuram quod velis habere, legere oportet amplo corpore, formosos, nulla parte corporis inter se non con­gruenti. Qualis futuros sit equus, e pullo conje­ctari potest, si caput hahet non roagonm, nec membris confusis: si est oculis nigris, naribus noo angustis, auribus applicatis, non angusta juba, crebra, fusca, subcrispa, subtenuibus setis, implicata io dexteriorera partem cervicis, pectus lattina et plenum, humeris latis, ventre modico,

Resta a parlare del numero : certamente che non si formano troppe di asini,, perchè molti ai de­stinano a girare la macina, o alP agricoltura, quando occorra portare qualche cosa, ovvero anche ad arare, ove la terra è leggera, come nel­la Campania (6). Alcuni anche non li destinano che a portare de' pesi. Sicché nou si fanrio tro p ­pe di asioi se non se quasi dai soli mercadanli,i quali, per mezzo di asini che portano sol dor­so (7), da Brindisi o dalla Puglia fanno traspor­tare sino al mare dell1 olio o del vino, come an­che della biada o altre mercanzie.

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CAPITOLO VII

D b i c a v a l l i e d b l l b c a v a l l e .

Io pure, dice Lacieno, alla mia venuta aprirò la barriera, e principierò a lasciare libero il corso ai cavalli ; nè soltanto ai maschi^ dei quali, ia pari guisa di Attico, ne lengo uno per istalloot per ogni dieci femmine, ma anche alle cavalle, di cui il valoroso Q. Modius Equiculus era so­lito servirsene nelle armate (1), egualmente che de'maschi. Quelli che vogliono formare delle truppe di cavalli e di cavalle, come sono qaelle di alcune persone nel Peloponneso e nella Puglia, debbono prima esaminare P età ; e voolsi cbe si procuri (a) che non abbiano meno di tre, nè piò di dieci anni. Si conosce P età de’ cavalli, come anche quella di quasi tolte le bestie cbe non hanno separate le tjngbie, o che hanno le cor­na (3), perchè si dice che il cavallo di trenta mesi perde prima i denti di mezzo, cioè due in alto e due abbasso. Quando entra nel quarto anno, parimente ne perde altrettanti lateralmente a quelli che ha già perduti, e cominciano a na­scere quelli che si chiamano canini ; c nel princi­pio del quinto anno ne perde pure nella medesimi maniera due. Que’ denti che allora rinascono incavati (4), si riempiono nel sesto anno ; e nel settimo suole il cavallo averli tulli rinati e riempiti. Passato qaest’ anno, v' è op io ione che manchiuo i segni per conoscere l’ età, fuorché qoando i denti diventano molto prominooli, le sopracciglia bianche, gli occhi sprofondati nelle occhiaie, perchè allora si dice che il cavallo abbia sedici anni (5). Bisogna cbe le cavalle nella forma sieno di una corporatura moderata, perchè non hanno punto di grazia, quando sono troppo grandi o troppo picciole (6), che abbiano U groppa ed il ventre largo. I cavalli che si voglio­no adoperare por istalloni, bisogna sceglierli di grsnde corporatura, di bella forma, e bene prò-

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pecore mortai ero ni antere*, aot pavone*. Coi alle:Quid enim interest, otram morlicinatedilit voloorea, an pisoes, qaot nifi morloot etlit nun- qaam ? Sed oro l e , inquit, indace me in ? i a i disciplinae villaticae patliooit, ac vim formam- que ejo* expone, Merula, non gravale.

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CAPUT in

Q u i i » v il l a a a c u i r v K k ì n a l i vkl

VAICI POSSIHT.

Primum, inquit, dominnm tdealem et*e oportet earum rerum, quae io villa, circum?e eam aU ac pasci possint, ita a t domino tini frodai ao delectationi. E jui disciplinae genera tunt Ina, ornilhonei, leporaria, pitcinae. None ornithon*» dico omnium alilom, qaae inira pariete* villae tolent pasci. Leporaria te accipere volo, non ea qaae tritavi nostri dicebant, ubi soliti lepore* lint, ted omnia sepia, afficta villae qaae sant, et habent incluta animalia, qaae pateautnr. Similiter pùcinai dico eas, quae iu aqua dolci aut salta in­

banchetti dentro le porte di Roma. L. Alba- zio (39), uomo, come sapete, dottissimo, e le coi satire hanno del carattere Laciliano (4o), non diceva forae che la eoa tenuta nel territorio Albano era tempre superata dai nod ri menti de­gli animali nella easa di villa; poichì quella non gli frollava nemmeno diecimila sestertii% qaando che questa gliene rendeva piò di ven­timila ? Diceva ancora, che *e avesse potuto fab­bricare la ca»a di villa presso il mare, ed in luogo di suo piacere, si sarebbe procurata ana rendita oltre centomila sestertii (4 0 - Dimmi : non è forse vero che M. Catone (4*) accettò ai gioroi nostri la tutela di Lucullo (43), e che dalla vendita del pesce delle peschiere di questo abbia tratto quarantamila sestertii (44)? Mio caro Merala, dice Astio, pregoti di accogliermi quale scolare, ed insegnarmi Parte di nodrire gli ani­mali nel ricinto della casa di villa. Merula gli risponde : Aniichè darò principio noo sì tosto che mi avrai promesso il mio Minerval, cioè un pranzo (45). Assio dice : Io acconsento a ciò an­che in ^ É i , anzi sovente li farò mangiare degli animali nodriti in quella gaisa che la m’ inse­gnerai (46). Appio ripiglia : Sono permaso che non sì tosto moriranno nelle troppe degli ani­mali co»ì nodriti de’ pavoni o delle oche, che me li farai mangiare. Assio gli risponde : Che im» porla che si mangino gli ncoelli od i pesci morii naturalmente, perchè non si mangiano se non quando sono morti ? Ma pregoti, o Merula, gli dioe, d’ iniziarmi nell' arte di nodrire gli animali nell* interno della casa di villa, e di espormi tutti gli oggetti, sai qaali si aggira, non che i metodi di praticarla. Merula di bnon animo coti principia (47).

Gjo

c a p it o l o in

D i g l i A n i à L i a i a s i f o s s o v o aooaiaa o b i l l ' i i -

T U B O DELLA GASA DI VILLA, O IVTOABO LA H l-

DBSiaA*

Bisogna prima che il proprietario sappia qaa­li beatie paò nodrire e far pascolare nell’ io terno di ana casa di villa, o ne’ suoi coutorni, onde ae tragga profitto e diletto. Quest’ arte abbraccia tre oggetti : le ucoelliere, i leporarii, le peschie­re. S’ intende nel nostro secolo per nccelliera on luogo dentro la casa di villa, ove suolsi nodriro ogni specie di volatile. Per leporarii tu non devi intendere quelli che così chiamavano i nostri an­tichi, ne’ quali mettevano soltanto le lepri (1), ma la lli i recinti che tono annessi (a) alla casa di

DE RE RUSTICA LIB. III.

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datos habent pisces ad villam. Haram singule genera minimum in binas species dividi possunt; In prima parie al fini, quae terra modo sunt con­ico It, ut sunt pavones, tortores, turdi; altera Species sunt, quae oon sunt conteoU terra solano, sed etiam aquam requirunt, u t sunt anseres, querquedulae, anales. Sic alterum genus illud venaticam duas babet diversas species : unam, iu qua est aper, caprea, lepus. Altera item extra villam quae sunt, ut apes, cocleae, glires. Tertii generis aquatilis item species duae, partim quod babent pisces in aqua dulci, parlim quod in ma­rina. De bis sex partibus: ad ista tria genera ar­tificum paranda, aucupes, venatores, piscatores, aut ab bis emenda, quae tuorum servorum dili­gentia taearis in foelura ad partus, et naia nutri- cere sagiuesque, in macellam ut perveniant. Ne­que non eliam quaedam assumenda in villam tine reiibus aucopii, venatoris, piscatoris, ut glires, cocleae et gallioae.

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67‘

Earum rerum eultara institata prima, ea quae iu villa habentur ; non enim solum aogares Romani ad auspicia primum pararont pullos, sed eliam patres familiae rare. Secunda, quae macerie ad villam venationis causa eluduntur, et propter alvearia ; apes enim subter sobgruodas ab inilio villatico usae tecto. Tertia piscinae dalces fieri coeptae, et e fluminibus captos recepere ad se pisces. Omnibas tribas bis generibus suat bini gradus : superiores, quos frugalitas antiqua ; in­feriores, quos luxuria posterior adjecit. Primus enim ille gradas antiquus majorum nostrum erat, in quo essent aviaria, duo dantaxat: in plano cohors, in qua pascebantur gallinae, et earum fructos erant ova et pulli ; alter sublimis, in quo erant columbae in turribus aut summa villa. Gonlra, nunc aviaria saot nomine motato, quod vocantor ornithones, qaae palatam soave domini paravil, ot tecta majora habeant, qaam tam ha­bebant totas villas, io quibus stabalentur turdi ac pavones. Sic in secunda parli àc leporario pa­ter tuos, Axi, praeterquam lepusculum e venatio­ne vidit nunquam. Neque enim erat magnum i(l sepium, quod nunc, ut habeant multos apros ao

villa, e che rinchiudono io tè degli animali che si nodriscono. Similmente per peschiere inten­do quelle vische d'acqua dolce, o salsa, che •ono vicine alla casa di villa, e che rinchiudono in sè dei pesci. Ognuno (3) di questi oggetti si saddivide almeno in dae classi; cosicché nella prima v' entrano gli animali, cui basta la terra, come i pavoni, le tortore, i tordi ; e nella se­conda quelli che oltre la terra ricercano anche 1’ acqua, come le oche, le sarchetole e le anitre. Del pari l’altro oggetto, che appartiene alla cac­cia, si divide altresì in due classi ; la prima delle quali comprende i cinghiali, le capre selvatiche, le lepri; e P altra quegli animali che si allevano parimente fuori della casa di villa, come le api, le lumache, i ghiri. II terso oggetto, che abbrac­cia gli acquatili, si divide egualmente in due classi, perchè parte dei pesci si nodriscono nel- l ' acqua dolce, e parte nella salsa. È da trattarsi adunque di queste sei parti. Per ognuno dei tre oggetti bisogna apprestare parimente tre specie di artefici, cioè uccellatori, cacciatori, pescatori, ovvero da questi bisogna comperare quanto hi d1 uopo, affinchè colla diligensa de1 tuoi schiavi tu possa provvedere a quelli animali dal oonee- pimento fino al perto, nodrire ed ingranare i loro figli fino • che sieno in istato di essere por­tati sul mercato. Bisogna ancora allevare nel re­cinto della casa villereccia alcuni animali, come i ghiri, le lumache e le galline, quali non si pren­dono colle reti dell1 uccellatore, del cacciatore e del pescatore.

Intorno a quest’ oggetto, gli uomini si sono primieramente occupati (4) di qaegli animali che •i hanno nelP interno della casa villereccia ; im­perocché gli auguri Romani non sono stali sol­tanto i primi che sicnsi serviti di polli negli an- spixii, perchè anche i capi di casa ne ebbero nelle loro campagne. Dopo si volsero ai recinti chiusi di muri in vicinanza alla casa rusticana a motivo della caccia ; e gli alveari (5) si eccettuarono; perchè le api in principio erano assuefatte a slare sotto il tetto dei portici della casa campestre (6). In lerxo luogo n occuparono in fare delle pe­schiere di acqua dolce, nelle quali si gittarono i pesci presi nei finmi. In tutti quesli tre oggetti si considerano due stati : lo stalo de’ nostri anti­chi, che si limitava alla frugalità ; e quello, coiil lusso ,de’ posteri diede sì grandi aumenti. Di fiatli nel primo ed antico stato del primo ogget­to, i nostri antichi non destinarono che due luo­ghi pei volatili ; un luogo basso pel cortile, nel quale nodrivano le galline, ed i frutti di queste erano le uova ed i pulcini, ed un luogo elevalo, come le torri o il tetto dell’ edifizio, ove mette- vanii le colombe. Per contrario oggidì si è can-

6 7 »M. TERENTII VARRONIS

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capreas, complora jogera maceriis concludant. Noo tam, inquit mihi, cam emisti fandam Tusca- lanam a M. Pisone, io leporario apri fuerunt ■n it i ? In tertia parti qais habebat piscinam, nisi dulcem, et io ea dantaxat squalos ac mugiles pisces ? Quia contri none Rhinton oon dicit sna nihil interesse, atram iis piscibus stagnam habeat plenam, an ranis ? Non Philippus cum ad Immi- diam hospitem Casini divertisset, et ei e tuo flu­mine lupom piscem formosam apposaisset, atque ille goslasset, et expoisset, dixit: Peream, oi piscem potavi esse? Sic nostra aetas, inquam, luxuria propagavit leporaria, ac piscinas protulit ad mare, et in eas pelagios greges piscium revo­cati!. Non propter hos appellati Sergios Orata, et Licinias Marena ? Qais enim propter nobilitatem ignorat piscinas Philippi, Hortensii, Localiorum ? Qaare onde Telis me incipere, Axi, dic.

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CAPUT IV

Di a v ib u s h i o b m r x .

lUe : Ego Tero, inquit, ( ot ajont ) post prin­cipia in castris, id eat, ab bis potius temporibos, qoam superiori bos : qood ex pavooibos fructui capiootor majores, quam e gallum. Atque adeo non disaimoUbo, qaod volo, de ornilhooe pri- idiib, qaod lacri fecerunt boo nomea turdi, se- xagiota enim millia Fircellioa ex cande me fece­rant eopidilate. Merula : Duo suot, ioqoit, orni­thonis geaera ; ooum delectationis causa, ot Var­ro hic fecit noster sub Casioo, qood amatore» ioveoit m altos ; alteram fractas causa, qao ge­nere macellarii, et io orbe quidam habent loce

giato nome al loogo destinato agli occelli, per­chè si chiama ornithon ; e questo appresta cibi più delicati al palato dei proprietario (7) ; ed ora i tordi ed i pavoni albergauo in edifizii pià grandi di quelli che ooa T o lta occapavaoo le io- tere case di villa. Parimeote riguardo al secoudo oggetto, cioè al leporario, il padre tuo, o Assio, non vide certamente io questo altri aoimali da caccia, fuorché i leprettini. Effettivamente allorail parco non era tanto grande, quanto oggidì, per­chè ora si cingono di mori molte jugera di ter- reoo, affinchè possano contenere molti cinghiali e molte capre sabatiche. Forse che, mi dice, al* lora quando to comprasti da M. Pisone (8) la te­nuta di Frascati, non vi erano nel parco molti cinghiali ? Quanto al terso oggetto, noo è forse certo che a l lo r a 000 v' erano che peschiere di a- eqoe dolce, e che queste noo albergavaoo altri pesci, fuorché gli squali (9) ed i muggini ì Hav- t ì per eoo Irario oggidì un solo Ehinton (10), il quale non dica ad a l ta voce che voole ed uoa pe­schiera pieoa di quei pesci, ed aoa piena di rane f Filippo esseodo aodalo ad alloggiare a Cassino presso Ummidio (11), ed avendogli questi appre­stato oo bellissimo pesce lapo (12) che aveva pe­scato nel tao ( t3) fiume, dopo che l ' ebbe assa­porato e sputato, noo disse : Muoia, se oon l'ho preso per oo pesce ? 11 lasso del nostro secolo altresì (i4) ha esteso i parchi, ed ha proluogato sino «1 aure le peschiere, ed io queste si so d o

trasportate molte troppe di pesci marioi. A que­sti pesci forse noo debbono il loro nome Sergio Orata ( i5) e Licinio Moreoa? E chi non conosce per la loro celebrità le peschiere di Filippo, di Ortensio (16), e dei Lucolli ? Merula (17)* mi, o Assio, da quale parte t o o ì ta che io prin­cipii ?

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CAPITOLO IV

Digli uccklli ih gbhekali.

Qaanto a me, dioe Assio, amo meglio, come si dice, restare dopo le principia (1), vale a dire, Tederli cominciare piuttosto dai preienti tempi, che dai passati, perchè i pavoni frullano più del­le galline. Non ti dissimulerò per altro che vo­glio che locomioci dalle uccelliere, perchè i lor­di guadagoarono questo nome ; e il frullo dises- santemila sestertii, che Fircellina (2) ritrasse da qoesli, mi fa ardere di voglia di possederne. Me- rela dice : Hannovi due specie di uccelliere ; una che è da piacere, oom1 è quella che il nostro Varrone qui presente ha fabbricata sotto Cas-

6 7 /,DE RE RUSTICA LIB. III.

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6?5 M. TERENTII VARRONIS G;6

clausa, ct rare maxime condocta in Sabinis, qaod ibi propter agri nataram frequentes appareo! tordi. Ex bis tertii generis volait esse Lacullas e o o jo D C to m aviariam, qood fecit io Tuscolano, n t in eodem tecto ornithonis inclusum triclinium haberet, obi delicate coeoi tare t, et alios videretio maxonomo positos coctos, alios volitare cir- com fenestras captos. Quod inutile invenerant. Nam non tantam in eo oculos delectaat intra fe­nestras aves volitantes, quantam offendit, qaod alienas odor opplet na rea.

c a p u t v

D b t u b d is .

Sed qood te malle arb itro r, A xi, dicam de boo ornithone, qood fractos caasa faciant, aode, non obi, samaotnr pingues tardi. Igitar testudo ( a t peristylam teclom tegulis, aat rete) fit ma­gna, io qoa millia aliqoot turdorom ac merola- ram incladere possiot. Qaidam com eo adjicioot praeterea aves alias quoque, qoae pingoes veneant care, nt miliariae ao coturnices. Io boc tectam aqaam venire oportet per fistalam, et eam potias per canales angastas serpere, qaae facile exter­geri possint ; si enim late ibi diffusa aqaa, et inquinator facilias, et bibitor inotilius ; et ex eis caduca ( qaae abundat, ) per fistulam exire, ne lato aves laborent. Ostium habere bamile et angustam, et potissimum ejus generis, quod cocbleam appellant, ot sólet ease in cavea, in qoa taori pugnare soleo t. Fenestras raras, per qaas poo videantar extrinsecus arbores, aat aves; qood earum aspcctus ao desiderium macrescere facit volocres inclusas. Tantam luminis habere oportet, ot aves videre possiot abi assidant, obi cibas, obi aqua sit. Tectorio tacta esse levi cir­cum ostia ac fenestras,ne aqua intrare, mos, alia ve quae bestia possit. Circam bojas aedificii parietes intrinsecos mullos esse palos, obi aves assidere possint; praeterea e pertieis inclinatis ex homo ad parietem, et in eis transversis grada- tim modicis intervallis perticis annexis, (ad) spe­ciem cancellorum scenicorom ac theatri; deor­sam io terram esse aquam, qaam bibere possint ;

siuo (3) ; e di questa molti oe tono amanti : V al­tra è da fratto : questa è prescelta dai venditori di commestibili : anzi alcuni hanno a quest* og­getto de’ luoghi chiusi in città, e alla campagna soprattutto nel territorio Sabino, ove le affit­tano, perchè ivi sono frequenti i tordi, a motivo della qualità del terreno (4). Lucullo dall'unione di queste due specie, ha dato origine ad nn' altra uccelliera, come ha fatto nel territorio di Fra­scati, ove nell' interno dell' uccelliera (5) e sottoil medesimo tetto ha fabbricato un tinello (6), affinché potesse mangiare morbidamente, e ve­dere dei tordi cotti disposti sul piatto, nel men­tre che altri imprigionali volavaoo d ' intorno le fenestre. Ma questo trovato non si è accolto ; perchè Io spettacolo cbe offrono qaesti accetti che volano tra le fenestre, non ricrea tanto la vi- sta (;), quanto sono ammorbste la narici riem­piute di un odore sì stravagante.

c a p it o l o v

Dai t o b d i .

Ma come parrai che la voglia, o Assio, dirò primieramente di qoell' uccelliera che si fa per trarne frutto, e da cui si traggono I tordi ingras­sati ; non già di quella in cui si msogiaoo (i). Si fa duoque una copola ( ovvero un peristi­lio (a) coperto di tegole, o di una rete) grande, nella quale si possano rinserrare alcnne migliaia di tordi e di merli. Quelli che vogliono, vi ag­giungono inoltre (3) degli altri occelli, i qoali, qoaodo sono ingrassati, si vendono a caro pres­to , come gli ortolani (4), e le qoa gli e. Si fa ve­nire 1' acqua in qnesta sala a volta per mesto di un canale, e si fa passar in piccioli canali (5) ser­peggianti, perchè in tal modo possono facilmente nettarsi ; laddove se I' acqua si spargesse in lar­go, di leggeri si sporcherebbe, e noo sarebbe buona abeverai. Bisogna che 1' acqua caduta (6) esca fuori per metto di un canale, affinchè gli uccelli non patiscano pel fango. Bisogoa che la porla sia bassa e stretta, e sulla forma di quelle cbe si chiamano cochleae (7) negli anfiteatri de- atinati ai combattimenti dei tori. Le fenestre haono da essere poche, e disposte in guisa, ohe non si veggano nè alberi, nè uccelli al di fuori, perchè la veduta di questi e di quelli farebbe smagrire di desiderio gli occelli rinserrati. Ha da esservi tanta luce, quanta fa mestieri agli uc­celli per vedere ove possano reggersi in piedi, ove siavi il cibo e 1' acqua. S ' intonacherà 000 diligenza con un intonaco reso liscio I' esterno

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cibato! offu poti U t; ete maxime glomerantor ex ficii et farre mix lo. Dieboi vigiliti antequam quis tollere Tult tardo», largius dat cibum, qaod pio» ponit, et farre sobliliore incipit alere. In hoc tecto caveaque labalata habeaot aliqaot ad perticae sapplementom. Contra hoc aviariam est aliad minat» So qao qoae mortuae ibi sant ave», Qt domino oameram reddat, curator servare solet. Ctim opos sunt, ex hoc aviario ut soman- tor idoneae, excladantur ia minascalam avia­riam, qaod «st conjunctam cam majore ottio, lamine illustriore, qaod secla sori aro appellant. Ibi com eam nomerum habet exclasom, qaem •amere vult, omnet occidit. Hoc ideo in teclaso dam,ne reliqai, si videant, despondeant animam, atqae alieno tempore venditoris moriantar. (Non Qt advenae yolocres pollot faciant, in agro cico­niae, in tecto hirundines, sic aat hio aat illio tordi, qai cam sant nomine roares, re vera foe- minae quoque suot: neqae id non secatam a t esset in merulis, qaae nomine foeminino mare» quoque sin t. Praeterea volocrescom partim adve­nae sint, ut hirondioes et groes ; partim verna- colae, a t gallinae ac colombae : de ilio geoere sant ta rd i adventicio, ae qaotannis in Italiam trans mare advolant circiter aeqainoctiam autu­mnale, et eodem revolant ad aeqalnoctiom ver­nam . E t alio tempore tortore» ac coturnice! immani namero ; hoc ita fieri apparet in insulis propinquis Pontii», Palmariae, Pandatariae. Ibi enim in prima volatura com veniunt, morantor dies paucos requiescendi causa. Idemqae faciant cam ex Italia trans mare remeant). Appias Axio: Si qoinqae millia hac conjecerit, inquit, et erit epulum ao triumphas, texaginta millia qaae vU, statim in foenat des licebit.

giro delle porte e delle finestre, acciocché per ivi (8) non posta avere ingresso nè sorcio, nè alcuna altra bestia. Si ficcheranno molli pali den­tro ed intorno le pareti interne di questo edifi- zio, sopra i quali possaoo poggiarsi gli uccelli: inoltre si pianteranno in terra delle pertiche, ma obbliquamente (9), cosicché la loro estremità su­periore tocchi la parete: sopra queste se ne at­taccheranno delle altre trasversalmente, che sa­ranno tra di loro parallele e poco dittanti, co­ree sono a un dipresso i cancelli (10) dei teatri. Quaoto al cibo dei tordi (11), loro si daraono del­le masse formate specialmente di fichi misti alla farina : inoltre si daranno ad essi di quei grani che sogliono mangiare, • particolarmente quelli che mangiano con avidità. Venti giorni avanti di levarli dall’ aceelliera, ti darà ad essi maggiore copia di cibo, • si comincerà a nodrirlì con fa­rina piò sottile (ia). In questo edifizioedin que­sta gran gabbia sianvi, oltre le pertiche, alcuni tavoUti fi 3). Accanto a questo si fabbrica un'no- celliera più piccola ( i r n e l l a quale il custode degli uccelli suole nerbare quelli che sono morti, onde rendere al proprietario an conto esatto dei medesimi. Quando occorre levarne dall’ uccel­le rà , si traggooo fuori i boooi ( i5), e ti mettono nella picciola che vi è attaccata, che ha ana por­ta (16) piò grande della prima, e che nello stesso tempo è anche più lucida : questa picciola si chia­ma seclusorium (17). Quando ivi si sono fatti passare quegli uccelli rho ai sono voluti estrar­re dall* uccelliera, tutti si aramaxzano, ma di nascosto ; perchè se gli altri vedessero questo occisioni, fi dispererebbero, e morrebbero ; il che non piacerebbe al venditore. Sonovi degli Uccelli di passaggio, che partoriscono dei fi­gli (18), come le cicogne nelle campagne, e lo rondinelle sotto il tetto ; ma non è lo ttesto dei tordi, i quali oon generano qui nè in nn loogo, nè In on altro: e quantunque i tordi si chiamioo turdi con nome mascolino, non è per questo da dirsi che non vi sieno anche delle fem­mine, come non è da dirsi che non vi abbiano dei merli maschi, quantunque portino on nome femminino, cioè merulae. Inoltre gli uccelli sooo parte forestieri, come le rondinelle e lo gru; e parte nativi, come le gallioe e le colom­be : della prima specie (19) sono i tordi, i quali tutti gli anni volano in Italia da oltramare verso I’ equinozio autunnale, e ritornano d’ onde tono partiti verso quello di primavera (ao). lo un al­tro tempo comparisce iu Italia un numero ster­minato di tortorelle e di quaglie, il cui passaggio ù osserva nelle vicioe isole di Ponza, di Pai ma- rola e di s. Maria (ai), ove soggiornano pochi giorni, a oggetto di riposarti, allora quando vea-

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6 79 M. TERENTII VARRONIS

Tam mihi: T a dic illad alleram genus orni­thonis, qui animi cama constitutus a te sub Casi­no fertur, in quo diceris longe vicisse non modo •rchetypon inventoris nostris ©pviborfopitàiv M. Laenii Strabonis, qui Brondusii hospes noster primus in peristylo habuit exedra conclasas aves, quas pasceret objecto rete, sed eliam in Tuscu­lano magno aedificio Luculli. Cui ego: Com ba- beam sob oppido Casino flumen, quod per villam fluat liquidum et altum, marginibus lapideis, latum pedes l v i i , et e villa in villam poutibus transealur, longum p. d ccccl , directura ab insula (ad Museum), quae est ab imo fluvio, ubi confluit altera amnis ad summum flamen, ubi estMuseum. Circum hujns ripas ambulatio sub dio, pedes lata denos. Ab hac ambulatione in agraro versus, ornithonis locas ex duabns partibus dextra et sinistra maceriis altis conclusus. Inter quas locus, qui est ornithonis, patet in latitudinem p. x l v i i i ,

deformatus ad tabulae lilerariae speciem cum ca­pitulo. Forma, qua est quadrata, patet in longi­tudinem p . l x x i i ; qua ad capitulum rotundus est, p . xx?ii. Ad haec, ita at in margine quasi infimo tabulae descripta sit ambulatio, ab orni­thone plumula, in qua media suot caveae, qua introrsus iter in aream est. In limine, in lateribus dextra et sinistra porticus sunt primoribus colu­mnis lapideis, intermediis arbusculis humilibus ordinatae, cum a summa maceriae ad efflstylium tecta porticas sit rete cannabina, et ab epistylio ad slylobaten j hae sunt avibus omne genus op- pletae,qnibus cibus ministrator per retem, et aqua rivulo tenui affluit. Secundam stylobatis interio­rem partem, dextra et sinistra, ad summam aream qnadratam, e medio diversae daae non latae, sed oblongae sunt piscinae ad porticos versas. Inter eas pisoinas tantummodo accessus semita in tho­lum, qui est altra rotundas oolumnatus, ut est in aede Catuli, si pro parietibus feceris columnas. Extra eas colamnas est silva mana sata, grandibus arboribus tecta, nt infima perluceat, tota septa maceriis altis. Intra tholi colamnas exteriores lapideas, et totidem interiores ex abiete tenues, locus est p . v latus. Inter columnas exteriores pro pariete reticuli e nervis sunt, ut perspici in silva possit, et quae ibi su n t, neque avis eas transire. Intra interiores columnas pro pariete rete avia­rium est objectum. Inter has et exteriores gra­datimi substructum, ul £iar?/cf<or avium ; mu-

gotto ia Italia; ed ove dei piri soggiornano, quando abbandonano V Italia per ripassare il mare. Appio dice ad Asaio : Se porrai cinquemila occelli in an ' uccelliera, e che siavi qualche pub­blico banchetto od «n trionfo, potrai tosto dare ad interesse quei sesuntamila sestertii che tu so­spiri (aa).

Indi volgendosi a me : Descrivimi qneiraltra specie di occelliera che, per quanto si dice, hai formata per piacere presso Cassino, e nella costru­zione della quale si pretende che tu abbia dilunga mano superato non solo il too modello, cioè M. Lenio Strabone (a3), inventore di qaeste uo- celliere, e che fu il primo a Brindisi ( ove mi ac­colse qual ospite) a rinserrare edano d rire in un gabinetto fatto a peristilio e coperto di reti degE uccelli ; ma ancora q n e l la che si ammira D e ll 'am­plissimo edifizio di Lucullo posto nel territorio di Frascati. Tu sai, gli dissi, che ho presso la città di Cassino u n finme che passa per la mia casa di villa, e chè ha un’acqua chiara e profon­da : le ripe sono di pietra (24) ; è largo cioqaa»- taselte piedi, e si passa dalla c a s a di villa al- l ' isola per mezzo di ponti (a5) : è fungo nove- centocinquanta piedi, e si dirige dal!' isola verso10 studio : qaesta è situata nella parte più bassa del fiume, ove se ne unisce un altro. Nella parte superiore del fiume e lateralmente alle ripe, hav- vi un passeggio scoperto, .largo dieci piedi (26). Tra questo passeggio e la campagna è situata U mia uccelliera, rinchiusa a destra ed a sinistra da alte mura, le quali lasciano tramezzo un luogo per T uccelliera, eh' è ( che rappresenta a nn di­presso una tavoletta da scrivere fornita di una lesta rotooda (37) ) di forma quadrato, largo qua­rantotto piedi, lungo settanladue, e che nella parte rotooda ha ventisette piedi di più. Inoltre11 passeggio è delineato in maniera di formare come il margine inferiore della tavola, ed è dis­giunto d«IP uccelliera : nel mezzo del passeggio havvi un ingresso cbe conduce nell'area dell1 uc- celliera (28). La principale facciata ha lateral­mente a destra ed a sinistra un portico regolare, le cui colonue anteriori di pietra (29) hanno tra­mezzo dei piccioli alberi e poco alti. La sommità dei mnri laterali a destra dell’ architrave interno del portico, è coperto da una rete formata di filo di canape: ed un’altra simile rete pende dall’ ar­chitrave sino al piedestallo continuo (3o). Queste sono le gabbie piene di ogoi specie di uccelli (3 1 ), ai quali si dà il cibo attraverso la rete, e la be­vanda è loro somministrata per mezzo di on ru­scelletto. A qualche distanza (3a) dalla faccia in­terna del piedestallo continuo ( tanto da quella che è dall’ ingresso principale sino al muro a de­stra, quanto da quella che è da questo medesimo

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tali crtèri oraoibut colUiafill Capotili, tedili» aviam. Ialra retem avei toni osine genos, max» fbe cantrices, o t lusciniolae ao merolee, quibui sqaa ministrator per cafia)tcul»m, cibai objicitor tab reterà. Sabter columnarum stylobatem est lapis a falere pedem et dodrantem alta ipsnm fàlere ad dao pedes altom a stagno, latam ad quinqoe, ot ia eafeitas et colamellas ooavivae pedibos circumire possint. Infimo intra falere est stagnùm com margine pedali, et imnla in medio parra. Circum falere et navalia sant exca­vata anatiom stabola. In insnl* est colameli#, in qua intos axis, qai prò mensa sastinet rotam radiatam, ita a t ad extremam, obi orbile solet esse aeatnm, tabula cavata sit, o t tympanum in latitudinem dao pedes et semipedem, in aitila- dioem palmam. Haeo ab ano paero, qai ministrat, ita vertitor,a t omnia ana ponantar et ad biben­dam et ad edendam, et admoveantar ad omnes convivas. Ex soggetto faleris, nbi solent esse frifim+rarfActra, prodeant anates in stagnam, ao nant, e qao rivas pervenit in dnas, qaas dixi, piscinas, ac piscienti nitro ac citro commeant: cam, et aqaa ealida et frigida ex orbi ligneo men­sa qo e, qaam dixi in primis radiis esse, epitoniis versis ad unumquemque, factam sit, nt fluat in convivam. Intrinseco* sab tholo steli* luciter in­terdi u, noeta hesperas,ita circameant ad infimam hemisphaerium, ac moventor, a t indicent qnot sint horae. In eodeip bemisphserio medio circam cardinem est orbis ventornm octo, ut Athenis in horologio, qaod fecit Cyrrhestes ; ibiqae eminens radias a cardine ad orbera ita movetur, a t eam tsogat ventam, qui flet, ot intes teire possis. Cam haec loqueremur clamor fit in campo. Nos athle­tae comitiorum ana, cum id fieri non miraremur propter studia suffragatorem , et tamen scire vellemus, quid esie t, venit ad nos Paotalaeius Parra. N arrai ad tabulam, cum diriberent, quen- daoa deprehensum tesserolas conjicientem io lo­culum, eum ad consulem tractum a fautoribus competitorum. Pavo surgit, qaod ejus candidati costos dicebatur deprehensos.

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M. Teekrzio Vahou*

ingresso tino al murò a sinistra), cominciano due peschiere poco larghe, ma allungale, e situate io direzione contraria a quella del portico : queste si estendono sin pretto V estremità della parte quadrangolare del piano. Tra queste due pe­schiere havvi un sentiere tanto largo, quanto basta per poter passare oltre il piano quadran­golare, e portarsi nell* edifizio rotondo fatto a colonne, e simile a quello di Catulo (33), se in luogo di colonne si mettessero de'muri. Oltre queste colonne, vi ha un bosco piantato colle mani, coperto da altissimi alberi ; ma io guisa che sia chiara tutta la parte inferiore: questo bosco è qoati tatto (3^) circondato da rpuri alti. Tra la fila delle colonne esterne di pietra, e quella di un pari numero di colonne interne, che sono di tapino e svelte, havvi ano spazio largo sei pie­di. Tra le colonne, esterne vi è in luogo di on muro una rete fatta di còrde di budella, accioc­ché fino da U possano gli uccelli (35) vedere il bosco e quanto havvi nel medesimo, senza però che possano passare nello stesso. Tra le colonne interne, invece di moro, vi è una rete cornane (36). Tra le colonne interne ed esterne V innalza gra­datamente una fabbrica, qual piccolo teatro per gli uccelli (37) : i pali sono frequenti, posti tra tutti gl' intercolonni», e sono come i sedili degli uccelli. Entro qoesl'qltima rete havvi ogni specie di uccelli, e particolarmente quelli che cantano, come gli usignoli ed i merli, ai quali si sommi­nistra l ' acqua per mezzo di un canaletto; ed il cibo attraverso la rete. Ai piedi del piedistallo continuo (38) vi è una lapis (39), elevata soprail falere (fo) on piede e nove pollici ; e quello stesso falere è alto due piedi sopra la superficie dello stagno (4 0 » e largo cinque (42), affinchè i convitali possano camminare (43) a loro bell'agio tra le colonne ed i letti. Abbasso del fàlere evvi ono slagno circondato da un viottolo (44) largo on piede ; e nel mezzo dello stagno bavvi una picciola isola. Nella circonferenza del falere ao- novi scavati, a guisa di porti, delle tane per le anitre (45). Nel mezzo dell' isola t ' innalza ana coloona, nella quale vi è assodato on asse, il qna- le, invece di ana tavola, porta una ruota a raggi > ma questi raggi, invece di portare nejla loro cir­conferenza un circolo (4 6 ), sostengono una tavola scavata oomc un tìmpano (4 7 ), larga doe piedi e mezzo, ed alla un palmo. Questa, dallo schiavo che serve a-tavola, in tal modo si fa girare, che in un momento si appresta quanto ipetta alla bevanda ed al cibo, anzi ai mettono.anche presse ta li1 i convitati. Dall' interno del falere (48), nel quale si distribuiscono i letti (49) escono le anitre nello stagno per nuotare : questo comunica per mezzo di un ruscelletto colle due raentorate pe-

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G&aDE RE RUSTICA LlB. i n .

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633 ài. TERtNTII VARtlONlS C8 4

C A P U T VI

Db PAVOMBUS.

Axius : De pavone, inqoit, libera fieel dfcas, quoniam discessit FircelBas, qui secai ti quid diceret de iii, gentilitatis elusa, fortasse tn tecum daoeretsernm . Cui Heruli : De pavoùibns nòstri memoria, inqoit, greges haberi coepti, et venire magno. Ex iit M. Aufidlos LnrCo sopri tfexagena millia nomam in inno d id tur capere, li aliqaanto panoiores « se debent mares, qaam foemioae, si ad fractam spectes ; sì id delectationem, contra : formosior enim mas. Pafronum greges agrestes transmarini esse dicantor in insulis, Sami in loco Junonis, ilem in Plaùasia insala M. Pisonis. tì i ad greges constituendos parantur bona aetate, et bona forma ; baie enrm natura format e volucri­bus dedit palmam. Ad adnrisiaram hae minores bimae non idoneae, nec jam majores nato. Pa- Jcuotur omne genus objecto frumento, maxime erdeo ; itaque Sejus iis dat io menses singulos ordei singulos modios, ita nt io foeiura det ube­rius, ct ante quam salire incipiant. Is a procura*

schiere, ed i pesdolini vanno e vengono da q u e ­ste a quello. DaHa tavola posta, come si è detto, alT estremità dei raggi della mota (5o) di legno, esce i piacere dei convititi V aoqaa caldi o fred­da, secondo cbe si gira il turacciolo (5i). In ter­namente sotto la capoti, al vede di giorno l i stella lucifer (5a), e di notte P hetperus; e que­ste stelle girano nel bisso dell’ emisfero (53) ; e movendosi indicano le ore. Nel messo dèi mede­simo emisfèro, ed all’ Intorno del centro, r i sono dipinti, come fece io Atene ndP orologio P arte­fice di Cirro (54), in circolo gli otto venti (55) : P indice è prominente ; e movendosi alT intorno del centrò, indici netti dreonfèrensi il vento cbe soffia); e si si quii Tento domini, lè n ti osdre il- P aria aperta. Nel mentre cbe da nei cosi paria- vasi, si sente ddlo strepito n d campo di Marte. Non fummo sorpresi per questo sUtpilo,che al- triboimteo i l partito d d votanti, i quali fecero lo nesso pure tolte le volte cbe noi concorremmo nei cornisi] ; e n d mentre cbe volevamo sapere chi fosse P eletto, viene a noi Piotatelo Parra (56), e d dice che, nelP atto die si separa vino i voli, fu trovato ooo che gettava dd bollettini in eoa borsa (5^), e che perciò i patrocinatori degli altri candidati lo avevano tradotto evinti il console. Pavone sorge, perche dicensi cbe era stato sor­preso il custode del candidilo eh' egli proteg­gevi.

c a p it o l o v i

Dbi pavofi.

Astio dice : O n tu puoi liberamente parlare del pavone, poiché è partito FI redi io, il qaafcse fosse stato presente, e che tu avessi parlato con qualchè libertà, forse sarebbe insorta qualche alterazione tra P affinità che passa tra esso e que­sti animali (ì). Morula ripigliò danqne così : Ai nostri tempi si è cominci*to ad aver cori dd pa- voui e a venderli a caro presso. Si dice che M. Aufidio Lurco traeva dui pavoni ona rendita an­nuale almeno di sessantamila sesterni (a). Bisogoa che i maschi sieno un poco meno di uumero delle femmine (3), se non si ha in vista cbe il profitto ; ma se poi si cerca il diletto, si faccia il oonlrario, perchè i maschi sono piò belli delle femmine. Si dice che oltremare si trovano in alcune isole delle gregge selvagge di pavoni (4), come per esempio, nel bosco dedicato a Giunone in Samo (5) e nelP isola Planasia (6) che appartiene a M. Piso­ne. Quando si vogliono formare ddle gregge, si scelgono di buona età e di bdla forma ; tanto piò

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605 DE RE RUSTICA MB. n i.

tore ternos pallos exigit, eosquC cara creverant, quinquagenis denariis vendit, ut nulla ovis hunc assequstur fractam. Praeterèa ova emir, ac sup­ponit gallinis, ex qaibas ( ex iis ) excusos pallai refert in testadinem eam, in qaa pavopes habet ; qaod tectam pro multitadine pavonum Beri de­bet, et habert cubilia discreta, teotorio levata, qao aeqae serpens, neqae bestia accedere alla possi L Praeterea habere locam ante se, qao pa­stam exeant diebus apricis. Utrumqoe locam p a r am esse volunt hae volucres ; itaqae pastorem earam cam batillo ci r cara ire oportet, ao stercas tollere, ae conservare ; quod t t ad agricujtiirsm idoneam est, et ad sobstramen palloram. Primus Hos Q. Hortensias augurali adjictali coena porais­se dicitar; qaod potius factam tam luxuriosi, qaam severi boni viri laudabant ; quem cito se­cati malti extulerant eoram pretia, ita ut ova eoram denariis veneant quinis, ipsi facile quin- quagenis, grex centenarias facile quadragena millia sestertia a t reddat, a t <(uidem Albutias ajebat, si in singulos ternos exigeret pullos, per­fici sexagena posse.

CAPUT vn

Db ooluvbis.

Interea venit apparitor Appii a oon sale, et aegares ait ettari. Ule Coni exit e villa. At in fiU laaa intro involant oolnmhoe ; de qai bos Merala Axio : Si unquam oonstituisses,has toas ette putares, quamvis ferae essent. Dao enim geoera earum in p esse sebat:u a e a affaste, ul alii dicunt, saxatile^quod habe-

che la nafara ha dato a quest1 noeello 1« palma sopra gli altri in proposito di bellezza. Non è bene che le femmine sieno montate prima dei fra anni (7), come nemmeno qoando sono vecchie. Si nodriscono, dando ad essi ogni speoie di grano, ma soprattutto dell'orzo; e perciò Lareo sommi­nistra ogoi mese a sei pavoni (8) an modius di orzo ; e ne accresce la quantità quando le*fem- mine sono per partorire, come anche avanti chei maschi le montino. Egli ripete dpi sovranten­dente tre pavoncini per ogni pavonessa (9) ; e qoando sono cresciuti, li vende cinquanta denarii T ano ; di maniera che non vi è alcuna pecora che dia tanto gaadagno. Egli compera inoltre delle uova di pavonessa, e le mette a oovare sotto le galline, e tosto che queste hanno (atto nasoerei pavoncini (10), li porta in quella stanza a volta, ove trovami gli altri pavooi. Questa stanza debbe farsi grande, in proporzione del numero de’ pa­voni ; ed i letti dei medesimi debbono essere tra di loro separati, ed alti da terra (11), acciocché non entri negli stessi nè il serpente, nè alcana altra bestia. Bisogna inoltre che avanti questa stanza (ia) si trovi an luogo, ove possano andare al pascolo ne* giorni sereni. Questi volatili amano che questo laogo e la stanza sia netta ; e perciò £a mestieri che il custode dei medesimi visiti so­vente e questo e quella per raccogliere col badilelo stereo, e per conservarlo, perchè giova molto per P agricoltura, e perchè può servire di letto a’ pavoncini. Si dice che Q. Ortensio augure ( i 3) sia stato il primo a servirsene in uno splendido

pranzo; ma questa azione Cu piuttosto approvata dai lussuriosi (i4K che dagli aomini onesti e seve­ri. 11 ano esempio Cd seguito da molti ; e quindi n ' è venuto che il prezzo di questi è cresciuto tal­mente, che le loro nova si vendono cinque dena­rii V uno, che ogni pavone si vende senza pena ciuquanta denarii, e che ana truppa di cento (15) potrebbe facilmente rendere quarautamila seste r . /11, ed anche sessantamila,seper ogni femmina (iG) si ripetessero tre pavoncini, eome diceva Albuzio.

c a p it o l o v n

D ii c o l o m b i.

In questo frattempo si presanta un apparito- re (1) d’ Appio ad avvertirlo per parte del eoo* sole che gli angari erano citati Egli esce della easa di villa ; e in queste mentre volano dentro la stessa delle colombe : intorno a ohe disse Me­rula ad Assio : $c tu avessi giamaaai oosfarutlo una colombaia) l1 immaginarci li ohe fossero tue (a),

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68; M. TERENTII VARKONIS 685

tur io torribus ac columinibus villae, • qao ap­pellatae colamba e, quae propter Umorem natnra- lem «anima loca ia tectis captant; qao fit, at agrettes maxime leqaaatur turres, in qaa« ex agro eTolant aaapte «ponte, ac remeaot. Alteram genas illad columbarum est clementias, qaod cibo do­mestico contentam intra limioa januae solet pasci; hoc genus maxime est colore albo ; illad alteram agreste sine albo, vario. Ex his duabas stirpibus fit miscellum terliam genus fruòtus causa, atque iaoedant in locum uoam, qaod alii Tocant S’iftwer» alii 'rffJS’ff0Tfo$<iov ; in qao uao saepe Tei quinque millia sont inclusae. ITff/g'fffaJr fit, ut tcttado magna, camera tectus, ano ostio ao- gusto, fenestris Punicanis, aut latioribus, reticu­latis utrinqae, at locus omnis sit illustris, neve qaae serpens, fcliudve quid animal maleficum in­troire queat. Intrinsecus (piam levissimo marmo- rato loti parietes ac camerae oblinantur, et «xtrinsecus, circura fenestras, ne mus, ant lacerta -qua adrepere ad columbaria possit ; nihil eaim timidius columba. Siagulis paribus colombaria fiunt rotuada ia ordinem crebra ; ordines quam plurimi e«*e potino t a terra u«qae ad cameram. Columbaria siogala esse oportet, ut os habeant, quo introire et exire possit ; intus ternorum pal­morum ex omnibus partibus. Sub ordiaes singulos tabulae fìctae ut sint bipalmes, quo alantur vesti­bulo, ac prodeant. Aquam esse oportet, quo in­fluat, unde et bibere, et ubi lavari possint ; per­mundae enim.sunt hae volucre». Itaque pastorem columbarium quotquot mensibus crebro oportet everrere; est enim quod eum inquinat locum appositam ad agriculturam, ita ut hoc optimam esse scripserint aliqaot ; sive quae columba quid offenderit, ut medeatur; si qua perierit, ut effera­tur; si qui pulli idonei sunt ad vendendum, proma L Item qaae foetae sunt, in certam locam ot disclusum ab aliis rete habeant, quos transfe­rantur, e qao foras evocare possint matres. Quod faciunt duabus de causis ; una, si fastidiunt «ut inclusae consenescunt, quo libero aere cum exierint in agros, redintegrentur ; altera de causa propter illicium ; ipsae enim propter pullos, quos habent, utique redeunt, nisi a corvo occisae, aut ab accipitre interceptae. Quos columbarii interfi­cere solent, duabus virgis viscatis defixis in ter­ram, inter se curvatis, cum inter eas posuerint obligatum animal, quod item pelere soleant acci­pitres, qui ita decipiuntur, cum «e obleverunt Tisco. Columbas redire solere ad locum Ucet ani­m a d v e r te r e , quod multi in theatro e sinu missas faciunt, ( alqae ad locu<n r adeunt ) quae nisi re- T e r te r e n tu r , non emitterentur. Cibas appoditur circum parietes in canalibus, qaas extrinsecus per fistulae sappUnt. Delectantur milio, tritico,

quaolanque selvagge, perchè in una colombaia soglioùTi essere da# specie di colombe; ima dalla quali è selvaggia, o, come altri dicono, sassaiuo­la (3), perchè dimora sulle torri o «opra il eotu- men, o colme della casa di villa $ dal che n’ è Tentilo ohe a questi auimali si è dato il Mine di columbae, le qaali, a motiro della loro timidità naturale, si ritiraao sopra i luoghi pià alti dei tetti : e per questo i colombi selvaggi amano spe­cialmente le torri, dalle qaali seo volano spoota- neamente sui campi, per ritornare poi alle stesse. L*altra specie poi di colombe è- più domestica, perchè si contenta del cibo che si dà ad essa nella case, e si suole allevare nell’ interno della casi. Qaesta specie à particolarmente bianca, ma la prima screiiata e senta tinta di bianco (4). Da queste dae rane se ne tr«e una te rea, eh* è di colore mischio, e che si alleva, affinchè frolli. Questa s< rinserra in una specie di edifisio che alcuni chamano rtftfH tra (5), ed altri artf/yS f T f (pitoy (6). Sovente in uno di questi luoghi se ne rioserrano fino a cinquemila. Questi edifixii deb­bono essere coperti a guisa di uoa grande cupola, non avere che una porta stretta e delle finestre alla cartaginese, o più larghe e graticciate di dentro e di fuori, affinchè tutto il luogo «ia chiaro, e non possa avervi ingresso il serpente, o qualche altro animale nocivo. S’ intonacano di marffio pesto tati’ i muri e le volte internamente; e quest' intonaco si rende liscio più che si può : del pari si fa le stesso esternamenle intorno le finestre, per impedire che il sorcio, o la lucerla possa aggrapparsi sino agli occhi della colombaia, perchè non vi ba animale più timido della colom­ba. Per ogni coppia di colombi si distribuiscono con ordine degli occhi rotondi e spessi : quesli ordini di occhi possono essere molti, cominciando da terra sino alla volta. Ogai occhio bisogna che internamente abbia in tuli' i sensi tre palmi, e che l ' ingresso*sia tal# che la colomba possa en­trare ed uscire (7). Sotto ciascua ordine di occhi si attaccano alle muraglie delle tavolette, larghe dae palmi, le quali servano di vestibolo, e so cut possano i colombi poggiarsi avanti di entrare negli occhi. Questi volatili sono nettissimi (5) : per la qual cosa il custode della colombaia dea nettarla parecchie volte tra il mese (9); e lo sterco che lorda il luogo, è tanto acconcio perV agricoltura, che alcuni autori hanno scritto (1 0 ) essere questo il miglior concime. Bisogna che medichi le colombe ammalate (u ), che levi quelle che sono «norte, e che tragga fuori quei colom­bini che sono buoni a vendersi* Parimente il custode della colombaia debbe fare in guisa, che le colombe selvagge sieno ben separata dalle altre, al quale oggetto le traspor terà in a a lt*ogo «egre*

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« 9 DE RE RUSTICA LIB. III.

ordeo, piso, fcteoUs, tiro. liem k m b u io tur- ribos, «e ranunii rillis, qui .habent, agrestes oo» lambas» quoad possonl immittendum in «if/-

aetate bona; parandam neque potlos, neque letiliSi totidem mares qnot ioeminas.

Nihil columbis foecundios; ilaqne diebn» quadragenis concipit, et parit, et incubat, et educat. Et hoc fere totam annnm (adaat : tan- tammodo intervallum faciant a bruma ad aequi­noctium Ternum. Pulli nascuntur bini, qui si­mulae cr er erunt, et habent robur, cum matribas pariunt. Qui solent saginare pullos columbinos, quo pluris Tendant, secludunt eos, cum jam plu­ma sunt teeli ; deinde manduca to candido farciunt pane : bieme hoc bis, aestate ter, mane, meridie, Tesperi ; hieme demunt cibum medium. Qui jam pinnas incipiunt habere,relinquunt in nido illitis cruribus, et matribus, uberius ut cibo uti possint, objiciunt; eo eoim loluaa diem se, et puUos pascunt ; qui ita educantur, celerius pinguiores fiuut quam alii, et candidiores. Parante» eorum Romae, si sunt formosi, bono colore, integri, boni seminis, paria singola rulgo Teneunt doce- ni» numi», nec non eximia singolis millibus no­mum, qua» nuper cum mercator tanti emere rellet a L. Axio equite Romano mioori» quadrin- gsntis denariis daturam nega?it. Axiu»: Si postem «aure, inquit, factam, quemadmodumin aedibus cum habere vellem,-emi fiotilia colum- bwu, jam i issem amlcuo, et miiimra ad filiam.

gato : dal pari dare e «serri un luogo, a cui riehia mar possa dalla colombaia le madri. Ciò »i fa per due ragioni : la prima, che Infastidendosi, od an­noiandoti di sltr rinchiuse, possan ristorarsi al- l’ aria libera, quando roleranno ne’ campi (ia)| e seoondariamente per adescare delle altre di por­tarti alla colombaia (iS), cui non mancheranno di ritornare, per motiro dei loro figli, qaando bene non sieno ammazzate dal corro, orrero ra­pile dallo sparriere. Quelli che hanno la cara della colombaia, sogliono ammazzare questi ani­mali, piantando in terra due rerghe ineschiate, currate tra di loro, e attaccando tra queste quel­li animale che gli sparrieri sogliono assalire (i4): ia tal modo restano ingannati ed inrischiati. È facile il rarrisare che le colombe ritornano donde sono partite ; poiché molti nel teatro le traggon fuori dal seno, e le lasciano in libertà (i5); e se non ritornassero, non le lascerebbero in li­berti. Il cibo si mette intorno le pareti. Bi«ogna che l'acqua «ia netta ne’ truogoli (16), i qaali si riempiranno per meiao di canaletti che sono al di fuori, affinchè possano bere e lavarsi. Amaooil miglio, il formento, l’ orzo, i piselli, i fagiuoli e 1’ orobo. Parimente chi possiede queste colom­be selvagge sulle torri e sui colmi delle case di riila, dere aver cura, per quanto è possibile, di farle passare nella colombaia (17). Bisogna pren­derle di buona $(à (18), cioè nè troppo gioranl, nè troppo recchie ; e si faccia che il nnmtro dei maschi agguagli quello delle femmine.

Non ri è animale più fecondo delle oolombe, poiché nello spazio di quaranta giorni concepi­scono, partoriscono, Corano, ed alterano i colom­bini. Ciò (anno quasi in tutto Panno; e sola­mente intralasciano (19) dal solstizio d’ inrerno fino all’ equinoaio di primarera. Nascono i loro figli s due alla rolla ; i quali, cresciuti che sieno e fortificati, partoriscono colle loro madri (ao)t Quelli che sogliono ingrassare i colombini per reoderli più cari, mettono da parte quelli che pono già coperti di piume ; dopo di che gl’ in­grassano eoo pane bianco masticato, di cui ne danno ad essi due rotte nell’ inrerno, e tre nella state, cioè la mattina, al mezzodì e la sera : nel» l’ inrerno, sottraggono la porzione del mezzo» dì (ai). Quelli che cominciano ad arerò le ale, ai laaciano nel nido, ma «i rompono ad etti le zam­pe, e da una delle loro ale si strappano alcune penne (aa) : alle madri poi si dà nn più copioso nodrimento, aociocchè ed esse ed i loro figli pos­sano mangiare in tutto il giorno. I colombi alte­rati in tal modo, s’ ingrassano più presto degli altri, e dir cetano anche candidi (a3). Quando i padri e le madri sono belli, di un bel oolore, senza difetti, e di una buona rana, un paio si

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Cnj i M. TERENTII VARRONIS frja

Qoasi Tero, inqoit Plet, non in urbe qnoqae sint ' molti. Ao tibi colombari* qui io tegolis babent non videntor habere cam aliquotsupra xcen tu □; millium sextertium habeant instrn- mentora ? e queis alicujos totam enat censeo, et ante qaam aedifioas rare, magnam condiscas hieio urbe quotidie lucrum, assem semissem condere in locatos»

— —

caput vra

De TUBTumnos.

Tam Merula : Perge deinoeps. Ille : Tortori­bus item, inqoit, locum constituendovn proinde magnnm, ac maltitodioem alere Telis ; eamqoe item, at de colombi» dictum est, at habeat ostiaro ac fenestras, et aquam puram, ac parietes, ae ca­meras monitss tectorio. Sed pro columbariis in pariete mutulos, aut palos in ordinem, sapra quos tegeticulae canoabinae sint impositae. lofi- num ordinem oportet abesse a terra noo minas tres pedes, inter reliqaos dodrantes, a sommo ad cameram ad semipedem, aeqae latam ao ma­ialai a pariete extare potest, io qaibas dies no- ctesque pasountar. Cibatui qaod ait, objiciant tritioam siooum in oeateuos fieeooi fartores fere semodiam, qootidie CTerrentes eoram stabula, a ataroore ne offendantur, quod item servator ad agrum oolendam. Ad saginandum appositissimam tempus circiter messem. Eteoim matres eoram tooc optimae sont, cum pulli plurimi gigoontor, qai ad farturam meliores. Itaqoe eoram fractas id temporis maxime ooosistit

T e n d e comunemente In Roma dugento num m i, ed anche mille, quando sono d i ona rara bellet­ta. Testé un compratore esibì questa somma a L. Aaaio (m ca Tal iere Romano ; ma questi ooo T o le r a per un paio meno di quattrocento denarii. Assio dice : Se potessi comperare uoa colombaia bella e fatta colla medesima faciliti, eoa cui ho comperato degli occhi di terra cotta per la co­lombaia, q o a o d o T o leT a averne presso di me, ben T o le n t i e r i andrei a comperarla, e la spedirei alla mia caia di villa. Qoasi che, dice Pica, non t ì

fossero molti anche in città, i qaali hanno delle colombaie sotto il tetto (a5). Forse che a te non pare che abbiano una colombaia quelli che in

colombe hanno an fondo di più di oentomila sestertii t E perciò io penso che to compri, da qoelli che ne possedono, un fondo intero di co­lombe, e che avanti che ta fabbrichi nella cam­pagna una colombaia, impari q o i in città (16) a mettere ogni giorno nella borsa nn mezzo as.

CAPITOLO v ra

DlLLB T O lT O & aiX I.

Poi Pica d is se a Merala : Continua a t r a t t a r e

il Ino soggetto (1). Bisogna, d ic e Merula, a p p r e ­

s ta r e p e r le t o r t o r e l l e , io p a r i guisa d e i c o l o m b i ,

un luogo c h e a b b ia u n a g r a n d e z z a p r o p o r z i o ­

nata al n u m e r o c h e T o r r a i n o d r i r e , i l q u a le d e b ­

b e e s s e re , u g u a l m e n t e d e l le c o lo m b a ie , c o m e si

è d e t t o , f o r n i t o d i u n a p o r t a , d i f e n e s t r e , d i a- c q u a p a r a , d i m u r i , e d i T o l te b e n e in to n ic a -

t e (a). Ma i n r e c e d i o c c h i d i c o lo m b a ia , si f ic c h e ­

r a n n o n e l m a r o , e si d i s t r i b u i r a n n o c o n o r d in e

d e i p o s a to i o d e i p e d o o c i , s o p r a i q a a l i ai d i s te n ­

d e r a n n o d e l le p ic c io le s tu o ie d i c a n a p e . Bisogna o h e P a l t i m o o r d i n e sia a l to d a t e r r a a l m e n o t r e

p ie d i ; c h e t r a g l i a l t r i s ia v i o n a d i s t a a z a r i s p e t ­

t i v a d i a o v e p o l l ic i (3) ; e c h e d a l p i ò a l t o s io o

a l la v o l ta (4 ), s ia v i un i n t e r v a l lo d i mozzo p ie d e .

1 p e d u c c i p o i u s c i r a n n o d a l m u r o tanto, q u a n t a

s a r à la r i s p e t t i v a d i s ta n z a d e g l i o r d i n i ; e a o p r a

q u e l l i s t a r a n n o giorno e notte. Per c i b o s i d à a

n o n u m e r o d i o e n to v e n t i t o r t o r e l l e qoaai on se- modius d i f o r m e n to seo eo (5) ; e d o f ni giorno ti s p a z z a n o le l o r o s ta n z e , oode non r e s t i n o offese d a l lo s te r c o , i l q u a l e , u g u a l m e n t e che q u e l l o dei c o lo m b i , ai s e r b a p e r la o o l t n r a d e i terreoi- Il te m p o p i è a c c o n c io (6 ) p e r i n g r a s s a r l e , è v e r s o

la r a c c o l t a ; p e r c h è in qnesto tempo le l o r o m a ­

d r i s o n o g ra s s e , ed a l lo r a (7) g e n e r a n o m o l t i f ig l i ,

i q u a l i s’ i n g r a s s a n o m e g l io che in a l t r o t e m p o ;

e p e r c iò i l frutto che si trae dalle tortorelle, con­siste specialmente in questo tempo.

Page 166: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

DE RE RUSTICA UB. HI.

D i «ALLIBII.

A liai : Ego q n t n q o iro n n o m «none membra de palombi*, de gattini» die sodes fl«- rtda : fon .de reliquia, si qoid idoneom foerit, raeemari lioebit Igitór aanl gallinae quae vocan* tur geoeniio Iriom , villetieee, et rusticae, et Africanae. Gallioae Tillatioae sunt, q n u deiooeps rora haboot io rtiUs. D ebi qoi rffrj&q&tntfìm instituere volani, iidem adbibita scientia ae evira, ot «apsaot magboi froctos fot maxime feetitave- nini Deliaci) haec qotoque maxime animedver- tant oportet: de emtioee, cajasmodi, et qoam nraltas parent, de foetura, qaemadmodom admit­tant et pariant ; de ori», quetoadmodom incu­te tti et excudant ; de pallis, qaemadmodom, et a qoibos edocentur. Hitcc appendix adjid tur, pars qointa, qaemadmodam 3 agi nentor. E queis triboa generibus proprio nomine tocantor foe- mmae, qoae sont villaticae, gallinae ; mares galli ; capi semimares, qood saot castrati. Galles ca­straci, ut smt capi, candenti ferro inerente* ad infima crora, asqoe dam rampelur; at qood extat ulcus, oblinant figline creta. Qui spettai ni ot*i*9fi«r*$4 9P perfetta» habeat, siot licei ge­nera ei tria paranda, maxime villaticas gallinas ; e queis in parando eligat oportet foecundas, ple* rumque rubiconda pluma, nigris pinnis, impari­bus digitis, magniscapiiibu periata erecta, ampla; hae enim ad partiones sont aptiores. Gallos sala­ces ; qui animadvertunt si sunt lacertosi, rubenti crista, ro e teo brevi, pleno, acato, oculis ravis, afct nigris, palea rubra subalbicanti, coUo vario, aol aureolo; feminibus pilosis, cruribus brevibus, unguibus longis, caudis magnis, frequenltbns ptnaie. Item qui elati sont, ac vociferant saepe, in eertosnioe pertinaces, et qoi animalia, quae noceat gallinis, uon modo noo pcrfaoeacant, sed etiam pro gallinis propugnent. Nec tamen sequen­d o s in seminio legendo Taitagrioos, ac Medicos, et Chalcidicos, qui sitic dubio sunt pulchri, et ad proeliandum inter se maxime idonei, sed ad partus sunt steriliores.

C A P U T IXDxixa GALLO ».

Assio : Io ti chieggo in grazia d' inslrulrmi, o Merula, intorno al modo d ' ingrassare i palombi e le galline (1), die noi graspoleremo, se rimarrà alcuna cosa che sia buona da dirsi. Merula (a) : Ti dirò dunqoe che sonori tre specie di volatili» chiamati galline $ le galline ddla casa villereccia, le sdvagge e le Africane. Le galline della casa villereccia, delle quali parlerò poi (3), sono qaelle che si mantengono alla campagna nelle case fatti­cene. Coloro che si propongono di allestirla* gallinaio, acciocchì ne traggano un gran frutto ( mettendo per altro in opera quanto si sa e tutta la diligente ), in quella guisa che hanno (atto spe- cia]mente qad di Ddo (4K bisogoa che prindpal- mente attendano a queste cinque cose. Nella com­pera debbesi guardare alla qualità ed al namero : nd tempo del parto, come vadano nodrite (5), e come partoriscano: nd tempo delta covatura, come covino le uova e le facciano nascere ; ed ò da sapersi come e da chi sieno da allevarsi i pul­cini. A qo«ste si aggiunge un’ appendice, cioè, come ona quinta parte (6), la maniera d* ingras- sarle. Tra queste tre specie, si dà specialmente il nome di galline alle femmine che ai allevano nelle case di villa ; i maschi si chiamano galli, e capponi quelli che essendo castrati, non sono maschi che per metà. 1 galli si castrano, affinchè diventino capponi, bruciando con on ferro rovente i lombi, ovvero gli sproni sino all* estremità delle zampe, fino a che restino couaamati (7) ; indi si stropic­cia con creta da slovigliaio T ulcere che risalta per questa operazione. Chi vuole formare un gal­linaio, dee provvedere le tre accennate specie (8), ma singolarmente le galline Che si allevano nelle casa campestre ; e nella compera di qaeste, pre­ferisca le piò feconde, le quali per lo piò hanno le piume rosseggianti, le ale nere, le dita ineguali, la testa grande, la cresta «levata, la corporatura ampia (9): le galline di tal fatta sono più atte alla propagazione. Bisogoa scegliere i galli i più la­scivi (10); il Che ai giudica, quando sono musco­losi, qaando hanno la creata rossa, il becco corto, grosso ed acuto (11), gli occhi di colore tanè, o negri, i barbigli di an rosso bianehicdo, il collo screziato, od uu poco dorato, le cosce pelose, le zampe corte, le ùnghie lunghe, la coda grande, e tatto il corpo bea fornito di piarne. Del pari si giudica che souo tali, quaodo sono fieri, quando cauUno spesse volte, quaodo sono ostinati nel combattimento, e quando, lungi dal temere gli animali che nuocono ai polli, ii battono per

CAPITOLO IX

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6y5 M. TEH Eim i VARRONIS 6 9 6

Si doceatis «Iere retis, loco» septas attri­buendus , in qao date careae oonjunctae ma- gnae constituendae, qote spectent td exorien­tem T e rso s , utraeque in longitudinem circiter decem pedes, lttitadine dimidio minores, (qotm in) altitudine ptollo humiliores, ulraqae Cene* slrt lat* tripedtli, et eo pede tltiores e timi- nibos bette raris» ita ot lomen praebeant mat­tam, neqae per eas quidquam ire iotro possit, qoae nocere solent gallinis. Inter dots osliom sit, qui gallintrius, curator etrnm, ire possit. In ctveis crebrae perticae trijeoiie sint, ot omnes sustinere possiot gtllinas. Contri singolas perticis in ptriele exsculpti sint cobilit etrom ; ante s i t (qt dixi) TCstibolom septam, in qoo diorno tempore esse possint, atque in polvere Tolutari. Praeterea sit celli gnndis, in qoi curi­tor hibitet, ita ot in ptrielibys droam omnia plena sint cobilia gallinarum, to t ex scalpta, to t afficta firmiter; motos enim com incobint nocet In cubilibus, com pirtorient, acos substernen­dam ; com peperemo t , tollere substramen, et recens aliud subjicere, qood polices el cieten D is c i solent, qute gtllinim conquiescere non pt- tiantar; ob qotm rem ova to t inieqoibiliter mitarescant, in t consenescant. Qute relis ineo- bet, negant ptos xxt oportere ova incubare, qaamris propUr foecundititem pepererit plora. Optimam esse ptriom teqoinoctio Terno, id autumnale. ltiqoe qate inte ta t post n iti sunt, et etiim primi eo tempore, non supponendi : et ea quae subjiciat, potius retulis, quam pullastris, et quae rostra aot ungues non habeànt acutos, quae debent potius in concipiendo occupatae esse, quam incubando. Appoiilissimaead partum sunt anniculae, aut bimae. Si ora gallinis pavo­nina sobjicies, cum jam decem1 dies paTonina fovere cofpit, luih denique gallinacea subjieere, ut una excudant. GaUinSceis enim pullis bis deni dies opos suot, pavoninis ter noreni. Eas inclu­dere oportet, ot diem et noctem iocubent, prae­ter quam a mane et Tespere, dum cibus tc potio bis detur. Curitor oportet circumeat diebus in­terpositis tliqaof, tc Ter tere ovi» uti aequabiliter concalefiant. O n plent sint, itque utili a^becneT animadverti ijont posse, si demiseris iu iquarn ; quod insne, natat ; plenum, desidit. Qoi (ot boe inteUigant) coocutiiut, errare, quod in eis vitiles Tenas confundant In iis idem ajunt, cum id lumen sustuleris, quod perluceat* id eise ob inane. Qui haec t olunt Jiulius servire, perfri-

difendere questi. Non bisogni per altro nalUi scelta delle raue p reù rirt i galli di A ni tona, di Media (ia) e di Negroponte, quantunque sieno senzt contradditione belli e £atti «penalmente per battersi insieme, perchè qoesti tono sterili.

$e Torrai alterare dogento polli, dividerai il gallinaio in maniera, cbe trovimi unite due grandi capanne che sieno folte a lerante : ognuna avrà una longhetti di circa dieci piedi, nna larghetti minora della metà, ed un* ilteiia alquanto minora della lunghetta (i3). Ciascuna capanna iv r i la fienestre lirghe tre piedi (if), ed alte nn piede : saranno tessale di Tinehi tra di loro distanti, af­finchè per le medesime entri molta Ine*, seatachè parò diano il passaggio a cosi cbe possa nuocere alle galline. S ìitì inoltre una capanna grande, nella quale abiti il enstode del gallinaio ( i5). Tra le dne capanne si trovi una porta, per eoi passerà il custode del gallinaio. Siavi altresì aranti queste un piociolo cortile chiuso d i usa rete, ove tra il dì polsino dimorare, e voltolerai nella polvere. Ogni capanna sia attriTersata di molte pertiche, capaci di portare tutte le galline; e dirimpetto ogni perti­ca, si scarioe nel muro i nidi per le galline ; ma m maniera che sieno disposti con ordine intorno i l muro, e cip sieno sodi e noa tremanti, tanto sa sono s c i t i li nel muro, quinto te il medesimo sono attaccali ; perchè il menomo moto nuoce, quando conno. Aranti il nido siiti an restiboto, ore posstno posarsi, quando discendono o ascen­dono al nido. Quando le galline cominciano a partorire, si mette della pagUa ne’ loro nidi ; e qoando hanno terminato di partorire, ai Ieri la paglia, e ie ne rimette di nuora, perchè sogliono nascere nella pigtia e pulci ed altri insetti (16), i qnali non permettono che Ugallina trori riposo: per la qual oosa le uovi o nascano inegualmente, ovvero ai corrompano. Si mole che la gàttinà non debba corare più di renticinque nora, quan­tunque sii feoondt e ne tbbia partorite molle. Il tempo migliore per furie covare, è dall* equinozio di primarera fino t quello di lulunno (i 7). Leoo- de non mettonii 1 conre quelle nora cbe sono nate aranti, o dopo quel tempo, come nemmeno le prime nora delle galline novelle : e qoette oon cbe si vogliono ftr nascere, si diano piuttosto 1 covare alle galline vecchie, e a quelle che non hanno il becco o le unghie acute ; perchè le pol­lastre deggiono piuttosto essere inteie a conce­pite e a partorire le uora, che a covarle (18). Per la covaziooe sono molto acconce te galline di un anno, o di due. Se tu darti a covare alla gattini delle uora di parone, passali che sieno dieci gior- ui dacché li con (19), metterai dQpo le o o n di gallina, acciocché tutte sboccino n d l’ istesso tem­po ; perchè quelle di gallina hanno bisogno per

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cant sale minato, ta l maria, tré# aat quatuor horas ; eaque ablata condant ia farfares, aat aoos. In supponendo ova observant, at sint na* mero imparia. Ova,'qaae incubantur, habeantne semen palli, caratar quatriduo, postquam incu­bari coepit, intelligere potest, si oootra lameo tenuit, et param ankumodi esse animadvertit, putant ejiciendum,«t aliad subjiciet) dum.

6 #

Excusos pallos sabdaceadam ex singulis nidis, et subjiciendam ei, qaae habeat paaeos; ab eaque, ti reliqua sint ova pauciora, tollenda, et subji­cienda aliis, qnae nondum excuderunt, et minus habent xxx pullos; hoc enim gregem majorem non faciendum. Objiciendum pullis <}iebus i t primis mane subjecto pulvere ( ne rostris noceat terra dura) polentam mixtam cum naslurtii semi­ne, et aqua aliquanto aote facta intrita, ne tum denique in eorum corpore turgescat; aqua pro­hibendum. Quando de clunibus coeperint habere pinna*, e capile, et e collo eorum crebro eligendi pedes; saepe enim propter eos consenescunt. Circum caveas eoram incendendum cornum cer­vinum, ne quae serpens accedat : quarum bestia­rum ex odore solent interire. Prodigendi io solem et in sterquilinium, ut (te) volutare pos- liot, q*od ita alibiliores fiunt; neque pullos tantnm, sed omne 8fvi&ofio*xi?oiry cum aestate, tum utique com tempestas sit mollis, atque apri­cum ; intento supra rete, quod prohibeat eas extra septa evolare, et in eas involare extrinsecus accipitrem, aut quid aliud ; evitantem caldorem et frigus, quod utrumque his adversum. Cum jam pinnas habebunt, consuefaciendum, et unam •Qt duas sectentur gallinas, ceterae ut potius ad patiendum sint expeditae, qoam Sn nutricata °ccupatae. Incubare oportet incipere secandam

M. T u b v x i o V a j j lo p b

nascere di Tenti giorni, e di trenta (ao) quelle di pavone. Bisogna tener rinserrate le galline» acciocché covino giorno e notte ; e non si per­mette che escano se non la mattina e la sera, tempo in cui si di ad esse (ai) da mangiare e da bere. Fa mestieri che il custode del pollaio le t i - siti ogni tanti giorni, per rivolgere le uova, affin­ché il calore le penetri egualmente in tutt’i lati (22). Come mai si può sapere se le aova sieno piene e buone, ovvero se sieno il contrario f Si pretende che ciò si sappia, immergendole nell’.acqna, per­ché le piene vanno abbasso, e le vote galleggiano. Quelli che per accertarsi di ciò, le scantono, fanno male, perché in tal modo confondono le vene vie­tali dei germi (a3). Si dioe parimente che le nova aono vote, qaando poste avanti il lume, compari­scono trasparenti (24). Qualii ohe vogliono con- aervarle lungamente, le stropicciano col sale ben pesto, ovvero le lasoiaoo nella salamoia per tre o quattro ore (a5) ; indi le asciugano, e poi le met­tono nella crusca o nella paglia. Vogliono che le uova, le qaali si danno a covare, sieno di nomero dispari. 11 custode del pollaio potrà sapere, dopo quattro giorni dalla eovaiione, se le nova abbiano il germe, o no : credasi dunque òhe quell’ aovo sia da scartarsi, e da sostituirsene un altro, se guardato contro il tnme, il vegga trasparente ed uniforme in tutte le sue parti (26).

Bisogna ritirare dai nidi i pulcini sbocciati, e darli ad allevare a qaelle galline che ne hanno po­chi ; e se a queste restano poche uova (87), si danno a covare a quelle che non ancora fecero nascere le proprie : per altro non si dà ad allevare ad una sola gallina piò di trenta pulcini, essendo­ché non debbesi fare nn gregge maggiore drqae- sto numero. Nei primi quindici giorni ai pulcini ai getta sulla polvere e di mattina una polenta fatta di grani di nasturzio (aS), ed impastata di alquanta acqua ; ed acciocché questo cibo non gonfi il loro corpo, si proibisce che bevano dell’acqua. Qaando cominceranno ad avere le ale (29), si toglierà di sotto la loro groppa lo sterco eh* vi si attacca, e dalla testa e dal collo si toglieranno soventi volte i pidocchi pollini, perchè d’ ordinario quest’ in­setti gl’ indeboliscono. Si bracerà iotorno alla Joro capanne del corno di cervo, onde alle stesse non si avvicinino i serpenti (3o) ; perchè l’odore di questi animali suole ucciderli. Si condurranno al sole e sul letamaio, ove possano voltolarsi, perchè così diventano più forti (31) ; nèciò si faccia sol tan­to coi pulcini, ma ancora con tutto il pollame, tanto nella state, quanto allora che la stagione sarà dol­ce, e risplenderà il sole. L’ ampio vestibolo (3a), come ho detto* sarà circondato da una rete, per impedire che il pollame voli fuor del recinto, e die dal di fuori voli dentro lo stesso lo sparviere,

a i

698DE BE RUSTICA LIB. HI.

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699 M. TERENTII VARRONIS 700

n o v a m l a n a m , q n o d fe re q o a e a n t e , p le r a q u e n o n

S Q cced u n t. Diebu» f e r e x x e x c u d a n t .

De qaibus villaticis (qoooiam vel nimium dictum ) brevitale reliqua compeniabo. Gallinae rusticae sunt in orbe rarae» nec fere mansuetae aine cavea videntur 'Romae, similea facie non his villaticis gallinis nostris, sed Africanis» aspecta ae facie incontaminata. In ornatibus publicis solent poni cum psittacis» ao meralis albis, ilem aliis id genas rebus inusitati#. Neque fere in vil­lis ova ac pullos faciunt, sed in silvis. Ab his gallinis dicitur insula Gallinaria appellata, quae est in mari Thusco secandum Italiam contra montes Ligusticos, Intemelium, Albium Ingaa- nam | alii ab his villaticis invectis a nautis, ibi feris fiaetis procreatis. Gallinae Africanae suot grandes, variae, gibberae, quas ptXsa>f/<tof ap­pellant Graeci. Hae novissimae in triclinium ga­neariam introierunt e culina, propter Csslidium hominom. Veneunt propter penuriam magno. De tribas generibus, gallinae saginantur maxime villaticae ; eas includunt in locum tepidum, el augustum, et tenebricosam (qood molas earum et lux pinguitndinLinimica), ad banc rem electis maximis gallinis, neo continuo his, quas Melicas appellant falso, qaod antiqui nt Thetin Thelim dicebant, sio Medicam Melicam vocabant. Hae primo dioebanlur, quia ex Media propter magni­tudinem erani allaUe, qaa eque e i iis generatae poatea propter similitudinem. Amplas oriines ex Us, evolsis ex alis pinnis et e osuda farciunt tu­rundis ordeaceis, parlim admistis ex farina lolia­cea, aut semine liui ex aqoa duld. Bis die cibum dant, observantes ex quibusdam signis, ut prior sit concoctus, quam secandum dent. Dato cibo, quam perpurgarunt capat, ne quos habeant pedes, rursus eas concludunt Hoe faciuol usque ad dies xxv ; tunc denique pingues flunt. Quidam ex triticeo pane intrito in aquam, mixto vioo bono et odorato, farciunt, ita ut diebas xx pin­gues reddant ac teneras. Si in farciendo nimio cibo fastidiunt, remittendam in datione, pro portione, ac decem primis prooessit, in posterio­ribus, nt diminuat eadem ratione, ut vigesimus dies et primas sit par. Eodem modo palambes farciant, ae reddunt pingues.

o qualunque altro animale. Bisogna garantire al­tresì il pollame (33) dal freddo e dal caldo, per­ché l1 uno e l ' altro nuoce allo stesso. Quando i pulcini cominceranno ad avere le ale (34), ai av­vezzino a seguire una o due galline, acciocch é le altre sieno più intese a partorire, cbe ad allevarti. Bisogoa priocipiare a far covare le nova dopo la nuova luna, perchè molte d i^oelle che si f i s so covare avanli, d’ ordinario norf ischiudonsi. Na­scono le nova per lo piò nel periodo di venti giorni.

Ma poiché delle galline, eh* si allevano nelle case di villa, si è parlato di troppo (35), compen­serò questa prolissità, parlando piò brevemente delle altre specie. Le gslline selvagge sooo mollo rare in Roma, ove non se ne vedono gaari di addomesticale» che in gabbia. Qoi (36) non sono simili nella testa alle nostre galline di villa9 ma alle Africane. Seriza belletto e nella testa e nelle altre parti soglionsi esporre nelle pompe pubbli­che (37) unitamente ai pappagalli, ai merli bian­chi, ed alle altre rarità di siffatta specie. Queste d'ordinario non partoriscono le uova, nè le fanno nascere nelle città, ma sivvero’ne* boschi. Si dica che a motivo di queste galline si è chiamata Gal­linaria T isola che è nel mare di Toscana, io vici­nanza all' Italia, dirimpetto i monti della Liguria, e Vintimiglia ed Albenga (38). Alcuni vogliono che P isola Gallinaria sia stata così chiamata per essersi quivi trasportate dai marinai le nostre galline della casa di villa, la eui razza è divenuta selvaggia in progresso (39). Le galline Africane sono grandi, screziate, ed hanno rilevate alarne parli del loro corpo : i Greci le chiamano /nUn- yf ifas (40). Queste altime dalla cucina tono pas­sate ne1 tinelli voluttuosi (4> ), affine di togliere la fastidiosaggine degli nomini. Si vendono a caro prezzo per la loro rarità. Fra le tre speoie accen­nale, a*ingrassano specialmente le galline che si allevano nelle case di villa, le quali si rinserrano in un luogo tiepido, stretto ed oscuro ( perchè il moto e la luce impediscono ehe •’ ingrassino ). A quest’ effetto si scelgono le piò grandi galline, senza per altro preferire quelle che si chiamano Melicae per uoa oorrozione di lingua, originata da ciò che gli antichi dicevano ona volta Malica per Medica, come dicevano anohe Tkelis per Tke- tis (4*). Queste primieramente si chiamarono medicae, perchè si sono trasportate dalla Media, a motivo della loro grande corporatura, e si è continuato a chiamarle oosì, perchè la ra n a ha continuato sempre a rassomigliare alle prìaae, cioè, tutte sono nate grandi (43). Si strappano a queste le penne dalle ale e dalla coda (44)» c a' in­grassano eoo globetti un pooo lunghi (45), fitti di farina d ' orzo : altri (46) fanno entrare io q u a l i

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7oi DE HE RUSTICA LIB. 111.

C A P U T X

Di AVSBAtBOt.

T ra m i, inquii A lia s , dudc io illad genus, qaod vos philograeci vocali» qaodnoo est ulla filia te terra coptentom, sed requirit piseioa% io quibas obi anseres aluntor, nomipe X*vofio*x»tov appellatis. Horum greges Scipio Metellas, et M.Sejas habent magnos aliquot. Me­rula, Sejas, ioqait, ita greges comparati t anseram, ut hos qainqae grados observaret, quos io galli­nis dixi. Hi saot de genere, de foclura, de ovis, de pallis , de sagina. Primom jobebat servam io legeodo observare, ot essent ampli et albi : qood plerumque pullos similes sai facioot. Est enim alterum genas variam, qaod feram vocator, oeo cam iia libenter congregator, nec aeqoe fit man- seotum. Anseri bos admittendis tempas est aptis­simum a bruma : ad parieodom et incubandam a Kal. Martii usqoe ad solstitium. Saliant Care io aqua, inunguntur in flamen, aot piscinam. Sin­gulae non plus quater ia aono pariante Singulis obi pariant, fadoadum bar as quadratas circum binos pedes, et semipedem ) eas substernendam palea. Notandum earum ova aliquo signo, qaod alieoa noo eifisdoot Ad incubandum supponunt plerumque ix aot x i ; qai boo minus, v ii : qui hoc plus, x v . Incubat tempestati bos dies xxx, tepidioribus i i t . Cum excudit, quinque diebus primis patiuntur esse eum m atre; deinde quoti* die serenum cum est, prodocunt in prata, item

globelti detta farina di loglio, o della semenza di lino, e gl* impastano coll* acqua dolce. 11 pollame si nodrisce due volte al giorno ; ma avanti (47) di dare il aecondo nodrimeato, «i dee sapere da certi segni, se il primo aia digerito. Dato che siasi da mangiare alle galline, t dopo che esse avranno nettato il loro capo (48) dai pidocchi pollini che possono avere, si rinserrano noovameote. Ciò si fa per venticinque giorni, in capo ai qaali esse si trovano iograssate. Alcooi le ingrassaoo col paoe di formeolo sminuzzato ed inzappato neiracqoa mista al vino buono ed odoroso ; mediante che diventano grasse e tenere nel periodo di venti giorni. Se nell* atto che s* ingrassano, vien loro a noia il troppo cibo, questo si scema a gradi, co­sicché néi dieci giorni posteriori, lo diminuiscono in quella goisa che lo avevaoo accresdato nei primi died ; talmente che il cibo dd vigesimo giorno sio in quantità ogoale a quello del pri­mo (49). Nell1 istessa maniera s 'ingrassano i co­lombi salvatici.

CAPITOLO X

Delle ochb.

Passa preseotemente, dice Assio, a q nella ape- d e di aoimali, che voi grecizzaodo, chiamate dfitylfliov (1), perchè oon si contentano soltanto della casa villereccia e della terra, ma ricercano ancora le peschiere, chiamale xirrojSorxe/oir (2), qoando io qoeste si allevano le oche, delle qaali Scipiooé Metello (3) e M. Seio ne hanno gregge considerabili. Seio, dice Merula, nel formare le gregge di oche, attese a quei cinque articoli, dei quali parlai trattaodo delle gallioe : vale a dire alla loro specie, al portato, alle uova, ai figli uati da queste, ed al loro ingrassamento. La prima cosa che comandava al soo schiavo, era di osser­vare nella scelta, che quesli amfibii fossero gran­di e bianchi, perchè d* ordinario le madri parto­riscono figli simili ad esse; e perchè bavvene on1 altra specie screziata (4)« che si chiama oca selvatica, la qaale oon si ooisce fadlmente colla prima, nè si addomestica egualmente che questa. Il tempo più acoondo per 1* accoppiamento delle oche (5) è dopo il solstizio d 'ioveroo; e per partorire e covare, dopo le caleode di Marzo sino al solstizio. D1 ordinario ai accoppiano nell1 acqua, poi s1 immergon nel fiume (6) o nella peschiera. Esse non partoriscono più di tre volte (7) alfan- no. Per ogni oca si fanno delle loggette quadrate, aventi in tott’ i lati (6) dae piedi e mezzo, ove partoriranno : si farà il loro letto di paglia. Le

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noZ M. TERENTII VARRONIS 7©4

piscinas aat paludes : iisque faciant baras supra terram aot subtus, io queis non includant plus vicenos pullos ; easqae celiai provident, ne ba- beaot in solo humorem, et at molle babeant sub- stramen e palea, aliave qaa re, neve qua eo acce­dere possint mustelae, aliae ve bestiae, qoae no­ceant. Anseres pascunt io homidis locis, obi pabulum serunt, quod aliquem fructum ferat, serunt que his herbsm, quae vocatur seris, quod ea aqua tacta etiam cum est arida, fit viridis. Folia ejus decerpentes dant, ne si eo inegerint obi nascitur, aut obterendo perdant, aut ipsi eruditale pereant; voraces enim sunt natura; quo temperandum iis, qui propter cupiditatem saepe in pascendo, si radicem prenderunt, quam educere velint e terra, abrumpunt collum ; per­imbecillum enim id , ut capnt molle. Si haec herba non est, dandum ordeum aul frumentum aliud. Cum est tempus farraginis, dandum ut in seri dixi. Cnm incubant, ordeum iis intritam in aqua apponendum. Pullis primum biduo polenta, aat ordeum apponitur, tribus proximis nastur- tiom viride consectum minotatim ex aqoa in vas aliquod. Cam autem sunt inclusi in baras aut speluncas, at dixi, victui objiciant bis polentam ordeaceam aut farragioem , herbam ve teneram aliquam concisam. Ad saginandum eligunt pullos circiter sexqaimense qui sunt natu : eos indadunt in saginario, ibique polentam et pollinem aqua madefacta dant cibum, ita at per dies saturent; fecundum cibam large nt bibant faciunt potesta­tem ; sic curati drdter duobus mensibus fiant pingues. Quotiescanque sumse runt, locas solet pargari : qaod ipsi ament locam param, neque ipsi altam, abi fuerint, relinquunt purum.

uova di queste si contrassegneranno con qualche segào, perché le oche non Canno nascere d|e qudle della propria specie (9). Ad esse d* ordina­rio si danno arovare nove od ondid nova; il minor numero è di sette, come il maggiore di quindid. Per fare che nascano, ricercanti trenta giorni nella stagione fredda, e venticinque nella tiepida. Nate cbe sieno le ocbe, si lascia che stiano colle loro madri nei primi dnqoe giorni (10), pas* sali i quali, ed essendo tempo .sereno, si condu­cono ne' prati, o nelle peschiere, ovvero nelle pa­ludi Per le oche si fauno sopra terra dd covac­cioli ovvero delle spelonche (11), nelle quali non se ne cacciano dentro più di venti ; e si ha la cura che questoriliri' sieno preservati dtlT umi­dità del terreno, e che sieno forniti di an letto molle di piglia o di qualuoque altra cosa,* e di difenderli iu maniera che non possano entrarvi lo donnole, o qualsivoglia altra bestia nodvt. Lé oche si fanno pascolare ne' luoghi omidi, ove ai seminano delle piante (ia), dalle quali si possa trarre qualche profitto; come per esempio, T er­ba (13) chiamata seri*, la quale, quantunque dis­seccata, rinverdisce non si tosto che sente Paequa. Si slrsppano le foglie da qaesta pianta (14) e si danno alle oche, le quali se si cacciassero ove nasce, la calpesterebbero e distruggerebbero coi piedi, ovvero elleno stesse morirebbero, man­giando eccedentemente di qudle foglie, perchè tono di loro naturi vortd : laonde debbonsi mo­derare, perchè hanno nna sì grande avidità di mangiare, che incontrandosi in una radice, e vo­lendola estrarre dalla terra col becco, sovente si slogano il collo, pec. essere questa parte debolis­sima, ugualmente che il capo. Mancando questa erba, diasi ad esse dell* orto, ovvéro alcun* altra specie di grano. Nel tempo ddla farragine, dia­sene alle oche in quella guisa che ho detto (i5) rapporto all1 erba s tr is . Quando covano, va dato P orto pesto nell' acqua. Alle oche nei due primi giorni si dà della polenta o deir orto (16); nei tre conseca Livi, dd nasturtio verde tagliato mi­nutamente, e posto in on Ttse pieno d* acqua ; ma quando poi ai rinterrano nelle loggette o ndle spelonche, ddle quali disai di sopra si no­driscono di polenta d’ orto o di farragine, o fi­nalmente di qualche erba teoera tagliata minutsk- mente. S* ingrassano le ocbe che hanno quattroo sei meri (17) : si rinserrano nd luogo destinato ad ingrassare il pollame, ed ivi loro si dà della polenta e della farina senta crusca, ma bagnata di acqua : questo dbo diasi travolte al giorno (16). Dopo il dbo si permette che possano bere copio­samente. Trattate io tal guisa, s’ ingrassano a nn dipresso in due mesi. Tutte le volte che mangia­no (19), anobi nettar* il laogo, ove hanno man»

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DE RE RUSTICA LIB. 111.

C A P U T XI

Db AiATtin.

Qai autem volani gregei aoatiam habere, ac oonstiluere vttraorfoQtior, primam locum» cai est facultas, eligere oportet palastrem, qaod eo maxime delectantur ; si id non, potissimam ibi, obi sii naturalis aut lacas, aat stagnum, aal manafacla piscina, quo grada ti m descendere pos­sint. Septum altàm esse oportet ubi versentar, ad pedes xv, al vidistis ad villam Seji, quod ano otlio claadatur; circum totam parietem ralrin- secas crepido lata, io qua secnodum parietem fiat tecta cabilia : ante eai vestibulum earam ex­aequatum tectorio opere testaceo. In eo perpe­tua canalicio qoam et cibus ponitor iia, et im­mittitor aqua ; tic euim ci barn capiuat. Omnes parietes tectorio levigantor, ne facies, aliare quae bestia in tratte ad nocendam possit, idque se­piam totum rete gfandibus.maculis integitur, ne eo infoiare aquila posti!, neve ex ea evolare anas. Pabulum iit datur It ili cam, ordeam, fina- cei, arac ; nonnnnqaam etiam ex aqaa cammari, et qoaedam ejusmodi aquatilia. Qaae in eo acpto erant piscinae, in eas aquàm large influere .opor­tet, at semper recens sit. Sunt item don dissi­milia alia genera, ut querquedulae, pbalarides ; sic perdices, qùae, ut Arcbelaus scribit, voce ma­ris aadita, concipiant; qaae, at superiore*, nc- qac propter foccanditatem, ncque propler sua­vitatem saginantur, sed sic pascendo fiunt pin- goes. Quod ad villaticarum pastiònura primum actum pertinere som rata», dixi.

giato, perchè esse amano che il laogo sia netto, e perchè esse medesime imbrattano quei luoghi* nei qaali si fermano.

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CAPITOLO XI

DELLB ABITE B.

Quelli che vogliono avere delle troppe d i

anitre, e formare un luogo per allevarle, debbono primieramente, quando si possay scegliere un terreno palustre, perchè qacati animali amano un tale terreno. Se noo si può averne di tal fatta, si scelga principalmente un luogo, ove siavi oo l#go* formato dalla natura, ovvero uoo stagno, od anche un serbatoio artifiziale d' acqua, in cui possano discendere per mezzo di gradini. 11 ri­cinto ove si metteranno, debbe essere chiuso da muri, alti quindici piedi ; come bai tu veduto praticarsi nella casa di villa di Seio, ove non hé da esservi che una sola porta (i). Internamente, lungo la muraglia, vi sarà un largo marciapiede, sopra il qiiale si fabbricheranno i loro covili che deggiouo essere coperti, e precedali da on vesti­bolo (a) piano, lastricato di mattoni. Tutto il ri- cinto sarà diviso da un canale continuo pieno d' acqua, dentro la quale si getterà il loro nodri- mento, perche non lo prendono che nell’ acqua. Tuli’ i muri avranno. nn intonicelo liscio, affin­chè non possano entrare nella chiudenda nè gatti, nè qualuoque altra bestia nociva. Si coprirà tut­to questo r'icinto cou una rete a grandi maglie, tanto perchè non possano volare dentro le aquile, quanto per impedire chele anitre fuggano. .A qneste si dà per cibo della biada, dell’ orzo, del­le vinacce (3), ed alle volte ancora dei gamberi di acqua (4), ed altri animali acquatici di questa specie. Bisogna che fuori del ricinto siavi dell’ a- equa in copia, per far sì che nei serbatoi della chiudenda possa sempre rinnovarsi. Sooovi an-

. cora dei volatili della specie delle anitre, come i germani e le phalerides (5). In tal maniera si allevano anche le pernici, le quali, come scrive Archelao, concepiscono al solo udire la voce del maschio (6). Queste s’ ingrassano, coinè si è detto riguardo ai precedenti volatili, e non si ha per iscopo di renderle feconde, o più squisite al gu­sto : nutricandole nella maniera che abbiamo detto, diventano pingui (7). Io credo che non mi resti a dire niente intorno al primo alto dei no- drimenti che si fanno nelle case villerecce.

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M. TERENTII VARRONIS

Db lk p o a i b u i .

lo le rea redit Appios, et percuotali nos ab ilio, et ille e nobis, qoid esiet dictum ac factum, Appius: Sequitor ioqoit, actus secuodi generis, afficticius ad villam qui solet esse, ac noraioe au- tiquo a parte quadam, leporarium appellatum* Nam oeque solam lepores eo indaduotor silva, ut olim in jugero agelli, aut duobus, sed etiam cervi, aut capreae io jugeribus mallis. Q. Fulvio» Lippi nas dicitur habere in Tarquiniensi septa jugera x l , in quo sunt inclusa non solum ea, quae dixi, sed etiam oves /erae, etiam hoc ma jus hicio Sutonensi, et quidam in locis aliis. In Gallip Tero Transalpina T. Pompejus tantam septum ve­nationis, ut circiter ao ao oo oo passuum locum in­clusum habeat. Praeterea io eodem consepto fer? habere solent (de animalibus) coclearia, atque alvearia, atque etiam dolia, ubi habeant conclusos glires. Sed horum omnium custodia, i ner emea­tam, et pastio aperta, praeterquam de apibos. Qois enim igoorat ‘septa e maceriis Ita esse opor­tere in leporario, ut tectorio tacta sint, et sint alta? alterum ne faelis, aut maelis, aliave quae bestia iotroire possit; alteram ne lupus transilire : ibique esse latebras, obi \eports interdiu delite­scant in virgoltis atque herbis : et arbores patu­lis ramis, quae acjoilae impediant conatas. Quis item ii esci t paucos si lepores, mares ut foeminas intromiserit, brevr tempòre fore ot impleatorf taola foecooditas hojus quadrupedis. Qoataor modo eoim intromisit in leporarium, brevi solet repleri. Fit enim saepe com habent catulos recen­tes, alios ut in ventre habere reperiaotnr. Itaque de his Archelaus scribit, aonorom quot sint si quis velit scire, inspicere oportet foramina natto- rae, qoae sioe dubio alius alio habet plura. Hos quoque nuper inslitutbm ut saginarent pleraque, cum exceptos e leporario cooclodant in caveis, et loco clauso faciant pingues. Corum ergo tria genera fere sunt. Unum Italicum hoc nostram pedibas primis humilibus, posterioribus altis, superiore parie polla, ventre albo, auribus longis ; qoi lepas dicitur, cum praegnans sit, tamen con­cipere. Io Gallia Traosalpina et Macedonia fiant permagni : io Hispania et io Italia mediocres. Alterius generis est, quod in Gallia nascitor ad Alpes, qai hoc fere motant, qood toti caodidi sont; hi raro perferuntor Romam. Tertii generis est, qood in Hispania nascitur, similis nostro lepori ex quadam parie, , sed homile, quem cuni­culum appellant. L. Aelius palabat ab eo diclum leporem, (a celeritudine,) quod levipesesset. Ego

CAPUT x nD e l l e u n i .

In questo frattempo ritorna Appio, ed aven­dogli noi dimandato -ciò che era avvenuto, ed egli pare aveodoci chiesto quanto da noi si era detto e fatto, ci dice r Segue al preseole il secon­do alto (i), ciqè i parchi, che sono d’ ordioario adiaoenli alla casa villereccia, e cbe conservano ancora il nome aolico di leporajria (a), qaaolan- que le lepri ooo formioo cbe noa parte del parco, perchè oggidì (3) noo ai rioserraoo soltanto delle lepri io uo boaoo di questo, come faoevasi antica­mente, destinando a quest'oggetto un picciolo terreno di uno o di due jugera, ma ancora dei cervi e delle capre, per le qoali si destinano molte jugera. Si dioe ohe Q. Fulvio Lupinus (4) ha nel distretto Tarqoinieose ona chiodeoda di quaranta jugera, nella, qoale ha rioserrato noo solo gli animali, dei quali ho parlato, ma ancora delle pecore selvagge. Evvi anoora ehi poaaiade nel distretto Stalonense (5) u a piò grande pareo, ed altri pure in altri luoghi ne posaedooo. Nella Gallia poi Transalpina T. Pompeio (6) ha formalo per la caccia un sì considerabile ridnto, che con­tiene quarantamila passi all’ iocirca (7). Inoltre nel medesimo riciato sogliono quasi sempre avere dei luoghi destinati alle lumache, alle api, ed an­che delle dolia per tenervi rinchiusi i ghiri Ma non porla secò difficoltà quanto riguarda la custodia, P accrescimento ed il nodrimento di questi animali: non è lo stesso però delle api E chi mai ignora che il parco debb’ essere circon­dato di mora ben intonacate ed alte? perchè

T intonico fa che il gatto domestico ed il salvsti- co (9), od alcuna altra bestia non possano entrare nel ricinto ; e l1 altezza delle mora fi che no* possa saltarle il lopo. Bisogna ohe nel parco siaovi dei oascoodigU di virgolti e di erbe, ove le lepri possaoo oascoodersi tra il dì, come an­cora degli alberi a rami molto distesi, i qoali impediscano gli sforzi delle aquile. E chi pari­mente ignora che introducendo nel parco poche lepri mascoline, come anche femminine (10), in breve tempo si riempirà? taola è la feconditi di questo quadrupede. Difatti se alcuno iotrodar­ra (11) nel parco quattro lepri, d* ordinario si riempirà in breve tempo; essendoché sovente quesli animali hanno dei figli appem} nati (ia) nell' islesso tempo cbe ne portano altri nel ven­tre. Archelao scrive (i3), che volendosi sapere gli anni di questi animali, basta guardare il numero degli orefizii che hanno nel ventre, perchè consta che alcuni ne hanno di piò, ed altri di meno.

c a pit o l o x n

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DE RE RUSTICA LIB. III.

arbitror i Graeco vocabolo antiquo, qnod eum Aeoles Boeotii Xiroftv appellabant. Cunicoli dicti ab co, qaod sub. terra amicalo* ipti iuere soleant, obi lateant io agrii. Horom omninm tria genera, fi possis, in leporario babare oportet; duo qui- dem ntique te habere poto, at qaod in Hispania annis it* faisti multis, ot inde te cuniculos pene- calca credam.

c a p u t xmDa aravi.

Aproa quidem posie habere in leporario, nec magno negotio ibi et capti voi, et ci care*, qui ibi nati sint, pingnei solere fieri, icis inqusm Ai». Nsm qoem fondum in Toiculano erait hic Varrò a M. Papio Pisone, vidisti ad buccinam inflatam certo tempore apros et capreas oonvenire ad pa­bulum , cam e superiore loeo e palaestra apris «fonderetur glam, capreis vicia, ant quid aliud. Ego vero, inqnit ille, a pad Q. Hortensiam coro in sgro Laurenti essem, ibi istoe msgis fieri vidi. Nsm silva erat (ut dicebat) sopra quin­quaginta jugerum maceria septa, quod non lepo­rarium , sed appellabat. Ibi erat locus excelsus, ubi triclinio posito coeoahamus. Quinius Orphea vocari jussit ; qui cum eo venis­set eam stola, et cithara, et cantare essel jussos, buoeinam inflavit, ubi tanta circumfluxit nos cer­vorum, aprorum, et eoe te rarum quadrupedum multitodo, ot non minbs formosum mihi visum

Testò si è inventato, d’ingrassare le lepri (14),

prendendole dal parco e chiudendole in gabbie, perchè rinserrate, diventano pingui. Sonovi pres­sappoco tre specie di lepri (i5). La prima com­prende la nostra lepre d'Italia, la quale ha i piedi anteriori (16) bassi ed alti i posteriori, il 'dorso bigio, il ventre bianco, e le orecchie lun-

* ghe. St dice che le femmine di questa specie con­cepiscano, quantunque sieno pregne. Nella Gallia Transalpina e nella Macedonia le lepri diventano grandissime, e mediocri nella Spagna e nell’ Ita* lia. La seconda specie nasce nella Gallia presso le Alpi (17), e non differisce dalla prima, se non perchè è tutta bianca : rare volte si porta in Roma. La terza specie nasce nella Spagna, la quale in alcune parti è simile alle nostre lepri ; ma è più bassa (18), e si chiama cuniculus (19). L. Elio pensava che la voce lepus derivasse da ìepipes (ao), cioè, perchè corre velocemente. Io sono d'opinione che derivi da un antioo vocabolo greco, perchè gli Eolii (ai) usciti della Beozia, chiamavano quest' animale Ai-rof/r. Il nome di cuniculus (aa) deriva dai bochi che i conigli sogliono fare sotto terra per nascondersi nei

. campi. Quando si possa, bisogna avere nel par00 le tre specie di questi quadrupedi, lo penso, o Varrone, che tu ne abbia due specie, perchè di­morasti molti anni in Ispagna ; e per quanto io credo, tu allora avrai avuto l'opportunità di procurarti dei conigli (a3).

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CAPITOLO xmDii a i o v iu .

Tu non ignori, o Assio, continuò Appio (1), che un parco può essere popolato di cinghiali, e che senza difficoltà soglionsi ingrassare tanto quelli che nel medesimo si sono rinserrali, quanto coloro che ivi sono nati ; imperocché tu stesso vedesti che nella tenuta, la quale Varrone qui presente comperò da M. Pupio Pisone (a) nel di­stretto di Frascsti, i cinghiali e le capre selvatiche si raccolgono al suono del oorno in certi dati tempi (3) per ricevere il cibo tutte le volte che da un luogo elevato e destinato agli esercizii ginna­stici (4) si gettavano ai primi le ghiande, ed alle seconde la veccia, od alcun'altra cosa. Io vidi succèder ciò, rispose Assio, io un modo più tea­trale (5), quando mi trovava presso Ortensio nel territorio di s. Lorenzo (6); imperocché, com’e­gli diceva, aravi una selva oltre i cinquanta ju - gera, circondata da muraglie, Is quale non si chia­ma vs leporarium, ma (7). Eravi io

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?»i «I. TERENTII VARRONIS 7 1 3

fi! i^eolfeolaiD, qoam m circo n ii ia o Aedilium, tine Africani» bestiis cam fiant ? coctione*.

CAPUT XIV

Db coca lu i.

Axias : Tass* partes ( inquit ) sublev avit Ap­pias, o Merula noster. Qaod ad venationem per­tinet, breviter secundus transactus cit aetns. Nec de cocleis ac gliribus quaero, quod reliquam «st; neque enim magnum emolumentum esse po­test Non istuc tam simplex est, inquit Appias, qaam tu putas, o Axi noster ; nam et idoneas sub dio snmendus locas cocleariis, quem circara totam aqua claudas, ne quas ibi posueris ad par­tum, non liberos earum, sed ipsas quaeras» Aqua, inquam, finiendae, ne fugitivarius sit parandus. Lotas is melior, quem et non coquit sol, et tan­git ros. Qui si nataralis non est ( at fere non saat in aprico loco ) neque habeas inopaco, ut facias, ut sant sub rupibus ac monlibos, quorum alluant radices lacus ac fluvii, manu facere opor­tet roscidum ; qui fit, si eduxeris fislulam, et in eam mammillas imposueris tenues, quae eractent aquam, ila ut in aliquem lapidem inoidat, ac late dissipetur. Parvas iis cibus opus est, et is sine ministratore. Et huoc, dnm serpit, non solum io •rea repent, sed etiam, si rivus non prohibet, in parietes stantes invenit. Denique ipsae exgrami- nantes ad propalam vitam diu producant, cum ad eam rem panca laurea folia interjiciant, et aspergant far fu res non multos. Itaque coquns has vivas an mortuas coquat, plernmqae nescit. Genera coclearum sunt plura, ut minutae albatae, qaae afferuntur e Reatino, et maximae, quae de Illyrico apportantur, et mediocres, qaae ex Afri­ca afferantur. Noù quo non in bis regionibus quibnsdam locis, eae magnitudinibus ( non ) siot dispariles : nam et valde amplae sunt, quamquam ex Africa, quae vocantur solitaonae, ita ut in eas lxxx quadrantes conjici possint, et sic in aliis regiooibas eaedem inter se collatae et minores saot, ac majores. Hae in foetura pariant innume­rabilia. Earam semen minatam, ae testa molli,

questa selva «m hiogo elevato, ovi per mangiarevi avea un letto da tre persone, ed ove Qainto fece chiamare Orfeo (8) : -il quale essendosi pre­sentato in lunga roba e colla cetera, ed avendo ricevalo V ordine di cantare, sonò la tromba, al cui suono fammo tosto (g) circondati da sì gran­de quantità di cervi, di eingbiali e di altri qua­drupedi, che tale spettacolo non mi parve men bello di quello che danno gli Edili (10) net gran­de circo, qaando si fanno le cacce, ma seoza pan­tere (11).

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CAPITOLO XIV

Dbllb LUMICO*.

Tu, o nostro Menila, dice Assio, sei stato sol­levato nel tuo offizio da Appio ; poiché breve­mente ha terminato il secondo atto che riguarda la caccia. Dico terminato, perchè non conto mol­to quaulo resta a trattarsi intorno alle lumache ed ai ghiri, non essendo quest' articolo molto difficile (1). Non è peraltro tanto facile (a), ri­piglia Appio, come tu credi, o nostro Assio, perchè bisogna scegliere allo scoperto ao faogo acconcio per le lumache, e circondarlo tutto d'acqua, affinchè quelle madri che ivi avrai po- •stc per ia propagazione, non vadano altrove, e invece di cercare i loro figli, to non abbia an­che da cercare le stesse (3). Bisogna, diceva, circondarlo d' acqua, onde tu non debba appre­stare an fug itiva riu s (4). Il luogo migliore è quello, il quale non è bruciato dal sole, ed è irrorato (5). Che se non è tale formato dalla oatura ( come d’ ordinario accade nev luoghi espoiti al sole ), e se si manca di uo luogo opa­co per farlo, come si potrebbe fare sotto le rocce ed al basso dei monti, bisogna renderlo rogiadoso per mezzo delle mani. 11 che si ot- tiene ianalzaudo sopra terra un tubo coronato da piccioli capezzoli, i quali gettino P acqua in maniera che cada sopra qualche pietra, af­finchè zampiHi da lungi. A queste fa d' uopo pochissimo nodrimento, e non hanno bisogno di chi lo porga ad esse, perchè (6) sanno tro­varselo di plr sè non solamente in terra, ma ancora sopra i muri (7), qaando an qaalohe ruscello non to impedisca. Finalmente vivono lungo tempo, nutrendosi della loro propria so­stanza (8), a imitazione di qaelli che rivendono, perchè basta gettare ad esse di tempo in tempo poche foglie di lauro e poca cresca : e per qoo- sto il cooco per lo più non aa se le {accia eoo- eere vive o morte. Sooovi pareochie specie di

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DE RE RUSTICI L1B. III. 7*4

dlutarnitate « b d a m d t Miglili inoli* In «reti fretis, magnam bolom deferunt téris. Hat quo­que Mg inart tolent ita, ut ollam eum foramini­bus incrustent sape, et forre, o b i pascentur, quae foramina habeat, at intrare air possit. Vifsx eoim haeo natura.

CAPUT x v

D i o l i m u s .

Glirarmfai aatem dissimili ratione habetur, guod non aqua, sed maceria loous sepilur. Tota levi lapide, aut tectorio iotrinsecus incrustatur, ne ex ea erepere possit. In eo arbusculas esse oportet, quae ferunt glandem ; quae, cum fructum non ferant, intra maceriam jacere oportet glao- dem el castaneam, onde aaturi fiant. Facere bis cavos oportet laxiores, ubi pullos parere possint; aquam esae tenuem, quod ea non utuntur mul­tum, et aridam locum quaerunt. Hi saginantur ia doliis, quae etiam ia villis bebent mulli, quae figali faciunt, mallo aliter atque alia ; qood in lsleribua eorum semitas Cadunt el cavum, ubi cibam constituent. In hoc dolium addunt glan­dem, aut nuces juglandes, aat castaneam. Quibusio tenebris, cum cumolalim positum est in doliis, fiuut pingues.

lumache (9), come le piccolissime bianchieoe» le quali ci veogone dal territorio di Frascati, le grandi che ci sono trasportate dall’ Mino, e le medioeri che T en g o n o dall’ Africa. Noo è

già che alcuni luoghi dei menzionati paesi non (10) ne producano di differente grandez­za ; perchè e sono grandissime alcune dell1 À- friea (11), che si chiameno solttanae^ oosicchè la loro conchiglia può contenere (ib) ottpnte quadrantes di liquido ; e perchè, paragonando tra di loro le lumache degli altri paesi, alcuni ne somministrano di piccole, ed altri di gran­di. Queste partoriscono ona quantità prodigiosa di aova (i3), le quali sono minutissime e di nn guscio molle, ma che col tempo s’ ioduri- ac*. Formano delle grandi elevazioni di terra* T o lta , e lasciano una. grande apertura pel passaggio dell’ aria (14)* Sogliono ingrassarle, mettendole in un’ olla fornita di molti Cori ( i5) pel pestaggio del)’ scia, che incrostano ool via (sotto misto alla Carina, affinchè abbiano oon eho aodrirsi. Le lumache seoo naturalmente vivaci.

— -»■ -

CAPITOLO XV

Dai ovai.

Il luogo destinato ai ghiri si costruisce ha un nodo differente (1), perchè non si circonda di acqua, me di mura, le qusli si fanno di pietra liscia, ovvero internamente s’ incrostano d 'into­nico, aociocchè noa possano (a) arrampicarsi. Bisogna cbe in questo luogo siaovi degli arbo­scelli che fruttino delle ghiande ; e nel tempo che non ne produoono, se ne gettano, come «oche delle castagne, dentro il ricinto, affinchè possano nodrirsi. Bisogns che si facciano dei fori abba­stanza larghi, ore possaoo partorire i loro figli. Non è necessario che siavi molta sequa, di cui ne fanno poco neo, perchè emano i luoghi secchi. S’ ingrassano nelle botti, come sono quelle che hanno parecchi nelle loro case di ? illa : quelle boti} che Canno a quest’ effetto i pentolai, sono mollo differenti da queste, perchè sono fornite di sentieri nei lati, e di an loro, oel quale si mette il nodrimento. Si gettano io queste botti (3) delle ghiande, delle noci, 0 delle castagne ; e s’ ingras­sano all’ oscaro, mettendo un coverchio sopra le boUitf).

M. IciBinio V,

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7 i5 M. TERENTII VARRONIS

De apibus.

Appius igllar : Bdinqoitor, inquit, de pastio­ne villàtica tertias actus de piscinià. Quid tertias ? inqait Axius. An quia tu solitus es In adblescen- tia taà domi mulsura non bibère propter parsi­moniam, nos mel negligemas? Appius: Nobis verum dicit, inquit. Nam cum pauper cum duo­bus fratribus, et duabus sororibus essem relictus; (quarum) alteram aine dote dedi Luoullo, a quo baereditate me cesta primum, et primus mnlsuii) domi meae bibere coepi ipse, cum interea nlhMto vuinu* pene quotidie in convivio omnibus darem nralsuih. Pi'aeterea tneùm erat non tuum, erfi novisse vottiefres, quibus pldrimum natura ingenii atque artis tribuit : itaque eas melius me notte quam te, ut scias, de incredibili earum «viam natara audi. Aierula, ot-eaeVera fecit /$■#?/***> quae sequi meKtUirgi toieant, demonstrabit. Pri* mum apes nascuntur partim ex apibus, partim ex bubulo corpore putrefacto. Itaque Archelaus in epigrammate ait, eaf eisf nri-troTtifuiva r / x v « . l d e m crtyUxti ytvidj t*4*X6sv futXtffo-a/. Hae apes non sunt solita- ria natura, ut aqcrifae, s4d ut homines. Quod si hoc faciuot etiam graculi, at non idem :

hic, societas bperit et aedifièioram, quod itlia non est. Hicratio atque ars, ab his opot facere discant, ab bis aedificare, afe his dbarit condere. Tria enira harum, cibat, domai, opus.

I

c m jT x v i

Neqae idem qaod cibut cera, neo quod ea mei, nec quod mei domus : non in favo tex an­gulis cella; totidem, quot babet ipsa pedes? (quod geometrae 4%éy*vov fieri in orbe rotnndo ostendunt, ut plurimum lod includatur). Foris phscuntur, intus opus faciunt: quod, dulcissimum quod est, et diis et hominibus est acceptam; quod favus venit in altaria, et mel ad principia convivii, et in secundam mensam administratur. Hae at hominum civitates, quod hic est et rex, et impe­rium, et societas, quod sequuntur omnia pura; itaque nulla harum assidit in loco inquinato, aut eo, qui male oleat, neque etiam in eo, qui bona olet unguenta ; itaque his uncius qui accessit,

D ellk a pi .

Resta dunque, dice Appio; il tetto atto che abbraccia i nodrimenti che si fanno nelle casa di villa, cioè delle peschiere (i). Che cosa intendi mai tu pel terzo atto, dice Assio ? Forse noi avre­mo da trascurare il miele, perchè fino dalla tua gioventù non sei solito di bere vino melato per risparmio ? Egli dice il vero, rispose Appio (a) ; perchè avendomi i miei parenti lasciato povero con due fratelli e sorelle, una delle quali (3) la maritai senza dote a Lucullo ; e questi avendo­mi (4) instituito suo erede, fui il primo a bere nella mia casa del vino melato, e a tati* i convi­tali ne do quasi ogni giorno. Inoltre spetta a me (5) e non a te il conoscere a fondo qaesli vo* laliH, favoriti dalla natura di molto ingegno e di molta industria : e per questo, affinchè la sappia che io li conosco meglio di te, ascolta le incredi­bili cose eh' eglino operano (6). Lascerò poi a Merula la cura di mostrarci istoricamente, come ha fatto degli altri-animali, cosa sogliano prati­care quelli che ne allevano. Primierameute le api parte nascono da altre api, e parte dalla putrefa* zione del corpo del bue : e perciò Archelao nd suoi epigrammi dice che esse u sono la genera­zione volante di un bue morlo. r> 11 medesimo autore (7) dice che « le vespe sonò generale dai cavalli, e le api dal vitelli. * Queste (8) non vi­vono solitarie, come le aquile, ma in società, Come fanno gli uemini : che se in ciò convengo­no anche le cornacchie (9), V è però questa dif­ferenza, che le api sì uniscono colP oggetto di formare insieme delle opere e degli edilizi, lad­dove le cornacchie non hanno questa vista. La ragione e l ’ industria raccoglie le api ; ed insegna ad esse a lavorare, a fabbricare e a provvedere dei cibi : di fatti esse haqpo trt Oggetti; il dbo, la casa éd il lavoro.

£ pei1 dire il veró, vi è differenza tra fa casa ed il loro nodrimento, come V ha tra il roiele e la cera, e tra la loro casa ed il miele. II favo (io) ha cellelle osagone, e tanti lati quanti sonoi piedi delle api ( questa figura si chiama dai geometri esagono, i quali dimostrano che un esagono in­scritto in un drcolo contiene più superficie di qualsivoglia altra figura (11) ). Al di fuori si ci­bano, ed internamenle lavorano (ta) il miele, il quale è dolcissimo, e piace tanto agli dei, quanto agli uomiui ; poiché il favo si mette sulle art, ed il miele si appresta nel principio del convito e nella seconda mensa (i3). Esse hanno delle città simili a quelle degli uomini, essendoché fi si

c a p i t o l ò x v i

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puqgoQl; non at muscae liguriant ; quoj nemo ha* videi (pt illas) in carne, aat sanguine, eut adipe : ideo modo ceoiidunt io qao est sapor dulcis. Minime malefica, quod nollius opus velli­cans facit deterius : neque ignava, ot non, qui ejas opus conetur disturbare, resistat. Neque tamen nescia suae imbecillitatis; quae cam causa rausarum esse dicantur volucres, quod et siqaan- do displicatae sunt, cymbalis et plausibus, nu­mero reducunt in locum anum. Et ut bis diis Helicona atque Olympon attribuerunt.homines, sic his floridos et incultos patnra attribuit mon­tes. K egeto suum sequuntur quocunque i t , et fessum sublevant; et, si nequit volare, succollant, quod eam servare volunt. Neque ipsae sunt infi­cientes, nec non oderunt inertes ; itaque inse­ctantes a se ejiciunt fucos, quod hi neque adju­vant, et roel consanyint: qnos vocificantes plures persequuntur etiam paucae. Extra ostium alvei obturant omnia, qua venit inter favos spiritus , quam £fi$axw appellant Graeci. Omnes ut in exercita vivunt, atque alternis dormiunt, et opus faciunt pariter, et ut colonias mittunt. Hique duces conficiunt quaedam ad vocem ut imita­tione iobae ; tum id faciunt, cum inter se signa pacis ac belli habeant. Sed, o Merula, Axius no­ster ne, dum baec audit, physicam addiscat, quod de fracta nihil dixi, nane carsa lampada libi trado,

7*7

Merula : De fracto, inquit, hoc dico, quod forUsse an libi satis sit, Ax,i, in quo auctorem habeo, non solam, qui alvearia sua locata babet quotannis quinis millibus pondo mellis, sed etiam hunc Varronem nostram, quem audivi dicentem, duo.(nilitesse habuisse in Hispania fralrea Vejanio* ex agro Falisco locupletes, quibas cum a patre relicU esset parva villa, et agelhis non sane major jugero uno, hos circum villam totam alvea­rium ferisse, et hortum habuisse , ac reliqnam thymo et cylùo obsevisse et apiastro, quod alii

trova nn re, nn governo ed una teeielà. Esse non ricercano se non ciò eh* è puro ; per lo che non vedesene alcuna arrestarsi in u q luogo impuro, o

di cattivo odore, come nemoìeno in quello che sparge soavi odovi : difalli esse pungono chi loro si accosta profumato di buoni odori (i4)> Le api non mangiano avidamente come le mosche ; ni mai si vedono arrestarsi, io pari guisa di queste, sopra la carne, sul sangue, o grasso, ma solamen­te sopra i corpi di un dolce sapore. Esse noo fan­no alcun male, .perchè non guastano alcuna opera che pungano ; d 'altronde però sono coraggiosa per far fronte a quelli che volessero minare la loro opera, quantunque conoscano molto bene la loro debolezza (i5).. A ragione si dice che sieno gli uccelli delle muse, poiché se qualche volta accade che si spargano, subito si riuniscono ai suono dei cembali e *1 batter delle mani : inoltre siccome gli nomini hanno assegnato a queste dee 1' Elicona e 1’ Olimpo, cosi la natura ha assegnalo alle api i monti fioriti ed incolli. Esse seguono per tutto il loro re, lo sollevano quando è stan­co ; e se non può volare, lo portano sulle spalle, perchè vogliono conservarlo. Codesti volatili noo isporcano nulla, ed odiano gl’ inoperosi ; e per questo si scagliano e scacciano (iG) da sè i pec­chioni, perchè questi non dauno alcun aiuto e consumano il miele. Punto non le spaventa il ru­more strepitoso che questi fanno, anzi esse li perseguitano, quantunque sienu meno numtrese di loro, Esse otturano al di fuori V arnia in tult' i luoghi pei quali polesse passare l’ aria ed insi­nuarsi nei favi con una materia che i greci chia­mano iftàaxn* (17). Codeste vivono come fannoi soldati all' armata, dormendo ognuna alternali - vamente, e in tal modo del pari lavoraudo. Spe­discono pure anche delle colonie (18). Eseguisco­no le api alcune operazioni al suono della voce dei loro capi, come fanno i soldati a quello della tromba : ciò si fa parlicolarmente quando tra di loro havvi dei segni di pace e di guerra. Ma ao> ciocché il noslro Assio non si annoi, sentendo (19) questi racconti di fisica, e perchè non ho detto niente dei frulli che ci somministrano, ti pre­sento, o Merula, la fiaccola.

Quello che io dirò dei loro frulli, dice Me­rula, sarà forse sufficiente per te, o Assio. lo fian­cheggerò i miei delti non sok> «oli’ autorità di uno die trae tolti gli anni dall’ affìtto de’ suoi alveari dnquemila libbre dì miele* ma ancora con quella del nostro Varrone qui presente, dal quale ho inteso che egli aveva sotto i.suoi ordini nella Spagna due fratelli soldati, detti Veiani, e del paese dei Falischi, i quali erano diventati molto ricchi ( quantunque il loro padre non afes­ae lasciato aU e**i che nna piccola casa* rusticana

; i 3DE R E RUSTICA L1B. 111.

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ftiXfpolk**, alii quidam piXtvot,àppellant. Hol nunquam minus, ut peraeque do­cerent, dena millia sexterlia ex nelle recipere esse solitos ; tum eos et velie expectare, nt suo potius tempore mercatorem admitterent, quam celerius alieno. Dic igitur, inquit, obi et cnjns- modi me frcere oportet alvearium, ut magnos capiam fractas. Ille : (JUXirrAvas ita facere opor­tet , qaoa alii /uXtrfo^tict appellant, eandem rem qaidam mellaria. Primam secandam villam, potissimam ubi non resonent imagines ; bic enim sonus harum fagae (causa) existimator este. Pro­ceram esse oportet aere temperato, neque aestate fervido, neque bieme non aprico, ut spectet po­tissimum ad hibernos ortu*» quae prope se loca habeat ea, obi pabulom sit frequens et aqua para. Si pabulum naturale non est, ea oportet dominum serere, quae maxime sequuntur apes; ea sunt, ros», serpyllum, apiastrum, papa te r , faba, lens, pisam, ocimum, cyperam, Medica et maxime cytisum, quod ▼alentibus utilissimam est. Etenim ab aeqoiuoctio verno florere incipit, et permanet ad alterum aequinoctium autumni. Sed ut boc aptissimum ad sanitatem apium, sic ad mellificium thymam. Propter hoc Siculum mei fert palmam, quod ibi thymum bonum et frequens est. ltaqoe quidam thymum contundunt in pila, et dilaunt in aqua tepida : eo conspergunt omnia seminaria consita apium causa. Quod ad locum pertinet, hoc genus potissimum eligendum }uxta villam ; non quo non in villae porticu quoqua quidam (qao tatius essent ) alvearia col­locarmi.

7 1*

Ubi sint, alii hciunt ex liminibus rotundas, alii e HgUo ac corticibus, alii ex arbore cava, alii fictiles, alii etiam ex ferulis qoadratas loogas cir­citer pedes ternos, latas pedem, sed ita,uti com pa­rum sit qua compleant,eas coangustent, ne in va*to loco et inani despondeant ani uram ; haee omnia vocant a mellis alimonio, atvos: quas ideo viden­tur medias facere angustissimas, at figuram imi­tentur earum. Vitiles fimo bubulo obKount falnt,

ed un csmpieeHo, non maggiore certamente di un iugero ), perchè avevano disposto all’ intorno dì tutta la casa della arnie, messo ad orto una porzione del campiceHo, e piantata l’ altra di timo, di citiso a di melisi» che alcuni chiamano ftsX/pu \o f (ao), altri /ufXf*9o9irik«' (ai), ed al­ca ni p 4 \ t * w (22) . Qaesli fratelli, computando on anno coll1 altro, non ritraevano meno di diecimi­la sesterzi di miele ; ed aspettavano a venderlo, amando di Carne la vendita in un tempo che fosse favorevole ad essi, e si guardavano dal venderlo troppo presto, acciocché non fosse pià favorevole al compratore. Dimmi dunqoe, dice Assio, qual laogo e qual forma io debb» assegnare alle arnie per ottenere in copia i frutti. Ecco, rispose Ufo» rota, quello che bisogna fare per gli alveari, delti da alcuni /usA/mfrtt» da altri /tisXrrpopf/a, ed In latino mellaria (a3). Primieramente bisogna collocanti presso la casa villereccia, • soprattutto10 an luogo, ove non si senta l’ eco ; perchè si giudica che il rumore dell’ eco te faccia fuggire. Inoltre (24) bisogna metterli in un laogo tempe­rato, che sia fresoo iu estate ed esposto al sola nell’ inverno ; e particolarmente debbe essere volto al nascere del sole nell’ inverno e in vici­nanza a looghi, ove siavi molto pascolo edacqaa pura. Se non vi sarà pascolo naturale, il proprie­tario avrà cara di piantare specialmente quetfe piante che sono ricercale dalle api, come la rosa,11 serraollino, la melissa, il papavero,-la fava, la lente, i piselli, il basilico, il cipero (a5), l’ erba medica, e particolarmente il citiso, il quale in modo speciale conviene a quelle cbe sono poco sane (26). Questo comincia a fiorire dall’ equino­zio di primavera, e dura sino a quello di autun­no (27). Ma ficco me il citiso contribuisce molto per la sanità delle api, così il timo per la coropo* sizione del miele. Per la qoal cosa il miele di Si­cilia porta la palma sopra tutti gli altri, perché colè il timo è buono ed in copia ; e perciò alcuni peitano il timo nel mortaio, e lo spargono aopra tutte le seminagioni che si sono seminate per le api, dopo averlo prima stemperato nell’ acqua te­pida. Riguardo al laogo da collocarsi gli alveari, si preferirà la vicinanza alla caia rusticana, quan­tunque alcuni li mettano anche volto il portico della stessa, affinchè fieno pià sicuri.

Ovunque ai mettano, alcuni H fanno rotondi, sia di vimine, sla di legno e di scoria, sia con un tronco d’ albero scavato, già di terra cotta, ed altri li fanno quadrati di ferula, e danno agli alveari la lunghezza di tre piedi allo incirca, e 1« lar­ghezza di un piede ; ma quando però le api sono in piccolo numero per riempirli, li ristringono, acciocché non si scoraggiscano in 00 luogo trop­po visto (»8). A tulle queste sperfe di al«eeri «

11. TEfiEKTll VARRONIS

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et extra, ae u p i r ìU U « b i l t r m B t v j eatqne tiro* ila collocent in malaHt perietft, ot ne «gi- tastar, nere inter te contiagant, cura io ordium aint potitae} aie Intervallo interposito, illarum et terliom ordinem infra faeton t, et afoni potiut ki'M demi oportere^ quam addi qoartum. Media aho, ia qaa introeant apet, faeioat foramina parra destra, ae sinistri. Ad extrema,' qoa mel­larii favam eximere possant, operoola Imponant alvis. Optimae fiaat eorbeiee, deterrimae fictiles, qaod et frfgore hieme, et tettale oalore vehemeo- ta ia e hie eommoveatkir.

9*1

Temo tempore el aettivo fere ter in mense meQarnu faspicere debet fumigans leviter eat, et a aparciriU purgare alt aro, et vermicaio* eji­cere. Praeterea at animadvertat, ne regali plores exiftant : iaatiles enim fiant propter teditiones ; et, ot qaidam dicant, tria genera cam tint daeom in apibut, niger, r u b e r , variat ; ut Menecratet scribit dao, niger, et varias : qai ita, melior ; at expediat mellario, cam dao tint eadem alvo, interficere nigram, quem scit cam altero rege esse seditiosam, et corrumpere alvam, qaod faget, aat cam maltitadloe fagetar. De reliquit apibai optima est parva , varia , rotanda. F or, qai vocator ab aliis focos, alter eat, lato ventre. Vespa, qoae timilitudinem babet apis, neqae toda est operis, et nocere tolet mortu, qoam apee a se seceraant, Eae differant inter te, qoae ferae et cica res tant. Nane ferat dieo, qoae in ailvcatribas locis patcilant ; ejeoret, qoae ia cal- tii. Silvettrea minores tant magailudine, et pilo- tae, tad opifioet magit. In emendo emtorem videre oportet, valeant, ao tint aegra». Sani U t it tigna, ti tant freqaentet in examine, et ti nitidae t ct ti opaa, qaod Caciant, ett aeqaabite, ae leve. Miaat valentiam tigna, ti snnt pilosae et horri­dae, at pulveralenlae, niti opificii eas urget lempas; tum eoim propter laborem asperantar, ac maeeicant. Si traotferendae taul alvi in aliam locam, id boere diligenter oportet, ct tempora, qaiboa id potittimam faciat, animadvertendam ; ct loca, qao transferaa, idonea providendam. Tempora, at verao potiat qaam hiberno, qaod hieme difficulter oootoeacaat,qao tant traatkataa manere: itaqae fttgtanl plerumque. Si e bono

di (n latino 11 nome di a h i (*9), pereti il micia ferve di nodrimeoto; e* pare appanto che gli abbiano fatti atrettiisimi in netio, onde Imitino la figura del ventre (3o). Gli alveari di vinchi (3 1) ti vestono dentro e fuori di sterco bovino,*ccioc- chè la loro asprezza non impedisca che le api vi ti accostino. Sopra modiglioni piantati nel moro ti mettono le arnie, ma in maniera che non ti tmovtno, oè cbe ti tocchino reciproca mente, qoando tono disposte eoo ordine. Formato che tiasi oo ordine, colla debita distante, ti fa di tolto no tecoodo ed on terzo ordioe. Si pretende che tia meglio formar toltanto due ordini, cheag- giongerne un qnarto. Alla meli delPalveare, per dove (3*), ea treno le api, si fanno de* piccioli fori a destra e a sinistra. AIP estremità superiore quelli che haono in cura il miele, mettono dei coverchi, affioehè postano trar fuori i favi. I migliori alveari sono qoelli di scorsa, ed i peggio­ri qnei di terra, perchè oelP inverno vanno sog­getti al grao freddo, eome al gran caldo nella alate (33).

Chi ha in core il miele, deve nella primavera e nell'ette te viti tare gli alveari* qoati tre volte al mete, profumarli leggermente ogni volta, nettarli dalle tporcizie e acacciare i vermicelli. Inoltre abbia T occhio attento, ónde noù ti trovino pa­recchi re nella medetima arnia, altrimenti frutte­rebbe scarsamente per le tediziooi ; 3 siccome, secondo P attentane di alconi, ti contano tre specie (34) di capi delle api, cioè il nero, il rotto e lo screziato ; e due fecondo Menecrate, vale a dire il nero e lo tcreziato, coti, perchè qnest’ al­timo è migliore (35), giova, che trovandosi due capi oelP it tetta arnia, che il aoprastante al miele ammatzi il negro, perchè sa che è sedizioso coa­tro P altro re, e che è inteso alla distrazione del- P alveare, sia facendo fuggire le api, tia fuggendo egli fletto e tirandosene dietro una gran quan­tità. Riguardo alle altre api, le migliori tono la picciole, le screziate e le rotonde. I ladro, o pec­chione, che da altri ti chiama in latino faem s, è nero (36) c largo nel ventre. La vespa, la quale rattomiglia all’ ape, oon lavora panto inficino eoa qoesta, anzi tuoi* nuocerle col morso ; per lo che le api la scacciano dalla loro società. Le api sd- vagge differiscono dalle addomesticate (37). In­tendo per aelvagge quelle cbe vivono ne' luoghi selvaggi, e per addomesticate quelle cbe vivooo ne* luoghi coltivati Le prime tono piò picciole, pelote e piè intese al lavoro. Bitogna che nelf at­to della compera ti esamini se fieno saoe od am­malate. É segno cbe «ooo tane, te formino uno telarne nameroeo, te tono locidb, te il loro lavoro è uniforme e liteio : ed è poi ttfgno cbe tono em­ettiate, se fono peldie, brutte, 0 pitae di poi*

7 2*DB RE RUSTICA UBL in .

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M. TERENTII VARRONIS

loco transtuleris eo, obi idonei pabulatio non est, fugitivae fiunt. Nec n ex alvo io ilrom in eodem loco trajiciat, negligenler faciendam; sed si trans-; itura* snnt apes ea, apiastro perfricanda, qaod illicium hoc illis : et favi melliti intos ponendi, ■ faacibns non longe, ne, cam animadverterint, ■ut inopiam escae habaisse dicantar, aut cam aant apes morbidae propter primores vernos pastas, qni ex floribus nncis Graecae’, et corna fiunt, coeliacas fieri, atque orina pota refici.

De his propolim Tocant, e quo faciant ad fo* ramen introitai proteetam in ilvam maxime «estate. Qaam rem etiam nomine eodem medici ntantur in emplastris ; propter qoam rem etiam caricis in sacra via, qoam mei veoit. Erithacen vocant, quo favos extremos inter se conglnlinant, quod est aliud meile, propoli : itaqne in hoc vim esse illiciendi ; quo circa txamen obi volant con­sidere, eam ramum, alia rave quam rem oblinunt hoc, admixto apiastro. Favus est, quem fingunt multicavatum e cera, cam cingala cava sena latera habeant, quot -singulis pedes dedit natura. Neque qnae afferuntur ad quatuor res facieodas, propo­lim, erithacen, favum, mei, ex iisdem omnibus rebus carpere dicantor ; simplex, qaod a malo punico, et asparago cibum carpant solam, et olea arbore ceram, e fico mei, sed non bonum ; duplex ministerium praeberi, ot e faba, apiastro, cocur- bita, brassica ; ceram, et cibum ; nec non aliter duplex, quod fit e malo et piris silvestribus, cibum et mei ; item aliter duplex, quod e papa­vere ceram, et mei ; triplex ministerium quoque fieri, uti ex nuce Graeca, et e lapsana cibum, rael, ceram; item ex aliis floribus ita carpere, ut alia ad singulas res sumant, alia ad plures ; nec non etiam alind discrimen sequantur in carptura, ant eas seqoatur, ut in meile, quod ex alia re faciont liquidum nel, nt ex sisere flore : ex alia contra, spissum, nt e rore marino. Sio ex alia re, nt e fico mei insoave, e cytiso bonam , e thymo optimum. Cibi pars, quod potio, et ea iis aqua liquida ; onde bibant esse oportet, eamque pro­pinquam, quae praeterfluat) aut in aliquem locum

vere (38), qaando peraltro non sia il tempo,.ia coi sono sollecitate al lavoro, perche io. allora il lavoro le rende brnlte e dimagrate. Se le arnia si debbono trasportare da oo luogo all’ altro, ciò si (accia eoo diligenza, e scelgasi il tempo ed il luogo più conveniente. Riguardo al tempo, acel- gasi piuttosto la primavera, che I' inverno, perchè nell1 inverno difficilmente si assuefanno a realare dove si sono trasportate ; laonde per lo più fng- gono (39) : fuggooo parimente, se da nn boon luogo si trasportano ove non siavi on paseoi» acconcio. Bisogna essere diligenti anche quando, senza farle cangiare di luogo, si fanno passare da un alveare all' altro ; nel qual caso si stropiccia colla melissa l'alveare, in cui passano (4o), essen­doché quella pianta ha la virtù di attirarle. Biso­gna altresì mettere presso l ' apertura dell1 arnia dei favi, acciocché per iscarsezza di cibo non dispiaccia loro la prima abitazione (4 0 . Che se accade che i primi nodrimenti di primavera, che somministrano i mandorli ed i cornii, promova­no ad esse la diarrea, si ristorano dando loro a bere dell' orina.

Si chiama propolis (42) la materia, con cui cuoprono, particolarmente nella state, l'apertora dell'arnia. I medici l'adoprano negli empiastri sotto il medesimo nome (43) ; il che fa che si veoda nella via sacra a più caro prezzo pel miele. Si chia­ma erithace la materia, con cni essa conglutinano insieme i favi nell' estremità ; e quella differisce dal miele e dal propolis (44)* Si crede quindi che 1' erithace abbia la proprietà di attirarle ; e per­ciò, quando si vuole che uno sciame si poggi so­pra on ramo, od altrove, lo fregano con questa materia mista alla melissa. Il favo è un'operi bucata di cera : ogni foro ha sei lati, quanti ap­punto sono i piedi che ad ognnna diede la oatura. Si dice eh' esse non raccolgano (45) indistinta­mente sopra ogoi pianta quanto loro (a di bisogno per la formazione del propolis, dell 'erithace, del favo e del miele. Soddisfano ad un solo og­getto, cioè raccolgono il cibo (46j sopra il granalo e I' asparago ; dall' olivo traggono la cera, e dal fico il miele, il quale però non è buono. Altre piante servono a due fini ; come la fava, la melis* sa, la zucca ed il cavolo, dalle quali traggono la cera ed il nodrimenlo. Servono altresì a due fiui il pomo ed il pero che sieno selvaggi; e questi somministrano il cibo ed il miele ; lo stesso è del papavero, da cui traggono cera e miele. Sonori pure delle piante, per mezzo delle quali soddis­fano a tre oggetti, come il mandorlo ed il cavolo selvaggio, da cui traggono il nodrimenlo, il miele e la cera. Parimente con altri fiori servono o ad un solo fine, ovvero a parecchi. Havvi ancora un'altra differenza ({7), cni abb&dano le api nel

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inffuat, ita ut nt iltitodlni aicepdat duo tal tre* digito* : ia qaa aqua jacesnt testa*, aat la­pilli, ita al exteot paulum, abi assidere, et bibe­re possint. In qoà diligenter habenda cara , ut aqua sit para, qaod ad mellificium bonam vehe- meftter prodest. Quod non omnis tempestas ad pastam prodire Ion gioì patitur, praeparandus his cibas, ne taro meile cogantur solo ri?ere, aat re­linquere exinanitas alvos. Igitur fi coram pin­guium circiter decem pondo decoquunt in tquse congiis sex, qnss coctas in offas prope apponant. Alii aqaam malsam in vasculis prope ut sit curant, in qoae addunt lanam purpuream, per quam sugant : nno tempore ne pota nimium implean­tur, hot ne incidami in aquam. Singula vasa po­nunt? ad alvos singulas, et hac snpplcntur. Alii uvam passam et ficum, cum pinserunt, affundunt saptm, atque ex eo factas offas apponunt ibi, quo forai bieme Ìq pabulum procedere tamen possint.

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Com examen exiturum est, qnod fleri solet, cum adnatae prospere sunt multae, ac progeniem veteres emit ter» volunt in coloniam, ut olim cre­bro Sabini factitaverant propter* multitudinem liberorum ; hnjus quod dao soleat praeire signa, •citor. Unum, quod superioribus diebus, maxime 'vespertinis, rùullae ante foramen (ot uvae) aliae ex aliis pendent conglobatae. Alterum, quod cum )am evolaturae sont, aut etiam «inceperant, con­sonant vehementer, proinde ut milites faciunt, com castra movent. Quae primo tum exierunt, in eonspecta volitant, reliquas quae nondum ^ogregalae sont respectantes, dum conveniant. Cum a mellario id fecisse suot animadversae, jaciondo in eas pulverem, el circumtinniendo *€re, perterritas quo voluerit perdocet. Non lon- gt inde oblinunt erithace, atque apiastro, caete- risque rebus, quibus delectantor. Ubi oonsede- nuit, afferunt alvum prope eisdem illiciis illitam

succhiare 1# piante, o per meglio dire, questa dif­ferenza è forzata p«r esse ; imperocché da alcune piante traggono un miele liquido, come dal fiore del cece (48), e per contrario da altre denso, co­me dal ramerino. Egli è lo stesso delle altre pian­te : il fico dà nn miele insipido, il citiso Io dà buono, ed ottimo il timo. Siccome la bevanda è una parte del nodrimento, e questa non consiste ohe nell* acqua chiara (4g), così bisogna che pos­sano trovarne e in vicinanza, sia poi di ruscello, ovvero di fontana : non debbe però l'acqua essere alta (5o) piò di* due o tre diti : si metteranno dentro l'acqua dei mattoni o dei sassi, ma in maniera che la sormontino un poco, acciocché possano poggiarsi e bere. Abbiasi tutta la cura, onde l'acqua sia purissima, perchè giova moltissi­mo per la bontà del miele. E perchè non in ogni tempo possono andare lungi a cercare il cibo, bi- sogns tenerne di pronto, onde, esieùdo cattivo tempo, non sieno obbligate a vivere di solo miele, ovvero ad abbandonare ed a laaciare vacui gli alveari (5 i). A quest'effetto si fanno bollire in sei congii d'acqua dieci libbre allo incirca di fichi graasi, i qoali ridotti (5a) in pasta, si mettono presso di esse. Altri hanno la cura che in vicinanaa si trovino dei vasetti oon entro dell'aeqoa mela­ta, in cui mettono della Una nettissima (53), at­traverso della quatte possano succhiare: in qoesto modo e s'impedisce che bevano troppo, e si sci»ira ohe cadano nell1-acqua. Avanti ad ogni arnia si mette uno di questi vasi, che si mantengono som- p r t pieni. Altri pestano insieme dell' uva passa a dei fichi; e dopo avere bagnata questa massa eolia sapa, formano delle offe, ohe mettono avanti gli alveari (54), ma in maniera che possano, an­che iu tempo d 'inverno, andare a procurarsi del cibo.

Qoando lo sdama è par nseire dall' arnia, il cbe suole succedere quando la propagazione è atata felice ed abbondante, e le vecchie api vo­gliono spedire una colonia, come una volta face­vano sovente i Sabini per la quantità dei figli, ciò d' ordinario è precedalo da due segni. Il primo si è, cbe alouni giorni avanti, e particolarmente la sera, si vedono innanzi l ' apertura molli grop­pi di api insieme appiccali, come i grani dei grap­poli di ova ; ed il secondo, che quando sono per volare, ovvero che hanno già cominciato, man­dano uo rombo straordinario, simile al tumulto de' soldati che decampano. Le prime che sono uidle deir arnia, volteggiano in faccia alla stesss, ed aspettano che le altre, le quali non si sono ancora raccolte, vengano a raggiungerle. Quando vede ciò quegli che ha in cura le api, getta sopra di esse della polvere, e girando i contorni oon qualche strumento di rame, sopra eui batte, la

72GDE RE RUSTICA LIB. III.

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7*7 V. TERENTII VARRONIS 7 * 8

lotas : et prope appoiits, forno leni circamcuodo cogunt eas iutrere : nt quse io noram coloniam cum iotroierant, permanent «deo libenter, a t etiam ti proximam posueris illam altum, ondi exierunt* Umeo doto domicilio potitu fiat con­tentae.

Qaod ad pastiones pertinere som ratos, quo niam dixi, oooe jam cajas caesa adhibetor ea cora, de fructu dicam. Eximendorum fetorum sigoum somoot ex ipsis, cam plenas altos habent, el eam iUos geminaverint; ex apicas eoojeoUiram capiunt, si fotas ferie at bombano, et eam ia- troéant, ao foras' trepidant, et si opereala alvi eom remota sint, favorum foramina obdoota ridentor mellis membranis. Cam siot repleti meile, in eximeodo qaidem dicaot oportere ao» ▼em partes tollere, decimam relinquere; qood ai omoe eximas, fere ot discedant Alii hoe pias rdinqaunt, qaam dixi ; at in aratis, qoi fedunt restibiles eegetes, plus Ullaot frumenti ex inter­valli» : sic io alfis, ai non qaotaoois eximas, aat non qooqae maltam, et magis his assidoas habeas apes, et magis fractaosas. Eximendorum fa*oram primam patant esse tempas Vergiliarum exorta ; secandam aestate acta, ante qoam totas exoriatdr Arctoros ; tertiam post Vergiliaram occasam, et ita si foeoanda sit alvus, ot ne pias tertia pan eximator mellis, reliqoom hiemationi relinquatur; si tero alvos oon €t fertilis, ubi qoid eximator, exemtio cam est mejor, neqoe aoitersam, oeqoe palam faeere oportet, ne defidant animam. Feti qai eximantur, siqna pars nihil habet, aot habet inquinatam, coltello ‘proeseeetar. Providendum ne infirmiores e reiculioribus opprimentur ; eo enim mioaitar fractus, ltaqae imbecilliores se­cretas subjiciant sab alteram regem. Qaae cre­brius inter se pugnabant, aspergi ea» oportet aqua mulsa ; qao faeto neo modo desistant pu­gne, sed etiam conferciont se liegentos, eo magis ai mulso snnt aspersae, qeo propter odorem iti- dias applicant se, atque obstupescant poteutes. Si ex alto mira* frequentes eradont, ac sobsidit •liqua pars, soffumigaodam, el prope apponen­dum bene olefetium herberum, maxime epiastrom et tbymara. Protidendam rehementer oe propter aestum, aot propter frigas dtspereaot. Si qaando eubito imbri in pasta sont oppressae, aut frigore sobito, ante quam ipsae providerint id fore (qood aoeidit raro, at decipientur), et imbris guttis uberibus offensae jacent prostiatae, et affli*

sparente, e le conduce o r e gli pUee. In q m l e t f

disteaza ange an ramo d* albero, o quakbe a l t r a

com (55) di fn ìio cs , di melissa» o di altro drogo che piaccia alle ap». Fermate che ai sieno, si — tic ticino ad esse an1 arnia (56) pota di dentro s di fuori colle indicate esche ; e girando I n to r n o a l le

medesimo con nn famo leggiero, si obbligano e rientrare nell* arnia. Quaodo sodo entrate m

questa nuora colonia, tanto volentieri ti diaao- rano, che se anche si arriciuasse ad esse P arnia* da coi sono nsdte, preferirebbero non ostante questo nuoto domicilio,

E poiché ho terminato qaaoto crederà di dire intorno al modo di allevarle, ora parlerò del loro fratto, oggetto per cai si preodono tento cure. Esse.medesime danno a conoscere eoa dif­ferenti segni (57) qaaado bisogna levare i fati gii ripieni. 11 primo è quando sonori dot ladri nell1 arnia ; il che si congettura dal bisbiglio che si sente internamente, e se le api entrando ed uscendo tremolano. 11 secondo è, che levando I coverebi delle arnie, si vedono i fari ottarati da picclole membrane di miele ; il che non accade se non qaando sono interamente pieni. Alconi togliono che quando si lere il miele dalT alreare, si lasci dentro lo stesso una decima parte (58) ; perchè se si letasse tutto, le api fuggirebbero. Altri ne lasciano in maggior quantità, in quella guisa che i la foratori alla campagna lasciando riposare le terre (59), raccolgono poi pià oopia di biada. Lo stesso si fa nelle arnie: se nfen si lete il miele tolti gli anni, o se in nn tratto non letaseoe molto (60), le epi non faggirannò, e frutteranno di piò. Si crede ohe la prima sta­gione gec letare i fisti sia al nascere delle Pleiadi ; la seconda al terminare della siate e aranti che P Artaro sia ioteramente letato ; e la tersa dopo il tramontare delle Pleiadi ; nel qual caso non si debbono lerare piò di dae leni di miele (61), supposto che P ernia sia fertile, e lasciare il di piò . per V inverno. Se poi 1* arnia non è fer­tile (62), non si tolga niente. Qaando poi togli*- sene ana parte considerabile, non bisogna levarlo tutto (63), nè in palese, acciocché le api non per- daoo il coraggio. Se nei fari che si (erano, trota fi

qualche parte senu miele, oppure se re n ' è di aporco, si taglia oon un eoi tettino. Si proregga onde le forti noo opprimanole deboli, perchè cosi si diminuirebbe il fratto ; e perciò ai sepe- rauo lo deboli, e si sottopongono ad an altro re. Qaelle che sovente combattono tra di loro, si bagoioo coll1 acqua melata, medicate dio noo solo cerneranno di combattere, ma ancora si rio- nirannfc tutte per leccarsi; e tanto più se si saran­no spronate di rioo melato, perchè V odore del rino ha la rirtò potente di riunirle, e diventano

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ctae, colligendum u i ia ?ti ali qood, et rtpotwn*- jam io taoto loco, a o tepido, pronta in « die, qaam maxime tempestate bone, et attere foto e Icibeis - Jignis iefriandam penilo piai caldo gasa tepidiore; deinde concutiendam leviter, al manu noo tenges, et pooendte ia sole. Qaae eoim tio concaluerant, restituant se, m revivi­scunt, al solet similiter fieri in moscia eque ne­catis. Hoc fadondam seeaadam alvo*, nt reeoo* dliatae ad n o n qnaeqoe opos el domidliom redeant.

7 V

stupide nel suochtarlo. Se dall* arnia noo esoe «ni baoa no mero di api, e se dentro re ne resta uoa boooa copia, ti faccia do de’ suffumìgi, ed in vici* nanaa ti metta <64) qualche erba odorosa, spedai» mente delta melissa e del timo. Abbiati latta la cara che il caldo od il freddo non le facda mo­rirà. Se qeaado pascolano vengono sorprese da una pioggia o da on freddo improvviso, avaoti cbe esse abbiano potato prevedere questi acci­denti (ì[ cbe accade di raro) ; e seia folta pioggia le avrà gettate a terra e m e languide, bisogna raccoglierle, riporle in nn qualche vaso, e portarlo in un luogo coperto e caldo (65), e non ritirarle di là che qoando è buon tempo. Avanti per altro di ciò fare, si getta sopra di esse della cenere di legno di fico, che ha da essere piuttosto calda, cbe tiepida: dopo si scuoterà leggermente ii vase (66), perchè non vanno toccate colle mani, e si esporrà al sole. Qudle che in tal modo si sona riscaldate, si rimettono e riprendono vita, come snoie per appunto accadere alle mosche annegate. Si facda quest’ operazione presso gli alveari, ao- docchè, quando avranno acquistate le forse, possa ognuna ritornare alla sua caia e ripigliare il lavoro.

73oDB HE RUSTICA UB. TU.

CAPUT XVII

Da pisciata.

Interea redit ad nos Pavo : Et, si vallis, tq- quit, ancoras tollere, latis fabalis sortitio fit tri­buum, ac coepti sunta praecone renuntiari, quem quaeque tribas fecerint Aedilem. Appius con fe­stini sargi t, ul ibidem candidato suo gratulare- ter, ac discederet in hortos. Merala : Tertium actam de pastionibus villatids postea, inquit, tibi reddana, Axi. Consurgentibus illis, Axius mihi, respectantibus nobis, qnod et candida- tum nostrane veniarum sciebamus : Non laboro, inquit, boo loeo disoessisse Merulam; reliqua eoim fere mihi sont nota. Quod cam piscina­rum genera sint duo, duldum et salsarum ; al­terum a pad plebem, et ( non ) sine fractu, ubi Lymphae aquam piscinis nostris villaticis mini­strant, illae autem maritimae pisdnae nobilium, quibas Neptunus, nt aqaam, sic et pisces mini­strat, magis ad oculos pertinent, qnam ad vesi­cam, et potius marsupium domini exinaniunt, quam implent. Primum enim aedificantur ma­gno, secondo implentur magno, tertio alantar magno. Hirrias drcam pisdnas suas, exaeiifidis doodea* millia sextertia capiebat; eam omnem aaereedei eids, quss dabat pttabus, consu­

l i . Ttasitzio Yaìsokb

-------4 0 »—

CAPITOLO XVII

Dbllb pucaisai.

Frattanto ritorna a noi Pavone (i), e dice : Se vi piace, levate pure le ancore, perchè ai ti­ra alla sorte per torre 1’ eguaglianza dei voti delle tribù (a), e si è già comindato dal Prae­co (3) a pubblicare i nomi di quelli che da ogni e singola tribà sono stati eletti Edili. Appio sorge tosto per andare a congratularsi col suo candi­dato, e poi ritorna agli orti. Mernla dice ad Assio: Io ti dirò in nn altro momento il tene atte dei nodrimenti ohe si Anno nelle case di villa. Levatisi tutti, e nell’ atto che noli due, Assio ed io, d guardavamo in volto, perchè già eravamo prevenuti ohe il nostro candidato sa­rebbe venuto a trovarci (4), Assio mi dice : Sono indifferente che Merula sia partito di queste luogo, perchè so quasi tutto quello che resta a dire. Sonovi due specie di peschiere, di >leld e di salse : Ve prime sono senzs spesa (5) ed adottate dalla plebe, perchè le Ninfe sono quel­le che somministrano le acque alle nostre pe­schiere di villa : le seconde poi sono quelle di mare adottate dai nobili, alle quali Nettuni, siccome somministra 1’ aequa, così ai pesci somministri P esca : queste sono fatte piut-

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?3i M. TERENTII VARRONIS

mebat. Non tui rum ; uno tempore eoim memini bane Caesari dao millia muraenarum maina de­disse io pondus, el propter pisoiam multitudi­nem quadragies sextertio tiliam veniste. Quare nostra piscina ac mediterranea plebeja recte di­citor d alcis, et illa amara. Quis enim nostram non ooa contentos est hao piscina f qais contra maritimas non ex piscinis singolit plores conjoo- etas babet ? Ploris : nam ot Pausias, et oaeteri pictores ejusdem generis, loculatas magnas ha­bent arculis, obi discolore* sint cerae, sio hi lo* colatas habent piscinas, obi dispares disclusos babeant pisces, quot, proinde ut sacri sint, ao sanctiores quam illi in Lydia, quos sacrificanti tibi, Varro, ad tibicinem Graecum gregatim ve­nisse dioebas fd extremum litus, atque eram, quod eos capere auderet nemo, cum eodem tem­pore insulas Ludinorum ibi choreosas vidisset ; aie hos pitces nemo cocus in jus Tocare audet.

Q. Hortensios fcmtflarfi noster cum piscinas haberet magna pecunia aedificatas ad Baulos, ita saepe com eo ad Tiliam fui, ut illum sciam sem- per in coenam pisoet Puteolos mittere emtum aolitum. Neque salit erat eum non pasci piscinis, nisi eos ipse pasceret ultro; ac majorem coram jsibi haberet, ne ejus esurirent molli, qoam ego habeo, ne met in Rosea esuriant asini; et qoidem ntraqoe re, et cibo et potione, com non paullo eomptoosios, qoam ego his ministraret victum. £go enim uno servulo, ordeo non multo, aqua domestica, meos multino mos alo asinos. Horlen­tius primum, qoi ministrarent, piscatores habebat comploret, ct ii piscicolos minutos aggerebant freqoeater, ut a majoribos absomerentur. Prae­terea salsamenta in eat pitcioas em lilia conjicie­bat, cum mare tnrbaret, uti per tempestatem soit piscibus e macello celariorom, uti e mari, obso­nium praeberet, cum neqne everriculo illi in li­tus educere potaent vivam saginam, plebejae coe-

tosto per piacere alla titia, ohe per profitto; e contribuiscono più a votare la borsa, che a riempirla. Imperciocché primieramente costano molto per fabbricarle, per popolarle di petci, • per nodrirle. Egli è il vero che Irrio ritraeva dodicimila sestertii dalle pertinenxe delle rat peschiere ; ma tutto questo profitto il consu­mava in nodrire i pesci. Nè ciè fia meraviglia; imperciocché io mi ricordo che in una fola vol­ta prestò a Cesare (6) duemila murene, col pat­to che gli fossero restituite a peto ; e che la tua casa di villa fu venduta qoattro milioni di sestertii per la gran quantità di pesci che con­teneva. E per questa ragione a buon diritto si dice che le nostre petchiere mediterranee a plebee sono dolci, e quelle de' nobili amare. Chi è di latti tra noi che ti contenti dì una sola peschiera della prima specie t e qual è quel nobile che si contenterà di una sola peschiera marittima, e non piuttosto di molte ? dico di molte, perchè siccome Pausia (7) e gli altri pit­tori nel medetimo genere (8) hanno varie gran­di cassette distribuite in nicchie, in ognuna delle quali ripongono le cere di colorì dif­ferenti ; così le persone delle quali io parlo, hanno parimente delle peschiere distribuite ia varii alvei contenenti varietà di pesci che net- tun cuoco ardisce di toccare (9), come se fos­foro sacri e più rispettabili di que’ pesci, i quali tu dici, o Varrone, che hai vedati in Lidia, e che nel tempo che tu sacrificavi in quel paese, ti attruppavano aul lido e fino presso V altare al suono di flauto che tonava quel Greco, tenia che alcuno osaste di prenderli. In questo me­desimo paese vedesti pure danzare nello stesso tempo delle isole (ro).

Allorché 1' amico nostro Q. Ortensio poti» dava queste peschiere fabbricate con grande spesa presso Bauli, mi è accaduto sovente dt andar eon lui alla sua casa di villa per assicu­rarmi che aveva P oso di spedire a comprare a Pozzuolo del pesce per la sua tavola. Nè so­lamente si rimaneva dal mangiare il pesce delle sue peschiere, che anzi si dilettava di nodrìrlo: ed egli aveva più a cuore che le sue triglie non avessero fame, di quello che io m’ abbia per i miei asini, acciocché non diventino fa­melici nella mia casa villereccia di Rosea. Inol­tre egli spende più io oibo ed io bevanda per i pesci, che io nel vitto degli asini; per­chè io, quanlunqoe tragga del profitto, non he bisogno, per nutricarli, che d’ un picciolo schia­vo, di un poco d' orzo, e dell’ acqua che b» in casa ; laddove Ortensio aveva prima, per ser­vire i suoi pesci, molli pescatori occupati perlo più in raccogliere de* minati pesci, o*d«

73»

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j 33 DE RE RUSTICA. UB. 111. ?34

nae plseea. Celerius volontate Hortensii ex equili educeres rhedariat, at libi haberes, molai, qutm e piscina barbatam mallam. Al, iuqail ille, non mioor cara ejas erti de aegrotis piscibus, qoam d e minas falco libas servii ; itaqae minai labore- bat, ne servas aeger, qaam aqaam frigidam bi­berent sai pisces. Etenim haa incaria laborare ajebal M. Lucnllam, et piscinas ejus despiciebat, quod aeslivaria idonea non haberet, ac ( io ) re- lidem aquam, et locis pestilentibus habitarent pisces cjus. Conira ad Neapolim L. Localius po- steaqaam perfodisset montem, ao maritima flu­mina immisisset in piscinas, qoae reciprocae fluerent, ipse Neptuno non cederet de piscatu ; lactum esse enim, ut amatos pisces suos videatur propter aestas eduxisse in loca frigidiora, ut Appuli solent pecnarii facere, quod propter ca­lores io montes Sabinos pecus'ducnnt. Iu Bajano antem tanta ardebat cura, ut architecto permi­serit, ot saam pecuniam consumeret, dummodo perduceret specas e piscinis in mare, objectacu­lo, quo aestus bis quotidie ab exorta luna ad proximam novam introire, ac redire rursus in maro posset, ac refrigerare piscinas. Nos haec. At alrepitus a dextra, et eccum recta candidatus noster designatus Aedilis. Cui nos occurrimus, et gratulati in Capitolium prosequimur ; ille inde condo tuam domani, nos nostram. Opinionis no­strae termonem de pastione villatica sommatim hunc, quem expotoi, habeto.

Ser fissero di esca ai grandi. Inoltre comprata del pesce salato, e lo faceva gettare nelle pe­schiere, quando il mare era agitato, e quando appunto perciò il mercato dei pesci non som­ministrava Pesca, in pari guisa del mare (11), ed i pescatori non potefano tirare sulla rifa, per mezxo delle reti, dei pesciolini vifi ehe so­no il nodrimenlo del popolo. Ortensio avrebbe piuttosto acconsentito che dalla scuderia si le­vasse una muta di muli (ia) per fartene un dono, che trarre fuori della peschiera una tri­glia barbata. Egli aveva più cura de1 pesci am­malali, che de' servi parimente ammalati ; e perciò era meno inquielo se un servo ammalato avesse bevuto dell1 acqua fredda, che se ne aves­sero bevuto i suoi pesci. E per questa ragione diceva che Lucullo era an negligente, e disprei­zava le sue peschiere, perchè non aveva quar­tieri acconci per la stale (i3) ; e perchè lasciava che i pesci albergassero in un1 acqua stagnante ed io luoghi malsaoi. Per contrario L. Lucullo ha fallo traforare an monte presso Napoli (i4)« e procurato che i fiumi vicini al mare •’ im­mergessero nelle peschiere, e che quelli fluis­sero alternativamente (i5) ; periocha non la ce­deva per la pesca allo stesso Nettuno. Sembrava quindi che avesse trasferiti t suoi cari pesci in luoghi più freschi, per difenderli dal gran cal­do , in quella guisa che i pastori della Puglia sogliono difendere dal gran caldo il gregge, conducendolo tui monti Sabini. Egli era tanto appasaionato per le sue peschiere di Baia, che diede ampia facoltà al sug architetto di rovi­narlo ancora, purché facesse an canale totter­raneo, per meizo del quale potessero avere co­municazione col mare, affinchè, mediante una diga, il flusso potesse entrarvi due volte al gior­no, cominciando dal primo quarto sino alla nuova vicina luna, a oggetto di rinfrescare le peschiere. In questo frattempo si fa del rumore alla parte destra ; ed ecco venirsene a noi io porpora (16) il nostro candidato eh' era stalo elello Edile, coi noi andammo iocontro (17) ; e dopo averci congratulali seco lui, Io seguim­mo nel Campidoglio (18). lodi egli se n’ andò alla saa, e noi alla nostra casa. O nostro Pia­no (19), degnati di aggradire questo discorso eh1 io ti tenni sommariamente intorno ai nodri-

1 menti che ai fanno nelle case di villa.

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ANNOTAZIONI

AI LIBRI DE RE RUSTICAD I

M. TERENZIO YARRONE

------------- * «4 --------------

LIBRO PRIMO

Cai. I. (v) Quest' è la moglie dal nostro auto* r e , oo m e ai raeeoglie dal seguente capitolo, ore parla di nn C. Fundanio woo toocero.

(a) Se ci fotte mancato l'appoggio ddl'edizlo^ ai Gentooiaoa, Bolognese, Reggente e de’Giuoti, cbe ha ooo potius essem consecutus, ooo ei ta- remmo non ostante rimatti dal tradarre coeren­temente a questa Tarlante, essendoci sembrato cbe io questo caso otium o commodius dìeano b ttesso. Se ti traduceste se avessi mìo, t i scri­verei queste cose con com odo , non ti fkrebbe ahe ripeter l’ it tetta idea ; ed è più ragionevole che ti t o n f a n o cote migliori con ©zio e c o n Sen- testa, che oon fretta originata dall'età avanzate, onde oon rimanga V opera imperfette.

(3) Aldo ha potie in principio si, qoando ra ■wo a qoosio foogo ; coti trovandoti appunto nell' edizioni Gensoniane, Bologneae, Reggente, a de'Giunti; onde fa letto si commodius tibi haec scriberem.

(4) V 'è gran contea* tra gli eroditi, te debbe leggerti annus enim xxc i admonet me. Urtino, Arduino e Pontederà ti eocordano in asterire che Varrone ha acritto questo libro nell' anno ottan­tennio primo di toa eli : all' incontro Popma e Stbooreox totteogono l'anno ottantesimo. I pri- ^ •* fondano sull' asserzione di Plinio, il quale dice che Varrone ha composto qnett'opera in età d 'anni oltanlono. Ma e perché non enppor piut- tailo che l 'errore à di Plinio, o de' suoi copisti ?

Foraeehè tutt'i codici di Varrone noo haaoo che l'anno ottantedmo f Questa uniformità dei codici ci è sembrata di tal forza, che noo d hi punto motti a seguir Plinio.

(5) In questo luogo vi sono moltissime varian­ti, le qoali però non differiscano sostanzialmente: quella che d è ritenuta nel testo, ha nn sepor antico ed è on grecismo Varroniano.

(6) In un antichissimo codice ha trovato Vit­torio , non solo in questo luogo, ma ancora in molti altri, acritto quoad per quo ad: lo stesto pure trovati nel codice Polizianeo. Vittorio per altro ci ha dato questa pdlegrina notizia, senza far alcun cangiamento. Qui si avverte una volta per sempre, che il lodalo autore ha collalionato molti eodid Varroniani; perciò d varremo sovente della sua autorità, oome quella che gode uo soli­do appoggio.

(7) I Pagani davano il nome di Sibille a tutte le donoe cbe avevano il dono di predir l ' avvo- nire. Ve ne sono state died, che d resero celebri colle loro predizioni. Ai tempi di Varrone trova­vano tra k mani di lutti i libri che dalle Sibille erano stati scritti ; ma perché erano confusi, e ben non d sapeva quale delle died fosse I1 autrice di questo, o quell' altro libro, perciò si conside­ravano come l ' opera di nna sola Sibilla. Non vi erano che i soli libri della Sibilla Cornane ; ma questi si guardavano con tutta la gelosie, e non potevano essere consultati che dai quindicemviri.

(8) Ursino dispone le parole dd testo in altro guisa, come altresì fa oso di un* altra interpnn*

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;39 ANNOTAZIONI AL LIB, 1 DE RE RUSTICA ri*

«ione. È buono veder M il senio riesci pià chia­ro. Neque enim pa tia r Sjrbillam non solum ce- cinissty quae% dum viveret^ prodessent homi- nibus, et id etiam ignotissim is quoque% sed etiam quae% cum perisset ipsa (ad cujus libros tot annis post publice solemus re d ire , cum desideramus, quid faciendum s it nobis ex a li­quo portento) : me, ne dum viIvo quidem , ne­cessariis meis quid prosit facere. Egli iggion- ge che io vece di nobis si poò leggere novisse, perchè li lettera b so?ente si cangi* in v dai librai. Mi eoo fona per litro che da questa lezione noo si poò trarre on gioito senti mento.

Noi triboliamo la gioiti lode a Ponteders per alerei appianata li itrada airiotelligeou di que­sto testo intralciito. Egli ragionevolmente pensi che il debbi leggere : Mene dum veivo quidem necessariis meis quod prosit, facere ? u Cum frigidum quiddam, dice egli, alque inane enei cusum, me, nedum vivo quidem , necessariis meis quid prosit facere : alio modo, juncto id me ne, ut seotentii Varrone digna fieret, scri­bendum dpximus. Quam ut aperiam, inperiora repetenda sunt. Experiar, inqoit Varro , et non solam dum vivo, quid in coleodo fando, quem emisli, fieri oporteat, ut ti moneim, sed etiam poit mortem. Nam si Sybilla acri pii t quae, non solum dura viveret, sed etiam vita functa, igno- tiasimis hominibus prodessent, mene (non pude- bit) dum vivo tintom familiaribus meis quod prpsit, lacere ? Virgilio! fortasse ex Varrone, nt multi alia, non dissimili modo cinit :

“ ........ Mene incoepto desistere victam f „

(9) Gasnero erede che rida detto : D ii adjm- pmnt saera tllis facientes.

(10) Queste ermo dee, ebe i poeti Unsero fi­glie di Giovo e dilli Mtmoria, alle quali diedero 1* imperio della poesia e della musici. I Pagani n i contavano novi, quintunque in origine Giove noo ne eveise croate ohe tre. Mi s. Agostino nel tuo trattato delti Dottrini Cristiini neeonti che ani città, di cni non si ricorda il nome, comandò1 tre ilatuarii di icolpir lo tre Moie, per indi ool- locar nel tempio di Apollo quelle tre ehe fosiero meglio scelle. La bravnra degli ititoirii fu tale, che ninno ii superava ; e la bellesu delle statue colpì in siffitti guiii, che tutte nove furono ere- dote degne di mettersi nel tempio di Apollo. Il poeti Esiodo diede poi 1 cadauna di qneste il nome.

(11) 11 vero nome di qoesto primario poeti delti Grecii era Meteiigene. Egli vivea 160 inni primi dilli fondazione di Roma.

(12) Eoniooicque 1 Tirinto 5 io inni dopo li fondazione di Romi,

(13) Intorno 1 qaesli dodioi dei presidenti all’ agrieoi tara ti hanno di belle notizie in Servio e in 1. Agostino. Il primo dice ne1 suoi commenti al libro 1, verso at delle Georgiche di Virgilio :11 Fabiui Pictor hos deoi enumerat, quos invocat Flamen tacrum Cereale facieni Telluri et Cereri: Vervactorem, Reparatorem, Imporcitorem, Ins­to rem , Obaralorem, Occatorem, Sarritorem, Subruncinatorem, Meisorem, Convectorem, Con­ditorem, Promitorem. „ E se si computano distintamente la Terra e Cerere, ii hanno peri­mento dodici dee. Pooo avanti avei detto Servio u t ab occatione Deus occator d ica tur ; a sar- r itione deus S arrito r; a stercoratione Ster» culinius% ovvero Stercutus e Sterculius, comeii chiami di Plinio, di Macrobio e da Lattanzio. Più pienamente però s. Agostino nel libro de Ci- vitate D ei xv, 8 : M Nec agrorum munos uni ali­cui deo committendum arbitriti sunt, sed ruri deie Roiinae ; juga montium deo Jogalino; ool- libas deim Collatinam ; vallibus Valloniim prae­fecerunt. Nec saltem potuernnt unim Segeliim talem invenire, coi semel segttes commenda­rent: sed sita frumenta quamdiu sub terra essent, praepositam voluerunt habere deam Sejaa; cum vere jam supra terram eiseot^t segetem faoereat* deam Segetiam; frumentis vero coileotii atqoo reconditii, nt tuto servirentur, deam Tnlilioim praepotuerunt. Cui non inffioere videretur illa Segetis, quamdiu teges ib initiis herbidis usquead aristas acidas perveniret f ........Praofocental(tamen) Proserpi mm fromentis germinanti boa ; geniculis nodisque culmorum , deam Nodotno; involumentis foUtcolorum, deam Volutinim; eum folliculi patescunt, ot ipiea exeat, dé*m Fatele» nam ; cup segetes bovis aristis lequintor, quia veteres aequare hostire dixerunt, deam HoctHi- nam ; flo reo ti bos fromentis deam Floram; la­ctescentibus deam Lacturtlam ; mitortsceolibos deim Mituram ; cum rancantor, id est 1 lerra inferuntur, deim Runcinam. Nec omnia comme­m o r o , quii me piget, qood itloe non pudet „

(14) Questi dodici dei, che formino il consi­glio di Giove, ii trovino raeaxkmati in dna versi ittribuiti il poeti Eooio:

« Juno, Vesti, Minem, Ceres, Dirai, Venos, Man, Mercurios, Jovi’, Neptunus, Vulcanus, Apollo. *

(15) Qaeito è il dio principale dei Pagani,«ni i poeti diedero il titolo di padre degli dei e dagli- uomini.

(16) Quest’ è il nome ehi i poeii d in a s alla dei delle terra.

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DI M. TERENZIO VARRONE ?4»(17) In tatto It edittali anteriori • quella jU

Aldo e nel codice PoHiiarfea, come ancora in nn altro Laarenzlano ti trova omnis fructus , in Ino* fo di omnes fru c tu s . Noi abbiamo Mg alto le •miche edizioni.

(18) É ragionevole che «I abbia da scrivere h i per zi, come an pronome relativo Ticino ai «og­getti Giove e Terra. Se non avessimo otto edi­zioni antiche, cbe leggono hi, un nuovo argo­mento ii ripeterebbe da Varrone medesimo, il qnale poco sotto dice : Tectio Cererem el L i- berum , quod ho rum fru c tu s m axtum e neces­s a r i ad pictum ; ab heis enim ceibui et patio v e n ite fu n d o .

Ursino sospetta che manchi la pertioella «/,• che si debba leggere parentes et magni ; ina-» perciocché sono dae epiteti. Schoettgenio Tool che ai legga assolatamente qaod due h i parentes m agn i dicuntur% trovandosi quod e duo nel nel codice Richiano. Questi mole inoltre ohe si rigetti itaque.

Non tenia ragione ha contraddistinto il no- atro autore coi titoli di parentes magni Giove e la Terra ; perciocché il nome di padre e di ma­dre semplicemente sono oomnni a molti dai e a molte dee. Di fatti Catone chiama M ars pater, e lo ittsso Virgilio nel libro ni dell* Eneide lo dica:

« Gradivumqae patrem, Geticis qai praesidetarvis. *»

Nettano pura é chiamato pater da Virgilio :

« Qaidve pater Neptune parat. *

Padre parimente è nominato Giano, Sommano, Dita a Saturno. Nel libro n della Georgiche e detto Bacoo :

a Hoc palar o Lenaee Teni. »

Il anatro Varrone del perì nel cap. 2 di questo Kbro intitola padre il dio Bacco ; u fi Libero pa­tr i repertori pei n i ircei im m olarentur. Tatti quelli, cbe fino ad ora abbiamo nominati, sono caratterizzati col nome di padre da Lucilio nei seguenti Tersi :

•Utnemo sit noitrum qain paleroptumu' Divom, Ut Neptuoinu* pater, Liber, Saturni pater, Mars, Janu*,Qairetun' pater, nomen dicatnrad unum, »

Nè solamente furono onorati del nome di pa­dre gli dei, ma ancora i fiumi, tra i qoali ri­

corderemo soltanto 8 flame Tarava, di ani aosl dice Virgilio nel libro tid delT Eneide :

« Nymphae, Laurentea Nymphae, genus amafbuaonde est,

Tuque, o Tybri tuo genitor cam flumine sancto. Accipite Aenean, et tandem arcete periclis*»

Racconta Tito Livio Dee. 1, lib. n, che Orazio Coclite qaando si gettò armato nel Tevere, feoa la seguente preghiera : T iberine pater, te san­cte precor., haec arma, et hunc m ilitem pro­p itio flum ine accipias.

Similmente le dee si decorarono col nome di madre, come la madre Vesta, la madre Afa luta* Non senta ragione adunque si é contraddistinto Giove col titolo di gran Padre, a la Terra, ostia Cibale, con quello di gran Madre.

Qoi si presenta una non lieve questiona, se Jupiter, pater appellatur, Tellus, u rrà m ater fieno parole introdotte nel testo. A ben esaminar la faccenda, pare che queste fossero parola fcritta a lato del tasto, a poi bonariamente iutrnse da qualche ignorante copula. La qnal cosa é per té manifesta, perchè ripetesi con poco bel garbo lo stesso, e perchè nei codici Cesenate e di a. Reparata trovasi scritto io questa maniera : Jap i te r pater appellabatur, Tellus terra m a ter: dunque raccogliesi che appellabatur cosi dagli antichi a da quelli che adoravano gli dei. Non si sa inten­der, perchè Vittorio abbia introdotto nel testa Tellus e Terra . Forse Tellus e Terra non so­no la medesima cosa ? E stato piò avveduto Gen- son, il primo cbe abbia stampato Varrooe, emet­tendo appellabatur, e cambiando terra in pero. Ursino è con noi nel dire che Jupiter pater ap­pellabatur, Tellus terra m ater è un1 annota­tione di uno Scoliaste, lo fona dunque delle al­legate ragioni abbiamo creduto bene d 'includer quelle parole tra parentesi.

(!9) Quest’ è la dea delle biade: ella era figlia di Satarno e di Opi, e madre di Proserpina.

(20) Quest* è il dio del Tino, ed è figlio di Giove e di Semele.

(ai) Qaesta dea era adorata dai Romani, ac­ciocché preservasse le biade dalla nebbia.

E da notarsi che Varrone adopera io genera mascolino questa dea, quantunque debba ehia- marsi, secondo quello che dice Schoettgenio, R u ­biginem : egli si appoggia pirticolarmente a quel ver*o di Oridio F a st. iv, 911 :

« Aspera Robigo parcat cerealibus herbif. »

Ma non potrebbe darsi che Varrone intendes- ! se parlare del dio Robigo, come quello eh* era

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745 ANNOTAZIONI AL LB. I DE HE RUSTICA 744

inteso i preservsr dalli nebbia le biadi, e di eoi parla Varroni nel lib. t d e Lingua L a tin a , • Gel* lionellib. v,cap. ia?

(ai) Fiori en ani dono* che vendeva le tot graiie pubblicimente. Con qaetto mestiere gua­dagnò* mpilo soldo, ehe legò il popolo Romano, con questi conditione per litro che 001 porzione di diniro foste impiegata i celebrare il tuo gior­no natalizio coi giuochi florali. Il scosto beo si aecorse ohe qoesti en ani fesli contraria ai boom coitami ; e per nobilitarla ascrisse fra gli dei que­sti donna, eoi, i motivo del suo nome, si assegnò T'imperio sopri i fiori.

(aS) Queste feste farono instituite di Numi scH'undecimo inno del suo regno, e tf celebrivi- too ai i 5 di Aprile, tempo ia coi sode d’ordinario la nebbia danneggiar le biade.

(a4) Questi giuochi si cdibnvm o il primo i l Maggio.

(a5) Pretendono i Pagani che questa dei sii « citi dii cervello di Giove. Qaett1 è li dei di latte le irti.

(26) Venere e n figlii di Giove.(27) Bisogni distinguere qaeste feste rustiche

vinose dalie vinose semplici, che si celebravano In onor di Giove, e il cui oggetto en differente da quello delle mitiche. Le vinose semplici ti celebravano verso la fine di Aprile ; laddove le rustiche si celebravano in onor di Venere ai a4 di Agosto, come si raccoglie da due luoghi di Festo e da Varrone medesimo, u Rustica Vinalia, dice Festo, appellantur mense Augusto xtv Kal. Sept. ete., eodem autem die Veneri tempia suut consacriti, al temiti ed Circum Maximum, lite* rum in loco Libitinensi. Quia in ipsius tuteh sant horti. » E lo stesso sutore in un frammento dice : u Rustici Vinilis mense Augusto xiv Rai. Sept. Veneris dies festus, qood eodem illo die aedes ei deae consecrati est. Jumenta qnoque et olitores •b opere cessant, quia omnes horti in tutela Ve­neris esae diouatur. » Varrone poi oel libro v de Lingua Latina scrive : V inalia rustica dicun­tu r ante diem x iiK a l. Sept. quod tunc Veneri dedicata aedes, et horti ejus tutela assignan- tur.

Potrebbe insorgere una questione, se vera­mente queste feste, si celebrassero nel giorno x n Kal. Sept., come si ha in Varrone, ovvero nel di xiv, in quella guisa che dice Festo in dueluo-

e come si raccoglie dal Calendario Romano e dal lib. xvni, cip. 19 di Plioio. Noi siamo di opinione che si sciolga la presente questione con dire che al tempo di Varrone non si era ancora ben segnato il corso del sole, mancando due giorni, i quali si saranno poi aggiunti dopo la sua morie.

(28) Sotto la Linfa si debbono intendere le Nin­fe che si credevano presiedere alle fontine e alle •equi dolci. Antieiiaenti li scrivivi Lym pha per Nympha, ed ibhùmo incor oggidì li parola lymphatus.

(39) Credevano i Romani che questo dio fosse quello ds tfoi dipeadesse l i feliee nasciti nelle nostre imprese. In Roma gli fa eretto aa tempio. Li sai ststaa tenevi selli mino destra li patera, e nella sinistra li spfgs e il pspavero. Molti au­tori hanno parlato di questo dio, ma pià di tatti iMoreia de Miatoar nel tomo iv, pag, 78 deir Ae- cidemia delle Inacrisioni di Parigi.

(30) Varrone dice a saa moglie che al caso che non trovasse nel suo libro di agricoltori .quanto le facesse bisogno, si volgesse egli latori greci e latini, dei quali gliene darebbe l i listi. Ora in Virrooe non si trovi citilo in questo luogo nemmeno Citone; dal che è di congettu­rarsi che qoi siivi ani lieuni nel testo. E questa conghiettura si fa più forti dal vedersi che Pli­nio copiindo quasi piroli per piroli Varrone, icoenni gli latori latini, come inehi i greci, eccettuiti i tre aitimi. Saboureax crede di scio­gliere il nodo, dicendo: a Mais sana mpposer une lacune aussi considérable, ne peut-on pas dire que Virron n 'a pis fait mention des aoteurs Ialina, com me étant su ffisamment conno* de ceux pour qui il tfcrivnit.n Schoettgeoio e Gesnero hanno procurato di supplire 1 questa reincinxi, mettendo in ordine di alfabeto tutti gli autori • greci e latini.

(31) A quibus auctoribus reperias. Succin­tamente riferiremo le varie opinioni degli autori sopra questo luogo. Pietro Vittorio ha trovato in un antico manoscritto reperitas ; dal che argo­menta che reperias è da scartarsi. Non è però eh' egli si acquieti a reperitas, proponendo in aria di dubbio, se fosse bene leggere reperias. Non è da dubitarsi, soggiunge Scaligero, che il testo non sia fallato; ma non si fconfà coll'ele­ganza di Varrone, come di qualsivoglia altro an­tico scrittore la bassa espressione di Vittorio reperire ab aliquo . Egli inclina 1 leggere indi­cabo a quibus scriptoribus reperitas; essendo­ché reperitare significa lo stesso che reparare. E quando tu, ecco come egli spiega, cercherai ne' nostri scritti ciò ehe ti abbisogna, e non tro- vandovelo, ti mostrerò in qual guisa potrai sup­plire e riparare alle mie mancarne. Popma ama di leggere reperites posto io luogo di repares% cioè, com'egli spiega, requiras, recuperes. Pon- tedera finalmente vuole che si legga repetitas . Ecco com'egli la discorre: «quod ullimum (cioè reperias) in antiquis exemplaribus reperitas invenerat Victorias, neque tamen probabat, com

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antiquis haberet repetas^ qao<| ìnter excasa ab Joanne Parvo vagalur. Id certe noo conlemoen- dum; verumtameo aut vetustam reperitas potias existimarem, aat aaa inversa literula, repetitas; qnid eoim illa, quae proxima eonuectunlnr : qui Graece scripserunt dispersim alius de alia re, su n t plus quinquaginta : h i sun t quos tu habere in consilio poteris, cum quid consulere voles, aliud indicant, quam ab iisdem scriptori* bas rusticarum rerum praecepta use saepias re­petenda ? r>

(3a) Questo re era oalo a Siracusa. Egli fa innalzato al trono io grazia della sua bravura nel comandare. Non ebbe alcuna educazione; e solo si dedicò allo studio della fisica, quando fu colto da una malattia.

(33) Quest’ Aitalo era re di Pergamo, e fra­tello di Eumene. Fu tanto amico del popolo Ro­mano, che lo istituì suo erede. Aveva il sopran­nome di Fìlometore, a motivo che dimostrava ana gran teuerezza per sua madre. Studiò mollo le piante, e in tutt’ i regni della natura cercò dei rimedii traiti dal regno animale.

, Non lasceremo di accennare le contese degli eruditi sopra questo passo. Ursino pretende cbe ▼i manchi la particella el, e cbe teda letto Hìe- ron Siculus, A tta lu s , et Philom etor reges. Egli si appoggia specialmente a Columella e a Plinio, il primo dei quali nel lib. i, cip. i dice : Siculi quoque non m ediocri cura negotium istud prosequuti sun t Hieron et Epicharm us, Aegy­p tii P hilom etor et A tta lu s . Il secondo nell’ in­dice del lib. xviii ha : E x auctoribus Philome­tore rege et A tta lo rege. Popma amerebbe cbe si leggesse : Hieron, Siculus r e a A t ta lu s , P h i­lometor. Questi furono, diss’ egli, tre re Sicilia- nive celebri autori di argomenti agrarii, come celo attesta Plinio nel lib. xvm con queste parole : De cultura agri praecipere principale fu i t , et apud exteros ; siquidem et reges fecere, H ie­ron, P hilom etor, A tta lus, A rchelaus: et duces Xenophon, et Poenus etiam Mago. Adduce inoltre la testimonianza di Columella allegata di sopra.

L’ opinione di Cupero ci sembra la meglio fondata di tutte; e noi la riporteremo coile sue •tesse parole : Ausonius Popma pulat scribi debe­re: Hieron, Siculus rex, A tta lu s , Philom etor. Quod si regis titulus excidit, ego crederem scri­bi debere . . . voles de regibus, H ieron . . . quia mox sequitur de philosophis. Noq satis caute autem vir doctus tres ex duobos regibus facit duiioctionc sua. Hio tertius Attalorum fuit, po- puloque Romano regoum suum testamento lega­vit; et Philom etor etiam vocatur ab auctore prologi in Justinum lib. xxxvi, et Appiaoo libro

M. Taaanio VAaaoa»

?45

de bello Milhrid.eunderaque hortorum studiosum fuisse patet ex Justino xxxvi, 4 » quaoquam ne­quaquam regium fnit colere hortos ad amicos interficiendus. Pliuius xvm, 3 binis dictis regi­bus jungit A rchelaum ; et Columella i, i ita loquitur: Sicu li quoque non m edio fri cura negotium istud prosequuti sunt, Hieron et Epicharm us discipulus, Philom etor et A tta ­lus. Errat autem Columella, si el AlUlam Sicu­lis adscripsit ; deinde Philom etor et A tta lu s est idem, qui A tta lus Philometor, quomodo et hoo cognomen proprio praeponitur apud Plinium. Sed quid sibi vult E picharm us discipulus? An- non scribendam Epicharm i discipulus ? ut sci­licet ab Hierone distingueretur. w

(34) Era nativo di Abdera in Tracia. Egli bt viaggialo molto, ed ha scritto parecchie opere, tra le quali ve ne sono anche di agricoltura.

(35) Quest' è nato in Alene; e in grazia della sua eloquenza si chiamava la Musa Attica. Egli ha scrilto un' opera sopra l’ agricoltura.

(36) Era di Stagira, discepolo di Platone, e maestro di Alessandro. E morto in età d* anni sessanta tri.

(37) Questi è l'allievo e il saooessore di Ari­stotele nelle scaole di Atene, e il maestro del poeta comioo Menandro. Era dell’ isola di Lesbo, e si chiamava Titamo, che gli fu cambiato in quello di TeofrastQ, a motivo della sua eloquenza.

(38) Era di Taranto.(3$) Questi aveva scritto uo trattato sopra

l’ avena e il citiso.(40) Ursino coll’ appoggio di medaglie di ar­

gento e di codici entichi legge Mallotes.(4 1) Promiscuamente dicevano gli antichi Cy­

maeus e Cumaeus, secondo che si scriveva alla greca, o alla maniera latina.

(4a) Questi i quello stesso, di coi parla pià abbasso. Egli dopo aver compendiato i libri di Magone, ha pure scritto sopra I’ arte veterinaria.

(43) Plinio nel lib. vii, cap. 5<> gli dà il titolo di autor gravissimo.

(44) Quantunque in Poliziano e in tre antiche edizioni si trovi scritto Agesias, nulladimeno è da leggersi Hegesias, perchè cosi vuole l’ ordino alfabetico usato da Varrone. Quest’ Egesia ha scrilto sulle proprietà dell’ acque.

(45) Plinio nell’ indice del lib. vm dice che aveva composto un’ opera sull’ agricoltura.

(46) Parimente dall’ indice del libro vin di Plinio ai racooglie aver composto un’opera sopra l’ agricoltura.

(47) Avanti Vittorio leggevasi Oades, Dio­nysius, <rtf/ porùvy etc.y ove trovansi due errori che si oppongono all’ ordine alfabetico tenuto da Varrone. E quantunque in alcuni manoscritti di

»4

746DI M. TERENZIO VARRONE

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747 ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA

Columella ti legga Eveton per Euphiton , non­pertanto si è creduto di preferir quetto a qael di Varrone.

<48) Dall* indice del lib. vm di Plinio ti ha che questo è autore di un’ opera di agricoltura.

(49) Colamella nel lib. xit, cap. 4 lo intitola aulor celebre Ira i Greci.

(50) Esiodo era della città di Cuba nella Eoli- de, ree comunemente si chiama il porla d’ Ascra, perchè ivi fìsso il suo soggiorno. Vi sono alcuni, i quali pretendono che tia vissuto dopo Omero : altri il fanno contemporaneo di questo, preten­dendo trovarne le prove nella descrizione eh’ e- gli fa del levar di Arturo, nel qual caso sarebbe vivaio mille auni allo iocirca avanti la venuta di Cristo, tolto il regno di Stiamone in Giudea. Plinio asserisce che Esiodo è stato il primo che abbia dato de' precetti di agricoltura.

(51) Colamella nel lib. 1, cap. 1 lo chiama il padre dell'agricoltura.

(5a) Il Pretore era il magistrato preposto «Ila giustizia.

(53) u U tiliter ( dice Scaligero) est vulgatis­simum verbuin juris hic. Nara ju t utile praeto- ridm est, el opponitur legitim o . Sic infr», utili- ter excipere. Elegantissime igitur traostulit ad correctionem Diophanis. rt

(54) Questi è quel Deiotaro che il senato Ro­mano avea eletto re di Galaiia a istanza di Pom­peo, e che Cesare collocò sul trono. Fu accusalo di aver attentato alla vita di Cesare, ma fa difeso da Cicerone.

Ursino pretende che questo fungo debba este­re iiiterpunto e letto nel seguente modo ; E t m i­s it Deiotaro ; ego quo breviut de ea re conor tribus libris exponere, uno de agricoltura , altero de re pecuaria , tertio de villaticis pa­stionibus, hoc circumcisis rebus, quas non arbitror pertinere ad agriculturam , ita prius ostendam , quae secerni oporteat ah ea.

(55) Rebus, quae non arbitror pertinere . Non si penti alcuno di correggere qua in quas, perchè infiniti sono i luoghi di Varrone, ne' quali coti parla, e che per brevità ti omettono. Nè solo Varrone, ma lo stesso Cicerone ancora non ha accordato il pronome relativo, come si racco­glie dalle Lettere Familiari xvi, 4 ; Sumptu ne parcas ulla in re, quod ad valetudinem opus sit.

Cap. II. (1) Avanti Vittorio >i scriveva Semen- tin is ; ma ti è corretto in sementivis, si perchè nei codici e qui ed allrove trovasi scritto coti, come anche perchè in Catone ti ha pira volema, A niciana , et sementiva*

Qnette fette si celebravano verso la fine di

Gennaio ; e avevano per iscopo che 1 frolli della terra avessero a crescer bene.

(2) La parola Aeditim us non dinotava cbe il posto di quel guardiano al tempio, e cbe noi di- ressimo sagrestano, nella stesta guita che f in i t i ­mus voleva dire presso i confini, e legitimus presso la legge, o conforme alla legge. La parola A edituus per contrario dinotava la sua funzione derivante da aedes, (empio; e da tu e r if cioè guardate; dal che viene che Lucrezio 11, 1273 gli dà il nome di A edituens

(3) I cavalieri Romani erano dell' ordine dei cittadini, e il loro grado trovavasi tra i seoa tori e gli altri cittadini. Tra le altre prerogative go- devan quella di avere no cavallo mantenuto a spese della repubblica ; dal che veone loro H nume di Equites.

(4) I pubblicani erano quelli che aveVano so­pra di sè le imprese dei pnbbtici aggravii. Eglino componevano un ordine numerosissimo, e i mem­bri erano tolti dalle pertone le piò dittiate della repubblica.

(5) Erano dunque sin d* allora m oso le map­pe geografiche; anzi i conquistatori facevano di­pinger le provincie da loro acquatale, che mo­stravano al popolo nel giorno del loro iugretto trionfale. Properzio ìv, 3, 35 :

u Et Jitco, qua parte fluat viocendus Arazes ;Quot siue aqua Parthus millia currat equus:

Cogor el tabulis piclot ediscere mundos,Qualis et haec docli sil positura dei.

Quae tellus sil lenta gelu,quae putris ab aestu,Ventus in iUliam qui bene vela ferat. *

Ma Puto delle tavole geografiche è piò antico, poiché esao rimonta ai tempi di Ciro, e furono delineate da Anassimandro. Veggati Perizuoio sopra Eliano V. H. 111, 28, e Fabricio nella Biblio­teca Greca iv, 2, 10, p«g. 38 e seguenti.

(6) u Non ingratum, dice Gesnero, fore lecfcK ribus putavimus, signare maja*culo charactere nomina personarum, quibus unamqaamque ser­moni! pariem imposuit Varro. Refert sane non naraquam scire, quae pertona loquatur. ftaqoe Varronianum etiam inquam 11I aliquantam exU- ret, operam dedirau», quo facilini animadver­tatur, n — In qnetla edizione ti è creduto ben fatto intralasciar il carattere majnscolo nei nomi degli interlocutori, ed il corsivo nel Varroniano inquam. A togliere poi lo sconcio che risultava

Malia estemione della traduzione paragonata al testo, ti tono diviii alcuni capitoli in varie sezioni arbitrariamente, è vero, ma in modo che la divi­sione oon ripugna, anzi ritchiara maggiormente il testo.

(7) È probabile che il dittatore Fabio abbia

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749 DI M. TERENZIO VARRONE 75o

dato luogo a questo proverbio, poiché secondo qaeilo che dice Tito Litio ne! tib. xjn, Cap. a4, sedendo e t cunctando bellum gerebat.

(8) Ecoo come spiega questo passo Gemerò, ch e noi abbiamo seguito Dei nostro volgsrizza- meolo : u. In apparatu saepe plas consumi tempo- ri*, dum ad porlam venias,* qoam io ipso ilinere. Tempus non vult Agrios impendi verbis honoris aoliquiorem loco ni recosanlium et offerentium. w Sicché aggiunge subito.

(9) Ecquam cultiorem Ita lia . Dall'aver dello di sopra Varrone che Fandaoio e gli altri erano allenii a osservar la mappa d’ Italia dipinta sol moro, prende di qai occatione di parlar della fertilità e della cultura delle terre d'Italia: e quindi si £1 strada a parlar dell'agricoltura.

(10) Era tos tene era di Cirene. Tolomeo Ever- gele primo lo fece venir da Alene in Egitto, on- de presiedesse alla sua biblioteca Alessandrina. Si potrebbe dire aver egli solo eomposto una biblio­teca di libri : tanti io no i libri scritti da questo filosofo. Per questo motivo alcuni lo chiamavano eoi nome da Plato m inor, ma più comunemente si diceva il B dei filosofi dell'accademia di Ales* sa od ria, perchè non era che del secondo ordine, e non primeggiò mai, qoalunqae fosse la parte di filosofia, coi si applicasse.

Intorno questa divisione della terra in dae parti, cosi dice Varrone nel libro iv De Lingua L a tin a ; U t omnis natura in coelum et ter­ram divisa est; sic coelum in regionts, terra in Asiam et Europam . A sia jacet ad Meridiem Austrum ; Europa ad Septentriones et A qu i­lonem. Il qual luogo o si corregge col seguente di Varrone, o almeno ana rischiara P altro. Ecco dunque come Ursino vorrebbe leggere e punteg­giare : E t sine dubio cum salubrior pars septen­trionalis sity qaam meridiana ; et quae salu­brior, illa fructuosior ; dicendum , magis E u ­ropam, ete.

(11) Plinio nel lib. xvm, cap. 5 : Sunt quae­dam partibus anni salubria. Qoi Varrooe paria di quel precedo di Catone e di Regolo, nel qaal ti dice ch'è da evitarsi quel terreno che oon è sano. N ih il autem salutare est, nisi quod toto anno salubre.

(ia) A parlar giusto non si vede per sei mesi continui il sole, se non sotto Io stesso polo. Ma questo è on ponto, nè sono paesi : gli altri paesi hanno quella notte coti longa più breve, qaanto più si discostano dal polo.

(i3) A u t coli natum. Si potrebbe legger, dice Ursino, anche ali n a tu m ; iropereiocebè così parlò anche Varrone in questo stesto libro al cap. 44* dicendo : quae nata sunt, in fundo alescunt.

(14) Pacuvio è nato a Brindisi da ana sorella di Ennio : è morto di novant' auni. Egli si acqui­stò del nome nel tempo della distrazione di Nu­mantia; ma comunemente si caratteriuava qaal poeta di niuna eleganza.

(15) Questo verso di Pacuvio si legge in varie maniere. Vittorio dice che Ta letto così : Flam ­meo vapore torrens terrae foe tus (fetum) exus­serit. Presso Festo si trova scritto uel seguente modo : Flammeo vapore torrens terrae foe tum exusserit. Ursiuo finalmente vuol che il testo di Varroue sia così : Sol, s i perpetuo sit flam m eo vapore torrens, terrae foe tum exuri.

(16) Questo è un luogo difficile e oscuro. Ursi­no crede di averlo rischiarato nel seguente modo : Ego hic, ubi dies modice abit et redit, tamen aestivum diem s i non diffinderem meo insititio somno meridie : ovvero così : tamen aestate diem s i non, etc. ; poiché nel lib. 111, cap. a dica Varrone : Quidni noverim , ubi aestate diem dividere soleam ?

(17) Ponledera è con Vittorio nel leggere tamen aestivo diem , etc.: uoi l'abbiamo seguito nella traduzione.

E qoesto au laogo che ha dato motivo agli eruditi di discorso ; e ooi, secondo il solito, com- pendieremo qnanto essi hanno detto. Vittorio, a cui si unisce anche Scaligero, trovò ia tatte I' edizioni errori massicci ; perciocché in un co­dice di Poliziano si trova scritto deffenderem meo insiciosum : diem vivere. Nelle tre anti­chissime Gensonians, Bolognese e Reggense si ha diffiderem in ap insiticiosum m uneri die vi­vere ; e finalmente nell' edizioni de' Gianli e di Gimnico si legge defenderem me in aestuosum meridiem. Vittorio però coll'appoggio di ottimi codici autichi ha reslitaita al testo la sua parità ed eleganza; ed è quello appunto, che trovasi nella nostra ediziooe ; se non che amerebbe Pon. tederà che a norma del oodice esaminato da Vit­torio si scrivesse somnu invece di somno, perchè questa è una maniera di dire antica, qual è ap­punto qaella del nostro autore.

Varrone chiama insititium somnum meta­foricamente il meridiano, perchè in certa guisa s'innesta e si attacca al lango sonno della ootle.

Popraa applaudisce a Vittorio, e solo brame­rebbe che si adottasse somnu ; del che riporta varii esempli analoghi.

uPuto scribi oportere, sono parole di Cupero, meridiem : idest si non dividerem meridiem tei negotia mea, qaae post prandium facere debeo, som no meridiano, qaem insititium vocant, quia ille ipsi quasi innalus forei, siogulisque diebus eandem repetere debebat. Videntur alii legisse in tersititius ; carte ila haoelocom a viris doctis

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75r ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA

laudari tideo ; sed ego volgatam lectionem prae­fero, cam in sititiu i idem «il, qood innatus, oode Cicero jungit insitum et innatum, w

(18) IUic in sem estri die, au t noe te. Diran­no alconi, « perchè tralasciar nella traduzione aut nocte? Risponderà per noi Pontedera e Ursino, a Ex tribos codicibai, è Pootedera che parla, Florentinis, quorum anni fait Politinni, ot egregius Lagomarsinus noster raihi exscripsit, sem enstri, qaod ex sex et mensibus glatioatur, sumpsiraas; neqoe illad aut nocte, ut opinaba­tur Ursinus, alienam judicamus ; nam ibi modo diem seraenitrern, modo noctem. r> Ursino pensa che aut nocte sieno parole aggiunte da un’altra mano.

(19) Ursino e Schoettgenio pretendono che si debba leggere Venafrano , oon già Venafro . Plinio nel lib. xv, cap. 2 dice : P rincipatum in hoc quoque bono obtinui Ita lia toto orbe, ma- xim e agro Venafrano , ejusque parte , quae Licin ianum fu n d it oleum .

(20) La Frigia è fornita di molte ▼ i l i ; del che parla Omero nell'Iliade V , 143. La medesima lo* de dà Claudiano nell'Eutropio 11, 270 alla Frigia:

m Planities Cererique favet, densisque ligatur Viti bos, et glauoos f r o d a i attollit olivae, w

(21) Pontedera ha alia to la voce per ben due Tolte, e finalmente è stato ascoltato, u Distingua- m a i igitur, ne felicisiimam Titium nostrarum

obertatem ad alias gentes traducan t : Aut Argos qood idem poeta ToXtfvufov P In qua te rra , etc. » Omero dice che Argo è abbondante io frumento nell’ Iliade OV372.

(22) Ursino Tuole che si faccia attenzione se fosse meglio leggere : A g tr Gallicus togatus vocatur, qui viritim contra Senati auctorita­tem per F lam inium datus e st, etc,, la qual lezione Y ha c a T a ta da una corrotta scrittura di ■leoni codici antichi; imperciocché, diss* egli, dalle parole iniziali C. S. A. (che significano contra senati auctoritatem) che io varii codici si trorano scritte diversamente, o 'èoato che si è letto cis A rim inum , o Caesenatibus, ovvero a Caesare, etc. Per difender la sua opioione allega che le parole iniziali mentovate significano seni'alcun dubbio contra senatus auctorita­tem,, e che senati per senatus si è detto anche da Catone. Che poi la Gallia si dica togata, ella è cosa notissima a tutti. E per illustrar questo luogo cita un passo di Cicerone, il quale nel libro de Senectute scrive : Q. Fabius C. F la­m inio tr, pi. quoad potuit restitit agrum P i­cenum et Gallicum contra senatus auctorita­tem dividenti.

II G, Flaminio qoi mentovato da Cicerone, è

quello che fa tribano del popolo, che fa doe volle console e censore, e che mori odia battagli» di Trasimene. Egli fu qoello che portò la legge Agrària, di cui parlano qai Catooe e Cicerone,io vigor della quale si distribairooo ai soldati quelle terre, dalle quali i Romani discacciarono i Galli Senoni. Questa legge si trova pare alata da Polibio oel lib. xr.

(23) Qui viritim cis A rim inum datus ese ultra agrum Picentium. Vittorio ha corretto bene il testo, perchè oltre le varianti allegate da Ursino nella nota precedente, correvano perle stampe qoeste altre Caesarem inundatus est,o Caesenatibus datus e s t, ovvero Caesare jubente datus est. Egl* invita gli eruditi a riflet­tere sulla sua correzione in un luogo eh* è vera­mente difficile e intrigato.

Pontedera altra volta ti è mostrato contrario alla correzione di Vittorio; ma, cangiata opioiooe, è veouto poi nel sentimeuto del benemerito Vit­torio.

(24) Ursino vorrebbe legger quindena cullem, non dena cullea . La ragione so coi •• fonda, è è tratta dal lib. iu, cap. 3 di Colomella : A tq ire, u t om ittam veterem illam fe lic ita tem arvorum, de quibus et ante ja m M. Cato, et m ox Teren­tius V arro prodidit, singula jugera vinearum sexenas urnas vini praebuisse, id enim m axi­me asseverat in prim o libro rerum rusticarum V a rro , nec una re'gione provenire solitum , verum et in Faventino agro, et in Gallico, qui nunc Piceno contribuitur. È da ootarri per V iotelligeoza di questo pasto, che ogoi cul­leo contiene venti anfore, cioè qoaraoia orne; per comegoenza quindici cullei faooo appooto seicento urne. E quaotuoque Ursino sappia che Plinio espressamente dice nel lib. xiv, cap. 4 che: Idem Cato denos culleos redire e x jugeribus scripsit; nulladimeuo non ti acquieta, e dice esservi errore anche in Plinio. Ma dal vedersi che tutt’ i codici, tulle le edizioni ; che Plioio, e che Nooio alla voce cu lle u m cooservano la pa­rola dena, ragion voole che si conservi assolata- mente dena. Piò patente però si farà la cosa nella seguente nota.

(25) Urtino voole che si legga trecenariae vi­tes, e trecenas amphoras eoo Irò Polizia 00 e gli altri tutti. Gronovio pure de P. V. c. m, p. 18, è persuasissimo che ri debba leggere come ita oel lesto. Varrone fa duedimande: nella prima ri­cerca qoal è quella terra foori d 'Italia, che dia dieci cullei per ogoi iugero T e a questa dimanda rispoode colla teslimooiaoia di Catooe : e nella seconda chiede : ooo è egli vero che il terreno di Faenza prodace quindici callei per ogoi iogero, cioè treceoto anfore, ossia seioeoto ornef Chi

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DI M. TERENZIO VARRONE

l»o riflette, Tedesche io questa mterrogaiiooe non v* entra per niente Catone, e che è tolta di Varrone ; il cbe avendo confuso Columella, n1 è

nato P errore che di sopra abbiam notato.É dunque da leggersi trecenariae vitet, e

trecenas amphoras, cioè trecento; altrimenti dicendo tricenariae e tricenas, non si dice che trenta.

Treicinariae veites,et treicenas amphoras: così scrive Pontedera. u Si qnis animadvertit ve­tustissima consuetudine tre* scribi treis, et tr is ex Graeca radice r f t ì f deducta, cujus exempla in nostris item rusticis servantur, mibi poli ores fuisae antiquas scripturas qoatoor Florentinorum Codicum praesidio nitentes, quam nuperrimas trecenariae , et trecenas, minime mirabitur. »

(a6) Ne1 tempi posteriori il praefectus f a - brum «i i chiamato praefectus fabricensium , come si può riscontrare in Guterio De officiis domus A u g . m, ia.

•Non si sa comprendere, perchè Aldo abbia messo soltanto V iniziale L. e non piuttosto Libo , che pur trovasi nelle tre prime editioni e in tre codici Fiorentini.

(a ) Sopra la parola decollat si sono pur fatte le molte parole* Tralasciandone molte, riferiremo solo quanto dice Gcsnero,che compendia le altrui opioioui. u Decolandi Yerbum omnero forte auctoritatem hodie debet summo viro I. F. Grò- novio, qui ad Livium xxvn, 17, magno studio docuit, decolare esse defluere, quasi per colum et paulatim evanescere. Neque tamen probari potuit ea sententia vel ipsi Vossio (ut de anti­quioribus triumviri*, Turnebo xxix, aa, Scali­gero, Casaubono nihil dicamus ), qui in etymolo­gico a collo derivat, atlerius rationis, tacilo licei aaclore, f*ct« mentione ; vel Marlinio in glossa­rio, vel denique G. B. Ursino, qui obss. philol. c. ix, p. 137, s*q. dedita opera contra Gronovium disputat, decollare esse oppositum r i succolla­re, et de crumena proprie dici, a collo suspensa, cum ea aufertur. Nostrum non est, tantas compo­nere lites : sed illud modo monemus, revocandam hic esse io memoriam observationem Festi, et aliorum de littera / geminari non solila : ut adeo nihil juvet Gronovianam sententiam, si decolare semel iterumque uno / scriptum in bonis etiam libris Plauti aut Varronis reperiatur. Sed illi adversantur omnia exempla bona, quae litteram cam geminant. »

(a8) Varrone allude qui alla legge delle Dodici Tavole, la quale ordinavi che i matti fossero posti •olio la tutela dei loro parenti agnati. La legge era concepita in questi termini : s i quisfuriosus siet, agnatorum gentiliumque endo eo pequnia- qùe ejus potestas estod. Lo stesso si ba in Colu­

mella nel lib. 1, cap. 1. Giovenale nelle Satire, e

Oratio, di cui si ha belle Satire 11, 3, a i6 : ffu ie adim at ju s P raetor et ad sanos abeat tutelo propinquos.

Per dir anche qualche cosa sull* ortografia antica, diremo con Pontedera, che in Politiano e nelle tre prtoe editioni si trova scritto atque ad adgnatos.

(29) 1 nostri leggitori troveranno difficile questo luogo. Caperò pensa che si debba leggere così : nec sic potest, cioè com’ egli spiega : a licei quis io id incumbat, ut reficere fructus Yelit, non tameu id facere potest, si videt eos a peslilentia perijp: id quod respicit locos insalubres: ita pestilens ager opponitor salubri apud Varr. 1, et Cicer. Orat, in Rull. : A ger propter sterilita- tem incultus, propter pestilenti am vastus atque desertus. w Gtsnero pensa che Varrone dica qui quello che soleva dire Attilio Regolo, e la cui sen­tente trovasi registrata da Pii io nel lib. xviti, 5 : Neque foecundissim is locis insalubrem agrum parandum , neque effoetis saluberrim um . Eos avanti fo re lo crede uu pleonasmo, di cui nell'in­dice si hsnno moltissimi esempli.

(30) Questo è qoel C. Licinio Stolone, il quale dimenticandosi che on legislatore debbe essere il primo a sottomettersi alla soa legge, acquistò mille iugeri di terra, cinquecento dei quali gli acquistò sotto il nome di suo figlio, che a q*»esto effetto aveva emancipato io frode della sua pro­pria legge : per la qual cosa fu accusato da Bf. Popilio Leo a Tanno di Roma 397, cioè 355 avanti Gesà Cristo, sotto il secondo eoo solato di Cn. Manlio Imperioso e di C. Marcio Rulilio, e condannato a 10000 nummi di ammenda.

Goesio pensa cbe qoesto passo si debba inter- pongere in qoesta guisa : Nam Stolonis illa lex, quae p lus D jugera habere vetat civem Rom a­num. E t q u i . . . . quos Stolones appellabant, ejusdem gentis. Ma nemmeno in questo modo si fa parlar chiaramente Varrone, cosicché quel C. Licinio tribuno della plebe sembra esser diverso da quello che promulgò la legge pei cinquecento iogeri. Gesoero ba pensalo che meglio cammioi il discorso nel seguente modo : Nam C. L icinium Stolonem, et Cn. Tr. Scr. video venire unum9 cujus majores de modo agri legem tulerunL (N am Stolonis est illa lex , quae vetat plus D jugera habere civem Romanum ) % et qui . . . . appellabant. Ejusdem, ut coepi dicere, gentis C. L icin ius tribunus plebis cum esset, post re­ges exactos A n n is U. C. exactis c c c lx x x v pri­mus populum, ete. Così si fanno parole di qudlo Stolone che diminuì le racchette de* potenti, li­mitando ognuno dei ricchi al possesso solamente di cinquecento iugeri ; e così pure li ricava che

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7^5 ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA

questo, dopo I’ espulsione fai re, è stato il primo a distribuire selle iageri di terra per cadauno del popolo.

(3 i) Di questa legge faouo menzione Tito Li- vie xxxkv, 4* e Cioerooe contro Rullo n, 8.

(за) Stolonem confirmavit. Uraino vuole che si legga conformavi/, imperocché -egli è il primo che ottenne questo soprannome.

(33) Questo C. Licinio è il medesimo Stolone som mento va lo, il quale nel medesimo tempo che colla saa legge proibiva di posseder pià di cin­quecento iugeri di terra, ne distribuiva sette ad ogni cittadino. Jn questa maniera togliendo al pià ricchi il superfluo, lo distribuiva ai piò poveri.

(34) La voce tribuno deriva da quella di Iri- bà. In principio ?’ erano tre tribò, e si dava il nomedi tribuno al magistrato ch'era alla testa di ognuna. In progresso vi furono altre specie di magistrature di questo nome. I primi tribuni del popolo furono creali sul monte Crustumerino (diciasetle anni allo incirca dopo l’ espulsione dei re) dal popolo che si era separato dai senato­ri, e che crasi ritirato sopra questo monte, che dopo si chiamò Monte Sacro. Il popolo dichiarò ioviolabili i tribuni, i quali avevano il diritto di eonvocare il popolo per fargli emanar dei plebi- aciti, che obbligavano a sottoponisi noo solo il popolo, ma ancora gli stessi senatori*

(35) Qoesta espulsone avvenne Tanno 608 dalla fondazione di Roma, cioè 144 *Da’ *vanli Gesà Cristo. Fanno a questo proposito le parole di Plioio xv ai, 3 : M anii quidem C u r ii... nota concio estt perniciosum intelligi cwem; cui septem jugera non essent satis. Haec autem mensura plebis post exactos reges assignata est.

Geso ero dice che si ha da leggere cccLXXzr, ovvero lxxxfi.

(зб) Ci ha pur creala la gran molestia questo luogo di Varrooe! e non è meraviglia, perchè i delti commenlatori sono tra loro discordi nella spiegazione del medesimo. Piacerebbe ad Ursioo che si leggesse in septem jugera e foro , ac co­mitio eduxit, u Nam (continua Ursioo) quod docli viri opinantur de foro Licioii iotelligendum esse, ut in eo a se constituto Licinius septem ju­gera virilra diviserit, uon penitus satisfacit. Fuit enim forum Licinii in llalia Transpadana, leste Plinio m, 17, et lam longe colendi causa Roma­nos tunc processisse verisimile non est, cura seri* bat Columella 1, 3 post reges eiaclos Liciniana illa septem jugera plebi assignata fuisse, et in praefatione libri tradat, C. Fabricium et M. Co­riam, alteram Pyrrho fiaibas Italiae pulso, do­mitis alterum Sabiois, accepta, quae virilim dividebantur captivi agri septem jugera, non

minas industrie oolaisee, qaam fortiter armi a quaesisse. »

La legge agraria Licioiana è lodata da Colu­mella nel lib. 1, cap. 6 dicendo egli : Post exactos reges L iciniana illa septem jugera , quae pleb i Tribunus viritim diviserat, majores quaestus antiquis retulere% quam nunc nobis praebens amplissima vervacta. Popma congettura che questa legge sia stata promulgata da C. Licinio Crasso tribuno della plebe, essendo consoli Q. Fabio Massimo e L. Ostilio Mancino nell’ anno Devili, ossia c g c lx v anni dall’ espulsione dei re, nel qual tempo promulgò la legge che il diritto di creare i sacerdoti dovesse quindiananzi appar­tenere al solo popolo. Ora questa legge è antica, e fa rinnovata da Cn. Domizio Aenobarbo, essen­do consoli Mario e Fimbria. Cicerone la ramme­mora nel Brato e nel Lelio con queste parole : Q. M axum o fra tre Scipionis, et L . M ancino Coss. q u a m popularis lex de sacerdotiis C. L icin ii Crassi videbatur. Cooptatio enim Col­legiorum ad populi beneficium transferebatur.

u Sed cur Varro ( è Popma che parla) septem jugera forensia dicit? ao quia tum primam po­pulo assignabantur lege tribunitia in foro lata, non senatus coosultii, ut antea, anno c c c l x , L. Lucretio Ser. Sulpitio Coss. SC. factum, Ut agri V ejentani septena jugera plebi dividerentur, nec patribus fam iliae tan tum , sed u t omnium in domo liberorum capitum ratio haberetur. Iterum anno c d l x ii i , senatus decreto adsignata Sabini agri, qui panilo ante victoria M. Curii in poteslaiem venerat, seplena jugera plebi, ipti Curio quinquaginta: quae ille noluit accipere, parum idoneum reipub. civem existim ans, qui eo, quod reliquis tribueretur, contentus noa esset, ut refert Valerius Maximus lib. 1, et Pli­nius lib. xvm ; M. Curiiy inquit, post trium phos, immensumque terrarum adjectum imperio no- ta concio est, perniciosum intelligi civem, cui septem jugera non essent sa tis; haec autem mensura plebi post exactos reges assignata est. rt

Queste ultime parole di Plinio ai sono credute dal celebre Sigonio come quelle che appartenes­sero alla legge tribunizia eraaoala dopo la prima legge agraria di Sp. Cassio Viscelino, cbe pro­mulgò, essendo console per la terza volta, venti­cinque anni dopo la espulsiooe dei re: ma in ciò s1 inganna moltissimo ; perciocché Plinio ioteade parlare di quella distribuzione dei sette ingerì, che si fece d’ ordine del seoato ; qoando la legga Liciniana fu pronunziata dopo P espulsione dei re, ccclxv anni, com1 è manifesto da Varrone.

Cupero applaudisce a Popma, se non che ere­de che si debba leggere fo ren si comitio, onde si

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distiognano i eoraizli che sì teoevano in Campo Marzo.

Goesio interpretii fo rensia per ju s ta et legi­tim a. Noo occorre più oltre diffonderti, conteu- ti di «Ter detto sommariamente le principali e più accreditate opinioni; « chi volesse avere mag­giori notizie, ricorra a Pighio ad an. 608, a Cre­der epist. 11, p. 66, e al padre Ardoino tom. n,

P " .{Zy) x x vir q u ifu it. Si creavano venti sog­

getti, i quali presiedevano alla divisione delle terre. Cicerone lib. xx, epist. ad A tticum dice: R epudiari se totum magis adhuc, quam in x x vira tu putabit. Frontino de coloniis: Capua colonia muro ducta Jaìia F e lix Imp. Caes. a x x v iris est deducta. Parimente Velleio Pater-oolo fa mentione di questi venti soggetti: Cae­sar in consulatu (prim o manea ) legem tulit, u t a g tr Campanus plebi divideretur, suasore legis Pompejo ; ita circiter viginti m illia vi­rum eo deducta, etc. Dal luogo lette allegato di Plioio si raccoglie che anche Varrone fa uno dei venti soggetti. Il padre Arduino conferma me­glio questa opinione, avendo egli trovato ne1 co­dici di Plinio xx viro se; la qaal variante la cor­robora con altri autori antichi.

Coraechè corrono nella nostra lingaa le pa­role decemviri, cinqueviri, quindecemviri, così noi abbiamo nsato la parola ventiviri; e mollo più perchè latti gl' indicati soggetti presiedeva­no alla distribuitane delle terre, creandosene ora cinque, ora dieci, ora quindici, ed ora venti.

(38) Ursino dice che le parole video huc ve­nire abbondano, poiché già le ha delta di sopra : nam C. Licin ium Stolonem , et Cn. Trem ellium Scrofam video venire : ciò é vero ; ma è vero altresì ohe queste parole indicano che si fa ritor­no al primo discorso, dopo una lunga parentesi. Ursino vorrebbe che in vece di omnibus v irtu ­tibus pu litum si scrivesse omnibus artibus; perehè e così parlò altrove Varrona, e perché Cicerone nel lib. 1 de fin ibus disse: non satis politus iis artibus.

( 9) P. Licinio Lucallo fu questore, poi pre­tore io Asia. Ivi si rese celebre, e discacciò Mi- Iridate dal suo regno. Dopo questa spedizione ritornò a Roma, ove divenne sì famoso per le spese eooossive che vi fece, che il suo nome passò in proverbio per dinotare le persone più splen­dide e magni6che. Nelle sue spedizioni acqui­stò sì grandi ricchezze, che quantunque le spese che faceva, fossero eoormi, non poterono giam­mai rovinarlo.

<4o) Questa è quella strada, per coi passa­vano i trionfatori, quando volevano trasferirsi si Campidoglio, ove terminava.

7*7

(40 Contra auream imaginem. Saremo compatiti aocor noi, se non avremo colto nel vero sento, quando anche i più celebri erodili confessano di non penetrarlo. Noi secondo il nostro iustituto accenneremo le varie interpre­tazioni, lasciando che i nostri leggitori si ap­pigliano a quella che loro sembrasse la migliore.

Vittorio brevemente si tbriga, dicendo che in un buon codice si trova contra aurum im a - go : non oslante egli ti attacca al nostro tetto*

Scaligero fa gran caso della lezione di Vitto­rio, ed è persuaso che Varrone abbia scritto: Ubi potoa vaeneunt contrd aurum. La parola imago la cambia in id est magno, e soggiunge che nemmeno io questa guisa si è scritto da Varrone, sapponendo che id est magno tia ana glossa di an qualche copista, passata dappoi net testo. Non era veramente mestieri interpretare una sì coniane maniera di dire vaenire contra aurum , estendo per sé chiarissima.'Gli antichi avevano il costarne di servirsi della metafora tolta dalla bilancia, alla quale si appiccava il danaro ; e quello che preponderava, si diceva contra esse. A questo proposito sfoggia la piè recondita erudizioue e greca e Ialina che ooi, per oon eisere troppo lunghi, ommettiamo, at­taccandoci a quello che più da vicino riguarda il nostro autore

Gn. Treraellio Scrofa (coolinaa Scaligero) possedeva fecondissimi verzieri ; ma, qael che più importa, erano situali in quel luogo, ove le frutta si vendevano a peso d* oro, nella Via Sacra, di oui coti si parla in un epigramma :

u Quaeque libi posai lanquam vernacula poma, De sacra nulli dixeris esse via. *

Ovidio parimente :

u Rure saburbsno dicas libi missa licebit llla, vel in sacra sint licei empia via. »

Ursino vuole che si legga ; contra aurea ima- gine, cioè uoa moneta d' oro, io cui vi fosse im­pressa T imagioe di alcune deità. Quelle mercan­zie che si vendevano a caro prezzo, si dicevano costare auro contro, come apparisce da molti luoghi di Plauto.

Dal vedere che Pietro Vittorio ha trovato T accennala variante di contra aurum imago, inferisce Popma che si debba leggere contra aurum in aginam ; e perciò spiega le parole veniunt contra aurum per appenduntur ad auri equipondium.

Per ben tre volte Pontedera ha scritto sa questo luogo di Varrone : noi d attaccheremo

DI M. TERENZIO VARRONE

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759 ANNOTAZIONI AL LI». I DE RE RUSTICA

all' oUkna. Coti dunqae legge : H ujusce, in - f cifir% pom ari suma saera pia ubi poma ve­neunt* Contra aurum imago ilei interea ad no*. Noi ooo decideremo se l'abbia maggior* mente oscurato od illastra to. Gioverà pertanto centi re le sue ragioni : «. Dio moltumqoe io hoc loco perpendendo versatam, oihil ad tempos me proferiste fateor : dora ex recepto et probaio ordine illa cootra aurum imago ad pomorum tabernjm pertioere arbilrabar, eademque ad si- goom de laberoa fuspeoinm, ot volgo fit, Ira- dacebaro. Nuoc ad priucipts editiooet, codices- qoe vetustos conversos, in qaibas contra a u ­rum imago, sive contra aurea imagoy ab iis ube poma veneunt separantur, et cum ilei inte- terea ad nos conjunguntur, quid scripserit Var­ro, sub oscura luce perspicere noo (emere opi­nor. Primnm autem orationis membrana : huju- sce inquam, pom ari, etc. ut vetoitum est ; ita per se clarum, ejecto Aldioo pomaria et repo­lito pomari, quod tam codices, quarti maoo exa­rati libri ser«ant, affirmare oon verebor. Poma­rium vero oporotheca, obi poma custodiantur, ut Plinias lib. xv, cap. 16 osarpat diceoi : P o­m ari a in loco fr ig ido ac ficco contabulari, septentrionalibus fen estr is sereno die patere. Hojus poma obi veoire solila designat Anetor in suma sacra via ; quare contra ad appropin­quante* Licinium et Tremelliom, qui, doni lo­quitar Varro, ex adverso incedebant, perlioet. Sed quid aurum imago f Graeca verba, quae imperiti librarii vitiata stmper reddunt, mihi foisse videntur, taoquam contra m/todpttof. I le i interea ad nos.

(4a) Avanti Vittorio correva F undan ium ; ma ne* vecchi codici si è trovato F undilium .

(43) Vittorio sull1 appoggio di uo antico co- dice corregge il testo nel seguente modo : Nam non modo cum illud. Ovum. Scaligero poi pre­tenda aggiustare il tato oosì : Neque ovum illud ,

« qmod indicat extrem um extrem i actus Circen­sis curriculum, sublatum est : neque illud ovum videmus, quod solet esse coenae prim um ; ov­vero : Neque ultim um Circensium ovum vidi- mu/, neque prim um coenae.

Colale scherzo di Varrone è relativo a doe osi de’ Romani ; uno dei quali era di cominciare i loro pranzi da un portato di uova ; e il secon­do consisteva in delinear nel Circo delle figere ovali, che servivano di direzione a ciascheduna corta delle quadriglie. Queste figure si chiama­vano uova ; eappnoto su qaesta parola ti aggira la facezia di Varrone. Qnesto uso accennato dal nostro autore si potrebbe confermare con molte testimonianze di scrittori antichi. Cicerone dice : Ego ad ovum integram fam em affero : e io al­

tro laogo : ab 090 ad mala. Lo Hetso Varrooe Endjrmionibus : Discumbimus museali dawù- nus m atura ovo coenam com m ittit

Salmasio ne’ saoi commeotarii sopra Solito pag. 6 4 0 pretende che qaette nova fonerò «eli» macchine mobili, delle quali una se ne lavava, terminata che foste una corta ; dimodoché dal numero delle macchine ovali che rimaoevaoo, ai argomeotava il oomero delle corse cbe restavano a farsi.

(44) Le fette Cereali si celebravaoo io oo giorno del mete di Aprile, oel qual giorno, dopo che si erano terminati i giuochi ciroeosi, ti dava dal tagrestaoo del tempio di Terra uo pubblico pranzo eh' era veramente magnifico. Per lo che Plauto io Menaechmis disse: Cereales coemas per indicar eh' eraoo falle can grande apparate: Cereales coenas dat, ita mensas ex tru it, T om- tas struices concinnat patinarias. £ Varrosw chiama ce reale m pompam i molti portati ohe ti facevano nel pranzo cereale.

(45) Quest' è T aulica lezione cavala da Vit­torio da an vecchio codice, perchè io loogo di videatis oorreva nelle prime edizioni sedenti*,o sedetis. Certameote che videatis si riferisce iU' uovo, perchè poco a v so ti dice Varrooe ; Sed ne illud quidem ovum vidimus.

(46) A d te enim rudem esse, u Veto» Iute esi lectio (dice VUtorio ). Fortasse ad te, prò apod le : ul in 11 De oratore : ' Tum cum ille d u ­bitare*, quod ad fra tre m promiserat. Nam quod buio sententiae respondeat panilo poti,

fu isse ex iisdem antiqois legimei. 9» Quetta ma- oiera di dire di Varrone ad te per penes tey ov­vero apud te è an arcaismo.

Questa è uoa metafora presa dai maestri dei gladiatori, i quali portavaoo uoa tpecie di ba­stone di comaodo, che ti chiamava rudis. Dun­que per rudem t' iotende il diritto del maestro dei gladiatori, cui apparteneva il jot di dettare le leggi. Giovenale : Scripturus leges% et re­g ia verba lanistae. £ Cicerone 11 Antoniana : Qui ea tamquam gladiatorum libellos palam venditaret. Si paò non ostante prender qoetlo rudis come aggettivo, a detta di Gian Creo eeteo Grooovio, obs. iv , 6 , p a g . 87, oel qual ceto U- togoerebbe tradarre : perchè s i pretende che il più abile in materia di agricoltura non è che un ignorante appetto te. In qualunque modo che volgarizzi, sempre cotta che Trenaellie Scro­fa primeggiava uelP agricoltore, oome urna volle vantava H primato Stolone. La prima ma oserà per altro pare la più elegaote.

(47) V illa quod a b e o .* \ idtolor haec verbo, loco teo mota com tiot, ita repooeoda ette : V il ­la, ab eo quod in oam convehuntur fru c tu s : «

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;6 | DI M. TERENZIO VARRONE 76a

eosì Urtino. Le due editioni dei Giunti e di G in­nico appellatus a V illa . V illa quod, etc.

Benché ogni cutildo tia un villino, non però ogni villino è un eistald*. E come qui Vtrrone parli di un soprastante, quindi non ibbiimo polulo usare U voce villano, cbe corrisponde­rebbe molto bene ella sui ridice villa.

(48) E t unde vehunt. Amerebbe Urtino cbe ti leggeste : E t uude avehunt.

(49) Tulle quetle parole vea, vella, vellatura derivino, seoondo il nostro autore, di quelli di veho, chi vuol dire condurre.

(50) In un vecchio codiee esaminato di Urtino ti l«gge: E t, u t dex tra tibia, a lia omnino, quam sin istra , ita tam en, u t s it, etc.

Per intendere questo luogo bisogni rieorrere ad Apuleio lib. i F loridor: P rim us H yagnis m anus in canendo discapedinavit, prim us duas tibias uno sp iritu anim avit, prim us lae­vis e t dextris fo ram in ibus acuto tinn itu , et gravi bombo concentum m usicum m iscuit. Dille quili pirole e digli intichi monumenti marmorei si ricava che si suonavino col medesimo fiato due Asoli, uno de’ qaali si tenevi nella mino destri e 1’ «Uro nella sinitlra. Festo : D ex tra ­rum tibiarum genus est, quae dextra tenen­tur . Servio nel lib. ix delP Eneid : U t enim a it V a rro , tibia P hrygia , dextra , unum foram en habet; sinistra duo: quorum unum acutum sonum habet, a lterum gravem. Dii che appiri- tee che il destro flauto eri acuto, e il sinistro griTe.

(51 ) Questo discepolo di Aritlole eri di Mes­sina. Egli compose tre libri sopra i popoli e le città della Greeii. Gli Spartani ordinirono ohe ogoianno si dovesse legger pubblicamente il libro che avea eomposto sopri la loro repubblica, e che i giovani dovessero troTirsi presenti • questi letture.

(52) Urtino oon tutti la modestia diee te fosse meglio leggere coti : Quocirca ea succinit pa­storali, quod est inferior, u t tibia sin istra dextrae, essendo egli persniso che a fo ra m in ù bus sieno pirole aggionte : ovvero propone da leggerti : Ut tibia sin istra dextrae a fo ra m in i­bus. Caperò è idi opinione chea sii da omettersi. «Volt enim (dic’eglì) tibiam illam tuednere libile dexlrie vel ejut foraminibus, quod nnum idem** que est : et mihi videlur per succinere firmari eorum tenlentii, qoi acutiorem sonum dextrte, qoam sinistrie tribuunt. *

Getnero è di parere che Varrone tbbii scrìtto u t tibia dextra sinistrae. Silmisio ad Vopise. p. 826, ed. Hack, pensa che si debba leggere a dextra , e vuole che in ferior a dextra sia lo slesso che inferior dextra, e dice, che * idqne

M. T k b b j i i i o Y a r r o m b

genus dicendi, ubi id iblalivum compitatiti ad­juncti est tt a, pluribus intiqnornm ao recentium ■notorum loois demonitrire. potte. » In quello luogo pirli molto a lungo de tibiis dextris et s in is tr is , incentivis e t succentivis; mi tutto tono cote che non giovano a niente per intender Varrooe.

(53) Capra natum pascat. « Ita emendavi, diee Vittorio, ex velluto codice, et ex illo looo libri 11: Ne colonus capra natum in fu n d o par sca t. Nam veteret libri aliquantulum depravati; tie eoim habent: Ne capra tum pascaL Prima igitur syllaba hnjns verbi N atum defecerat. *

La correttane di Vittorio ite capra natum pascat è approvala da tolti, come quella che godeI1 autorità di un sì gran uomo, e come quella cho gode V appoggio di Varrone medesimo nel lib. u. Ma chi attentamente guarderà quanto Varrone dice avanti e dopo, non sì di leggeri si acquieterà in Vittorio. Dice Varrone che eoi metter tu in campo il tonato re di flauto non solo togli al pro­prietario di aver del bestiame, ma ancora ne privi i servi, ai quali lo incordino non pure i padroni, onde lo Esodano pateolare, per quindi ritrarne del peculio, oome altresì le leggi relative ai ca­staidi ( le quili tu in cotti modo togli ), in cui trovisi scritto : Colonus in agro surculario ne capras tum pascat, quas etiam astrologia in eoelum recepit non longe ab Tauro. Dunque Ia legge relativa agli agricoltori, di cui parla Var­rone, noo proibisce, inzichè permette che le ca­pre possi no pasootire ; imperdocchè te ciò vie­tasse, verrebbe id innullir li legge, li quile per­mette ehe le cip re possi no pttcolire. O si iltendi •Ile lotiche editioni, le quali banoo: ne capras cum pascat, ovvero • quinto hi pubblicito Vit­torio : ne capra natum pascat, oon si viene forse id illontanir totilmente di un terreno piintito di alberi le capre ?

Eoeo però il modo^con cni si potrebbe aggiu- stsre il nostro testo, dietro al codice di Poliziano e alle intiche edizioni: aggiungendo soltanto li lelteri / alla parola capra. Poliziano dunqoe, come altresì le prime edizioni, hanno : ne capra tum pasca t: ora aggiungendo la lettera / sì ha ne capras.

Qui però non si riferisce tolta intera la leg­ge, ma solo uni parte della medesima. L’ inte­ra legge * li segnente : 11 ctitaMo oon facdi pascoli re le capre in un terreno piantato di alberi quando germogliano i virgulti e le viti, quando appunto qoelli sono teneri, e proprii per essere iddentitl, e queste qumdo sono cariche di uva. Sarà poi permesso farle pascolare, illorquan- do sirà terminata la vendemmia, e le piante e le viti tiranno diventate legnose ; nel quii tempo Ife

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.63 ANNOTAZIONI AL LIB. ! DE Bfc RUSTICA 7 6 Ì

capre non potranno nuocere a quelle piaole. Dan- ^oc da questa legge è da conchiudersi che per un certo dato tempo non ti permette alle capre di pascolare in on terreno piantato d'alberi. Le leggi relative ai eatialdi tono varie e consone alla natura, all' indole del terreno e agli alberi pian­tati nel medesimo ; e perciò dicendo Varrone nel lib. 11 : ne colonus capra natum in fu n d o pa­tea t, viene ad escludere totalmente dal terreno le capre: nè a torto, perciocché ove si coltivano gli ulivi, ti corre rischio che entrandovi le capre• pascolare addentino le frondi, e scortichino i tronchi anche in tempo d 'inverno. Forte si diri, e che vuol dire in questo luogo tum ? Qui è lo s t e s s o di tunc : e che tum siasi adoperato in vece «li tunc , si raccoglie da Cicerone lib. vn ad Attico Ep. vi : N isi fo r te haeo illi tum arm a dedimus, u t nunc cum bene parato pugnarem us.

(54) Quas etiam astrologia , etc. u Videtur, dice Cupero, scribi debere quam, uti referatur ad capram ; sed respexit in genere ad haec ani­malia, et notum est ex Hygino, non solum capram Amallhaeam in ter aatra relatam et sedere in ha- mero sinistro Heniochi, verum eundem etiam raanu sinistra duos haedos estare. »

(55) Ursino è di opinione che le parole pecus quoddam sieno superflue, e che tutto questo luogo si debba leggere cosi: Vide, inquit, A gri, ne istuc sit ad hoc, eum in legibus etiam co- veatur ; adducendo a questo proposito quanto dice Varrone nel lib. 11, cap. 3 : Ob hoc in lege locationis fu n à i excipi solete ne colonus capra natum in agro pascat : dalle quali parole appa­risce che vi si deve introdurre la voce surcula ­rio . Ila siccome nella prefazione nel lib. 11 è scrit­to : arm entum id, quod in agro natum non colit, sed tollit dentibus ; così resta a conside­rarsi se nella legge dell’ affittanza della tenuta la voce capra sia posta io sesto caso, e che do­vesse dire : ne Colonus quod in agro natum sit, capra pascat. Terra natum lo disse pure Salin­aio, intendendo di parlare di quello che nasce nel terreno, coma sarebbero gli alberi e simili cose.

Ecco come Popma parafrasa questo luogo. « Forte A g ri ne. Cave putes, Agri, inquit, leges eolonicas vetare colooom in fundo capras compi­acere, quasi pastio omnino aliena sit ab agricul­tura, cum eaedem leges permittant pecus quod­dam pascere. Sed hoc cavetur ideo, qaod caprae tunt inimicae sationi. Lib. 11: In lege locationis

fu n d i excipi solet, ne colonus capra natum in fu n d o pascati harum enim dentes in im ici sa­tioni. T»

(56) Le parole diversa de causa sembrano essere, a delta di Ursino, di altrui mano.

(57) Quod e a m ........sterilem. Plinio n«llib. xv, cap. 6 dice: Oleam s i lambendo capra, lingua contigerit, depaveritque, prim o germ i­natu sterilescere auctor , est M. V a rro . E nel lib. vili, cap. 5o : Olivam lambendo quoque ste­rilem fa c iu n t, eaque ex causa M inervae non im m olant. Dalle quali parole apparisce che nel nostro testo si debba leggere : Quod eam, quam lamberityfieri d icunt sterilem . Il verbo laeserit è una glossa di lamberit. Festo dice che lambere è lo stesso che scindere ac laniare. Veggasi No­nio vili, 62, Mere. p. 491? 10.

(58) Licinius. « Mihi, dice Gemerò, nullara dubium est, quin ad hnne locum applicanda sit observatio viroram doctissimorum, de qua agitar ad Varronem lib. 1, cap. 2. Saoe importane hio inculcari personae nomen videtor, n

(5g) In arcem non inigi, u In ig i, dice Vitto­rio, quemadmodom est in antiquis libria,*aervpa : quo verbo saepe M. Varro usus est Sextaa Poas- pejns : Inigere pecus est agerè. »

(60) Noo sono maocati eroditi, che poco con­leu li della parola propriae hanno voluto sosti­tuire prop itiae ;e ac iò vi tono itati indotti par­ticolarmente da Varrone medetimo, che di topra aveva detto : Quaedam enim pecudes su n t cul­turae inim icae : per conseguenza hanno volato contrapporre propitiae ad inimicae. E per altro da preferirsi la comune lezione, poiché per pecu­des proprias s ' intendono quasi i soli baoi. Di fatti non ha Varrone ricercato di topra ae il bestiame e l ' armento appartiene all'agricoltura T Ed avendo escluso dall'agricoltura quel bestiame che soltanto si mantiene per farlo pascolare, come altresì quello cbe naoce ai terreni, aggiunge finalmente e ricerca quali animali appartengono all' agricoltura^ quali sono quelli che aiutino la medesima, e che sieno come proprii della fletta. E quest' opinione riceve maggior peto da qoeQo che segue : U t eae, quae junctae arare possunt. A questo luogo fa molto a proposito qnanto dice il nostro autore nel lib. iu, cap. 5 : Socium ho­m inum in opere rustico, et Cereris m in istrum .

(61) Ursino oondanna la parola opere, dicen­do eh' e di altroi mano. Inveoe di adjuvare vor­rebbe cbe si leggeste adjuvant. Ma egli non ri­flette che la voce opere è tecnica dell'agricoltura, e cbe adjuvare dipende da possunt.

(62) Urtino non vuole che si venalium greges, ma bensì volucrium greges. Egli si fon­da sopra il cap. 38 di questo stesso libro, scriven­dosi ivi : Stercus optim um esse scrib it Cassius volucrium, etc., e nel lib. ut, cap. 2 : Ib i vidi greges magnos anserum, gallinarum , colum­barum, gruum , pavonum, etc. u Neque hic, risponde Ursino, attentiti pottum viro doctisai-

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ino. Servos absolute venales dictos esse etiam a Varronc re! illa satyra. Sard i venales osteodit. Argumentatur Agrias ila. Si propterea ad agri- callaram aliqaid referiar, qaia osus illias est ia agro, eliam de venalibus, boo est serri» et loto ilio genere erit praecipiendum, atc. n

(63) Ursino legge et ) ructus in eo fe r re . Nel codice di Poliiiano manca pare non : e di fatti o si deve levare non, ovvero toglier di mezzo in secondo, poiché se il bestiame.noo aiuta la coltu­ra, non si poò negare per altro ohe non renda delP utile. Pooe dopo dice Varrone : S i quis propter agrum, aut etiam in agro praefectus domino agriculturae acceptum referre debet, sed id modo quod ex satione terrae natum ad fruen dum . Confessiamo per altro di ater piat­tono parafrasato cbe tradotto questo passo.

(64) lo tre codici Fiorentini, ano dei qaali è molto lodalo da Poliiiaoo, si troTa scrino diver­samente: Scrofay d ìjungamus ig itur, inquit, pastionem a cultura, et sei quis quid volt aliud. A liu d ì Anne egoy inquam , secuar Sacernarum pa tr is et f i l i lib rasi Scrofa aveva inferito che si dovessero segregar gli animali da pascolo dall1 a- gricoltura, e altri oggetti ancora, se così agli altri piacesse. Al che rispondendo Varrone, qaal nomo collo da maraviglia dice a liu d ì Ci siamo fatti premura di conservar questa interrogazione gra­ziosa.

(65) Le antiche medaglie ci assicurano che quelli Sacerna erano della famiglia Ostilia.

(66) Quam argentifodinas. Scaligero voole che si legga arenifodinas, confermando ciò da qaaoto segue : Sed u t neque lapidicinae% neque arenariae ad agriculturam pertinent, sic fig li- nae. Un simile errore dice essere corso uel lib. iv, De L ingua Latina , dicendosi ivi aerifodinae, quando i codici hanno aretifodinae% os»ia, come Scaligero corregge, eretifodinaey poiché l’ arena e la pietra è compresa sotto il uome di metallo. « Ego ila potabam, gli risponde Gemerò. Saser- nae ad rem rusticam retulerant figlioas ; Varrò, eadem ratione eliam referendas esse metallorum fodinas, hoc est neutras. »

(67) Ecco qual leiione correva avanti Vitto­rio ; A u t aliam , et aliam , et alia ; ed egli ha preteso di corregger meglio, facendo ohe si dica aut alia et alia metalla , appoggiandosi a Catul­io, il quale disse elegantemente : Haec atque illa dies, atque alia% atque alia. In progresso si è seguila da tolti la correzione di Vittorio. Ma in Poliziano trovandosi la prima leiione da noi ri­ferita, crediamo che aliam et aliam rigoardi fo ­dinas, delle qaali ve ne sono di pietre e di sab­bia, che poco dopo si accennano, e cbe alia abbia di mira tutte le altre utilità cbe si posiono trarre

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dalla tenuta: di fatti ii fa menzione anche del-V osteria, qaal prodotto della teouta. E perchè cambiare il testo, qoando non siavi niente cbe ripugni ?

(68) u Ulrum una, dice Gesnero, harom nega­tionum librariis debetur ? an ila pleonastici lo­cala* est Varro ? Posterioris rei exemplum desi­dero. Itaque alteram non includendam curavi* n

(69) Non enim s i q u is ....... debeL u Videtorlegendam s i quidy ct referri : ut dictio profectus sit generandi casos: » oosì dice Ursino, e così pare trovasi in un codioe e nelle tre prime edi­zioni.

(70) Sed id modo% quod ex satione. Qaesta è correzione di Vittorio, perchè avaoti correva quod nec satione : e ciò lo conferma con qoanto dice Varrone in qoesto medesimo libro: Quo- niam fru c tu m arbitror esse fu n d i eumy qui ex eo satus nascitur utilis ad aliquam rem. Vit­torio ha avolo tutta la ragione di allontanarsi e dsi codici e dalle edizioni ; poiché dice Brenck- mann : «. Quid enim aliud est, nec satione terra natum esse, quam sine saliooe et cura terra idest sponte provenire ? Quod si quid motandam sit, mallem vó tecta, quod in optimo codice ha­betor, in tenera mutare, ut esset, quod nec sa­tione tenera sit natum ; idque qaod ad sensum eodem recidit, n Gesnero soggiunge : u, Ego vero putaverim, nihil sanius Victoriana lectione, nihil conjectura sapientissimi senis certius. Agricultu­rae objectum, ut scholae vocabolo ulamor, noo sont res nec satione terra natae% sed quidqoid ex satione terra est natum adfruendum . «

(71) O bstrigillandi causa. Ecco come spiega Schoeltgenio: a Strigare notat quiescere, stare, inde strigiilare et obstrigillare, quod obstare significat. Nonioi 11, 608 Obstringi/lare ( ila eoim semper scribi l), obstare: in quam rem unum Enuii, et iria Varronis, in qaibus uosler medius est, loca profert.

(72) E t despiciebat. Pare che sia meglio leg­gere sed despiciebat: almeno in colai guisa l'opposizione è più chiara.

(73) Lo stesso ha Didimo ne' Georgici gre* ci xm, 14 : S i amurcam coctam felle bubulo m ixtam cum oleo ipsis adsperseris.

(74) Ci è parso necessario in questo luogo il punio interrogativo.

(75) Scaligero è di opinione che si debba ometter dolere, c che sia da leggersi : Nam hujus pedes solent in fro n te contrahere rugas. Coai pure ha detto, dio1 egli, Orazio : Ne sordida mappa* corruget nares ; ed è persuaso cbe dm» lere sia una glossa marginale, poiché contrahere rugas è lo stesso che dolere.

« Ita legilur vulgo, sono parole di Popaa,

;C6DI M. TERENZIO VARRONE

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767 ANNOTAZIONI Al/TJB. I DE RE RUSTICA 7 6»

•ed illud dolere, osi gioitem i et ea re expungen­dam, qaod et doctissimo Scaligero videtor ; vel legendum dolore in fro n te , ut dicat, dolorem pedom frontem corrugare, el Iriilem reddere, addoctumque Tallam. Juvenalis Sai. 14:

u Hoc quoque si rugam lrahit,exlenditquelabellum.n

Dell' istesio parere di Scaligero è pare Gesnero, se non che ba volalo stare attaccato al codice di Poliziano.

il testo per altro da noi tradotto è il seguente : Nam et hujusce pedes solent dolore in fr o n te contrahere rugas. E quello è an tetto trailo dalle prime edizioni, dai codici di Poliziano, di s. Re parata, Cesenate, e da due Medicei della biblioteca Laoreniiana.

(76) V el Tarquennam audivi. Qui si prende pel in loogo di etiam . In questo senso è italo uaato da altri. Tereniio Pborm. Act. 11, Se. 1 :

a Poliremo sei nullo alio pacto, vel focnore. n

Virgilio lib. xi deir Eneide :

u Vel Priamo miseranda manus...............

Finalmente lo adoperò Cicerone nel lib. 111 de Legibus : Islo modo pel consulatus vitupera- bilis est.

Vittorio è persuaso che quello Tarquenna fosse uno di que' lettori che leggevano quando i Romani si cibavano. Ma è più probabile che fosse un ciarlatano Etrusco, come fi ricava dal nome, ch’è analogo a Porsenna, Cisenna : almeno l'E- truria era eccellente di colali prestigie supersti­tioni.

(77) In quest' indiavolato luogo tacciono tu tt'i commentatori, abbondanti tempre di parole, oveil bisogno è minore. Gemerò ci fa grazia sola­mente di dirci che “ haec verba forte sont in Fandanii personam conferenda, qui cura pedibus laboraret, statina arripit quod dixerat Stolo. Hic aatem verba tolenoia vel carmen statim affert, T erra pestem . V. Calo c. 159 et 160. „

Il gran Pontedera per altro ci ha non poco illuminati, e noi siamo andati dietro a lui quasi alla cieca. M Perpende ounc, dic 'egli, qaae ex Tarquenna acceperit Sacerna. Pedum dolore Ubo- rauti homini, qui tui meminissent (al primi tal cusam ; meminisset eaim ab Aldo est) ef posse mederi. Ego tu i m em ini, mederi tuis pedibus (possum). Qui tui merainil, pedibus homiuis do- lenlibui valet mederi : qaoniam igitur tui sum memor, tuis quoque pedibus mederi possum. Qoae inter se convenire opinor, restituto vetusto

mederi, s i t o mederier, pro Aldino medere^ et meis iu tueis verso. Verbum possum, valeo, aat quid item deperditom existimo. Nane Tolfita el recepta videamus: Ego tu i mem ini,m edere meis pedibus. Quorsam isla? Qui tui meminit, mederi potest.Sic illa ostendunt, qui tu i m em inissent, ei (homini pedum doloribus excruciato) m ederier posse, Tarquenna pollicebatur. „

(78) In meis pedibus. Vittorio, a coi 61 eco anche Pontedera, è persuasissimo che queste Ire parole sieno stale aggiunte da altri, quantnnqne si trovino pure ne' manoscritti. 11 sospetto è fon­dato , perchè alcuno avrà voluto dichiarare coca s 'intenda per l’ avTerbio hic, cioè in m eis pedi- bus. E questo sospetto acquista maggior peso dal considerarsi che lolle di mezzo le parole in meis pedibus, i due membri, che si recitano, T e n g o n o

ad aTere quasi un egaal numero di sillabe e una consimile desinenza ; cose alle quali n attende con tutto lo scrupolo da chi mette in opera cotali superstizioni.

(79) In Plinio qaesti riti si trovano più svilup­pali. Egli nel lib. xxvm dice : E adem etiam ratione terna despuere deprecatione in omiii medicina mos est. E nel lib. xxvi, cap. 9 : Ex» perii affirmavere plurim um referre, s i virgo imponat nuda, je junia jejuno, et man* supina tangens dicat: Negat Apollo pestem posse cre­scere, cui nuda virgo restinguat ; atque ita retrorsa manu ter d ic a t, tot ics que despuant ambo, etc.

Tra le superstizioni degli antichi si trova,che quando eglino nelle loro preghiere nominavano la terra, la toccavano, come ti raccoglie da Ma­crobio 3 Satu m al. : Cum tellurem dicit, mani- bus terram tan g it; e per contrario qaando no­minavano Giove, innalzavan le mani verso il cielo; del che ci fa Cede Ennio Thyeste : Aspice hoc sublime candens, quem omnes pocant Jovem . Inoltre nell'atto che recitavano i versi tpntavana tre volte , e colla saliva si bagnavano la fronte, per tener lontane le malie. Tibnllo nel lib. 1 :

« Ter cane, ter dictis despoe carminibus. *

E Petronio: Turbatum sputo pulverem medio sustitit digito, frontem que repugnantis signa- pit, hoc fa c to carmine ju ssit exspuere.

(80) Multa, inquam.Qtenero tramota inquam iu inquit, onde non si tolga la continuazione del discorso di Stolone, al quale dappoi soggiunge Varroue: quasi pero non caeteros, etc. Ma è da riflettersi che questo inquam si torna a replicar da Stolone dopo aver dette altre simili oose. Cori Marco Tullio Phil. iv: ffunc unum diem , hunc unum , inquam , hodiernum diem defende, si

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7®9 P I M. TliBLNZIO VARRONE

p o te s : laonde ooa è dii cambiarsi inquam in in q u it.

(81) Quasi vero inquam . Seooodo Uraoo è da leggerti: quasi vero inquit A grasius% perchè non et?i frapposta alcuna persona, e Agrario difende Saseroa. Torna iu campo Gesnero col voler che si cambi 1’ ono o I1 altro di questi inq u am . M Ut rum sit, soggiunge egli, lector, disputa, si qoidem Unti videator. Mihi prius vi­debatur, qaia quasi co a d lui o sunt eorum, quae Stolo dixerat. ,,

(8a) Catone parla della placenta nel eap. 76, del libo nel capo 75, del prosciolto ntl cap. 162, e del cavolo nel capo i 56.

Cap. III. (1) Chi confronterà la traduzione di questo breve capitolo col testo, troverà varii cangiamenti, de' quali per ora non rendiamo conto, volendo premettere quel poco cbe ne han­no detto gli altri.

Ursino è permaso di leggere deinceps dicen­dum in luogo de iis rebus dicendum ; e alquan­to sotto dopo Carceribus indina a leggere prò - fe c ta , quas decurrat ad metas, perchè verso il principio del segueute capitolo Varrooe ha det­to : H inc profecti agricolae ad duas metas di­rigere debent.

Gesuero cbe sta attaccato alte regole graffia­ti cali, fa dire doceat a Varrooe ; ma soggiunge però : u sed etiam alias interrogative directe non interrogantia graeco more cum indicativo con­structa videas. Unum landabimns Cic. Alt. v i i ,

12, pag. 762 Graev. Sin discedet, quo aut qua± aut quid , nobis agendum est, nescio. r>

(a) Ora si esamini il testo e si dicano le cor­rezioni. E t avanti cujusmodi si è tralasdato da Aldo, qoaodo si trova nelle tre prime edizioni : parimente si è cangiata 1* interpunzione ; e qui bisognava meglio separarci membri del periodo. Si è tolto di mezzo dicendum, come qoello che noo riconosce per autore che Aldo ; poiché il sentimento è questo : de ieis rebus, quae in scientia s in t , quis in colundo nos docet? Le antiche edizioni mettono quod in colendo : ora questo quod, che si omette dai codici di Polizia­no, di s. Reparata, e Cesenate, si è tramutato da Aldo iu et quid. Se però si cambia in quis, si viene ad avere on piò giusto sentimento. Di fatti Agrasio avendo dimostrato quaoto era da segre­garsi dall’ agricoltura, e dimostrandosi deside­roso di sapere tutto ciò che strettamente spetta all’ agricoltura, diee: poiché al presente sappia­no quanttf è da disgregarsi dall’ agricoltura, chi ora c’ istruisce di quello che appartiene alla col­tivazione ? Allora Stolone rivolgendo gli occhi a Scroti, che da Varrone è sopposto il piò capace

d’ istruire: Tu, «lice,devi insegnarcelo e per l’ età ina, e pel tuo rango (egli fo pretore o uno dei ventivi» ), a pel sapere onde vai fornito.

Vero si è che nei codici di Poliziano, di s. Reparata, e Cesenate ai legge quae in scientia s it ; ma è vero altresì che le tre prime ediiioni che equivalgono a tanti codici, h*ono quae in scientia sint. Inoltre si è da noi rigettata la le­zione d’ Aldo ars an s it, e abbiamo adottato ars H trovasi in Poliziano e od Cesenate ; nelle tre prime edizioni si ha ars s it. Finalmente ab­biamo sostituito qua praestas delle prime edU aioni a quod praestas di Aldo. Sicché recapito­lando ecco il testo che da noi si è tradotto: ig i­tu r , inquit A grasius, quae dijungunda essent a cultura , et cojusmodi sin t, quoniam discre­tum : de ieis rebus quae in scientia sin t, quis in colundo nos docet ? A rs id , an quid aliud, et a quibus carceribus decurat ad metas ì S to- lon quom adspexisset Scrofam : Tu , inquit, e t aetate, et honore, et scientia, qua praestas, deicere debes.

(3) Parimente nel restante di questo capitolo abbiamo abbandonato il testo di Aldo. NeUe tre prime ediziooi e nel codice Polizianeo si trova ac in vece di et avanti magna. Quattro codice Fio­rentini e il Cesenate mancano delle parole quae docet, che ancor noi abbiamo tralasciate, molto più perchè senza di queste si viene ad avere on senso perfetto ; essendo che l ' agricoltura est ars (eorum ) quae sin t, etc. E da tramutarsi V Al­dino quoquo in quoque, perchè appunto così sì legge nelle tre prime edizioni, in Poliziano, e in on codice Fiorentino. Abbiamo in Poliziano quae a qua tera in luogo di quaeque terra : di fatti se 1’ agricoltura insegna qoello eh* è da farsi in qua­lunque terreno, d dimostra ancora da qual terra noi potremo trarre grandissimi frutti. Egli è chiaro che l’ abbondanza dei fruiti corrisponde alla bontà del terreno ; iraperdocchè in ano ste­rile, quantauque sia lodevolmente coltivato, mai si avranno ubertosi frutti.

Il testo duoque da noi volgarizzalo è il se­guente: llle non gravatus preim um , inquit, non modo est ars, sed etiam necessaria et ma­gna. Eaque est scientia quae sint in quoque agro serunda, et faciunda , quae a qua terra m ax su mos perpetuo reddat fru c tu s .

Ca*. IV. (1) 11 poeta Ennio aveva tradotto dal greco in btino dei pezzi tratti da Epicarmo poeta e filosofo pitagoreo, e questi versavano sopra la natura delle cose. Egli diede a quest' opera il ti> tolo di Epicarmo. Epicarmo era di opinione che i principii delle cose erano anche quelli degli dei.

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Il1 ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE RE RUSTICA

Lucrezio in pari modo di fn oio chiama il 10I0 fuoco, • T aria V anima :

« Ex igni, Terra, atqoe anima procrescere, et im­bri. n

E Virgilio nell'Egloga 6:

u Semina, Terrarum que, Marisqoe fuissent..»

Varrone De Lingua L a tina i t , pag. 17 dice : Epicharm us E n n ii de mente humana dicit% Jstic est de Sole sum ptus ignis, etc.

(а) Ursino mole che ti legga: quod hinc initium .

(3) Gemerò ha io tal modo punteggialo, per­chè in prima dopo delectat vi era nna semplice virgola, e an ponto dopo agrum. È ragionevole qnetta paoteggiatura.

Uriioo è persuaso che la parola cultura so­vrabbondi ; e perciò anohe Gemerò l’ ha mesta tra parenUai.

(4) « Multa hic ( tono parole di Urtino ) ?&•- Xta^txHi ab expotitoribat adjecta ex margine in textam irrepteruaL Tolat autem locus ila vide­tor emendandnt : Nemo enim eadem u tilita te non form osius quod est, emere mavult p lu r is . U tilissim us autem is agery qu i salubrior esti quod ibi fru c tu s certus. Contra in pestilenti, quamvis fe ra c i agro% colonum ad fru c tu s per­venire non pa titur. Columella 1, 3, 2 : Nec ru r ­sus in pestilenti, quamvis je ra c i pinguique agro dominum ad fructu s pervenire, etc.

Avanti Vittorio correva fruc tuosius turpey e in alcane potleriorì edizioni si ha anche fru c tu o ­sius turpius, u Qui ab hac ( dice Gesoero della lesione del nostro testo) Medicei eliam codicis et Commelini lectione discedant, veriti videntur, ne param accurate loqueretar Varro. Sed illa se ne­qae alias in ordinem cogi palitur. Fructuosus, turpis ad nomen ager eogitatione re t oliste po­test. »

(5) Haec si riferisce a calam itas, di oai si è detto di sopra ; ovvero ad alta.

(б) Sed in naturae. Urtino è persoato che queste tre parole tovrabbondino.

(7) Ippoetale preservò la Grecia dalla pesti­lenza, facendo chiader le gole delle mootagne che guardavano verso l'Hlirio, ove dominava la peste, e facendo accendere de* gran fuochi, onde si pnrgasse V aria.

Se di altri soggetti abbiamo fatto alcane pa­role, ci sia permesso di fermarci alquanto sn di Ippoerate, come quello che nell' eserciiio della medicina noi ci abbiamo sempre prefissi di se­guire.

Ippoerate nacqne nell1 isola di Coo il primo

anno dell'ottantesima olimpiade, verso la Rne del 460 avanti G. C. Egli fu istrutto nell* me­dicina e nella belle lettere da sao saocero Ippo- crate e da suo padre Eraclide, i qaali non solo erano gran medici, ma versati ancora in ogni genere di letteratura. Eglino lo istruirono nella logica, nella fisica, nella filosofia naturale, nell'a- stronomia e nella geometria. Stadiò l 'eloqoeoia sotto Giorgia Leontino, il pià òelebre retore dei saoi tempi. Viaggiò per lo spazio di dodici anni in molte proviocie, onde acquitlare quelle cogni­zioni che non itperava di acquistare nell' iaola di Coo. Percorse la Macedonia, la Tracia e la Tetta- glia ; e in tutti questi paesi raccolse U maggior parte delle preiiote osservazioni che contengoso i saoi epidemii. Nel mentre che viaggiava, ai fer­mò ia Efeso presso il tempio di Diana, ove tra­scrisse e miae in ordine le tavole di medicina, che ivi trovò : lo stesso fece di qaelie che trovò nel tempio di Esculapio in Coo.

Lo riputazione d 'Ippoerate cresceva di gior­no in giorno. Molti principi e molti re tentarono di ritirarlo alla loro corte; ma non volle giammai abbandonare la sua patria, quaotunqae fossero splendide e generose le offerte che ad esso face­vano. Celebre è quetla risposta che Ippoerate diede al governatore di Ellesponto, il qoale lo ricercava a nome di Artaserse Loogimano: Dite al vostro re, che io sono abbastania ricco: che l ' onore non m i perm ette d i aver suoi doni, e d i andare in aiuto degP inimici della G recia .

Siccome Ippoerate esercitava la medicina per nn poro priocipio di umanità, qaiadi non si con­tentò, ugualmente che gli altri Asclepiadi, d 'in­segnare la sua professione soltauto a quelli della sua famiglia, ma la insegnò altresì agli stranieri: e appunto da questo momento cominciarono a divulgarsi i suoi precetti.

Ippoerate visse nna looga vita, sano di corpo e di meote, ed era ben degoo di esserlo. Tatto il mondo lo ha onoralo come il padre della medici­na. È morto a Larissa, città della Teaaaglia, di novant' anni. Vi sono però autori, i qaali opinano e iter egli vitsato fino a cento e quattro anni ; al­tri poi credono che abbia toocato i cento e nove anni. Fa interrato tra Sirtona e Larissa, ove si mostra anche al dì d 'oggi la sua tomba.

In tempo di sua vita se gli accordarono onori, che non si arano reti ad alean uomo. Qaelli di Argo gli innalzarono dopo morte uoa stataa di oro : gli Ateniesi gli decretarono corone, e man­tennero non solo lui, ma anche i suoi discendenti nel Pritanneo : nè oontenli di ciò lo iniziarono altresì ne' loro più grandi misteri : distinzione che rade volte si aceordavano agli stranieri, e di cui soltanto Ercole era stato onorato.

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77S DI M. TRRESZIO VARRONE 774

Tppocrat* non aveva molto buona opinione di «è it iiio , e eoo tolto il otndore confettava i tuoi proprii errori ; il ohe lo earatteriaza per an nomo veramente grande, veramente saggio. Per la qaal cosa egli era solilo dire ehe quello è piò da lodtr- ai io ipedicioa, che fa più pochi errori. Quindi in ogni tempo è stato considerato come an modello per tatti quelli che si dedicano ella medicina, e come il piò fedele interprete delle natura.

Termineremo questa lungi digressione con un bel pi sso di Montigoe : La plus riche pie que je sache avoir i t i recue entre les vivans, e t é e o /fé e des plus riches parties et désirables, c ' est celle <T Hippocrate ; et <f un autre còti, j e ne connois aueun ècrit <f homme, que je régarde avec aut ani <T honneur et d* am our.

Cap. V. (i) Qui scrib itur pvrmt ffoffaf* u Vetus haec est lectio (dice Ursino) ne peram quidem a nobis immutala. Ila siepe a veteribus auctoribus libri Theophrasti citantur, quod ex Athenaeo multis locis cognosci potest : quamvis nunc in excusis libris aliara inscriptionem ha­beant. n

(a) Ursino amerebbe cbe in vece di neque eo dico quod si dicesse neque eo dico quo ; ma per •liro sarebbe meglio che si fossero seguite le prime edizioni, che hanno quin habeant.

(3) Secunda , quae in eo fu n d o debeant esse cu lturae causa, tertia , quae sin t facienda, quarta , quo quaeque tempore fie r i conveniat. De his quatuor generibus. Così è da leggersi qoeslo luogo, secondo il parere di Ursiuo, esclu­dendo le altre parole, che sono glosse. Vuole che si consideri ancora, se in luogo di generibus nasi da dire partibus, poiché di sotto si ha : De prim is q u a tu o r partibus dieam .

(4) D * his quatuor generibus singulae. « Putabam legendum singula (dice Gesnero). Sed video Varronem hic promiscae dicere genera et partes. Ceelerum de prima parte scilicet genere primo agit cap. 6 ; de alteri cap. 17 ; de tertia, quae quidem ita perfunctorie tractatur, cum tamen maximi sit momenti, ot aliquid deesse arbitrer, cap. aS ; de qaarta denique cap. 37. w

Cav. VI. (1) Delia prima ne parla in questo capitolo, della seconda nel capitolo 7 , della tena nel capitolo 9, e della quarta nel capi­telo 14. Ognuna poi si suddivide, come la pri­ma, in forma naturale, di cui dice in questo capitolo, e della forma che acquista il terreno per meato dell1 altura nel capitolo 7, ee.

(a) Nel seguente modo vorrebbe Ursino che si correggesse il testo : Jgitur cum tria genera tin i agrorum, campestre, collinum^ et monta-

narra, e t ex his quartum , ut in eo fu n d o , in quo haec duo pel tria sun t, u t m ultis locis licet videre. E quibus tribus fastig iis sim plici- bus, sine dubio infim is cultura aptior, quod haec calidiora ; sic collinis, quod ea tepidio­ra. Haec apparet, etc. Noi per altro confessia­mo cbe meglio s' intende la lezione di Vittorio o di Commelino.

(3) u Forte excidit (dice Gesnero) certe subau­diendum inter haec duo verbi (sic collinis) alia, scilicet cultura aptior: htec enim tepidiora iunt duplici intellectu, noo ita frìgida, quau» somma, nec ita calida, quam infima. Similia bre­vitas reearrit mox. »

(4) Qoi suppone V autore una grande esten­sione di pianura, e però molto lontani i monti, dai quali scende il vento ohe rinfresca.

(5) Nei manoscritti si trova scrìtto susum o deosum scoti r, e costantemeote sono tempre •critti così. 1 grammatici per altro insegnano che gli antichi hanno scritto promisca amento sursum e susum.

(6) Le tre antiche edizioni hanno contra aestiva montana his locis ; Polizitno poi ha montana iis locis; e questa è la miglior lettane, che noi abbiamo espresta nel nostro volgariz­zamento.

(7) Eo magis s i quis est inaequalis. Ursino Tuole che ti levi ria qùis, e che in vece di dispa­riliter ii legga dispar, o disparile. Questo loogo è tolto da Teofrasto 11,6 De causis plantarum ,

Cav. VII. (i) Veggasi Catone al cap. 1.(a) Persuaso Ursino che qui si sieno prese del­

ie licenze tanto dai eomentatori, quanto dai co­pisti, ha aggiustato il lesto nel seguente modo : De fo rm a culturae hoc dico, quae specie sun t venustiore , sequi, u t m q o re quoque fr u c tu sin t, u t s i sata sun t in quincuncem . Itaque majores nostri, etc. Anche però con fo rm ae cultura, si poò dinotare, come dice Gesnero, u non absurde studium venustatis, »

(3) Nei capitolo 4 di qoeslo libro si parla di ciò.

(4) Cum easdem s i fregeris. La particola si abbonda, per sentimento di Urtino; e poco dopo è da leggersi appellatur, non appelletur. Chi rifletterà con attentione, vedrà che l'una o 1* al­tra delle pirticelle cum, o s i è da levarsi. Fori* quest1 è un pleonasmo di Varrone.

(5) Nel seguente modo vuole Ursino che •! corregga il testo, appoggiato a Teofrasto lib. 1 delti Storia delle Piante, e al lib. xii, cap. 1 di Plioio : Itaque Cretae ad Cortyniam dicitur platanus esse, quae fo lia hieme non am itta t, itemque in Cypro, u t Theophràstus a it. Una

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ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA 776

item Sybari, qui nunc T h u rii d icuntur, quer­cus sim ili esse natura, quae est in oppidi con«• spectu. Le parole di Plinio tono queste : E s t e t Cortynae in insula Creta, ju x ta fo n tem p ia - tanus una, insignis utriusque linguae monu­menti,f, nunquam fo lia dim ittens, statim que ci Graeciae fabulositas superfuit, Jovem sub ea cum Europa concubuisse: ceu vero non alia esset ejusm odi generis in Cypro, etc. E ne! lib. x? 1 cap. 21 : In Thurino agro, ubi Sy­baris f u i t , ex ipsa urbe prospiciebatur quer­cus unat nunquam fo lia dim ittens ; nec ante m ediam aestatem germ inans, tic .

a Ex locit aa tem adducti* (soggiuoge Ursino) videtor apnd Varronem legeodom : Una iltm Sybariy ut d o s emendavimus : apod Plinium vero super ea, non sub ea ; nam in nummo argenteo rofrw /nr baec fabula ila expresta est, ot non sub platano, sed ipsi plane platano infidere Eu­ropa videa Lar : el Theophrastus, a qoo Plinius accepit, habet inri ra(Jrx.n

Plinio rammentando quel fenomeno celebrato tanto dai Greci, quanto dai Latini, prende occa­sione di deridere i Greci per le loro favole, a feu­do etti divulgato che solamente «otto quell* al­bero Giove avesse avuto commercio con Europa, quasi che fosse unico nel suo genere.

(6) Teoftasto lib. 1, cap. 6 della Storia delle Piante. Dicendo Plinio oel lab. xvi, cap. 27, che questa quercia non cominciava a far germogliare le sue foglie cbe verso la metà dell* estate, è da concludersi che tutta la m#raviglia di quest* al* hero non consisteva che nel prodor le foglie più tardi degli altri alberi, e che per conseguenza era anche l 'ultimo a spogliarsene.

(7) V ites apud mare Sm ym ae. Le ediziooi di Plinio, avanti quella del padre Arduino, ave* vlbo : M. H arro auctor est vitem fu isse Sm yr­nae apud m are b iferam ; cos) ha Plinio nel lib. xvi, cap. 27. Ma il padre Arduino avendo trovato nei manoscritti M atroum , cioè presso il tempio di Cibele, la madre degli dei, in luogo di m are , ha adottata quella lezione, che vorrebbe anche introdotta in Varrone, u II est certain ( dice Saboureux ) par Pii ie xtv, 4' et P*r Stra- bon I. iv, qoe ce tempie existoit à Smirne ; mais est ce uoe raison aaffissante pour corriger notre Auteur, et ce tempie est lui-méme ne pnvoit-il pas ètre aaprèa de la mer, et donner lieu à ces «leox Auteurs de désigoer 00 seoi et raème en- droit ; I* un par le voisinage de la mer, et l'autre par celui du tempie. »

(8) u Non poto ( dice Gesnero) idem referri ad Theophrastum ; sed esae neutrius generis pro­nomen et qoarti casns, relaturo ad id qood diri- tur sopra Refert enimy quae res in eo. etc.

Poterai clarius ita : Eandem rem ostondit illu d , quod, etc. Noo voloisse hic Varronem ad Theo­phrastum provocare, inde etiam mihi fit credi­bile qood statico subjicit mentione» Tbeopbcacti Verbi Idem ostendit, quod hoc volunt, qnod proxima, eadem de causa. Hoc observandum propter volgatom errorem circa tWf quod. »

(9) Avanti Vittorio correva io A retino, ma posteriormente si è scritto Reatino.

(10) Nel lib. 1, cap. 7.(i ì ) In tus ad Rhenum, u Varroniana {dice

Pontedera ) scribendi regola Re num poecit ùm afflato, ot Cassiodoros ex Agnaeo Cornuto refert; ila it, 6 Rodum non Rhodum ; in, 3 R i Mommo* Rhinton, c. 17 redarios noo r he darios.

(12) Plinio nel lib. xxxi, cap. 7 dice che per quest* uso riesce meglio in alcuni paesi il carbo­ne di quercia, e io altri quello di Doccinolo. Gal­liae Germaniaeque ardentibus lign is mquam salsam in fu n d u n t... Q uercus. . * per so ci me re sincero vim salis reddit ; alibi corylus lauda- tu r : ita in fu so liquore salso carbo etiam in salem vertitur. Paro donqne da qsanlo dioc Plinio, che il carbone, qoalonqoe sì sia, non contragga qnesta proprietà, sa noo quando vi si getta sopra deH*aeqoa salata nel tempo che il earboofc è nel fuoco.

(13) C a to ... praeponens. Senta debbio, dico Ursino, è da leggersi proponens; imperciocché nel cap. 18 dice : Cato modum neque unum , neque modicum proposuit. Veggasi Catone al cap. 1.

(14) Scrofa, scio, inqu it. È da aggiungerà seoondo Ursino ita , onde si abbia: Scio, inquit, ita scribere.

(15) Pontedera ha scritto tre Tolte sopra que­sto luogo di Varrooe, senza che Gesnero abbia voluto ascoltarlo. Pontedera vorrebbe aggiungo- re nn po* troppo, appoggiato soltànto ad altri aotori, non già ad aleun codice di Varrooe. Nei riferiremo l'oltimo suo sentimento, come quello eh* è il più ponderato.

u Scrofa , scio, inquit, scribere eilum . Sed de hoc non censentìont om nes; quod a li dami preim atum baneis prateis u ti ego, a quoque anteicei prata parata adpelaront. C aesar V o ­piscus, etc. Antiquitate haec magis, quam ad hoc tempus probata Aldina, excellant: u t ego quo­que: a quo an tiqu i; prima enim cosa, et codf- ees Politiani, et ad s. Reparatae quoque omitlunt; et itla a quo in laodatis codicibus suot a quoque* Qoae tamen etsi vetusta oon perspicio clare. Pro- pterea quia prata primatum in praedio obtinent, parata appellare debemos ? Qoicaroque de pra­torum etymo teribuot, pratom dictum asserunt, quia sine opere et sumpto semper est ad prae-

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7 7 7 DI M. TEttENZIO VAKRONE 778

b eod am fructum p irila a ; quod neque foditor, n eque aratur, neque iu id tementi» impenditor. P r a t u m (doeet Ulpianus da verb. signif.) est, i n q u o ad fru c tu m percipiendum falce dun- t a x a t opus est, ex eo dictum quod paratum sit a d f r u c t u m capiendum. Idem praecipit lib. 11, cap. a Columella : Tertia , ait, ratio loci irrigu i s in e im pensa fru c tu m reddere potest. Hanc p r i m a m V arro (ila enim, non Cato ut in cusis) esse d ic eb a t, qui m axim e reditum pratorum c a e te r i s anteponebat. Deinde cap. 17: Et ideo n e c e s s a r iu s ei cultus etiam prati^ cu i peteres R e fin a n i prim as in agricolatione tribuerunt. H o m e n quoque indiderunt ab eo, quod pro ti• rtus e s s e t paratum , nec magnum laborem de* s id e r a r e t. Ab hoc Iti dorrai Ub. xv haec : P ratum es t, c u ju s Joeni copia arm enta tuentur, cui v e te re s R om ani nomen indiderunt ab eo, quod p r o t in u s sit paratum , nec m agnum laborem c u l tu r a e desideret. Qaare non quia inter fandi parte» utilitale praestat prato no, dicitur paratum , ▼eram quia temper eat ad fructum tine impensa tribuendum parttum. Id ipsum exprimit noster aactor de L. L. lib. it dicent : P rata dicta ah ea, q u o d sine opere parata. Idoirco illa a quo* q ue ad preim atum oon possunt referri. Propter quod nemini obscuram este videtur, nonnulla vetustate deperdit*, quibas, cur pratum para­tu m diceretur, explicabitur. Petrus Crescentias 4e AgriculU lib. 11 ex Varrone memorat ista : A liq u i d a n t prim atum bonis pra tis , quia mo­dicas a u t nullas requirunt expensas. Qoid illud n a m , quod in principibus Varronis cusis forma libri ad rè Caesar appositum legitur? Item littera a ante quoque in vetustis codicibus? Quid, amabo te, reliquiae istae indicant? Nonna manifeate deperdita arguunt? Ista etiam quae in Varrone sequuntur de vinea : Contra peiniam sont quei propter sum ptum putent fru c tu m deporares non imperfectam superiorem senten-* tiam dedarant ? Videlicet Csto primatum dabat vineis, quae .propter sumptum fructus fere omnes consumunt : ego pratis potius, quae parata appel­lantur, na m modicas aut nullas reqoiruot expeo- sas. Hao de causa ductus conjectura censebam, illud a, de quo retuli, extremam fuisse de prata quod suo loco amissum ex alio librarii repara­runt, nempe . . . u ti ego. P rata quoque anteicei parata adpelaront ; nam modicas au t nullas requirun t expensas.t»

(16) Plinio nel lib. xvn, cap. 4 dice : Caesar Vopiscus cum causam apud censores ageret, campos Roseae d ix it Italiae sumen esse , in quibus perticas pridie relictas gramen ope­riret.

Gli Edili erano magistrati, i quali avevano Ia AI. Ttaem o Yaibo ii

sopran tendenza dei giuochi pubblici, dei tempii e della politia di tutta la città.

I Censori erano magistrati incaricati a fare la numeratione del popolo. Invigilavano ancora sopra i costumi a sopra la condotta di tutli t cittadini.

(17) Fpjto parlando delle campagne di Rosea, dice : Rosea in agro R eati»0 campus appella­tur, quod in eo arpa rore humida semper serant.

Ca*. V ili. (1) La prima frase di questo capi­tolo è evidentemente una continuatione di quel­lo cbe precede, cioè la spoiitione di una se­conda opinione opposta al sentimento di Catone, che preferirà le vigue a tatto. Da questo appa­risce chiaro che la separatione di questo ca­pitolo dal precedente è mal collocata, e che al p ii si potrebbe tollerare tilt seconda frase. Ed ecco una nuova prova, come ha detto egregia- mente P ab. Compagnoni nelle soe Annotazioni a Catone, che la divisione dei capitoli noo è dei nostri autori.

(a) Quarum nomina duo pedam enta et ju ­ga, quibus sta t rectis pinea, dicuntur peda­menta. Quae transpersa jungu n tur, juga . Or­sino arditamente corregge in ridicarum nomi­na , e cambia quae transpersa in ijueis trans­persa jungun tur juga.

Per nessuna ragione si può esser del senti­mento di Ursino, perchè la ridica non si divido in pedamentum e in jugu m , ma bensì per con­trario il primo si divide in ridicam , palum , arundinem , et arbustum . Ciò apparisce da quanto dice Varrooe poco dopo : Pedam entum item fkre quatuor generum, unum robustum quod solet a fferri in pineam e quercu cc ju n i­pero, e t pocatur ridica, alterum palus e per- f ic a . '

Pontedera oon è niente persuaso che si deb­ba corregger in queis traspersa junguntur, di- cendp egli : «, Per ridicasne transversa firmantor, an per rimioa ? Aedepot, per vimina. Queis igi­tur cui aptabimus ? Certe, si quicqoam hoc in loco innovandam est, haberem àntiqaios : qua­rum nomine, hoc ett quarum causa; qood pro­pter jugatas vites duo dicuutur, pedamenta et joga, cam io stratis aut sine ridicis recito vàoeia neque pedamenta, neque juga quìbus non indi­gent, noraioentur. »

Gesnero pore alta la voce contro Ursino. « Qoid enim ? ( die1 egli) ridicarum appetlatio- ne comprehendi dicemos perticam , arundinem , restes, vites ? Quid si ad pineas referamus su­blimes f Non ignoro, vineas noo esse pedamen­ta ; sed sublimet vineae fiunt aut per pedamenta,

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ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA 7&0

aut per joga, etc. De re ipsa Columella ▼ , 3o. Illud etiam alterum, quae transversa jungun ­tu r , rectum puto : alioqnin, ai queis ponti cam Tir o docto, legendam erit etiam transversae. Juga transversa jungun tur vitibus noo zninot quam Tile t jugis : de qaoram generibat contu- lendas qaoque Columella i t , 17. «

(3) Intorno a questi paria Columella nel lib. iv, cap. 17.

(4) Ecco la spiegazione che Gesnero dà della parola compluviata : u Si consideres loca om­nia, obi compluvii Tel compluviatae vilis men­tio fit, nihil aliud deprehendes esse compluvia­tam vitem , quam decussatim jugatam, nt qua- drttae in medio areae relinquantur. Complu­vium area subdivalis aperta, et aedificatione in­clusa, quae, si qua partem superiorem considere­mus apertam, impluvium vocatur. Ita intelligo Varr. de L. L. p. xxxvui, 33 : Si relictum erat in medio1 ut lucem caperei deorsum, quo im­pluebat : impluvium dictum : et sursumy qua compluebat, compluvium itaque com- pluvium et impluvium, ut profundum et altum. Sed Varronis ratio subtilior forte quam Terior. Vid, T i r i docti ad Ter. Ean. m, 5, 41- ”

(5) Sopra i salceti e i canneti Yeggasi Colu­mella iv, 3o e 3a.

(6) Giovanni Battista Porta vii, 9 citando tut­to questo luogo di Varrone, omette le parole in Harundulationt, forse perchè non le intese. Qui ti parla della quarta specie di gioghi delle vi­gne, che consiste in attaccare i sarménti delle viti, che di sé stesse non ti possono sostenere,

alberi. I Milanesi adoperano a quest’ uso gli oppii, e qoei di Canosa i fichi, i rami dei quali per esser deboli e fragili ti tostentano eli fortificano colle canne ; e questo è quello che intende Varrone colla parola arundulatio. Pontedera però non tuo] leggere nè harundu- latione nè hardulatione, ma bensì in harum jugatione, dicendo egli : « cum directo jugo in vineis utantur Canusini, traducet per ficorum tabulata in jugum suspendunt. Porro non seri- bit lib. xvii Plinius saluberrimam in jugo arun­dinem connexam fasciculis, et quinis annii du­rare ? »

(7) Noi abbiamo teguito Gesnero, cambian­do volvit iu solvit, cioè render putrido. Pare certamente che questo tia il sentimento di Var­rone : puter enim evertitur seu convertitur, et

Jit solum scilicet imum, quod ante fuerat, jam summum.

(8) Cum fu n d o pertusa . Per sentimento di Ursino la particella cum t ì è di più. 11 codice Richiano ha pertusos; sicché unendo la va­riante di Ursino con quella del codice ti può

leggere fu ndo pertusos. Non abbiamo veramente uoa parola italiana corriapondcnte » cuspides : dalla descrizione dei medesimi contU che in sé.contengono le canne che ti piantaoo in terra, che hanno il fondo pertugiato, pel quale eaeaV acqua piovana, e che impeditcono che la terni umida non tocchi le estremità delle canne pian­tate in terra, cbe altramenti diventeeebbono marce.

(9) Quest1 è una tpecie di Tato in coi ti ri* pone il vino puro, come ti raccoglie dal tuo nome derivato da oxforof, che vuol dir puro, e da véfVy portare. Cicerone li nomina nel li­bro 111, 4 de F inibus : Ne hoc ephippiis e t aerar

toplioris potiusyquam próigm enis e t apoproeg­menis concedatur.

(10) Intorno il danno cbe arrecano le rolpi alle uve, si Tegga la Cantica 11, i 5.

(11) Pontedera appoggiato a Columella pre­tende di correggere il nostro tetto. Ecco quan­to dice Columella nel libro t : Sed ex zìi, ques ipse cognovi, m axim e probantur oeluti arbu­sculae, brevi crure ; sine adm iniculo per se stantes: laonde Tuole che io Varrooe ti legga cosi: Ubi arbusculae modo removetur e terra vitis. Quae ostendit se qfferre «pam, sub eam9 ubi ( uTa ) nascitur\ subjiciuntur circiter pe­dales e surculis fu rcillae, u Quibus modo ex Politiaoo Jeosooioque interni, ea de arbuscu­lae diminutum, ac depraTatum ratos. Reliqua per se clara nostrae diligentiae non repogoanl. Caeterum hujusmodi Tineae discrimen ia gracili et saxoto loco tantum putator, »

Ursioo poi Tuole che ti legga : Sub eam subjiciuntur circiter bipedales e surcu lis fu r ­cillae ; persuaso egli estendo che le parole ubi nascitur uva tieno una glotia di en qualche commentatore. Parimente Torrebbe forre dal testo vindemia Jacta^ e leggere palm a non p a i• mam . Non ai poò ester dell1 opinione di Urtino, perchè colle parole ubi nascitur uoa ti deaoia quel luogo, ove ti deTe sottopor la forcina : ed è appunto quel luogo che ha mestieri di essere sostentato, perchè creicendo P ura Tiene a diventar più pesante. Inoltre colle parole di­scat pendere in palm am Tuole significare che

f ia t palmay oTTero tia nn palmes più robusto,il quale non potendo nemraeo etto aostenerti da sé, abbisogna di una cordicella, o di nn cin­golo per mezzo del quale tia raccomandato al tronco della T ite .

(ia) Non si può ommetter quanto ci dice Pontedera intorno alla parola cestum, u Hoe autem xffoV, qui, quod in cingulum aco con­texebatur, a xig'ti’v nomen invenit. Hinc apad Homeram Uiad. £ Veuui traditur xs oV

Page 210: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

Jqqobì dedine, qao circi liaam posilo, viram obnoxiam «ibi reddereft Jano. Gettai ilaqae cingulas lire biscia, a qao cistillus deducitur, arcolai nimirum vel oblonga falcia contextas, vel al?a, vel junco, Tel quo item, quem qui onos capite feri, libi capili superimponit. Ce­stoni quoque vetustissimi Latini Timi ne aut scir- po ad feniculi rei circuli modam intextam, ia qao ava per palmam bine et bine racemoram teaai amputatam luipeudebatnr, vocarunt; qaem inferior telai a vinciendo in vinctum nomine roa- tavlt. Et quoniam ex calia live oblongis fasciolis de vimine aat libro formatnr orbi», haec qaoqae celiai dicitar, at ia Catone libi eoarravi. »

( 13) R eatin i. In Poliziano »i legge U riatin i, cioè di U ria , paeie della Paglia.

(14) Lo iteiao dice anche Creicenzio iv, ì 3.(15) Yarrone intende dire con ciò che le viti

estendo troppo baise in an terreno amido, cor­rono rischio i grappoli di uva di attrar troppa aeqaa, e perciò di prodarre aa vino iuacqaato.

Cat. IX. (i) Non ti pensi alcuno, come altri hapno creduto, che inquam in questo laogo de­noti il principio del discorso.

(a) Urtino vuole ehe si faccia attenzione, se le parole in nominando, sieno da levarsi: pari­mente vuole cbe si tolgano di mezzo anche que­st* altre clic vengono dopo : in qua seri quid potest et nasci; e alquanto piò avanti amerebbe di leggere : quam in illa communi, propter ad- m ixtiones etenim cum sin t dissim ilia ac pote­states, etc.

(3) Ursino è di parere che soprabbondi la pa­rola m ix ta , e che dopo si debba leggere così : Ita genera haec, et praeterea subtiliora sun t, nam m inim um in singulis fa c ie s terna , etc.

(4) Nam m inum um in singola fa c ies terena. Così hanno costantemeQte latte le edizioni anti­che e tutt’ i manoscritti. Non è per altro da cre­dersi che terena equivalga a terrena, ma bensì a terna, perchè subito soggiunge: quod alia terra est valile lapidosa, alia m ediocriter, alia prope pura. Laonde terena qai è lo stesso che terna. Forse si paò addar ana qualche congettura so­pra l 'origine della parola terena io forza di te r- na. Terena danqae deriva da quella origine, da da eoi nascono le parole bini, terni, quaterni, quini; imperciocchébinibisivoi da i ì f 4rò$ unus. E che vnol dir danque bini se non se bis unus, terni, tres unus, quaterni, quater unusì etc. Da qaesta anticaglia conservataci da Yarrone, è da inferirsi che presso gli antichi Latini si ado- prassero le parole biseni, tjsreni, quatereni, etc. Se non si temesse di esser troppo lunghi, si po­trebbero accennare altre cose analoghe.

j8»

(5) Plinio nel lib. xvm, cap. 17 dice: In loco hum ilif a r adoreum potius, quam triticum se- run t ; temperato et triticum et hordeum : e Columella nel lib. 11, cap. 6: Triticum sicco loco m elius coalescit, adoreum minus infesta tur humore. Ora da quanto dice Yarrone e Colu­mella consta che in Plinio è da leggersi ftumido , non hum ili.

Noi abbiamo consultato varii letterati accioc­ché ci dicessero a quale dei nostri grani corri­sponda 1' adoreo degli antichi. Chi ci scrisse una cosa, e chi l ' altra. Sarebbe beo da desiderarsi che alcuna delle società di Agricoltura rivolgessei suoi pensieri ad alcani termini adoperati dagli antichi agricoltori, e che ci diceste a qual genere da noi conoiciuto ti riferite* quello o quell' altro.

(6) Quo ad culturam pinguis. Secondo Ur­tino è da leggersi quod pinguis, etc.

Itaque in iis, etc. Vittorio è persuasissimo che i vecchi codici sieno guasti in questo luogo : neppure è pertuato della comune lezione : Itaque in veiis, u t in Pupinia ; e da quauto dice Var­rone poco dopo, ti raccoglie che qui è da leggerti diversamente : In agro pingui, u t in H etruria , etc. , in mediocri autem terra , u t in Tiburti. Ursino poi è di opinione che forte si debba legge­re in ea. Dal primo libro, capitolo quarto di Co- lamella si rileva che il territorio di Pupinia è magro e pestilenziale. Da Feslo alla voce Pupinia a' inferisce, quantunque il luogo ivi sia mutilalo, che Pupinia era presso la città di Frascati. Pon­tedera sta per la lezione in iis, e condanna quella di Aldo veiis«e di Genson nux ; poi in altro luo­go vuole che nux, la quale lezione trovasi in due codici Fiorentini, si debba cambiare in hac. Ulti­mamente ha adottato hic . Questo è certo che la parola tanto controversa dev'essere una di quelle che si riferisca a macra, qaal è appunto quella del territorio di Pupinia. Ecco adunque il testo che noi abbiamo tradotto,'e nel quale vi sono degli altri cangiamenti introdotti dal Botanico di Padova, di cui poi soggiungeremo le ragioni, alle qaali si appoggia.

Seic magna tria discrim ina terrae , quod refert u trum sit macra, an pinguis, an medio­cris ; quod ad culturam pinguis fecundior ad m ulta: macra contra. Itaque heic, u ti in P upi­nia, neque arbores prolixsae, neque veitesfera» ces ; ntque strum enta videre obi erasa poteris, neque ficu m M ariscam, et arbores plerasque^ ac prata retorida muscosa, u Perpensis vetustis dictionibus nux et nus, ut quid, quod locas po­scit, eliceretur ab iitdem non longe dissonans, nihil potias nòbis succurrit, quam heic, quod ia nux et nus facile depravatur. Illa enim in iis, ia his, in viis plura exigunt, quae ia monosyllabis

7 8 3DI M. TERENZIO VARRONE

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illis n u x ac nus oon conlinentur. Heic autem ad proxima macra contra referiar. Quouianz Tero oon prolixas arbores, ut io Aldibis, veram prolixae arbores vetusti libri nobis exhibr.t, verbum proveniunt, aut quid simile subinlelligi videtur. Qaae si recto casu adminiculantur, h»ec neque stram enta videre ubi erasa poteris sunt separanda. Animadvertas velim in in primis casis •nlc erasa insertum, quod in obi prisca forma, nempe ibi, efforruau. »

(7) Ursino non vuole che si legga quod pro- pius, ma quo propius. Gesnero è dubbioso se aia da leggersi per inclinavit, o inclinarit ovvero inclinaret.

(8) E perebè da Aldo si è cangialo fe r itu r , delle tre prime edizipni, in fr ie tu r? Quest* è un verbo cbe deriva da fe r o r , c che significa, secon­da Pianto, distrahor e dispergor. Plauto iu Ci- itelL Act 11, Scen. 1.

«tExsa minor, feror, disferor, distrahor, diripior, n

(9) E arum rerum fe ra c ia . Queste sono pa­role di altrui mano, ovvero è un pleonasmo simile a quello del capitolo 17 : adm inicula hom inum , sine quibus rebus, etc.

Cip. X. (1) Avvertiamo qui che le parole cor­sive si trovano spiegale nello Specchi» dei pesi e delle misure di Varrone, al quale si potrà ricor­rere per la intelligenza degli uni e degli altri.

(a) Jugum vocant. Nel lib. xviii, cap. 3 di Plinio si legge : Jugerum vocabatur, quod uno jugo boum exarari posset, etc. Ma da questo luogo di Varrone consta eh' è da leggersi jugum , non già jugerum . Veggasi inoltre Varrone de L. L. lib. iv, p. 10. Il psdre Ardaino ha corretto qoeslo luogo di Plioio, ed ha sostituito jugum .

(3) Acnua latine appellatur. V’ è gran chias­so tra i commentatori intorno alle parole acnua la tine. Vittorio ha ripudiato la lezione antica modius ac mina, ed asserisce che la lezione del nostro lesto 1' ha ritrovata in tutt'i codici. Ur­sino vuole che li legga : Is modus acna latine appellatur.

Non si sa comprendere perchè dica che in latino si chiama acnua, quando già ha in latinoil nome di actus quadratus. A cnua è poi una parola veramente latina ? Varrone scriveva latino c nella sua lingua ; e perciò non era mestieri il dire che così si chiama latinamente. Quando in­troduce parole straniere, ne porge l’ avviso ; ed allora è necessario dire che così si chiama dai Greci, dai Sabini e da quelli della Campania ; ma quando scrive vocaboli latini, dice n o str i: del che si potrebbero recare in meizo molti

?83

esempi). È probabile che questa sia una parola corrotta e sfigurala di agna, simile alla porca , altra misura* di cui parla Columella nel lib. v, cap. 1, e della qaale si servivano sollanto i conta­dini. Columella nel luogo allegalo dice espressa­mente: H inc actum provinciae Boeticae ru ­stic i acnuum vocant. Tolte queste ragioni mi fanno credere che le parole del lesto iP modus acnua latine appellatur non sieoo che an cat­tivo commentario tolto da Columella, e che un qualche ignorante avrà aggiunto sopra un qual­che codice di Varrone, c che io tal modo sia giunto sino-a noi.

(4) Con buone ragioni prova Pontedera eh'è da leggersi scriptulum e non scrupulum .

(5) Subsicivum esse. Varrone nel lib. iv de L. L. : Rom ani m ulta duodenario num ero f i ­nierunt, e t illud quidquid erat ita fin itu m , as appellarunt ; unde fa c tu m esty ut jugerum as appellaretur, et in totidem partes dividere­tur, etc. u In divisionibus autem agrorara (dice Ursino) cum jugerum oon poterat expleri, sed relinquebatur, aut duodecima agri pars, aat sexta, tunc dicebatur in subsicivo esse aat uncia, •ut sextans, »

(6) A noi pare che abbia ragione Ursino di correggere il testo così: cum ad jugerum non pervenefunt. Egli si fonda principalmente sopra Siculo Fiacco de lim itibus agrorum e sopra Frontino. Il primo dice: Qua comparatione

f t e ta , quando m inus fu e r it , quam centuriae modus esse debet, subcisivum vocatur. E Fron­tino : Subsicivorum genera sun t duo , unum quod in extrehtis assignatorum fin ium cen iti ria expleri non potuit, etc. .* * ex quibas verbis (soggiunge egli) apparet legendam hic apad Var­ronem : cum ad jugerum non pervenerunt. Nam cum sive centuria, sive jogeram expleri oon po-

. terat, ea pars agri, qaae restabat, subcisiva di­cebatur. »

(7) I d habet scriptula ccLxrxnir. Quest' è la vera e genaina lezione. Da qaesto loogo cor­retto di Varrone possono trarre di bella cogni­zioni quelli che si danno a decifrare i pesi e le misure degli antichi. L'oncia contieoe, come tutti satioo, ventiquattro scrupoli, e con dodiei 00ce, che formano appunto l ' ms, si vengono a formar* dugento ottantotto scrupoli. Laonde Varrone disse con verità che il iugero contiene dugento ottantotto scrupoli, in pari guisa dell' as.

(8) Nelle tre prime edizioni si ha quantum autem ad antiquos nostros ante, e in Poliziano quantus as antiquos noster. La parola antiquos scritta alla maniera antica è forse stata la caos* che questo laogo siasi in leso malamente. Fre­quentemente io Varrone si trovano le parol*

7*1ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE RE RUSTICA

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?B5 DI M. TERENZIO VARRONE 78G

scritte coIT ortografia «alica, come ouom, auos, equos per ovum, avus, equus. — Sextan tarii asses, dica Festo, in usu esse coeperant ex eo tempore, quo propter bellum P unicum secun­dum, quod cum Hannibale gestum est, decre­verunt Patres, u t ex assibus, qui tuno erant lib rarii, fierent sextantarii, etc. Lo stesso ia altro lopgo : Grave aes dictum a pondere, quia asses singuli pondo libras efficiebant. Sed bello P unico P. R . pressus aere alieno singulis as­sibus librariis senos fe c it , qui tantundem vale­rent. E Plioio : Librae autem pondus aeris im ­m inutum bello Punico primo, cum impensis Respublica non sufficeret, constitutumque, u t asses sextan tario pondere fe r ir e n tu r . I ta quinque partes factae lucri, dissolutumque aes alienum , etc. Dai qaali luoghi apparisce che qui è da leggersi : Id habet scriptula cclxxxfiiz, quantum as antiquus noster ante bellum P u ­nicum pendebat. L' as avanti la goerra Panica pesava nn' intera libbra, cioè «lodici once, ovrer sia dogento ottantotto scrip tu la; nell’ atto della guerra è diventato sextans, poi uncia, e final­mente mezz*uncia. Dnuque quando Pax pesava nna volta 388 scriptula, per conseguenza il iu* gero ai divideva in altrettanti scriptula .

(9) Varrone intende parlare della prima guer­ra Panica, la quale cominciò fanno 490 dalla fondazione di Roma, cioè a6a avanti Gesù Cristo. Veggasi Plinio lib. xxxur, cap. 3.

(10) Bina jugera, quod a Romulo, prim um deiveisa deicebantur vireitim , quae haeredem secuerentur, haeredion adpellarent. Hoc po­stea centum centuria. Così deve stare il testo. Se quod, che trovasi tra quae e haeredem è da togliersi, non così è da levarsi dicebantur, oome 61 Gesnero : il primo manca in tutt’ i codici, non eosì dicebantur. Sosipater Charisius nel lib. 1, inst. G ramm . : Idem (Varro) iu , annal. num­mum argenteum conflatum prim um a Servio Tullio d ic u n t. . . Ora questo Servio Tullio è •tato il sesto re Romano. Se dunque dice Var­rone dicunt parlaodo di Servio Tullio, quanto pià non lo dovrà dire rimontando sino a Romo­lo f No» è egli vero che sono più dohbii quei fatti, quanto più sono antichi ? Oltre di che di­cebantur si legge nell* edizione Reggiana e nel codice Cesena te. Nonio in Heredium cita pure così qnesto luogo di Varrone. Festo dice : Cen­turiatus ager in diversa jugera definitus, quia Romulus centenis civibus ducenta jugera agri distribuit. Cicerone nel 11 della Repubblica ap­presso Nonio : A c prim us agros, quos bello R o ­mulus ceperat, d ivisit viritim civibus. Siculo Flaoco : Centuriis vocabulum datum ex eo est,

an tiqui R om ani agrum t x hoste captum

victori populo per bina jugera parti sunt, cen­tenis hominibus ducenta jugera dederunt, et ex hoc factb, centuria juste appellata est. Pli­nio nel lib. vili, cap. ia : B ina tunc jugera P . R . satis erat, nullique majorem modum a ttribu it: e nel lib. xix, cap. 4 : In xn 'tabu lis legum nostrarum nusquam nom inatur villa : semper in significatione ea hortus, in horti vero heredium.

(11) In Poliziano e in Genson si ha hec, che siccome è da riferirsi a haeredion, così è da can­giarsi in hoc, non mai in haec del nostro testo. Avanti centum vi e a, che a ragione è da omet­tersi : così pure dieta, di coi mancano ^codici.

(ia) La lezione comune, che correva avanti Vittorio, è la segueute: Centuria quae dupli­cata est quadrata in omnes quatuor partes: all’ incontro i manoscritti hanno: Centuria est quadrato, etc. u Qaae ( dice Vittorio ) si mendo vacat lectio, intelligit M. Varro centuriam il­lam quae vetas nomen 'habebat, quamvis summam jugero duplo majorem haberet. Et sane verisi­mile est ita loqui Varronem, quemadmodum etiam Sext. Pompejus facit ; quamvis enim non osten­dat se loqui de duplicata, éa illi tribuit, quae duplicatae conveniunt; tunc enim omnes, centu- riam cum audiebant, duplicatam, quamvis nihil adderetur, intelligebant. Centuria, inquife Se­xtus, in agris significat ducena jugera . Ia v de Lingua Latina M. Varro,quo loco rationem no­minis reddere debnit, totam rem explicavit: Cen­turia prim a centum jugeribus dicta, post du­plicata retinu it nomen. Ut arbitror nonnulli correctores, eum centuriae nomen attenderent, neo cogitarent Varronem consuetudine loqueodi sui temporis uti, mendum esse suspicati, verba commutarunt. Nam vix fieri posse puto ot in aliquibus pervulgatam lectionem manuscriptis codicibus intenturus oon fuerim, si illa vera hu­jus loci ac germana esset. Quod volent tamen de bac re docti viri judicabunt, »

A questo luogo è da riferirsi nna questione, insorta pei nnmeri del testo, di cni eoco quel che ne dice il sollodato Vittorio : « L atera longa pedem « «o C. Cum stodinm meum exprimen­dae antiquitatis non bene percepissent operae, quae postea libros excuderunt, integrum hunc loeum depravarunt. Quibus enim notis somma pedum, quae centnriam conficiunt, in optimo exemplari descripta est, iisdem in nostro codice designari volebam. Sicantem in illo scriptum est, Pedum 00 00 C. Q tjpographi priores lineam, qua postrema litera dissecta est, lituram esse cre­dentes, nt arbitror, lileram totam tanqnam a me deletam, reliquerunt, falsumqne numerum pedum posuerunt. Neque hoc tantum hoc loco fecere, sed

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ANNOTAZIONI AL LIB. I DEI RE RUSTICA 7 8 8

iti Urlio eliam libro in eadem relapsi sont, qao facilini qoid eos deceperit suspicari poloi. Ita enim ille qooque locos legi debet, cap. 5 : Lon­gum P. J) c c c c l . Non solum antem haoc noUm in fidelissimo Varronis codice, led in aliis etiam prisdì foooimentis inveni: ot Romae in T e ie r e

lapide, qoi laudes Diodi» agitatoris extculplas habet. Eit autem io volumine Epigramma!, ant. urb. 17 exscriptus. Dao igitur hi loci corrigendi: nec seduliUs mea studiumque renovandae vetu- sUtii reprehendendum: quamvis res hic aliorum colpa male cesserit. » Gemerò poi diee : u, Edilio, cujus iphalma corrigit, eit Gryph. 1541 • Aliae omnes a Viclorianas castigationes comparatae, in alio mendo, qood indicavimus, conspirant. Vides etiam Lector uuc ene in editionibui Jen- soniana, Bononiensi, Regienii, quarum aliqua forte in fraudem indoxit correctorem, ut Unlo facilini D illud trans versa line» signatum piane inductum puUret. Restituto poilea D ; C prò eo omittendum putarunt. Non incongruum, spero, fuerit, post Victorium de littera disputare. Si nihil aliud, certe illuni verum est : si talium dili- gentes semper foissent homines, barbariem non fuisse invalitorsm. Itaqne illud eliam placel ad­jicere, de nota ]) forte adhuc dispiciendum esse. Licei enim qoiogeotos e a noUri vulgo tradatur, tameu non praetereundum illud T i d e tu r , qaod CI. Gaipar Bachelus Meziriacns in observat. ad Plìn. xxxiii, 3 (commentariis ejus ad Ovidii He­roidas Gallicis adjoocta ) p. 9, demonstratum a se ait aliai ( forte ad Diophanlum a se editom ), hanc ipsam notam, sive D transversa linea j u g u ­

latam, non jam quingentos notare, sed quadrin­gentos*. »

Cap. XI. (1) Non animadverso. Queste dae parole, teeondo il parere di Ursino, sono itale aggiunU dai copisli.

(a) Il lesto dovrebbe essere il seguente: Ma­jo r a enim te d a et aedificamus pluris, et tuen­tu r sumptu m ajore. M inora enim sei sin t quam postulat fun dus solent dispareire. Qui Varrone adopera il verbo tueor in lignificato paisivo : così pure lo ha adoperato' nel lib. 111, cap. 1 : E t in belo ab ieis tuebantur. Io cinque edizioni, cioè nelle tre prime e in quelle di Basi­lea e di Gimnico si legge tuentur, ed Aldo ha ha preso tuemur da Columella, appresso il quale nel lib. 1, cap. 4i •» legge quello sentimento di Varrone: Diffusiora enim consepta non solum pluris aedificamus, sed etiam impensis majo­ribus tuemur. A t minora cum sun ty quam po­stu la t fu n d u s , dilabitur fruc tus. Da Columella pore ha tolto Aldo cum sunt, quando che nelle prime edizioni si ba enim si sint. Se mai ii

avesse da introdurre qualche cangiamento, sa­rebbe di cangiar l1 uno o I1 altro enim in ttiam ^ ovvero item.

(3) Licinius trovasi nel Ulto: negli antichi codici trovasi semplicemente la lettera iniziale L. la qoaìe dal margine è passaU nel Ulto. Toti' i dotti sono- di qoeit' opinione.

(4) Ursino vuole che »i legga ut horrom am­pliora, non già am pliora: u t horrea.

(5)* In villa aedificanda hoc potissimum . Appresso Genion, Aldo, i Giunti e Gimnico cosi si legge; .altramenti poi nelle edizioni di Sufa- no, de' Grifii, di Commelino, di Popma e di Be- revfouzio, leggendoviii V illam aedificandam potissim um , il che trovali anche nei codici Va­ticani. Crescenzio pure nel lib. 1, cap. 5, copiò Varrooe, transcri vendo villam aedificandam potissimum. La vera lezione è forse villam ae­dificandum potissimum , leggendosi io Varrone: serendum viciam, lentem , cicerculam : colli­gendum eas : faciendum quoque septa secreta ab a liis: acus substernendum, objiciendum

fa r in a m hordeaceam: Praefectos alacriores fac iundum praemiis.

C a p . XII. (1) Aldo, Ginmico e Popma danda opera ; gli altri tutti, e tra quesli anche Crescen­zio nel lib. 1, cip. 5, hanno come nel Usto.

(a) Così hanno pubblicato Stefano, i Grifii, Commelino e Berewouzio, e diversamenU Aldo,i Giunti, Gimnioo e Popma, avendo essi: ita u t contra ventoss qui saluberrim i in agro Jlabunt, posita sit, ad exortus aequinoctiales apertis­sim a , dai quali Genion e Brusch differiscono soltanto nell' inUrpanzioné . . . in agroJiabunL Quae posita sit, etc. Presso Crescenzio così si legge questo luogo : aut ubi venti saluberrim i

fla b u n t. Quae posita est ad exortus aequino­ctiales apertissima. Qui per altro è da correg­gersi aptissima. PonUdera lascia cbe gli eruditi considerino se Varrone avesse scritto : Dandum operam , ut potissim um sub radicibus m ontis silvestris villam ponas, ubi pastiones s in t la­xae ( ossia latae come si legge in Crescenzio e iti aleone edizioni di Varrooe ) ubi venti salu­berrim i flabunt. Quae posita est ad exortus aequinoctiales aptissim a . Columella certamen­te nel lib. 1, cap. 5 scrisse : E t u t aedificii fro n s aversa sit ab infectis ejus regionis ventis, et am icissim is adversa, cum plerique omnes ae­state vaporatis, hieme fr ig id is nebulis cali­gent : quae nisi vi majore inspirantium ven­torum submoventur, pecudibus hominibusque conferunt pestem. Optime autem salubribus, ut d ix i, locis ad orientem vel ad m eridiem : gravibus ad septentrionem villa convertitur».

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789 DI M. TERENZIO VARRONE 790

£ altroYe t 8 ed procul et eéUlmre situ ( villam ) condere, et fro n s ejus ad orieMam aequino» c tia le m directa sit.

(3) S in cogare secundum flum en aedificmrt, cu rand um ne adversum eum ponas. Sopra la parola eum ti tono fa Ite por le molle parole dai commentatori, u Ita habenft ( dice Vittorio ) an­tiqui libri : qoae si recipitor lectio, respondit M. Varro alio genere ac sapra osos fuerat flamini. Nam .magis ositate dixisset i<2,non eum, taoqoam ai fluvium aut amnem antea posoisset. Sententia sane idonea est. Idem etiam significare volens Plini os, inquit, neque ju x ta paludem ponen» dam esse, neque adverso amne. In pervulgata lectione mendum esse facile‘omnes, qui attente perspiciant, videbont. Nam et rei ipsi et iis quae supra tradiderat Varro sententia ipsius repugnat/ Dixerat enim villam ad exorlus aequinoctiales aptissimam esse. Eurum aotem ab orto solis flare quis nescit ? ventosque qui iode spirant, saluber­rimos esse » ? Orsino è di parere cbe Ia to<fe eu- ru m , che correva anticamente in luogo di eum sia corrotta, e che in vece si debba dire cursum\ imperocché di sopra ha detto si dogare secun­dum flu m e n aedificare, ete. Popma sta per eum, e non fa gran caso della diversità del genere, di cui si hanno non pochi esempii in Varrone, che per brevità si omettono, u Non enim verbo (sog­giunge egli ) in serie orationis expresso respon- det verbum ejusdem geoeris; sed intelligitur aliud dissimile genere, notione par, ob qaod ge­nus mutalar. « Questa varietà di generi è usata ; nel qual calò il genere non si riferisce alla paro­la, ma alla cosa, come li ha io Sallustio nel lib. v dell1 Istori : Legiones V alerianae comperto lege G abinia B ithyniam et Pontum Consuli datuiru,.m issos esse. Pontedera però inclinereb* be a leggere eam, cioè villam\ perchè subito ag­giunge: H iem e enim fiet vehementer frig ida, et aestat'e non salubris. Gesnero finalmente non è molto lontano dall* adottare il sentimento di Pontedera, che fu anche quello di Buenero ; se non che orede ancor egli che eum non si ri­ferisca a flu m en , ma al sinonimo fluviuni.

(4) Cioqoe opinioni differenti si leggono in questo luogo, che sommariamente noi indiche­remo. Nell* edizione di Genson si ha : Advertet1- dum autem siqua erunt loca palustria, et pro­pter easdem causas, et quod arescunt ere- scuntque anim alia quaedam m inuta . Aldo mette .• A dvertendum . . . . causas, et quod are­scunt, et quod in iis crescunt animalia. La terza è di Crescenzio : Anim advertendum est si ju x ta erunt loca pa lustria , et propter eas- dem causas, et quia cum arescunt, crescunt animalia quaedam m inuta . Viene io quarto

luogo quella di Vittorio : Advertendum • ».cau­sas, et qtiod arescunt, crescunt animalia. Popma seni’ appoggio di alena codice, ma ap­poggiato unicamente a nna congettara di Fulvio Ursino, il qnale ha cangiato arescunt in ale» scunt, ha pubblicato qaal genuino testo di Var­rone il seguente : 'advertendum . . . . causas, e$ quod in iis alescmat animalia. Noi siamo per­suasi ohe nessuna di qneato lezioni debba aver luogo, ma bensì quella di Poliziano, eh1 è aver» tendum , e crescuntque animalia etc. Non ad ­vertenda adunque i luoghi paludosi, se ve ne sono, ma bensì avertenda ; imperocché aoche Columella nel lib. 1, cap. t , dioe : ne paludem quidem vicinam esse oportet aedificiis. Siamo persuasi ancora che la particella que non si deb­ba levare, anzi unirsi a crescunt, come appunto hanno le tre prime edizioni ; altrimenti il sen­timento sarebbe imperfetto.

Varrone adunque condanna il fabbricar gli ediftzii presso i luoghi palustri, non tanto per­chè le vicine paludi mandano cattive esalazioni che danno origine a malattie, quanto ancora perchè diventando aride in estate procreano mol­ti sciami di animalelti, i quali dispergendoli per la villa vengooo ad esser nocivi non solo agli uomini, ma ancora agli altri animali. Columella pure nel luogo allegato riferisce ambidue questi inconvenienti, dicendo : Quod illa ( palai ) ca­loribus noxium virus eructat, et infestis acu­leis arm ata gignit am m alia , quae in nos den­sissimis exam inibus involant: tum etiam ma» tricum,serpentiumque pestis hiberna destituta uligine, caeno, et ferm entata colluvie venena em ittit, ex quibus contrahuntur caeci morbi. Ciò effettivamente si osserva ne* luoghi paludosi diventati aridi ; come per esempio, ove si coltivail riso. Venuto il tempo della raccolta si sottrael1 acqua, e quindi gli abitatori de' eontorni van­ii0 «oggetti a gravissime malattie. Nè è meravi­glia, poiché dal pantano esalano non .solo vapori velenoii, ma vi si generano altresì parecchi aoi- malelti, i quali trovandosi privi di acqna, e stinto­ti dal caldo sen volano altrove.

(5) Fundus haereditate. la Poliziano si ha haereditati. Forse Varrone ha scritto così. Simili parole di doppia uscita si trovano in Varrone, come oel vegnente capitolo: E x una p arti aper­tum : e poco dopo : fenestras habere oportet ex ea parti. Ciò si conferma anche coo Plauto Menaech. A ct. ///, Scen. 11: Sa tur nunc loqui­tur de me, et de pa rti mea.

(6) L’ autore iotende forse qui quel vento che viene da mezzodì, e ehe noi chiamiamo scirocco.

(7) Qui quod p erfla tu r---- discutitur. Pon­tedera sospetta che qui manchino alcune parole.

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ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA

Per verii» vi sono molte cote nocive, che d'al­tronde non provengono, ma ivi nascono: tali tono gli animaletti e le cattive esalazioni delle paludi. E il sospetto si fa più forte oon qaanto dice Crescenzio : Eo quod cum perflatur, si quod ibi est adversarium^ fa c iliu s discutitur. Parrebbe che l ' intero sentimento di Varrone fosse questo : Qui quod perflatur, si quod s it ibi adversarium, aut si quod inferatur, fa c i ­lius discutitur: ciò almeno conferma qaanto se­gue : Quod et bestiolae, si quae prope nascun­tur, et inferuntur, aut efflantur, aut aritudine cito pereunt. Ma qnesto, dirà alcuno, è on ag­giunger troppo.

(8) Nimbi repentini, ac torrentesfluvii: così appunto si legge in cinque edizioni ed in Cre­scenzio ; se non che in questo ai trova scritto per errore torrentis. Altri hanno pubblicato pres­sappoco lo stesso, cioè: Nimbi repentini, et f lu ­vii ac torrentes. Ambe qoaste lezioni si possono difendere : la prima per altro è la migliore, come quella dei codici. E qual sarà quel proprietario che voglia fabbricare la caia di campagna presao un torrente, da cni non si possono aspettare che danni, non già alcun comodo od uliUf Torrens, come dice Isidoro lib. ziti, oap. ai, est aqua veniens cum impetu. D ictus autem torrens, quia pluvia crescitv siccitate torrescit, idest arescit. De quo P acuvius: Flammeo vapore torrens torret. Cui Graeci ab Hyeme nomen dederunt, nos ab aestate : illi a tempore quo succrescit, nos a tempore quo siccatur. Dun­que il torrente, quando è gonfio d’ acque, suole arrecar de* danni, e qnando è arido, non dà alcun utile. Dal che. è da congetturarsi che Varrone abbia qui inteso un fiume, non già un torrente; essendoché il fiume, secondo la definizione d' Isi­doro, est perennis aquarum decursus afluendo perpetim d iftu s e poiché questo, piovendo assai, si accresce, e le sue acqae corrono con cele­rità, perciò si è aggiunta la parola torrens, per indicare appunto la sua celerilà maggiore.

In pari maniera di Varrooe scrisse anche Vir­gilio nel lib. vii dell1 Eneide:

u Hic tantum boreae curamus frigora quantum Aut numerum lupus, aut torrentia flumioa ripas, n

E nel lib. n delle Georgiche :

u Nec non et torrentem undam levis innatat alnus Missa Pado. . . . »

Del qual fiume leggasi Plinio nel lib. n, cap 16, e Aggeno Urbico ne'comroentarii sopra Frontino, de L im it. A g r.% ove è chiamalo torrens.

Da tutte queste autorità è chiaro adunque cheil fiume, quando è gonfio e corre con grande ve­locità, si chiama flu v iu s torrens. Nè questo epi­teto si è dato soltanto ai fiumi, ma ancora e qualche ramo di acqua corrente, ae accadeva che per la sovrabbondanza delle acque si gonfiasse e corresse con rapidità. Siculo Fiacco, de Condit. Agr~, disse : E tiam publicae u tilita tis causa quod vi tempestatum rivi torrentes subito alveos cursumque mutent. Finalmente Giustino nel lib. iv ha chiamato torrens quello stretto di mare eh' è tra l ' Italia e la Sicffia : P rim um quod nusquam alias tam torrens fretum , nec solo citato impetu sed etiam saevo.

Cap. XIII. (1) Vitruvio nel Uh. vi, cap. 9 di­ce : In cohorte culina quam calidissim o loco designetur ; conjuncta autem habeat bubilia, quorum prae sepia ad focum , et o rien tis coeli regionem spectent, ideo quod boves lumen et ifnem spectando, horrid i non fiu n t. Pontedera propone se foste da leggersi così: In villafa* ciundum stabula bubilia et ovilia , ita u t bubi­lia sin t hyenie quae possint esse calidiora. E questo testo lo desume dal titolo del capitolo che trovasi nelle edizioni di Gensou e di Brnsch., il qual è : Quod in villa prim itus facim ada sin t bubilia et ovilia: et celloe: et vasa vinaria: e t olearia, et alia ; perciocché i librai sogliono trarre gli argomenti dalle prime righe del ca­pitolo.

(a) Se in Varrone ▼' è en qualche luogo oscu­ro, e ve ne sono non pochi, questo è per verità oscurissimo. Nell' edizione Gensoniaea si legge : F ructus u t est vinum et oleum loco plano in cellis : item vasa vinaria et olearia potius fa - ciundum in locis aridis : F ructus u t est fa b a : lentes: ordeum :f a r : etJbenum in tabulatis. In a4tra guisa si legge in Aldo : F ructus u t est vinum et oleum loco plano in cellis, ita u t vaia vinaria et olearia po tiu t sin t in locis arid is quam hu- midis.fru c tu s u t est fa b a , lentes, ordeum , at

fa r ^ e t foenum in tabulatis. Ursino vuole che ai legga cos) : Fructibus hum idis, u t est vinum et oleum in loco plano cellas fa c iundum ; a rid is, ut est faba, lentes, ordeum, f a r : e t foenum in tabulatist etc. La lezione di Crescenzio non è de disprezzarsi : Item cella in loco plano, ubi vaso, vinaria et olearia esse possint. Item ubi con• dantur fru c tu s aridi, u t granum , et fo e n u m in tabulatis. La lezione per altro degli antichis­simi codici di Varrone è da preferirsi a qualsivo­glia altra. Eccola : In veila fac iunda stabula ita , uti bubilia sin t obi, hieme quae possin t esse caldiora : fr u c tk s , u ti est veinum e t oleum, loco plano in celeis *• item u ti vasa veinaria e t

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DI M. TERENZIO VARRONE

olearia potius faciundum : aridus u ti est, et fe n u m im tabolateis* Qoesta è quell» pure di Vittorio, ae noq ohe ti omette fa b a , di cui u1 è privo Podisi «ao.

Diamone prese* torneo te la spiegazione. Po­tiu s fa c iu n d u m uli fru c tu s , u ti est veinum et oleum esse possiut loco plano in celeis, Iiem poti ut fumando ra obi rasa veinaria et olearia esse possint : itera potias faòiuodnm, vii fru c tu s a rid us u ti est, et fe n u m esse possint in tabola- te is. Apparisce dunque che alcuue parole delle in prima sono qui da sottintendersi. Potius poi è da intendersi, oome se la nostra primaria cura debba rivolgersi piè particolarmente intorno ai luoghi, ove riporre il vino, Polio, i (orchi, le biade e il fieno, che intorno le stalle degli ani- mali. E la ragione è chiara, perchè la casa di villa si fabbrica a oggetto di riporvi i‘ frutti della ter­ra ; per lo che i luoghi ove collocarli debbono occupar la nostra primaria cara.

Procuriamo ora di sviluppare aridus u ti est, et fe n u m in tabolateis. Egli è certo che le biade sono il primario scopo degli agricoltori : i grani inoltre sono que1 prodotti aridi, che prima si rac­colgono degli umidi ; e in grazia di questi due oggetti avrebbe dotato pensare Varrone al luogo delle biade. Pare dunque che nel nostro testo manchi fru m en tu m , ovvero granum , com’ è in Crescentio. Così dirà taluno che non farà allen­inone allo stile serrato di Varrooe : realmente pe­rò non manca niente nel nostro testo. E qui me­stieri riferire an passo di Columella del lib. i, cap. 4 : P ars autem fru c tu a r ia d h id itu r in cellam oleariam, torculariam , cellam vina- riam , defructariam , foen ilia , paleariaque, et apothecasy et horrea^ u t ex his quae sun t in planoy custodiam recipianthum idaram rerum tanquam vini, aut olei venalium : siccae au­tem congerantur ta b u la tis , u t frum entum , foenum , frondes, paleae, caeteraque pabula.

Il frutto adunque si divide in umido e secco : frutto amido è il vino e l’ olio ; secco poi la bia­da. 11 fieno e gli altri foraggi non sono veramente da annoverarsi tra il frullo, comechè dalla loro vendita ne ridondi dell’ utile; perciò sotto questo punto di vista si possono in largo significalo ri­porre sotto la classe del frutto.

Veggasi dunque se Varrooe abbia inleso di fare questa distinzione. Faciundum , die’ egli, che fructu s u ti veinum et oleum esse possint in loco plano in celeis. Qni dunque si descrive il frutto umido senza nominarlo generalmente, ma speci­ficandolo : all’ incontro il fratto aridusy ossia il Meco, non lo individua paratamente, perchè i grani seno molli, ma solo lo nomina in generale, tasi appunto pori# Varroue : fac iundum che il

frullo, il quale è umido, u ti veinum et oleum, si trovi io istanze sopra terra : aridus u ti estt ei

fen u m debbesi procurare che si possa mettere in tabolateis.

Qui è da avvertirsi, che per vasa veinaria et olearia non si debbono intendere que’ vasi, nei qaali si conservano il vino e l 'olio, ma bensì i torchi, chiamandosi così appnnto i torchi pressoi giureconsulti, o particolarmente presso Giù* liano.

(S) Tralasciando le controversie che vi sono sa questo passo, ci attaccheremo a quella lezione che noi crediamo la pià genuina. Noi danque siamo di opinione che si debba leggere così : Sei

fe se i opere, aut fr ico rey au t calore, et ube commodisume possint se quiete reciperare. Qui dunque si assegnano due luoghi per la fimi- glia; in uno i servi possono ricovrarsi, se sono slaachi per la fatica, o se sono tormentati dal freddo 0 dal caldo ; e nell' altro possono darsi al sonuo e alla quiete per riparar le forze, e per ri­storarsi. Laonde la particella et delle antiche edizioni, che senta ragione è stata omessa da Aldo e da lutti quelli che hanno voluto seguirlo,

' è assolutameli te necessaria. Questo passo è puro riferito da Crescenzio.

(4) Ursino giudica che piai tosto si debba leg­gere : In prim is culina videndum u t sit ad modum apta% perciocché poco dopo in questo capitolo si dice: Cellam vinariam et oleariam ad modum agri aptam, Columella nel lib. i, cap. 6 : A t in rustica parte magna et alta cu- lina ponetur, u t et contignatio careat incendii periculo, et in ea commode Jam iliares om ni tempore anni m orari queant.

Noo si può lasciar di avvertire, che presso gli aotori antichi altra cosa era colina , ed altra cit- lina, come ce lo dice espresumente Nonio Marcel­lo nel cap. i : Culina veteres colinam d ixerun t, no/t, u t nunc vulgus putat. V arro Modio: at hoc interest inter Epicurum , et ganeones nostros quibus modulus est vitae colina. P lautus Must.:

u Exi e colina sis foras mastigia,Qui mihi inter paliuas exhibes argutias. »

F arro de vita P , R . lib, i, qua f i n i : sit antica et postica: in postica parte erat colina dicta ab «o, quod ibi colebant ignem.

Festo dice, che culina vocatur locus, in quo epulae in fu n e re comburuntur. Aggerio Urbico, nel libro de lim itibus agrorum , lasciò scritto ; Sunt in suburbanis loca publica inopum desti­nata funeribus , quae loca culinas appellant. Si vede dunque qaal differenza pa*s* tra colina

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ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE RE RUSTICA 7 0 G

• culina. Laonde tanto in questo laogo di Var* rone, quanto altrove è da legger colina.

(5) Haec enim si intra clausum in conse- pto. Forse le parole intra clausum sono di più, perciocché segue in consepto.

(6) Cohortes. Si acri ve ancora Cortes, come ti ha da Nonio 11, 112: Certes sunt villarum intra maceriam spatia. Perchè i cortili si fab­bricavano rotondi, si traslatò la voce cohors nell' arie militare. Varrone nel lib. ir, pag. 23 de Lingua Latina: Cohors% quod ut in villa ex pluribus tecteis conjungitur, ac quiddam fit unum ; sic haec ex manipuleis copulatur cohors^ quae in villa dieta, quod circa eum locum pecus coèrceretur.

Ursino è propenso a leggerei una interior in compluvio habeat lacum, ubi aqua saliat,4fuae intra stylobatas cum venit, etc. Noi cre­diamo che si debba leggere così: Cohortes in fundo magno duae aptiores: una uti interdius compluviom habeat lacum.

Dal vedere Aldo che vien dopo il cortile exterior, ha credulo che, perchè qui ai parla prima del cortile interior, ti dovesse darlo a conoscere ; e perciò ha cangiato interdius delle tre prime edizioni e dei codici io interius; e qtiiudi anche Ursino ha proposto una interior. Ma realmente deve stare interdius, parola com­posta di inter e dius. Dius che viene da A/a*, ti preude in significato di cielo e diaria; quindi tallo di si sente fu b dio, per dinotare all’ aria aperta. Perchè poi da A lèi uasce Deus, e da Deusil sole, si forma il dies, perciò si prende ancora diu per diex e interdius, come altresì interdiuy per die. Dunque la parola interdius significa duo cose, l’ aria aperta, e quello spazio di tempo,io coi il sole sta sopra l’ orizzonte. Danqae uno dei oortili abbia una fossa interdius, cioè esposta all'aria aperta.

Che così veramente abbia voluto intendere Varrone, se lo rileva anche dal cap. 11 di questo Jibro, dicendo ivi : Cisternae faciundae sup tectis% et lacus sup dio, et altero loco uti ho~ miness et altero uti pecus uti possint. Questa fossa, di cui si servono le bestie, è sub dio, cioè appunto Interdius. E comechè in questo luogo parla della fossa, a cui abbeverare gli animali, perciò essa deve essere esporta all1 aria aperta. £ chiaro dunque che qui non è da leggersi, come in Aldo una ut interius, nè con Ursiuo una in- Serior, ma bensì una uti interdius.

(7) Pontedera vuole che si legga : Vbe aqua Saliate qui inter ftilobatos quom velis, sit se- mipifceina. « Ex vetusto velit ( dice Pontedera) mutata littera extrema, velis efformavi ; cujusmo­di alia muli» ia Varrone, nempe ponas, aedifi­

ces, poter is, triturus sis, habeas, possis, coge­re : et hac ratione egregia sententia elucescit. St velis, inquit, ut lacus sit semipiscina, stilobate» circum statueris. Stilobatas vero in antiquis peri, non per quod stilus, non stylus in la timi m desceodit. Ex vulgata scriptura ubi aqua saliat, qui intra stelobatas cum venit, sit semipiscina, absonum quid elicitur; lacus enim quomodo io* ter stilobatas veoit, qui effossa terra continetur? »

Nel volgarizzamento siamo stati attaccati a Pontedera : nulladimeno non vogliamo lasciare di metter qui la traduzione di Saboureux: u II est à propos d’ avoir deux basses-cours, lorsque la terre est d’ une grande étendue; il y aura, aa milieu de la ì>atse-oour intérieure, une ci teme, et l’ eau de pluie qui viendra s’ y rendre, pourra d’ un coté servir da lavoir, lorsqa’ elle passera daos Ies rigoles pratiquées sur les Stilobates de* coloones qui souliennent les toits, d’ on autre còte d’ un abreuvoir, dani le quel les boeufs .« *

(8) Nec minus et pabulo dum redeuntK am- seres, sues, porci : così vuole che si legga Urti­no. Nonio alla voce Cortes cita qaesto laogo di Varrone nel seguente modo: Nec minus et a pa­bulo cum redierint anseres, sues, porci in corte exteriori. 1 Poliziano si legge : Nec minus a pavolo quom redierunt anseres, sues, porcei: al qual proposito, dice Pontedera, u deperditam vocem pavolum, ut efferebat prisca aetas, sive cum posterioribus pavulum malamus, ex vetuslii monumentis restituemus Romanis, Hoc e pasco pavi originem ducit ; et pavulum locai est, ubi pascit pecas, et etiam actus pascendi. Pubulum vero, quod ex alio fonte emanavit, ut nostris Epistolis ostensum est, proprie pecudum cibas, qui de pavulo sumitur, »

(9) Assolutamente queslo luogo è da leggersi altramenli, Nel volgarizzamento abbiamo espres­so che qui si parla del primo cortile, ossia dd- l ' interno, perchè il cortile secondo, ossia I’ ester­no c crebro operta stramenteisy ac pale a op- culcata pedibus pecudum ... 11 lesto da noi tra­dotto è queslo: In cohorte exteriorem lacum esse oportet, ube maceretur lupeinum . Non è che di Aldo chorte: exteriore trovasi solo uel- l’ edizioni : lacum si legge in tatle le edizioni. Insegna dunque Varrone che dalla fossa, a cui bevono gli animali, devesi derivare uà’ altra piccola fossa, la quale sia esteriore alla prima, e

segregala a parte, acciocché l’ acqua preparata pel bestiame uon sia corrotta dal lupino mace­ralo. Columella nel lib. 1, cap. 6, ricorda di do­versi far lo stesso nella casa rusticana, dicendo : Piscina minime duas j alteram quaéanseribus pecoribusque serviat : alteram in qua lupinum% yimina et virgas, atque ali«, quae sunt usib*s

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nostris apta, maceremus. Laonde exteriore non si può riferire a cohortem, ma alla fossa.

(io) Vittorio avverte che V antica lezione è differente da quella del nostro testo. Egli la espone lal quale T ha trovala ne* vecchi codici, badando poi agli eruditi la cura di trarne il più verisimile testo. Ne' migliori codici dunque si trova : Quod enim, quam recens, quod con- facuit melius. In un codice poi di non vecchia data si legge conflavit in luogo di confucuit. Scaligero sta per la lezione dei codici riportata da Vittorio, se non che amerebbe di cangiar confa- cult in confracuit. Ursino propone se si avesse a corregger così : Quod est quam recens, quod confracuit melius.

Pontedera si dichiara per l1 antica lezione dei codici, cioè ch’è da leggersi confacuit. « Haec, soggiunge il Botanico di Padova, de optimis fon­tibus hausit Victorius, non taroen Varroni resti- tuit, verbi, opinor, confacuit insolentia offen­sus. Id porro vel ab ea origine veuir, unde fa e x , quamvis nunc obscuram et obsoletum ( nihil eoim temere de antiquitate pronunoiandum, ne eoram mores qai plerumque damnant, quod no» intelligunl» imitemur), vel fuit confracuit a fraceoy ex qao fraces. Nam si oleam, quae ni­mis in acervis fuerit, fracescere ait Varro, hoc est calore macerari, et mox corrumpi ; cur non potius dicemus fracescere stercus, quod coacer­vatura item concalescit, et concalescendo mace­ratur, quousque fiat patre, el tertio denique anno terra ? Nonne apud Nonium fracescere est tan- quam fr ia r i et putrefieri vetustate ? Ul at res ae habeat, spero fore ut intelligam, tibi fuisse meliora vetusta, quam ab Aldo edita, et retenta a Victorio. Neque enim dubitandum quin vul­gata Aldina sint, cam primae editiones quam­vis vitiatae, veteris scripturae imaginem refe­rant : Quod enim quam recens, quod cum f a ­ciunt, melius, n

(ti) Noi siamo d'opioione che il testo debba essere il seguente : Itaque pereilei ( quei pos­sint ) u ti eo aqua influat, eo nomine faciant ; seic m axsume retineatur succus. Eoque quei- dam selas familiaricas ponont. Le tre prime edizioni, e il codice di Poliziano meltouofac ian t, oosì pare retineatur. Due codici haano eoquae, cbe ai è corretto in eoque, perchè più ai accosta

alla brevità usata da Varrone.Scaligero vuole che qui si dica semplicemente

sellas, persuaso egli essendo che non si parli che delle latrine delle camere. Ursino inclina a leg­gere cellas, benché non rifiati auche la parola sellas. Per altro qui Varrone intende i luoghi comuni, i qoali hanno on canale che corrispoude

sul letamaio.

M

(ia) Aediflciom fie r i oportet, sup quod te* ctum tutam fundi supicere possis mesem^quod vocant queidam nubilariom. Id secundum aream faciundum , ube triturus sis frum en- tumy magnitudine prò modo fu n d i, ex una parti apertum, et id ab area, quo et in tritura proruere facile possis, sei nubilare coepit, et inde rursus celeriter reicere. Questo testo è a norma dei codioi e delle prime edizioni. Avverti­remo solo che si sono ingannati quelli che hanno vulnlo correggere quo et in tritura in quo et in. trituram , non essendo questo uo unico esempio, in cai siasi adoperata la proposizione in, dino­tante moto, col sesto caso. Varrone nel lib. ir, cap. io : in quibus stabulari solent ecuas apa- gere ; e nel lib. in, cap. i : Itaque non sine cau­sa majores nostrei ex urbe in agreis redege~ bant suo ceivis. Catone nel cap. 146 : Quae in fundo inlata erontypigneri sunto; e.nel cap. 152: In aserculo adlegato. Froalmente Columella nel lib. vi, cap. 4: A c postero die spicas ulpici, vel allii cum vino conteras,et in naribus injundas; e nel lib. xir, cap. ai : Sal autem quam candi­dissimus conjicitur in urceo fic tili sine pice.

(13) Propter aedificia. Ursino pensa che queste sieno parole allrai. Vuole poi che dopo si legga così : Itaque illorum villae rusticae erant majores, quam urbanae, quae nunc sunt ple- raeque contra.

Sopra questo lusso dei Romani si legga Lipsio de Magnit. Rom . ul, 14* Meorsio Roma luxu - riante, Greenio de rusticatione et villis vete­rum lib. 11.

(14) u Antiqua haec lectio (dice Vittorio); nam quae in medio plura verba posita erant, ia nullis a nobis MSS. inventa sant. Ea dcclaralio- nem alicujus faisse arbitramur. Quod tamen illis verbis declaratur, sine ipsis intelligi pulchre posse manifestum est. » 11 nostro testo è quello pure che si trova nell1 edizioni di Stefano, dei Griffi, di Commelino, di Berewoucio e di Popma. lo quelle di Aldo, dei Giunti e di Gimnico si legge : E t pavimento pròclivi in lacum, in quo si con­tigerit, defluens vinum excipiatur, ne pereat, quod saepe ubi conditum novum vinum, orcae in Hispania fervore musti ruptae, nec non et dolia ut in Italia. Queste parole non sono sem­brate necessarie a Vittorio, come non lo sono di falli ; ma non è da rigettarsi totalmente la lezio­ne delle tre prime edizioni, che hanuo ne vinum ploueret. Egli è cerio, che il sentimento riesce imperfetto, stando al solo testo ; e perciò credia­mo che correrebbe bene, se si dicesse quo vinum proluerent dopo Italia* Palladio nel lib. 1, tit. 18 de cella vinaria prescrive : A d quod inter duos lacus, qui ad excipienda vina h in t inde depres­

79*s i M. TERENZIO VARRONE

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ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE RE RUSTICA 8 0 0

si •sint, gradibus tribus fere aut quatuor ad- scendatur. E di noovo: Quod si cupis locum suum deputabimus ; is locus ad calcatorii si­militudinem podiis brevibus et testaceo pati­mento solidetur, ut etiam si ignorata se cupa diffuderit, lacu subdito excipiantur, non peri­tura vina fluxerint.

Per ultimo è da aggiungersi che dalle editioni di Aldo, dei Giunti e di Gimnico è da levarsi la particella ut, e eh’ è da leggerti orcae in Hispa­nia, come trovasi in quella di Stefano e nelle al­tre tutte. Così Nonio Marcello de Gener. Vas. et Poc. dice nell’ «Ito di riportare le parole di Var­rone: Saepe ubi conditum novum vinum orcae in Hispania fervore musti ruptae.

Avvertiremo con Plinio, xiv, 47» c^e queste botti noo erano di legno, come sono le nostre, ma di terra, e che si seppellivano sotterra, o si lasciavano esposte all1 aria. Per queslo motivo si cerchiavano di piombo, o almeno con cerchi di legno forte, onde potesse resistere all1 umiditi, e qnindi impedir che le botti si sfasciassero.

( 15) Pessimo publico. Livio 11 disse: Neque ambigitur, quin Brutus idem, qui tantum glo­rine superbo exacto rege meruit, pessimo pu­blico idfacturus juerit.

Fenestras haberet. Ursino propone da con­siderare se fosse meglio dire habeat: così pure crede che st debba leggere : Cum fructus in ea quaerat, ut ad dolia aira frigidiorem , ita ad serias caldiorem. Egli ciò congettura per aver trovato in un vecchio codice ad dolia. Crede al­tresì che la voce vinarius sia stata sicuramente aggiunta, perchè, eome dio'egli, qui Varrone non parla solo del vioo, ma ancora dell' olio ; e la pa­rola olearia è secondo lui una glossa, a Revocavi ea (dice Gesnero) ; nifi forte qais dicat, non ad cellam, sed ad cavum referri pronomen. Illa qui­dem facilis esset ratio excusandi soloecismos. Cre­scenti™ sententiam modo retulit hujus loci v, 19: Varro scribit cellam oleariam ad partem ca­lidam habere debere fenestras: sed vini ad frigidam .

Dopo aver riferito quanto hanno detto a que­sto luogo i commentatori, mettiamo ora il lesto, che da noi si crede il genuino: Nunc contpa veir fìim urbanam quam maxsumam , ac poleitisu- mam habeant, dant operam, et cum Meteli, ac Luculi veileis pe sumo poblico aedificateis cer­tant, quod hei laborent, u ti spectent sua ae­stiva tricleinaria adfbigus orientis, hiberna ad solem opeidentem, potius quam, uti antei- cei, in quam partem cela veinaria, aut olearia fenestras habeat, dum fructus in eo veinariut quaerat ad dolea aerea freigidiorem , item olearius caldiorem.

Rendiamo ora conto di questo Iulo: Quod hei laborent trovasi in Politiano e in altri codici antichi : cioè n'ò nato quindi per lo scandalo pub­blico di Metello e di Lucullo, che gl'imitatori di questi laborent ut, etc. Le tre prime editioni hanno potius quam orientem , antiqui non curabant, in quam ..... haberet, qaando deve stare habeaty così trovandosi io Politiano e in nn codice della biblioteca La urenti ana : inoltre habeat corrisponde meglio alla parola spectent: vale a dire gl'imitatori di Metello e di Lucollo, e che seguono tale pubblico scandalo, si studiano di fabbricar le case di campagna in goisa che le fo* nestre sieno piò acconce per la molletta e pel lusso, che procurare che in quella piaggia la cantina e il cellario da olio habeat le fenestre. Dumfructus in eo veinarius, etc. In eoy ossia in eo loco. Trovasi dum nelle tre prime editioni, e in eo% si legge nelle suddette, io Vittorio, e nei codici Polizianeo e Lanrentiano : ea è di Gesoe- ro. Può anche stare soltanto eo sema in, esempio non raro negli antichi scrittori.

(16) Item videre oportet, etc. Ponleder* e Sabourenx sono di opinione che quest' altimo periodo non sia di Varrone, atteso che non è le­gato a quanto precede e a quanto segue. Non sa­rebbe questa forse un'annotatiooe di qualche commentatore per richiamarealla memoria qaan­to aveva detto Varrone nel capitolo precedente, dicendo : E t ut potius in sublimi loco aedificest e poi ab hoc utroque superiora loca tutioraì

Cap. XIV. (1) Ognuno accorderà ehe questo è un luogo diffìcile. Diremo prima in ristretto il sentimento degli eruditi. Ursiuo erede ferma­mente rhe le parole vivae saepis sono fuori di luogo, e che ta loro sede naturale è : primum naturale saepimentum vivae saepis. Gesnero le ha messe tra parentesi, persuadendosi cbe debbano essere collocate al tuogo assegnato ad esse da Ursino. Chi ben rifletterà, vedrà che de­ve stare vivae satpis, e che questo periodo è da leggersi così : Preimum naturale saepimentum quod opseri solet virculteis aut spineis ; qmod habet radicis, ac veivae saepis praetereuntis lasceioi non metuet facem ardentem„ Sol tao to ia Aldo si legge sepimentum. In Politiaoo, in un codice della Laurentinoa si ha opseri. Lepre* posizìooi oh, ab, sub vengono da avé e o W e da qoesto esempio è da arguirsi che gli antichi Latini abbiano usato il p per b. Quod habet ra ­dicis, ac veivae saepis : così si trova nelle prime ediiioni, in Politiano e ne' codici Laorenziaoi : stpes è soltanto di Aldo. Noi ci lusinghiamo di aver espresso nella tradntiooe il sentimento del- l'aotore. Di fatti,quelle siepi, che sono vegete e com

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DI M. TERENZIO VARRONE

radici, rigettano Jl faoco, perché appunto verdi.

E perchè accade che alcune piaoterelle, anche dd genere delle erbacee, germoglino tra le «pi- ne, e che in tempo d ' ìoveroo diventino aride ; e perchè le spine medesime, quando invecchiano, hanno alenni rami secchi, particolarmente se so­no rovi ; se si dà il caso che il fuoco si attacchi alle siepi, e cbe si abbruci quanto vi è di secco, tuttociò eh1 è verde, non sì facilmente si può bruciare, e quanto si consuma dal fuoco, vien riprodotto dalla viva radice.

Praetereuntis lascivi. Avanti Vittorio si trovava viatoris avanti praetereuntis. Ed a ra­gione lo ba levato, sì perchè non si trova ne’ vec­

chi codici, come altresì perchè sarebbe superfluo. Varrone nel libro v de Lingua Latina ha posto soltanto raelereu/i/ij .* E t ideo steundumviam praetereuntis admoneant, et se fu itse et illos esse mortales. In Tacito xxix trovasi lo stesso che qui accenna Varrone : Faces in manibus, quas, ubi praedas egesserant, in vaCuas' domos, et inania templa per lasciviam jaculabantur, etc. Da Svelonio in Aug . si rileva che gli anti­chi viaggiavano di notte coo fiaccole accese. Per nocturnum iter lecticam cumfulgur perstrin- misse^ servumque praelucentem exanimasset.

(a) Non si può dare niente di piò sciocco quanto la lezione dei nostro testo: Secunda se­pes est ex agresti ligno, sed non vivit, quando che deve stare : Secunda saepes est ex agresti e ligno, sed non veivit, così leggendosi nelle prime edizioni e nei codici di Poliziano e della Laorenziana. Di fatti cos* è il lignum agreste ? Forse perchè nasce dal terreno ? Ma ogoi legno non nasce in qoalche terreno?

(3) Deinceps constitutis. Per sentimento di Ursino, queste parole sono state aggiunte dai copisti.

(4) A ut'fastig ium habet. Ciò vuol dire un dolce pendìo ; così pare dice nel cap. xx. Ursino vuole che si legga : Agger si intrinsecus ita arduus s it , etc. perchè questo senso dipeode da quelle parole : Sed fossa ita idonea fiat, si om­nem aquam , etc. Agger ita idoneus, si intrin- secus, o piuttosto extrinsecus.

Pontedera a questo luogo fa alcune leggere correzioni. » De qnibus (dic’ egli) mihi cogi­tanti videri solet perfectior senleutia, si scriba­mus: fossa ea idonea, ut agger is bonus ; si ve quoniam in Jenspnio : Sed et fossa ita idonea* ted ea fossa ita idonea. Praeterea : aut ita ar­duus legerem : ac ita arduus, sive, vel excuditj Jensoaius, sed ita arduus ; nam aut fossam ex­cludit, de quo septi genrre agitur postea : agge­res qui fac iun t sino fossa, eos quidam vocant mmros.

(5) Questo fiume è il Tevere.(6) Gesnero inclinerebbe a leggere: Aggeres

quidam jaciun t sine fo tta , eosque vocant mu­ros. U vero testo è Ageres sine fosa. In tutte le prime edizioni e in tutti i codici si trova oosì, laonde le due parole qui faciun t sono di Aldo.

Uti in agro Retino. Questa variante è tratta dai codici di Poliziano e della Laorenziana.

(7) E t lapillis compositis in form is, Ponte­dera vuole che si diea, come pubblicò Genson, informe, riferendo quest' aggettivo e saepimen­tum, Gesnero non è punto persuaso di informe, dal che ne parla piò a lungo nel lib. ix, cap. 7 di Colonnella.

Non è poi vero cbe ut in Hispania, et agro Tarentino sia il genuino testo di Varrooe, poi­ché nei codici di Poliziano, di s. Reparata e nel terzo Laurenziano si ha: Uti in Hispaniae agro, Tarentino. Rè deve far maraviglia che tra le parole agro e Tarentino non si trovi la copula et, poiché anche Cicerone la tralasciò nel lib. xm delle Lettere, nella Lettera 29 : Ut ipso judices homini te gratissimo, jucundissimo be­nigne fecisse. Ennio pure Ach. presso Nonio : Ita moYtales inter se pugnant, praeliant. Lo stesso Varrooe la tralascia nel principio del seguente capitolo, dicendo r Praeterea sine septisfeine» praedi, sationis, noteis arborum tutioresfiunt. E nel cap. 18 : A d majoris, ad minoris modos fundorum iei quoque.

Cap. XV. (1) Confessiamo di buona voglia che Ia correzione di Gesnero rischiara molto il sentimento di Varrooe. Noi per contrario pensia­mo che Varrone avrà scritto come sta nel testo, appunto perchè è intralciato. Egli dunque vor­rebbe che si leggesse: Praeterea sine septis

fines praedii satius, notis arborum tutiores fian t, . . . . ac litis ex limitibus judicem quae­rant. Di questo parere è parimente d’ Arnaod otlle sue congetture sopra Varrone pag. 19.

Sicolo Flacco de conditionibus agrtorum pag. 7, 8 espone più ampiamente quauto conden­si io questo capitolo.

Ne fam iliae rixentur cum vicinis. Così Vittorio ha trovalo scritto in tutte le ediziooi e in tali' i codici. Ma se si ascolta Nonio, altrimenti debbe leggersi, affermando che qoi Varrone ha scritto rixent : ivi dice pure cbe quando si trat­tava di cose coutrarie, gli antichi adoperavano rixa t per rixatur : e per ciò comprovare, allega parecchi passi di Varrooe. Per altro nell'edizio­ne di Nonio dataci da Meroier si trova allegato questo luogo di Varrooe, come appunto sta nel nostro testo, qoantonqoe dal coabito fi rilevi

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8o3 ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA

chiaramente che è «tato usato da Nonio questo verbo io senso attivo.

(a) Serunt alii ciremm pinos. Coti ha volu­to leggere Aldo, tralasciando saepes, e quindi •oche tutti quelli cbe vennero dopo, quantunque questa parola si trovi nelle tre prime ediiioni. E da congetturarsi che Aldo abbia omesso saepes, per aver trovato scritto nel principio di questo capitolo : Praeterea sine septeis feines praedi,, sationis, notis arborum tutiores jiunt. Egli duoquesi è immaginato che si dovessero tralasciar le chiusure, perchè gli alberi erano sufficienti ad indicare i confini della tenuta. Ma fallo sta che la faccenda cammina diversamente ; paichè Varrone afferma cbe senza ricini» possono esser sicuri i campi relativamente ai vicini, e che per indicare i confini, basta mettervi degli alberi. Nè per ve­rità sono superflui i ricini» net confine del po­dere ; perciocché quesli impediscono 1’ iogresso non tanto ai ladri, quanto alle bestie. Più aperta­mente ciò si conferma da quel che segue, poiché consigliando Varrone di piantare, in preferenza ad ogni altro albero, l'olmo, il loda appunto, perche tra le altre cose sustinet saepem. Dun- que il lesto dev’ esser : Seront ali circum saepes peinos.

(3) Non s’ immagini alcuno che q u i si parli dei poderi di Varrone : egli è Fundanio che parla.

(4) Cicerone prò Caecin. 8, ricorda a questo effetto anche 1* olivo.

(5) Vittorio asserisce che ne1 vecchi codici si ha appunto come nel testo, cioè : Quod ubi id potè, ut ibi, ec. Gesnero sviluppa questo passo alquanto duro. La traduzione lo rischiara quanto basta.

Ac colit aliquot. Noi abbiamo tradotto un po'diffusamente la parola colit, senza però vio­lare il sentimento. In Nonio si legge cogit in vece di colit ; ma Vittorio è di parere che qnejlo sia nn errore di stampa, del che non si mostra puuto persuaso Scaligero, volendo egli che tanto in Varrone, quanto in Nonio si legga cogit. Del pa­rere di Scaligero è anche Ursino, il quale ha tro­vato scritlo in un vecchio codice di Nonio cogit. A quesli eroditi si unisce per cogit anche Gro- novio Obs. iv, 3, pag. 34- « Tamen colit ( dice

'Gesnero ) mihi etiam Varronianum videbatur, n(6) De fundi forma , terrae natura. Pou te­

derà vuole che si legga: D efu n d i forma, de terrae natura, etc. perchè in Genson si ha : De fund i forma : Tterrae natura : De modo agri: E tfinibus tuendis. È giusta la riflessione di Pon­tedera, cioè che la lettera T, come coche la par­ticella E t sono ne1 codici alterate e poste in luogo di De. Varrone nel l i b . i i , cap. i si valse di queste particelle quasi alla medesima foggia : Alterae

partes quatuor sunt cum jam emeris obser­vandae ; de pastione, de foetura, de nutricatu, de sanitate. Parimente nel lib. ni, cap. io : Ut hos r gradus observaret, quos in gallinis dixi, h i sunt: de genere, de foetura , de ovisf de pullis, de sagina, u Illud Tterrae natura non observavit in Jensoniana is, qui meo jussu accoratissime illam editionem cum proxima Bo­noniensi contulit, w Noi per altro possiamo assi­curare contro Gesnero, di avere esaminala la Geosoniana e di aver letto come scrive Pontedera.

Ci p . XVI. (i) Prope Celiem. Propone Ursino in aria di dubbio se fosse da leggersi Caralimi, cioè Cagliari, eh'è nna città della Sardegna. Popma dice che Pomponio Mela lib. n d e Sardi- nia scrive : In ea antiquissimi populorum suni Ilienses : e Pliuio nel lib. in parlando della me­desima dice : Celeberrimi in ea populorum Ilienses, Balari, Corsi ; per Io che credo che vada letto Jolienses, e in Varrone Joliem .

(a) Quae vicinitatis invectos. Ursino vuole che si legga invectus ; e poco dopo : et illinc avectus oportunos ad ea, quae in fundo opus sunt, propterea sunt fructuosa. Non si mostra troppo contento di quelli, i quali congelturaoo che sia da leggersi : in fundo supersunt; benché poco dopo si dica : quae supersint, venire pos­sint. Cupero è di opinione che si debba scrivere invectus, onde s ' inteodano le strade o i fiumi, per mezzo dei quali u vehi ad illam res neces­sariae possint r> : così pure legge : et illinc evectus opportunos: a quomodo paullo post importare et exportare opponuntor T * Schoettgenio aveva messo : quae vicinitates evectus habent ido­neos . . . . uti vendant, et illinc invectus oppor­tunos. m Comodissime ( soggiunge Gesnero ) ita legi apertum est, malui tamen hic legi, quam su­pra. Invectos per o potest esse heterocliton ar- chaicum. Caeterum iolelligendum certe est boe secundum caput esse eorum, quomodo proposita sont. n Pontedera sta per la leziooe del nostro testo.

(3) Multi enim habent praedia. Secondo Ursino è da leggersi in praediis, perchè così pure disse più sotto Varrone. Ma quest' autore o d lib. m, cap. i disse habere urbem in significato

di abitare.(4) Item si ea oppida, u Credo { dice Gesne­

ro ) ipsura sapienlissimum virano Victoriam, si viveret, irate non laturum, nos hic ab ipsius edi­tione aliquantum discessisse. Non potuit enim ita stalim oblivisci divisionis snae Varro, nt tertium faceret, quod secundi pars est, quartum au Iero quod aperte tertium dixerat. Ne quid vero dissi­mulem, antiquum oportet hoc mendum Varro-

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8o5 DI M. TERENZIO VARRONE

niaoos libros obsedisse, cum etiam Crescen­t i» u, 37 quatuor ista cspiU ita enumeret : i si regio prox ira a est infesta; a si in regione propin­qua sint homines, qai emant quie io fundo sunt venalia; 3 si nimis longinqaa eit 1 k vectarie. Sed qais non videt secuodum ac terliura tamquam opposita ad idem capat referenda: illud autem, qaod quartam fecit Varro, et satis magni momen­ti est, plane orailti ? w

Ursino è di parere che si debba leggere oppi­da aut vici. Vuole pure che la parola quibusdam avanti pedamenta, che viene poco dopo, sia da levarsi.

(5) In hoc genus coloni. Ecco la spiegazione che dà Gesnero di questo periodo, u Hoc est, talium praediorum domini, qui viciniam babent copiosam, potius in singulos annos mercede sibi condncunt a vicino operas medicas, fullonia», fabriles, quam ut sua pecunia paratos id genus homines suo saroptu alant, cum periculo, ne man­cipii ejusmodi pretiosi morte damnnm fiat aequa­le fructui fqndi, etc. Sed divites haeo artificia omoia habent in familia. Jocosa quaedam festi­vitas est in verbia anniversarios itemque im­perant. n

(6) Latifundii divites. Orazio lib. j/t ep. 2 disse lo stesso: Multarum divite rerum : e Carm. lib. iv, od. 8 :

u Divite ... scilicet artiam,Quas ut Parrhasius protulit, aat Scopas.»

u Latifundii vero divites ( sono parole di Urifno) dicit eos, qui magna latifundia habent. Hi enim ex domesticis habent servos medicos, fullones, fa­bros, quos imperant stipendio annuo constituto: ob quod annuum stipendium anniversarios eos Varro fortasse appellavit, ti

Domestica copia, e non domesticae copiae, trovasi ne' codici di Poliziano e della Laurenzia- ua. u, Itaque ex domestica copia, come spiega Pontedera, sive propter domesticai* copiam divi­tes eam partem nempe artifices mandare solent, *

(7) E t promum. Cos) ha corretto Ursino, tro­vandosi nelle tre prime edizioni, io quella di Ba­silea e di Gimnico patronum . Qui assolutamente non v1 entra la parola patronus.

(8) Tertio eundem fundum , u Etiam hoc adscivimua ( dice Gasnero ) ex editionibus anti** quis. Causam ante diximus, et dicet, quisquis

attenderit. »(9) Quarto refert. * Quarto ex auctoritate

(sono parole di Gesuero ) librorum Undatorum supra, vel ipsam potias rationem secqti posuimos. Pol aat vero fieri, ut bic omissum ab ipso Varrone

numeri adverbium torbandi librariis oecastonem dederit, »

(10) Secondo Ursino è da leggersi et intror­sum reclinent, ut vitis, etc. ; perchè le parole in fundum sono senza dubbio sUte aggiunte dai commentatori.

Varroue ba chiamato olus il cavolo, come provano con molte autorità Ursino e Scaligero.

(»i) Ut quercus, sic juglandes. Cosi ha cor­redo Vittorio : u Spero sane, dice egli, castigatio­nem hanc studiosis viris probatum iri. Volui ta­men pusillum licentiae, quo usus fueram, aperire. Nam in antiquissimo et optimo libro jugulande» scriptum observavi : ut io illo etiam loco in eodem hoc libro : Nuces jugulandes in harena. Ursino poi vuole cbe si legga : Sic juglandes magnae, crebrae, finitim ae, perchè sono una glossa le parole : fu n d i oram faciun t sterilem. Cresaenzio nel lib. 11, cap. 37, riferisce queslo passo : In fundum se reclinent, et in confinio vitem et fundum faciun t sterilem. Ma ha moz­zato di troppo il sentimento di Varrone.

Cap. XVII. (1) Questo è un altro membro della divisione di sopra proposta al cap. 5.

Secoodo Ursino la parola rebus dopo quibus ‘ è una glossa, come altresì le parole che seguono parte scilicet, che trovansi nell1 edizioni dei Giunti e di Gimnico, qaando che Varrone he scritto: A lii in tres in vocale, etc., così leggen­dosi appanto ne' vecchi codici. Si potrebbe per altro dire cbe la parola rebus è no pleonasmo familiare a Varrone, qual è qoello che leggesi nel cap. 9 di questo libro : Atque ea, quae ex iis nasci debent, earum rerum Jeracia. Vittorio ba già levato dal testo scilicet.

(a) Focale ; così il chiama, perchè sono do- Uti della facoltà di parlare.

(3) Obaeratos. Vittorio dice che ne'codici si trova scritto obaerarios ; il ohe giudica essere nn errore ; e perciò ha adotUto la lezione co­mune obaeratos. Gesnero dice che gli obaerati si chiamano aocbe nexi, oome si raccoglie dallo stesso Varrone nel lib. vi, pag. 82 De Lingua Latina : L i ber, qui suas operas in servitute pro pecunia, quam debeat, dat, dum solveret, nexus vocatur, ut ab aere obaeratus. PonUdera però vuole che si riUoga V antica lezione obae­rarios, cioè h qui ob aes aliena curant. Quapro­pter opera primum ob aera et operarius obae­rarius ; nam servi in domini fundo opus faciunt, liberi in proprio agro : operarii qui item liberi, ubi mercede conducti. »

Nella liogua francese trovasi la parola obéré per dinotar uno, i cui affari sono poco in sesto. Generalmente ciò si verifica in ehi ha debiti.

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ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE RE RUSTICA

(4) Nelle tre prime edizioni e ne' codici di Poliziano e della Laurenziana ti legge : De qui­bus univo rseìs heic deico, gravia loca utilius esse mercenari*, quam strveis coli, etc* Doo- que hoc è soltanto di Aldo. Heic poi è Io • testo che in hac re, come si vede io Piloto A d . r, Sceiu ii in Bacchid. :

u Jamdudam, Pisloelere, tacitas te seoaor. Spectans, qaa» tute res hoc ornata geras.Nam ita me di ament, uti Lycurgus mihi qoidem Videtor pose heic ad oequiliam adducier. »

(5) Quest'è qoel Cassio Dionisio d’ Utica, il quale aveva tradotto iu greco 1' opera di Magone il Cartaginese, e di cui se o ’ è parlalo nel primo capitolo.

(6) E t ad agriculturam dociles. Nell’ istes­sa manièra disse Cicerone 9 ad Trebat. : 0 medi­cum suavem, meque docilem ad hanc disci­plinam !

(7) Eam conjecturamJieri pose ex aliarum rerum inparatis : cosi voole che si legga Pon- tedera. * Simpliciora ( die1 egli ) verborum vo­cales litteras ab anliqois retineri in compositis baud ignoras; idcirco com impero sit ab in et paro, inparo potias antiquitas, quam impero. Quid vero inparo, nisi in aliam paro, hoc est jabeo hoc ab illo parari, vel fieri : ut etiam di­citur imperare pecuniam, tributum, obsides f Ab antiqua scriptura imparare, quae iu val­gum descenderat, vernaculum imparare habe­mus, quod est discere ; nempe qui magistri imperata recte ac diligenter suscipit, is sibi im­perat, et ab hoc iraperaodo discit, n

(8) Et more incolarum e novitiis requisito. Se il lesto di Varrone fosse veramente questo, U cosa sarebbe chiara ; ma fatlo sta cbe oon è questo nemraea per sogno. Talli i commenta­tori sono discordi fra di loro. Vittorio asseri­sce che questo passo è al sommo corrotto nei vecchi codici, e che è molto lontano dalla cor­rente leiione. Egli dopo avervi fallo sopra dei molti studii non è riascilo di aggiustarlo ; e perciò ne lascia la briga agli altri: soltanto dice che 1’ antica lezione è la seguente : E t in eo eorum e novitiis reliquisitio ad priorem , etc. Scaligero persuaso che oon si debba fore alcun conto dell* antica lezione, e che si perdereb­be il tempo dietro ad essa, si è immaginalo che Varrone abbia detto : E t in eo eorum e novi• tiis reii, quis itio ad priorem dominum: quid ctitarent. u Utrum ad agriculturam sint doci­les, necrw, conjectura, inqoit, duci potest ab iis, qui immediati et imparati ad opus vocabuntar.

lu n e eoim ex illis, quinam operam io nome- rato habebuot, facile intelligi polerit. Nam im ­peratis hoo ett imparatis, ut sopra, reperiiare, pro reparitare. Praeterea, inqoit, oon solsaa periculum faciendum est io illis, qui operit ru­llici oon ignari, tamen inopinato ac imparati ad specimen operae suae edendam provocaotor: sed eliam io illis, qui loter illos rudes adhoa suoi ; nam io superioribus, eztemporaoeom,io istis, docile iogeniom requiritor, lmperalos rerum vocat, ut postea oovitios rei, sed cifrai- vpòi est reii prò rei. Ita eoim fere semper scribebant, quod primam in ea voce prodoea- rent : ut videmus apud Lucretiam. Et apud Mariora Victorium versas Plaati ex prologo M ilitis ita legilur: magnireii publicai grati*. Quod commentum quare sibi adscriberet Ga­briel Faèrnus, causa noo erat. Quod sequi­tur : Quis itio ad priorem dominum , quid fa ­ctitarent, dooj habet archaismos: primus est in genere quis itio, ot quis tu es m ulier; alter est quis aut quae itio, de quo postea. Deiode, inqoit, videndum an saepias ad priorem domi­num eaot, ad opas faciendum : et qoid apud eum factitarint, cessatoresne an labori ioleoli fueriot. Nam saoe, qui crebro ad eondem domi­num commeant, argumentum est, eorom seduli­tatem domino salis spectatam esse, qoi eoram opera lolies oli velit. Quis itio, est freqoeo- tissimos loquendi modus comicis, ae veteriboa Romanis, ut, quae tibi huc ventio est ì hoc est quare bue Venisti ? ilem, quae illam tibi ta­ctio est, et similia, n

Piò semplicemente bensì, ma arbitrariamente, Ursino legge : Eam conjecturam fie r i posse ex aliarum rerum imperatis, e t requisitione ad priorem, etc. ; cioè si paò coogettarare, se sieno atti all1 agricoltora, comandando ad essi altri lavori, e ricercando pure ai medesimi qoa­li fatture abbiano eseguite presso il primo pa­drone. Popma predilige l1 antica lezione, c la spiega così : u Operarii ( inquit ), utram sint do­ciles ad agriculturam nec oe, conjectura fieri poteat, si alias res imperaveris, et io opere ru­stico e novitiis et tironibus si reqoisieris, apod priorem domioum quid factitarint. » Requisito, secondo Popma, lo ha adoperato Varrone io qod se oso che Sallustio nel lib. v Histor. disse : A t Lucullus audito Q. Martium regem pro com- sule per Lycaoniam cum tribus legionibus in Ciliciam tendere : e Livio nel lib. xxxi disse : Satis comperto Ordiaeam petituros Roma­nos. In vece di apud ai è adoperato ad, coirnelo usò Varrone già avanti : A d te enim rudem agriculturae esse nunc : e oel lib. 111 ha detto: Posse ad te fieri.

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DI M. TERENZIO VARRONE 810

Gesnero lasciaudo che ogodno la pénsi a mo­do suo, ba creduto di f*r bene, adottando la le­zione dei Ginn ti, eh’ è appunto quella del testo ; td egli la «piega coli, a Si può venire in cognitio­ne del talento dei:lavoratori riguardo all’ agri­coltura primieramente ex aliarum rerum im­peratis, vedendo cioè "se gli esegoiscono a do­vere ; in lecoodo lupgo , tum more incolarum, dai quali'sono partili, e a noi sooo giunti, e no- vitiis requisito, vale a dire, ricercando ad essi qaai metodi nell’ arare e nel mietere ii accostu­mino nel loro paese ; e ricercando ad essi inoltre ad priorem dominum quid factitaren t•; dalle quali risposte si potrà agevolmente comprende­re se sieno atti, o no perV agricoltura.

Pontedera a questo luogd se la prend*fiera­mente contro* tott’ i commentatori ; le quali in­vettive, perchè non fanno al nostro proposito, ben volentieri le omettiamo. Diremo solo, ch'egli vuole che si legga : E t in eo eorum e novitiis reliquisitio ad priorem dominum quid factita - rent. 11 qnal testo quanto sia lontano da quello adottato da Gesnero'e da tutti gli editori, si ve­de a colpo d' occhio. Tutta la difficoltà egli la fa consistere nella parola reliquisitio, che la ag­giusta in redinquisitò ; parola composta da in­quiro e da red, come sono anche i seguenti verbi redinvenio, redabsolvo, redadopto.

E quésto è tutto quello cbe ne dice Ptfnt^de- ra : e a tanto poco si riduce, che noi ci troviamo nel primo buio. E poiché tutti han detta la sua, diciamo ancor noi la nostra, la quale se noif altro avrà questo vantaggio che sta attaccata ai cadici di VUtorio, di Poliziano, Ceseoate e Veneto. Adottiaraò dunque la lezione : E t in eo eorum e novi tiis redinquisitò, etc., vale a dire et e no- vitiis redinquisitò in eo% cioè in ea re, 0 in eó argumento, ovvero sia 111 agricoltura, eorum quid factitaren t ad priorem dominum , La tra­

duzione, che noi abbiamo data, ci pare naturale i legata al testo antico.

Per non ometter niente, daremo anche la tra­duzione di Saboureux. «On pourra se mettre à ni è no e de conjecturer s’ ils ont cette aptitude, en leur commandant des ouvrages d1 un autre genre, porir voir comtneut-ils s' en acquilleront, en les questionnant sur les usages de leurs pays relatifs à l ' agricolture, au cas qu’ ils soient novices dans cet art, et en s' informant de ce qu’ ils auront ùit auparavant chez leur ancien maitre, n

(9) Qui litteris. Secondo Scaligero la parola litteris è una glossa, poiché appresso gli antichi litterae e humanitas sono lo slesso : a compro­vare il che cita un passo di Cicerone v De fin i­bus : Sed animi cultus ille erat ei quasi qui­dam humanitatis cibus. E Varrone disse: iV a -

M. T seenzio V iia»nt

x itele s, qui propter artificium egregium ne-• mini est paulum modo humaniori incognitus.

Ursino iodina a leggere : Qui sint aliqua, etc!; perciocché, secondo Iui, le parole quam opera- rioSy quos d ix i sono state* aggiunte dai commen­tatori. A Gesnero-sembra molto migliore quella •lezione che trovasi in cinque edizioni, la quale dopo la parola litteris v’ inserisce la copula et.

Noi crediamo indispensabile in chi è capo il sapere scrivere, come pure che non sia del tutto ignorante: due idee che abbiamo espresse ntl volgarizzamento.

(10) Siamo di parere che io questo luogo prendano uno sbaglio i domtaen latori. Vittorio dice che i vecchi codici sono corrotti, avendo essi : Facilius enim 11, quam minore, ete. Pro­pone da leggersi ei quam minori: cesi pure poco dopo inclinerebbe a dire imitetur et animmd* vertat, e parimente illis e coè'rceant contro quello che leggesi nelle edizioni. Scaligero sta per i vecchi codici, e rigetta francamente le cor­rezioni di Vittorio : vuole danqne che si legga : Facile eniui 11, quam minore natu sunt dicto awfientes. Fa qui osservare che si è detto ei per

• *7, come per contrario disse poco dopo : non enim solum debere imperare, sed etiam facerey ut facientem imitentur, riferendo/ac/enfero a peritos, a Mena igitor (soggiunge Scaligero) Var­ronis haec est : Faciliuj, inquit, tali et ejusmodi

• prnefecto sunt dicto audientes, quam alii cuivis minore natu. Nam latine dicitur: Frater majori aut minore-natu ; et minore natu hic est dandi casa ei, qui est minore natu.

Per far che i nostri leggitori scelgalo quella lezione che piò a loro piacerà come pure a og­getto -di difendere il nostro volgarizzamento, metteremo Ye varie lezioni. I codici di Vittorio hanno : Facilius enim 11 quam minore natu dicto sunt audientes. 1 codici Cesenate e Veneto differiscono io ciò che hanno hi, invece di ii. Nelle tre prime edizioni si leg^e: Facilius enim his quamvis minores natu dicto sunt audien- tes, $ finalmente in Aldo si legge: Facilius enim his quam minoribus natu dicto sunt audien­tes : e questo è il testo comunemente adottato,

u His propositis ( dice Pontedera ) inquirendum est breviter quae praestent, ut meliora sequamur. Ante omnia praenoscere oportet, scribendi am­biguitate plurimum delectatura Varronem, ceu in Dio de uva: Itaque lectius defertur in forum vinarium , ut in dolium inane veniat ; forum enim vinarium , et veniat de uva vendenda su­spicionem facit, quando forum pars accipitur in­strumentorum quibus vinum cogitur, et veniat pro eat sive importetur. Ambigua quoque e l t re­mi hujus libri sententia : non meUxte ferentes

28

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8 u ANNOTAZIONI AL LIB. I DE HE RUSTICA « n

distedimus de aede% ubi qaod de mora ett intel- ligendum, de aeditui morte qaae proxioaa nar­rata est, non moleste illos tulisse videlur indicare. Similiter haec de foeta Asina : venter efiint la­bore nationem reddiC deteriorem: dura natio­nem ad asininam genus referri opinamur, par­tam esse invenimus. Haud secus hoc looo obscure ct ambigue loculus est Varro, nisi diligenter at­tendatur. Praecipitor enim qui aetatem praestant, facilius quam jnniores domino esse dieto audien­tes. Sed quem hoc pacto <fe excusis libris intel­lecturum putemus? Quem etiam primo intuitu ex antiquis sine aliqua ingeoii contentione? Et tamen quae protulit Victorius, cur non Integra existimanda? Cur etiam paulo attentius intuenti, ana littira t iu minore posita, non aperta et di­lucida ? Quod quo melius cognoscere possis, ap­ponam iterum eadem caro superioribus juncta : Qui praesint, esse oportere qui litteris aliqua sint humanitate imbuti, Jrugi, aetate majorès quam operarios quos -dixi ; facilius enim ii (sive Ai) quam minores natu, dicto s un p du- dientes. Qui ista indiligenter perlustrarunt, id «ibi accipere yisom est, quod io moribus frequen­tius positum videbant, majoribus natu facilini, ac promptius obtemperari , qoam minoribus. Propterea Varronis verba tanquam vitiata ad eam opinionem declarandam .immutare coepe­runt, et priranm sensim ac circnmspecto judicio, ut Jensonfus; deinde repente et ioconsiderate, ut Aldus. Hao ratione boni isti vir^ quorum libri magno veneunt, Varronianum mouitam ad aliud transtulerunt, n

(i i) All ritraenti noi leggiamo : Praeterea po­tissimum eos praeesse oportet, qui pereitei sint rerum rusticarum ; non solum enim debere inparare, sed etiam facere, uti facientem imi­tetur, et uti animadvortat eum cum causa sibe praeesse, quod scientia praestet. Nei codici di PoliLiaoo e nel quinto e quarto codice della Lau- reoziana si ha imitetur in loogo di imitentur, e negli stessi pure trovasi animadvortat per ani­madvertant. Tutte le edizioni avanti Aldo man­cano di et usu : così pere non si trovano nei co­dici della Laureniiana e di Poliziano. Qui certa­mente parla Varrone del capo di famiglia, e della stèssa famiglia che deve obbedire allo stesso ; e perciò non si serve del numero plurale, perchè

facientem è relativo al capo, come altresì eum, quod scientia praestet: laddove le parole imi­tetur, animadvortat %i riferiscono alla famiglia.

(1 a) Neque eileis concedundum ita inparare, uti verberibus coerceant potius, 'quam verbeis. E t (sei modo id exs/acere posis) neque ejus­dem nationis pluris parandos esse ; ex eo efiim potissimum solere opfensionisdomesticasfieri:

e * l appunto rfamo persuasi ohe si debba leggere, perchè n e 'codici di Poliziano e 4 ella Lenremsana si ha illis e cofrceant, io loogo di illi e coher- ceat. Vittorio ha oredoto che Queste parole si ri­feriscano all' imperio che ha il ptdrooe v a io il capo, qoando 4he, se si parlasse di questo, non sarebbe mestieri parlar di bastone, poiché non sarebbe molto difficile ridorlp alle cose del dove­re colle semplici parole. E denque da arguirsi che qui si parli del capo verao la famiglia. E t (sei modo id exsfacere posis) neque : questa era la lezione «he correva avaoti Vittorio: nè si

■ sa comprenderei perchè si*sia cangiata : di fatti non è difficile trovar de’ 1* voratori della medesima nazione, come per contrario oon è così facile trovarne di varie nazioni.

( 13) Praefactos alacriores faciundum prae- mis ad faciunda. Tal è la lesione di Polizhno e delle tre primeedizioni.

(>4) Pontedera appoggiato a solidi fondamenti legge : Iniciundum voluptatem praefactorum honore aliquo habendo, et operaris, qtieiprae- stabunt alios communicandum, quoque cum hei* quae faciunda sint opera. u Perpensis an­tiquis monumentis, in quibus iniciendum volu­ptatem et iniciendam voluptatem, perpenaoqne Varroniano more, quo multa hujusmodi eradan­tur . . . vetustis restitutis, vulgata ad injiciendam voluptatem abjecimus, Reliqua item ad antiquam exemplum casligavimns . . . Quoniam omnis ho­mo honore ducitur, eoque «d majoraaoeenditur, iujiceft oportet, ait Varro, operariis, honore ali­quo iu bendo, spem aliqoam> qoa sibi persua­deant fore aliquando, ut ipsi praefacti consti­tuantur.

Vittorio propone se in vece di voluptatem fosse da leggersi voluntatem, dicendo che queste parole sono state sovente confuse dai librai : della qual cosa adduce due esempli, uno di.Quintiliano,

*e l ’ altro di Lucrezio. Scaligero rappezza questo periodo così: Injiciendum voluntatem prae­fectos in aliquo honore habendo, et de .opera­riis qui praestabunt, aliquot ; e condanna che si sia scrilto voluptatem per voluntatem, u Adhi­bendum est calcar ( dice egli ) inquit, non solum si praefcctornm aliqua habealur ratio : sed et si ex ipsis operariis praeslantiores qui erunt, honora afficiantur. Ursino legge: A d injiciendam vo- luntatem praeceptorum, aliquo honorè haben­di sunt: vale a dire, se il padrone colmerà di qualche onore gli operai, questi obbediranno pià ve rn ie ri a'suoi comandi. Ma Ursino dall'aver trovato in an Vecchio’ codice : Ad injiciendam voluptatem profectorum, vorrebbe che si leg­gesse ad eliciendam voluntatem praefectorum. Poj»nia sta per quest’ antica lezione ’ e ia spiega

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cori: « Injieies ( disse Varrone ) voluptatem et lu­tea tiam operis rullici, ai et praefectorum et ope­rariorum praejLantiore* qui erunt, honire ali-' quo habueris. » Così appunto ha deito Cesare Del lib. v. de Bello Gallico : Quos praecipuo semper honore Caesar habuit. A Popma per­altro piacerebbe di leggere praefectos in hono­re ; perchè Livio nel lib. xxxvui disse : Chios egro donarunt, et in omni praecipue honore habuerunt.

Secondo Ursino le parole de operariis .sono da levarsi, e la voce aliqui è da oangiarsi in alios, perchè oosì, dic' egli, si trova io on vecchio co­dice, e perchè così pare disse Catooe. appresso Nonio io proposito di educare i figliuoli : Non solum, qui primus in alterutra re praestat alios, sed etiam qui sit secundus et tertius..

(15) $tudiosiores ad opus ....pascere liceat, aut hujuscemodi rerum aliis. Nelle tre prime edizioni, In . Poliziano e in tutti i codici della Laurenziana manca aut ; nè a (orto, perciocché nella parola hujuscemodi vi è frammischiata la particella ce, eh' è tolta da xai e che significa et; e che perciò fa lo stesso effetto.

(16) Manca, secoodo Ursino, il verbo sit, onde

fi Jeggt constando.

C ap. XVIII. (i) Catone parla dell' oli Te lo nel eap. io, e dfel vigneto nel u .

(а) In un vecchio eodice ha trovato Ursino dopo subulcum /, salictarium i.

(3) Questa citazione non è esatta, poiché Ca­tone ne ammette sedici.

(4) Ancor qui Catone vi frammette sali­ctarium .

(5) Quaternis operis singula. Columella nel lib. ii, cap. 4, sviluppa questo luogo di Varrooe.

(б) Licinius. In un vecchio eodice ba trovato Ursino soltanto la lettera iniziale L. che facilmen­

te dal margine è passala nel testo.(7) Scaligero fa le maraviglie perchè questo

passo corrono sia sfuggito al diligentissimo Vit­torio. Ma, com' egli congettura, Vittorio si è con* tentato dr render conto solameule deUa mano­scritta lezione. Scaligero dunque noo dubita che Terrone non abbia scritto così: Quod Calo s i . voluti^ ut debuit, uti proportione : ad majorem fu ndum vel^minorem addere vel demere: extra fam ilia debuit dicere villicum, u Na;n (soggiun­ge egli ) ad itiajorem fandum vel minorem adde­re, vel demere, hoe vocat uti proportione : nisi et ipsum est glossema. »

Gesnero così » piega questo passo, * Simplici­

ter haoc sententiam puto, quod si Cato voluit ot \ u t i enim eoojuoctionis vim habet) proportione (v e l proportione, cura utruraque eandem v ia

ni 3

habeat) adderemus ad majorem fundum, vel demeremus de minore. Dixit minorem, vel quia complexus est uiramqtte dictionem una formula, quod syllepteos geous dicere possis; vel quod ad retulit ad proportione, n

Noi però leggiamo: Quod Cato sei valuti ( uti debuit) sit proportione, ad majorem fu n ­dum , et minorem adderemus^ et demeremus. P ratterea extra familiam debuit deicerevili- cum et vilicam. B primieramente .ne' codici dt Poliziano, della Laurenxiana e nel Cesenate si ha sit proportione, • nelle tre prime edizioni ut proportionem : in secondo luogo et minorem adderemus, et demeremus, come per appunto hanno le Ire prime'edizioni e luti' i codici, tranr ne il Cesenate, cbe ha u t minorem. Aldo ha omesso praeterea avanti extra , di cui non man- cano le tre prime edizioni. Qui è da riflettere che il verbo sit è- da riferirsi alla parola anteriore modutos. 11 senso dunque è:* Quod modulus sei voluit Cato ( uti debuit) nt sit proportione, ad majòrem fundum et minorem adderemus, et demeremus. Si potrebbero addor molti esempii per confermare la maniera di dire quod sit pro­portione : ci contenteremo di riferirne alooni. Cicerone nel lib. vi delle Lettere Familiari nella lettera i 5, disse : Fac animo magno, fortique sis : nel lib. xiv, lettera 3 : Pisonem nostrum mirifico esse studio in nos : parimente nrl lib. xvi, lettera i 3 : Incredibili sum sollicitudi- né de tua valetudine. È pini tosto elegante la lezione del codice Cesenate u ti minorem, in lao­go di et minorem: Varrone stesso se 00 »err| parlando delle lepri : Paucos sei lepores mares, utifoeminas intromiseris•

(8) Ideo duo vilicei, aut tres habendi. Fere operari modo» et bubulcei proportione addun- dei. Questo testo è per verità diverso dal nostro, ma esso è trailo da puri fonti ; perchè nei codiri di Poliziano € della Lanrenziana si ha : Ideo . . . . habendi. Fere (e nrglj stessi, come altresì nelle prime edizioni) bubulcei proportione addundeii laonde demendi vtl sono aggiunte proprie sol­tanto di Aldo. Fere %i prende alcune volte in significato di plerumque. Cicerone adoperò l'av­verbio fere in qoeslo senso nel lib. 11 de ìnoent., dicendo ut fere f i t ; come anche lo usò nel lib. li de Oratore : Semper fere cum aliquo rustica- ri. Dice Varr.ooe adunque che.il nupaero degls operai e de' bifolchi è da adattarsi per lo più al- l1 estensione del podere ; perciocché chi ne dimi­nuisce il numero, mostra chiarandénte di avere sbagliato nel numero : e sarebbe taociato d ' impe­rito chi provvedesse per una tal data tenuta dieui operai, quando ne bastano quattro, e che perciò fosse nella necessità di levarne sei.

614DI M. TERENZIO VARRONE

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ANNOTAZIONI AL. LIB. 1 DE BE RUSTICA 8 * 6

(9) Sin est ita dissimilis. Scaligero ha pre- teio di aggi aitare il lesto n d leguente modo*: Sin est ita dissimilis, u t'totus arari non possiti quod sit confragosus ; atque arduis clivis. Ma ia verità è da leggersi : A d minoris, ad majoris modos fundorum iei quoque, sei similis est ager. Se in autem ita deisimilis, uti arari noft possit, quod sei confragosus, atque arduis cleiveis, meinus multei opus sont bòves et bu­bulcei. In luit' i codici della Laurenziaoa e di Poliziano ai legge : A d minoris pari­mente ne'saddetti codici e nelle tre prime edi­zioni si ha : Sin autem . . . . uti arari ; dal cbe e facile congetturare che sin esi e totus sono parole di Aldo : sono pare di Aldo ut si sic con- fragosus, e arduus, diversamente leggendosi uegli accenuali. codici e nelle Ire-prime edizioni. Aggiustalo in questo modo il testo, il lento è chiaro, oltre l ' essere genuino.

(10) Nel codice Cesenate si ha inicio : nelle Ire prime-edizioni, in Poliziano* e in due codici della Laureniiana initio. Neque modicum in tulli, nel solo A4do nec modicum. Che inicio ai scriva con un polo 1 di mezzo, si ha da Cice­rone nelle lettere, dicendo : Cum mihi in ser- monem iniecissct, se velle Asiam visere : e al­trove: Bruto cam saepe iniecissem de ó uoTXo/a.

(u ) Modicus, enim centuria. Siamo dovuli andar per- le luughe per tradarre queslo passo, che così è spiegalo da Gesnero : u Credo modius, quod post Victorium proditos libros insedit, sphalma esse typographorun) improvide repe- ti tura. Modicus modus, hoc eit ille modus (scho­lastici quantitatem dicunt), qui modum alii) praebet, mensura mensurans, et norma normans, est centuria cc jugerum, a quo numero sexta pars modi Catouiani abest, idest x l ; neque ta­men apparet, quomodo de summa hominum iu formula Catonis proposita sexta pars dematur, ut servari adeo queat proportio. *

Pontedera inclina a leggere così : E quo cum sexta pars absit ea xl quae de ccxl demuntur.

(12) Nonip de numeris et casibus cita queslo luogo senza la particella in, Carisio nel lib. 1: Ju­geribus quidam Grammatici itp dicendum pu­tant, quasi sit hoc juger, tamquam hoc tuber. Varro R. R . lib. 1 ; jugeribus saepe dixity quod utique descendit a juger ut tuber. Noo io ciò cita senza, i/z, quantunque non sia mestieri le­varla ; ma riguardo al numero degli schiavi non discorda da Varrone, quantunque pello slesso Catone si troti il numero xvi.

Questo luogo per altro è da leggersi altra- meuli : Quod autem ait c jugeribus veinearum opus esse x r mancupia, sei quis habebit cen- luriam, quae deimidiónx veincti dtimidiom

vleiveti, secueretur, uti duo pilicos, duas vili- cas habere deberet Nello tre prime edizioni • oei cojici di Poliziano e dfclla Laurepziana man­

ca sit avanti <Uimidiomy e questa parola e lotta di Aldo: habere deberet si legge nelle tre pri­me edizioni : habere debeat in Aldo, e fuaòeat in Vittorio, e tutti in progresso hanno messo sem­plicemente habeat.

(i3) Avanti Vittorio si leggeva duos vilicet, cosi pure in Stefano, in Ervagio e in altri ; ma Vittorio coll' appoggio di antichissimi codici ha reslituito al lesto duo vilicosy e cosi pure ha tro­valo Ursino. Che le parole ambo e duo non sieno alle volle coniugate dagli antichi aerittori, ne fanno leitimonianza alcuni eterapii che qui sog­giungiamo. Afranio ( parlando di ambo) in Pan- tal*: revocas nos ambo ad praelium. Terto*» Andr. : Eugè o Charine, ambo opportune voi volo. Virgilio nella Buccolica :

u . . . . Nam saepe senex ipt carminila amba

Luserat. . . . «

e nella Georgica :

« Verum abi ductores acie revocaveris ambo. »

E riguardo a duo Q. Claudio Quadrigario pres­so Gellio disse:: Cum interim Gallus quidam. nuduSy praeter feutum, et gladios duo torque atque .armis decoratus processit. Tereozio A- delph

u Tu itloa duo olim prò re tolerabas tua. »

Accio nel Epinausimache : Mar Les armis duo congressos crederes. Presso Carisio Insiti. Gramm. lib. /, e nel libro de Analogia si leg­ge che gli antichi hauno adoperato ambo, e daoio luogo di ambos e duos ; e perciò alcune volte faono male que' librai, che vogliono in queslo proposito corregge gli antichi autori.'

( 14) Quodait singula. Orsino legge; Quod ait singula jugera quaternas operas ad confi- ciendum^ etc. Di sopra in questo stesso capo Varroue avea detto : Saserna scribit satis esse ad jugera m i hominem unum. U òpera, secon­do Pliuio, è il lavoro che fa ua uomo -in an giorno.

(i 5) Sed sei hoc in Sasernae fundo in Galla fu i t : nel nostro lesto si è aggiuulo satis, quando che de sono • prive le tre prime edizioni. Fati in queslo caso fa le veci di evenite nel qual sen­so lo adoprò Cicerone nel lib. v ad Atticum^

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DI M. TERENZIO VARRONE

Epist. aa, dicendo : Si erit ut volumus: e Orazio nel Jib. m delle Odi, Ode i :

.u Est, ut Tiro *ir latius ordtoeì Arbusta tulcis. »

Si adopera anche in significato di* solet, coraelo osò Cicerone nella lettera ao del lib. m del­le Lettere Familiari:.Quod si, u tes, cessabis, lacessam,

(iC) In: agro Ligustico* montano, Poliziano nette Ligusco,.duc oodici della Laurenziana hanno Ligus comontano, ossia Ligusco mon- tano+ e nomentano in yece di montano le tre prime edizioni. Vittorio in on oltimo e anti­chissimo codice legge Ligusco, non mai Ligu­stico, benohè.*ljrove si legga Ligusto. u. Scri­bimus ( sono parole di Scaligero ) ex veteraro librornm auctoritate, Liguico ; ot alibi semper apnd Vartonepi band ali ter scriptam model P. Victorias. Nam Ligusci, ot Etrusci. Eadem quippe analogia Liguria, E truria . Et E trurts potoit asse nt Ligures nUrsinò conferma finalmen­te cbe ne1 vecchi codici, si ha Ligusco, che forse nasce da Liguria , come Etrusco da E truria ,

(17) Scies, quantum pares, se stiamo al solo. Aldo; ma se faccianl conto delle tre prime edi­zioni e di tali* i codici, dieono quantam pa­res. Aldo riferì quantum a instrumentum , e Varrone alla fam ilia , di coi tratta appunto m questo capitolo, qoando che degli altri stra­menti ragiona nel vegnente;

(r8) Non aleam, cioè la sorte e la fortuna. Varrone in qoesto significato 1’ ha adoperata di sopra, quando disse : Ubi salubritas non est, cultura non aliudest atque alca domini vitae, et rei fam iliaris periculum.

(19) A u t minus quam alii. Crede Ursino che questa sieno parole aggionte dai commentatori.

Cap. XIX. (i)* Cato in olivetis. Catone ne parla nel cap. 10, e parimente nel lib. v delle Origini: Sed protelo trini boves unum aratrum Varrone interpreta per tre gioghi, cioè per sei booi.

(a) A d centum . È da leggersi, secondo Ur- sino, ad centena jugtra jugum opus esse, Ca­lo ad octogena, Ma qui è da osservarsi che ut Saserna dicat verum, significa si Sasernae ere»

dimtis.(3) Si Cato ad octogena* *Non senza ragione

sospetta Pontedera che dopo octogena va ag­giunto o il numero 1, ovvero unum, cioè an bue, perchè lx x x è la terza parte del nume­ro ccxl. •

(4) Sed egó ntutrum horum ad omntm

agrum convenire pmto, « Quid horum (dice Pontedera ), mi A14(% quocum glatinas, qui ve­tus casum praecedens modum, qood etiam Poli*- tianus codex, et ille qui ads* Reparatae, bec non Ambrosiaops in morum depravatum servant* su bt talis ti? Atocipitem esse scripturam non cernis; qifae tam ad anetorom modorum, quam ad mo­dos ipsos potest referri ? Reponamus itaqne ve­tera : Sed ego neutrum modum horum omnem ad agrum ( sic Politianus codex ) conveneire puto. È troppo ragionevole la correzione di Pontedera, e noi Gabbiamo adottata.

(5) Alia enim terra. Ursino ‘non ha al­cun dubbio ehe questo luogo non sia corrot­te.; ed egli lo corregge così : Alia enim terra

facilior, alia difficilior est. Alte terram prò» scindere. Ma perchè non abbiamo da seguire l ' ottimo codice di Poliziano, che ha : difficilior est. Aliam terram boves, etc. Appresso Nonio in Bura 11, ga si troVfc : B oves . . . .fracta bu­ra, relinquunt vomerem arvo.

(6) Qui è mestieri certamente punteggiar meglio, perciò il primo asino da macina appar­tiene air oliveto : dunque bisogna mettere al­meno doe ponti avanti in vinea.

In un antichissimo manoscritta ha trovato Vittorio Molendarium, e non molarifim : ap­presso Catone però si ha : Asinos plostariosii, asinum molarium . In un codice poi non tan­to antieo ha letto molendinarium, della coi parola si sono serviti pure i ^giureconsulti ; e questa è forse la vera lezione di Varrooe. Ur­sino e Popma sostengono che in Catóne non si trova molarium ; ma è da avvertirsi che Var- rooe cita il sentimento di Catone non già le sue stesse parole. Pontedera sta per molendarium^ come anohe hanno le tre prime edizioni ; e al­cuni si sono presi la licenza di trasferir mola- rium di Catone a Varrooe.

(7) In qoesto luogo non abbiamo seguito al- eono dei commeatatori, ma quello che ci è sem­brato pté- verisimile. Ma siccome non siamo ben certi di aver colto oel punto, così qui soggiun­giamo la varie opioioui.

Pecuaria. lo On vecchio codice di Vitto­rio .léggesi poculiaria, e in Poliziano pecùlio* ria ; e perciò egli vuole che si legga ; Quae solent esso peculiaria, pauta habenda. Pecu- liaria poi disse quelle còse che sono compe­rate dagli schiavi col proprio peculio ; quindi al cap. 17, disse : Ut peculiare aliquid in fun - 'do pascere liceat ; e quindi pore Ulpiano scrìs­se peculiarias res, in luogo di peculiares. Da ciò nasce il sospetto che ia Varrooe lib. iv Do Lingua Latina si debba leggere: Ut peculia­re* ovcSy aliudve quidt in vece di piculatoriae;

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imperocché, come disse Fette : Peculium ser­vorum a pecore dictum* est. Noo mi pare cbe Vittorio dice male ; é molto più perchè SU at­taccato ai codici.

Gemerò-lasciando che. gli «Uri interpretino |a voce pecuaria, dice sembrargli che Varrooe sia di parere che debbaosi alimentar nella te­nuta poche bestie di quelle che servono soltanto alla coltura del terreno, e. che noo apportano alcun’ altra utilità, acciocché si possano mante­ner più schiavi, i quali doq consumerranoo mol­to tempo dietro al bestiame, essendo in pòchis­simo numero. Cor zio ad Sallustium Jug. 88, 4, legge ea solat quae agri'colendi erunt, e lascia fuori causa. Dia non è permesso dar di eahio ai codici.

Viene adesso Pontedera, il cqi sentimentolo diremo eolie soe stesse parole, » Qui enim st toetur, non est assidua*; et contra. Illum comi­tatur pigritia, desidia, vecordia, languor, olium : bunc vero diligentia, cura, solieitudo, anxietas, labor. Commodiora ilaqoe apad Jensonium et Bruyschium habemus: pauca habenda, quo f a • cilips mancipia quae solent Sfi tueri, et as­sidua esse non possunt. Attamen ex Victoria- nis quae ex Caesenate libro confirmantur raen-

*di coarguuntur. Quid igitur ? RevolvCmiirne ad Àldum, a quo tam diversa» tam pertarbala, tam ficta, a veritate demum taro aliena excusa sunt ? Islaoe approbem et reoipiam : pauca ha­benda, quò factius tueri possint; quoniam mancipia 'quae' solent esse assidua, esse non possunt ? Quis tanta liceali* ad nobilissimum acriptorem corrumpendum'Aldum abusum cre­deret? Nara Parvus ac Gjmnicus, qui ab Aldo sumpserunt, etsi culpa non careant, minus ta­men peccasse videntur, qui Aldi nomine, quod apud omnes fama percrebuerat, decepti-errore sutcubuere. Praeclare Junta unas ex Aldinis sectatoribus, qui sé ab illis abstipuit, evertit- que, et vetera expressit. Ab Aldiois òos quoque «on sine indignatione oculos averlamas ad prir ma conversi, quae poliora habenda tum melio­rum editorum couseniu, tum etiam codicum et Victorii, et Caesenalis, et illorum quos Jenso- nius ac Junta exscribebant.Operae autem pretium eit cognoscere quanta facilitate porgentur, illu­strentur que. Unius'literae immutatione*hae om­nes turba* conticesco ut. Igitur et ad antiqnam sedem tueri restituto’, fit tuerier, cujusmodi innumera veteres carmine, ac soluta etiam ora­tione, ut indicatum e*t, psurpant. Itaque: Ad­jicientium fa pecore ea sola quae agri colen­di causa erunt ; ut solent esse pecuaria, pau­ca habenda ; quo facilius mancipia quae so- lent se tuerier, assidua esse possint, Quo plu­

8 mj

ra enim animalia io fundo aluntor, oo sseprai ab opere mancipia. avo«ntar ; doni in paacaaai agant,dum potum propellono dum stercus eve­hant, dum strameota stanno t, Q ofre qui sibi prospicit, loogam tempas terit, et negligentiae ac desidiae hoc nomihe indulget. »

Nobis ita videbatur (risponde Gesnero), Prae­cepit de Aainis. Ili non habentur nisi agri ca­lendi caaM, neque enim lac praebeat, neque la­nam, neque carnem denique ; hoc genas igknc animalia panca habeoda, quo faeilius mancipia, qoae solent ipsa se tueri, nec aliena cora indigent (u t asini'v. g. agasone) et opus esae possint in fundo, et assidua esse in opere, non onerandis agi laudili curandis asinis intenta. Itla verba? ut tolent esse pecuaria, includenda nunc viden­tor. Forte aliquis adseripsit exegipluaft anisaa- liiim, qoae non habeatur agri colendi caosa, sed mercaturae, ut fit*io pecuariis omne genus. «

Saboureux è di opinione.che il testo sia n i- ni festam en te troncato, ed ha pensato di aggiou- gere : u mais qoe pour les autres besliaux que 1' on i à an aatre fin, on.pent ics avoir eo pias grand oombre. *>

(8) Sed etiam qui non solum% etc, Questa lezione 1' ha trovata Vittorio ne' manoscriIli, e particolarmente in* an antichissimo còdice. Le editioni di Lione del i 54 i, e i 543 di Roberto Stefano non hanno seguilo Vitto rio.. Quantunque la lezione del nostro testo non sia quella dei co­dici di Vittorio, non ostante si è folpta adottar* da Aldo e da lotti quelli che veneero dappoi. Rigettalo adunque il testo Aldino, mettiamo qnello cbe trovasi uelle Ire prime edizioni, in quella de’ Ginnti, in quattro codici Fiorentini, nell’ Ambrosiano é nel Ceseoate : Sed etiam quei non*solum pratorum causa habentpre- pter stercus. Vale a dire, non mantengono il be­stiame, perchè hanno dei prati, con cbe alimen­tarlo ; ma bensì perchì é necessario aver del le­tame.

Cap. XX. ti) Budis è usato per rtfdex.Scali- ligero perde molto tecfepo o far osservare uoa cosa facile, cioè che qui si è omesso minoris quam trimos. Queste reticenze sono familiari a Var­rone.

(a) Bos veteranos.Columella nel lib. vi, cap. % dice : Infestatur bos conditione regionis, sicut ille qui ex planis et campestribus locis in montana et aspera deductus est, vel ex mon­tanis in campestria. Itaque etiam cum cogimur ex longinquo boves arcessere, curandum est, ut ex similibus patriis locis traducantur, etc. Da qaesto luogo di Columella vuoi iufertre Ur­sino che io Varroue siasi da leggere: Hos ex

daoANNOTAZIONI AL LIB. 1 PE II E RUSTICA

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DI 31. TERENZIO VARRONE

€ am pes tribu» locis emendum, non in dura ac m ontana , nec contra. WoveèhSy etc, O guano di leggeri scorgerà che Columella ha éspresso sem- plicememte il tentimento di Varrone, ieoiY ado­perar le parole di questo.

Il difficile sla io queile poche parole: Nec non9 ita s i incidit ut sit, vitandum, che hanno fatto parlar molto i commentatori. Vittorio dice che nn antichissimo ed ottimo codice discorda dal nostro testo, e che questo è.quello di alcune edizioni e d io n codice non tanto antico. Quel codice però non è intatto 4 questo luogo, nè dàlie sne parole si pnò trarne nn giusto sentimento. Fa osservare per altro che forse f i si trovano le tracce della vera lezione, giafcchè. di 'quella- dèi testo non si troya troppo contento : e quantùn­que da altri editóri siasi variata, nulladimeno non ci.hanno esibito*)» genaina lezione. Il codice adunque dice coqì i Nec nostra si incidit, etc. ; quindi propone ai dotti, se fosse da cambiarsi nna lettera, é da leggersi : NeC'contra si incidit pf sit vitandum : tale a dire, che siccome i buoi vedehi assuefatti al pianò non sono da adoperarsi nd* luoghi pietrosi e montani,, cosi pér contrario non è da temersi ehe poto riescano nel piano quei huoi che nel laoghi duri ed aspri so00 stati alle­vati nel lavoro, I* qual cosa si osserva scrupolo- sameote da tatti gli agricoltori.

£optna adotta la lezione di Vittorio, m i la splrga in senso-opposto : dice .ddnqne che i buoi vecchi non sono da provvedersi alla pianura per poi farli lavorare al monte ; nè al contrario sono da comperarsi al monte per far che servano al •' piano. In comprovazióne di ohe cita no passò di Columella del lib, v, ove dice che Omnis bos in­dìgena melior est quam peregrinus, nam ne­que paludis, nec coeii' mutatione Jentatur% ne­qae infestatur conditione regionis, etc,

Assolutamente eh*è da lodarsi la felice eon- gettara di Vittorio ; laddove Ptfpma adottandola lezione: Nec conira si incidit ut sil, vitandum interpreterebbe in modo contrario a quanto di­cono le citate parole. Non è forse vero che i buoi allevati al piano non possooo servire sol monte, non tanto perchè non vi troverebbe queU' abbon­dante pascolo, di cni è dotata il piano, quanto perchè avendo le unghie moUi e tenere, correreb­bero rischiò di zoppicare, se si facessero lavorare ne' luoghi sassosi e montani T Per contrario quelli che dal monte discendono alla pianura, paiuano in un luogo migliore, facilmente vi si assuefanno, e perchè sono forniti di unghie dare, riescono più utili in qualsivoglia lavoro e fatica*

(3) In furcas destitutas, Tutt’ ì codici esa­minati da Vittorio hanno così; laddove le edi­zioni mettono destinata in luogo di destitutas.

Nonio insegna che destitui presso gli antichi scrittori significa anche rursus statui; e dò con­ferma coll' esempio di Nevio Gimnastieo : In alto navem jubet destitui anchorisy. e con quello di Ceeilio Simbolo: Destituit omnes servos ad mensam ante se. Ursino sta per le parole in fù r - cas destitutasy.qioè, com'egli spiega, Jixasy et statutàs.; e cita un passo di Gracco in orai• de legibus promulgatis apud A. Geli: x, 3 : Idcirco plus destitutus est in fo ro ; eoque adductus suaè civitatis nobilissimus homo M, Marius, vestimenta detracta sunt, ei virgis caesus est.

Non è per altro da -rigettarsi del tutto la le­zione delle altre edizioni, che hanno destinata, la qual paròla si riferisce a’ colla; e vorrebbe dire •deligata, adst ricta,

E superfluo dajr qui 1a descrizione di' questo strumento, poiché dal volgarizzamento facilmente Se ne forma l'idea.

(4) Le. prime edizioni abbondano in.parole; e appunto q a est e ridondanza in un autore, quale è Varrone, di lingua- serrata, ci è sospetta. Essa hanno cosi : E t primum eos aequo in loco, et sine aratro, aut eà levi.simul gradi facias: et principio per ar$namy aut molliorem terram leniter procedant. Virgilio nelle Georgiche al lib. in sviluppa maggiormente questo passo di Varrooe* dicendo:

ùAc primum laxos tenui de vimine circlos Cervia subnecte, dehinc, ubi libera colla Servitio aSsoetint, ipsis e torquibus aptòs Jung e pares, el coge gradum conferre ju­

vencos.Atque illis'jam saepe rotae ducantur inanes Per terram, et spmmo vestigia pulvere si­

gnent, h

Ove è da osservarsi che nel primo verso si dice quello che precedentemente dice Varrone : Si eorum colla in furcas destitutas incluserit; o nel quarto trovasi quanto si ha in Jenson: Sim ul gradi facias.

Non ci rimarremo dal far osservare la licenza di Aldo, che contro i cpdicl « le prime edizioni dice arare fac ias , in vece di gradi facias% e dum consuescant, iu luogo di leniter proce­dant.

(5) Quos ad vecturaSy item instituendum. Se crediamo a Cresceuzio, qui manca la parola pa­ras, dicendo egli f Quos ad vecturas paras% item instituendum; Ma forte questa è un'ag­giunta di Crescenzio, perchè non se ne trova al­cun mollo nei codici, e nelle prime edizioni.

(6) Per vicum aut oppidum- Creber crepi­tus. Pontedera cbe sta attaccato alle prime edi­

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823 ANNOTAZIÓNI AL LIB. I DE RE KÙST1CA 8><

zioni, vuole cbe ù aggiùngi ubi dopo oppidum. Gesnero ha credalo di poter far di meno di .u6j, metiendo oa punto avanti creber.

(7) u Gerle non ubique *( dice Gesnero ). De Erborino Companiae nobili p rop le r fertili ta-

tenj campo Plin. xvii, 4: Idem solum ubicumque arduum operff difficile cultuy bonis suis acrius pene^ quam vitiis posseL, adfligit agricolam. Quid ti Irajectif vocibot scripseril Varro ibi non bubuf gravibus, ut in Campania

(8) Urtino è di parere che si debba leggère: Ubi non bubus grandibus 'r e si appoggia e qpanto dice Columella oellib. 11, eap. a : E t in hoc.a Celso dissentio, qui reformidans impen­sam, quae làrgior est in amplioribus atmen- tis, censet exiguis vomeribus .et bidentalibus terram subigere, quo. minoris form ae bubus administrari queat etc. M« si può difendere . rfoch'e la.comuife lezione, interpretando Nonio obe grave si prende alle volte per multum et valde. Farro, dic’ egli* ubi graves pascantur atque alantur pavonum greges. Alcuni leggono semplicemente bubus seni# raggiunta di gran­dibus. *

(9) Che gli asini si sieno adoperati ne1 tempi antichi per arar la terra, oltre che ciò si raccoglie da Varrone e da Columella, si ha ancora dalla sacra Scrittura, di coi ne cita molti luoghi Schef* fero De Me Vehic. i,,8. Plinio nel lib. xvir, cap. 5 : In Byzacio Africae illum centena quinquagena fruge fertilem campum, nullis, cum siccus est,• arabilem tauris, post imbres vili asello^ et a parte dltera jug i anu vómtrem trahente, vidimus scindi.

(10) Exinde u t pabuli. Ursino vnole che si legga proinde ; ma Varroof si è servilo di questa voce nel medesimo significalo nel cap. 24 di que­sto libro.

(11) Pontedera, che noi abbiamo segnilo, è di parere che si'debba leggere nec valentiora. Di fatti se si fa seria altensione a qoeslo luogo di Varrone, è chiaro che qui deve slare necy ovvero no*equivalente particella negativa; perchè in un .terreno montioso e duro non torna conio al pro­prietario mantenervi buoi forti e per conseguenza di valore, non tanto perchè un terreno sterile noo ricerca armenti di tal fatta, quanto ancora, perchè un arido e sterile terreno non può dare abbsslanza per mantenere buoi robusti e grandi, e che perciò mangiano di più. luollre Varrooe ha dato per precetto che : Si fandus sit confra­gosus atque arduis clivisy ivi bisogna avere po­chi buoi e bifolchi. Ma molto ciò si fa manifesto da qaanto vien dopo : E t potius ea ( paranda ) quae per se fructum reddere possint, cum id operis faciant. Se dunque queslo lavoro si può

far è non tanto da buoi forti, qaanto dalle vtoche,o dagli asini, ognun-vede che non torna conto

avere i primi, ma bensì vacehe ed àsini, perché a costano e mangiano meno; laonde devonsi piut­tosto comperare :*Quae plus fru c tu m reddera possint, per la ragione che i buoi servono, sol­fante ad arare,, quando che le vacche col latto sornministrrfno altri proventi, è danno de' viteUi, e gli asini servono aucora a girar la macina e a porlar dentro la tenuta, o a trasportarne faori e i prodotti t quanlo fa mestieri nella medesioia.

Cap. XXI. (1) E t interdiu clausos dormire. Le tre prime edizioni e parecchie delle posteriori aggiungono dopQ dormire: E l catena vinctos: ut soluti acrioreifiant. Non trovandosi ia alcun codice, è facile congetturare che saranno di alleni mano»

(2) De indomitis ....faciundum. Scaligero vuol* togliere di mezzo l'ultima parolafaeiun - dunwy asserendo che dal lemma è passata nel te­sto ; il qual lemma aveva coti 1 S i prata sunt in fundo, pecus non est, quid sit faciundum. Se­condo lai Vàrrctae aveva scritto: De indomitis quadrupedibus, ac pecore: si prata sunt in fundo* come di sopra avea detto: De fam ilia : Cato dirigit.

È mestieri intrattenersi sa questo pasto al­quanto, onde con una qualche verisimigliàpia sa

adotti qtfanto. può essere di Varrone, resti tuendo quanlo gli altri capricciosamente hanno rigettato.

Negli antichi editori si trova prefisso a questo capitolo tale argomento: De indomitis quadra* pedibus: de pecore instructo a t canibus hoc faciundum. Ne' codici di Vittorio e nel Ceseoato queslo .titolo si riduce a piò poche parole, cioè, come abbiamo nel testo : De indomitis quadrm- pedibus, ac pecore faciundum. U titolo, che ha un anlico codice.(quantunque bisogni confessare che non sia di Varrone), fa sospettare che queslo capitolo fosie»uria volta diviso ia due parti, nel- 1' una delle qaali si parlasse dei cani, nell' altra si trattasse del pascolo; perciocché 1*argomento del capitolo è il seguente: 'De canibus : sina

- quibus villa parum tuta sit. Posto questo argo­mento antico, dimando ora, ove si parla in que­sto 'titolo de- quadrupedi, che non si addimesti­cano ? ove del bestiame ? ed ove del pascolo? E perchè si tralasciano nel Jeratna di un capitolo al breve, quando che gli altri 4itoli, quantunqno sieno ibolto concisi, pure non lasciano di-accen­nar sommariamente quanlo si tratta nel capitolo P Certamente che ciò si è Fatto non senza ragione ; anzi è un indizio certissimo che si sono omesso le altre cose nel lemma, perchè appunto manca­

vano nel capitolo.

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DI M. TERENZIO VARRONE 8 * 6

Mi i toglier* >0401 questione, appoggiamoci ai codici di Vittorio. Egli ci dice che in codici aolichi ti trovaoo gl’ iodici dei capitoli distri­buiti 0*1 tegnente modo ; cioè che tra T indice del cap. ai De Canibus, e 1’ altro del cap. aa in­titolato De Muto Instrumento, si trovano isolate e non attaccate ad alcan capinolo le seguenti pa­role : Si prata sunt in fundo, pecus non est, quid sitfaciendum . Coosta dunque che il cap. ai era distribuito In dne parti distaccate, le quali in progresso si sono unite. Ora è da cercarsi, posti suddetti indici, qnanto si trattava nella prima parta, e quanto nella seconda. Nella prima è chiaro che si parlava dei cani, e nella seconda si insegnava : Si prata sunt in fundo, pecus non ett, quid sit faciendum. Ove dunque si fanno parole de* quadrupedi, che non si addimesticano, ed ove si parla del bestiame ? Dunque è da con­chiuderai cbe tanto le parole dell1 edizione di Genson : De indomitis quadrupedibus, de pe­core instructo ac canibus hoc faciundum , come quelle di Vittorio : Deindomitis quadrupedibus, et pecore faciundum non sieno di Varròne? Cosi appunto è da dirsi, se si prendono quali pa­role del titolo ; quali genuine e Varroniane poi, se si considerano come una conclusione ed un epilogo di quanto erasi detto anteriormente. Si­mili clausole si trovano sovente in Varrone.

Concludendo dunque, diciamo che Varrone dopo di aver trattato del modo di addimesticare i giovenchi, che dopo di aver parlato del bestia­

me, considerandolo come un istrumento del fon­do, e che finalmente dopo di aver detto dei cani, conchiude dicendo : De indomitis quadrupedi- bus, de pecore instructo ac canibus hoc fa - ciundum, u t dixi. Le ultime parole ut d ix i sono state trovate da Stefano io un antico codice, e si sono aggiunte anche nella edizione di Basilea.

(3) Avanti Vittorio, ecco il lesto che correva : Si prata sunt in fundo, neque pecus dominus habet, etc. Noi vi abbiamo inserito dominus, perchè Varrone trattando dello stesso argomento nel lib. 11 non lo omette: Propterea quod pabu­lum in fu n d o compascere quam pendere, ple­rumque magis expedit domino fundi.

Cap. XXII. (1) In vece di scirpo, Pontedera vuole che ai legga sparto. Veggasi su di ciò il csp. *3.

(a) Nonio accenoa questo luogo, dicendo: Tegetes m tegendo. Farro de He Rustica lib. 1: «• Sic quae fiunt de canabi, lino, junco, etc. n

(3) Al cap. 10, ove si ricorra per aver mag­giori dilucidazioni.

(4) Su di ciò si ricorra ai cap. iu, ia e >45.(5) Pontedera noo vuole cbe si legga ex aere

M. T eukizio Vaiiopb

ahenea, ma ex aere aena> poiché In Genson «si ha ex aere ahena.

(6\A d multitudinem. Queste parole, secondo Ursino, sono state aggiunte..

(7) Ferreas. Gesnero a questo luogo di Ca­tone rende ragione perchè siasi da leggere fu r ­cas e non ferreas.

(8) Di questa parla Varrooe al cap. 11.(9) Fasa torcula e non torcularia ripeti

nnovamente Ursino che si ha da leggere.(10) Valorosamente difende questo numero

dt'cu le i V ab. Compagnoni alla nota 1 del eap. 11 di Catooe.

(11) Veggasi intorno le falci la tradazione di Catone, pag. 144'

(ia) Opus esse sex. Vittorio avverte eh*è da correggersi opus esse x&, perchè trovasi appunto tal oumero in Catooe. Olire di che in nn ottimo codice di Varroue trovansi le tracce del numero quarauta.

(13) Avanti Vittorio si leggeva Rusticariae. Festo dice : Rustum ex rubus.

(14) Ursino inclina a leggere: In urbe domi-« num, villicum contra ea ruri omnia suo quae­que loco posita, etc.

(15) Q^ae non possunt esse sub clapi.~. oportet. Secondo Ursino abbonda oportet. Pon­tedera congettura che invece di sub clavi debba stare sub tutelam, perchè nè1 codici antichi si trova sub elam, e subelam. u Ut enim tutor ( dic' egli ) alieni patrimonii custos dicitur, sic villicus rusticam suppellectilem, quam sibi cu­stodiendam tradit dominus, tueri debet. Se<) quoniam multa suot, quae sub tutelam villici esie non possnnt, sive quia magna clauso loco conti­neri nequeant, nt plaustra, aratra, sive quia in quolidiauum operariorum usom requiruntur, adjectum est certo in loco esse oportere, et om­nium in oonspeclu. Quare prisca forma habeto : Quae non possont esse suptutelam, quam ma- xume facere, ut sint in cQnspectu, oportet.

Cap. XXIU. (t) E t quoniam . . . . quadri- partita. Senza ragione vorrebbe Ursino esclu­dere la particella et come di più; ma il nostro autore suole spesse volte cominciare il periodo da et, di coi se oe ha un esempio al cap. 37 di queslo libro. Quejla divisione quadripartita è stala propoila avanti al cap. 5.

(a) Rectius enim in tenuiore. Queslo pre­cetto è stato copiato alla lettera da Plinio nel lib. xvm, quantunque taccia il nome di Var­

rone.(3) Con questo luogo di Terenzio ai può cor­

regger Plinio, il quale nel lib. zvm, cap. 17, coti scrive : Subtilis est illa sententia^ seren-

a9

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ANNOTAZIONI AL UB. 1 DB RE RUSTICA

da ea in tenuiore Urrà, quae non multa in­digent succo, ut cytisus et cicer, exceptis le­guminibus, quae velluntur e terra , /ioti *«6- secantur, «nrfe legumina appellata, quia ita leg*ntury etc. È dunque da leggersi in Plinio : ni cytisus, e/ cicere excepto, legumina, quae leguntur e terra.

(4) In lingue italiani svanisce P etimologia di legumen, così detto da fcfe, cioè da racco­gliere.

(5) Quae cibi sunt majoris. In tulle le edi­tioni anteriori e Vittorio si leggeva succi, in luogo di cibi. Dall’ aver egli (rotato in tatti i codici aeritto Ibi, he felicemente congetturato cbe si debbe leggere cibi. In an codice non tan­to antico, dopo majoris ai trova aggiunto vir­tutis, è di sopra è passate in silenzio la parola Mucci> ovvero cibi. Elegantemente ose' Verrone il traslato di cibo ; il che usò acche Lacreiio nel lib. i, verso 354 :

* Qaod cibus in tota usque vel ab radicibus imis, Per truncos ac per ramos diffunditor omnis, n

Cosi pare Plinio chiamò le piogge il cibo degli alberi e delle foglie, dieendo al lib. xvii, cap. a : Imbris pero tum expetendi evidens causa est, quoniam arboresfoetu exinanitas, et filiorum quoque amissione languidis naturale est avi­de esurire. Cibus autem earum imber. Lo stesso pare dice Teofrasto in, a6, de c&us.plant.

Ursino e Scaligero fanno plauso a Vittoriq per aver corretto il testo, metiendo cibi.

(6) Cum nec dum siliculam . In tali' i codi­ci Vittorio ha trovato : Cum dominus siliculam: cusì pare hanno le tre prime edizioni. Vittorio oon festa ohe qui manifestamente v* è errore; ma egli non ardisce introdurre alcuna corre­zione. Scaligero poi non è tanto timido; e a dirittura cancella dominus, e legge : Cum sili­culam coepit* Ursino dubita se sia da leggere, siliculam incepit, o siliquare coepit, appog­giandosi a quanto dice Pliuio nel lib. xvn, cap. 9: Inter omnes autem constat, nihil esse utilius lupini segete, priusquam siliquetur, aratro vel bidentibus versa, etc. Veggasi Varrone in qaesto stesso libro al cap. 3 i. Popma cambia dominus in non nimis, perebè Terenzio poco dopo dice : Si ad siliquas non ita pervenit, ut legere expediat; e ti fa forte col passo allegato di Plinio, e con quanto dice Catone : Quod granum capiate e Ramum, quem radicem ca­pere voles. Salmasio pure ita con Popma, leg­gendo con pooe differenze: quando minus si­liculam cepit.

Pontedera con molto ingegno spiega le pa­rola dominus in significato di donec. « Qaae modo ab Aldo ( dic’ egli ) edite ad hanc aeta­tem per omnia votumioa propagete sunt. Non ea licentie abusi qui primi Varronem per fo r ­mas, nt dicunt, exfttdeaditra curarunt, Jenso­ni ai nempe ao Bruyschìnt : qaod in • manoscri- ptis erat, cura fide expresserant : Itaque lupi, nurh cum dominus silicàlam cepit. Qaam scri- ptaram ex canclis codicibus aSert Victorius, eam in Veneto qaoqae reperiatur, nec non in Cae- senate. De qua dictione dominus qoid censeas, sive ut verius dicam, quid conjieiana indicabo. Opinor igitur donicum fuisse, qood a prisci» Latinis pro donec «turpatura ab bomiooaa me­moria cum evanuisset, secala aetas snae impe­ritiae nimis indulgens, quia nihil aptias quod ex illo conglutinaretur, occurrebat, in dominus deformavit. Neqae iste error hec solo exemplo patet : asserit Victorias saepe in hac voce a li­brariis esse peccatam, ut es Lacreiio ostendit atque ex Catone, apud qaem donicum solatum erit in domino curn solutum ir i t inverterant. Itaque lupinum cum donicum siliculam ce­pit; rei : lupinum donicum siliculam cepit; at enim in illo Catoniano donicum factam do mino cum, ite hio cum dominus ; videlicet qaoad siliculam ex flore emicantem ostenderit ( at de asparago Cato : usque licebit vellas, do­nicum in semen videris ire ) inarato. Si enim ad siliquam -pervenil, nihil vel param ad ster­corationem refert n

(7) Quae sunt fructuosa propter volupta­tem. Pontedera vorrebbe caogiar propter in praeter, e si appoggia a quanto disse M. Te­renzio nel cap. 7 : Quae specie fiu n t venustio­ra, sequi ut majore quoque fru c tu sin t ; u t qui habent arbasta, si sata sunt in quincuncem propter ordines atque intervalla modica. Egli aggiunge che, oltre il diletto che arrecano i fiori, qnesti si vendono, e in tal gaisa rendono frutti­fero il terreno.

(8) Scaligero vuole che si legga cosi : Item il­la quae ad hominum victum, ac sensum dele- ctationemque non pertinent, neque ab agris utilitate sunt dijuncta, idoneus locus eligen­dus, ubi facias salictum . Egli rende ragione di qaesto cangiamento, dicendo che il talee to nè può servire per nostro nodrimenlo, nè poò dilet­tare i sensi. Ma oguun vede che facendo punto fermo avanti idoneus, si distacca un sentimento dall’ altro.

(9) favam . E da leggersi ubi, secondo il parere di Ursino ; imperciocché il sentimento di­pende dalle anteriori parole idoneus etc. Forse forse non ha tutto il torto.

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( io ) Lo flesso Urtino vool che si legga: Item alia, quae arida loca sefuuntur, sic ut umbro­sis locis aita se ras, ut corrudam : quod ita petit asparagus : et apricis, ut ibi se ras pio* lam, et hortos facias^ quod a sole nutricantur* Ma nemmeno cosi è da leggerai, poiché altra- meati e 4« Uriino e dal ooitro tetto si ha Delle tre prime edizioni, in qoella de'Giunti, Mi co­dici Fiorenti fri, nel Geseoatc e nell' Ambrosiano : Seic u ti untbroseis loeeis alta seras, u ti coru­da, quod ita petit asparagus : et apreica, uti ibe seras violam et hortos facias ; quod ea so­le nutricantur. Che P asparago arai i luoghi alti, ce lo insegna anche Catone nel cap. 6 : Seicubeio ieis locis reipae ........ibe corudam serito. Gperekèi laoghi ombrosi abbondano a ocbe. d'umi­do, e perché il sole non li prosciughi, quiodi Co- lamella nel lib. xi, cap. 3, iotegoa che i semi de­gli asparagi Uliginosis e contrario in summo porcae dorso collocanda ; e rende la ragione perchè debbano mettersi nella sommità della porca, dietndo ne humore nimio laedantur. Dunque per tatte qaeste ragioni dorrebbe leg­gersi alta.

( n ) Unde viendo quid facias . Tatte le edi­zioni, eccettuate quelle di Basilea e di Gimnioo, hanno utendo, in luogo di viendo. Nonio dimo­stra eh' è da Reggersi viendo, del cui verbo ne spiega la forza e il signifieato al lib. u, pag. 189 dell* edizione di Mercièr, dietro 1' autorità di M. Varrone, di cui cita questo luogo, dicendo Fiere, vincire, inflectere. Varro de R. R. lib. 1. Lo •tesso Varrone de Lingua Latina spiega 1fiere per vincire. Viere ( dice ) vincire, a quo est in Asoto E n n ii: ibant malaci viere veneriam corollam . Parimente Festo: Viere alligare si- gnificaty unde vimina et vasa viminea quae vinciuntur ligata.

Me se felicemente abbiamo restituito a Var­rone ciendo, e se ora il significato di questo ver­bo è chiaro, non lo è così la lettera maiuscola L avanti quidy che trovasi in un antichissimo co­dice. Vittorio confessa di non saperne P uso. Scaligero pretende di averne sciolto il nodo al cap. 5 a di questo libro. Frattanto diremo con Pontedera, che forse sono le reliquie di aliquid. Anche nel codice Cesenate si legge L quid facias.

(ia) Ursino vuol leggere qualos, in luogo di vallos. Gesnero fa derivare vallus da vanno, come villum deriva da vino, catella da catena, catillus da catino, pulvillus da pulvino, bellus da bono e beno, e ullus da uno Anzi, eontro Popiuione di Ursino, sospetta che qualus sia

nato da vallo.‘ ( i3) Ubi aucupare. In sentenza di Gesnero

sarebbe meglio dire aucupere.

6*9

(i4) Sic ubi cannabim . . . . paleas ...fune** Differenti sodo le congettsre de’ commentatori sopra qoesto luogo. Ervagio odia sua edizione ha aggiustato il testo così : Sic ubi cunnabiwi, linunf, juncum t spartum, unde lineas, restes, funes facias, quibus nectas boves, paleas ; et alia quaedam loco eodem, et alia ad serun- dum idonea. Budeo a Sla pel ne' commenti sopra l'istoria delle piante di Teo fra s lo lib. l, cap. 8, e Gailandino de papyro c. 9, pag. 373 e seg. in luogo di paleas leggono soleas, dicendo che si formano delle scarpe, colle qaali s* investono i piedi dr.' buoi, quaado sodo offesi. Schoettgenio dioe che in Colamella lib. vi, cap. ia si accenna» no qaeste scarpe pei baoi, ivi leggendosi ac so­lea spartea pes induitur.

Queste congetture per altro-non mi finlsoone podio, ma piutlotto mi piaoe la congedare di Pontedera, di coi però non n’ èben certo. Ecco­la qualunque si sia colle soe stesse parole: « Din multumque tota ingenii mei ade contendi, ut qoid ex iis stiepibas eontexeretar, appellarelar- que palea, cognoscerem: operam tamen, el labo­rem losi. Nune nescio quid drea palearia quod in torque ad jugum anneoteodum babos implica» retar, paleae nomen a palearibus ductum occur­rebat : nunc cam Gailandino Badaeoque Stapelio non paleas, sed soleae quibas ex sparto junoove i q lex lis claudicantis bovis pedem induunt armen­tarii, ut esset conabar. Verum alrumqae e vesti­gio displicebat. Animadvertebam enim soleam inter fuoes et lora nen proprie poni, neque rater quotidiana in* tra meata quod perraro uso veni­ret : ilem paleas a palearibus neo commode fin­gi, nec licere sine exemplo, idqae ex verteram mouamenlis non superesse, qaamvis molti ita de re rustica seripserint, nt si nomen in villa habuis­set palea, locamqae inter funes, vel minas at(en~ dentibus aliquando excidisset. Hinc alia aUjae alia diligenti meditatone animo volvebam, et cam malle fingerem, ae refingerem, delebam continuo omoia. Qooties etiam tentavi ex Aldo (qui hoc esemplo Varroniana miscaerat: Ubi cannabim , linum, juncum, 'Spartum, unde li* neas, resteisy funes facias, quibus nectas boves. Paleas et a lia) quod scripsisse non poenileret, vel invenire, vel comminisci? Cum ad capnt xxn abi de stirpibus ad texendam aptis traotalar, regressas Varronem vidissem nsrrantera quae fiun t de cannabi, lino, junco, palma, scirpo, ut funes, restes, tegetes, stati m in animam inda-xi paleas esse a palmas vel palmam deforma­tam ; qaod praeter Varronem, molta ex palmi* fieri aactores sant Colamella, Pliaias, et alii. Non praetereundam tamen videtnr esse in illis qoae de capite xxn commemorabam, qood non

63#DI M. TERENZIO VARRONE

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ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE RE RUSTICA 83 a

acque ao caetera probem. Unam éoim eaademqM stirpem faine f eteribas juncum ei icirpom (oam hoc tempore in plora genera a nòbis separantur) qais ignorat? Propter qaod vel delendam scir­po, ut iu ulroque loco eodem quae ad e9sdem ti militer c a m laudantur, inter te conttent, io sparto mutandam. Hac ratiooe palma paleae manas commodiut implere poterit, dummodo atraque similia pariter ordioeolur, ut palma quae capite xxii sparto adnectitor, capite xxm cam eodem copuletur, Columella eliam palmam a* sparto non separante, n

(t5) Quaedam loca eadem alia ad serendum idonea, u Eadem (avverte Getuero) primus casus est, alia quarius: sententia, quaedam loca simul ad diversa serenda sunt idonea, w Pontedera vorrebbe cbe meglio si distinguesse : Quaedam loca eadem, alia ad serendum idonea.

(16) Desitis seminibus. Vittorio avverte che gli antichi codici hanno dessitis. Non è contento per altro nè della comune lezione, nè di quella dei codici. Scaligero spiega che desita semina « sant in agro surcnlario deposili malleoli ; neqae mendum est in bac lectione ; nam deserere, in terram deponere. Tibullus :

u Nam veneror, sen stipes habet desertus in agris, Seu velai in trivio florea seria lapis. *

Nam desertus et desitus idem ab origioe. n Ursi­no aggiunge che non fa mestieri cangiar questa lezione; solo vorrebbe leggere dissitis. Pontedera si attacca ai codici di Vittorio, e legge dessitis.

(17) De sationibus. Ponledera pensa che que­ste parole sieno state aggiunte dagli espositori. Catone parla di ciò nel cap. 6, e lo cita Plinio nel lib. xvn, cap. 7, con queste parole: Catonis haec sententia est, in agro crasso et laeto

Jrumentum seri, etc.

Cap. XXIV. (1) Ecco qui uno di quegli etera- pii, di coi se ne trovano molti io Catone, il quale mostra che la divisione dei capitoli si è fatta sen- x1 alcuu fondamento, poiché il principio di questo capitolo è il seguito di un passo che si trova in no .solo e medesimo capitolo di Catone. Noi di­remo qui una volta per sempre, che non ci è parso bene cangiar le divisioni de1 capitoli, perchè •e questa massima ti adottasse, bisognerebbe can­giar le divisioni di quasi lutti gli autori sì sacri, che profani ; il che farebbe che le prime edizioni noo ci servirebbero più. Avvertiremo però all1 oc­casione ove queste divisioni non avranno luogo.

II capitolo dunque 24 comincia Stolo ad haec. Aldo forse persuaso che non avesse luogo quesU divisione, ed altronde vedendo necessario oo

verbo, aggiunse all* ottima parola delT antece­dente capitoloyèrf, qaando che qoi deve ioteo- dersi il verbo serere, che trovasi io fioe di qae­sto primo periodo.

(а) Oleam conditaneam . Catone oel cap. 6 ha conditivam, e così pure legge Plinio nel lib. xv, cap. 5 ma Nonio iu questo luogo di Varrooe leg­ge conditaneam, e interpreta t}oeir oliva quae condi, pel condiri possit.

(3) Colminiam. Catone nel cap. 6 ha Colmi nianam , come pure Plinio nel luogo suaccen­nato.

(4) Nisi qui inventum. Plinio, oel lib. xv, cap. 5, dice : Spectare oliveta inEavonium lece exposito solibus censet. E nel cap. 6: Nec ulle alio modo laudat condi olivas opti me orchites et pausias, quam vel virides in m aria , vel

fractas in lentisco, etc.(5) Licinianam seri oportere. Ursino ei av­

visa che in an vecchio codice ti legge oportet* e non oportere* Plinio, nel lib. xv, cap. 3 , ha Liei• niam per Licinianam .

(б) In nn ottimo codice di Poliziano, in un altro Fiorentino a nell* Ambrosiano si ba ei fe ­rendo: in tre altri codiei, cioè nel Cesenate, oel Fiorenlino-Laurenziano e in qaello di s. Reparala si legge ei serendo : laonde è da leggersi : Sei ia loco craso et caldo poseiveris, hostom nequam fieri, et exsferundo arborem perire. È già noto agli agricoltori che gli alberi col troppo frollare muoiono. Per altro effero per produco io ado­pera anche Cicerone nel Bruto: Ager, qui mul­tos annos quievit, uberiores fruges efferre solet.

(7) E x uno facto olei reficitur. Gesnero in­clinerebbe a leggere conficitur, ovvero efficitur.

(8) Exinde u t vasa. Abbiamo già avvertito nelle note al cap. ao, che exinde si adopera da Varrone per proinde.

(9) Catone ha circum coronas, io laogo di cireum fundum . Coo qaesto passo dunque di Varrone si spiega la parola corona.

(10) Un de fro n s ovibus. Le parole di Catone tono uti frondem ovibus et bubus habeas, e perciò non adopera il cato retto. È da tcriversi fro s senza /1, come insegna Carisio lib. 1 Gramm . Inst. dicendo: Fros, sine littera n, ne fac ia t, inquit Plinius* frontis. V arro Rerum Rusti­carum lib . / .* Ulmos ac populos unde est fro s . Idem Antiq. Roman. lib« xr: fro s , foenum , messis.

(11) Sed hoc neque .... sine detrimento, u Il­lud sed ( dice Pontedera ), cum interpuncto prae- cedeule si tollas, concinnior erit oratio, et respi­ciet ad verba, quod Cato ait. Certe ant hoc sed, aut quod illud periodum inchoant abest rectius.

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833 DI M. TERENZIO VARRONE 834

Alio modo sepe Moda sunt : Sed hoc néque in omnibus fundis opus est^ neque in quibus est opus propter frondem maxime. Sine detri­mento.

(12) Sine detrimento .... plaga* etc. Il senso vuole che dopo ponuntur si metta nisi, che forse si sarà perduto. Verrooe obbietta due cose al preoetto di Catooe * nella prima che non in om­nibus fund is opus esse, perchè alcune tenute possono esser senza alberi ; dappoi che anche in quelle che ne abbisognano, a motivo delle frondi, non posse.poni sine detrimento; e perchè? perchè colla loro altexia faono ombra a intercet­tano i raggi solari; e perciò queste piantagioni non ai possono fare nisi septentrionali plaga, ovvero parte, perchè così hanno le Ire prime ediiioni e il codice Cesena te.

(13) Catone ne parla nel cap. 6. Qni è chiaro che parla Stolone.

(14) Aptam esje utrique éandem. Ursino vorrebbe che si leggesse: Apta esse utrique eodem.

Cap. XXV. (1) Qui locus optimus. Queste cose sono già traile da Catone, e per intenderle pienamente, ivi si ricorra. Siccome ibi si legge anche in Catone, così Pontedera vorrebbe che del pari in Varrone si dicesse: Soli, ibi aminaeum; e mollo più, perchè Marco Terenzio è solito tra­scrivere le parole di Catone come apparisce anche in queslo capitolo : Qui locus erassut sit et ne-. bulosus* ibi amineum majus.

(2) E t de his. Queste parole abbondano, se­condo Ursino: di fatti non si trovano nè nel cap. 6 di Catone, nè uel lib. ìv, cap. 4* di Plinio.

Ca». XXVI. (1) Secondo Ursino è da leggersi observatur : in alcune edizioni si trova figatur per tegatur, eh1 è dei codici. E chiaro già, che ridica è posta in sesto caso.

Le stesse cose insegna Plinio nel lib. xvn, cap. a; con questa differenza però, che le vili non sieno difese dall’ aquilone, perchè il soffio di queslo vento rende più forti e più robuste non tanto le viti, quanlo i rami delle medesime. Qual differenza poi passi tra V aquilone e il setlenIrio­ne, la insegna nel lib. 11, cap. 47.

(2) ll/eque propter eas. Scaligero dice che in grazia del sepso e dei codici aotichi è da leggersi eos, poiché qui intende di riferire il discorso ai cipressi. Imponunt è messo in luogo d' interpo­nunt. Budeo a Stapel ad Theophrasti hist. plant. iv, 6 spiega imponunt nel significato d 'in­terponunt: egli pure adotta la correzione in eo/, la quale è parimente confermata dal codice Ry- ckiamo. Vittorio ei avverte che l'antica lezione

4 : Neque pròpter eas ut adseruntf e t c e che di aopra ai legge eos.

Scaligero insiste di nuovo, e dice che non è da lasciarsi V antica lezione : Neque propter eos ut adserunt vites. Spiega egli aduugue: «* Neque, inquit, propter eos ordioes ila adseruntur arbo­res, ut adseruntor vil.es almi» maritandis, qaae dicuntur propterea aiKitae vites. Compendiose igitur suo more dixit, prò, Neque propter eoa ordines eupressorom ita ponuntur vites, uLadseri solent ulmis, Hoc est. Non maritandae sont co- pressi illis vitibus, sed' interjiciendi ordines vi­lium, ut vitae non adsitae ad cupressos videan­tur, quemadmodum ad ulmos solent;*sed at cu- pressos scandant, ut in rumpis et traducibus fieri solet, n Gesnero non ha voluto distaccarsi dalla lezione Vittoriana : eas si riferisce a eupressos: lasciando Scaligero ut è slato nella necessità di dare al verbo adserunt un significato totalmente peculiare, e ristretto sol boto agli olmi.

Tutti hanno detto la loro congettura, la qaale però noo è appoggiata ad alcun solido fondamen­to, nè fiancheggiata da altri antichi autori, nè tampoco adottala altronde da Varrone; per con­seguenza si può produrne un' altra, la quale avrà se-uon alfro questo di buono, che si conformerà a quanto disse altrove Varrone.

Se stiamo attaccati a questa lezione, bisogna dire che la vile e il'cipresso sooo tra di loro ini­mici. Ma se la vite ha dell'antipatia col cipresso, e perchè dunque questo se le pianta in vicinanza, perchè fa le veci della palanca, e perche.si fa che sostenga la vite, o che vi si rampichi sopra ? Dun­que siamo obbligali a dire cbe il cipresso non è poi tanto inimico della vile. Il cavolo per con­trario e in sentenza di Varrone e degli antichi è creduto inimico alla vite. Così pure peusò Teo­frasto, e così pure scrisse Plinio. Ma senza vagare in altri autori citiamo la testimonianza di Varrone medesimo, il quale apertamente parla di quest' i- nimicizia ed antipatia nel Jib. 1, cap. 16: Si enim ad limitem quercetum haeret* non possis recte secundum eam silvam serere oleam; quod usque eo contrarium est natura, ut arbores non solum minus feran t* sed etiam fugiant, ut introrsum in fundum se reclinent: ut vitis adsita ad olus jacere solet. Nè piccolo indizio di tale lezione ci somministrano i codici antichi di Vittorio, leggendosi : Neque propter eos ut adserunt vites* probabile essendo che olus sia stato corrotto in eos ut.

(3) Quam hic ad quartum actum, u Nisi hac parte ( dice Gesnero ) laxatas aat corruptus eat Varro 9 quartum actum iutelligit membrum quartum divisionis supra 1, 5 propositae, de tem- poribaj, in quibas quartam ttmpas vai quartus

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ANNOTAZIONI AL LIB, 1 DE RE RUSTICA 836

(ut i, 17 loquhar) gradui est kgeodi, m q no­esi vindemia, de qua c. 54 praecipitur, ut adeo aatis matare fiscinam expedire et urnam jubea­tur Agrius; quod nescio quam inconcinnum mihi quidem videtur. Praeterea tertia haec pars libri primi • cap. a3 ad 26 multo videtur negli- geolius tractata caeleris. Ubi eoim verbum de Ais, quae ad quamque rem sunt praepara ndat qood promittitor 1, 5. Ex Catone plura inculcata, quam ad rem facere videbantur. Breviter dicam: aut egregie fallor, aat hac parte lerlia aocidit ali­quid Varroniano libro* ut non talis ad nos per- venerit, qualem vir doctissimos dederat, *

(4) Fiscinas expedi, u Fiscinis uvae ( dioe Ursino ) ex vinea in torealar portaotur et oleae, aruis vero es torculiri et Uca in dolia. Verum priusquam de fructibus agat, quartam aclum, hoc est de temporibus finit, n

Cap. XXVII. (1) Cursus annetti*. Secondo Ursioo la parola annalis abbonda.

(a) Ve re sationes quaedam fiunt. Ursino ha letto in un vecchio codice stationes; roa tanto •gli, quanto Gesnero vogliono assolatamente leg- leggere sationes. E singolare il cangiamento di stationes in sationes, quando che tuti’ i codici hanno stationes. Questa uniformità nei codici £a congetturare che la parola italiana stagione siasi votola latinizzare in statione. Noi intendia­mo per istagione le quattro parti dell1 anoo, e talvolta ancora il tempo opportuno di fare alcu­na cosa..laonde non sembra fuor di ragione it credere che le parole stationes quae fiunt sieno parole Inarginali, per avvisare che a quel luogo M. Terenzio insegna ciò che convenga fare in tutte 1« stagioni, cioè nella primavera, nell' esta­te, nelP autunno e nell’ inverno. E quindi appa­risce pur chiaramente quanto sieno pià corrotti i codici Ceseaale e di Uriioo, i quali haono oon stationes, ma beni) sationes. Di qual semina­gióne qui ai parla ? Non è egli vero che in pri­mavera non si fa alcuo semioamento ? Se ai fosso detto pere arationes quae fiu n t , non avrebbero dallo tanlo male, perchè appunto, come insegna Varrooe, in primavera si ara, non mai sì semina, floi dunque persuasi che non abbiano luogo le indicale parole, a dirittura le abbiamo omesse.

(3) E t simul glaebis a sole percalefactis ; oosì ba corretto Vittorio, perché avanti lui cor­reva capis io luogo di glaebis. I codici antichi hanno claebis, e Poliziano claepis ac. Le let­tere C t O %i trovano confuse tra gli antichi li­brai. Ursino ha trovato in un vecchio codice : E t simul glebis ab sole percalefactis. Egli in­clina a leggere diversamente : Glebas ab sola percalefactas aptiores fie r i ad accipiendum

imbrem et ad opus faciliores reddi. Neqme eam minus bis, etc., perchè aventi precede : Terram prescindere oportet. Egli cita a qaest* effetto Plinio, it quale nel lib. vl, cap. a6 dice : Terra in fu turum proscinditur, Virgilio maxime auctore, ut glebas sol coquat. Pontedera legge con Ursino : E t simul glebas, eie. Lo stesso Pon­tedera, cangiata opinione, legge in altra gain nelle sue lettere : o si ba da dire : Claebis per­calefactis ad caeler a aptiores, faciliores, rei** xatas redigenda sant ; ovvero è da frammettersi segetes, la qual parola o si è perduta, o pure a bella poeta si è cangiata dagP ignoranti corretto­ri in simul, non sapendo i varii significa ti di seges. et Hoc de segetes si dabia (soggiunge egli) et illud neqne ea in eas mutalo. Noscere etiam oportet, nt exscripsit Poiilianoi, glaebis nimirum claepis, onde vocaboli fons operitur, ex xXel*, frango, alqae àuu, terra, inserto «, al

primam, deinde aepum. Qaod enim de dura segete dum proseiuditur, magnae glebee solent exrìtari, ideo glaeba sive clatpa lerrae membrum, vel pars de terra evulsa. «

Virgilio oelle Georgiche ha espresso divina­mente le arazioni di primavera, dicendo :

a Pingue solom primis extemplo a meosibosanni Fortes invertant tauri, glaehasqoe jacentes Pulvernleota coqnat maturis solibus aestas, n

(4) Neque eam minus. Gesnero ha adottato la correzione di Ursino, perchè prima si leggeva ea per eam. Forse che la seguente lettera avrà assorbito la lettera simile m.

(5) Aestate fieri messes oportere. Secondo Uriino qui soprabbonda P al ti ma parola. Cice­rone nel lib. ìv de Repub. dice : Cumque A u ­tumno terras ad conficiendas fruges patefe- eerity hieme ad conficiendas compresserit, pe­re ad effundendas rtlaxaperit, aestate ali* maturitate mitigaverit, alia torruerit.

u Vix dubitarem ( dice Gesnero ), quin nlro- que loco legendum sit oportet ; sed adest etiam excoli commodissime. Mirum, nisi turbas hic dedit aliquis,-qui lemma adposnit,. incolcatom deinde ab alio in ipsa verba Varronis. »

Nel nostro testo si è aggiunto da Ursino opor­tere avanti secundum, parola da lui credula ne- cetsaria. Dice che invece di oportere si potrebbe anche mettere oportune.— Aestate f ie r i messes: autumno siccis tempestatibus vindemias^ ae silpas excoli; commodissime tunc praecidi arbores, etc. Questa interpunzione è più giusta.

Cap. X X V m . (1) Gesnero sì è contentato in quatto capitolo di adottare I numeri deU'edbiooe

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837 *>l *1« TERENZIO VARRONE 138

di Commettilo e di aggi anger le varienti. Noi però ia oo aliare d spinolo e difficile, abbiamo procurato di aggiungervi quaoto ne haono de Ito i dotti. Prima di tatto avvertiamo che nei no-

meri si è de noi segnilo Saboureux, come quello cbe ba procurato di rischiarare cose tanto oscu­re. Le edizioni variano mollo, come si può rac­cogliere dii seguente quadro. Genson e Braschio fanno 1’ estate di 95 gioroi, le altre ediiioni di 94' Quelle fenno l’ autunno di 91 giorno, e così pare Grifio, Stefano, Commeliuo ; laddove Aldo, i Giunti il faono di 92. L ’ inverno in quelli ab­braccia 89 giorni, e con quesli convengono Gri­fio, Stefano, Comiaelino ; ma Aldo, i Giunti e Gimnico danno all’ inverno 88 giorni. Laonde la somma dei giorni dell’ anno presso Genion e Braschio è di 366, e appresto gli altri di 365 ; il che è piò ragionevole. Qui li divide l’ anno an­che in otto parti; e in.questa seconda divisione li danno 361 giorno all’ anno tanto in Genson, quanto in Braschio, qaando debbono euer 365, come li trova in Aldo e in tulli quelli che l’ han­no leguito. Sono viiioie anche le edizioni di Grifio, di Commelino e di Stefano, formando mio 36a gioroi.

(2) Qui l’ interpamione è guasta, dovendoti distinguere coii: Quae redacta ad die s civiles nostros, qui nunc suntr prim i verni tempo­ris, etc.

(3) E x a. d. n i Id. Feb. Queite parole le cita Florenlinut Geopon. 1 ,1 , da catti rileva ehe le lettere iuisiali a. d. significano anta diente perchè Fioreo lina* mette tempre <r?J.

1 Romani nel metter la data del mete osava­no una maniera differtote dalla nottra, ettendo- ehè il mete lo dividevano io tre epoche princi­pali ; cioè avevano l ’ epoca degl’ idi, delle none e delle calende. Gl’ idi dividevano il mete in dae parti, e quesli cadevano nel giorno deeimoquinto ■ei meti di Marzo, Maggio, Luglio e Ottobre, e nel giorno dedmoterzo in tatti gli altri meti, secondo le no tira maniera di contare. Le none, e*iì chiamate, perchè cadevano nel nono giorno avaoti gl* idi, erano per conteguente il tetlimo giorno dei quattro mesi che abbiamo nomioati; e il quinto di tntti gli altri ; quindi deriva la diffèrena* delle Nonae septimanae, e delle No­nae quinianae. Le calende erano il primo gior­no di ciascun mese. Tatti i giorni, dall’ una di queite epoche tino all’altra, prendevano il nome dell’ epoca eh’ etti precedevano. Così ti diceva : ta) giorno avanti le none, tal giorno aventi le caleade, tal giorno aventi gl’ idi ; per oonsegueo» aa il aettimo giorno avanti gl’ idi di febbraio es­sendo il tette di febbraio, tecondo la nostra aies» d i contare, il giorno thè to precedeva di

cui parla qui Varrone, ante diem n i ldib^s Februariis corrisponde a’ tei di febbraio : coti pure ir Idibus M aji corrisponderà agli undièi di Maggio; rii Idibus Sext. ai tei di Agosto; e i r Id. Novemb. ai nove di Novembre.

(4) Autumnales. E chiaro eh’ è da leggerti autumnalis, come ti è Catto perai, aestivi* h f- berni, 10 Ilio tendendoti temporis.

(5) E x a. d. rn Id. Sext. Pontedera vuole che ti legga u i Id. Sext.

(6) Pontedera vuol cheti legga: Subtilius deseretis temporibus, observanda quidem sunt ea quae in partes m i dividuntur. Nelle prima edizioni ti ha descriptis per discretis.

Plioio nel lib. x v i i i , cap. a5, per f a r e questa divisione io otto parti, ti eoo tenia di dividere per metà il tempo, eh’ è tramezzo i toltiizii e gli equinozii. Quest’ autore, eome anfche Columella nel Ubt ix, cap. 14* non ti accordano eoa Vafro» ne nè intorno il namero dei giorni compresi in ciascheduna stagione, nè ini giorni, he'quali ette cominciano.

(7) Noi t i a m o s t a t i D e lla n e c e i s i t à d i d e c i f e -

r a r e m e g l io a favonio; p e r c io c c h é s e a v e s s im o

t r a d o t t o a l la l e t t e r a dal favonio , la t r a d u z i o n e

s a r e b b e s t a t a v a g a e d i n d e t e r m i o a t a , p e r c h è si s a r e b b e p o t u t o i n t e n d e r e il p r i m o t e m p o i n c u i

c o m io c i a a s o f f ia r q u e s t o v e n t o , e n o n m a i i l

p u n to * d a c u i p a r t e q u e s l o v e n t o , e d o v e v a a t r a m o n t a r e i l so le .

P u n t e d e r à p r e t e n d e «li a g g i u s t a r e i n u m e r i

n e l s e g u e n t e m o d o : A favonio ad aequinoctium vernum dies n o n x l , s e d x l v : hinc ad Vergi­liarum exortum dies n o n x l i v , s e d x l v i : inda ad caniculae sidus dies n o n x x i x , s e d x s i v : dein ad aequinoctium autumnale dies n o n

l x v n , s e d l x t i i i : exin ad Vergili arum occasum dies n o n x x x i i , s e d x l i v : ab hoc ad brumam dies n o n l v u , s e d x l i v .

(8) Secondo questi calcoli, la prima divisione dell’ anno per istagioni dà 365 giorni, quando che la seconde non ne dà che 362. Cotale diffe­renza ba prodotto in queslo capitolo una folla di varianti. Noi abbiamo tentato di conciliar non solo Varrone con sè stesso,-ma anche con Plinio, Columella e con tutti quegli autori cbe gli si sono opposti. I nostri sforii essendo riusciti vani, ab­biamo ( dice Saboureux ) stiaaato bene di consul­tare a quest’ uopo il de la Lande, come la perso­na la piò capace di accordare i varii sentimenti degli autori. Egli ne ha astunto di buon grado P incarico ; ma dopo on . matoro esame, ci ba re­scritto essere impresa inutile, come si raccoglierà dalla qui annessa risposta.

Vaaaons, egualmente ehe molti autori anti­chi, parlano spessissime volte del levare a del

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a*9 ANNOTAZIONI AL. LIB. I DE RE RUSTICA

tramontar delle stelle; ma i loro passi sono perlo piò o inintelligibili, o manifestamente difetto­si'. Generalmente si conoscono tre sorta di levate, la prima delle quali è la levata eliaca. Ogni anno il sole col suo movimento proprio d1 occi­dente verso oriente, s'incontra nelle differenti costellazioni dell1 ecclitica, che rende invisibili •gli occhi nostri, in grazia del suo splendore. Quando il sole, dopo avere attraversato una co­stellazione, è abbastanza lontano da questa per levarsi un1 oca pià tardi, la co*tellazione comin­cia a farsi vedere la mattina, levandosi nn poco avanti che la luce del sole sia tanto considerabile per farla dileguare a' nostri occhi. E questo è quello che si dice levata eliaca o solare delle stelle. Parimente il tramontare eliaco accade quando il sole si avvicina ad una costellazione, perchè avanti che l ' abbia raggiunta, essa cessa di farsi vedere la sera dopo il tramontar del sole, perchè essa tramonta dopo questo pochissimo tempo dopo. Rendesi necessario soprattutto, per la intelligenza della Cronologia e de' poeti, di avere un' idea di questa levata eliaca.

Il levar di Sirio, da aooo anni a questa parte, accadeva in Egitto verso la metà di estate, quan­do dopo uoa lunga sparitione qaesta stella co­minciava a ricomparire il mattino, un poco avan­ti il levar del sole. La stagione che regnava alto- fa, ovvero la situazione del sole, era presso a poco ({nella stessa eh'è tra di noi ai ia di Lu­glio : e quest1 era il tempo iu cui le etesie, sof­fiando dal nord soli1 Etiopia, vi accumulavano i vapori, le nuvole e le piogge, e producevano il traboccamento del Nilo. Per tal motivo il levare di Sirio si dsservava con tutta la diligenza.

Gli antichi distinguevano ancora parecchie altre specie di levare e tramontare eliaco delle stelle ( Gemini elementa). 1 moderni, a imita- zion di loro, hanno, distinto il levare cosnticoy che si può chiamare il levar del mattino, e il tra­montar cosmico, o tramontar .del maltiuo : così pare hanuo distinto il levare e il tramontare acronico, che sarebbe meglio chiamar il levare,o il tramontar della sera. Il momento del levar del sole regola il levare o il tramontar cosmìèo. Quando le stelle si levano col sole o tramontano allo spontar del iole, si dice ch'esse si lavano o tramontano cosmicamente ; ma quando le stelle si levano o tramontano la sera nel momenta in cui tramonta il sole, questo si dice levare o tra­montar acronico ; dal che ne segue che il tra­montar acronico succede dodici o quindici gior­ni dopo il tramontar eliaco, almeno per le stelle

vicine all' ecclitica, e che il levar cosmico pre­ceda della medesima quantità il levar eliaco.

Il p. Pelavio ha calcolato oon una tatola molto

ampia queste differenti torta di levare e di tra­montare delle differenti ttelle per il tempo di Giulio Cestre; e nelle dissertazioni di quest*au­tore (lib. ii, cap. 8 ) si trovano molte inesattezze e parecchi errori tcoperti negli antichi.

La maggior parte delle loro detcrizioni ai ri- feriscono manifestamente a luoghi lontaniatimi a quello in cui viveano, e a molti secoli addietro. L'antica sfera greca attribuita a Chirone, si rife­risce a i35o anni allo incirca avanti Gesù Cristo. Vi è tutta la probabilità di credere che sia stala regolata da alconi astronomi egiziani ( Dé/eiut de la Chronologie par M. Freret^ pag. 45g). La divisione del Zodiaco è forse più antica di Chirone; essendoché è ragionevole il pensare cbe sia stata fatta in quel tempo, io cui i levamenti sensibili del principio di ciascheduna costellazione precedevano di quindici giorni i punti cardinali,

vale a dire gli equinozii ed i aolstizii.Al tempo di Esiodo, g5o anni avanti Cristo, i

punti cardioali erano nell' ottavo grado delle co­stellazioni ; e il sole entrava negli asterismi, o nelle costellazioni otto giorni avanti d'entrare nei punti della dodecatemoria, che portavano i medesimi nomi : così il sole entrava nella costel­lazione dell'Ariete otto giorni avanti l'equino­zio, cioè avanti il tempo in cui i giorni erano uguali alle notti. Columella, nel lib. ix. cap. *i4t ci dice cbe i calendarii rustici di Metone, di Eo- dosso e degli antichi astronomi seguivano questo metodo, e ohe i giorni delle Ifeste, i quali dipen­devano^) principio delle stagioni, erano regolati sopra queslo piede, a cui vi ti adatta egli ttesso. Non vi si adattano per altro Varrone, Ovidio, Vitruvio, Plinio, Igino, lo Scoliatte di Arato, Marziano Capella, e nemmeno i calendarii del

venerabile Beda ( nato iu Inghilterra nel 672 ), come osserva if p. Petavio (Disserta*, lib. 21, cap. /r, pag. 43, editione d i Anversa ipo5 ).

Pare che verso quel tempo si siano regolali i calendarii, nei qoali il levare e il tramootar delle stelle erano segnati in una maniera più conforme alle apparenze, che nella sfera di Chirone. Lt idee astronomiche cominciavano a diventar più comuni nella Grecia per mezzo del commercio cogli orientali : il calendario (atto al tempo dì Esiodo fu ricevuto dai Greci, e dopo dai Romani, i quali lo adoperavano seoza esame, come ae foaee alato fatto pel tempo e pel clima in cui eglino vi­veano. Così bitognt levar 38° all1 incirca dalle longitudiui che hanno le ttelle nel 1770, te ti vogliono far calcoli, i qoali sieno d'accordo ooi passi di Ovidio, di Plinio, ec., seoza per altro poter dire cbe abbiano segnila costantemente la medesima regola.

Eadotto, che tcriveva 670 aoni circa avanti

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Di M. TERENZIO VARRONE «4a

G e sè Cristo, pare che abbia deteri IU U sfera d ie tro una traditione piò antica ancora del tempo di Esiodrf. Newton nella sua Cronologia pensa ohe V abbia fatta sopra la sfera di Chirone, e ne fissa l’ epoca a 936 anni m o l i Cristo ; ma Wiston nella confutazione che ha fitta alia cronologia di Newton, e Freret dopo lai, profano che la sfera descritta da Eudosso e dal poeta Arato, si riferisce all’ anno i 253 avanti Gesù Cristo allo incirca. Maraldi la fa rimontare a più di isoo anni avanti Cristo ( Mém. Acad. 1733, pag. 438).

Queste varietà fannef che sia quasi inalile di volere spiegare, o corneo Ure i pavi di Varrooe, ore si parla di Astronomia. II p. Petavio ha con­fatato Scaligero e Salmasin, i quali hanno voluto spiegare alcuni passi degli antichi ; ma è più facileil contraddire alle congetture di un altro, che trovarne di verisimili. Veggasi l’ Astronomia di de la Lande, lib. viti, ore sono spiegati i principii di questa materia.

Cà*. XXIX. (1) Putari in primis. Vittorio non ba introdotto qoi atcnn cangiamento, avendo trovalo della varietà ne’ codici, i quali hanno in p ra tis . Confessa però che la lezione del testo non è buona. Scaligero converte la lezione dei codici pu tari in prato in putari vipretas ; im­perciocché, secondo lui, gli antichi scrivevano vìpres per vepribus, come dice di aver letto so­vente ne’ vecchi codici : al che non facendo atten­zione i librai, è probabile che vipretas lo abbiano convertilo in pratis. Aggiunge che tra gli altri Prisciano dichiara che gli antichi hanno scrittoio femminino vepretàm e myrtetam. Egli crede verissima questa correzione, e la conferma col­l'autorità di Catone, da cui Varrone ha desunto questo luogo, leggendosi in quejfo: Viam publi­cam m uniri, vepres recidi, ortum fodiri, pra­tum purgari, virgas vinciri, spinas runcari, etc. Pensa dunque che così sia da leggersi: Puta­ri, circum vites ablaqueari, vipretas, radices quae in summa terra sunt, praecidi. Pbpma non è persuaso nè della lezione del testo, nè della correzione di Scaligero,einclinerebbe a leggere in paratis. u Paratae vineae sont (dic'egli) qua rum paralio instituta post vindemiam inter aequino­ctium autumnale et Vergiiiirnra occasum, denuo repetitur et absolvitur inter Favonium et aequi­noctium vernum. Varro infra,: Deinde vites pu­tare incipere, et propagar$ et serere poma. . Columella lib. xi: Itàque ab idibus Januarii, quod habetur tempus inter brumam et adven­tum Favonii. Si major est vineae yel arbusti moduSy quirquid ex autumno putationis super- fuity repetendum est.

Per nesso na ragione si può ammeller Ia cor- H . T b i e h u o V a b r o h b

rexione di Scalìgero. Il luogo allegato di Catone versa ju quanto è permesso di fare ne1 giorni di festa, e quali opere sono proibite ne1 medesimi, tra le quali annovera il seminare, potar le viti, sarchiar le biade e scalzare. Sspendo egli che gli spineti oon si potano, ma si tagliano, così stra­volge Varrooe putari: circum vites ablaqueari, vipretas, radices quae in summa terra sunt praecidi; e peroio gli spioeti, ehe secondo la soa correzione debbono essere retti dal verbo putarif li £a diventar sotto il verbo proscidi. Nè più felioe è la eongellora di Popaaa putari in paratis ; perciocché qual degli autori antichi ci ha mai detto che la vinta parata sia la stessa che semiputata ?

Pontedera finalmente dopo avere promulgate varie congetture, si è fermato a questa ; e in luo­go di leggere in primis, come nel nostro testo,o in pratis, come si trova in tott* i codici, legge intemperantis, a Qui in codicibns (dic' egli) le­gendis versantor, ut etiam ex rosticis exscriptum habeo, haud raro est invenire tempratis el tem­prata scriptum ; propterea com in loe» invenis­sent in tempratisi suhduclis lem, in pratis fe­cerunt. Proprius ad antiquam formam cpdex ad s. Reparatae accedit, plura servans : putarim in pratis. Si de putarim removes m , in facile habebis, et secundnm in r i tem reliquias esse non inficiaberis. »

(a) Seges. . . arvum . . . satum est. Una delle due : o la definizione, che qui si dà della parola seges, ha da aver luogo, e per conseguenza è la vera ; ovvero bisogna dire che in molti altri 1uo* ghi si è ingannalo Varrone, e seco tutti gli altri antichi scrittori. È questo dunque 00 passo im­portante, su cui ci fermeremo non poco, onde apparisca chiaramente che altrimenti va definita la parola seges.

Ecc9 la nostra proposizione : per seges s'in­tende quel campo che si suole arare e seminare;* chiamasi segetem questo medesimo campo tanto se è nou arato, che arato, tanto se è seminato, o che si sia raccolta la messe. Varrone nel cap. 37 di.questo librò chiama espressamele segetem la terra non arala, nè seminata : Ad alia arandum, aut fodiendum , ut si segetem instituas ; e nel lib. 11: Ibi contra progenies eorum propter avaritiam contra leges ex segetibus fe c it pra­ta. Se Ia seges fosse una lerra già seminata, noo avrebbe detto Catone uel cap. 36 : Stercus co­lumbinum spargere oportet in pratum , vel in hortum , vel in segetem : nemmeno avrebbe dello nel cip. 38 : Virgas et sarmenta, quae tibi usioni supererunt, in segete comburito. Ubi eas combusseris, ibi papaver serito : e finalmente non avrebbe dello nel cap. 39 : Sur-

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•4» ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA »44

cus dividito sic: partem dimidiam in segetem, ubi pabulum seras, invehito. Nonio ci ha con­servato un frammento del libro intitolato Hor­tensius di Cicerone, in cui sonovi le segaenti parole i .Ut enim segetes agricolae subigunt, aratris multo antequam serant. Virgilio pure è con noi là dove disse nel principio delle Geor­giche : Quid faciat laetas segetes : e nel lib. n. delle sieste. Ante locum similem exquirunt, uj>i prima paretur Arboribus seges . Tibullo parhnenle nel lib. i ;

ttFert casiam non calta seges, totosqne per agrosFloret odoratis terra benigna roris, »

L'autore dei Moretum:

u ...............Tecl usque galeroSob joga parentes cogit lorata juvencos,Atque agit in segelem, et terrae condit aratrum. *

Finalmente, L. Attio* in Oenomno : Ferte ante auroram radiorum ardentum indicem, cum e somno in segetem agrestis cornutos cienty ut rorulentas terras teras ferro infidas proscin­dant glaebas% arvoque ex molli excitent. Da tolte le allegate autorità si raccoglie adunque cbe seges non è nè una terra arata, uè seminata.

Ora si dimostrerà che per seges si intende una terra arala, ma non ancora seminata. Tra i precetti Catoniani si trova questo : Segetem ne defruges ; vale a dire non seminar in segetem maggior quantità di semente di quella eh1 è ca­pace di portar la terra. Varrone nel lib. i dice : Quod ad sationem, tum (far) promendum, cum segetes maturae sunt ad accipiendum. Plinio nel lib. i disse : Segetes iterare.

Resta da mostrare che si chiama seges la terra, in coi si è fatta la messe. Varrone nel lib. i : Licet videre segetes fructuosas, et restibiles. Quod far ferro caesum farrago dictum, aut nisi quod primum in farracia segete seri• coeptum. Strame Ata relinquunt in segete,unde tollantur in acervum . . . E t stramenta stantia in segetem relinquit, ut postea subsecentur. E per fine Plinio : Segetes quae interquievere, fundere rosam.* E dnnque da inferirsi che per segttem non s ' intende una lerfa arata e seminata, ma che si riserba nel fondo per ararsi e per seminarsi. Quanto fino ad ora abbiamo detto, è ottima­mente corroborato dalle tre prime edizioni, da dne antichi codici Vaticani e dal codice Veneto, leggendovisi semplicemente : Seges dicitur quod aratum necdum satum est.

La definizione, che qot si dà dell' arvum,

ossia del campo da lavoro, è quella appunto che compete a seges, essendoché arvum # seges «o d o

sinonimi. Gli antichi divideanoil fondo in prato, in terra da biade, in bosco e vigneto, e il podere cosi distribuito il chiamavano segetem o arvum. Quesla distribuzione è fatta anche da Servio, dicendo : A ut arvum est ager idest sationalis : aut arboribus conserendus : aut pascuus pe* cor ibus : autfloridus, in quo sunt horti apibus congruentes. La qaal divisione è stata leoota anche da Virgilio. Catullo in Mentulam ehiama arvum quello che era* seges : Mentula habet instar triginta jugera pra ti, Quadraginta arvi, caetera sunt maria. Virgilio nel principio del lib. n delle Georgiche disse : Hactenus arbo­rum cultus, al qual luogo dice Servio: Mire iteravit illum versum : quid jaciat laetas sege­tes ; e senza citar Orazio e altri luoghi di Virgi­lio, che fanno oon noi, si potrebbe anche addarl1 autorità di Colamella.

In quella gyisa cbe seges è una terra nè arata, nè seminata, dtl pari 1' arvum è una terra n« arata, nè seminata. Columella oel lib. i : Interim^ qui frum entis arva preparare volent ; t nel lib.. li: Non igitur fatigatione, quemadmodum multi crediderunt, nec senio, sed nostra scili­cet inertia minus benigne nobis arva respon­dent; e poco dopo : Neque enim idcirco rudis% et modo ex silvestri habitu in arvum traducta foecundior haberi terra debet, quod sit re­quietior, et jejunior. Plinio nel lib. xvm ; Or­deum in novali, et in arvo quod restibile possit

f ie r i; parimente: Omne arvum rectis sulcus, mox et obliquis subigi debet. Plauto T ru cj Non arvus hic, qui arari soleat, Sed compascuas ager. Tibullo :

•u Agrìcolaeque modo curvum sectarer aratrum,

Dum subigunt steriles arva serenda boves. »

Si può inoltre dimostrare che un suolo arato, e non ancora seminato, si chiama arvum, come si è provato così dirsi anche la segetem. Testi- raonio*he sia Columelia, il quale nel lib. n dice: Nam penitus arvis sulcatis, majori incremento segetum, arborumque foetus grandescunt. Lo stesso ci dice pure Plinio nel lib. xvm i. Male aratum arvum, quod, satis, frugibus occan-

• dutn est.Per arvum si è intesa ancora uoa terra arata

e piantata; del che si può citar Varrooe, il quale nel lib. i, parlando del vigneto, ha : Itaque ma­jores nostri ex arvo neque magno, sed male consito et minus multum, et minus bonum f a ­ciebant vinum et frumentum, Ma per tralasciar

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molti passi di Virgilio, ci attaccheremo a no passo di PJioio, eh’ è nel lib. xvm : Ideo circa Mace­doniam Thessaliamqu« cum florere (Ciba) in­cipit, vertunt arpa. Rubigo quidem maxima tegetum pestis, lauri ramis in arvo defixis, transit in eorum fo lia ex arvo. Reliqua pars nonnisi cum salce arva visit. Pinguia arva ex una seminis radice fruticem numerosum fundunt, densamque segetem e raro semine emittunt.

Pioalmente, si chiama arvum anche quella lem , che dopo aver prodotto i suoi frolli, que­sti sono sUti portali altrove. Ciò si ha da Cols- mella nel lib. tt. : Quia constat arva segetibus ejus macescere ; pari meo le : Nam vineis jam emaciatis^ et arvis optimum stercus praebet ( lopinuin ). Pliaio parlando del tapino diee : Pinguescere arva hoc satu vineasque diximus; timilmeole : Vieia pinguescunt arva.

Dunque è da inferirsi chiamarti lo slesso ar­vum e segetem.

Si poirà obbiettare qaanto diee Feito : Seges dicitur ea pars agri, quae arata et censita est: arvum diximus agrum , necdum satum. ,Ma si può rispondere che alcuno avrà inserito in Var­rone colali defioiaioni di Festo, o, eh' è più pro­babile, le definizioni arbitrarie innestate in Var­rone si taran pare inserite in Festo. Le autorità da noi mentovate sono tali cbe facilmente ci per­suadiamo essere quelle defioitioni sparie e repu­gnanti a qaaoto ha detto altrove lo alesso Var­rooe.

(3) Renovetur rursum. Terram . . . . cum iteratur, offringere vocant. Cosi ha eorreUo e interponto Ursino, perché di sopra diate M. Te- reozio: Terram proscindere oportet. A Schoett- geoio sembra oscura la defioixiooe del aovale, e perciò qai mette quella deir autor aulico del libro De limitibus, come più chiara:.està tro­vasi sita pag. 293 delC ediiioae di Goetio : No­valis ager est primum proscissus, sive qui alr ternis annis vacat novandarum sibi virium causa. Novalia enim semel cum fruc tu erant, et semel vacua. Egli propone te con quetla de­finizione foste d' aggiustarti quella del nostro Tereniio. Ma risponde Gesnero che V autore De limitibus u ulramqae tignificalioncm vocìi novalis interpretatur. Varro illam modo respicit, abi agrum notat, qui soperiore anno quieverat, el nunc tanto matnriat conteri poleit, quod alias etiam vervactum appellatur. Definitio Varroniana obscura ett, quia ad etymologiam respiti L Se­canda aratione scilicet iteratione oon opai etl in terra, qaae qaievit »

Da noi non si sono tradotte le parole tra pa> rentesi emm iteratur, offringere vocant, perchè

8{S

tono manifestamene di altrui qumo ; del che to­na penaatitti mi Ursino, Pontedera e Geioero.

(4) Tertio . . . . lirare dicuntur. Siccome Varrone ha detto di topra appellant, vocant, co­ti vorrebbe Pontedera che ti dicette dicunt, e ometter boves. LucìUìq appretto Nonio: Qua^ propter deliro, et cupide officiofungor bovo- rum . fsidoro Origin. xv, i 5 : Porca est quod in arando extat, lira quod dejossum est : quio- di aggiunge lirare, Uras, in quas femen jactum est, addita tabella operire. E finalmente, per tacer di altri, Plinio nel lib. xvm, cap. ao: A ra ­tione per transversum iterata, occatio sequi- tu r , ubi resposcit, crate vel rastro: et sato semi­ne iteratio. Haec quoque ubi consuetudo pati­tur crate dentata, vel tabula aratro adnexg,, quod vocant lirare, operiente semina, unde primum adpellata deliratio.

(5) Qua aratrum vomere lacunam . E qoeslo un luogo molto combattuto. Urtino ha trovalo in un> vecchio codice striam in luogo di lacunam . Egli definisce la stria qael canale, o quella fotta che si vede nelle colonbe striale. Popma so spelta cbe lacunam sia una gioita, ed ancor egli defini­sce la stria per on canale. Pontedera dice che la parola striam è un' aggiunta, ovvero tia ooa pa­rola sospetta, e che iu instriam tia da correggerti. Aldo ha fallo di meno di striam , come pure an­che Vossio, Nonio Marcello 1 ,3o5 riferisce le pa­role di Varrooe nel tegnente modo : Qua aru- trum vomere lacunam istriam fecit, sulcus vocatur. Vi è tutta la ragione dr credere che tale debba etsere anche U nostro letto, tolo che ìq ve­ce d’ istriam è da leggerti instriam v ettendoti forte perduta la lettera n. Tanto Urtino, quanto Popma t' ingannano apertamente in dire che stria è il canaletto, quando è anzi quell1 eminen­za che trovasi Ira due tolchi,come con molle ra­gioni ci avverte Baldo nel Lettico Vitraviano. Vuol duiique dire Varrone che quella lacuna, la qual tarà instria, cioè che in tutto il tuo tratto tara priva di eminenze, ti chiama tolco. E qai fa vedere la diligenza dell1 aratore, il qaale non de­ve fare an tolco torto e qua batto e là alto, ma per latto egualmente largo e profondo. Qael cbe Varrooe chiama lacunam instriam ,è detto da Catone sulcus perpetuus ; dunque lacuna in - stria, cioè tedia eminenze.

(6) Fa molto qui a proposito no1 etimologia dell1 immortale Redi, la qaale è alla pagina ag4 del tomo 11. u Prace. Quello spazio di terra, ch'é tra due solchi, dai Fiorentini dioesi porca ; a dagli Aretini prae*. Porca dei Fioreolini è nata dar latino porca, che coti fa chiamata a por­riciendo, te vogtiam credere a Marco Terenzio

Varrone, cbe nel libro degli Affari della villa et

8 4 6DI M. TERENZIO VARRONE

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•47 ANNOTAZIONI AL LIB. 1 DE HE RUSTICA *4*fasciò scritto : Quod est inter duos, etc. Prue* degli Aretini è Tetra ti da ovvero «rfar/ridei Greci, le qoali voci sigoifieaoo lo stesso cbe prace . . . . Sono però alcuni, che affermano che sieoo siate chiamate Tfao'tal dalla voce nrqàovt, che vale porro, perchè nelle praci si semioano i potri ed altri simili agrumi..

Seges qoi.è posta in laogo di terra. .Micro­bio ni, a dice eh1 è da leggersi porricit, e non porrigit o porrigat. Festo : Porcas, quae inter duos sulcos fiunt, ait Varro dici quod porri- gunt frumentum ; ma qoesto medesimo Festo riferisce un'altra etimologia, diceodo: Porcae appellantur rari sulci, qui ducuntur aquae derivandae causa ; dicti, quod porcant, idest prohibent aquam Jrumentis nocere. Nam ere- brio res sulci vocantur limi, o piuttosto por­cae. Ma Colamella oel lib. xi, cap. 3 : Liras ru­stici vocant easdem porcas, cum sic aratum est, ut inter duos latius distantes sulcos me­dius cumulus siccam sedem frum entis prae­beat. Alfeno in L . D. de aqua et aquae plu­viae ha : Vicinus loci suf>erioris ita arabat, ut per sulcos itemque parcas aqua ad inferio­rem venireU

(7) Sic quoque exta deis cum dabant, por- ricere dicebant, u Sic ( dice Vittorio ) ex iogeoio émend'vi. Antea eoim porrigere, corrupte lege­batur. Veteres enim librarios h*s litteras com­mutare solitos, manifestum est. Adnolavi io op­timo exemplari Grates, et Alagriores pro Cra­tes et AlacrioYes, scriptam esse : et contra Vir- culta, et Fricor a, pro Virgulta et Frigora. At vero porricere, exta dare, oon porrigere,an­tiqui io re divina facienda vocabant, qaod testi­monio elitra Virgilii confirmari potest, qoi in v. Aeneidos extaque salsos Porriciam in fluctus dixit, naro ita eam scripsisse nobiles grammatici osteodunt. * Popma dice che ae Varrone avesse icritto qaeste parole, avrebbe detto : E xta diis cum dant, porricere dicunt. Egli è di opinione che qoesle parole sieno uoa glossa e uo' aggiunta de* librai, poiché Nonio cita le precedeoti parole a tralascia qaeste altime. Dell* opinione di Popma è pare Pontedera.

Cap. XXX. (1) Segetes runcari. Nel nostro, tetto si ba dopo : herbam e segetibuì expurgari, le qoali sodo aperta mente glosse degli espositori. Ursino aggiooge che ne* vecchi codici dopo run­cari si trova aggiunto id est.

(a) Boves terram proscindere. La parola boves è di pjò, secondo Ursino, che vaole che si legga proscindi per proscindere, e seri opor­tuerat io laogo di fieri.

(3) Prata defendi. Caperò legge diffindi,

e dice che. bisógna etrooaénto i prati di siepi, o di altro, onde 000 eo trino gli armenti e le bestie. Schoettgeoio pure fa piatito a Caperò, e dice che Varrooe al cap. 37 di questo libro ha : Jtem praeparatio, si quae f l t in pratis, id est ul defendantur a pastione. Ma noi abbiamo volato seguirà le tre prime edixiooi, le quali hanoo pra­ta aqua defendi.

(4) Quod si quae fo lia amktere. Vittorio ba creduto di aver così corretto il lesto : ed accioc­ché si confronti la differenza che passa tra P an­tica leziooe e quella del testo, non manca di ri­portarla : Quod si quae f olia mittere solent an­te frondere inceperunt, stati/n ad serendum idonea non sunt. <4 Primam syllabam indefinito tempori addendam censui, «t pro mittere, amit­tere scribendum, ul per quae jo lia amittere solen^ iotelligat qaae Graeci appellaat pe'&ofb- Xirra. Animadverti eoim M. Varronem ila coa­vertere ex Tbeopbratto po&qfcXtiV. n

Questa è la leziooe di Vittorio, e io progres­so è stata adottata «la tatti. Se beo si riflette It leziooe dei codiei antichi, che è confermata da} codici Cesenate e Veneto, 000 è da disprezzarsi; im perciocché gli alberi oon mitterent folia, os­sia non frondeggerebbero, se prima non amisis­sent Jblia, cioè te prima ooo avessero perdute le foglie.

C a p . XXXI. ( 1 ) E t postea occare.Nonio 1, 3o4: occationem ab occaecatis seminibus, qua id afficitur, dici M. Tullius voluit de Senectute. Terra cum gremio mollito atque subacto spar­sum semen excepit, primum occaecatum cohi­bet, ex quo occatio, quae hoc efficit, nominata est. Sereno pare pretto Nooio : Occatio occat- catio est.

(а) Quod ita occidunt, occare dicunt. Tale è ii ooslro testo. Festo particolarmente legge oc- caedunt, diceodo : Occare, et occatorem Ver­rius putat dictum ah oecaedendo, quod cae­dant grandes glebas terrae, cum Cicero venu­stissime dicat ab occaecando fruges satas. Se­reno dooqae, Cicerone, Festo e Nooio hao»o oc- caedo ; perciò io Varrooe è da leggersi occae- dere.

(3) Varrooe ha preso questo luogo da Teofra- sto De causis planL in, 19. Colamella nel lib. it, cap. 37 : Nam id plurimum refert non inscite facere. Siquidem vel magis pampinatio, quam putatio vitibus consulit.

(4) E terra. Ursiao è persuaso che queste sieoo- parole aggiunte.

(б) Eiuncidum. Questa è leaione antica, se­condo Vittorio, avanti il quale correva evinci- dum. ^ l 'e d iz io n e de'Grifi delPaaoo t 54> ti

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DI M. TERENZIO VARRONE 85o

ba junc i dum y cioè coltile q u o to il giunco. Qai è da osservarci che, secondo I1 ortografia antica, e i vale lo • testo che i, come in eitur, eidem, quei, postivi, etc., onde ancorché ti scriva eiun- cidum, sempre s 'intenderà la sua derivatione da junco .

(6) 1 nostri leggitori saranno benigni, se per avventura non avremo bep tradotto questo luogo. In compenso mettiamo quel poco che ne dicono i commentatori, i quali ci abbandonano sovente, ove il bisogno è maggiore, a Majorem etiam unde. Forte ( dice Gesnero ) trajectis vocibus le­gendum: Majorem unde etiam . Nisi tamen hoc voluit Varro, majorem vilem non flagellum modo appellari, s«d etiam palmam v. Schoett genio ci dice solo che più comunemente si dice palmi­tem in luogo di palmam. Pontedera legge cosi : Minoremflagellum ; majorem enim, unde uvae nascuntur, palmam:prior, Utera una mutata, declinata a varitifla tu flabellum similiter ac

flagellum : posterior ( nempe vitis major ) .......u Quibus a Varrone doceri reor, qmi/xir/e fla­gellum uvas parit, a pariendo palmam dici ; qua capreolum emittit, capream. » Finalmente così traduce Saboureux: u Car, lorsqn’ un sep est minee et délié comme un jonc, sa foiblesse le rend ste­rile, et il n' a pas la force de donner des tiges. Lorsque ces liges soot petites, on les appelle fla ­gella mais lorsqu' elles sont grandes et en élat de porter des grappe», on les sppelle palmae: les premtéres.... »

(j)'Quo ea vitis immittitur. Qui im m ittitur • si prende per submittitur.

(8) E xin mutatis .... capreolus dictus. Tutte le ediiioni anteriori a Vittorio sono corrotte in qtftsto luogo, leggendovisi o ex immutatis, o ex imminutis, quaudo in Politiano si ha exin mu­tatis.

Vittorio ci dà la lezione dei codici che, secon­do lui, abbisognano di correxione; e perciò ha ritenuto la corrente. L'antica è questa: E x al­tera parte parit capreolum; is est coliculus viteus intortus, -ut cincinnus : is enim vitis quibus teneat : id qua serpit ad locum capien­dum quo capiendo capreolus dictus. Scorgesi dunque che qui si tralasciano le parole caprea dicta quod ; il che pure non si trova nei codici Polixianeo, Rickiano e Cesenate. Popma, a ragio­ne, le ba intralasciale nella sua edizione.

11 seguente testo si legge io quattro maniere. Aldo : ls est coliculus viteus intortus, ut cin­cinnus, etc. come sia oel testo. Nel codice Cese­nate : Is e s t .... teneat id quod serpit ad locum capiendum cum capiendo capreolus dictus. Genson : Is e s t .... vites quibus teneat: et quas eripiat: et ad locum capiundum se erigit. E x

quo a capiendo capreolus dictus. La quarta maniera è quella di Vittorio da noi già riferita di sopra. Dalla lesione di Vittorio e da quella di Genson si può trarre il seguente testo : Is est co­liculus viteus intortus ut cincinnus. Is enim, vitis quibus teneat id qua serpit% ad locum ca­piundum se erigit, ex quo a capiundo capreo­lus dictus. Di fatti non è il viticcio qoello che serpeggia, ma la vite, ed è quella che seco lo trae.

Scaligero dice chiamarsi capreolus u lascivia quadam propter teneritudinem, n Veramente il viticcio non è tenero, anzi durissimo in eonfronto delle altre parti della vigna ; ed è tanto attaccalo ai sermenti, che non si può svellere se non oon grande difficoltà. E perchè non si potrebbe anche dire chiamarsi capreolus per una qualche rasso­miglianza alle corna delle capre?

(9) Quod valet cito. In Nonio ti legge: Varrò de Re Rustica Ubroi... quod venit cito. ** Quae magit \ dice Pontedera ) probanda; quia Graeca lingua adeo familiaria Latinis erat, ut Graece quid pronuueiautes explicationem apponere su­persederent Ideo Varro non quid etset mndmf, nam notum omnibus, sed qua de causa ocinnm dicium,, videlicet quod venit cito, posuisse vide­tur. Hoc e t Plinio etiam confirmatur, qui a Var­rooe ocinnm appellatum a celeritate proveniendi e Graeco quod diennt èìxitx, refert. »

(10) Similiter quo occimum. In Nonio si ba sim iliter quod,

(11) Quod citat alvum bubus. Plinio nel lib. xviii, cap. 16 dice: Apud antiquos erat pa­buli genus, quod Cato ocymum vocat, quo si­stebant alvum bubus. Arduino sospetta che io Piioio si debba leggere citabant, io vece di siste­bant; quaodo bene, aggiunge egli, Pozzimo non produca effetti assolutamente opposti, secoodo la maggiore o minore quantità. Come mai questo celebre commentatore ba procurato di favorire il sistebant di Plinio con tal raziocinio, quando Varrone, il quale avea fatto nascere i suoi sospetti, dice positivamente che si dà ai buoi per purgarli, e cbe a. motivo della prontezza, con cui opera quest'effetto, è stalo detto ocimum ?

(ia) Vittorio vi avvisa che ne'vecchi codici ti legge: Id jést fabuli segete. In Plinio si ha: Id erat e pabulis segete viridi desecta, antequam gelaret. Sopra di cbe dice il p. Arduino : a Ita Mss. At e l Varrone sincerius, antequam siliqua- ret, vel generei siliquas. » Ala tanto in Varro­ne, quanto in Plinio è da leggersi, checché ne di* cano gli «Uri editori, e fabuU, ovvero e fabali, e genat. In tuli’ i codici di Varrooe si trova genat. Molli ignorando il verbo geno, hanno corretto gerat. Prisciano libro x : Gigno genui, prò qua geno vetustissimi protulerunt, Varro in Ando*

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551 IN NOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA 85t

bata^ sed quod haec loca aliquid genunt. Lutra* ciò nel lib. in ti è servito delP infinito passivo:

a ... Tanto magi* inficiendum,Totum pone extra corpus durare, genique. n

Nel lib. xxx delle Pandette Fiorentine ti ba : Si quis ita legaverit, si qua filia mihi genitur, èi haeres meus centum dato.

(i‘3) Ubi sata .... seri coeptum. Urtino pre­te* de che la parola sala tia una glosa). Egli vuole inoltre che poco dopo si leggafa rra tea , oon già fa ra d a. Gesnero è di opinione cbe la parola fa r •ia dal margine tenuta nel letto; e crede che questo foste avvertimeuto di alcnno, acciocché l’ etimologia ti prendesse piuttosto dafa r , che da

Jerro . Schoettgeaio avverte che nel codice Rikia- bo ti legge inde, in laogo di nisi. Finalmente Gesuero cosi spiega Varrone: Ocinum est ex illios mente viride sectum ex fabuli segete, antequam genat siliquas. Contra ex segete, ubi sata alia adm ixta,«e. g. ordeum et vicia et legumina alia, recisa pabuli causa viridia,

farrago d%ctay etc.Sopra tutti Pontedera ha colto nel punto,

u Priranm cusam quod ante far ex binis codici* bus Politianeo, et altero ad s. Reparatae quo con* atitoarn ; nam quo pro quoniam et quia adhiberi notura, et nota Ciceronis verba in Verr. vi : Non quo quicquam metueret, aut suspicaretur. Deinde ex tribus vitiatis codicibus, oerope ex Politianeo ubi quo fare ferro caesa ; ex altero ad $. Reparatae quo fa r t ferro caesa ; ex tertio Caesénate quod fa r ferto caesa ; videbis si con­jectura nostra ferenda sit: quo facta fero caesa jerago deicta. De farre quidem nullo‘ modo su- spioari possumos; miscentur enim una hordeum, vicia, ei alia legumina in farraginem, non far. Eropterea primom etymon affert ex ferro Varro; ideo in Beroaldi editione, in tribus codicibus Florentinis, et Caesena te non farrago , sed je r - rago a ferro scribitur. Verum quid fa rta? Cum farcire sit ex dissimilibus quid constituere; unde farcimen ex concisis carnibus ct condimentis mixtura; et fa rtum pars fici interior, quae ex carne, humore, membranis, seminibusque in unum cogitur; sic immixta et confusa in anum hordeum, vicis, et' alia legumina, ja rta . Appo­nam nunc prisca scriptura ( nam et virdea pro liridiay ex quo ternacnlum nostrum verde, ex tribus Florentinis codioibus; coepta pro cuso coeptum ex quatuor codicibus, Florentinis et Caesena te, confirmata habeto) hoc exemplo: Con- tra ex# segete, ube sata admixta hordeum, et f f ic w , $i legumina pabuli tùusa virdea^ quo

farta fe ro caesa ferago deicta, aut neisei quod preimum in faracia seri coepta, w

0 4 ) Quibuscunty etc. Ursino indio* a legge­ra : Quibus cum sursum vorsum serpit, et md scapum aliudve quid adhaeret, id solet vincire, etc. Qui non è mestieri correggere id in f a n ,

come si è fatto in alcune edizioni, ma bensì è in- dispentabile.correggere quibus cum in qui cam, riferendosi a capreolus.

(15) Quotidie. Nonio i ,3o5, ove riferisce que­sto passo di Varrone, sggiunge a quotidie vespe* ri: la qual parola, come d avvisa Merder, si trova in un ottimo codice di Vairone e ia al cane edi­zioni. Vesperi è iooltre una parola necessaria, perchè questa faccenda ti fa appunto nel dopa pranzo.

(16) Quod indigent potu. Nonio pag. 61 é dice che qui fu scrìtto .da Varrooe potvi, scri­vendo : Dativus pro ablativo. Sisenna Histo­riarum libro ////, A lii saltui ac velocitati cer- tare. Varro de Re Rustica libro prim o. A qao quod indigent potui poma dicta esse possmnt. Vittorio ci avverte di aver conservato la comune lezione che trovasi nei codid ; e aggiuogeebe qui vi è la lettera L, la qual lettera, come congettura Vittorio, vi è stata posta per indicare la differente maniera, con coi la scrive Nonio. Pontedera vuol leggere potuis ; ed ecco le ragioni ch'egli ne allo­ga : u Dum ex Varrone huno locata refert Noniua Marcellus, et potui tertii casas pro potu sexti memorat, exemplari usam Nonium opinor, in quo extrema littera in potui desiderabatur, ut nunc in cunctis Varronianis duae; sed gignendi casum potuis positum a Varrone existimo: qualia multa ex Varrone apud Nonium supersunt, ot quaestmis anu is , ritu is , partuis , vie tuis, fructu is pro quaestus, anus, ritus, partus, victus, fructu f. Porro vofia cum sit potus, recte hinc appellata poma quia indigent potuis tradit Varro, »

Cap. XXXII. (i) Quarto intervallo ..... camsit maturum . Rendesi necessario intrattenersi aleno poco tu questo pasto. Plinio nel- lib. xvm, cap. 17, ha: Varro quater novenis diebus fr u ­ges absolvi tradit, et mense nono meti. Perchè danque in Varrone ti legge giorni quarantadn- que, chi ha corretto Plinio con dire quinqaies novenis, e chi con quadragenis quinis. Ma per verità P errore non istà in Plinio, bensì nel testo di Varrone. Plinio inoltre ha seguito Teofraslo nel lib. vili, cap. 3 della Storia delle Piante, il quale dice che particolarmente in Egitto I’ orso fiorisce in sei giorni, che nella Grecia fiorisce il formeoto entro il settimo giorno, e cbe in pa­recchi altri paesi fiorisce nell' ottavo giorno. E che sia il vero aver Plinio seguito Teofrasto, si

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853 DI M. TERENZIO VARRONE 85f

raccoglie dal tegnente passo, dicendo oel lib. xvui: Sed non ante supra dictum geniculorum nu­merum conceptus est spicae : qui ut spem sui fecit, quatuor atit quinque tardissime diebus’ florere incipiunty totidemque aut paulo plus deflorescunt triticum et ordeum ; verum, eam tardissime, septem.

Reca veramente ma rati gli a che per la fiori- tura delle biade il assegnino da Varrone quindi- oi gioroi, quando cbe da Teofrasto e da Plinio se ne assegnano al più sette, e da Columella ollo. Egli è ben vero ehe secondo il clima, il tempo per la fioritura si accorcia je si a llo g a ; ma è certo altresì che generalmente nell* Italia non si oltrepassano pel formento i dodici giorni. I do­dici giorni, assegnali da Plinio in sénleoza di Varrone, si possono passare, dividendo in due tempi la fioritura, dicendosi che i primi quattro,o cinque giorni riferiti da Teofrasto e da Plinio si consumano dal primo principio della fioritura sino all’ intera spiegazione de1 fiori, e che gli altri selle vanno consumati tra la intiera spiega­zione de', fiori e la totale caduta dei medesimi.

Varrone dunque ha tolto il numero pio alto riguardo alP Italia, per cui dava i precetti, e non si è servito del numero medio, che conviene alla Grecia, ove, pel maggior caldo, tutto si matura piò presto. Per l ' istessa ragione ha prolungato sino al nono mese la raccolta del frumento in Italia, quando nella Grecia o rarissime volte, o forse non mai si tocca il nono mese, come si raccoglie da Teofrasto medesima e da Plinio, dicendo questi : In Aegypto enim hordeum se­xto a satu mensey frum enta septimo metun­tur. In Hellade ordeum in Peloponeso octavo, et frum entum etiamnum tardius.

Concludiamo dunque con Pontedera: uCum Aegypti mense citius quam Graeci*, fruges secent, tertio gradu descendens Varro, nono in Italia id fieri indicavit. Quoniam . . . . frumenta in Var­rone cum totam spicam ediderint, citius ad ma­turitatem pervenire, quam editores designant: qoaolo rectius*est credere majori intervallo in Columella a vero aberrasse in cujus libro n, fru­ges diebus x l post florem ad maluritatem deve­nire describunt!»

Pontedera non senza ragione è persuaso che1 giusta quello che dice Plinio, si debba aggiun­gere dopo maturum , nono mense. u Etenim ( die1 egli ) scriptum esse a Varrone : cum sit m aturum nono mense, non est cur dubitemus. Hoc erat, qaod inter maturum et arationes in priscis editionibus: collige. Inde suggestum est: aut vacuam sedem, aut vitio deformatam, qui primi id commenti.sunt, invenere, aut ipsi per­belle ita deformarunt. Cum itaque quid necessa­

rio sit addendam, nihil commodius duco, qoam si eo modo legamus ; nam triticum, peracto au­tumnali aequinoctio, mense octobri terrae com­mittitor, nt capite xxxiv docetur, atque eirea solstitium quod ex a: d. vi eal. Quiot. conficitur, tollitur; ideo nono mense a satione demetilur maturum. »

C ap. X XX1H. (i ) Aequinoctium autumnale. Varrooe si è servito della parola autumnaly come scrive Charisius de analogia, dicendo: Autum ­nal. Varro aequinoctium autumnal, quod idemy Plinius lib. n notat.

Cap* XXXIV. (i) Scribunt. Pensa Gesnero che scribunt sia uoa glossa ; per lo che lo ha posto tra parentesi.

(a) Come mai, diranno i nostri leggitori, cam­biar xci in xxcviu? La cosa è tanto evidente, che non ba bisogno di replica, poiché dall1 equi­nozio autunnale fino al solstizio d1 inverno non vi sono cbe xxcviu giorni.

(3) Vi sono inoltre Columella e Plinio, i quali noo solo condannano le seminagioni dopo il sol­stizio d’ inverno, ma ancora avanti il medesimo. Columella vuole nel lib. n, rap. 8, che xx gioroi avanti queslo solstizio, e altrettanti dopo, nè si ari, nè si potino le vili e gli alberi; e Plinio nel lib. xviii, cap. a4, dice: Inter omnes autem convenit, circa brumam serendum non esse, magno argumentot quoniam hiberna semina, cum ante brumam sata sint, septimo die erum­pant : si post brumam , vix quadragesimo.

(4) Existant. Tuli' i codici hanno existant; e pure è stalo da molli adottalo exeant% quasiché in queslo luogo non volesse dire lo stesso. Il Romano Oratore nel lib. ii, cap. a3 De divina­tione disse: Tages quidam dicitur in agre Tarquiniensi, cum terra araretur, extilissc repente.

C ap . XXXV. (i) Dicunt. Secondo Ursino e Gesnero è da levarsi dicunt, non ritrovandosi in un vecchio codice, come nemmeno nelle tre prime edizioni,

(a) u Prius tfimen ( dice Pontedera) quae ad rosam spectant, a croco sunt separanda, serere liliumy crocum, quod jam egit radicem , ro­sam; ea (sive etiamy ut in primis editionibus, vel ety ut in Caescnale exemplari ) conciditur. Etenim crocus qui autumnali tempore floribus explicatur, citoque evanescit, nec libratarum ra­dicum eget, ut seratur; nec sic radicatus tuto transfertur, nec dum demersis Vergiliis, id fit, ob radiculas quas tabidas fert, verum ob bulbos in quibus custoditur, plantatur. Rosa est, qoae

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855 ANNOTAZIONI AL Lift. 1 DE RE RUSTICA 656

•i radicem egerit, facta viviradix e seminario in destinatam sedem ante brumam transit; sin radi­catam noo habueris; ut radicem capiat,i o virga- lai patinare conciditor, obrnitarqne. »

(3) La lezione che correrà avanti Vittorio, è questa : Ideo quod necesse est e terra ad ea obruenda pulvinos Jìeri. La lezione del nostro testo, che Vittorio non aveva introdotta che con mano tremante, è «tata in progresso accolta e difesa da tolti.

(4) Avanti Vittorio correva minorem, in lao­go di macriorem: V antico minorem piace pià a Pontedera» che il moderno macriorem , perchè « Varronem totam sabolet; ablata entra terra, tenaior para ac melior «abducitor, et agrara mi­norem relinquit, n

Tempestates abluunt. Frulerio Verisim. lib. n, cap. 22, interpreta abluunt per dissoluunt:• subtilius fortasse (dice Gesnero) et tamen ve­rius, nisi fallor, a veteri luo, qaod est apad Fe­stam m Lues. »

Cap. XXXVI. (i) Hiberno. Qaesta parola ab­bonda, secondo Ursino.

(2) Posita. Ursino ha trovato in an vecchio codice proposita, in luogo di posita. In Poli- siano pare si legge proposita. In conferma di che Ursino allega on passo di Plinio lib. xxxv : Perfecta opera proponebant in virgula (f. per­gula) transeuntibus ; e uu allro di Cicerone: Scriptae enim et datae sunt, ut proponuntur in publico.

Cap. XXXVII. (1) Dies lunares. . . ad in­termenstruum. Varrone in queslo stesso capitolo divide il corso mestruo della luna in quattro parli, dicendo: Quemadmodum luna cuadri- partita ? E t quid ea divisio ad agros polet ? Tremelius, nunquam rure aude isti, inquit, octavo sanam et crescentem, et contra sene- scentem, et quat luna crescente fieri oporte­ret, et tamen quaedam melius fie r i octavo post Janam, quam ante?Et sei quae senescente fieri conveneiret, melius quanto minus habe­ret ignis id astrt^m ? Dunque poiché la luoa è qaadripartita, e poiché qai si accenna il giorno ottavo avanti la lana piena, e parimente il glbrno ottavo dopo la luna piena, cioè il plenilunio, per­ciò i giorni lanari non sono bipartiti, ma cua- dripartiti, come pensa anche Ursino.

Stante le parole del nostro testo non sarà giammai la luna quadripartita. Oltre di che la lana, da piena che era, noo cala sino alla nnova, ma solo sino a quel punto io coi pià noi non la

reggiamo, per indi passare all* interlunio. La

prima divisione della lana è dal sao principio sino al nono giorno, il qual nono giorno ò cpd omesso da Varrone, ma accennato nel lib. nt, cap. 17, leggendosi nelle prime ediaioni: Qua aestus beis cotidie ab ortu lanae ad nonam proxsumam introeire, ac redeire rursms in mare poset. La seconda parte è dal giorno nodo­si d o al plenilunio, la qaale si chiama a oche octa­vo Janam. La terza è quando rursus ad nanam luna decrescit, la quale anche si chiama odava post Janam. La quarta parte è iodica la da queste parole: quoada nona venitad intermenstruum; e questa par(e si chiama ancora lana senescens.Il codice di s. Reparata è sincero e genaino, ed ha: Dies lunares quoque opservandei, quei quodammodo cuadriparteitei ; quod a nona luna crescit ad plenam, et inda rursus ad nonam descrescit, quoad veniat ad intermen­struo rn, a quo die de icitur luna esse extrama et preima.

Ursino vuol che si legga : E t inda rursus decrescit, quoad veniat ad intermenstruam, quo die, etc., poiché (dic’ egli) la parola inter- menstruam si riferisce alla luna, non già a dies:io conferma di che cita Plinio lib. xyid, cap. ia : Maxime autem intermenstrua mediaque ster- corato ; e Catone nel cap. 37 : Stercus egerito, nisi intermenstrua, lunaque dimidiata.

(a) Ursino vuole che sì legga : Quo die d iri- tur esse extrema, et prima, a quo A thenis eam diem appellant irnr xai rien. Pretende dunque che siano da levarsi le parole luna e rfioftaVo, le qaali, secondo lui, dal'm a rg in e sono passate nel testo. Varronc nel lib. v de Lingua Latina dice : Luna quod Graece olim dieta (virny unde illorum pam : ab eo nostri menses, a mensibus intermenstrua dicta, quod puta- bant i/iter mensis senescentis extremos dies, et novam lunam esse diem, quem diligentius A ttici irnr xai ria* appellarunt, ab eò, quod ea die potest videri extrema et prima luna.

Vittorio pensa diversamente che le parola rftaxada alii non sieno da intralasciarsi, perchè si trovano ne'codici antichi, k Eam (lectionem) autem (die* egli), veram esse facile omnes intdli- gere possunt. Quem Athenienses diem twww aaut rica appellant ( inquit Varro) alii Graeci rftaxada vocant. Aristophanes, lepidissimas poe­ta, in hac voce jocatus est, in fabula, quam rtQiXms inscripsit, fr» ydf i f i xai ria tipi fa, ioterprea ipsius multa de omni hac re et con snellitine Atheniensium enumerandi dies mensis expo sai t. Quemadmodum aatem apad Laértinm legimus, primus Solon r f taxadety tmr xai rien appellavit»

Caeduam silvam. Nelle prime edizioni si legge caeduas silvas, per lo ebe è verisimile che

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85; DI M, TKRENZIO VARRONE 851

debba dire caedas silvam , ovvero silvas. « Mo­nitore ao* est opus (soggiunge Pontedera) ot co­gnoscas, qood decrescente looe et fi eoa, silvam in materiam eaedi, eam ad perennitatem id plu­rimam oonferte credatar nemini ignotam. At eaedaam silvam, crescente lana, detondent, qao eitias et melius regerminet ac resurgat. »

Ne decrescenti. Ursino inclina a leggere u t decrescente% etc. Plinio nel lib. xvi, oap. 39: Tiberius idem et in capillo tondendo servavit interlunia. M. Varro adversus de fluvia prae* cepit observandum id (cioè di tagliare) a pleni- luit i is.

(5) Numquam ru re . . . octavo Janam lunam, quam ante. Ursino voole che si legga nel se­guente modo : Nunquam audisti, inquit, octavo Janam lunam crescentem, et contra senescet1- tem, et quae crescente luna fieri oporteat, ta­men melius Jieri post octavo Janam lunam* E t si quae, etc. u Mihi videbatur (dice Gesnero) lana glossema esse ejas, qai Janam sive Dianam interpretari vellet, et illad et ancinis inclusam abesse debere : nisi pro et tamen mslis attamen. Octavo Janam eadem forma dicitar, at octavo Kalendaty vel Idus intellecta r» ante. Commode hic jam Undaverat Macrobii locum Cl. Schoett* genius, qoi Sat. 1, 9 : Pronunciavi*, inquit, Ni- gidius, Apollinem Janum esse Djariamque Ja­nam ; adposita d littera , quae saepius i litte­rae decoris causa aàponitur. Veggasi Scaligero Emend. tempor. I. 11, p. 174.

La luna è chiamata anche Jana o Diana, e perchè dunque la luna nel sao corso menstruo è chiamata luna Jana f Forse si potrebbe sospet­tare che la luna Jana fosse il plenilnnio, nel qaal tempo riflette a noi tutta la luce che riceve dal* sole; e siccome il sole si chiama Janus, così si dice Jana , qaando a noi manda latta la lace che riceve da Janus. Dunque 1’ ottavo giorno avanti lunam Janam, h il settimo giorno di laaa nuova, cioè il giorno ottavo avanti il plenilunio; e per

conseguenza l'ottavo giorno dopo lunam Janam è alP incirca il vtgesimo primo giorno della luna, cioè Follavo giorno dopò il plenilunio. Alle quali divisioni se vi attendevano gli antichi, molto più vi attendono i* moderni ; e massimamente dopo che P illustre Tosldo con una serie ragionata di osservazioni ba messo io chiaro lume l’ influenza della luna. Veggasi il suo anreo libro intitolato Saggio meteorologico.

(6) u Haec nimirum ipsa est (dice Gesnero), qaae lonae periodai in quataor, qaas hodie vo­cant valgo, quadraturas dividitor. Nam octava Janam crescentem est prima quadratala ; o- ctavaJanùm decrescentem est quadratura u l­tima. rt

M. T iatm io V iato B i

(7) Varrone tfitta in progresso di tutte 1« parti di questa divisione, cosicché della prima ne parla nel cap. 38 ; della seconda dal 3g al 44 ?

della terza nel 44? della, quarta dal 49 *1 5 5 ; della qninta dal 55 al 61 ; e della sesta dal 62 sino alla fine del libro.

(8) A d alia in praeparando, faciendi scro­bes. Avanti Vittorio correva at in praeparan- do\ ma egli* dietro i codici antichi ha corretto come sta nel testo, perchè M. Tereozio in que­sto stesso capitolo dire ad alia arandum , • poco dopo ad quaedam, bipalio vertenda terra. Qoi nsa in genere mascolino scrobes; il ohe, secondo Nonio si è osato anche da altri anti­chi scrittori.

(9) u Apparet *( diee Genero) offensos essa qaoidam forma adiva diffundunt. Sed potest» credo, intransitive accipi, at terra movet, et huic similia : qnanquam hic nequidere opus est. Aliae int. arbores, radices suas diffundunt.

(10) Teofrasto parla di ciò nel lib. 1, cap. r i della Storia delle Piante. Plinio nel lib. xn, cap. i, «itando questa maraviglia, dice che qoe­slo albero si vedeva nell' Accademia e non nel Liceo; ma è noto che qaesli erano dae laoghi separali. Cicerone Acad. 1: Q uierant cum A r i• stoteley Peripatetici dicti sunt, quia disputa­bant inambulantes in Lycio : llli autem , qui Platonis instituto in Academia, quod eSt al­terum gymnasium. Ma il padre Ardoino, per conciliare Plinio con Varrone, fa vedere che sot­to il nome d' Accademia si comprendeva ancheil Liceo.

(11) Ursino legge così : A d quaedam si bu­bus et aratro proscideris, iterandum ante% quam semen jactes. Item praeparatio si qua

Jìt in pratis, ea est, u t defendantur, quod fe rey etc.

Cap. X X X V ili. (1) Veggansi i Geòrgia Gro- ci, 11, a i.

(a) Plinio fa le meraviglie, perchè ai tempi di Varrone si dessero tante uccelliere, dalle quali si traesse con ehe letamar le terre. A noi vera­mente ciò non reca puoto maraviglia, perchè ei sono note le sterminate ricchezze e il sommo lusso de' Romani sì ne* trionfi che nelle cene

.de1 collegi,ove si adescava la plebecon eibisqui­siti. Non è nemmeno da maravigliarsi cbe gli ani­mali diventino pingai collo stereo, poiché le Sa-

a era Scrittura ei dice che V oomo poò vivere collo sterco delle oolombe, e che nell* assedio di Sama* ria è stato vendalo quartam partem Cabi ster­coris columbarum quinque argenteis.

(3) Si caveat dominus. Ursino diee cbe is 3i

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B5f> ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA * 6 0

«n vecchio codice ti legga: S i cavetur ster* fu e t to .

({) Plinio nel lib. xvii, cap. 9 dice : P roxi­mum deinde caprarum est, ab hoc opium, de­inde boum, novissimum jumentorum, etc. Da .questo pasto di Plinio congettura Ursino che ih Varrone forse si debba leggere : Tertio asini- num, tum caprinum, deinde ovillum ; non es­tendo verisimile, dice egli, che M. Terenzio ab­

bia fatto di egnal virtù qaesli letami.(5) Minime bonum equinum. Plinio nel lib*

xvn, cap. 9 : Varro praeceptis adjicit, equino; quod sit levissimum, segetes alendas, prata pero graviore, et quod ex ordeo fiat, multas- que gignat herbas.

(6) Robusta aliqua materia. Questa è lezio­ne antica : avanti Vittorio si leggeva robustea. Catone: Arbores stipites robustas facito , aut pineas. Da robore dunque è nato robustus. Pli­nio notò pure questo precetto di Varrone, q nan­do disse nel luogo allegato : Palo e robore depacto fie r i jubet. Urtino vuole cbe si legga aenza la particella in : Si modio robustea, etc., tome ha fililo Columella nel lib.'ii, cap. i5 : Sed eodem medio loco robustam materiam figere convenit.

Ci p . XXXIX. (1) Qoeslo secondo grado è re­lativo alla divisione fatta nell’ antecedute cap. 37.

(à) Ursino vuole che si legga : Nam refert, ut in agro ad quam partem, etc. Sic ad quod tempus, etc.

(3) Inserificos . Forse qui è da sottintender­ai melius : è superflua 1’ aggiunta di solet delle edizioni Giuntina e di Gimnico.

(4) È iocontrasUbile che qui manca la quar­ta semenza, poiché si fa menzione soltanto di tre, quando dovrebbero esser quattro. Popma, Ursi­no, Vittorio, Scaligero e Gesnero hanno ricono­sciuto questa mancanza, a supplire alla quale si è

«recinto Pontedera.Se si fosse posto l ' occhio sulle prime edizio­

ni, si sarebbero trovate le tracce di questo difet­to : esse hanno : Qua re cum semina fe re qua­tuor sint generum, quae transferuntur e terra in terram per se a natura, alia ex industria, ut faciunt viviradices 2 quae ex arboribus, etc. Qui certamente si trovano le vesligia di questa maficanza, ma sono fuor di luogo. Prima però di andar oltre è da cercarsi eiò cbe manca.: il che faremo dietro Teofraslo, come quello a cui allude Varrone* Egli dunque nel lib. 11, cap, 1 della Sto­ria delle Piante ha così : u Le generazioni degli alberi e generalmente delle piante, provengonoo sponlaueamente, o dal seme, o dalia radice, o dallo stolone, o da soreoi o, o da ramo, o dallo*

stesso tronco, o anche dal legno inciso in piooole parti. » Da qaesto luogo di Teofrasto a raccoglie ehe le piante nate spontaneamente tono quelle che da Varrone si dioono per se a na tura; « Che le piante nate dal seme si dicono ex indu­stria, delle qaali genera lioei ne parla Varrooe nel seguente capitolo. Ma come poter asserire ehe le piante quae transferuntur de terra in terram per se, ciò nasca a natura t Queste as­surdità è stata evitata da Aldo, avendo egli nella sua edizione : Quare cum semina fere quatuor sint generum, quae non transferuntur e terra in terram , sed per sefiunt a natura alia ex industria, ut faciunt viviradices. Ove è da os* servarsi che se le ultime parole u t fa c iu n t pivi- radices le ha prese come un* eccezione della prima specie, può correre; che se poi le ha tolte come nn esempio, ha detto il falso ; poiché noa è vere che le msrgetle non si trapiantino da ooa terra in un1 altra ; corae d 'altronde è falso che ciò si faccia spontaneamente dalla natura, dipen­dendo il tutto dall* arte : il che si eoo ferma da quanto dice Varrone nel seguente capitolo : Pri­mum semen quod est principium genendi, id duplex; unum, quod latet nostrum sensum; alterum, quod apertum ; latet, si sunt semina in a è re, u t ait physicus A nax agora ; et s i aqua quae influit ia agrum, inferre solet, u t scribit Theophrastus. Illud quod apparet ad agri- colaS) id pidendum diligenter. Qai dunque si parla di due specie di semi, nno dei quali è na­scosto ai nostri sensi, e l1 altro cade sotto i me­desimi. Di ambidue cantò egregiamente Virgilio nel lib. 11 delle Georgiche': del primo ne parlò ia qnesti versi 1

4 Principio arboribus vatia eat natara erean*Ks : JVamque aliae, nullis hominum cogentibus, ipeae5 pool e sua veniant; campoeque et flnmioa lato Cerva lenent, ut molle siler, lentaeque genistae, Populus, et glauca canentia fronde salicta ; n

e del secondo ne fece parola ne’ seguenti :

a Pars autem posilo surgnnt de semine, ut altee Castaneae, nemorumque Jori quae maxima fron­

detAesculus, atque habitae Grajis oracula qaercos. »

Dalle quali cose si può inferire che Varrooe avrà scritto verisimilmente, o in altra maniera aualoga : Quare cum semina fere quatuor s in t generum, quae per se fiunt a natura, alia ex industria.

1 codici di Vittorio e il Cesenate hanno : Quae transferuntur e terra in terram vieas-

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radices, ovvero pivairadiceS : Genson vi ag­giunge u t faciunt vivas radices. La quale spe­cie, siccome abbiamo vedo ter di sopri in Teo (Va­sto, si suddivide; poiché una trae la sua ori­gine dalla radice, e di cui così dice il Poeta Man­tovano:

u Pullulat ab radice aliis densissima silva,Ut cerasis, ulmisque, etiam Parnassia laurus Parva sub ingenti matris se subjicit umbra : »

e r altra dallo stolone. In tre maniere si ado- pra questo stolone: o si svelle dalla madre, e si pianta :

a Hic plantas tenero abscindens de corpore raà- De posuit sulcis; » trum

avvero si enrva e si cuopre colla terra, o còme dice Virgilio :

\

« Silvarnmque aliae pressos propaginis arcua Expectant; w

ovvero sia, come ti accostuma ai nostri giorni negli agromi, si fa passare in nn vaso di terra cotta, oode preoda radice»

Ora viene la terza specie, indicala da Var­rone con queste parole: Quae ex arboribus demta demittuntur in hmmurru Di questa terza specie se ne fanno quasi due parli da Tcotra- sto, le quali però oon differisoono che nella gran­dezza, e sono il sorcolo e il ramo, Virgilio par* landò di questo disse:

« Rii radicis egent aliae, snmmumque pulator Haud dubitat terrae referens mandare cacumen.»

E parlò d e i primo quando scrisse:

«t Hic stirpes obruit arvo Quadrifidajque sudes, et acato robore vallos, »

A questa tersa specie di Varrone si riferi- •ceno altresì le due ultime specie accennate1 da Teofrasto, dicendo egli che le piante na­scono dallo stesso tronco, o anche dal Irooco inciso io piccole parti. Virgilio parlò di am­bedue; e della prima disse:

* Sed truncis oleae melius, propagine vites Respondent, solido Paphiae de robore myrtuf ; «

« della seconda :

“ Quin et caudicibus seelis ( mirabile dictu ! ) Truditur a sicco radix oleagina ligno, n

8Gi

Luigi Alemanni nella sut Coltivazione cantò :

a Ma quel eh* è piò, che dalla morta oliva11 già secco pedal segando in basso Si vedran germinar le barbe anoora. n

Passiamo finalmente alla quarta ed ultime specie compresa in queste parole: Quae im eA runtur ex arboribus in arbores, e che da Teo­frasto i divisa iu due parli, cioè in innesto e occhio ed innesto a rametto: delle quali due incisioni cos> disse Virgilio t

a Neo modus inserere atque oculos imponere sim­

plex;Nam qoae se medio traduot de cortice gemmae* Et tenues rumpunt tunicas, angustus in ipso Fit nodo sinus, huc aliena ex arbore germen Includunt, udoque docent inolescere libro.Aut rursum enodes trunci resecaptur, et alte Finditur in solidum cuneis via, deinde feraces.

'Plantae immittuntur, nec longum tempus, ek N ingens

Exiit ad coelum ramis felicibus arbos,, Mirata estqne novas frondes, et non sua poma. *

Cap. XL. (i) Quod est principium genendi. Questa è la vera lezione, quanlunqde si abbie nelle edizioni anteriori a Vittorio oriundi. I c o ­

dici hanno cenendi; errore nato dal cangiar il G in C. Quanto dice qui Varrone, si trova in Teofrasto de Causis Plantarum^ lib. i, cap. 5.'

(2) A qsissgora era di Clazomeoe, e abban­donò il suo patrimonio consideGebile per dedi­carsi allo studio. È morto a Lampsico, dopo aver fatto molti viaggi, a motivo d*istruirsi.

Il nostro Marco Terenxio ha preso tutto que-• sto dal lib. ut, cap. 25 della Storia delle Piante

di Teofrasto.(3) E t si aqua. Secondo Ursino è da leggersi s

E t aquanty quom p lu it , inferre solet: nelle edizioni di Basilea e di Gimnico si legge : In aqua qua fluii et in t etc.

(4) Galbuli. Reca veramente meraviglia,come Tornebo, uomo dottissimo, abbia voluto correg­gere galbuli, ovvero sia galguli ( voci ambedue usale dagli antichi ) in globuli. Se Varronc si fosse servilo della parola globus% non sarebbe stato me­stieri aggiungere la spiegazione id est tanquam pilae parvae corticiae, essendo oosa nota anche ai fanciulli ; ma sicoome ha usato una parola non tanto nota, quindi è stato nella necessità di ag­giungervi la interpretazione. Nelle glosse antiche galgulus si trova interpolalo per bacca, e nel lib. xvn, cap. 10 di Pii io si spiega galgulus per pilula . Ursino poi è di parere ohe le parole tan­

86*ni M. TERENZIO VARRONE

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863 ANNOTAZIONI AL LIB. I Dfc RE ROSTICA 6 6 {

quam pilae parvae corticiaes iena d'altrui mano. Teofraslo <Mce lo «tetto nd lib. i* cap. io della Storia dell* Piante.

(5) Num prima, etc. Aldo colP aver cangiato nam m nmm ha volato dubitare» quando che Varrone non ha alcan dubbio, coftie conila dille parole anleeedenli. I codici Polistaneo e Veneto hanno nam .

(6) Secunda semina ... a Non ex prima divi­sione e. 39, aed ex generali, qaa modo temina •mnia in prima et feconda divisit. Caeternm haec Terba j secunda semina occasionem dedisse puto laconae. Verba enim, qoae sequuntur, tempus enim idoneum, etc. aperte nimis ad secundum genus divisionis quadripartitae de qna cap. 39, pertinent; qaod etiam Cresceotii locas jam pro­ferendas indicat Librario igitur vel vox tempus bit potita vel secunda semina errandi occatio­nem et omittendi, qaod centies factam est, dede­re. Itaque lacunae signam adpotai.» Cosi Ge­snero.

(7) Lo stesso ti ha in Teofratto nel lib. 1, cap. 6 de Causis Plantarum .

(8) Vernum tempus idoneum. quo minus habet humoris. Nelle ediiioni anteriori a Vitto- rio le quattro ultime parole si trovano in primo laogo, persuadendoti gli editori che qui Varrone dicesse che la primavera ha poca umidità. Ma ciò è falso, perchè queste quattro ultime parole ti riferiscono al terreno magro e tecco, il quale in tempo di primavera scarseggia di umidità. Se gli antichi codici non avettero disposte le parole ac­cennate «M qaeir ordine, con cui stanno nel tetto, sarebbe alato ovile di meno mestieri cangiarle di luogo, perchè Teofrasto le ha poste altramenti dalla tuddelle edizioni. Dunque il verbo habet M i ti riferisce alla primavera, ma bensì al ter­reno.

Creicenzio nel lib. 11, cap. aa, dice: F iunt au­tem plantationes praedictae de mentibus Octo- brit vel Novembris in locis aridis et montuosis et calidis: ut ejusdem terrae superflua siccitas circa plantas humiditate hiemis temperetur : in humidis autem et vali i culo sis et frig id is convenientius in Februarii et M artii semen plantatur, ne superflua hiemis et loci humi- ditas debilis plantae naturalem calorem extin- guat. a Scilicet Theophrastus (aggiunge Gesnero) et Varro praeaenìem loci statum considerant, Crescentias in fuluraro prospicit, etc. Caeterum hanc observationem pertinere, statim subjungit Crescentias, ad ea quae cum radicibus plan­tantur; quod est ipsam secandum genus semi­num quadripartitae divisionis, in quo versari hanc locum apparet »

(9) Quod ex arbore per surculos, etc. Vit­

torio ha ritenuto la cornane, lesione, oon perchè crede che questa sia la Vera, ma perchè qoalUi dei codici è parimente guasta : Quod ex arbore per surcùlos defertur in terram si in humum démittitur in quibusdam, cum est videndum, etc. Scaligero ha trovato pure ne1 codici lo stesso di Vittorio, te oon che hanno sarclos.io luogo di surculos. Egli è persuaso di leggere destri- tury e non defertur; quantunque confessi che sia tollerabile anche defertur. Secondo lai si in humum demittitur sono ana gtaisa. E danqne

1 persuaso che Varrone abbia scritto : Tertium gtnks seminis, quod ex arbore per surclos deseritur in terram . Videndum, ut eo tèmpo* re sit deplantatum, quo oportet.

* Ursino ba Ietto in un vecchio eodice disseri+ tur, rat forse, secondo lai, è meglio leggere dif­

fe r tu r , come si legge nel cap. 4a di qaesto libro. Egli crede pure che le parole : Sic in humum dim ittitur, ut in quibusdam tamen s it sieoo state aggiunte. Popma dice che deferre semina in terram, vale lo stesso che disserere et demii* tere. Columella nel lib* xi: Tunc etiam lupini haec erit praecipua quidem satio, quem vel ah area protinus in agrum deferri putant opor­tere; e nello stesso luogo: Per hos dies qaae* cumque semina deferri debent, arbuscmlaeque omnis generis recte ponuntur.

Noi crediamo che il vero testo sia il seguente : Tertiom genus seminis, quod exs arbore per surclos defertur in teram, quom in humutn dimittitur, videndum, Uti eo tempore sit de• plantatum, quod oportet: Ora stando alla lettone riportata dai codici, perchè metterla condizionale si in humum dim ittitur T Forse che ciò sempre non si fa ? e noo tolgono i rami dagli alberi per piantarli io terra? In quibusdam cum est videa- dum, o come hanno le prime edizioni in quibus* dam tamen est videndum. Qoi è facile V accor­gersi che queste parole sono false, perchè ciò 000 si deve osservare solamente in alcuni» sieno essi soreoli, magliuoli, sarmenti, o verghe, maio tatti. Dunque queste parole in quibusdam cum est sono spurie. Si potrebbe rendere afta ragione

'probabile di qoest’ aggiunta, dicendo, che alla parola si vi .sarà stalo on segno, e che on altro corrispondente si tari messo al margine eoa queste parole in quibusdum cum es t, cioè chi in alcuni codici in luogo di si si legge cum. Qee- sto è certo che rigettando quali sparie le aoii- dette parole si ha un ottimo ed intero sentimento.

(10) Virgilio nelle sue Georgiche si è servito delle medesime parole di Varrone.

(11) Demum in oUagineis seminibus alii taleas appellant. Vittorio non ha introdotte in questo luogo slcon cangiamento, perchè i

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865 DI M. TEftBKZIO VARRONE 8 G6

co ilici variano Ira di loro : in titani ti )egge dum in laogo di demum; e io atlri ai legge aliis eia- volas per alii clavolas. Urtino pare e Scaligero vogliono leggere dum , benché il primo creda cbe tia meglio dire tum; e ambidue ti accordano ■el rigettare la parola arbores% cbe da Gesnero ai è. metta tra partateli.

tt Non demum ( dice Pontedera ) sed tantum dum io vetostia non impeettit libris invenit»* tettata r Victorias; ideo cam proximam praece­dat demittunt, ex ntroqae faiste demittundum eam aliis aadeam affirmare. Qaod tam hoic sen­tentiae aocommodatint, qotm Varroni te inficit- tarara non pnto. Reliqoa vero: In oleagineis seminibus atqae appellanhtrii fortasse qai de- murtata et lacera ex Nonio tibi probaverit; com bic ex Varrone plara sumpsisse videatur, videli­cet : Taleas scissiones lignorum vel praeseg­mina Varro dicit de R. R . lib. t ; nam etiam nunc rustica poce intertaliare dicitur divide­re pel exscindere ramum ex utraquè parte mquabiliter praecisum , quas alii clavolas, alii taleas appellant. Sed nam ita ineptas Var­ro aat Noniat qai taleam ette a Graeco $a\{a non noverint : aut non ingenio a<leo obtaso et piagai qai intertaliare ex hoe nostro vernacolo termone atqoe a talea qaae secando fit, tale a re primam, deinde tagliare ortnm non agaotet- motf Qaare ista: nam etiam nunc rustica poce intertaliare dicitur dividere vel exscindere ramum ex margine, remotis Varronianit, irre- paiate, ut mox alio in loco apad Noniuvn factum •stendam, atterere nolint «lubitab*. Ergo qai verbam intertaleo latinilate donarant, qao ju­re, quo aaetore, et qao exemplo fecerint, ipsi viderint. Talea itaque $a \iay 9a7LiOj SaAof venit, haec autem pullulo: clavola vero,pro qao in antiquis impressis libri*, el non im- prettit etiam legitur corropte sclavola, t clapa ob timilitadinem deducitor, noroenqae trahit. Concludamus taoe nihil-esse, qaod in Varrone a t vitiatum daraneroas ; qaigpe illa etiam qoibas Boannlli offendantur : ut sit semen. . . . praeci• sunt, quas alii clavolas, alii taleas appellant, dilucida snat, ceq illud lib. ii horum (asinorum) generea duo : unum feram , quos vacant Ona­gros. n

(ta).Pare che sia da levarsi il punto avanti ridendmm, e che vada posta nna virgola.

( i3) Secondo Urtino è da leggersi : Neque enim si malum pirus, hoc sequendum. M ulti mruspices audiunt, a quibus% etc. a Qaid j i el- liptit bie ette! ( dice Getnero ) ita sapplenda, neque enim hoc procedit, et si malus pirum recipiat T Trantpotita verba nihil haberent diffi- «oltatia. Neque enim si malus pirum recipit,

etiam pirum recipit q u e r c u s Pontedera dutri- boitee le parole di Varrooe oel tegutnle modo : Non enim pirum recipit quercus; neque etiam si malus pirum , hoc sequuntur m ulti qui aru- spices audiunt multum , a quibus proditum*

(14) Si chitmtvtno a r dtp ici quelli che predi­cevano T avvenire dairostetvaiione delle vitecre degli animali.

(15) Plinio, nel lib. xvit , cap. pare 17, dicet Quoniam ramo jam seri religio fufgurum prohibet. E altrove nel libro e cap. i 5 : Neque omnia insita misceri fa s esty sicut nec spinas inseri^ quando fulgura expiari non queunt

ja c ile ; quotque genera insita fuerunt^ tot fu l ­gura uno ictu pronunciantur. Veggasi aache Palladio al mete di Febbraio.

(16) u Ut sit utraque malus. Videtor legen­dam ut si; ett enim exemplum ejat, quod dixit, si ejusdem generis est. Verba vero, referentem ad fruc tum , abundant, » Così Urtiao.

(17) E x arbore .... exaequatum habeat. Le tre prime editioni omettono quis: in vece di e qua ti trova quam in Gentob e in Poliziano. Pontedera amerebbe di rigettare surculum , e leggerebbe aemplicemente : E xs arbore quam volt habere, e/£., ciòè che il proprietario desi­dera di rimettere per metzo del vicino albero. Coti parafrasa Getnero questo laogo diffioile: a In trbocit, coi interendut ett nobilior tarcufut, ramo praeciso, uli mofit est, ac diflìsso implioé* agricola, hoc ett inserii eum locum surculi ar­bori suae adhuc continentis, qui cohtingity hofc est pertingit ad raraum praeciso no ac diffissum. Hujus sarculi utraque pars, qoa intrare fi ituram, et ioteriora rami contingere debet, extenuatur et laevigatur falce, ita ot retiqat pars, quae coe­lum, hoc est liberum a$rem ( non accurate Iptara regionera superiorem) visura est, corticem cum cortice rami iptiut exaequatum habeatt tanto uempè ftciliat cotlitarum.»

• (18) Quem insereret. Secondo Ursino >è da

leggersi inserit, ovvero inseret.(19) Ab altera arbore. Qaeste parole le cre­

de Ursino di altrui mtno. ÀIcuoo qai, o anchelo stesso Varrone, avrà voluto dichiarare la fona di unde. Lo stesso si trova nel seguente capitolo e io Terentio, E un. prolog. 11: Scripsit cau­sam dicere prius, uode petitor, aurum quare sit suum , quam illic qui petit. Unde petitur% cioè reum, a quo petitur.

C ir . XLI. (1) Caldórem. Le prime editioni hanno calidiorem, ed il codice Politianeo cal­diorem. Crescenzio nel lib. v, cap. io, si è servito della parola calidiorem. Varrooe per altro ador pera promiscuamente caldus e caldor.

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86* ANNOTAZIONI AL MB. I.DE RE RUSTICA 869

(a) Quod inseritur caniculae signo, com* modissime existim atur inseri. Qaesto è il le­sto di Aldo, che servilmente si è segaito Qpo ai noitri giorni; ma se sliamoalle edizioni di Gon­ion e di Bruschio, a tnlt’ i codici esaminati da Vittorio, al codice Polizianeo, e al Veneto e al Ce- senate, si legge qui Jit caniculae signo. Alcuni obbietteranno òhe qui non è neutro ; al che si risponde che appunto qui si è adoperato in am­bedue i generi da Terenzio nell’ Eunuco, di- ceado:

« Hunc ocolis saia Nostrarum nunquam quisquam vidit, P hae d ria,»

e da Plaato Vidui. :

« Die mihi, si aodes, qais ea est Quam vU docere uxorem f »

«t Igitur qui ( aggiunge Pontedera ) cum sit pro­mite tue naturae, neutram erit, ex qoo cam d insilitio ex prisca scriptura quid habemus. Simi* liler cujus ia secando casa, et cui in tertio at- qoe in sexto qui de omni re declarator. Nec se­cat queis vel quibus ior mollitudinis namero, et ques quod non Unium qui eiqnae, cum de plu­ribus dicitar, sed etiam quos et quas significat. Quapropter quid est cur apad nonnullos Unto- pere hic Plauti versas exhorrescat f

« An ita ta es animata, at qui expers matris im­perii sies. y»

Tatto questo capitolo di Varrone è tratto dal lib. i De Causis Plautarum di Teofrasto.

(3) Lo stesso ba Teofraslo nel luogo citato.(4) Questo precetto si trova pare in Teofrasto

nd luogo testò allegato. •{5) Itaque vitem triduo . . . . humor ad-

venticius effluere possit. Per far sì che l ' inne­sto delle viti don patisca, a motivo della troppa umidità di coi abbondano, suggerisce Varrooeo di troncar la vite tre giorni avanti d1 innestar­la, ond' etea il troppo umore, ovvero tia d ' in­nestarla senza tagliarle il capo, e di faiie sotto 1' innesto on taglio circolare, per dove possa uscire il ridondante succo. Dunque avanti tri­duo va potto aut, che nel codice di Poliziano si trova corrotto in cum, ed aut invece di at : tro­vati apponto aafnei codici Fiorentini, nd Poli- liaoeo, od Cesenate e nelle prime edizioni. Inol­tre nell' edizione Aldina si legge qui in ea, qaando le prime edizioni, doe antichi codici Fiorentini ed il Polizianeo mettono quod ea, che qui va preso per eae, perchè siccome gli an­

tichi dicevano ila, ilae% ilaey ilam , così scrive­vano ea, eae, eae, eam. Finalmente è da riget­tarsi V unde di Aldo, ed è da soslitoirsi in yoo, che trovasi taoto nelle edizioni, quanto nei co­dici, Sicché reca pilotando, ecco il tèsto che noi abbiamo tradotto : Itaque vestem aut triduó ante, quam inserunt, des icant, uti ( quod eoe

nimhts est) humor disfluat ante, quam inse­ratur: aut in qua im erunt, in ea paulo infra, quam insitumest^ incaedunt, in qma ham orad­venticius ex s fluere possit.

(6) E t si qua etiam ho rum natura aridio* ra, continuo, u In quibus major ne fuerit Aldi audacia, qoi priscam cusam aridior, Politianio quoque libro nixom, io aridiora depravaverit f ao secotae aetatis'editorom negligeotia, qai ad nos tam foedum vttiuo} propagaverit, miraberis Coti Pontedera.

(7) Ut quod transforas, È meglio dir tom Genton transferatur, e mettere una virgola avanti in cacumen,

(8) De his (prim is) quatuor generibmtk Certamente che primis sovrabbonda ; e percio si è messo tra parentesi da Gesnero,

(9) E quibus parvis, quod enasci. « Si legat9 quibus, quod parvis, enasci coliculi vix que* unt, nihil difficultatis fuerit. Volgata lectio oisi ioepta, certe mihi est obsoarissima. » Cod Ge­snero.

(10) Lo stesso si ha in Teofrasto nel lib. v, eap. 8 De Causis Plantarum, e in Plinio nel lib. xvn, cap. i 3.'

(n ) Itaque fic u s ..........in hoc enim humi-diora quam aridiora. Ursino legge calidiorm in luogo di aridiora ; nè si ta da‘qaal font*ab­bia tratto questa parola. Ursioo rigetta le pa­role in hoc enim liumidiora quam aridiora* u Illud qaidem video ( dice Gesnero ) « ib i haeo verba esse obtcorissima ; sed ejicere propter ea non ausim. » Sono per veri là* osco re, ma riesco­no chiare se non si riferiscono a contra palma, et cupressus, et olea, in crescendo tarda ; ma beml alle superiori ficus,m alus punica, et vitis* etc. È donque da interpretarsi : IUqoe in hoc nempe. ad crescendum prona magis valent humi* diora quam aridiora,

(ia) Orsino rigetta ex terra, e legge : Qaare potius inr seminariis. Senza imitar Vardire di Urtino, ti faccia et di ex, e si toglie ogni oscu­ri tà.

(13) Il codice di Poliziano e le tre prime edi­zioni leggono diversamente da Aldo : Tum cmim per resticulam foicos, quas edimus, m aturat perserunt.

(14) Ubi obrutae. Forse è da leggersi, dice Ursino, ut ìq luogo di ubi Qai certamente ne*

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è necessario questo eaogtamento, perchè prece­dono le parole quo volunt mittunt.

(v6) Quam e taleis . . . . serimus. Ursino dice che le parole quam # taleis sono stale ag- giuole dagli spositori. Siccome qol precede ena- ìcebatur, perciò sarebbe forse meglio leggere sevimus in luogo di serimus•

Cip. X L1I. (i) De medica, Vittorio non trovò ne1 codici queste due parole, e sospetta che vada­no trasportale ad in jugerum unum, qaal lemma dell'erba medica. Scaligero è con Vittorio; aozi è persuasissimo cbe tulte le parole del lesto sino ad in jugerum tieno una coulinuaziooe dell'an­tecedette capitolo, perchè l'erba medica spargi- tur, e. P olivo demittitur, Popma e Pontedera sono della stessa opinione: di falli l'erba mèdica addiroanda an terreno pingue e ben lavorato, non già arido e fangoso, cóme ci assicurano anche Virgilio, Columella, Plioio e Palladio.

(2) Sesquimodium . Culumell^ nel lib. lì, cap. 11, semina nn cyathum di erba medica in uo' estensione avente dieci piedi di lunghezza, e ciuqiie di larghezza ; per consegueoza nel lib. xvui, sez. 43 di Plinio, non è da leggersi in jugera modia vieena, ma forse in jugerum modii bini, o\ vero in jugera vicena modia tricena.

(3) I d seritur. Ursino lesse in uq codice id d if fe r tu r . Pontedera sembra approvare questa lezione ; ma è da rigeltarsi, poiché l'erba medica non si traspianta. Gesnero e Pontedera vogliono die si leg^a semel jaciatur , oode non sia neces» sa rio seminare nuovaraeute. Vittorio trovò nei codici un X iu luogo di scilicet; e perciò,Pon­tedera lo voleva esclusa dal testo.

Cap. XL11I. (1) Sesquipedem. È oscuro in questo luogo Varrone, non sapendosi ben dire se il piede e mezzo appartenga alla pYofondità della fossa, ovvero alla reciproca distanza delle piante. Colamella nel lib. v, cap. 12, prescrive cbe le piante del citiso sieno per ogni parte di­stanti ira d i loro quallro piedi; e Plinio assegna a quelle che hanno la lunghezza di an cubito,

uua fossa d i nn piede.

C ap. X L 1V. (1) Si macer, minusf Colamella nel lib. 11, cap. 9, dice apertamente il contrario. Ursino onrette poco dopo serendi, ed egregia­mente corregge il teslo così : consuetudo erit, ut tantum fa c ia s : quod tantum valet.... terrae, ut ex, etc . P»ù brevemente si può dire facias. T a n tu m valet,

(2; Garada. Non si sa esservi alcuna provin­cia, o città con questo nome. Forse è da leggersi G adara , di cui ona volta ve ne furono due nella

Siria. Così correste Schoeltgenio, applaudito an­che da Gesnero. È con questi Bocharto al lib. 1 delle 6eorgiche di Virgilio, ppg. 525. Ponte4m oorregge Varrone per metto di Plinio, il quale in d<ie luoghi dice apertamente che il terrene di Bitacio frotta il cento cinquanta per ano.

(3) Debbesi ricorrere al cap. 37 di queslo li­bro. 1 commentatori discordano tra di loro sa questo passo. Noi ci siamo fatto lecito, dietro i codici e le edizioni, di cangiare Licinius in ///e, qoasi che chiaramente non s ' iutendesse che Li­cinio ripiglia il discorso; Sarebbe da mutarsi le corrente iolerpretazione cum sunt, matura pa- riunt poma, perchè è certo che.gli alberi, 9 le biade non partoriscono subito frulli malori, do­vendo prima precedere il concepimento e poi la maturazione. Dicasi adanqoe praegnantia, cum sunt matura, pariunt poma. Stando alle antiche edizioni è da tralasciarsi simile eiy e da scriversi Sic alia. A quo profectum , redit semen.

(4) Idem bis. Saggiamente Ursino e Pontedera restituirono l'antica lezione, facendo diem idem bis, conformandosi in ciò anche a Teofrasto nel lib. 1, cap. 14 De Causis ' Plantarum, Gesnero difende senza TBg\oue.praegnatiortis; e vuole che sia lo stesso di praegnationes.

Cip. XLV. (i) Prodit seges. Teofrasto nel lib. vili, cap. 1 della Storia delle Pianlé, e da dove Varrone La trailo queslo sentimento, dice che la fava esce un poco più tardi dell’ altra bia­da; e perciò sarebbe da dirsi prodit quam segts% cioè la biada. Pliuio oel lib. xvm, cap. 7, fa che i legumi escano di terra sul quarto giorno,od al più lardi nel settimo. Non senta ragione adunque voleva Ursino che dietro a Teofrasto e Varrone si leggesse in Pii io legumina quarto , vel cum tardissime quinto, Ursioo è di parere cbe seges ostendit sieno uoa glossa ; ma stando ai codici ed alle auliche ediiioui è da leggersi prodit. Se* ges ostendit. Per seges qui è da intendersi il campo, o la terra seminata.

(2) Quam supra adolescunt. Pontedera, per mezzo di Teofrasto, saviameote corregge il testo

eosì: quam quae supra adolescunt, Ursino ri­getta la voce radices come superflua.

(3) Ringuntur. 1 codici esaminati da Vittorio hanno tinguntur. Forse, secoudo lui, è da leg­gerti tanguntur, cioè feriuntur, caedunturque, perchè Varrooe nel lib. 11, parlando dei dannp cbe ricevono le bestie dal freddo, ditte : E t inji­citur aliquid^ ne frigus caedat. Scaligero mette restringuntur. Urtino restinguuntur, Schneide- ro con Crescenzio c coo 00 codice V eoe to eingun- tur, e Pontedera stringuntur, Gesnero sta per la lezione del testo, dicendo che qoi si adopera

870DI M. TERENZIO VARRONE

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«7i ANNOTAZIONI AL LIB. I DE RE RUSTICA 87*

quello verbo metaforicamente. Noi abbiamo tra­dotto Mringuntur, essendo certo che in gratia della circostante aryi fredda gli omori si Mden- m d o nelle piante, e cbe quindi è interdetto i l ger­mogliamento. Gellio disse mare gelu stringi; e Lucrezio morbus ut indicat, et gelidai stringar aquai* Appoggiati a Poliziano ed ai codici, non già ad Aldo, è da dirsi poco dopo : Nam prius radices, quam ex eis quod solet nasci, cre­scunt.

(4) Neque radices longius. Scaligero è per­suaso cbe si debba leggere nisi quo pervenit sol. Urtino poi cangia tempore in tepore, e toglie di m eno longius, perchè Teofrasto e Plinio diconolo stesso. Pontedera sta per la lezione del lesto. Noi abbiamo volgarizzato il seguente testo dietro a Popma : nisi quo tepor venit solis. Si potrebbe •nclie dire nisi quotenus pervenit sol. Forse fla solis nacque his che,-come inutile, è rigettalo da Poliziano e da Crescenzio.

Cap. XLVI. (i) D ici potest. Stando a Teofra* sto ed 11 Plinio è da dirsi disci potest^ e poco dopo discitur. Un argomento che conferma que­sta correzione, ce lo somministra il titolo. L'os­servazione smentisce qoanto asseriscono Teofra­sto, Varrone e Plinio circa il volgersi del girasole. Deriverebbe forse questo dalla differenza del cli­ma? ovvero V heliotropium è differente dal no­stro girasole? Egli è certo anche oggidì che le foglie di parecchie piante seguono la luce del sole, come sono alcune delle pinnatifide, le cui foglie si serraoo nella notte, e si aprono la mat­tina : questo fallo però non ci avverte della sta­gione corrente.

Cap. XLVII. ( i ) Deligatis. Ursino vuole che un poco avanti si legga molliore e che si riferisca a natura, perchè nel cap. 45 di?se quae molli natura sunt. Lo stesso Ursino leva via deUgatis ; uel che non ha tulio il torto, perchè qui non si adoperano che due gole tavole, le quali, per co­prire le cime delle pianticelle, basta cbe sieno reciprocamente inclinate, e che nella sommità st Combacino. Se fossero Ire, bisognerebbe allora legare le laterali alla superiore.

(a) Aridae Jactae. Questa lezione è falsa. Gli agricoltori non debbono aspettare che le piante diveutino secche, perchè allora sarebbe toperflao di sradicarle: d'altronde j semi delle medesime sarebbero già cadali in terra ; il che iocolca Var­rooe di evitare nel eap. 37 di questo libro. Si può dira o adultae, o vividae, ovvero validae.

(3) In nutricatu. Ursrao crede che sieno spu­rie questa parole. La seguente vooe quo o è dt

interpretarsi per quare, ovvero è da leggerai con alcune edizioni fttin.

Cap. XLVIII. (1) Ursino taglia fuori fru m e n ­tum. Due codici e ie prime editioni danno il se­guente testo t frum entum , in quo culmos ex­tulit spicam. La sentenza di*Varrone riesce cosi chiarissima, cioè che tra i grani che si semina­no vi è la biada, dalla col sommità spunta la spica! in tal roodoii viene a distinguete la bia­da dai legami, dalla sommità dei quali escono lateralmente le silique.

(а) Mutilata Indica Varrone che vi sono dae speoie di spiche; una delle quali, oltre il grano e la lolla, ha ancora la barba, come P orxo ed il formenlo ; l'altra manca di barba, come l’ avena

e la spelta.(3) Theca. Questa è nn’ invenzione di Aldo,

perchè Varrone ha già detto di sopra, che la gluma è l ' involucro del grano. Dal vedersi poi cbe nei còdici gluma et arista sano separate dalle parole antecedenti e conseguenti, e che restando isolate non danno alcun sentimento, si ha nna ragione plausibile di sospettare che sieoo parole marginali introdótte nel testo. Quel­lo dunque che noi abbiamo tradotto, è il se­guente : arista quae uti acus tenuis longe emi­net e gluma, proinde u ti grani apex s it '

(4) Enhemero era di Messina in Sicilia. Egli compose la Storia degli dei dietro le inscrizioni che aveva raccolte nei piò antichi tempi. Que­sta storia è stala tradotta da Ennio.

(5) Spes. E messa in ridicolo da tatti cotale origine* Veggasi Festo in spicum , ed Isidoro Orig. xvn, 5.

(б) Frit. . . . urruncum. Noi non accenne­remo nemmeno le lunghe dissertazioni fatte da­gli eruditi su queste due parole : ci limitere­mo solo a dire che cotali paròle non si trova­no nella lingua latina. La prima è anche priva della terminazione latina. Nulladimeno hanno tentato alcuni di farla derivare dalla vooefr io , per significare che questo grano è senza sostan­za, e perciò anche moltissimo friabile. Quando anche ciò fosse, ilche è contro il fatto, essendo queslo picciolo grano durissimo ; per qual ra­gione il grano inferiore, ugualmente senza so­stanza, e del pari friabile del superiore, avreb­be ùo nome differente? Si è voluto parimente cercare in queste voci on' etimologia greca, per­chè Varrone, se si fosse servito della propria lingua, avrebbe cercato nella medesima la loro etimologia, come ha fatto riguardo alle voci gia­mo, arista, granum , spica. Il pretesto è fbraa ragionevole; ma fiuo ad*ora le etimologie gre­che sono tanto ridiooje, che non è possibile

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87? DI M. TERENZIO YARRONE 8 74

che un 0000 tenuto ne faci* alcun etto. E , però lasciando che copra di est» i minuti gra- matiel ai lambicchino latto il carrello che han- ' no, noi ci delermineremf a credere ona delle due: o che qoctle parole aono radici, o chc aono corrotte. Ma, supponendola errori, il che è pià verisimile, come lieUbilirle nella loro in­tegrità, non essendovi alcun autore che froda menzione di friL, o di urruncum ?

Cip. X L 1X. (1) Se li sta al nostro lesto, pa­re che di sopra non ai sieno fatte parole della nutrizione delle piante: on tale dubbio tosto ai toglie, distinguendo il testo coti: Cum con­ticuisset, nec interrogaretur, de nutricatu ere- dens nihil desiderari, dicam, inquit, de fru ­ctibus m aturis capiendis. Ursino e Pontedera vogliono, dietro alle prime edizioni, escluso il­le. Qui è da avvertirsi che si parla del quarto grado proposto al cap. 37 di qoesto libro.

(a) De his, Ursino e Gemerò credono che queste parole sieno di altrui mano. Quello che è certo si è, che ninno sa a chi riferirle ; quando bene non si sottintenda gramina^ voce dino­tata da Varrooe per herba.

(3) De pratis. Ancor queste sono parole aggiunte, in sentenza di Ursino, e crede che dal margine sieno passate nel teslo.

(4) Tuberosum. Pii io nel lib. xvni, cap. 28 dice: quoties secta sin t, siciliri prata, hoc est, quae foenisices praeterierunt, secari. E st enim in prim is inutile enasci herbas semen­taturas. Da Plinio adnnque si raccoglie il per­chè convenga siciliri prata : forse Varrooe avrà voluto esprimere lo slesso ; ma le soe parole noo so do chiare abbastanza, per intendere cosa sia il prato tuberoso.

Cap. L#. (i) Metimur. Le edizioni anteriori a

Vittorio hanno metuntur ; il cbe è meglio. Non vi ha per altro alcuna pià assurda etimologia : qui fa soltanto al nostro proposito il sapere a quali cose applichi Varrone la voce messis. E da cangiarsi con Ursino esse in est.

(a) Batillum . Gesnero è persuaso che questa pala non sia molto differente da quella che Var­rone nel lib. nr, cap. 6, vuole che si adoperi per raccogliere il letame. Ma chi leggerà Plinio nel lib. xvm, sez. 72, e particolarmente Palladio al mese di Luglio, vedrà che Gesnero è andato lun­gi dal vero. Dietro a Plinio poi è da cangiarsi in Varrone batillum in vallum .

(3) Messe m . Non è poi tanlo da disprezzarsi questa etimologia. Varrone ha avuto in vista la parola greca pivot.

M . T e r e u z i o Y a r r >np.

(4) Come ti vede, Yarrone fa derivare la pa­rola pafea da palam che lignifica allo sqqperlo.

(5) Ut stamen,. Ursino crede che queste pa» role sieoo una glossa, come qltresì le posteriori in eqi. Tuli' i commentatori trovano oscuro que­sto loogo : di fatti non apparisce a quale dei tre mòdi appartenga 1' opera ; é quando anche ciò fosse, certamente che non oonviene ad alcuno; laonde o questo membro è fuori di loogo, ov­vero si sono perdute delle parole. Nè Plinio, nè Columella d porgono alcnn aiuto per rischia­rarlo. Leggasi te non altro per maggiore chia­rezza in eoe, doè in ejus segetis jugerum, ov­vero cum in jugerum, etc.

Cap. LI. (i) Nooio nel riferire qoesto passo di Yarrone, cangia aestu in situ. Ognuno sa che iti creta, di sua natura tenace, si ammollisce ben­sì, come fa qualsivoglia terra, dalla muffa e dalla umidità, ma non si contrae, nè forma delle fis­sure : per contrario il troppo caldo e il secco, facendo svaporare 1* umido, la addensa e la rende piena di fissure. Duuque non fa al nostro caso situ , ma solamente aestu ; c perciò quello che aestu est paeminosum fa delle future éd è pe­netrato dal sole, e quello che soffre la sferza del sole non è soggetto nè a situmy nè a paedorem.

(a) E st inimica. Queste parole oon ai trova* no ne’ codia, ma in loro vece havvi de amurca. Queste sembrano annotazioni marginali intro­dotte nel testo dagli imperiti : almeno egli è cer­to che il senso è intero senza di esse; e perciò Gesnero ha fatto bene a metterle tra parentesi,

(3) Bagiennis. Qoesti sono forse quegli stesti, dei quali parla Plinio nel lib. 111, cap. 5, i 5 e ao, che egli poi chiama Vagienas, e che li meUe nel­l a Liguria. Quanto dicono Silio v a i , 607 e Plinio riguardo a questi popoli, si accorda totalmente con .quello che qui dice Yarrone. Nei luoghi móoluosi o poco lootani dal mare, o al principio de' fiumi, s ' inalzano nel tempo della messe dei nembi.

(4) Retecta. Abbiamo tradotto questa parola

coerentemente alla spiegazione che ne fa Ursi­no. Questi vuole tolto di mezzo tempore me­ridiano ; ma a torto, perchè allora il caldo è maggiore.

Cap. LI1.*(i) Chi vorrà maggiori schiarimenti su questo capitolo, ricorra alla pregevolissima opera dell* illustre Scboettgenio, intitolata de Antiquitatibus Triturae , pag. 35. L 1 uso cbe si fa della trebbia appresso molle nazioni Asia­tiche, è descritto daSchaw ne'suoi Viaggi,Tom« 1, pag. 287, e da Graclin nell' Itinerarium rusti-

cum% Tom. ui, pag. i 4<

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8t 5 ANNOTAZIONI AL 14B. I DE RE HOSTICA 8?«

(a) Pontedera propone da esaminarsi il ae- gueol* lesto : E x spicis in area exenti grana: quodfi t apud alios jumentis junctis mi tribolo. Id f i t e tabula lapidibus, aut ferro asperata (quo imposito auriga, aut pondere grandi tra­h itur), aut ex assibus dentatis cum orbiou- culis, etc.

(3) È veramente ridicolo il dire che i giu­r a c o l i debbano essere b a l l a t i con pertiche, on­de il grano esca della boccia. Noi, come si T e d e ,

abbiamo modificato il teslo. Forse queste parole appartengono ad un1 altra maniera di batteipil formento, q u a l e è appunto quella delle per­tiche, e di cui parla Columella nel lib. 11, cap. 21. Dunque qui havvi una lacuna, e non riman­gono che alcune tracce* Schoeltgenio ha tutta la ragione di leggere quo ad ungulis; e noi per­ciò P abbiamo seguito nella nostra traduzione.

Cap. L 1II. (1) Venire. Qoi significa vendi, al tramenìi non avrebbe più luogo V alternativa.

Cap. L1V. (1) Lectius. Avanli Vittorio leg­getesi lectae jus ; ma egli corresse lectius per­chè nei codici trovò così. Altri leggono lecta ; lezione che quadra più delle altre, essendoché per fare il vino, basta raccogliere 1* uva ; per conservarla poi, fa mestieri scegliere la migliore. Pontedera amerebbe che si dicesse sequius, vale a dire che la più catliva si porta al torchio per ispremerla.

(j) L'eruditissimo Reinesio Variarum leclio- num, pag. 187, ha creduto che vinacea fossero vasi per conservare le *ve; e si appoggiava a Plinio, il quale, 1, 64, dice : Uvae in vinaceis servatae faciunt screantibus sanguinem ; ma è chiaro cbe aono le vinacce.

(3) Areani. Ara abbiamo tradotto, perchè così leggesi in molti codici ripulatissimi. Per ara s' intende quel luogo elevalo della villa, sia che si faccia di muri, come nel torchio di Catone, ovvero di pali piantati in terra e di­stribuiti in quadrato, sui quali si mettono delle pertiche trasversali e delle stuoie. Su quesle si distende 1' uva e si fa seccare al sole, e poi si allacca nell’ alto della dispensa.

(4) Circumcisitum. I Francesi chiamano que­slo viuo vin de taille, e Columella tortivum .

C a p . LV. ( i ) Legitur. Vittorio e Poliziano lessero ne' codici laudabilior L. quam , etc. Sic­come di sopra vi è melior, così qui non avrebbe luogo laudabilior.

(2) Non solum. Varrone in queslo luogo parla di due incomodi originali dal cogliere le olive per mezzo de' ditali : uno di questi è quello chc

rigoaaia V offesa de’ rami ; 1' altro oon apparisce. Pare dunque che quest’ ultimo sia, che racco­gliendosi le ave coi ditali, se ne lascino addietro molte per la durezza dei medesimi. Dunque, ac­ciocché quest1 incomodo oon fosse intralasciato, era da aggiungerai una parola negativa, e ti ire non solum non stringit baccam. Potrebbe an­cora darsi che in luogo di non fosse da leggersi nimium, per la ragione che per la durezza dei ditali stringendoli di troppo le bacche, noo solo restano offese, ma anche si fa si che in uno alla morchia sia spremuto qualche poco di olio. No­nio, citando questo passo di Varrooe alla voce stringere, dice : Varrò de Re Rustica lib. i, quod non solum celeriter praeterire stringere vocant, sed etiam re transglubit, Ogouoo vede quanto corrottamente si riferisca questo passo di Varrone da Nooio; ed è da credersi che alle pa­role di Varrone non stringit baccam vi fosse nel margine annotato cosa esse significassero, e che perciò ivi si trovasse scritto celeriter praete­rire. Inoltre sed etiam re transglubit sono pa­role corrotte; e forse re e trans sono le tracce della voce ramos di Varrone.

(3) Alternis annis. Ponlederà cooobbe che qui v’ era un errore massiccio, coi Gesnero non ha voluto abbadare, quantunque oe fosse avver­tilo. E dunque da dirsi singulis annis, o non alternis annis, ovvero, il che è megiio, alternis annis non singulis ferre fructus .

Columella, nel lib. v, capitoli 8 e 9 ; Plinio, nel lib. xv, cap. 3 ; Alamanni, nel lib. iv della Coltivazione, e Vittorio, in quel libro che ha per titolo Delle lodi c della coltivazione degli ulivi, parlano in modo oon dissimile da Varrone. Ma chi ben esamina la faccenda, vede che la ragione, per cui gli ulivi oon rendono frullo «e 000 dei due anni l'uno, o mollo poco, noo è da ripetersi soltanto dal battere che si fa la pianta in senso contrario, quando si raccoglie P ava; perchè se è vero che si schiantano molti ramoscelli, vero è altresì che quelli, i quali restano illesi, dovreb­bero mostrarsi carichi di fruita. Sembra proba­bile cbe ciò derivi dall' essersi votati i vasi del- l ' ulivo di materia oleosa, la quale oon sì facil­mente si produce nel seguente anno. E tale scar­sezza di fruita si ravvisa nell'anno dopo iu tutte quelle piante che ne produssero io gran copia nell’antecedente. Dunque, sebbene ogni anno fio­risca l’ ulivo, non perciò lutti gli aani abbonda di succo oleoso in maniera di poter nodrire tolti i fruiti.

Bernard, alla pagina i 43 e 2fò, insegna che quella specie di ulivo che ha le cime lunghe, pro­duce frulli ogni anno. Egli* alla pagina 290, de­scrive e dipioge una specie di verme proprio del*

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P olivo, che corrode e disecca molti ranmoetyi ; •io g r n it di che cadono factfoaenle in uno alle elive, qoaodo ti balie la pianta colle pertiche. Inoltre qoesto verme, dal cui danfto parla anche Plinio nel lib. xvii, cap. 24, P°D " t o oorrode le foglie dell1 olivo, ma ancora, per mette dell* om­belico, *’ introduce dentro it nocciolo dellr oliva, e fa ri «be e^ b innanzi tempo. Quelle olive cbe cadono iu tal maniera »el meae di Agosto e di SeUembpe danno pochissimo olio; ma qoelle che cadono dopo qoesto tempo, si possono raccoglie­re, benché l'olio che se ne trae sia di an ingrato sapore, qoaodo si rompe il nocciolo, in coi si trovano depositati de1 neri escrementi. Quindi molti pensano cbe debbasi evitare la rollora del nocciolo, facendo cbe le marine da olio sieno so­spesa in maniera che il nocciolo non si franga. Qoesti vermicelli amano di annidarsi nelle olive abbondantissime di polpt.

1 Fiorentini, secondo la teslimoniania di Toz- xalti, conoscono negli olivi on1 altra malattia, delta da essi rogna ; e questa la osservano ogni qaal volta la corteccia abbonda di nodi, ne'quali albergano de' vermi.

(4) Eligitur. Abbiamo abbracciata la variante legatur del Polizianeo. Dunque 1* oliva si porla alla villa per on bivio: per noa strada si spedisca ( legatur) quella cbe debbe servirà di cibo, e per l ' altra (legatur) quella che si spreme. Un poco aranti leste Ursino cedit, e non redit. Qui cer­tamente cedit fa le veci di it. Esempli di tal fatta se ne hanno io L odile, io Varrooe ed in Pianto.

(5) E t balneas. Qoi certamente va aggiunto in avanti balneas. È da osservarti con Varrone De Lingua Latina , lib. vii, pag. 93, e vi 11, pag. 114, che adoperandosi balneas in plorale, si dinotanoi bagni pobblici, e cbe s* intende il bagno privato colla voce balneum.

(6) Mediocriter fracescat. Secondo la testi- moniaoza di Cresceozio lib. v, eap. 19, Aristotele 4ice che le olive sftlT albero non acquistano mai on perfetto matorameolo, benché per molti anni stessero sulla pianta. La vera e perfetta matura­zione la acquistalo tenendole ammoochiate per molli giorni, perchè -in tal modo si sviluppa il fuoco, il qoale pienamente le matura.

(7) P er strias. Tntti gli eruditi hanno a voto opiniate disparatissime. Noi per brevità noo ammolleremo se ooo quella che ci è sembrata più ▼erisiarile. Varrooe, nel lib. in, cap. 2 De Villa Sejana, dice : Nihilo magis torcula vasa vinde­miatoria, aut serias olearias aut trapetas. Si tede duuque che i vaù vendemmiatori si oppon­i l o seriis ac trapetis ; e perciò con Ursino *Q*o da lasciarsi fuori le parole vasa olearia. Di fatti l'olio si Ai per meno dei trapeli e dei

*77

Nfrchi, e si riceve nei vasi detti seriae. Osservisi . per altro qui, che Varrone adopera un ordine

inverso, mettendo in ultimo loogo il torchio.In quae eam terent. 1 commeotatori sono di­

visi in doe partiti : chi legge come oel testo, e chi quae res molae oleariae. Vittorio, Scaligero, Popaia e Schaeidero stanno per quest1 ultima le­zione, ed aggiungono che quae res so d o una formola per ispiegare cosa sieno i trapeli. Cre­scenzio fiancheggia qoest* opinione, dicendo:

• trapetas, et submittitur molae oleariae, quae est de duro et aspero lapide. Presta* nel lib. 11, pag. 141, la chiama pietra dura e bucherata.

(8) Fracescit. Propriamente le fraces sono le reliquie della carne, o della polpa delle olive frante; da qui è nato il verbo fracescere, il quale significa la mollezza delle fruita, ed il principio della loro fcorrozione. A tutti è noto che il caldo ed anche il freddo producono la mollezza e la corruzione particolarmente nelle olive ammuc­chiate. Celso, net lib. 11, cap. 24, oppone le pira fragilia a quelle che si serbano. Di fatti, le prime, quantonqoe sieno di on sapore austero, facilmeo- te si guastano e si corrompono.

(9) M odicus. Pontedera vorrebbe leggere medicus. Vero si è che la morchia usavati per curare il bestiame, come anche le piante amma­late ed aride degli ulivi; ma è vero allretì che avrebbe nociuto, se si fosse adoperata in troppa copia.

(10) Pare che questo precetto lo abbia tolto dal cap. 93 di Catooe.

Cap. LVI. (1) Qui si parla del sesto grado, di coi si è fatta menzione nel cap. 37 di questo libro.

(2) Varrone in qoesto laofo è oscuro per la troppa brevità. Secondo Gesnero,avrebbe parlato piò chiaramente diceodo: Id ex eo jntelligitury quod pecus utroque posito illud libentius est, ovvero quod, cioè utrum horum , sit jucundius, ex eo intelligitur, etc.

Cap. LV I1. (1) Veggasi il nostro Specchio delle misnre, dei pesi, ec.

(2) Forse qui è da intendersi la Calcide di Negroponle, i cui laoghi, secondo l1 asserzione di Columella,lib. 1, cap. 4, aono tepidi nell'inverno, e caldissimi nella state. Teofrasto nella Storia delle Piante, lib. vin, cap. ultimo, afferma lo stesso riguardo al villaggio di Cerinto, parimente

in Negroponte.(3) Item hujus generis. Ursino vuole che si

legga : Item hujus generis quidam habent sub terris, uti speluncas, quas vocant siros. Secon­do la testimonianza di Millerpacher «e' suoi Ele­

menti di agricoltura stampati a Buda nel 1777,

878DI tf. TERENfflO VÀRRONE

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a ?9 ANNOTAZIONI AL LfB. I DE RE RUSTICA 8 8 0

Tom i, ptg. 439i 1’ dei tiri, o del possi per custodire il formento dar*anche oggidì nell1 Un­gheria : lo ttesso ti pratica nella Paglia. Insegna inoltre due altri metodi per conservare il Tor­mento, ano dei qaali è di formare de1 macchi e di bagaarli leggermente, ma tpette folle di acqoa ; con cbe ti viene a fare che i grani della auperficie germogfmo, e per contegaenza le pio- dole 'radici vicendevolmente «’ intrecciano ,. e formano ana erotta che impeditee l ' ingretto all1 aria. Il tecondo poi oontiite nel coprire di calcina il mucchio.

(4) Solum. Forse sarebbe da aggiungersi con Cretcenzio, nel lib. in, cap. a, et latera, e fare che il nostro testo fòsse : Horum solum et latera paleis sufaternunt. Nella traduzione italiana ti ha : Alcuni altri fanno un pozzo, ed alle latera pongono pa0ia , e tosi di sotto. 11 che pare che tia necessario a farsi ; imperocché bitogna non solo vettir di paglia il fondo del pozzo, ma ancorai lati, quando nel medetimo ti ponga il formento tpoglio de' sooi involucri. E cbe in tale ttato ai debba riporre il formento, chiaramente si rileva dallo stesso Varrooe, il qaale dice nisi cum pro­mitur ad usum. Vero si è che Pliaio scrive che ti melte ne' pozzi fornito dei saoi involucri ; ma a chi ben riflette, non pare probabile che si deb­bano formare pozzi tanto ampii. Che te poi ti rinserrano le spiche del formento, basta coprire soltanto il fondo di paglia ; e in tal caso non oc* corra introdurre alcun» mutazione nè in Varrone, nè in Plinio. Pontedera dice che le parole ne hu­mor, etc. abbastanza dinotano cosa sia da farsi ai lai»»

(5) Apulia quidam. II secondo quidam è con­vertito da Pontedera, dietro il codice Cesenate, in quaedam. Nei lib. xvm, cap. 3o di Plinio, ti ti trovano qoette parole di Varrooe riferite altra- meoti, oioè : Alibi contra suspendunt granaria lignea columnis, et perflari undique malunt^ atque etiam a fundo . Qai, come ognuno vede, in luogo di sublimia havvi suspendunt che equi­vale al supra terram di Varrone; per lo che sa­rebbe fortemente da sospettarsi che sublimia fosse stato sublicia, come ti dice ponte sublicius, cioè sublicis, ostia aostentato da colonne di le­gno ; il che si accorderebbe molto bene con Plinio.

(6) Regelarje. Urtino corrette il letto coti: sed etiam subtus a ventis refrigerari possit. Qualunque «ia il verbo cbe si voglia adottare, egli pare fuori di controversia che qui si debba intendere rinfrescare, come dice anche Plinio nel pasto allegato.

Cap. LV1II. (1) Fabay legumina. Tolte le edi­

zioni anteriori a Vittorio mettonofaba et legumi­na, altriménti parrebbe che la fava nòa fotte on legame. Plinio, nel lib. ivm , tez. 93, aggiunge : Idem ( Varrone) fabam a Pyrrhi regis aetate im quodam spem Ambraciae usque ad piraticam Pompeji magni bellum durasse annis circiter centum viginti. Quest# parole si tono perdute nel testo di Varrone, èd invece si tono 90 sii tui le le parola tratte da Catone. Varrone, 00me si ae da lai stesto, gaerreggiò con Pompeo nella Grecia. I Georgici greci, 11, a5, spruzzano di acqua marina la fava? e Col omelia, lib. n, cap. 10, preserva caé la lente.

(a) Cioè nel cap. vii.(3) E t Amiti *eas. Urtino, Pontedera e Schnet-

deco vogliono che ti omettano qaeate parole, ov­vero che ti legga id est Aminneas^ o aut. Havvi nel testo V ava amminea e la acaoziana, ma Cato­ne nel cap. 9 non parla punto dell’ ava scagliane ; e Plioio, nel lib. x it, cap. 4* dioe eapressamente che Varrone dà il nome di toanziana a qoella cbe Catone chiama amminea ; per conseguenza è ra­gionevole la correzione dei tre mentovati eroditi.

Cap. LIX. (i) Si crede che i pomi rotondi tieno quelli che i Francesi chiamano p&mmes de Rambure.

(а) Si dicono mustea, perchè dolci qaantoil motto ; e melimela, cioè dolci quanto il miele.

(3) Supra paleas posita. Stando a questo testo, non bene si comprende quanto insegna Varrooe. Nelle prime edizioni e ne' codici ti ha che in luogo arido e freddo ai ditlende la pa­glia, e cbe poi topra di quetta ti mettono i pomi. Duoqae tono da ritUbilirti le parole an­tiche supra posita palea. Cicerone nei lib. m, cap. 5 dell1 Oratore, conferma questa maniera di dire.

(4) Laudabiliter faciunt. In molti loogbi di Varrone inoonlrasi questa vooe laudabiliter, e perciò, dietro la scorta di Scaligero, avverti­remo cosa significa. E da sapersi che gli anti­chi grammatici, qaando approvavano una qual­che sentenza, erano soliti scrivere un L nel mar­gine, nella stetsa guisa che i grammatici greci mettevano un X in simili ceti, ovvero una tketm qaando disapprovavano la sentenza dell* autore.

(5) Etenim in quibus. Sdineidero amereb­be che ti diceste etenim ii, quibus. Qoeato me­desimo ci avverte che ut in pinacothece f a ­ciant, equivale a ut coenent in pinacotheca,

(б) Si vendevano in Roma nella via Sacra: ▼cggasi il cap. a di qoeslo libro.

(7) In tabuìis. Alcuni intavolavano queste dispente, ed altri le facevano a volto e col pa­vimento, acciocché fotsero più fredde. Donqee

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DI M. TERENZIO VARRONE

nella dispensa tot «folata i pomi li mettevano aopra le tavole, e in quella a tolto, sol p ari- ' mento, ostia aopra il roarraorino; per conae- gnenza qai è da leggerti in opere marmo­rato.

(8) Junctis. Varrooe nel cap. *68 di questo libro, come anche Plinio, chiamano pensilia i pomi : ma i cotogni grandi e piccoli sono da

tutti rinterrali, anzi da essi si tiene lontana T aria : danqae questi frutti non appartengono ■i pomi cbe ti attaccano in alto, come sono ap­punto varie specie di uva, le sorbe e alcuni al tri pomi. Quindi è da inferirti che nei testo ti sotto perdute molle parole relative ai pomi che ù attaccano in alto; e perciò dopo mela cotonea, struthea, si dorrebbe mettere un seguo indicante una lacuna.

(9) Pontedera aggiusta il lesto così: Puni­ca mala et in arena jam decerpta, ac matura et etiam immatura cum haereant in sua vir­go, et demiseris in olla sine fundo, eaque si conjeceris in terram , et obteris circum ramum si extrinsecus spiritus ajfflet. . . . Noi abbia­mo tradotto coerentemente al botanico di Pa­dova.

Cap. LX. («) Nei capìtoli 127, 128.(2) Aridas . Questa voce noo si trova in Ca­

tone, nè tampoco in Plioio che riferisce le pa­role di Catooe. Pontedera voleva che si leggesse albas ; ma è da avvertirsi che non tnlte le oli­ve diventano bianche avanti di diventare negre.

(3) Manere idoneas solere. Ursioo voleva levare queste parole, perche noo si trovano in Catone. Ma Varrone non è solito di riferire sol­tanto le parole di Catone.

Cap. LXI. (i) Doliis. Avanti Vittorio legge- vati ollis; e perciò Pontedera è per questa va­riante. Catone per altro nel cap. 10 ha le dolio amurcaria.

(2) Quod statim. Nel cap. 64 dice Varrone qoal sia la natnra della morchia, ed ivi pari­mente la cuoce, e la serba in vasi. Sospetta dun­que Schneidero che questi due capitoli non sa­ranno stati in origine che uno solo, e che i co­pisti gli avranno separati.

Gap. LX ll. (i) Ut sexto. Gesnero- cosi vuole che ai legga. Di questo setto grado si parla nel«p. 37.

(2) Promunt. Tott* i codici e le antiche edi­zioni mettono primum. Pontedera inclinerebbe a leggere promundum, perchè dopo viene tuen­dum, utendum.

CaK LXIII. (i) Interclusa animo. Questo accidente nasce ancora a quelli che nettano i pozzi, le fosae, o che entrano neUe cantine* ove bolle il mosto.

(a) Pistrinò. Pontedera pretende che sia da dirsi pis tino ; e ciò dice dietro due aotiohisai- mi codici. Forte oon ha tulio il torto, perchè dioeti pistillum% pistillus e pìstor. Secondo il soddetlo autore il pistinutn era un luogo, in cui si ammucchiavano le spiche del farro per separare il grano dalla buccia ; al quale ogget­to, e per maggiore facilità, si arrostivano le «piche.

Cap. LXV. (i) Pontedera e Schneidero cor­reggerebbero o metterebbero tra p a r e n t i quod non f i t anni cum accesserint, quasi chq Var­rone censurasse i costumi del suo sfeolo. È*<fa dirti promito e non prodit.

(2) Galeno Antidotorum 1, S, rammemora due specie di vino di Falerno, una delle quali diventava col tempo amarognola, e 1' altra dol­ce : quest' ultima si chiamava vino faustiano.

Cap. LXVI. (i) Pontedera dai codici ha trat­to il seguente tetto cbe noi abbiamo seguito nel volgarizzamento : oleas albas quas condi­deris, novas si celeriter promas, nisi condi­deris propter amaritudinem , respuit palatum.

Cap. LXVIII. (i) Maturum , mite. Ursioo vnole che si tolga, qual glossa, maturum; ma nella seguente annotazione diremo che quest* parola è necessaria.

(2) Quam mitescat. Pontedera avrebbe vo­luto che si dicesse quin mitescat; ma avverte saviamente che anche la lezione corrente può aver luogo, purché quam. mitescat si riferisca all' antecedente prius ; ma così facendo, è ne­cessario mettere una virgola dopo arbore» Le sorbe mature sono quelle che già hanno acqui­stato il loro perfetto accrescimeoto e quel co­lore che indica e«ere state sufficientemente cot­te dal sole. Dopo avere toccato tale stato, di­ventano mitia, cioè molli ; il quale accade, qoan­do soli’ albero acquistano l'ultimo grado della maturazione. Acciocché dunque non diventino troppo molli, stato eh' è il pià vicino alla pu­

trefazione, si colgono dall'albero alqoanto acerbe.

Cap. LXIX. {1) Schneidero a questo loogo fa nn diseorso aopra qnest' operazione.

(2) Stolo. Aldo ba aggiunto capricciosa men­te questa parola, di cni ne tono privi i codici

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683 ANNOTAZ. AL LIB. I DE BE RUSTICA DI M. T. VABRONE

e le prime edizioni : di falli è chiaro ohe Sto­lone è «quegli che parla.

(3) Ferisse. In oo ottimo codice esaminato da Poliziano ci ha fecìt se. Questa variante ca­povolge il sentimento. Seooodo il nostro lesto le parole perperam ferisse , si riferisoooo ali' oc­

cisore : laddove la lesione Polizianea le riferi­sce al eostode del tempio ; il quale perperam fe c it sey o mettendosi avanti al coltello, o noo itchivando il colpo, o frammischiandoti a quelli che brigavano tra di loro, ovvero in altro modo.

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ANNOTAZIONI

Al LIBRI DE RE RUSTICAD I

M. TERENZIO VARRONE

-------------- ►•< *--------------

LIBRO SECONDO

Paef. (i) Ogni nove giorni era vi in Roma un pubblico mercato, chiamalo perciò nundinae, al qaale concorrevano in folla i contadini ro­mani. In quesli giorni si proponevano le leggi, ma non si pubblicavano se non erano st£te pro­poste per tre giorni consecativi di mercato, af­finchè ognuno, le sapesse avanti la loro pubbli­cazione, e fosse anche nel caso di dirne il suo pa­rere.

(а) Retineant. Si dà maggior peso al discordò di Varrone, dicendo con Gesnero retinniat.

(3) 11 vestibolo della camera da dormire, e nel quale si tenevano per Io più gli schiav?.

(4) U luogo destinalo agli esercizii.(5) 11 luogo in cui si meltevano le vesti ovau-

ti di entrare nel bagno, o nella stanza della pa­lestra. 1 Latini lo chiamano spoliarium .

(б) I peristili!.(7) Le uccelliere.(8) Le colombaie.(9) Le stufe.(10) Fere patres. Con Colaroella si perfezio­

na il testo : dice egli nel principio del lib. 1 : Omnes enim ( sicut M. Varrò jam tempori­bus avorum conquestus est ) patres fam iliae , etc. Ai tempi di Columella il lusso era cresciuto «moderatamente, e perciò egli omelie fere: ma ai tempi di Varrone, il popolo riteneva alcun

poco dell* antica semplicità; per conseguenza

mette il temperamento di fe re : dicasi dunqaa fe re omnes.

(11) Nelle prime edizioni e ne* codici si legge ac avanti frum entum , indizio che si è perdalo ia Varrone ad hastam , e che si legge nel luogo citato di Columella. '

(ia) Il vino di Coo era mollo stimato dagli antichi; e quiodi procuravano di contraffarlo col vino d ' Italia.

( i3) A gri docuerunt. Pontedera è di parere che dopo agri vada aggiunto dii, perchè Colu­mella dice : Itaque in hoc Latio et Saturnia terra , ubi dii cultus agrorum progeniem suam docuerunt. Ma è da avvertirsi che Varrone inti­tola i pastori i fabbricatori della città, laddove questi medesimi sono chiamati dei da Cola­m eli.

(r4) Columella nella prefazione del lib. vi di­ce più saccintamente : ille ( P agricoltore ) f r u ­ctum e terra speret : hic ( il pastore ) e pecore. Stando a qoeslo passo di Colameli* e a molti codici, Pontedera aggiusta il testo cosi : coloni ea quae agricultura factum ut nascerentur, e terra sperat: contra pastoris ea quae nata ex pecore.

( i5) Utramque. Come mai è possibile che nel teslo correnle sieno due gli oggetti trattati da Varrooe, e non piuttosto tre? Dicasi dunqae, in conseguenza di buone scorte : qui habet prae­dium , habere utrumqpe debet, et agricultu­ram , et disciplinam pecoris pascendi, et etiam

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ANNOTAZIONI AL LIB. II DE RE RUSTICA 866

villaticae pastioni$. Io cotale m ioien ha laogo utrumque.

(16)F eei: tibi, Pontedera pretende di ag­giustare il testo, dicendo feci hunc : tibi ; Ursi­no poi voleta ohe si mettessero tra parentesi le parole prcpierta , . . equarias.

(17) Macros. Il 6nme Macra, detto oggidì Magra, è posto da Plinio nel fine della Liguria, e da Strabone tra Lana e Pisa.

(18) E t sermonibus. Non si sa comprendere, perché Gesnero abbia fatto rivifere cotale pessi­ma lezione delle prime edizioni, quando è chiaro eh1 è da dirti ex sermonibus.

(19) 11 nostro Varrone ricevette in questa spe­dizione da Pompeo la corona natale.

Cip. I. (i) Contengono tutti gli eruditi che qui v’ è una lacuna ; ciò è confermato anche da tutti i codici, i quali hanno hic intermisimus. Curtu È probabile che queste contersazioni si sieoo tenute nel tempio della dea Pales. Ponte­dera ci fa fona di dire piuttosto Laenas che Menatesi perchè il primo entra già nel discorso, e perché Varrone nel lib. ir de Lingua Latina dice che si chiama Latnam quod de lana. Cice­rone nell’ oraziooe a favore di Balbo nomina L. Cossinio Tiburte; e perciò Ernesto crede che Yarrone parli di questo.

(а) Petam. Scaligero corresse coti : Cum por- tam ( cioè in partam ) sesum vis e re venisse­mus (cioè sessum vix commodum venissemus ) ne medici adventus nos inredisset, cioè irre­tis set ac retardasset. Nega egli che Pela tia un nome romano. Ursino meglio di tutti cangiò Petam in Paetum, t interpretò fessum per am»

malato.(3) Interrupisset. Ursioo lesse ne' vecchi co­

dici inrediisset ; e perciò fa impediisset. Ge­merò segue Ursino; ma Triller Obsèrv. it , 37, trae inretisset, o irretiisset.

(4) Ubi est de. È da approvarti la correzione di Ursino che legge quae est de.

(5) Vale a dire, egli che mi è mollo tuperiore.(б) Hipri. Ursino trotò in un vecchio codice

Hirpi. Gli scrittori, parlando della gente Luci­lia* non ricordano alcuna famiglia col nome di H ipri ; piuttosto se ne trotaoo nella Quinzia e nella Fulvia. Il cognome dei Lucceii fu H irrus, •« Cicerone ne nomina molli : sarebbe forse da dirsi C. Lucceji H irri?

(7) Epirotici. Soltanto le prime edizioni dan­

no questa voce : laonde Pontedera amerebbe cbe si dicesse : qui estis pecuris ( tei pecuarii) a- thletae remuneremini nos.

(8) Accepissem. Ha tutta la ragione Ursino di correggere e di fare accepissent, cioè gli altri

interlocutori rispetto a Varrone, il qoale già dis­se-: Ego vero dicam duntaxat, etc.

(9) Primae. Per eseguire queste parti isteri­che fanno piò al caso i libri e la memoria, cbe V esercizio dell' arte.

(10) Natura, sive. È da lodarsi la correzione di Ursino : Nam sive aliquod. I librai da nam atranno formato natura.

(11) Uno dei sette Saggi della Grecia, e fa il primo filosofo che coltirò l1 astronomia, e che seppe predire an* ecclissi di sole. I pescatori di Mileto arendo trovato un trepiede d' oro, glielo portarono, perchè V oracolo d’ Apollo aveva or­dinato di darlo all* uomo il piò saggio. Morì ia età atanzala di caldo e di sete, per arere assistito àd un combattimento di lottatori.

(12) 11 capo della setta degli Stoici. E n egli tsnto rispettato in Atene, che le chiari della città si depositaraoo presso di etto : ritpelto ben me­ritato da un filosofo, il quale faceva cbe tutta la felicità consistette nella virtù. Fini i suoi giorni di novantanni in un modo straordinario, per­ché, nell' uscire della sua scuola, cadde sopra una pietra, si ruppe un dito, e si strangolò dopo di avere detto : Io ducendo da Niobe ; perchè mi chiami tu? Quest1 allatiooe orgogliosa aveta in ritta la fatpla di Niobe, di cui tati* i figli fu­rono ammazzati da Apollo e da Diaoa, ai quali Latona loro madre ateta ordinato ciò per gelosia.

(iS> 11 capo di una sella di filosofi che porta­no il tuo nome. Era figlio di un mercante, e viag­giò per istruirti : morì a Melaponlo in Italia, e della sua casa si fece un tempio.

(14) Veggasi il cap. 1 del primo libro.(15) Veggati il cap. 2 del primo libro.(16) Abbiamo seguito Urtino, il quale corres­

te humanam vitam . . . . adseendisse.(17) T uli1 i commentatori accordano che que­

llo passo è pieno di spine : Urtino lo corregge coti: iis, quae. . . terra , et ex hoc in secundum descendisse, cum e fe r is atque agrestibus ar­boribus . . . .sic animalibus^ etc. Ma in tal mo­do si tagliano fuori molle parole. Noi ci siamo attaccati a Pontedera, il quale distingue e cor- regge facendo: Ex hac vita in secundam de­scendisse pastoriciam e fe r is atque agresti- bus, ut arboribus ac virgultis fruc tu s decer- pendo, glandemt arbutum , moray poma colli­gerent ad usum: sic ex animalibus, cum propter eandem utilitatem , quae possente silvestria de­prehenderent, ac concluderent, et mansuesce­rent.

(18) Placiditatem . In tre codici ti legge la- ciditatem ; e perchè etcludere dalla lingua latina colai voce ? Laciditas derita dal verbo lacio ; come anche lacidus. Festo ha lacitt decipiendo

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DI M. TERENZIO VARRONE 8o#

inducit. L a x enim fra u s est. L aci t in fraudem inducit. E gli è facile ingannare le pecore, come qaelle che tono sta pi de : non si poò dire se sieno placidae «e non dopo che si sono prese e profa­te. Schneidero avrebbe lelto facilitatem .

( f 9) Q b ’1 tu'*0 è da riferirsi alle pecore; t per­ciò sono vane tolte |e correzioni.

(ao) Rotae. Nessuno de’ commentatori vuole leggere così. Noi siamo con Schneidero nel leg­gere strapsicerotas, delle quali parla Plinio nel lib. x i f sex. 45, * nel lib. xvm, sez. 80. Qoeslo quadrupede ha le corna ritte e scanalale a tra­verso : la portano 10 fronte tanto il maschio, quanto la femmina. Egli abita nelle montagne della Grecia, nelle isole dell’Arcipelago, nell’ Un­gheria e nella Va Machia, Qaelle che Varrone di­ce trovarsi nell’ Italia, sono forse le camozze e gli stambecchi, ai quali Plinio assegna per di­mora le Alpi.

(21) Pliuio nel lib. 111, sex. 17, mette il Fiscel­lo presso i boschi di Vaccone. Ardaino avverte esservi oggidì an monte con qaesto nome nei confini dèli' Abruzzo ni te riore presso Civita rea­le. Di Tetrica parla Silio vui, 4 17 • è nei confini del Piceno.

(aa) Media. Un ripa latissimo codice Pollzia- neo mette Medica. Pare che Varrone abbia io vista Bonaso, situato una tolta nella Medica e nella Peonia. Si rammemora ancora da Livio nel­la Decade iv, lib. x.

(a3) Cioè proprietarii di molli agnelli.(a4) Cioè proprietarii di molte peoore.(a5) Cioè proprietarii di molti buoi.(26) Tatti sanno la storia di questi due fra­

telli, le loro inimicizie, ed il loro fine tragico ed abbomi nevole.

(27) 11 nostro autore ha avolo io vista i versi di Pacatio, che contengono questi lamenti, e che ti trovano nel lib. ni, 27, de Natura Deorum di Cicerone.

(28) Questo re di Coleo era, secondo la favola, figlio del Sole e dalla ninfa Perseide,

(29) Si chiamavano così dal nome del vascello che montarono in questa spedizione, che si chia- «ava A rg o t; forse così dello dal nome del fab­bricatore, ovvero da dfyèi) veloce. Quesli prin- tipi erano doquanlaqaattro, ed avevano alla testa Giasone.

(30) Era figlio di Giove e di Alcmene, e fa posto fra gli dei per la soa forza straordinaria.

(31) 11 testo da noi tradotlo è il seguente : Eas enim a sua voce .... ab eadem voce, sed «Ha li ter a ( vox earum non me, sed bee sonare videtur) .... vocem efferentes dicunt, efc. Il oor- renle è troppo ridondante, e oon fi accosta alla brevità osata da Varrone.

il. Taatmio Vassos*

(32) L’ opinione la piò oomaue è, che ilsegào dei Gemelli sia stato così chiamalo per onorare Castore e Polluce : noo mancano per altro astori,i quali, d’ acaordo oon Varrone, dicono che ai abbia voluto onorare Apollo ed Krcole.

(33) E perchè non dire con quallro codic*a colle prime eduioni'teneret Capricornus? Di­stribuendo a Ire a tre i dodici segni, il Capricorni occupa la quarta classe.

(34) Ursino rigetta come superflue le parole m pecuariis addiderunt ....ab his regionum no­ta e ì a pecore; e Gesnero mette Ira parentesi soltanto a pecore. Il testo corretto, e da noi tra­dotto, è il seguente : An non item in mari ter« raque ab his regionibus notae f A pecore, in mari quod nominaverunt Aegeum pelagus, etc. Dietro Poliziano e le prime edizioni si è ri­gettato etiamy e dietro queste medesime e quattro codici si è corretto in ab his (cioèpecuaris) re­gionibus. £ poi superfluo capris, perchè qoesta è on’ annotazione marginale per ispiegare cosa fosse Aegenm , altrimenti bisognerebbe aggiun­gere a bove avanti taurum, e ab equo castrat* avanti canterium .

(35) Dalla parola greca chyn che significa capre.

(36) Dalla parola taurus ohe significa toro.(37 ) Dalla parola canterius che significa ca­

vallo castrato.(38) Dalla parola latina bos ohe vuol dire bue,

e dalla greca péfu che significa portare, perchè questi stretti sono si poco larghi, ohe un bue K può pestare a nuoto.

(39) In Graecia. Pontedera avrebbe voluto che si aggiungesse magna, perchè Virgilio e Pli­nio mettono questo paese, chiamalo anche Argi- ripa, nell’ Italia.

(40) Dalla parola greca tntTef che significa cavallo.

(4>) li vitello in greoo si chiama ìraXet; e da qoesta voce si è formala la parola latina vitulus. Festo dice: Italia dicta, quod magnos italos, hoc est boves habeant; vituli enim itali sunt ( dicti).

(42) L. Calpurnio Pitone Frogi fa console l’ anno 621 dalla fondatioae di Roma e censore

l’ anno 634- Egli ha composto degli anoaH, e forse di qoesti intende parlare Varrooe.

(43) Egli trovò in abbandono qoesti due io- fanti, e li fece allattare dalla saa donna chiamata Acca Laurentia. E perchè questa era ona donna scostumata, quindi n’ è venete la favola di essere stali allevati da ooa lupa ; perchè lupa io latioo significa non solo ooa donna disonesta, qoante

anche ooa lopa.(44) Ursioo rigetta la voce nutriciam. Pare

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«he Varrone metta io dubbio fa favola che sujv •pooe questi fondatori figli di Marte ed Uia. £ probabile che sia stata immaginata per farli di­scendere da u n ’ illqstre origine. Servio racconta

. ' i l fatto di tal tnaniera. Amulio deironizzò sao fratello Numitore, ammazzò il figlio di questo, e la figlia di lui la fece sacerdotessa di Vetta, onde non fosse al caso di avere de1 figli, i quali avreb­bero potuto un giorno vendicare il loro avo. Ma Marie ebbe commercio con questa, e partorì Re­mo e Romolo. Ciò veduto da Amulio, ordinò che ]a madre ed i figli fossero precipitali nel Tevere; ma chi.ebbe quest'ordine, gli espose soltanto sulla riva, ove furono trovali da Faustolo e dati da •llallar alla sua donna.

(45) Parilibus. Cinque codici e le prime edi­zioni mettono Palibus, vale a dire feste che ce­lebravano i pastori il ventuno di Aprile. Veggasi Foggini, pag. 56, ove parla eruditamente di ciò.

(46) La più grande ammenda non poteva ol­trepassare i Soao as, perchè i Romani nella loro origine non condannavano alcuno a pagare una ammenda superiore a trenta buoi ed a due peco­re. Per legge era fissato il valore di un bue a cento as, e qoello delle pecore a dieci. Se il delitto me­ritava, per esempio, un1 ammenda di trecento asyil colpevole doveva pagare tre buoi. La rarità delle pecore, e la molliplicità de'buoi faceva che quelle dovessero essere due in confronlo di trenta buoi. Da ciò si può inferire che nei primi tempi fosse più in vigore i? agricoltura, che' il nodri- mento del bestiame. Da Plutarco abbiamo che gli Ateniesi davano, per una legge di Solone, al T uccisore di un lopo cinque dramme, ed una dramma a quello che uccideva uoa lupa; ma es­sendo poi diventato caro il soldo, a quello si die­de un bue, ed a queslo una pecora.

(47) H re Servio fu il primo ad imprimere sulla moneta le pecore ed i buoi.

(48) Ursino e Schneidero con sode ragioni

leggono: E t quod urvo urbis. A illustrazione di questa cerimonia, riferiremo soltanto due passi.

Varrope, de Lingua Latina , lib. iv, pag. 34, ha : Quam viam relinquebant in muro, qua in op­pidum portarent, portas . Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multa , id est junctis bubus, tauro et vacca, interiore aratro cir­cumagebant sulcum. Hoc faciebant religionis causa die auspicata, ut fossa et muro essent munita. Terram unde exsculpserant, fossam vocabant, et introrsum factum murum . Po­stea quod fiebat orbis, urbs. Principium quod erat post murum , pomerium dictum. D.* queslo passo si raccoglie ancora che nel nostro testo mauca junctis dopo vacca. Isidoro Originum xr, a, dice: Urbs vocata .... vel ab urvo; parte

&<ji

aratri, quo rr\uri designabantur, unde e s t illud: Optavitque locum regno .... et concludere sul­co. Locus enim futurae civitatis sulco desi- gnabatur, id e s t , aratro. Cato: qui urbem^ inquit, novam condit, tauro et vacca aret^ ubi araverit, murum fac ia t : ubi portam vu lt esse, aratrum sustollat et portet, et portam voceL Ideo autem urbs aratro circumdabatur dispa­r i sexu juvencorum propter commixtionem familiarum et imaginem serentis fructumyue reddentis. Cicerone, Philipp, u , 4°i diceche questo rito era in uso nella formazione delle co­lonie.

(49) Questa cerimonia fscevasi ogni cinque anni dai censori.

(50) Veggasi Catone nel cap. 1 4 *.(51) Qui Aldo ha capricciosamente confato,

aggiunto, ed alterato il testo: ha confuso i nomi coi cognomi: ha aggiunto a majore, e t a mino­re, parole che sono superflue, avendo g ii detto utroque: ha alterato, perchè Taurus e cognooc, e Taurius nome. Avendo Varrone nominalo (re nomi tolti dal bestiame minore, ed altrettanti cognomi, è probabile che si sari perdolo on nome tolto dal bestiame maggiore, cioè Asiniut. E tanto più è ciò verisimile, perchè nel seguente capitolo dislingae il bestiame maggiore In bue, cavallo ed asino. Molti Romani ebbero qaesto nome : Plinio e Macrobio nominano Asinio Po l­lione, e Asinio Celere. Dunque il testo da noi tradolto è il seguente : ab utroque pecore : a minore Porcius . . . . T au riu s, Asinius . Et cognomina quod dicuntur , ut A nnii Ca­prae, etc.

(5 a) Dalla parola porcus, che vuol dire porco.(53) Dalla parola ovis, che significa pecora.

Anche Ovius fu una volta nome.(54) Dalla parola capra, che significa • p n .(55) Dalla parola equus, che vuol d ire cavallo.(5G) Veggasi Tannotazioue 36.(5;) Dèlia parola asinus, che vuol d ire asino.(58) Vengasi l'annotazione 4 r *(5j>) Quo melius potest, dicit: così è da cor­

reggerti. Di fatti Scrofa non aveva mestieri di eccitanti, egli che già aveva dello che avrebbe parlato dopo Varrooe.

(6 0) Nel lesto corrente non bene si comprende, se 1' origine della pecunia derivi dai fru iti dd bestiame, ovvero dallo stesso pecu$. Pare più

probabile la lezione delle prime edizioni che hanno ipsa pecuaria .... onnis pecuariae. Qui Varrone non parla dell’ origine della pecunia.

(6 1) Siamo con Ursino nel leggere, a norma di un vecchio codice, sedpropterea ut ex ea, etc.

(6 2 ) Habet novenas. Le quattro prime edi­zioni mettono partes omnium, e Poliziano par Ut

ANNOTAZIONI AL LIB. I l Dii R E RUSTICA

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DI M. TERENZIO VARRONE

hominum: pare dunque che Unio qui, quanto poca dopo si nasconda omnino.

(63) I commentatori non hanno potuta dige­rire che nn venditore fosse obbligato a dichiarare che il bestiame da luì venduto derivava da un gregge malsano, qtyui che non fosse certo che il bestiame, in apparenza sano, non corresse rischio dì ammalarsi, appunto perchè deriva da un greg­ge malsano, Ciàha dato origine a molte varianti. Per altro le parole alias e neutro non lasciano alcun mezzo tra on gregge ammalato ed uno sa­no. Bisogna dunque intendere questo passo nel seguente modo : se il venditore ha dichiarato cbeil bestiame apparleueva a on gregge malsano, non sarà responsabile degli accidenti che verranno in seguito, perchè è da supporsi che il compratorelo avrà avuto a minor prezzo, quantunque mo­strasse di essere sano nel momento della vendita: per contrario il venditore sarebbe in dovere di mantenerlo, se falsamente avesse dichiarato che derivava da uo gregge sano. V ’ è il terzo caso, in cui non ai dimanda al venditore alcuno schiari­mento ; e questo caso pare che specialmente sia da applicarsi alla fendila delle capre, perchè, se­condo il nostro autore ( veggasi il cap. 3 di que­sto libro ), non si può mai accertare eh1 esse pro­vengano da un gregge sano.

(64) Festo dice a qoesto proposito : publicus appellaturt in quo ut pecora pascantur, cer­tum aes est ; quia publicanus scribendo confi• cit rationem cum pastore. Questo registro si fa oggidì dal tribunale della Dogana della mena delle pecore di Puglia. Veggasi Swioburne, Viag­gio di Napoli Tom. i, pag. 164. I censori affit­tavano i terreni e le gabelle. Al giorno d’ oggi si fanno passare, in tempo di autonno, le pecore deir Abruzzo nella Puglia, ed ivi partoriscono.

(65) Culnmella nel lib. vi, cap. 37, mette in­vece il monte Sacro. Plinio nel lib. xvm, cap. a4* mette che queslo fatto succeda presso il fiume Tago. Salraasio e Schoeltgcoio correggono in monte Artabro, perchè il promontorio Sacro è troppo lontano da Lisboua ; laddove l’ ArUbro è tanto vicino, che molli anche lo chiamarono Li- sbonese, secondo la leslimonianza di Plinio nel lib. ìv, cap. ai. Quantunque questo fatto sia asse­rito da molti autori, nonostante è favoloso. Que­sta favola è da ripetersi forse tanto dalla fecon­dità delle cavalle di quel paese, quanto d*lla loro somma velocità nel corso: si sarà quindi detto metaforicameole che erano ingravidale dal vento; a colale espressione figurata si sarà presa in se­guito in senso proprio.

(G6) Vale a dire concepite sello il vento. Pli­nio nel lib. x, 60, le chiama zephyra. Le galline partoriscono senza coilo delle uova, ma sono in­

feconde. Blumenbachio nel auo Saggio di fisiolo­gia comparata tra gli animali vivipari ed ovipari di sangue caldo, stampato a Gottinga nel 1789, pag. 6, ha trovato i corpi lutei, quantunque le femmine di quegli animali non avessero osato il coito. Niccolò Stenone Aota UauniensiaTom. pag. 229, trovò nelle mule i medesimi corpi lu­tei : lo stesso asserisce anche Brugnone nella sua lodatissima opera della Cura,de'cavalli, pag. a i 3.

(G7) Silio in, 383, è più liberale, prolungando la vita a questi cavalli fino a selle anni. Egli fa che questi nascano nel paese de' Vettoni.

(68) Scaligero e Schneidero censurano con so­de ragioni questa etimologia.

(69) Saviameute avverte Ursino eh* è da leg­gersi quam puri.

(70) Poeta comico, e di cui dice Varrone, che se le Muse parlassero latino, esse si servirebbero del suo stile. Era tanto povero, che per vivere gli conveniva far girare la macina.

(71) E t quando non valet. Ci sono sembrate tanto inutili e spurie queste parole, che le abbia­mo omesse nella traduzione.

(72) Ut eorum. Pontedera dice che antica­mente sarà stato scritto ut eorum, cioè ut equo­rum. I codici di Vittorio hanno qui si e labore febrem habent ; e perciò insegnano a medicare una febbre dipendente dalla fatica. Ursino toglie le parole ut eorum . . . habent, e aggiusta le seguenti così: et crebro, corpore calido. Cu­ratio autem haec, etc.

(73) Sustinetur. Ursino legge abstinetur. Pare piuttosto che sia da dirsi et pauco cibo sustinetur ; almeno Apsirto xvi, 4* fa lo stesso. Pontedera pretende che qui si parli della ma­lattia originala dalla sola fatica ; e perciò crede che debba aver luogo il corrente testo ; e tro­va conveniente che in tal caso si ristorino col cibo le forze indebolite per la troppa fatica. Columella, Vegezio, Crescenziq ed i Veterinarii greci danno da bere dell1 acqua fredda : il solo Apsirto è con Varrone.

(74) E piultoslo da dirsi demitur in luogo di dimittitur.

(75) De numero. Queste parole sono ripu­tate spurie da Ursino.

(76) Quanto. Gesnero è persuaso della cor­rezione quantos di Ursino, senz1 averla però adottata.

(77) Rejiculae. Scaligero dal leggere ne1 co­dici quod epulae, congetturava che fosse da leg­gersi o quot petilae, o quot taedulae, o piut­tosto quot pullae. Popma legge quot depulsae. Pouledera ritiene epulae, cioè, com'egli inter­preta, quegli agnelli e que' castrali piugui che

si vendono per essere mangiali. Ma questi si

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flg5 ANNOTAZIONI AL LIB. Il DE RE RUSTICA *<j6

•hiamano «la Calone oves deliculae, cioè scelte «d ottime, dal verbo deleco io vece di deligo. Varrene nel cap. 4 di qaesto libro chiamò pa­rimente delicus cotale popco. Gesnero ed Dr- lino padicauo che le oves epulae sieno quelle che possono essere am Aizzale, onde mangiarle. Ila perchè tanto qu», qaanto altrove si ‘ fanno parole di nna foce cbe già da Varrone mede* aimo è spiegala appresso Nonio, pag. 168 della edizione di Mercerio ? E t ut in grege opilio oves minus idoneas removere solete quas rei­culas appellat ; saepe enim unus puer petulans atque impurus inquinat gregem puerorum .

(98) Atticus. Ursioo amerebhe. che si dieet- ae Vacciut, perchè qaesli risponde aoche in que­sto capitolo. Quanlo a noi, crediamo che dicail rero, se non cbe obbietta Gesnero cbe nel cap. a vi entra anche Attico.

(79) Secondo il calcolo di Ditte di Creta, che scrisse in lingua fenicia la storia della guerra di Troia, coi si trovò preseote, ertovi 1293 ne­v i; e secondo quello di Darete di Frìgia, che scrisse la medesima storia in greco, ve n’ era­no 1 aoa.

(80) Eranvi ia Roma trentacinqae tribò, da ognuna delle qaali ai prendevano tre giudici per comporre questo tribunale ; laonde i giudici era­no effettivamente to5 ; ma si dinotavano con nn conto rotondo, chiamandoli Centumviri. Non mancano aotori, i qaali pretendono che dopo Au­gnato fosse salito questo numero fino a 180, e ohe non ostante queslo tribunale consertasse il n o antico titolo di Centumvirale.

Avendo letto Orsino ne1 codici quare demes, non senza ragione ha corretto, facendo: Sic, in­quam . . . quare demas.

(81) Alconi autori hanno raccontato simili parti-che sono stati posti tra'prodigi, e che pro- aoslicatano qualche grande attonimento. Parle­remo lungamente di ciò in Columella.

(8a) Vale a dire maniera di fare il formaggio.

Cap. 11. (1) Qoesti doe paesi sono ignoti. Forse sarà sbagliato il tejto.

(a) Questo T. Pomponio Attico era stato adot­tato da Q. Cecilio suo zio materno; e perciò prese il suo nome conformemente alle leggi di adozione di que’ tempi. Cicerone si congratula con Attico per questa adozione: teggapsi le let­tere ad Attico.

(3) Cresceopio ix, 57, ba: oves bonae cogno­scuntur ab aetate, etc. Dicasi dunque: Quae ita cognoscuntur ab aetate.

(4) I Georgici greci xviii, 1 , dicono essera oltimt quelle pecore che hanno una lana semplice

e piana ; e ehe per contrario una lana inercspatiè indizio di poca fortezza.

(5) Apicas. Festo : A pica dicitur ovis* quae ventrem glabhum habet ; e Plinio nel lib. m i, ses. 4 , ha : quibus venter nudus esset, apicas mppellabqnty damnabantqu*. Cotale voce deriva dalla parola greca errs/xa*, da a privativo, e da nri /xofy lana. Non si sa capire, perchè Pontedera volesse dire atricas da àrfixmfy e perché Geaoero sospettasse che fosse da dirsi apilas.

(6) Pecus habeas. Qui sicorameate va Ulto arietem habeas.

(7) Fronte lana. Crescenzio 11,69, h a : ***<*« longissima et lata, curtis cornibus, pronis ad rostrum, lana opertis auribus, amplo peci ore, scapulis et clunibus latis velleris depressit

fronte lata, etc. Come ben si vede, molte eoae le ha tratte da Varrone e da Palladio al neie dì Luglio iv.'Non è per altro da dirvi io Varreoe curtis cornibus, altrimenti in qnal modo potreb­bero essere pronis ad rostrum f Oltre di cbe Columella, nel lib. vti, cap. 3, dice: fro n te lata.... intortis cornibus: lo stesso ripete anche Palla­dio. Consta dunque oh* è da dirsi intortis corni- bus, quantunque anche i Georgici greci ivut, 1, colla voce 0\ ty tz4ftrrct< sieno con Crescenzio. È poi da leggersi fronte lata con Columella e eoa Crescenzio, sebbene i Georgici greci fieno eoa Varrone colla voce Noo ottante si potrebbe lasciare aassistare la corrente lezione, purché ti adottaste io Colomelfa la variante del codice Polizianeo velleris densi in fronte latm% e che in Varrone si leggesse fronte lata lanavo* stili bene. Ma in amhidoe questi autori è da prò* ferirsi sem pii cem en terò nte latei, e le parole di Varrone lana vestiti bene sono piuttosto da ri­ferirsi al ventre, di coi noo ne ia menzfoaeil tetto, e che debbe aver laogo, dicendo ColamtlU ventre promisso atque lanato.

Ampio pectore è da correggerai eoa Creteea- zio e eoa Ursioo. La parola lata non paò aver luogo oella coda de1 nbstri arieti, perché di sopra difse Varrone, che la coda debb’ etsere hiogi nell*Italia, e corta nella Siria : ora la coda corta è quella cbe suole e essere larga e abbondante grasso. Dunque la toce lata ha cambiato sito,e4 è da porsi dopo fron te , quantunque Crescenzio dica cauda longissima et lata. Colle prima adi­zioni è da dirsi eam ( linguam) habent.

(8) Pecus ovillum. Ursiao toglie qaetta pa­role, e dice che qui ha laogo P aatica formoli dej contratti Q. R. F. E. V., cioè quod racle

factum esse voles.(9) Minam. Urtino ci attorte che le parola

extra quam, e qua de re agitur, tono formoli solenni osate dagli antichi ae'contratti. FeUo dice;

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«<,? DI M. TERENZIO VARRONE 89S

m inam , ait Aetius vocitatam mammam alte- r+m , lacte deficientem ; laonde sarebbe luII’ al­tro che la pecora priva di lana sotto il ventre. In o ltre quest’ è ao difetto elle salta rabito agli o c c h i. Pontedera interpreta la voce mina per istorile, come sarebbe appunto quella che avesse le mammelle secche e pìccole ; laonde sarebbero da levarsi le parole id ett ventre glabro. Pare difatti che anche Columella nel lib. vii, cap. 3, alluda a questo luogo di Varrone, dicendo ? ma­jo re m trim a dente minacem% sterilem repu­diabis. Gli Italiani chiamano sterpa la pecora Iterile.

( io ) E x emto vendito. Vittorio interpreta queste parole per I’ azione del comprato e del Teoduto. Net lib. zix delle Pandetle vi è nn titolo di diritto con queste parole : De actionibus emti ac venditi. Parimente Cicerone nel l»b. ni, 3o, de N atura Deorum ha: Reliqua quae ex emto a u t vendito , aut conducto, aut locato, contra fidem fiu n t .

( n ) Pontedera dal leggere in Crescenzio de pastione primum videndum esty ut per totum mnnum, etc. voleva, e noo senza ragione, e secon­do il costume del nostro Terenzio, che si leggesse: De pastione , primum, etc.

(ia) Tempus, ubi stent. Queste parole tono riputate spurie da Ursino. Popma voleva legare poitanto tempus : di fatti non suona bene il dire che qualche luogo guarda ad tempus meridia­num. Si può difendere ubi stent coir autorità di Crescenzio, il quale dice : in stabulo idoneo sint, non ventoso, quod magis ad orientem .... me­ridiem spectet ; ubi s te n t .... esse virgultis aut paleis au t aliis straminibus stratum atque declivum , ut mundari ac purum fie r i jb hu­mi ditate urinae facile possit, etc.

( i3) Eruderatum. Dal passo allegato di Cre- seenzio, Poni edera sospetta che in Varrone si •ieno perdute delle parole, come si raccoglie an­che dalle seguenti subjicere oportet virgulta alia. Columella nel lib. xn, cap. 3, ha: deturque opera, -ne quis liumor consistat, ut semper quam aridissimis filicibus vel culmis stabula tonstrata sint, quo purius et mollius incubent foetae, neque earum valetudo infestetur ulìgi­ne, Varrone piti sotto prescrive che le stalle delle pecore coperte con pelle sieno lastricate di pie- tra, onde P orina non si arresti nella stalla.

(14) Ea uligo. Questa lezione ricerca che in avanti si legga con Crescenzio purum ab humi- ditate, ovvero purum ab urina.

(15) Steterunt. Crescenzio ha: subjicere oportet alia virgulta vel paleas, quo melius requiescant. Apparisce dunque, siccome avverti anche Pontedera, che antecedeotemente si sono

perdute delle parole ; e per riempire qnesta lagu­na, alcune editioni mettono virgulta et alia. Forse ha avuto qui luogo soltanto una traspost­isene di parole, ed è da leggersi : fie r i cogit. Itaque substernere oportet virgulta v d paleas, quo mollius requiescant, purioresque sint\ Cum aliquot dies steterunt, Subjicere oportet virgulta alia. Libentius enim , etc. Co A si è da noi tradotto.

(16) Crescenzio ha: faciendum quoque in­firm is et his, qui agnos parvos habent secreta septa ab aliis, quo eas recludere possis. Appa­risce dunque che Vittorio ebbe totta la ragione di correggere enitentes in incientes. Festo alla voce gravida : inciens propinqua partui, quod incitatus sit foetus ejus.

(17) Contra illae. Abbiamo tradotto coeren­temente ad Ursino : Contra illi in saltibas qui.

(18) Retta. Plinio, nel lib. xvm, sez. 53, ha: sunt qui optime stercorari putent sub dio nunc retibus inclusa pecorum mensione. Qui Varro- nei n tende le réti tessute di ginestra di Spagna, delle quali Columella, nel lib. s u , cap. 44* d serve per difendere gli alberi dagli uccelli. Ogf gì di nella Spagna si rinserrano con simili reti le pecore che si conducono qua e li.

(19) E t late. Crescenzio aggiunge et varie: per contrario Ursino voleva che si togliesse come superfluo ef late. Pontedera approva l’ ag-giuota di Crescenzio.

(ao) Sirpiculos. Scaligero intende una speete di carro che da Varrone nel lib. iv, pag. 3$, de Lingua Latina si chiama sirpea. Per contrarlo Gesnero intende nn legno incurvato avente nelle estremiti due panieri. Noi siamo con Gesoero. Schneidero penta ohe le Calles sieno luoghi sei* vaggi, pei quali passa il bestiame quando si con­duce da lontano a pascolare nelP inverno. Sveto- nio Caes. c. 19, conferma quest’ opinione, dicen­do : ut provinciae fu turis consulibus minimi negotii, id est siUae callesqus decernerentur.

(ai) Puto. Pontedera cangi* questa voce in potum. Virgilio nel lib. 111, verso Bafi e Colu­mella, nel lib. v ii , cap. 3, comprovano questa cor­

rezione.(aa) A ire vespertino. Il codice Polizianeo

mette refrigeratur a€r et: meglio perà sarebbe leggere: dein refrigerato aire , vespertino rur­sus pascunt: lo stesso codice mette pascunt.

(a3) Inigere. Ursino e Popma hanno cangiato interest rhe correva aranti. Crescenzio confer­ma tale correzione, dicendo : Cum messes sunt

factae, teneantur in stipulis, quod est utile duabus ex causis, etc. Questo cangiamento è necessario, perché interest e utile signiAca lo stess i. Nel codice Cesenate leggesi inter est, e

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appresso Beroaldo iter est. Noo è da Irascararsi quest' al ti ma lezione, di cai si serre anche Cice­rone, perchè allora bisognerebbe dire eh’ è utile andare colle pecore in quelle campagne, nelle qoali si è già fatta la raccolta.

(a4) Qui è da aggiungersi che i Greci assue­facevano fino dalla gioventù de' maschi ad esserei condottieri delle gregge : lo stesso fanno og­gigiorno anche gli Spagnuoli.

(a5) Vale a dire dopo il sedicesimo giorno avanti gl1 idi di Maggio, secondo Plinio xvm, ly , sioo al tredicesimo avanti le calende di A- goito, fecondo il medesimo autore xiv, 39. Bi- aogoa per altro osservare che Plinio vm, 4?* fis­sando, egualmente che Varrone, questo tempo tra il tramontare di arturo e quello dell' aqui­la, si spiega meno vagamente del noftro Teren­zio, e che comiocia dne giorni prima, e termina tre giorni piè tardi.

(a6) Pliuio vm, 47* ove sembra seguire Var­rooe, dice che sono gli agnelli quelli che sa­ranno più deboli, non già le madri. È dunque da correggersi Plinio con Varrone, ovvero que­sti con quello ? ovvero è da dirsi che abbiano luogo due effetti, ma che ognono di qnesli ao- tori non ha parlato che di nn solo ? Popma, Ursino e Schneidero correggono concipiuntur : poi fanno qui. . . imbecilli. Similmente Varrone, parlando dei cavalli nel cap. 7, dice : quae post id tempus nascuntur, fe re vitiosa atque inu­tilia nascuntur.

(37) Di quest* opinione sono Aristotele, Elia- no, Pii io, i Georgici greci e Crescenzio. Lo stesso si prescrive da Anatolio per le cavalle.

(a8) CresceazÌQ nel lib. ix, cap. 69, dice : Ut ait Varro : Cum oves conceperint, arietes secernendi sunt, quia cum sunt molesti, ob­sunt: quindi Pontedera voleva che si togliessero, qual glossi, le parole ita factis praegnantibus. Per contrario Scaligero toglierà soltanto ob­sunt\ e pensava che qui occorresse cangiar luo­go alle parole, o dire quod ita factis prae­gnantibus sunt molesti. Tutto il testo si può difendere, aggiungendo si avanti sunt.

(39) Crescenzio, nel lib. ix, cap. 74, ci è sta­to di scorta nella tradnzione e nella separazione de' varii membri. Egli ha : cum parere inci­piunt oves, pastores eas injiciunt in ea stabu­la, quae ad tam rem habent seclusa, ibique agnos, recenter natosy ad ignem apponunt, et per biduum aut triduum retinent cum matri- bus dum cognoscunt matrem , et pabulo se sa- turant.Dal leggersi in Poliziano ad cognoscant, abbiamo tradotto quoad cognoscant.

(3o) Un passo parallelo di Columella farà ve­dere il torlo di Gesnero nel difendere mollitam ,

8U9

e che le parole antequam exeunt pastum, e t cttm reverterunt sono viziose, e appartengono alle madri : sjatisque est mane priusquam g rex procedat in pascam* deinde etiam crepusculo redeuntibus saturis ovibus admisceri agnos ; qui cum firm i esse coeperunt, pascendi sun t intra stabulum cytiso vel medica, tum etiam

furfuribus% aut si permittat annona, fa rin a ordei vel ervi.

(30 Ut mancava nelle edizioni anteriori a Vittorio ; e Ursino saggiamente il tolse. Questo medesimo voleva che dietro i Georgici greci si leggesse et agni pinguiores. Schneidero difende questa correzione, dicendo che le pecore che hanno partorito, non sono da mungersi, accioc­ché gli agnelli diventino più piogai, poppando la madre, non già acciocché questa partorisca più agnelli. Crescenzio omette totalmente que­ste parole. Si può per altro difendere la cor­rente lezione, dicendo che nell' Italia partico­larmente le pecore partoriscono sovente de' ge­melli, per conseguenza non mungendosi, hanno più di forze per concepire e per nodrire inter­namente i gemelli.

(з а) Avendo vednto Diogene presso Mega­ra,- che tntte le pecore erano coperte di pelli, e che i ragazzi, per la loro estrema miseria, erano ignudi, disse lepidamente che amerebbe piuttosto di essere 1' ariete di on abitante di quella città, che il figlio.

(33) Parari. Poliziano ha lette putari. Ap­presso Festo leggesi : imputatus nondum pur­gatus. Poco dopo è da dirsi adhibent^ perchè segue faciunt.

(34) i Georgici greci xvm, a, nominano il citiso, I' erba medica, il fien greco, 1' avena, le paglie dei legumi e dell’ orzo spruzzate special­mente <li salamoia, i fichi immaturi caduti, e le foglie di fico seccale. Gli abitanti dell' isola di Zea davano alle pecore il citiso, le foglie di fico, le foglie cadute dagli ulivi, le paglie de' legami, ed una certa spina, secoodo Eliano svi, 3a. Forse Varrone è il solo che dia alle pecore le vinacce: Columella nel lib. vi, cap. 3 le dà ai buoi.

(35) Ut dixi. Qui parla Attico : intorno a questo registro del pastore aveva già detto Scro­fa nel cap. 1 di qneato libro : item ad alios morbos aliae causae, etiam alia tigna in omtd pecore, quae scripta habere oportet magistrum pecoris. Laonde Morgagni voleva che in que- to luogo si leggesse dixti, ovvero che quelle parole non fossero da mettersi in bocca dì Scro­fa, ma di Attioo.

(зб) Molte cose si sono perdute in questo lao­go, perchè lo slesso Varrone disse nel cap. 1, che auebbe parlato della uona parte : Relinqui-

9 0 0ANNOTAZIONI AL LIB. Il DE Rfc RUSTICA

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DI M. TERENZIO VARRONE

tur nonum quod dixi de numero utriusque partis commune. Nam M qui parat pecus, neeesse est constituat numerum , quot greges et quanto sit pasturus, ne aut saltus desint, vut supersint, et ideo fruc tus dispereant. Prae- ferea /c/r* oportet in grege quot foeminas ha­beat, quae parere possunt, quot arietes, fuof utriusque generis soboles, rejiculae sintalienandae, «/c. Dunque qui manca la massima parie di queste cose. Intorno ai pastori dice di sotto nel cap. io : De numero pastorum alii angustius, a/ii laxius constituere solent. Ego in octogenas hirtas oves singulos pastores constitui^ Atticus in centenas. Parimente dat cap. 3, ore si parla delle capre, si può arguire che qui manca molto, dicendosi ivi : relinquitur de numero, qui in gregibus est minor caprino quam in ovillo, quod caprae lascivae. Final­mente Crescenzio, nel lib. ix, cap. 69, conferma alcune di queste mancanze : Centum ovibus unus aries sufficere fe r tu r , et quotque sunt cente- naria , tot arietes sujficere ait Varro. Ma il testo è corrotto anche in fine del capitolo, asse­gnandoti dae pastori a cento pecore coperte con pelli, quando secondo la testimonianza di Colu­mella nel lib. vii, cap. 4i queste rare volte si con­ducono al pascolo, ma si alimentano dentro la casa. Anche la lezione di Crescenzio i alterata ; perchè è duro a credersi che un ariete baiti per cento pecore, quando lo stesso Varrone nel cap. 3 assegna un becco a venti capre. Noi abbiamo segnito la lezione di Poliziano e delle prime edi­zioni cbe hanno caprae binos, cioè caprai bi­nos ; e questa ci è sembrata più ragionevole.

C ip . III. (1) Egli fa allusione al nome del pa­store cbe allevò Romolo e Remo. Col verbo ba- lare si esprime la voce delle pecore, secondo 1’ antica maniera di parlare.

(2) Chordo. Melanzio appresso Omero è il pastore delle capra di Ellisse nell1 isola d ' Itaca. Forse Varrone avrà volato per ischerzo nobili­tare il pastore Melanzio con un cognome di fa­miglia romana. Anche Quintiliano, lib. xlv, av­verte esservi stale molte famiglie di questo co­gnome.

(3) Molliori. Columella, nel lib. t u , cap. 6, dice : Caper cui sub maxillis bànae verruculae collo dependent, optimus habetur, amplissimi corporisf cruribus crassis, plena et brevi cer­vice^ flaccidis et praegravantibus auribus, exi- guo capite, densoque et nitido atque longissi­m o pilo ; nam et ipse tondetur. Quindi si ricava c b ' è da scartarsi molliore, è da sostituirsi Ia le­zione delle prime edizioni melior is et. Aucheil codiee di Poliziano con mulior voleva dire lo

stesso. Dietro poi Columella, Crescenzio ed i Georgici greci abbiamo aggiunto crassis o ple­nis dopo brevi.

(4) Gurgulione longiore. Chi rifletterà che T asperarteria nei quadrupedi non è più lunga del còllo, e che Varrone prescrive che questo ha da attere corlo nei becchi, vedrà chiaramente che qui non è da intendersi la canna polmonare, ma bensì la testa della laringe, la quale è più taberante nei maschi, che nelle femmine. La gros­sezza della glandula tiroidea prodace questa dif­ferenza.

(5) Hoc aliter. Questa è ana formoli antica che usatasi nel pronunciare le sentenze: dicevasi anche hoc amplius. Plinio uel lib. vm, sez. 76, dice, in proposito delle capre: nec unquam f e ­bri carere Archelaus auctor est ; ideo fortas­sis anima his quam ovibus ardentior calidio- resque concubitus.

(6) Soractis, dice Servio ai lib. 11 dell’ Enei­de, vers. ; 85, mons est tiirpinorum in Flami­nia collocatus. È situato questo monte presso11 Tevere, non mollo lontano da Falera e da Scrofano. Abbiamo da Silio Italico vm, 493, e vii, 662, che in questo monte eravi un tempio consacrato ad Apollo. Schoetlgenio fa le mara­viglie, come Varrone unisca Soratte a Montefi- scello, quando sappiamo da Plinio nel lib m,sez.12 che la Nara nasce da Montefiscello, e Che So­ratte ti trova ove la Nara si scarica nel Tevere. Ma si nominano uniti perchè entrambi hanuo delle capre selvagge.

(7) Schneidero vorrebbe cbe si dicesse ut or- tae sunt ab ovibus, perchè segue sic caprae^etc.

(8) Crescenzio ha : ex capris meliores sunt quae bis pariunt, ex his potissimum mares sunt eligendi ad admissuras. Dunque in Var­rone è da dirsi: E x capris meliores seminio sunt, quae bis pariunt. Ursino voleva che si di­cesse quae binos, perchè di sopra, nel cap. 2, disse : quos arietes Submittere volunt, potissi­mum eligunt ex matribus, quae geminos pa­rere solent. È da approvarsi la correzione di Ur­sino. Questi crede spurie le parole ad admis­suras.

(9) Media. Scaligero la interpreta ptrmelum pel cambiamento della lettera / in d, come per contrario si sono chiamate galline melicae quel­le che erano medicae. In molte isole del mare thrl Peleponneso vengono bene le capre, appunto perchè il terreno è montu so e selvaggio.

(10) Atqueft» Meno generali e più determi­

nate sono le parole di alcane edizioni : aliter utque de ovibus dico.

(i ì ) Ecco an fdIlo osservabile che ba molta relazione colla febbre delle capre. Un certo Co-

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*>3 ANNOTAZIONI AL LIB. Il U £ RE RUSTICA $ 0 4

telerio nacqoe a Nimes oel 1626 e nel tempo della peste, per coi morì la soa natrice. Maocata qaesta, si fece nodrirc da noa capra. Si otterrò che in tolto il tempo di soa vita risse malinco­nico e malaticcio, e che la febbre noo lo abban­donò giammai. Cotale fallo merita di essere to- nosciuto da quelli che propongono’ il latte di ca~ pra per nodrimento degl' iofaoti.

(ia) Famoso giureconsnllo, contemporaneo di Mario e di Siila, e ohe Cicerone pareggia a P. Mucio Scerola, il primo giurisperito del tuo tempo. Egli era di famiglia senatoria ; ma poiché Cicerone gli dà il preoome di Marco, non do­rrebbe estere della famiglia Manilia, te si presta fede a Festo, il quale dice che codesta famiglia avera decretato che nessuno de' suoi membri non porterebbe giammai il nome di Marco, per- eh è Marco Manilio, il difensore del Campido­glio contro i Galli, era stato condannato a morta per avere aspiralo al titolo di re. Forse quetta è la ragione, per la quale molli commentatori vo­gliono che tanto qui, quanto in Cicerone, si leg­ga Mamilius in luogo di Manilius ; ma cotale ragione non debbe essere superiore all* autorità delle Pandette Fiorentine, ove si legge Manilius.

(13) Quesl’ è an autore egiiio che ha fatto parecchie ricerche curiose sopra la natura degli auimali. Compose so quesl* argomento degli epi­grammi che dedicò al re Tolommeo. La capra selvaggia avrà dato origiue a qoesta favola: di fatti queste haooo lateralmente alle corna due ciechi seni cutanei. Aranti Archelao aveva ciò detto Alcmeone, come si raccoglie d«l lib. 1 della Storia drgli Animali di Aristotele. Questi per altro considera come upa favola cotale asserzio­ne ; essendo rero che questi animali sternutano in pari guisa degli altri, e che per conseguenza respirano per le narici. Alcuni autori, per con­ciliare queste differenti opinioni, hanno preteso che respirassero per tolte dua le parli ; e pare cbe Varrooe sia appunto di questo partito, poi­ché, dicendo che sogliono respirare per le orec-* chie, non esclude la facollà di respirare per le narici.

(14) Pastores. Qui r ’ è qualche difetto, il quale si può togliere innestando ut avanti etiam Archelaus.

(15) Stabulatur. Crescenzio dice : huic pe­cori stabula meliora sunt, quae spectant ad hibernos solis ortus, quae lapide aut testa sunt strata, ut caprile mi nus sit uliginosum aut lutulentum . Item substernantur . . . . obli- niantur teneri, et pasci hoc pecus debet quasi ovillum ; sed kabet propria quaedam , . . . • Quindi Urtino correggerà stabulum melius ad . . . . exortus spectat, pecus quod% etc. Ma

dietro Crescenzio è da dirsi : Stabulum huic po­co ri melius ad . . exortus spectat.

(16) Testa. Secondo Vi Irò via nel lib. n,o»p.9t tono questi i mattoni colli.

(17) Substernitur. Colamella ha : ipsum ver* caprile vel naturali saxo vel manu constratum eligi debet9 quoniam huic pecori nihil subster* nitur ; diligens que pastor quotidie stabulum converrit, nec patitur stercus aut humorem consistere, lutumve fieri, quae cuncta sunt ca­pris inimica. £ dunque da maravigliarti, coma Columella non distenda aul suolo niente d* vir» galli anche oella stalla d* inverno. Forse egli ebbe in rista quella specie di capre, che ha il pelo corto, oon F altra che lo ha lungo, e che è fore­stiera.

(18) In locis cultis. Pontedera volerà cheti leggesse in locis incultis. Ma già Varrone aveva di questi parlato, quando disse de agrestibus

fruticibus pascuntur: oltre di che i virgo Iti ooa sono differenti dai frutici, se noo io ciò, che quelli possono anche attere piantati, coma tono quelli degli ulivi, ec.

(19) Capra natum. In tale gnita ti permetto Piugresso alla capre, e si et eia do no sol tanto t capretti. Dunque noo regge il correote tetto. Di­cati dunque con Crescenzio capram ia fonda pascat.

(ao) Sunt duo .... tauro. In senlensa di Ursino qoesle qoesle voci si tono tolte dal lib. 1, cap. a, e qui traslalate; e perciò Getnero le ha poate tra parentesi.

(ai) Qai ci siamo prete delle licerne non po­che, delle quali brevemente rendiamo ragioco. Crescenzio ha : post autumnum exigunt in gre- geni hircos, quia, quae concipit post quartum meàsem , reddit tempore verno. E Columella dice : Tempus admissurae per autumnum fere ante mensem Decembrem praecipimus, u t p r o pinquante vere gemmantibus fru te tis parius edatur. Palladio finalmente ha : Concipiant No­vembri mense ut Martio pariant. Ursino qotndi aggiustava il teslo cosi : exigunt hircos ia ca­prilia. 11 luogo a cui allude Varrone, io propo» kilo delle pecore, è il seguenle : arietes, quibus sis usurus adfoeturam bimestri tempore, ante secernendum et largius pabulo explendum. Cum redierunt ad stabula e pastu, ordeum si est datumy firm iores fiu n t ad laborem susti- nendum,.... cum omnes conceperunt, rursus arietes secernendi, ita fac tis praegnantibus quod sunt molesti. Costa dunqoe che non poè aver luogo la corrente lezione ; e con Crescenzio ed Ursioo è da leggersi: exigunt in gregem (caprarom) hircos: (ante separatos), ometteodoil restante. Forse si sono perdute alcune parole.

Page 272: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

{22)*Quartum mensem. Uriino, dietro Ari- itotele, Pii io ed i Georgici greci, volevi che si leggesse quintam. Plinio nel lib. fin, oap. 5o, dice che concepiscono in Novembre, e che parto­riscono in Marzo, senza però limitare il namero dei mesi e dei gioroi. Noi per altro noo veggiarno che Varrone contraddica agli aozidetti «atori, perchè dice che partoriscono dopo il quarto mese, cioè uel quinto. Nessun autore peraltro asserisce rhe la capra partorisca dopo il quinto mese, ma che porta il feto cinqoe meii, egualmente che la pecora.

(a3) Noi abbiamo tradotto quaedam remedia scripta oportet habere.... quibus utantur die­tro V edizione di. Basilea e*di Gimnico. Nel cap. a di queito libro diise : de sanitate sunt multa, sed ea , u t dixi, in libro scripta magister pe­coris habet: et quae opus ad medendum por­tat secum.

(a4) Quest’ immenso profitto derivava verìsi- milmeote dall1 adoperare in medicina il latte, ve­dendo in Plinio nel lib. xxvm, eap. 9, che osa­tasi mollissimo nella guarigione di parecchie ma' h|tlie. Questo rimedio per *ltro è ancora in nso.

(aS) Sarebbe forse quésti quel liberto dì Sesto Poinpeo, il quale era potentemente ricco, e che ottenne da Augusto la permissione di portare l’a­nello d'oro ?

G a p . IV. <(1) Scaligero voleva che t i correg­gesse così : Sed quis Epirota post ita ilico pro­dit, perchè nel cap. j dì questo libro nomina quei del 1* Epiro eome dediti all'educazione del be­stiame. Non ii poò esserte deir opinione di Scali­gero, perchè esclude gl' Italiani. Ursino e Ponte­dera fanno delle parole vane. Ci. piace iomina­mente la congettura di Gesnero: Sed quis e por­culatoribus italicis prodit. Trillerò Observ. iv, 27, congetturava che fosse da dirsi : Sed quii expertos post istat alia prodit ?

(a) Scrofa vuol dire una troi». Macrobio, 1,6, racconta il fatto in altra gdisa. Gli ichiavi di un certo Tremelfio avevano rubato una troia ad uoo dei loro vicini, e l ' ammazzarono. Il vicino fece invertire la casa di Tremellio, e gli intimò di re­stituirgliela. Ma Tremellio bistratto del ladronec­cio, e che già aveva fatto nascondere la troia* iolto de’ panni, sui quali era coricata la sua donna, permise al vicino di frugare ove volesse. Arrivato col vicino alla camera da letto, giifrò che non aveva altra troia in tutta la sua (asa, che quella, la quale era sdraiata sui panni. Cotale giuramento baffoneèco arrestò le perquisizioni del vicino ; e secondo Macrobio, fu quindi dato il soprannome di Scrofa a quel Tremellio e a tutti i suoi di­scendenti.

M. T bR£NZIO V i l lvK B

go5

(3) 11 questore .era on ufficiale dell1 ordine senatòrio, cbe accompagnava i generali deH’ ar­mata, cioè i consoli ed i pretori. Aveva il maneg­gio dei soldo destinato al pagamento delle trup­pe; e presiedevi al ripartimento del bottino, la seguito vi. ebbero altre specie di questori; raA queste non hanno alcuna relazione con quella, dì cui parla Vtrrone.

Eumeo èra il porcaio di Ulisse; ed è celebrato da Omero nel quattordicesimo libro dell1 Odissea.

(4) Tito Livio, nel lib. xliv e xlv, ci dice che questo* A. Licinio Nerva fu prima spedito 1' an­no 585 dalla fondaz one di Roma a fare la rivista delle armate di Macedonia, e che due anni dopo fu crealo pretore di questa provincia.

(5) Si chiamava pretore ogni magistrato che aveva dell’ autorità sopra le truppe.'In origine non ve o’ ebbe che nn solo in Roma, il quale, in 'mancanza de’ consoli, esercitava la giustizia, e sì chiamava urbanus. Ma in segnito l’ affluenza dei forestieri in quella città, rèse necessaria la -crea­zione di on secondo pretore che si nominò pere­grinus. Finalmente dopo là conquista di molte provincie, si creò un pretore per ognuna delle medesime ; ed egli era alla testa dell'amministra­zione tanto civile, quanto militare della provincia»

(6) Plauto Trucul. ri, a, i 3 : Ego te hic mu­lier, quasi sus catulos pedibus proteram. Se­condo Schneidero, dalla parola greca yfófiQoi è derivata la voce scropha.

(7) La parola Imperator, a parlare propria­mente, significa quello che comanda. Presso i Romani era on titolo di onore, che i soldati da­vano ai loro generali, quando o eglino medesimi,o i loro subalterni riportavano una vittoria con- iiderabile.

(8) Ursino è di opinione che le parole ut di­ceretur Scrofa sieno di altroi mano.

(9) Varfrone, nel lib. tv, pag. a8, de Lingua Latina fa derivare ta voce succidia dal tagliare in pezzi i porci. Appresso Gellio xnr, af, si dice per bocca di Catone, che si sono fatte delle sue- cidiae umane ; qoindi. è da inferirsi che l1 eti­mologìa è tratta dui verbo succido.

(10) Regione.coeli. Pontedera d aivertl che era da omettersi coeli, come voce che qui non vi entra per niente; e di fatti in progresso non si fa alcuna menzione del clima.

(.11) Ragionevolmente voleva Ursioo che si dicesse : siform osat sunt scrofae ; perchè dopo si parla soltanto di troie, noo gii di verri.

(ia) Ursinó corregge amplae quam exiles (scrofae) paratae. Noi siamo colle antiche edi­zioni nel leggere amplae quam exilis ( formae) pararis ; perchè per la buona razza, tratta da ua bnon paese, ricercasi principalmente che si com-

9 0 6Dl M. TERF.NZIO VARRONE

Page 273: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

prino (toU grolle, ma questo bnon paese debb’es- sere-appunto’ quello, ìq cui allignino Iroie grosse.

( i3) Ursino rammemora la lezione noxisque spraestare^ ch’egli interpreta noxisque solutas praestare. Qai per qllro è.da dirsi colle prime edizioni praestari, •

(i/j) Fqria. p ùntilo ,Inscriptionem^ pag.g3a, ▼oleva leggere soria, cioè suria dal verbo suri- re; ma va hene foria : quella malattia è incura­bile ne* porci, secondo Aristotele.

(i5) Subigunt. Leggasi: meridie subigunt Columella nel lib. vii, cap. io, prescrive che nei giorni canicolari ti conducano due volle del dì *11' acqua, e cbe anche ti facciaoo stare presso qo fiume, o una palude, ove possano tuffarsi, perchè aono di tempera rnen lo focosissimo.

(iG) Nel periodo di quesli due mesi bisogna ingrassarli, onde diventino robosti per 1' accop­

piamento.(17) Lastra. Abbiamo tradotto questa Yoce

coerentemente alla spiegazione di Festo: Lustra significant lacunas lutosas, quae sunt in silr vis, a p r o r u m cubilia.

(18) Primum . Aristotele dice che tono atti •Ila generazione sino ai tre anni : e Plinio, nel lib. vm, cap. 5 i, traduoe lo Stagirita diceodo: mares ultra trimatum non generant. Colu­mella nel lib. v i i , cap. 9 , dice che sono atti alla generazione fino ai quattro anoi. Ragionevolmente adunque voglioito Scaligero, Ursino, Popma* Morgagni e Sohneidero che si legga ad trimum.

(19) Con sode ragioni Scaligero, Casaubooo, PonleJera e Schneidero leggono in luogo ditkfSUS, o di &UT*<.

(20) Pontedera dietro le prime edizioni ed i codici legge: Ab suìllo enim pecore et genere immolandi, etc. Orsino toglie, quale glossa, la voce pecoris. Per altro «dal lib, ir, pag. 28, de Lingua Latina di Yarrone pare che li possa arguire che si sia principiato dai porci, perobèsi è maagiata la carne di questi ; Rine (ab oleribus) ad pecudis carnem perventum est. Suilta sic ab illis generibus cognominata. Rane primo assam , secundo elixam , tertio e jure uti coe­pisse natura docet. Vale a dire, il sacrifizio fatto col porco diede occasione di mangiare prima ar* rollila la carne porcina. Lo stesso dice.anchfe il comico Alenio presso Ateneo ziy, pag. 660.

(21 ) Ateneo, 111, pag. 96 dice cb« nella Grecia l i sacrificava una troia anche a Venere. Festo chiama confoeta sus quella troia che s ' immolava ju uno a tuli' i suoi feti. Tale appunto fu quella cbe sacrificò Eneà.

(22) Senza quest’ anima, la carne del porco ai corromperebbe, dice il filosofo Crisippo.

(23) Scaligero dice che sono quelle che i Fran*

9°7

cesi chiamano longes. Intorno a qaeste non si ha niente di accertato. Potrebbe darsi cbe qui fosse da leggersi lucanicae, vale a dire la lucanica, da Lucca; ip quella stessa guisa che dicevasi F a li­scus per indicare uqa specie di salsiccia inveoUta dai Falisci,

(&4) I n t o r n o a qoesto passo T a n e sono l e o p i ­

n i o n i . N o i abbiamo t r a d o t t o quella d i Tornello: In Italia Insubres tem a atque quaterna mil­lia succidiaf habere.

(25) Vere. Parecchi dotti opinaoo che qaesta voce non possa aver qui luogo. Crescenzio corro­bora queit' opinione, dicendoc Sus 1isque adeo pinguedine crescere salet, ut se ipsa stans, etc.

(26) Ccescenzio ba: nam Lusitania fertur sus esse accisus, qui fitit inventus viginti tri- bus pondo, id est quingentis septuaginta quin­que libris, ejusque suis a cute ad os pedem et très digitos fu isse , id esty habuisse lardum cum carne uno pede et tribus digitis grossum, ut ait Varro . Questa spiegazione di Crescenzio melle in chiaro di più il testo di Varrooe. Cre­scenzio crede che il pondo contenga venticinque libbre,

(2£) Questo senatore era molto amico di Ci­cerone. 1 senatori erano così chiamati dalla voee senes, perchè Romolo scelse cento persone della più sperimentate, onde gli fossero consiglieri oeJ- l’ amministrazione della Repubblica. Si chiama- vano anche patres ; e questi oosti lui vano il primo ordine della Repubblica romana.

(28) Crescenzio dioe : Addit Varrò, etiam se in Arcadia vidisfe suem, quae prae pingue­dine non modo surgere non posse/, sed eliam ia ea murem nidum fecisse et perperùse mu­res. Ursino lesse io ùn vecchio codice scio esse spectatum, tralasciando me come disadatto. Per allro, dietro Crescenzio, si dovrebbe leggere: Std etiam in ejus corpore sojricem »... fecisse peperisse mures. Plinio oel lib. xi,a«i. 85, dice: sues spirantes a muribus tradunt arrosas. Qui nrfu ha a che fare la tocc carne introdoltsi da Giocondo : forse va delto excfja adipe.

(29) Vineta, Anticamente legge vasi juvence; ma Vittorio e Scaligero lessero Venetiam.

(30) Gli antichi avevano il oostume di accop* piare i porci coi cinghiali, ed i figli si chiamavano hjrbridi. Poco dopo è da dirai appellant eoa Ursino.

(31) Seòeos, cum. Scaligero ed Ursioo, die- tro il codice PcHizianeo e di s. Reparata, ove leg- gesi secundo ea, correggono secundum ea ; e confermano questa correzione con Florenlinio, uno de' Georgici greci. Ma è meglio dire: kinis mensibus porcos sinunt cum matribus sequen­do eas : cum jam , etc.

9 0 8ANNOTAZIONI AL LIB. II DE RE RUSTICA

Page 274: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

(Jfl) Pontedera, da noi lega i to nell* trada­zione, coiì Aggiusta il testo : lactis quod denti- bus sauciaretur. Praeterea sorofa, etc. P liniof

se i lib; vm , sez. 77, dice, in sentenza di Nigidio,

che i porci iù tempo d* inverno hanno i denti, non sì'tosto che hanno compilo i dieci giorni.

(33) Scaligero si accorse che la corrente' le­

ttone era guasta ; e perciò lesse qao alienos spetnant, cioè separent. Pontedera legge quo alieni spernantur ; ma così non apparisce la

ragionevolezza delle seguenti parole et ideo si conturbati sunt: laonde dee precedere ia men­tione della facilità, con cui la troia lascia che si

attacchino alle sue poppe ^ache gli ajtrni figli. È

dunque da preferirsi la correzione di Ursino quia alienos non aspernantur, corroborala dai Geor-

giei greci, e specialmente da Col omelia, il quale

nel lib. vii, cap. 9 , dice i curet maxime , ne quis sub nutrice aliena educetur, nam facillim e porci, si evaserint haram , miscent se, et scrofa cum decubuit, aeque alieno ac suo praebet. Itaque porculatoris maximum officium est% ut unumquamque cum sua prole claudat.

Siamo tentati di asserire che le seguenti pat­itile in foetura, fit deterius siedo corrotte. Var­rone nel cap. 1 di questo libro chiama foetura il

tefopo chi» passa tra il concepimento ed il parto:

inoltre si chiama foetura il nuovo frutto, cioè il

feto partorito ; e la nutrizione dello stesso è detta

porculatio. Danqne non si legge bene in fóetu- ra ; e f i t deterius non si sa a chi si riferisca, cioè

se alla madre, od ai porcellini che sono la foetura. F acendo conturbati sunt,foetura it in deterius%

il male cade sopra i figli, i quali non poppano a

sufficienza, subito che il latte lo dà agli altri.

(34) Circumspicere. Le edizioni de'G iunti e

di Gimnico mettono despicere: lezione da adot­

tarsi, perchè Varrone vuale appunto che l ' altezza

del porcile non sia tanta da impedire al porcaio

di vedere per disopra se i porcellini sono in peri­

colo. Columella parimente comanda che dalla

parte superiore feda il porcaio se manca qualche

porcellino, o se alcuno è in pericolo. Egli ordina

che il porcile abbia qnattro piedi di altezza.(35) Va punteggiato altrimenti dal testo : op­

primatur ; et ut facile purgare possit cubile, in haris ostium , etc.; diversamente non appari­

rebbe P uso, cui è destinata la porta, perchè il porcile non si netti per di sopra, ma più como­damente per la porta. Ursino condannò la voce

altum , come superflua, e perciò Gesnero 1’ ha

mussa tra parentesi ; ma era necessario metterla,

acciocché si sapesse che questa misura noo appar­

tiene all1 altezza del porcile, ma bensì a quella

della soglia.(36) È da leggersi: totics in singulas are-

9°9

nam .... humorem : et cum pepererit, etc. Così

appunto si ha nelle prime edizioni; e Crescenzio

omette anch’ egli in singulas injicere delet .(37) Madefacta aqua. Dobbiamo interpretare

con Columella 1’ orzo cotta nell' acqua. Maderc per coqui è stato adoperalo da Virgilio e da altri. Pontedera, dal leggere in molti codici dcpubli- cant, voleva adottare questa lezione: egli lesse in tre altri codici, ove nel cap. 8 si parla della coda

del cavallo, depubjicata in dexteriorem par­tem cervicis, cioè sparsa ; ma mane et vesperi vogliono piuttosto conduplicant.

(38) Giammaria Gesnero, nel Tesoro della lin­gua latina, sospetta che si dicano porci delici, qui delinquantur a matribus, ut reliqui, qui re-

linquantur ; deliculas vero ’oves dici, quae de* linquuntur seu venduntur aliis dominis.

(39) Plinio, nel lib. vnr, cap. 5 i ha: suis fo e ­tum quinto die purum esse, pecoris octavo, bovis trigesimo. È dunque corso uq errore o ia

Varrone, o in Plinio. 11 padre Arduino è persuaso

che l’ errore sia in Varrone, perchè Plinio, ci­tando tre esempii di animali che sono puri io

oerti giorni, osserva.una gradazione nei numeri, che non avrebbe più luogo se il dieci fosse i

luogo del cinque. Ma chi ci assicura che Plinio

abbia pensato a questa gradazione? Pare più

probabile che il numero dieci fosse in Plinio, egualmente che in Varrone, espresso colla lettera

z , e che coll'andare del tempo si sarà cancellata

la parte inferiore di questa lettera, e non sarà ri­

masta ne’ manoscritti che la lettera v, eh1 è il se­gno dinotante il cìuque.

(4°) Festo, alla voce nefrendes, disse che con

• tal nome si chiamano anche gli arieti cjie non

ancora possono'frangere coi denti ; e perciò que­

sti si trovano nell* infauzia. Altri esempii si po­

trebbero allegare per comprovare che gli antichi

distinsero con accuratezza le va/ieta degli animali domestici.

(4 1) Plinio, nel lib. xr, sez. 95,-dice che le fe­conde troie hanno dodici mammelle, e le altre

due di meno'; ma questo namero di mammelle

varia negli animali domestici. Pare che i Romani

abbiano caratterizzate per feconde quelle troie

che erano di colore biancq; perlocchè disse G io ­venale vi, 176: scrofa foecundior alba ; quando

bene non abbia avuto in vista quella troia favolo­

sa, di cni poco sotto si fa menzione, e che gli

scrittori dicono che fosse bianca.(42) Vittorio, dalla lezione jamne sim , formò

Lavinii, e Poutedera, Interamnae , cioè Terni.

Morgagoi vede le tracce e di Lavinia e di Roria;

il cho non pare a noi, che siamo dubbiosi intorno

alla scelta, perché la storia antica tace intorno a

questa favola.

910DI M. TÉREN2IO* VARftONE

Page 275: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

ANNOTAZIONI AL'LIB. Il DE RE RUSTICA 9« a

Q uelli è l'eroe <lèll’ Eueidé di V irgilio , il quale, dopo la rtiina di Troia sua pairia, perven­

ne, non senza difficoltà, a stabilirsi io Italia. Egli era figlio di Anehisc e di Venere ; ed è conside­

ralo come il ceppo del popolo romano. Se si pre­

sta fede agli amori com tempora nei che hanno

scritto della guerra di Troia, come Ditte di Cre­

ta, e Darete di Frigia, Enea non fo che un tradi­

tore, il quale, di coocerto con alcuni altri T ro­iani, consegnò la saa pairia ai Greci. Ma se ciò

fosse, come combinare il vanto dei Romani, ap­

punto perchè discendono d* Enea?(43) Sufferre lac. .Piacerebbe a Gesnero leg ­

gere sufficere. Crescenzio ha : sufficienter po­test lac praebere. Anche Vjrgilio nel lib. ti,

vers. 4^3, 435, disse sufficere: lo.stesso ha G ià-

slino xliv, 1 y 4*(44) Non è da escludersi con Urtino e Scali­

gero lacte% perchè* anche Cresceozio ha crebro reditu lacte alere possint porcos, è perchè altri

non pensi che la voce crebro reditu si riferisca

al pascolo: qui le tròie debbono ritornare sovente

ai figli per somministrare ad essi del latte.(45) Cupiunt. Molti leggono cupiuntur, o

capiuntur, ed interpretano nn vivo desiderio di

seguire la madre; ma Pontedera interpreta il contrario, cipè impediuntur; e cita mòlli esempii

di capare io significato d'impedire. Pare che la

questione si decida con Crescenzio e collo stesso

Varrone : quegli ha : creverint secuntur matrem ad pastum , etc , e quesli disse in qneato capitolo :

binis mensibus porcos sinunt cum matribus sequendo eas: cum jam pasci possunt,‘ secer­nunt.

(4<S) Seorsum pascunt. Ursino congetturava

che fosse da dirsi sero pascunt, perchè Catone

nomin.i i porci serarii, dicendo nel cap. 4 ° : Porcos serarios in oves denas pascat, etc. In

lai modo apparisce Ia ragione del come si tolga ai porceMetti il desiderio della madre: perchè nu ­

tricati Ioli dì siero di latte, si fa che poco a poco

si scordino del latte. Crescenzio, om ette intera­mente da pas'cunt sino a subulcus.

(4;) Ursino toglie la voce parentis, qaal glossa

del desiderio. Vittorio lesse parentis nutrices ne* rodici e nelle p rm e edizioni; e quiodi so­

spettò, come anche Scaligero, che fosse da leg­gersi nutricis. Qui con Crescenzio è da dirai :

Nutrices subulcus, perchè prima bisogna assue­fare le madri al corno. Gjanfrances<*o Gronovio

corresse possint paréntis nutricum^ ed inter-

pretò nutriets per ubera.-(48) Ideo ad xu. Qui va corretto certamente

ideo fid buccinam. Gesnero amerebbe che si di­cesse docentur in luogo di dicuntur, SchneidcrO

interpreta la lezione del testo: ideo d ix it debere

convocàri buccina. Meglio è aggiungere una

lettera, e fare discuntur.(49) Varrone .tace la maniera di castrare i

ferri. Colnraella ne insegna due nel lib. vi, cap. 364

e nel lib. vii, cap.-11.(50) Majales. Isidoro h a: Majalis porcu*

pinguis, quod deae Majae sacrificabatur, qua­s i ma tr i Mercurii,

(5 ») Greges majores. Pontedera leggo : Gre­ges majalium inaeqùàles, e viene a coititoire

tre classi : una è quella, in cni pascolano le troia

ed i verp ; la seconda quella de* maiali; a la tersa

quella de1 porcellini non ancora castrati. Ma ìq

cotale gaisa non si determina nel gregge i l na­mero delle troie. Varrone soltanto avverte del numero dei verri che si fanno entrare in cento

troie, qnaodo il gregg* aia composto d i tante ; egli però non ha ancoro detto qtiale sia i l namero

cbe approvi. Schneidero inteode per greges ma­jorum le troie, i verri, i maiali, ed i poreelletti, che prima g à aveva detto Varrooe di condurre

al pascolo separatamente.

Cap V. (1) E t Varrone nu G esserò difendo

cotale insolita maniera d* parlare, con dire che

una reticenza di saluto, della cui figora si sareb­

be amato di vederne an altro esempio. Avrebbe

dovuto ancora insegnare, perchè si eccettui il so­

lo Varrone, e perchè singolarmente si saluti. P er

contrario Brencfcmann ( in epistola ad.Schoet- tgen edita in Observ. Misceli. Belgicis pag. 579) corregge : en Varronem nostrum* inquit.

(a) Balatrones. Non si sa dir niente con cer­tezza intorno al significato di qoesla parola. Ora-

zio 1, Serm . a, a, la usa per dinotare una qaal-

che professione, la qaale non è nem m eno infa­

me, come si raccoglie dallo stesso Orazio Serm, ii , 8, a i , ove Mecenate tiene alta saa tavola

Servilio baiatro , che forse si iarà cosi chiamato, perchè esercitava qaalche uffizio sol teatro.

(3) Palilibus. Varrone fa che i discorsi so­

pra il bestiame si sieno tenuti il giorno delle

Palilia^ che era ana festa dei pastori, com e nel

cap. a del primo libro fa che sì U ngano i di­

scorsi sopra 1’ agricoltura il giorno della festa

delle semenze. Ma qnesto soldo a chi si paga?

alla dea Pale; laonde è da dirsi P ali o non

Palilibus.

(4) Questa facezia cade sopra il nome di Tac­

cio, che viene da vacca.

(£) Qaesl* autore era di Tanftmania in Sici-

Ha. Plutarco Jo dipinge qaal nomo arrogante, cbe si vantava di essere migliore storico di T u ­

cidide, quantunque entrasse sovente .in d igres­

sioni indegne delli gravità storica. Diodoro di

Page 276: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

9«3 DI M. T E R fN Z IO VARRONE 0*4

Sicilia, tra gli litri* difetti lo accusa di essersi diffuso sopra parecchie miuuzie.

(6) I vitelli si diooQo in greco traXoi ; e

per Questo voleva P ilone cha si fosse detta Ita­lia. Io uo frammento del libro delle Origiui

di Catone, si trova ima traccia di poesia favola:

Etsi Graeci de mòre quidam a bobus Her- culis, vel quod optimos gignat Italia , ut oit Helladicus, aut a vitulo egresso, ut Herodor fa/, vel quidam Graeci boves vocant IraXtt'c, ut fabulatur Timaeus.

(7) Quantunque oon si vegga cbe le leggi ro­

mane avessero stabilita la medesima pena, 00IU-

dimeno Plinio nel lib. vm , sez. 4$, cita un esem­

pio, dal quale coita che on cittadino fu condan­nalo a 11’ esilio dal popolo romano, perchè am­

mazzò in villa un bue, ad oggetto di* compiacere

uno schiavo che m ollo amava, ed il quale desi­

derava, di, mangiarne. La ragione che quest’ au­

tore allega di questo giudizio, è, perchè nelP uc­ciderà il*bue, aveva come aceiso nn sao lavora­

tore. Ma questo cittadino sarebbe andato eienle

dall1 esilio, se fosse vissuto quando il lqtto t' era

introdotto fra’ Romani, e quando P agricoltura

era soltanto nelle mani del basto popolo.

(8) Bu%uges. Plinio, nel lib. vii, cap. 56, pre­

tende esservi sta lo. un-Ateniese di questo nome,

che fu P inventore di ‘aggiogare i buoi alP ara­tro : altri aotori vogliono che questo non sia un

nome proprio, ma on epiteto formato dalle due

parole bue, e JWy**, giogo, e dato alP in ­

ventore delP aratro, che alcuni credono es*ere

Ercole, altri Epimenide, altri Trittolemo. Che

che'oe sia, il sacerdozio risiedeva in Atene in

una famiglia che si chiamava Busygia ; il che

sembrerebbe confermare P opinione di Plinio.Columella, nella Prefazione del lib. vi, ba :

mas et fem ina boves aratro terminum signa­verunt, velut pecus : quod item Acticis Athe­nis Cereris et Triptolemi fertu r minister : quod inter sidera particeps coelit quod dein­de laboriosissimus'adhuc hominis socius in agricultura, cujus tanta fu i t apud antiquos veneratio, ut tam capital esset boverh necuisse quam civem. Sebbene questo passo sia corrotto, come lo' i u d i c . n o le parole velut-pecus, non

ostante apparisce che Columella lo ha tratto da Varrooe, e che quegli fesse a nn dipresso eo i :

qui diceretur Itaìus. Qua in re testis Attice, testis Peloponnesus. Nam ab hoc pecore A tri- cis Athenis Èutyges, Cereris et Triptolemi minister nobilitatus, Argis O no gyrus. Hic socius hominum in rustico opere 5 ab hoc an- tiqu i. . . accidisset. Novi, inquit ille, etc. Non

si sa cosa sia queil* Onogyrus d f Argo, qoando

ftoo foste il sacerdote della dea Giupooe, che,

secondo la testimonianza di Servio al lib. 111,

vera. 53a dalle Georgiche di V irg iio , era solito

di portarti al tempio co? buoi aggiogati.

(9) «Che voole dire o d grosso fico, da

bue,* vox**, fico. Festo, alla voce Bulim am , ha:

Hinc est quod grandes pueros bupaedas ap­pellant, et mariscam ficum busycon,

(10) Che significa ao grande infante, da fiis, bne, e vàts, infante.*

(11) Che significò ona grande fame, da

bue, e fi me.

(12) Che vuole dire ona persona* cbe ha graa-

di occhi, da./dst bue, è £ 4 , occhio. Quest1 è*

P epiteto che Omero d i sovente alla regiaa de­gli dei.

( t 3) Che vupl dire a grosse papille, da $u( la­tinizzato che significa bue, e da mamma che l i ­

gnifica mammella. Columella, nel lib. iu , cap. ^

la chiamò alla greca bumaston.(14) Quest' era la figlia di Agenore, re di Fe­

nicia, che Giove rapì sotto la figura di ntt bue, e che trasportò io Creta.

(15) Quest' era, secondo h favola, figlio di Saturno 9 di Opi. Questo dio aveva P impero

sopra il mare. Questa favola dei meutovati figli

è perduta, e non ci restano che alcuni vestigi in

Dionisio d' Alicarnasso. Vengavi V ‘argomento

della tragedia di Euripide ad Hyginifabulas 186.(16) Orsino eon tutta la cagione voleva che si

cancellasse opes, ovvero che si leggesse dulcis­simi. Molti autori parlano di qoesto feoomeoo,

ma segnatamente Virgilio nel lib. iv delta Geor­

giche.(17) Vale a dire generate dai bnoi, da bue,

e ywif, razza. Scaligero nega che le api si chia­

mino in greco {hryéfCK, ma fieyinTi, come fanno

parecchi poeti.

(18) Bugonìam. Vale a dire P opera la p iù . melata. Questo loogo di Varrooe è quasi inintel­

ligibile; ed i eomentatori* cercano di deoiferarlo, ma inutilmente, perchè ignoriamo la storia. Sa-

boureox crede di' svilupparlo eon dire che M.a Plaucio Silvano, tribuno della plebe, nelP anno

di Roma 664, portò colP assisteoza de' nobili nna legge per diminuire P impero dei cavalieri

romani. A quest’ effetto «i ordinò che ti sareb-

be creato on tribunale composto di quiudicl

giudici, tratti per quell’ anno dalle tribù ; e in

forza di qaesta legge i giudizii forono comu­nicati ai senatori ed ai plebei. Il pretore Hir- rius attaccò apparentemente qoesta legge ; eap

punto in quest* occasione, dice Sabooreux, PIau

ciò parlò nella guisa accennata net testo, dicen­

dogli cioè di produrre il sao seritto. Tarnebo, coll* introdurre molte correzioni nel testo, Spie­

ga qoesto passo altrimenti. Egli dice che Var-

Page 277: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

y i 5 ANNOTAZIONI AL LIB. U DE RE RUSTICA 916

rone desiderava che Hirrius fosse ascritto nel numero dei senatori ( leggendo : In senatu seri-

ptum averes, invece di in senatum scriptum habere), è che Plaiicio avendo saputo .eh’ egli era pretore, ne recò la nuova a Varrone,.e gli disse: Tranquillizzatevi^ io vi reco una buona

nuova, e vi farò tanto piacere, quanto se vi des­

si un' opera sopra le api ; il che era una specie

di proverbio per dinotare le cose più piacevo­

li. Scaligero, paragonando questa spiegazione

col testo, ne d i quel giudizio che Socrate pro­

nunziò intorno a Dio, quaodo disse : u Io non

so ciò che sia, ma so bene ciò che non è. n F i­

nalmente. Pontedera, dietrb a quattro codici, leg­

ge . . . .Roma/ium in senatum scriptum habe­mus; u nempe cum habemus renunciatnm Hjr-

riurn praetorem, occultare (vel quid item) scri­

ptam in senatum Romanum. « •

(19) Taura. Festo dice, in sentenza di Ver­rio, che si chiamava taura quella vacca che non

partoriva che to r i} ma è più verisimile qnanlo

*ggiung ei c»°è che questa voce deriva da Taùfa che in greco lignifica vacca. Servio .nei suoi co-

menti al lib. 11 dell' Eneide, dice : Quae steri-

}is- autem est taurea appellatur, unde ludi Taurei dicti. Una sciocca etimologia partorì la voce taurea in luogo di taura.

(20) Ho r di calia. 11 nostro antore, nel lib. v

de Lingua Latina , ha : Fordicidia a fordis • bubus. Bos forda quae fe r t in ventre. Gli an­

tichi cangiavano facilmente 1* h in f ; e perciò

niuno si maravigli se 'qu esta parola la trova

scritta diversamente. Veggasi tra gli altri Fogr

gini ad Fastos Verrii Flacci pag. 72. Questa

fesla sì celebrava il dì 17 prima delle Calende di Alaggio. Si estraeva dal!' utero delU Vacca-il vitel­lo, il quale si abbruciava; e dallo ceneri di que­sto ai formava un suffumigio, mr di ante cui si purgava il popolo e la ci li à nel giorno delle

Palilta , che cade ai 21 «1 i Aprile, secondo i

Fasti Verriani pag. 56 . Incombeva alla prima­

ria delle Vestali T abbruciare questo \itello. Nel

giorno delle Palilia non era lecito immolare

aldina bestia che avesse anima. Veggasi 1' an­notatione di Foggini alla pag. 56 . Ursino tro­

vò in un vecchio codice nominatur : difalli nn

solo giorno si destinava alle Hordicalia.(21) Intorno alla forma delle corna non dice

niente Varrone , veggasi però Columella e Pal­ladio.

(22) Subsimisve. Ursino, dietro i Georgici

greci, corregge subsimae, ne gibberae, sed spi-

na. Columella ha : naribus resimis patulisque, dorso recto planoque, et subsidente : lo stesso ha pure Palladio. La congettura di Urtino è

confermala totalmente dai co lic i e dalle prime

edizioni. Non vi sari alcuno, il qoate voglia

leggere malis subsimis, perchè la voce sim us negli animali dinota quella linea tirala dalla

.fronte sino alla bocca, e che divide le narici. E

dunque del tutto assurda la correzione di G esn e-

ro, il quale volle* leggere subsimis, ne gibbe­ris, pinna levitar remissa apertis naribus. Egli interpretò la pinna delle narici p e l tra­mezzo delle stesse. 11 nostro volgarizzamento

si è fatto dietro Columella, Palladio ed i Geor­

gici greci, i quali per spina intendono il d o n o .

(a3) Qui s* intende quella pe lle m o lle cbe

consta di sola cute.

(2<{) È da tradursi pectore ampio, perchè così ha Columella, Palladio, F lorenlin io , ed an­

che lo stesso Varirone nel lib. 1, cap. 2 2 , diceo*

do, parlando d e 'b u o i, lato pectore.(a5) Columella h a / cruribus compactis ac

rectis, genibus eminulis ; U> stesso hanno pa­

rimente i Georgiti greci; dunque rectis deve

appartenere a cruribus, non g i i a gentbus.(26) Si fa strèpito coi piedi, qaando I’ ani­

male li ha piegali all’ esterno, com e prova eoo

molti esempii Pontedera : dunque uel nostro

caso debbono essere piuttosto volti all' interno.

(27) Prior quam . Parimeli le Columella nel

cap. vi, cap. ì, dietro Magone, preferisce i buoi di colore fosco : lo stesso dice anche Palladio al mese di Marzo. Questi di colore fosco, sono ap­punto quelli che Varrone chiama helvi. Festo

he : helvacea genus.ornamenti ( ma forse è da

dirsi condimenti) Ljrdii dictum a colore boum qui est inter rufum et album appellaturque helvus : lo stesso diee : Heh'ela h olerà minu­ta : e poco dopo ; Helus et Heìusa antiqui di­cebant, quod nunc holus et'holera. È uoa certa

specie d' erba quella che si nomina helva, heU véla ed helvella, come si ha da Cicerone ad Di- vers. vii, 26, fungos helvellas, herbas omnts ita condiunt, ut nihil possit esse suavius. Co­

lumella nel lib. 111, cap. 2 nomina le viti helvolae,

delle dagli altri variae, cioè nè rosse, o nere. Nelle seguenli parole havvi una contraddizione

manifesta ìu Varrone. Pontedera.voleva che si leggesse utrique ad laborem pluris, perchè ia

Plinto si ha : nigri coloris candidive ad labo­rem damnantur. Gesnero dice che le parola

nigri et albi significano varii seu maculosi. Ma

così non si scioglie il nodo, perchè Columella e

gli altri scrittori geoponici preferiscono agli altri i rossi, èd i rossi-pallidi, ed i Greci danno la pre­

ferenza ai rossi, dietro all' autoriti di Varrooe ;

dunque questi lessero utique pluris; etc., cioè,

certamente il rosso è da lodarsi più del negro e del bianco. Ma v* è un' altra difficolti : e perchè

mai Varrone vuole che si legga colore polissi-

Page 278: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

Di M. TERENZIO VARRONE

mum nigro T Ursi do crede?* l i toglier)» con d i­

re : colore potissimum robcoydein ni grò, tertio helvo, Ma questa correzione è totalmente con­

traria s i sentiménto di Varrone. Bisogna donqoe

stabilire che Yarrone a noo vera pritaa generai-

mente i colori che si haono in vista nella com ­pera, e cbe li distriboisce con ordine, cosicché

dal negro discende ai più lucidi : ciò fallo, li ca­ratterizza tulli quattro, e pronunzia il suo giu­

dizio intorno alle loro rispettive qualità. Dun­

que la. voce potissimum non sigoifica che Var- roue approvi sopra tulli il colore nero, ma che

particolarmente si considerano nei buoi quattro

specie di colori. Per*fare poi che il nostro Te»

renzio non contraddica a sé stesso, e per fare

che nella distribozione delle parole vi sia orili­

ne, leggasi: quarto albo. De mediis duobus prior quam posterior melior ; utique pluris quam nigri et albi ; mollissimus enim hic, ut durissimus primus. Dick>on n , pag. 479* h*

corso un* altra strada; eil è di opinione che le

prime parole cofore potissimum nigro, etc. si riferiscano al giudizio cbe si Irae dal colore in ­torno alla mollezza, o all1 asprezza della cute;

le altre poi al comone giudizio, nel quale non

si ha alcuna vista di asprezza, o di mollezza di cute.

(28) ‘Ursino e Schneidero, coerentemente, al cap. 4 di questo libro, ove loggesi : boni seminis sues animadvertuntur a facie et progenie et regione coeli, vogliono che qui si legga : neque non ut mares boni seminis sint% et qui his orti sunt% eorum form a est spectanda, si re­spondent ad parentum speciem, Ursino poco

Uopo condaona irragionevojmente refert.(29) Siccome sa Scaligero <;he i buoi della

Marca d' Ancona e quelli che nascono verso il fiume Po sono buoni, così congettura che Var­rone parli di questi. La Liguria abbooda di p ic­

cioli buoi, iu seutenza di Yarrone, lib. in , cap. 8,

e di Columellà, lib. 111, cap. 8 .1 buoi dell’ Epiro

sono molto lodali d» Arislotele e da Plinio.

(30) Victimas farciunt. Non si sa compren­dere come tanti nomini dotti abbiano lasciato

correre farciun t in luogo di faciun t lezione

delle prime edizioni, e vocabolo .usato comune**

mente per sacrificare. La. Cerda al lib. n , veri.

*46, fa menzione dei buoi nati presso i fiume

Clituqno, e cbe si preferivano oe’ sacrifizii, per* che erano bianchi.

131) Ove il fiomtf Mela si scarica oel mare

dell' Arcipelago. Secondo U testimonianza di E-

liano uella Storia degli animali xu , 36, in Negro-

ponle nascono pelr lo più buoi bianchi.

(3a) Veggansi sopra questo Mamilio le anno- taiioui ai cap. 3 di questo libro.

(33) E cóme ciò, quando consta che non si

potevano immolare che vittime, le quali avessero Iuli' i requisiti e che fossero tenia difetti ? Ecco la risposta che j i può dare : altra cosa è che nn

animale abbip tult’ i requisiti e che'sia senza di­felli ; ed altra cosa è che sia sano. La prima qua*

lità, e la sola che si ricerca nelle vittime, salta

tubilo agli occhi, ma non così la seconda ; poi­

ché la sanità può dipendere da un vizio interno

e nascosto. Non ti ttrebbe dunque potuto, a ca­gione di esempio, immolare un bue cieco di un

occhio, o zoppo, ma ti tarebbe potuto sacrifi­

carne uno che avesse la febbre : iu lat modo era

inutile stipulare che era sano.

(34) Se Aldo avesse esaminata P edizione di Beroaldo, avrebbe letto cum hibernat. Qui si­

gnifica il crudo dell1 inverno*; e perciò non è da mettersi tra parente^.

(35) Quesl* è la Lira, la quale, secondo Plinio

lib. xvtu , cap. ad, si leva it giorno delle None di Gennaio.

(36) Una simile sciocchezza è intignala dai Georgici e Veterinarii greci, e da Columella.

(3y) Plinio, nel lib. vm ,.tez . 70, ha : Coitus a delphiui exortu a. d. pridie Nonas Janua­rias diebus triginta ' aliquibus et autumno. Come du n qu e‘conciliare Varrone e Plinio eon Columella, il qoale dice positivamente che biso-

gua far salire la vacca dal toro nel mese di G io-

gno, acciocché partorisca nella vegnente prima­vera ? Ursino crede che sia mestieri correggere

Plinio, e leggere Junias in luogo di. Januarias. Cotale correzione farebbe per verità accordare

Plinio .con Columella intorno a questo ponto,

ma si troverebbero ancora opposti in altri pno-

ti ; poiché, secondo Plinio, e posto che non si

introducesse qna nuova correzione, il delfino si

leverebbe P antivigilia- delle None di Giogno*

e la mattina; qoando che, seeoodo Columella,

lib. vi, cap. 24« si leva il delfino la sera dei quattro prima delle Idi di queslo mese. Non si può

dunque ammettere qaesta correzione ; e non ti

può stabilire oiente di certo intorno, alle osser­vazioni astronomiche degli antichi, come abbia­mo fatto vedere nel cap. »3 dei lib. 1 di Var­

rone.E dunque meglio in quest* occasione ricor­

rere soltanto a Plinio, il quale dice che ti ac­coppiano nel mete di Gennaio, ma soggiungendo

che alcuni non escludono P autunno, e che i popoli che non vivono che di latle, non hanno

alcuna regola, e che pensano tolo di aver latte

in tutto P anno.(38) È da aggiungerti taurum dopo admi­

seris , perchè il tenti mento così ricerca, e per­

chè trovati in un vecchio codice. Varrooe ha

Page 279: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

ANNOTAZIONI AL LIB, II DE RE RUSTICA

tratto questo caso dal lib. ix, cap. 5o della Sto­

ria degli animali, e dal lib.. 1, cap. 4 della G.e~

aerazione di Aristotele. Lo stesso dice acche

Columella. Ma quello fenomeno ooa debbe ria-

«ciré aorprendente, perchè * già il seme aranti

la castrazione trovava» raccolto nelle vesclchet-

te seminali del toro.(3g) M inut me. Crescenzio, ix, 65 , nomina le

ia Dia re, le mosche ed i tafani. Varrooe inten­de qai V aestrus bovillus et haemorrhoidalis di Linneo, il qaale fa le aova nelle nari e nel-

I1 ano dei “buoi. Linneo chiama i tafani pestis- armentorum.

(4o) 'Pontedera approva 'appellandum, per-

thè i bovari chiamano i buoi colla voce.

(4 0 Lactentes. Avanti questa voce è da ag­

giungerai noe te con Crescenzio.(4 a) Aristotele e Magooè discordano ia qae­

sto paato da Vairone.

(43) A ragione condannò Gesnero aliquid.(44) Gregum. Con . Popma e con Gesnero

non abbiamo tradotto gregum, perchè del nu­

mero componente il gregge si parla poco'dopo.

(45) Apud iam.<Popma legge apad Se/um ; Urtino apud Atticum , perchè di sopra disse:

habeo tauros totidem quot Atticus, ad ma- tricet septuaginta duo. Qai certameftte è daio tendersi alouno degli interlocutori che Vaccio

mostra a dito, e probabilmente questi è Attico.

Cap. VI. (i) Procreavi. Non lenza ragione

corresse Giocondo oell’Aldina procuravi perchè

oon li fece generare in Roma, ma vendè in Roma

agli Arcadi quelli che aveva Catti generare in

Rieti.(a) Flutae.’Màcrobìo Saturnal. il, ia , ci dice

che si chiamavano flutae, e che ooi traduciamo

galleggianti, perchè a forza di nuotare sulla su­perfìcie dell* acqua, il io le le diseccava io modo,

che non poteyaoo piè curvarsi per immergersi

nell* acqua: ridotte a tal p u n to , era facile di

prenderle anche colle mani. Qnesta mdrena si chiama da Linneo Muraena Helena.

Culumella, nel* lib. vm , cap. i6 , -diee che il

pesce ellops regna nel mare di Panfilia.* Veggasi

anche Macrobio h i , i 5. Questo pejce ci è ignoto

oggidì.(3) Crescenzio aggiunge aestivum dopo sol­

stitium : queito stèsso ha dipoi ; ut in eodem • tempore alternis annis pariant: avanti Vittorio

leggevasi pare alternis annis. Colamella attesta

che le cavalle nobili non si facevano montare dai

cavalli e dagli asini che ogni altro anno.

(4) Nationem. Festo ci è stato di scorta nella

traduzione di queslo vocabolo ; nationem item

apud antiquos naium.... in pecoribus quoque, bonus proventus foeturae natio dicitur.

(5) in pastu. £ da dirsi in partu, perchè poco dopo viene secundum partum . Di .topra aveva già detto che gli asini si nodriscooo mollo bene di farro e di crusca di orzo.

(6) Nisi ii. Crescenzio ba: in usp; nam ali­qui eos non eligant nisi ad hòc ut onera por- ten^ olii ut molas ducant, nonnulli eos ad ve- hendum disponunt, et plerique ad arandum* ubi levii est terra. Da questo pltso parallelo si raccoglie manifestamente qaanto sia alterato il testo di Varrone. Si fanno dunque dai ma rea dati li delle troppe di asini, dei quali si servono per portare le merci al mare : per gli altri usi poi si adoperano o soli, od apparati. Si aggiusti dunque il lesto boti: non sane fiunt, ideo quod pleri­que .... Campania. Aliqui eos non eligunt nisi ad hoc, ut onera portent. Greges itaque fiunt

fe re mercatorum , etc.(7) Ursiuo ridicolosamente fa che gli asini

diventino mercatanti, perchè toglie asellis dos~ suariis, e cangi) 'comportant in onera portoni.

Cap. VII. (i) Ursino, secondo P autorità .di un antico codice, voleva che si leggesse : Q. Modius Aequicolus.... etiam in re militari, e paragona Plinio nel lib. viti, cap. 4* : Scythas per bella fem inis u ti malie, quod urinam cursu non im ­pedito reddant. Egli è certo che non ti vede a chi riferire le parole pa trt militari.

(a) Ursino voleva che si leggesse: spectare aetatem, ne sint minotes triunu, majores de­cem annorum. Oresaenzio ha ix, 1 : habere vo­luerit .... aetatem, videat .... trium annorumt majores decem a/i/ioram.Danqae questi confer­ma la correzione di Ursino ; e perciò converreb­be togliere praecipiunt videndum. Schoeidero toglie il punto avanti videndum; e Pontedera coi codici e colle prime edizioni legge: Videmus ne sine....

(3) Con Cresceuzio è da dirsi quae ungulas..~ cornutorum. Pontedera colla voce cornutorum voleva intendere quegli aoiraali cbe haono le uughie divise; altrimenti Varrone avrebbe omes­se le pecore, i cani, i porci e gli altri animali, la cui età si conosce egualmente dai denti : e ciò sarebbe vero, dice Pontedera, te la voce cornu- tunk si prendesse qui per corniferum. Ma sap­piali che Varrone inteude ‘parlare soltanto degli animali domestici ; e Pontedera non doveva igno­rare cbe col nome dì animali cornati s1 intendono auche le pecore. Si sa che gli antichi credevano che i porci non cangiassero alcun dente : questi uon sono compresi da Varrooe.

Page 280: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

(4) Caninos* Nel lo d i le U o r e a x i io o e Cese­

llate h e w i cavos, ed ia altri canos, cioè cavos. L*autorità di Crescenzio, di P liaio e di Apsirto,

m e p ià di tatto il fatto, vogliono cbe qui si legga cavos.

(5) Crescenzio interpreta la voce brocchi per

plica ti ; e nel lib. 11, cap. 9, per torti : ma s' in­

ten don o que’ denti* cbe diventano prominenti oltre le gingive, perché qaeste si tono ri lirate.

Colam ella, nel lib. n , eap. 29, li chiama promi- nentes, e coti anche Palladio ìv, i 3 . Apiirto alla

pag. 227 , dice'thè non solo s’ incavano le occhia­

ie, ina ch e diventano incaviti anche gli tiessi oc­

chi. S i potrebbono addurre altre autorità per

provare qaanto nella interpretazione abbia errato

Crescenzio. P lin io .ed Apsirto contengono eoo

V arrooe che questi segni appariscono sai tedici

anni; e per contrario Colamella dice ohe apparì*

scoao so l decimo anno: il fatto però sta eon Var­

rone. Quattro codici Fiorentini e I' Ambrosiano

m ettono hoc id luogo di hit ; il che non è da

om ettersi, perchè hoc è lo ttetto dell’ anoo u l t i ­

m o. Siamo con Pontedera nel leggere tum io

la o g o d i equum, perchè i codiei haono equorum^ o ii i» , secondo P ortografia eolica, ecom, parola

cbe nelle lettere non ti diteotla molto da tum .(6) Bisogna correggere assolutamente il tetto

con Crescenzio, il quale nel lib. ix , cap. a, ha :

fo rm am esse oportet, ut ait Varroy magnitu­dine media, quia nec vastas nec exiles decet esse equas, clunibus ac ventribus latis. Qui

non ti parla nè dello stallone, nè dei cavalli io

generale, ma.soltanto delle cavalle : lo stessp ha

pure Apiirto xvi, 1. Pontedera lette in quattro

codici vales in luogo di pastosità in an1 antica

edizione «li Cretceniio ti ha valos : sarebbe per­

ciò ten tato a leggere coti : A an aomo alto, gracile

e che n o n è proporzionato nelle tue parti ti dice

ch'egli è un palo. Non è da iprtzxarti quest'o ­

pinione.(7) Membris, confusis. Abbiamo abbracciata

la correzione di Urtino membra confusa: oel capo non vi sono membra, ma parti. Apsirto nel

laogo citato, parlando degli stalloni, ba lo stesso.

Schneidero amerebbe cbe queste parole si met­

tessero dopo congruenti.(8) Ursino aggiunge cervice molli dopo ap-

plicatis, perchè Columella, nel luogo citalo, ha

cervice molli lataque non longa : lo stesso b aff i

pure ne1 Georgici gteci.(9) 11 medesimo Ursioo rigetta le parolefusca,

subtenuibus setis, e legge inclinata in luogo di

implicata, perchè oosì ti legge ne' Georgici greci.

Columella pur^ tralatcia qoetli legni. Berengero

rende la ragione perchè gli antichi faoef ano p ie­

gare la chioma alla parte deitra : solevasi, dic' e-M. T e i s m o V a x o n

9» i

gli, salire sul cavallo per la parte destra ; e iti quest' atto prendevasi -con una mano la chioma.

(10) Humeris latis. Coi Georgici greci è da dirsi humeris rectis, scapulis latis. Columella abbraccia 1' uno e P altro membro con dire gran­dibus armis et rectis. Inferiormente alle scapole si articolano gli omtri, i quali deggiono essere diritti.

(it)-Ursino ha foluto leggere molto bene lumbis deorsum versus pressis ac latis, perohè Columella ha latis lumbis et subsidentibus.

{12) Cruribus. Colnmella ha: mollibus atque altis rectisque cruribus, tereti genu parvoque neque introrsus spectanti, e le prime edizioni aequalibus, introversi* : potius figurata, geni­bus, etc! Quindi Pontedera voleva che si dioesse : aequalibus non intrbversis, potius figura alta* genibus, etc. E da seguirsi Pontedera neti' ag­giungere potius figura alta, offerofigura altis; il che espresse anche Culumella, e Varrone nei cap. 5, parlando de1 buoi cruribus potius mino­ribus, rectis, genibus eminulis, distantibus inter se. Apparisce da questo passo che sbaglia Pontedera nello attribuire la voce introversi* alle gambe, perohè appartiene al ginocchi?. Ma in que­sto laogo per ginocchio non è da intenderti il fero ginocchio avente per di topra la rotola, perchè questa nop salta tanto all' occhio nei quadrupedi, come lo è negli uomini ; tpa sibbene è da intendersi la giuntura delle ossa della gamba colPosso del metatarso, chiamato dai Francesi os de canon,’ Dunque per ginocchio è da intendersi Pindicata articolazione. E siccome vuole Varronc che i gi­nocchi ue'buoi tienp tra di loro distinti, cod hanno da essere appunto anche nei oavalli, affin­chè non si urlino reciprocamente nel camminare.- Ecco dunque il testo da noi volgarizzato: cruri­bus rectis mollibus, potius figura altis, geni­bus rotundis, nec magni?, neo introversus spe­ctantibus, etc.

(13) Deggiono essere patenti le vene, onde facilmente al caso ti taglino. Non abbiamo tra­dotti corpore multo, perchè qoetle o iono pa­role spurie, o fuori di luogo, dioe Pontedera.

(14) A terra Appuli, Ursino correggeva i/s Italia Appuli ac Roseani, perchè, parlando dei cani, dice più sotto : Itaque a regionibus appel­lantur Lacones, etc. Pontedera voleva piuttosto che si dicesse a terra Appalla Appuli,

(15) Pontedera si aooorse bene che qui è da leggersi : .De horum foetura : initium admis­sionis : coti pure disse nel cap. 9 di questo litro : de foetura : principii+m, etc.

(16) Tempore fiaK Crescenzio aggiunge : sci­licet multarum herbarum , ut mater habeat abundantiam laetis. J£x hoc enim corpus ei

85

9 aaDI M. TERENZIO V A R O N E

Page 281: Marco Terenzio Varrone - De Re Rustica

oa3 ANNOTAZIONI*AL LIB, 11 DE RE RUSTICA 9 * 4

membra pulii grandiora fient. Duodecimo, c/e. Coti hanno pare i Georgici.grcci e Colameli* nel lib. vi, cip. 27. Forte qui ?i tono delle parole di Varrooe.

((7) Qui ® chiaro ehe Varrone tappane che 1'accoppia m e pio ti faccia dopo il solstizio.

(18) Perorigam. Tanto qai, quanto altrove ti nomina queata parola, la quale n scritta come nella traduzione. Si dice origa ab oreis, tpecie di freno che ti adattava alla bocca de' cavalli, fe­condo la testimonianza di Festo.

(19) I Veterinarii greci, pag. 56, fanno nuova­mente montare le cavalle dopo vanii gioroi, e Cre- tcenzio vuole che ogni altro gioroo ti facciano . montare. Non ti taprebbe ben dire te coti avetse scritto anche Varrone. Plinio nel lib. vin, sei. 66, ha ì per intervalla admissurae dantur, nec ta ­men quindecim initus ejusdem anni valet.

.(ao) ln Eliano, lib. ix, cap. 49? •* trovano ac- oeooali altri rimedii per accendere la libidine, i quali e collo irritare le parti genitali e colla loro forza ignea mettono in ardore. Più di. lotto giova introdurre internamente questi stimoli per mezzo del cibo..

(ai) Varrone fa che le cavalle vadano sog­gette mensualmente a questo D u m o dell' utero ; il che è contro il faUo, perchè è annuo. Lo stes­to fa che succeda Bu/Tone nelle tcimmie: ma è stato combattuto da Blqmeobach nella sua Fi­siologia , pag. 421. Questo espediente, secondo i Georgici greci, è da metterti in opera dopo i menstrui.

(22) Questo caso è succeduto nel territorio di Rieti, tecondo Plinio.nel lib. vm, vap. 42. Parec­chi autori raccontano differenti esempii di que­ata specie di pudore naturale negli animali ; ma il torprendente ti è, ta loro si crede, che quetti esempii tono alcuna volta succeduti presso popoli che punto non erano scrupolo» per simili accop­piamenti.

(33) Equos. Qui assolutamente va letto equas:lo stesso ha pure Aristotele e Columella.

(a4) Qui i commentatori vorrebbero intro­durre delle novità nel testo ; ma cosi va bene.

(a5) Cum stent. Urtino voleva leggère cum stabulantur ; ma è da dirti con Cretcenzio doni­cum stant.

(26) Ursino condanna, come superflue, le paro­le e motu. Cresceozio, nel lib. ix, cap. 4i prescrive che quando il puledro ha doe anni, si debba le­gare mollemente con un Jaccio grotso, forte e fatto di lana, perchè la lana, per essere più molle, è più acconcia del lino, o del canape. Gli antichi attaccavano a questi freni anche dei sonagli. Veg­gasi Bereoger Tom. i, pag. 189 : The history o f Horsemanship.

(27) Quod quarto. Ursino vide ch'era da ag­giungersi decimo. Crescenzio ha lo stesso.

(28) Exercendum.TnlV i commentatori sono divisi : chi legge strigandum , chi extergendum atque exercendum , echi eximendum (hordeum). Scbneidero è persuasi di leggere: eo tempore exigendum, mediocriter exercendum , et cum sudarit, extergendum et perungendum oleo.

(29) Qursuram. Le prime edizioni aggiungono alii ad praedam* Crescenzio aggiunge invece ad quadrigam. Mi piacerebbe aggiungere ad rhe- dam oon Ursino: difatti si addestrano! cavalli anche a ciò.

(30) E da dirsi oon Gesnero atque alitar docet.

(31) È da aggiungersi oon alarne edizioni: neque eodem modo parantur ad ephippium. Queste sono parche necessarie. Molti commenta­tori cangiaoo ad praedam in ad rhedam. Ur­sino giudica spurie le parole quod ibi ad castra; e Gemerò le parole ad rem militarem quod.

(3a) Pontedera ci avverte eh’ è da dirsi quie­tiores, ideo quod semine carent ; ii, etc. La­sciando sussistere et vi è apparenza di ana etiaao- logia, la quale qui non ha laogo.

(33) Canterius vaol dire anche una pertica.(34) Quantunque i medici del bestiame non

trattino solamente i cavalli, ma ancora te altre bestie da soma, purp i Greci li haaoo chiamati così dalla voce inrvofj che vuole dire cavallo, e da iarfosy che vuole dire medico. I Latiui però non fecero un tanto onore al cavallo, perchè diedero a questi medici il nome di veterinarii, che si ap­plica a lotte le bestie da soma, poiché viene dalla parola veherey che sigoiftea portare, lo tono ma­raviglialo che quest’ ultimo nome sia auto adot­tato da un popolo più militare, che agricoltore, e presso il quale quasi lutt' i titoli di nobiltà sono tratti dal cavallo.

Ca p . Vili. (1) Si ricorra al capitolo 1 diqae* sto libro.

(a) Liba. Catone, nel capu 75; parla della com­positione di questo pasticcio.

(3) Rinnus. 1 Latini il chiamavano cosi dalla parola hinnitus, che esprimeva il nitrito del ca­vallo.

(4) Dietro le prime ediziooi è da leggerai partusfructu neuter. Poco Aopo ai possono tra­lasciare, setondo l ' autoriti di Ursioo, le parole ac alia omnia.

(5) Gesnero e Pontedera si accorsero che il testo è sbagliato 5 laonde il prillo il corregge, lasciando fuori ad e cibum ; ed il secondo, fa­cendo che equa diventi aequa* cioè parem ad

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*>t5 DI 11. TERENZIO VARfeONE 9s6

lactis m inisterium , Pootedera ha P appoggio aoohe di Palladio al mete di febbraio a5.

(6) Pontedeta voleva leggere colle prime edi­zioni quemque amplissimum et formosissimum quam possunt. Con Ursino e Schneidero tasta cangiare quem in quam,

(7) Plauto Àulql. 111, 5, aij.oonferma qoesto eccessivo prezxo de1 moli : ego fsxim muli, pre. tio qui superant equos, ut sient viliores Gal­licis cantheriis ; e cosi'pure Marziale, 111, 6a.

(8) E da distinguersi questo membro oosì: quo equos, adducentes, iidem ut ineant equas, per origas curamus: vale a diré sono da onirti le parale udducenìes per origas curamus

(9) Sui monti pure si mandano a quest1 effet­to ancbe i cavalli nati oel .territorio di Rosea, dei quali ai é parlato oel cap. 7 di questo libro.

(10) Qui p*r|a Murrio di Rietifrdel quale leg­gasi di sopra il cap. 6 .1 commentatori credono che volga subito il discorso a Varrone ; e cbe a questo appartengano le parole’ mihi inquit. È per altro .diira qoesta interpretazione. Alcune edizioni banfao mi Attice, nisi.

(11 ) E x equo et asino. Qaeste parole sem­brano superflue a Pontedera : difatti aveva già detto di sopra che il mulo hinnus nasce dal ca­vallo e dall’ asina.

(ia) Anche Gesnero vide cV è alterato il to­sto. Leggasi auribus ut equi, ita juba et cauda sim ilis, ovvero similior asini.

C a p . IX. ( 1) Pare a d Ursino che s ia d a leg­gersi quod ad omnes, ovvero : Relinquitur, in ­quit A tticus , de canibus, quod attinet maxime ad nos, etc.

(a) U t ejus quod. Scaligero voleva leggere ut enim quod, ed interpretava per siquidem ; ma non adduce alcun esempio cbe ciò confermi : pinllosto é da dirsi coi codici e colle prime edi­tioni curtos ett pecoris, et ejus qui'eo comite, etc., perchè dopo segue in quo genere sunt ma­xime oves, deinde caprae. Crescenzio ha: canis est custos ejus pecoris, qui eo comite indiget ad se defendendum, etc.

(3) Sues. Le paro)? del tetto : Jn suillo pe­core tamen sunt, quae se vindicent, ben di- mottrano cbe in quetta claste se ne eccettoano alcuni ; ma, lasciando correre suesy nessuoo te ne eccetloa. Oltre di che Varrooe per sues intende i porcellini, i qoali non tono capaci di far fronte al lupo. Se per sues intende Varrone le troie cbe uon hanno partorito, il tetto può correre. Si ometterebbero dunque i porci, otsia, i piocioli, i quali iu questo caso deggiooti etelodere.

(4) Getnero è stato testimonio di on boe eht colle corna si è difeto dal leone. Si raccootano

altri simili tpeltaooli, oe* qoali ti è ottervato ohe i booi ti ritiravano in on angolo per aoo ettere atta li ti di dietro.

(5) Quoniam genera. Abramo Gronovio in­dicò che Marklando nelle lettere critiche, pag. i 3, corrette quorum genera. Abbiamo adotta­ta qneita oorreziooe. Pontedera dalle variaoti del codice Polizianeo oon gel tara va che dopo fotte da leggersi : pertinent ad feras (cioèy*- rai,ferae) vestibula silvestribfUs òssi lustreis. Di fatti, siccome il cane domestico appartiene al vestibolo della casa, così quello da caccia ap­partiene ai vestìboli delle* fiere. Nooio dice che si tono chiamate assae quelle notrici ohe stanno tempre coi lattanti, e che da essi noo ti dipar­tono giammai ; perciò ti possono chiamare assi que’ cani che continnamente vanno io cerca dei vestiboli e dei covili delle fiere.

(6) Urtino voleva ohe ti leggette a te dispo- sitam. Crescenzio dice ad formam hujus artis. Dpnque ti dice ad form am artis dispositam. Qui è d’ avvertirti che paria ancora Attico.

(7) Dicati piuttosto magnitudine ampli.(8) Ravis. Festo ioterpreta per il colore ra­

vus quello che è tra il giallo e 1' asterrò ; e av­verte che le spiche gialle delle biade ti chiamaoo ravae.

(9) Noo ti sa comprendere qoali sieno le lab­bra resima. Aristotele dice che i grandi e roba-

' sii cani haono le labbra sottili, e che negli an­goli sono talmente rilattate, che la parte del lab­bro superiore vicina all1 angolo della booca, ai ripiega in té all* angolo inferiore.

(10) Bisogna distinguere tanto negli nomini, quanto negli animali la collottola dal oollo, per­chè la prima è la parte superiore del collo attao- cata alla tetta.

(11) Magnis et altis. La voce altis debbe appartenere alle gambe, e noo ai piedi ; perchè ti chiama piede toltaoto la tuperficieche poggia tolla terra, e questa so per fi eie faon può essere alta. (là) Crescenzio dice il oootrario, perchè ha

et ungulis duris neque curvis: e Plinio nel lib. zi, tef. 101, ha : ungues recti canibus,prae­ter eum, qui a crure pleris que dependet.

(13) A feminibus summis. Qui ti è tradot­to a cato. Per fem ina a1 intende specialmente la faccia interna dei femori, otsia la parte pià molle della tommità della coscia ì* come poi p6t quette cocce potta dirsi corpus suprtssum^ ooo so capirlo. Nettooo autore antico, o moderno parla di ciò.

(14) Il tetto è oertamente alterato. Cretceo- (ùo ha colore potissimum leonino, e Colomel- la, nel lib. vii, cap. ia : pastor album probat...

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ne, si non sit albo coloro conspicuus, pro lu­po canem feria t : laonde Ursioo cosi corregge : quo in tenebris eos a lupis pastor discernat, radiantibus oculis etiam in tenebris specie leonina. Conrado Gesnero nella Storia de’ qua­drupedi, pag. 266, volerà che si aggiungesse a ' lupo et aliisferis facilita dignoscantur.Schutì- dero è.persuaso che 1« parole specie leonina appartengano piuttosto al petto grande e pelo­so, quale appunto- ha da essere quello del cane da villa, secondo Columella.

(15) La parola aequalibus è relativa al nu­mero dei uapezzoli, fecondo noi ; poiché si sa ohe varia questo numero nei cani e ne’ porci, cosicché in qualche lato sovente ne manca uno.

(16) Cicerone ad Atticum, xii, 44i nomina on Ponziano amico di Attico.

(17) 1 commentatori fanno lunghissimo di­spute su questo passq. Scaligero è persuaso che vada scritto : Pastores u t deduxent, in me lam ­p i nos saltus se traclepere ; cioè, com’ egli spie­ga, postquam deduxissent, se clam subduce­rent. Egli crede che questi monti mentampini ai sieno perduti nella memoria degli uomini. Ursino cangia solo la lezione antica deduxerunt in deducerent. Popma è con Scaligero. Ponte­dera finalmente legge ut dedurent, cioè che i pastori seguano il gregge, in metapontinos sal­tus et tracleperent ; a pensa che il mercato di Eraclea si nomini in un altro luogo, ove si trat­ta non del gregge da vendersi, ma venduto. Ma per varie ragioni si può avere condotto colà il gregge. Gianfrancesco Gronovio congettura che fosse da leggersi ad Heracleae forum . Nella traduzione .non ci siamo dipartili dal teito cor­rente.

(18) Scaligero pensa che sieno una glossa le parole qui ad locum deduxerant.

(■9) Quest’ abitudine dei cani di ritornare ai loro snlichi padroni, mi richiama alla.me­moria un tratto piccante di Diogene contro Pia- tone. Questi parlando di qualche materia gra­va in presenza di Diogene, che non lo ascolta- tava punto, fuurtato talmente da questa disat­tenzione che non potè far di meno gli dirgli : Ascolta le mie parole, o cane : a cui rispose Dio­gene senza turbarsi : lo per altro non sono ri­tornato nel paese, ove sono stato venduto, co­me fanno ordinariamente i cani. Con tali oscure parole volle egli censurare acremente Platone, il quale, ritornando in Sicilia, ai rimise sotto la potestà di Dionisiò il tiranno, di cui aveva già sovente sperimentato I’ animo caltivo e sen­za fede, come si vede io Cicerooe pro Rabi­rio. In tal modo il filosofo cinico fece che Ta. burla cadesse sopra Pjatone,«poiché ognuno dis­

9*7approvava I’ inconseguenza della condotta di Platone $ anzi pubblicamente si diceva éhe nero era punto da maravigliarsi che Dionisio fesse in Corinto, ma sibbene che Piatone si trovasse io* Siracusa.

(ao) Scaligero dal eodid e dalle prime edizioni traeva*Il seguente testo : praesidio: sed quod, quarum ; oioè sed interest, quod semeti sit, et quarum canum. Pontedera, da noi seguito, la aggiusta più facilmente, facendo: Sed , quod quartum de emptione, fit alterius

(21) 1 Giurisperiti romani chiamavano un'a-

zione utile quella che non era espressamente no­minata dalla legge, ma che l’ utilità, o lo spirito della legge rendevano necessaria nei casi simili a quelli eh’ essa aveva .preveduti.

(aa) E culina. Ursino trovò in Teee ia nn vecchio codice ju r e ; e perciò saviamente corres­se, facendo pascitur enim ju re et ossibus, non herba et frondibus.

(23) Per quatto si vede, qaesto proverbio era così noto ai* tempi d i ’Varrone, eh* egli credette inutile di riferirlo. 1 commentatori noo sanno in­dicarcelo, nemmeno spiegare le parole prover­bium ut t oli aut. Certamente che non si poò dire così, se non o* cangiando lo stesso proverbio, ov­vero sopprimendolo. Popms ci fa riflettere, se qoi abbia luogo il proverbio quot servi, tot Jkostes cangialo in quot canes, tot hostes.

(24) Ovidio nel lib. in delle Metamorfosi dice che questo celebre cacciatore fu cangiato in cer­vo, e divorato dai snoi proprii cani per avere ve­duto Diana che si lavava. Altri autori vogliono che cotale disgrazia gli sia succeduta, perchè ebbe de’ desiderii impudichi verso questa dea nell’ atta che egli cacciava d’ intorno al suo tempio, ovvero perchè egli si vantasse superiore ad essa nell’ arte della caccia. Checché ne sia, il senso allegorica che dà Varrone a questa favola, non si avvicina a quello che si legge in Fulgenzio. Atteone nella sua gioventù era appassionatissimo per la caccia; ma nell’ età matura, riflstteudo ai pericoli di questa passione, fu cangiato in cervo, vale a dira che diventò timidissimo, e che abbandonò qoeslo piacere, senza peraltro che veoisie meno il suo attaccamento pe’ cani, ch’ egli mantenne sino a che fu divoralo dai medesimi, cioè sino a cbe consumò il suo patrimonio nel nodrirli.

(a5) Quae cum . Dicasi con Ursino quae tunc, cioè nel principiò di primavera. Aristotele, Pol­luce e Teofrasto osservano che soltanto i casi cangiano il tempo dei loro amori.

(26) Acus\ Schneidero leggerebbe acubus, ovvero un altro vocabolo derivato dalla fava.

*(27) E come accordare dò coìr esperienza, la quale c’ insegna oh’ essi aprono comunemente g l

936ANNOTAZIONI AL LIB, I I 'DB RH RUSTICA

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9 * 9 DI M. T E R W Z 10 VàRRONE o3o

occhi nell* ottave gton o ? Oangieremo noi venti in otto, ooipe hanno fatto alcuni commentatori ? Ma questa correzione è contraria a toti’ i codici ed a tutte le edizioni. Non farebbe forse meglio spiegate il nostro astore con Plinio,- il quale nel lib. T ir i , sez. 62, dice che qoanto più ti nodriscono i piccioli cani, tanto più tardi aprono gli occhi f Aggiunge però che non li aprono giammai nè più tardi del ventesimoprimo giorno, nè prima del settimo. Aristotele, nella Storia degli animali, ti, ao, dice che qaesto namero di giorni dipende dalla stagione, in coi le cagne s 'ingravidano.

(28) Pontedera vuole che si legga amaris in luogo di graecis.

(29) Maelium . Scaligero preferisce melinum dalla voce greca fjmXurìJ, pelle di pecora : con tale voce poi si è chiamata in progresso ogni specie di pelle ; e quindi da Pianto si chiama melina una bisaccia di pelle. Egli pensa però'che così si chia­mi anche il collare, detto anche milium^ e di cui Festo dice : Millus collare canum venaticorum, fac tum ex corio, confixumque eia vii ferreis eminentibus adversus impetum luporum. Sci- ’ pio Aemilianus ad populum: Urbis, inquit, reique publicae praesidio erit is quasi millus cani. È chiaro dunque eh’ è da dirsi milium. Forse i Brescisoi haobo cootervala nella loro lingua questa voee, dicendo mei a codesto collare. Ursino, poco dopo, corregge quibus intra insui­tu r , e omette capita : per contrario Gesnero di* lende il testo òorrente, ed interpreta le parole intra capita clavulorum per propius collum canis. Ma Gesnero ha tarlo; ed è da leggersi oon Ursino quibus intra insuitur, ovvero,cui infra capita.

(30) Calles. Nella tradazione di questa voce abbiamo seguito Giattino, xliv , 4 : Postmodum hunc domum relatum in callem angustum, per quem armenta commeare consueverant, proji« ci jussit.

(3 1) Villatico. Crescenzio ha : nam in villa* tico grege sufficiunt unus, scilicet masculus, aUer femina, eo quod simul sunt assiduiores et idem cum altero fit acrior, etsi alter aeger est, ne sine cane grex sit, quos consuefaciant nocte vigilare et in die clausos dormire. Non si sa se Crescenzio abbia lette qoeste olliine pa­róle in qaesto laogo di Varrone,-ovvero ie le abbia tratte dal lib. 1, cap. 21, ove leggesi: Canes po­tius cum dignitate et acres paucos habendum quam multos, quos consuefacias potius noctu vigilare et inter diu clausos dormire. Lo stesso insegna anche Catone nel cap. 124*

(3*) Indesinenter. Vittorio dal leggere in an antico codice etsi alter videm fiter aeger est9 ooagettarsva che fossa da leggerei idenùfam .

ovvero sia ohe tanto questa vooe, qaauto qaelle che si metloft# in luogo di q«este,.siéno super­flue, come quelle ohe sono nate dalla ripetWene e dalla varietà delle antecedenti parole altero idem f i t acrior. Scaligero pania che qui sia da leggersi et si alter itidem uter, vale a dire, cbe abbia luogo la figura tmesis, e che il senso sia itidem si alteruter. Non ti ha 11 coraggio, di adattare cotale correzione : 'piuttosto si tralasce­rebbe indesinenter, come voee omessa ynche da Crescenzio, e nata forse dalle varianti anteriori. Pontedera coagetturava che fosse da dirti : etsi alter videlicet aeger est, ovvero etsi alter qui- dem fieret aeger% ne.

(33) E t id marem'. Urtino legge id est ma- rem : correzione 000fermata da Crescenzio, il quale ha scilicet. Gemerò interpreta et id come posto in luogo di «9sque.

(34) Ursino e Popma omettono, dietro le pri- me edizioni, Atticus.

Cap. X. ( i) Crescenzio ha: ad majores pecu­des necessarii sunt aetate perfecta : ad minores parvi quandoque sufficiunt. E t qui in collibus versantur, firmiores requiruntur, quam qui in fundo quotidie ad villam redeunt. Dicasi don* que: ad minores etiam pueri sufficiunt. Utique horum.firmiores esse debent, qui 4n callibus versantur, quam eos, qui quotidie in, villam, quotidie in fundo redeant. Cosi si tolgono tolte le dubbiezze dei commentatori. Ci sono state di scorta ancora le prime edizioni e Poliziano.

(2) Crescenzio mette cos) : puellae pascant in die ; pascere greges simul communiter omnes

, oportet. Pernoctare ad suum gregem quemque oportet. Da qaesto passo e dalla lezione di alcune edizioni in M tibus greges cogere, si poò trarre il seguente testo: Qui pascunt in saltibus, gre­ges cogere, atque interdiu simul comjnuniter omnes pascere oportet. Pontedera vaol leggere qui pascunt\ eo cogere, cioè, com’ egli spiega, eo loco in saltibus, ubi totum diem pascunt.

(3) Potius quam alios. Ursino omette qoeste parole, perchè Cretcenzip ha : Major naturi ce­teris peritior esse debet magister pecoris, ei- que omnes alii parere debent. Uo’ adtiea edi* zione è priva delle prole magister pecoris. Or­sino parimente leva in questo luogo il vocabolo pecoris.

(4) La mqncipadtone era 11 n modo di acqui­stare, che esigeva parecchie aolenoità. Presso gli antichi Romani le cose mancipi eraoo le cose del piò grande valore reale, dome le lena te estese si­taste io Italia, gli schiavi, eò.

(5) Cui poiuit. Scaligero dalla lezione cui

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potius cedere, trae?a qui potis cedere, cioè io quale maniera ti possa farne la èessione. Ursino legge cui potius cedere, e Gemerò qui potuit. cedere. Pontedera, dietro tre codici, legge: aut si in jure qui cessit, potius cedere. Checche ue sia, i Romani chiamavano cessio in ju re una maniera di acquistare qualunque cosa, che ricer­cava p\à poche solenni là della mancipatione. Bastava che v' intetvepnissero ire persone, il proprietario, il compratore ed il pretore. Nella traduzione vi abbiamo fatto entrare questa so­lennità.

(C) Vale a dire dopo averli posseduti di buona fede per un anno di seguito, ed in virtù di an titolo traslativo di proprietà: questo modo si chiamava dai Romani usucapere.

(7) Presso i Romani il commercio degli schiavi non differiva*da quello che usiamo noi per gli animali. Varrone mette i pastori nella classe dei muli e dei cani, perchè a questi si metteva .ima corona sulla testa, per avvertire che erano da vendere. Ai cavalli da vendere attacchiamo noi •Ila coda della paglia.

(8) Per peculium s'intende tutto quello che acquistavano gli schiavi colla loro industria, o fatica. Questo peculio potevano amministrar­lo liberanoeute, e non erano tenuti a renderne capto.

(9) A u t si excipiet. L’ edizione de’.Giunti ha aut excipi: così pure hanno l ' Aldina e Poli» timo. D'Arnaud, Variar. Conjectur. pag. 3ao, legge .così. Avanti stipulatio è dà mettersi et coi Giunti.

(10) Gregis Nei codici si legge iu itcegisves gregis, oode Popma faceva cisve gregis, cioè presto le gregge. Pontedera legge cis vis que gre­gis, ovvero cis visve gregis. Ma, secondo Schnei­dero, non è da toccarsi il lesto, e mólto meno da togliersi con Ursino la voce gregis.

(11) Qui sunt. Le quattrp prime edizioni e Poliziano mettono quisit. Questo relativo appar­tiene al cibo, e non ai pastori; per “conseguenza noo è da introdursi cangiamento.

(ia) Facile est quod habeant. Pare che sia piuttosto da leggersi faciundum ut habeant.

(13) Ut in multis regionibus. Le prime edi­tioni ed un codice di Ùrsino omettono ut in : dunque è da iuferirsi che multis regionibus fos­sero in origine annotazioni marginali per indi­care quello che si usa ici molti paeii; a lira menti bisognerebbe omettere il c#so particolare dell’ II- lirio. Ursino legge cedunt.

(14) Tremellius, simul. Nelle prime edizioni ed in Poliziano si legge in vece semel simul ; onde Scaligero legge et matres esse melius. Si- mjil adspicit ad me. Noi abbiamo abbracciala

9 * 1

questa congettura. Pontedera vuole leggere 1 matres simul. Treméllius adspicit ad me ; ed Ursino et matres esse simul adspicit ad me. Si vedrà più-sotto, che nelle antiche edizioni è otte per simili lezioni la vooe Tremellius,

(15) Leuuncidas, Tutti i commentatori con­vengono che qui è da leggersi ejuncidas, Qaeste specie di letti forniti di zanzariere ai aono portati a Roma da Alessandria,

(16) Illyrico, Ursino voleva leggere ih Ligu­stico ; ma avanti ba parlato della Croazia, la quale è uoa-parte dell’ lilirio; perciò va bene cosi. Egli è vero altresì, che le donne della Liga­ria f«nno lo stesso.*

(17) Ursino pensava, e noo senza ragiooe, che qui fosse da leggersi quadraginta, perché si ag­giunge nonnunquam. Di fatti non è lauto avan­zata quest’ età d1 anni* venti, che si debba dire nonnunquam, * Esempi! di tele fatta non sooo rari anche oggidì.

(18) Pare che qui si sia perdala la parola dì Cossinius, come quegli che di sopra s ' incaricò di trattare quert'articolo riguardante gli schiavi. Pootedera cangia ad in ae ; ma di sopra parlò Yarrone della medieioa pel bestiame : vuole altre­sì che si cangi ut in et. Se ciò fosse, bisognerebbe tradurre altramenli questo periodo.

(19) Ursino voole, dietro un codice, ohe io vece di ut sine, si legga nequaquam,

(ao) A noi è piaciuto tradurre questo pasao oon Crescenzio, il quale ha : eo quod rationes dominicas conjicere, nec aliud qmicquam ra­tione fheere pòtest,

(ai) Scaligero dal leggere nelle antiche edi­zioni greges, e magnum in Poliziano, voleva che qui si dicesst greges ovium, sed in agnum, cioè greges non solum ovium , sed et agnorum. Ponlederà sospetta che nella voce magnum si nasconda magnorum. Ursino corregge, dietro on suo codice: Greges ovium, sed m a g n i.q u a m minores.

(au) Nec tamen. Ursino legge nec tamen ut non ; ma forse volava aerivere nec tamen ut nos.

(a3) Ursino rende intero questo pasao nel se­guente modo : singulas, et in iis, .... stabulari solent, et in iis qao aestivatum aut hiberna­tum solent abigere. L'errore sarà nato, perche due volte v' entra solént. Yarrone avverte di pas­saggio che le Cavalle debbono pascolare separata» menle dai cavalli, come prescrive anehe Colo- niella.

93»

Cap. XI. (1) Inquit. E chi mai? forse Cassi-

nio. Spesse volte si è osservato che la parola in-

ANNOTAZIONI AL LIB. 11 DE HE RUSTICA

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$33' DI M. TERENZIO VARRONE 93A

quit iodica cbe In medesima persone contino» - a parlare. Urtino dai vestigi dei codici trae il se­guente testo : Si quidem’adjecerit', inquam,.... lacte inquam et tonsura lanae, etc.

(а) Qui si ha io vista quinto si è de tip di sojjra oel cap. i di questo libro.

(3) Abbiamo seguitò Pontedera, i l quale ag­giusta il testo così : de lacte, casco, et tonsura. Si vede dùnque, che omette la voee lanae, che viene tralasciata anche in altri Inogbi, come nei cap. i e a.

(4) E st omnium . Pontedera corregge : Lacte, ait) omnium. Gì piace la lezione delle prime edi­tioni: E st anim lac. Sohneidero vorrebbe toglie­re et id .

(5) Id alibile. Queste due parole mancano nelle prime ediziooi ed in tutti i codici. Di falli qui riferisce Varrone le differenze del latte io ragioue del aodrimento ; cosicché dice che nodrf- sce più il latte tratto da ooa bestia ehe abbia man­giato deir orzo; che della paglia, o. del fieno.

( б) Qui v1 i uoa farragine di Tarlanti. Scalige­ro aggiusta il lesto così : ad perpurgandum ea quae ab viridi paspuo ; ea magis, si ex herba, quae ipsa sumta, etc. £gli penta che quest* erba aia il malmavisco. Popma poi, che quasi sempre è la scimmia di Scaligero, dalla variante ussae ex herba , traeva hibisci ex herba. Ursino e Schneidero leggono : et eo magis si usa est ea herba. Noi diamo la preferenza a Pontedera, il quale ha : A d perpurgandum ea quae a viridi pastu, eo magis fu i t si ex herbis quae intro sumptae perpurgare solent corpora nostra.

(7) Lasciando da parte le stiracchiate ragio-- ni di Gasnero in difendere il corrente testo, oon trovandosi ne' codici, e nelle prime edizio* Oi emunctum , attacchiamoci piuttosto ad Ursino, il quale aggiusta il testo coti: A mulgendo quod optimum est id, quod neque longe dbeSt, ne­que a partu continuo est mulctum . Egli ha corretto Varrooe con Aritlolele, il quale nel Hb. ni, fap. aa della Storia degli animali inse­gna che ogni latte è utile, ma che è inutile il primo, o quello che si trae subito dopo il par­to. Il primo latte si chiama colostra j I* ultimo poi è troppo denso. L’ errore nel testo non sem­bra nato da ciò ehe gli spositori hanno aggiun­to a mulso alle parole longe abest, per signi­ficare eh' è meglio il latte recente e che si trae non luogo tempo da quello che si è manto, di quello che non è tanto recente. Nelle prime edizioni in luogo di emunctum havvi enim, e nei codici enim cam. Tultadot queste lezioni non beo no qui aleno" luogo, secondo P autorità anche di Pontedera.

Paatedera car regge : ad escortas vergi-

lias aestivas;] perchè la tempo di primavera tramontano alle none di Aprile, secondo 1’ au­torità di Qesare che pare seguitato da Varrooe; e perchè stannp nascoste per’ trentaqaiattro gior­ni. Pare che Columella, nel lib. xu, cap. i3, fac­cia il formaggio per uso di casa nel mese di Luglio. Palladio vuole che si faocia nel mese di Maggio.

(9 ) Questo coagulo *è un certo acido ehe si trova del ventricolo di alcuni animali, quando non mangiano che del latte. Per raccoglierlo, si' ammazzano avanti che sia terminata la di­gestione.

{10) Acetum. Ursino sospetta che sia da dir­si cnecum ; ma Dioscoride asa 1’ aceto.

(11) Che vuol dire succo, umore.(ia) Che vuol dire lagrima.(i3f Questa era una dea' (Tei Sennonì^la qua­

le mungeva il latte pe* fanciulli appena nati, come si raccoglie da Nonio, il quale dice : Cu- ninae propter cunas, Ruminae propter rurham\ id est prisco vocabulo mammam, a quo etiam- num subrumi dicuntur agni. Pontedera si ac­corse che va scritto *Rumina, non Rumia, per­chè deriva da rumen. Plioio nel lib. xx, sez. ao dice a queslo proposto : Colitun jfìcas ar­bor in foro ipso ac Comitio Romae nata, sa­cro fulguribus ibi conditis, magisque ob me­moriam ejus, quae nutrix fu i t Romuli, et Remi conditoris appellato ; quoniam sub ea inventa est lupay infantibus praebens rumen ita vocabant mammam ; miraculo ex aere ju x ta dicato^ tamquam in Comitium sponte transisset A lto fi avio augure. Illic arescit; rursusque cura sacerdotum seritur.

(14) E t pro lactentibus. Ursino pensa che qni manchi bidentibus, e che si debba leggere et pro bidentibus lactentibus : vale a dire, egli crede che alla dea Rumioasi offe ri itero e latte e animali lattanti, e agli altri dei poi il vioo e gli animali di due denli. Abbiamo abbrac­cialo questa congettura dietro anche Npfiio, Per contrario Gesnero legge lacte prò vino pro la­ctentibus ; vale a dire: pro lactentibus pueris divae Ruminae sacrificant lacte, quod pro vino adhibent. Ma si fa che pro eseguisca va­rie figure.

(15) Rumis. Scaligero nel seguente modo corregge qnesto luogo alteralo e corrotta : mam­ma enim rumis sive rumina ; ea re, ut ante, dicebant, a rumi. Ursino poi aggiosta il testo oosì : mamma enim rumis sive rumina, ut an­te dicebant: a rami inde dicuntur subrumi agni lactàntes Pontedera lesse in cinque ce­dici e nelle prime edizioni rumus sive rumi­nate : ora egli aggiasta il lesto così: Mammaa

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M ANNOTAZIONI AL I«IB. 0 DE BE RUSTICA 936

enim rum uty sive rumis nominatae, uti an- /e dicebant: a rumi etiam inde subrumi dicuntur agni. Finalmente Schnei4ero legge mammaè enim rumis si ve rumina antfi dice* bftnt ; et inde dicuntur subrumi% etc. Coatta dunque che tatti questi dotti tralasciano a lacte qual glossa ; anzi Silbqrgio toglie?* anche, qaal glossa, a rumi. Noi abbiamo tolto e dagli ani

c da^K litri.(16 Subrumi. Come per dinotare che sono

sotto la mammella. *(17) Qui replica il discorso Cossinio, stato

interrotto da Varrone; onde per evitare le con­fusioni abbiamo aggiunto qaeslo nome. Casino. legge qui inspergi. Pontedera dall* variarle di Poliziano qua spargi meliorem, faceva quo (terrarum parte) spargi solente melior erit fossilis .

(18) Sucida. Che vuol dire .plena di omo* ri. Oggidì ti chiama parimente con tal nome.

(19) Ursino pensa che sia superflua la voce injectam . Gli antichi, come'sf raccoglie, non lavavano.le pecore: all1 incontro i Tedeschi pre­sentemente le lavano, quantunque non vada be- ne. Gli Spagnuoli d1 oggigiorno sono cogli an­

tichi ; e fapno ottimamente a tosare le pecore, senza lavare la lana. Columella nel lib. zi, cap. a vuole ohe si lavioo soltanto nel mese di A- priie le pecore di Taranto, ossia quelle che si coprono con p<lli. Si adopera a quest1 effetto

la radice della lanaria, ostia la nòstra sapona* via* La lana soccida si serbava per oso di me­dicina ; t V altra si la?a?a. Festo ha : Acquila- ifium significat ex toto dimidium ; dictum a lavatione lanae, quae dicitur aequilavio redi- re, cum dimidium decedit sordibus.

(ao) Dunque gl* Italiani tosa?aoo le pecore upa sola volta all1 anno, come dice anche Co­lumella.

(ai) Si distinguono i giorni naturali, ed i giorni civili. 1 primi sooo compresi tra due tra­montare del sole ; e si dividono in ventiquat­tro parli eguali, che si chiamano ore; ed i se­condi tono compresi tra il levare ed il tramon­tare del sole; e si dividono io dodici partir egualmente chiamate ore; ma queste ore sono piò, o meno lunghe, secondo che il sole si le­va e tramonta più presto, o piò tardi; Qui Var­rooe parla dei’ giorni civili e delle ore che li compongono.

(aa) E x sudore ejus. Saviamente avverte Geinero, che qui è da leggersi sudore ovis. Già di sopra avverti Varrone, che le pecore si to­sano qoando sudano. Home, nell1 opera intito­lala: The Gentleman Farmer, stampata ad Edimburgo oel 1776, dice alla pag. 197, ohe non

bisogni tosare le pecore appena lavate, ma che conviene aspettare che la lana abbia contratto per mezzo* del sudore' qualche poco di grasao, onde la lana acquisti un bianco pià candido.

(a3) Scaligero e Facciola ti leggono velli- mina.

(af) Perchè ambedue derivano da veliere^ che significa strappare.

(a5) Plinto nel lib. vm, cap. dioe che co tal uso sussisteva anobe al sue tempo.

(a6) Plinio nel lib. vii, cap. 59 dice a que­sto proposita; In Italiam ex Sicilia venere post Romam conditam anno ccccuiii adduce*- te P. Ticinio Menar ut auctor est V arro: an­tea intonsi fuere. Per questo Ttballo, li* 1, 34,

. chiama intonsi gli antichi Romani. Ardaino è persuasissimo cbe sia da leggersi Titinio. Ponto- dera, seguito*da Schneidero, cangia dicuntur in dicunt^ perchè viene dopo eosque àdduxisse.

(37) Cioè 398 anni avanti Gesà Cristo.(a8) Piioio .nel lib. xxxv, àez. 6 e 37 dice cbe

le pitture che si trovaoo nell1 antico tempio di Ardea, sonai le più andche di Roma ; e aosi pure le iscrizioni di qael tempio.

(39) Pontedera, dietro i codici e le anti­che edizioni, aggiusta il testo cosi, fruc tum utovis ..........sic caprae pilus administrat, etc.Riflette Pontedera che Varrooe varia H modo di dire.

(30) Le eroine libiche sono vestile di pelli di capra da Apollonio Rodio, Etodoto, ec. Eliano, xvi, 34, riferisce che i Sardi si coprivano di pelli tratte dai musmoni di specie caprina.

(31) Cioè vestiti di pelli, dalla voce. fa, cbe vool dire pelle. •

(3a) Cecilio Stazio, che da alcaui si fa origi­nario della Gallia, e da altri di Milano, era un poeta comico contemporaneo di Ennio. Ciceronelo cdnfanna per lo stile; non così Orazio.

(33) Questo poeta era di Cartagine, e fa re­so libero a Roma da Terenzio Lucaoo, il qualelo fece tanto bene educare, che meritò di di re­ni re amico dei più grandi aomini di qael secolo, e segnatamente di Lelio e di Scipione. Egli ha scrilto con tale purità, di.lingua, che si è credula che Lelio e Scipione lo avesse aiutato nella com­posizione delle sue commedie : e botale opiaiooe era in voga anche al tempo di Terenzio, oome si vede dal prologo de1 suoi Adelfi.

(34) Ursino fa cbe il testo sia Ciliciis adje- citte, e rigetta dicunt. Sisenna, appresso Nonio, ha : Puppes aceto madefactis centonibus inte• gunturs quas supra perpetua classi suspense cilicia obtenduntur. Filargirio alle Georgiche, 111, 3 i 3, dice : Cilicia, quae Celsus a it retulis­se Varronem ideo sic appellari, quod usms

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eorum in Cilicia ortus sit. L’ autorità danqne conferma la congettura di Urtino.

(35) Urtino corregge : Cum ilìe hoc, neque quis quam abnutaret, simul Vituli^ etc. Qai va tolto Costioio, perchè egli continua a parlare. Gesnero aggiusta mollo bene il tetto, facendo : M e hocy neque ab hoc qui mutaret, et simul.

(36) Bisogna adottare la correttone di Urtino :

937

Vitulum , Niger Turrani nos tergali i partim . . ad Maenatem. Qaesto tecoado libro è itato trasmetto da Vanrone a Turranio Nigro, il terto a Q. Pinoio, ed il primo a Fandania taa moglie, come ti raccoglie dalle prefazioni diqaetti libri.

(37) Qui t ' intende qael Menate, di cai parla nel 1 ed 8 cap. di qaetto libro. Popma è oon Ur­tino ; ma tempre si £a bello colle tpoglie altrui.

g 38DI M. TERENZIO VARRONE

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A N N O T A Z I O N I

Al LIBRI DE RE RUSTICADI

M. TERENZIO YARRONE

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LIBRO TERZO

C ap . I. ( i ) Queit’ è piuttosto n o ’ io traduzione, come sooo appunto quelle che si trovano nel prin­cìpio dei due altri libri ; ma non abbiamo voluto caugiare le divisioni per capitoli, introdotte già ue’ nostri autori.

(a) In tre codici trovasi n i: dunque oon è fuor di ragione il dire che forte Varronc avrà scritto Q. mi Piani. Cicerone nomina nelle sue lettere uu Q. Pinnio ed un suo figlie, che era molto studioio ed erudito. Epistolarum ad Div. j m , 61.

(3) Graecum. Urtino vuole che si dica in Graecia, perchè poco dopo viene in agro ro­mano.

(4) Questo è uno dei piò antichi re, dei quali si faccia memione nella Storia : e per questo i Greci, quando vogliono dinotare una cosa anti­chisti ma, si servono della voce myuym.

(5) 11 poeta Enuio è morto nell* anno 58i dopo la fondazione di Roma : per conseguenza questo passo ehe si trova nei suoi annali da lui scritti verso Panno 558, è molto contrario alle leggi della cronologia : e quantunque sia permesso ad un poeta il prendersi delle libertà, pure questo autcronismo è tanto considerabile, che Yarrone fa molto bene a criticarlo. Questo passo, per con­trario, conviene nel tempo in cui scriveva Varrone, essendoché egli scrisse questi libri verso l’ an- no 717 dalla fondazione di Roma, poiché egli mo­rì, secoudo Eusebio, d' 90 anni oelPanuo 736,

ed aveva già 80 anni quando scrisse questi libri, come il dice espressamente egli stesso oel cap. 1 del primo libro.

(6) Sant’Agostino, de Cfoit. Dei x i i , 8, dice che questo diluvio oon è quello che succedette al tempo di Noè, e che senza essere tanto conside­rabile, quanto qnesto, fu però pià strepitoso di quello di Deucalione, che fu posteriore. Checché ne sia, Eusebio ed Orosio fanno ehe il diluvio di Ogige sia succeduto 1040 anni avanti la fonda­zione di Roma. E poiché Varrone scrìveva questo libro verso l’ anno 717 dopo la fondazione di Roma, Tebe dnnque, secondo il nostro autore, sarebbe stata fabbricata 343 anni all’incirca avanti questo diluvio. Ma chi oserà dire qnal'che cosa di certo, trattandosi di cose tanto antiche e favolose?

(7) Agri coli. Pontedera dal leggere nelle prime edizioni ed in Poliziano agricolae, voleva che il lesto fosse il seguente : agricolae sunt coepti, qui in casisy etc.

(8) Ursino \uole cbe ai ometta divina .... hu­mana, e che si legga possent per possint.

(9) In agris. Nelle prime edizioni e nel codice di Ursino haw i in agros. Schoettgeulo voleva che sì dicesse in urbem ex agrisy vale a dire,che i Romani ogui qual volta volevano convocare i loro cittadini, o 1 loro senatori li facevano venire dalle campagne e dulie ville; ma è cuiaro eh* Varrone non parla io questo loogo di ciò. Le prime editioni dopo tuebantur aggiungono et alebantur. Pouledcra crede necessaria quest’ ag­giunta per rendere compilo il seulimenlo. Quii il

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9^3 ANNOTAZIONI AL LIB. IH DE RE RUSTICA 944

verbo tueri è auto passivamente ; di ciò non mancano esempii.

Nel principio Roma non abbondava che di nomini, i quali, perchè non possedevano niente nelle campagne, ivi si erano rifuggiti per trovarvi an asilo. Bla dopo che i Romani si sono arricchiti colle spoglie de1 vinti e colle terre che conquista­rono sugl’ inimici, accordarono a questi rifuggiti nna porxione più o meno considerabile di quelle terre, secondo l’ importanza de*servigi che avo­vano resi alla repubblica. Ed ecco una delle ra­gioni, per le quali le tribù rustiche erano più considerate a Roma delle tribù di città, come quelle che furono le prime a possedere de1 fondi ( Veggasi Plinio nel lib. xvm, cap. 3 ). Per tutto la prima nobiltà è stata quella dei proprietarii di terre ; e l’ origine del dritto feudale è più antica di quello che comunemente si crede.

(io) Questo re, che da1 mitologi è stato creato dio, era figlio del Cielo. Egli detronizzò suo pa­dre, come ancor egli fu detronizzato da suo figlio Giove. La favola racconta che mangiava tutti i suoi figli. Cicerone, nel lib. u de Natura Deorum, espone con molto ingegno il senso allegorico di tolta questa favola.

(n ) Sono misteri e sacri fi zìi di Cerere ; e sono così chiamati, perchè da essa dipende il principio della vita, ovvero perchè que’ sacri fi zìi erano il principio di una vita migliore.

(ia) Ursino voleva che si togliessero, quali parole aggiunle, oppidi quoque. Con più verilà vuole Pontedera, che colle prime edizioni si legga .indicat antiquum , perchè si riferisce a nomea e ad antiquum.

( i3) Scaligero parla molto a lungo intorno all’ origine del nome della Tebe Siriaca. Egli crede che questa voce significhi navicula, perchè ap­punto Cadmo, il fabbricatore di Tebe, venne a queslo luogo dalla Siria per mezzo di una barca. In nessun autore greco trovasi Iraocia del nome di Tebe, secondo il significato di VarrOne. Iool- tre, perchè i Sabini hanno chiamato un colle Tebe, è forse da dirsi che tutti i colli si chiamino così ? Non è per altro da dubitarsi che al linguag­gio de'Sabini, degli Etruschi e degli altri popoli

dell'antica Italia non si sieno mescolate molte voci dei Greci e dei Pelasgi che andavano a pian­tare in quei luoghi delle colonie. Veggasi la bel- P opera di Luigi Lanzi, Saggio di lingua etru- sca e di altre antiche <T Italia .

0 4 ) Qui postea. Dicasi piuttosto quae colle prime edizioni, pronome relativo a peculia.

(15) Facendo che il testo sia quello di quattro codici Fiorentini e delle prime edizioni, si ba un altro senso : inoltre quod fa clie sia nobile anco» ra, perchè chiamato pecuaria, Dicasi dunque :

nobilis, quae et pecuaria nom inatur.... homi­nes locupletes ob eam rem^ etc.

(16) Ursino corregge così: Altera^ quod huc videretur .... agriculturam , neque explicata separatim. Di falli non bene si corrisponde vi­detur e cum esset, Ci piace più la seguente cor­rezione di Schneidero : Altera villatica pastio,, quod humilis videretur .... agriculturam est9 neque explicata, etc.

(17) Schneidero applaudisce a Gesnero, perchè ha congetturato che qui sia da leggersi tu i io luogo di /ui;,cioè, oom’ egli iolerprela, ia biblioteca» la quale a que’ tempi era un ornamento delle case di campagna. Non sappiamo se Piunio sia stato let­terato.

(18) Quam fa c tu . Ursino ama di leggere quam sumtu; Gesnero, tam fruc tu quam factu. Schneidero è persuaso piuttosto di leggere quam structu.

Cap. II. (1) Cicerone, uel lib. ni delle Leggi, dice positivàmeole che la voce tribù viene dai numero delle classi, nelle quali fu prima diviso il popolo Romano, perchè in origine non ve ae fu­rono che tre. Dopo si accrebbe qoesto numero sino a trentacinque ; e ciò non ostante non per­dettero la loro antica denominatione di tribus. Tra queste trenlacioque se ne contavano quattro di urbane ; ed in queste si facevano entrare i li­berti : e trentuna di rustiche ; e queste erano composte di uomini liberi, e per conseguenza erano più onorevoli.

(2) Si chiamavano così le assemblee det po­polo Romano, che si tenevano a Roma per la ele­ttane dei magistrati e per la creatione delle leggi.

(3) Datasi in Roma questo nome a quei citta­dini che aspiravano a qualche magistratura, per­chè erano vestiti di bianco, onde fossero coolras- segnati. Plutarco crede che la ragione morale di questo vestito fosse per mostrare che gli aspi­ranti ricercavano le magistrature con candore, pel solo ed noico bene della repubblica, e che, senta confidare nel loro merito, non venivano a queste promos.'i che per la sola bontà del popolo; al quale oggetto comparivano avanti il medesi­mo spogli di ogni distinzione esterna. Si è pre­teso ancora che fossero privi di toga, e che non avessero che il sotto-abito, noa tanto affinchè si vedesse cbe non potevano nasoondere sotto la loro toga del danaro per corrompere i cittadini, quanto ancora perchè si potessero vedere le ci­catrici delle ferite che avevano riportate, e che erano i migliori titoli per acquistare gli onori ; • finalmente per mostrare la loro sommissione al popolo con questa specie di annegatone di si stessi, dinotata colla nudità.

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DI M. TERENZIO VARRONE

(4) 1 commentatori correggono il testo di Ter­

sa meo te. Ma perchè oon sappiamo a chi dare U preferenza, percorreremo succintamente le loro plausibili opiniooi, oode i leggitori scelgano quella che più loro piacerà. Bisogna prima sa- pere che quando il popolo si raduoava ne) cam­po di Marte per dare il suo yoto, una parte ti ritira?a all’ ombra di una caca pubblica, nell1 at­to che ti separavano e si contavano i voti ; ed on' altra parte si metteva all1 ombra sotto le tende cbe i candidati facevano innalzare nel cam­po di Marte e per sè stessi e pei loro partigiani.

Ciò posto, Scaligero pensa che qaesta tenda si chiami dimidiata, per essere male fabbricata, male coperta, e per lo più troppo stretta in con­fronto del uumero delle persone. Ovidio, nel lib. u de Fetio Annae Perennae, ci dice di fatti, che erano coperte di foglie, di rami d1 alberi e di abiti. Turnebo dica a uo dipresso lo stesso. Ur­sino corregge il testo, faceodo che sia : privata candidati tabella, ovvero umbella umbrifice- mus nobis? e riferisce uo passo di Festo, in cui si ha : Umbrae vocantur Neptunalibus casae frondeae pro tabernaculis. Si potrebbe aggiun­gere che Varrone dice privata per contrapporla alla villa publica. Pontedera è persuaso che Varrone scherzi intorno alla tavoletta che si con­segnava al popolo per dare il voto. Voole dun­que che questa s* innalzasse contro il sole, e così si difeodessero gli occhi con questa ombra tanto poco estesa, in quella guisa che si fa quando ca­liamo le ale del cappello. Ne viene dunque, dice «gl», che io cotale modo eglino medesimi fabbri­cavano, perchè procuravaoo I' ombra a sè stessi. Dunque egli non introduce alcuna novità nel te­sto. Gesnero si sforza di provare che tabella è un diminutivo di taverna ; del che allega moltis­simi esempli analoghi. E chiaro per altro che qui è da inteodersi o la taberna, ovvero il taberna­culum. Murena, come si sa, è stato accusato di ambito, o di broglio, perchè nel foro e nel circo, ove al popolo si davaoo de' giuochi, fece acquisto per gli amici e per le tribù delle taberne, come si raccoglie da Cicerone, il quale oel cap. 35 di ca : Quid statuetur in viros primarios, qui in circo totas tabernas tribulium causa compara­runt ? Non è dunque da maravigliarsi che anche i candidati abbiano fallo lo slesso nei comizii del campo di Marie. S'inleuda dunque anche qoi una simile taberna per gli amici e per quelli della tribù del caodidato. Si potrebbe aoche dire ted i fi- cemus, io laogo di aedificemus, o domificemus% ovvero umbrificemus. In uo frammento di Var­rone bavvi taberna publica, per villa publica.

(5) Con Ursiuo diremo esse pessimum , e con Pontedera cui consulitur.

(5) Gli aotichi il chiamavano Pavusy e non Pavo ; quindi Lucilio oella Sai. i4 , appresso No­nio io Nebulones ha :

« Publius Pavas mihi Tuditanus quaestor Hibera Iu terra fuit, lucifugus, nebulo, id genus sane. *

Ursino elogerebbe Petronius io Caetronius, perché gli storici e le antiche iscrizioni danno alla famiglia Cetronia il cognome di Passer.

(7) Ubi sedes inter aves. Queste parole sono giodicale spurie da Pontedera, perchè ove havvi uccelliera, sooovi aocbe uccelli. Per altro qui l'ue- celliera di Appio si chiama Ja pubblica casa vil­lereccia, ove sedeva in figura di augure. Questa facezia versa sui soprannomi degli assisleoli Me- rula% Pavoy Picay Passer, cbe sooo altrettanti volatili.

(8) A d lacum Felini. Uriino rigetta questa parole come spurie, e tratte dalle parole di sotto ad angulum Felini. Cicerooe, ad Atticum v, i 5, rammemora 1« casa rustica di Q. Assio scul­tore posta in Rosea, pertinenza del territorio di Rieti. Ivi fa menzione di qaesta controversia.

(9) Filla . In Poliziano e io on codice di s. Reparata leggesi vilia ; laonde facciasi che il te­sto sia inquit ( vilia quanquam . . . . nostri) fru ­galior, etc.

(10) Citrum . Marziale xiv, 89, ha :

. . . u mensa cifra,Accipe felices Atlantica munera, silvas,

Aurea qui dederit dona, mioora dabit, »

Quindi è da inferirsi che qoesto legno era più prezioso in Roma dello stesso oro, e che colà vi fu portalo la prima volta dall' Africa. Leggasi intor­no a ciò aoche Plinio, il quale, nel lib. sui, cap. 15, riflette che se gli uomini rassomigliano alle don­ne nel lasso delle pietre preziose, le doone pare somigliano agli uomini nella folle passione per le tavole di cedro.

(n ) Il colore srmeoio è annoverato da Plinio e da Vilruvio tra'colori preziosi.

(ia) Le prime edizioni e quattro codici Fio­rentini hanno contra aurum% vale a dire coi1- trarium, posto avverbialmente io luogo di con- trariey o di contrario.

(13) Queste eraoo le truppe d’ infanteria, composte di molle compagnie, come souo a uo dipresso i nostri reggimenti.

(14) Qaesli erano i primarii migistrati della repubblica. Eglino erano due ; ed il primo sce­glieva tra le coorti quelle, cui voleva comaadara nel tempo del sao ministero. Leggesi io quattro codici Fiorentini dilectum : si sarà detto antica­

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*j\n ANNOTAZIONI AL LIB. Il i Dli RE RUSTICA «jV*

mente diUgo per seligo. Abramo Gronovio dica cbe da Vigoolio si asserisce rappresentarsi in ri­lievo questa casa pubblica io una medaglia della famiglia Fonteia.

(i 5) Qaesli erano magistrati destinali al oeuso, cioè all’ enumerazione del popolo. Ogni cittadino doveva, ogni cinque anni, portarsi avauti i cen- aori, ed ivi «lare il suo nome, il numero dei suoi schiavi, e la qualità e quantità de' suoi beni. Que­sta magistratura durava cinque anni, quando tutte le altre di Roma duravano nn solo anno.

(16) Censu. TJrsino voleva cbe si leggeste ceru SUS) cioè com'egli spiega, ut censeatur. Si fa forte sopra Livio iv, aa : ViUam publicam in campo Martio aedificaverunt, ubi primum census est actus. Ma Gronovio difende la le­sione del testo de Pecun. vet. pag. a64, ed in ter* preta che si dica censu, come si dice comitiis, ludis gladiatoribus, circensibus, vale a dire, tove si facevano i comizii, i giuochi, ec. Gesnero pensa che possa essere un dativo antico posto ia luogo di ad censum, Vittorio mette quella casa pubblica nel nono qusrliere della città di Roma.

(17) Queslo pasto si è corretto in varii luoghi. Primieramente ai è posto colle prime edizioni e con quattro codici Fiorentini universae avanti Reatinae ; indi dietro quelle e questi si è tramo* tato cum et in tum enim , e si è omesso et e or­nata ; e fìualraeule si è cangialo utilis in pilis, e at mea in an mea. La voce utilis alterava il sentimento, il quale dehbe corrispondere a quanto aveva dello di sopra Appio vilia quamquam ae­dificarunt majores nostri. Lasciando at mea si toglie la relazione alle parole tua ne haec vilis. Qui è da avvertirsi che oblita significa lo stesso di ornata, diceudo Cicerone nel Bruto: ut se externis oblinirent moribus. Ecco dunque il tosto da ooi volgarizzato: extremo vilis, et non... omnium universae Reatinae, tum enim oblita tabulis pictis, nec minus signis, an mea ....

(18) Alessandro tanto era persuaso del merito di questo scultore, cbe v^lle essere ritratto in pietra da lui. Plinio, nel lib. xxxvu, cap, 7, ci as­sicura che ha scolpite i 5oo slatoe, ognuna delle quali lo avrebbe fallo passare per no eccellente scultore.

(19) Plinio, nel lib. xxxr, cap. 10, fa menzione delle opere di questo pillore egizio. Varrooe il mette a fianco del primo scultore, non perchè credesse che fosse nn pittore di prima classe, ma per criticare il falso gusto del suo tempo, che consisteva in quadri rappresentanti de’ buffoni. Antifilo dipinse eccellentemente un ritratto, io fondo del quale scrisse Gryllus ; e perciò, dopo lui, questa specie di pittura si chiamò Gryllus.

(ao) Satoris. 11 semiualore è quegli cbe meno

lavora alla campagna : laonde Pontedera voleva che si dicesse sartoris. Ma il sator qui è quegli che coltiva il terreno, ostia P agricoltore, a eo«ì ti ooutrappoue al pastore.

(ai) E t cum villa* Ursiuo avrebbe colato leggere eoi oodioi et cum illa. Lo aie*40 oc— Ite cultura ; il che noo piate a Genero : egli paro non ci dice come sia da interpretarsi qaeeU p*- rola.

(aa) Ideo è da omettersi colle prime edizioni. Anche Ortensio aveva una casa da villa faori della porta del Popolo, come si ha da Cicarooo ad Atticum v i i , 3. Si è detta Porta Baùliana, perchè forse gli Emilii avranno abitata v e r» la medesima. Era vicina al canapo di Marte.

(a3) Di sopra, nel cap. 8 del lib. 11, dioemm eh' è da leggersi quadringentis. Urtino, persua­sissimo della brevità osata da Varrone, condanna, come spurie, le parole Oeliae in littore.

(a ) Hic me L . Merula. E sfuggito a tutti i commeuUlori, fuorché a Pontedera, ehe qai va detto colle prime edizioni e cou PoIìzmi»# ki*e% perchè qui non »i parla del presente inteHoeetoce Coruelio Merula, ma sibbene di Lucio Merula lontaoo. Bine ludica in qaesto caso la ragione, per cui Appio desidera di possedere la casa di Seio. ffinc per ex hoc è stato adoperato da*Ci* cerone Offic. lib. 111, cap. 8: hinc sdcmt* h inc venena, hinc falsa testamenta nascuntur. Ur­sino e Scaligero sono persuasi di leggere acces­sisse per accepisse. Nonio per altro n, i 5, rifo* risce queslo passo di Varrone, come sta oel testo; e perciò si può difendere, eoo dire ehe abbia vo­luto esprimere a nulla se villa aceeptum, e exceptum fuiste.

(a5) E t quid igitur. Ne' codici e Delle prime edizioni manca igitur, ed invece havri gus ia alcuni, rus in nn altro, e sus in an terzo: ia questi però ed in quelle trovasi un voto di sei lettere. Se è lecito indovinare, d ee Pontedera, supplirei alla lacuna in tal modo : E t quod aedi-

f i d i genus est ista villa, si nec9 eie. Noa è da disprezzarsi la congettura di Popma ehe legge et quid genus, inquit, est ista villa. Noi abbiamo segaito il botanico di Padova.

(26) Non minus. In quattro codici leggesi nummius, cioè num minus.

(27) Ci siamo abbandonati alla correzione di Ursino, il quale aggiustò it testo così : simplex quam eam, quae esset polita et rogasset.

(a8) Pontedera si è presa ana sola licenza, qaale è quella di caogiare / in t nella voce ven­dis ; il restante gode l’ appoggio dei codici e delle prime edizioni. Ecco il testo ridotto, e da noi se­guito nel volgarizzamento : Anne dulcior f r u ­ctus apud te ex bubulo pecore, unde apes na­

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o t o DI M. TERENZIO VARRONE

scantur, quam tx apibus, qkae ad villam st iti alveariis opus faciunt T et num pluris tua villa illino natos verres lanio vendit, quam hinc apros macellario Sejus T È «1« avver­tirti che Scio lien era preteste; e perciò hic era da cangi irti in hinc, dietro quattro codici. ]l lanio di Varrone è quagli ehe condisce la carne porcina.

(29) Dioscoride 11, 102, dite che il miele di Gortrca è amaro, perohè le api «occhiano i fiori •li assenzio : per contrario il miele di Sicilia porla la palma topra tutti, oome dice piò sotto Varrone, perchè colè il timo è abbondante ed «dorotitaimo. Il aaiela di Judica è noto per la saa eeoellenti.

(30) Urtioo vorrebbe togliere dal testo le pa­role Sejanas pastiones.

<31 ) O che è da leggersi duo genera sunt pa­stionum, ovvero che è da leggerti con Urtino e dietro le prime adizioni duo genera cum sint pastionum.

(за) I* Romani hanno alternativamente man­giato oon piacere le gru, oome consta da Gellio ?u, <6, e da Plataroo oel priooipio Disputa side Esm carnium.

(33) Caettra venationis. Gli editori, dal leg­gera nelle prime ediiiooi ed io Poliziano eaete- rae venationes, dovevano sospettare che Aido ha seguito il proprio capriccio. Il codice di 1. Re* parala ha di fri ti cmeteraeve nationes, ovvero sia caeteraeve natio nisy vale a dire animali di altra specie, come tono le lepri, i oooigli, i cam « le capre.

(34) Cicerone Agr. n, 5, chiama librarius qwello ohe descrive la legge pobblica: qui Varrò- De per librarius inteode quello che tiene il regi* *tro dell' ammiuiatraaiooe rurale.

(35) Seooodo Gesù ero, qaeaU tia è Firsellia. Veggasi nel lib. ni, cap. i&

(з б ) Quinto Gecilio Metello Pio Scipione, ov* Tero P. Seipiooe Nasica ebe ebbe l1 adottaùone

Metello Pio.(37) E t hanc. Ursino oorregge così : si hanc

spectabis summam , spero tibi non decoquet ornithon ; neque hoc excidat, Aaeha Gesoero ™fettò T altra particella negativa : questi però •nuli reliquis verrebbe ehe si mettesse quin o «a1 altra simile perticali*.

($8) Quae nunc annonam. Ursino legge ir*numerabilia. È probabile che queate parole si «eoo replicate qui e tolte superiormente, ovvero

qui tradatale di sopra. Ursino poco dopo vor- ■*bbe aggiungere et, c lare sed et propter.

Quelli è ootfti ehe mrt suo esilio in Atene, m diede rattraaaeuU alle selene, oome si vede

lib. iv delle Questioni Tusculaoe di Cioerooc. ^uc^JO lo burla in una satire, di cui Cicerooe d

ha conservato un frammento, Intorno alla sua mani* per le opere greche.

(4<>) Lucilio è il primo poeta satirico che siasi acquatalo un nome in questo genere di poesia. È morto in Napoli in eli di 46 anni, ed ivi fu sepolto a spese pubbliche.

(40 E villa. Getnero, quantenqoe abbia po­sto qaeste parole tra parentesi, dietro il giudizio di Urtino, è per altro persuaso che Varrone ab­bia detto ex illa. Ursino rigetta di topra pastio­nibus.

(4*) Questi è quel Catoné d' Utica, che dopo la battaglia di Farsaglia si ritirò in Utica con Scipione, ove ti ammazzò. Cesare il rimprovera per avere oeduto soa moglie all’ amioo Orténiio, e per averla ripigliata dopo la morte di questo, perchè la inslitnì sua erede.

(43) Qaetli è figlio di quello, del quale si è

parlato nel cap. 2 del lib. x.(44) Quadraginta. Urtino corregge quadra•

gies sestertium , perchè Plinio, nel lib. iz, cap. 54, parlando di Lucullo ba : xxxx sss e piscina de­functo illo veniere pisces. Per la stessa ragione corregge Columella, nel lib. vm, cap. 16, e Ma­crobio, nel lib. ni, cap. i5, il quale dice : M. Var­ro in libris de Agricultura refert M. Catonem, qui postea Uticae periit, cum haeres testamen- to Luculli esset relictus, pisces de piscina ejus xxxx as vendidisse. Qui per altro abaglia Macrobio, perchè Lucullo non lasciò erede Cato­ne, ma soltanto tutore.

(45) Si chiamava così un regalo che gH séolari facevano al loro maestro avanti la festa di Miner­va, nel qaal tempo gli seolari avenno le vacanze.

(46) Schneidero aggiusta il testo così : miner- vai, id est coenam, incipiam inquit. A x iu s , ego vero non recuso vel hodie, et ex ista pa­stione crebro, È persuaso inoltre che la parola eoenam sia ancora faori di faoge, e che sia d« dirsi : Ego vero coenam non recuso. Ebbe ra­gione di aggiungere A xius colle editioni dei Ginoti e di Gimnico. Gi piacerebbe dire oon Pon- tederà atque ex ista pastione crebro.

(47) Va messo un puoto avanti Merula, ed nna virgola dopo gravate, perohè le parole Me­rula non gravate eoutionano col principio del seguente capitolo. Altrove Varrooe fece lo stesso : dicendo : Me non gravatus primum inquit.

Ck9. III. (iì Ubi soliti leporef, Gelilo, ir, 20, legge ubi Soli lepores.* leziooe applaudita da Ursino, da Vittorio, da Schneidero e da Pootede­rà, quando bene, accendo quest1 ultimo, non si sottintenda pasci.

(2) Afficta. Vittori# dine thè è ia significato di adfixa.

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ANNOTAZIONI AL LIB. I l i DE EE RUSTICA 95 i

(3) Harum. Saviamente avveri© Ursiuo, che è da dirti /iorum.

(4) Prima ea. 0 eoo Paliziano è da dirsi dopo habetur, ovvero con Ursino primo quae.

(5) E t propter. Schneidero amerebbe che ti dicessepracltr alvearia; perchè di topra ditte Varrone, che le api, le lumache ed i ghiri vanno posti fuori della casa, qnaodo avanti si allevavano tra le pareli della medesima. Columella, ix, prefa* zione a, dice: Apibus quoque dabatur sedes adhuc nostra memoria, vel in ipsis villae pa­rietibus excisis, vel in protectis porticibus ac pomariis. Le seguenti parole confermano prae­ter, corae lo indica Ia voce subgrundas.

(6) Le subgrundia di Vitrovio, n, 9, tono in­terpretate da Palladio, xu, i 5, per la fronte ed estremità dei felli, vale a dire, la grondaia degli Italiani. Ma Varrooe nel cap. 16 di qoetto libro intende un altro luogo : Non quod non in villae porticu quoque quidam, quo tutius essent, al­vearia collo cari ni. Donque le subgrundae tono i portici della cata campestre.

(7) Domini. Egli è cerio che i doe codici dì Politiano mettono donum ; quindi Pontedera congettura che anticamente sarà stato acritto dom­num in luogo di dominorum, come addimandano i due verbi tegnenti habeant e habebant. Da domnus nacque il dono degl'italiani usato nello Messo significato dei Latini. In Dante ed in Villani hanoovi simili esempii.

(8) Crede Schneidero che questi fotte M. Pa­pio Pisooe Ctlpurniaao. Nel cap. 13 di quetlo li­bro si agginoge il nome di Popio ; ma nel cap. 6 havvi solamente M. Pitooe.

(9) Squalos. Nelle prime edizioni leggesi sca­ros ; e presso Festo alla voce pollucere legge» squalus, pesce che non era permesso di sacrifi­care. Plinio, nel lib. ix, cap. metle questi pe- tei nella classe di quelli che invece di spine hanno delle cartilagini, con questa differenza però, che non sono pialli come gli altri pesci cartilaginosi. Quaotuoque il padre Arduino sia persuaso che questo pesce sia il cane di mare, non pare per altro che Varrone parli di questi, poiché egli qui fa parole dei pesci di acqna dolce. Ma è più facile sapere quali sieno gli squali negativamente, che positivamente.

Mugiles. Plinio, nel lib. ix, cap. i 5, dice eh* qaesli pesci tono tanto veloci, che saltando, atlra- versano i vascelli da on bordo all1 altro. Questo medesimo autore racconta, nel cap. 17, che quesli pesci, quando sono spaventati, nascondono la loro testa, credendo che in tal modo trovisi nascoslo tutto il corpo. 11 p. Ardoioo vuole che questi pesci sieno quelli che i Francesi chiamano Mu- letSy ovvero anche Cabots} ma non imponga la

franchezza del p. Arduino. Confettiamo piuttosto la nostra ignoranza relalivameote ai nomi antichi paragonati ai nostri.

(10) Rhinton era il nome dì on famoso oonioo di Terenzio. Siccome qoesti era non Canto celebre per la sua ghiottoneria, quanto per le sae buffo­nerie, così Varrooe eon tal nome avrà Toluto di­notare i comici Esopo padre e figlio, ambi due famosi in ghiottoneria e prodigalità, come ti poò vedere nel lib. x, cap. 5 i di Plioio. Potrebbe an­che darsi che Varrooe avesse volato d ino Lare ia generale un uomo di batta ettrazione.

(11) Ursino, dietro un antico codice, legge Ummidium: le inscrizioni pare corroborano qoesta correzione. Veggasi Spanemio, de gante Ummida, distert 10, ed i commentatori alla sa­tira 1,95 di Orazio, ore Ummidio è caratterizzato qual ricco ed avaro.

(12) Plioio, nel lib. xxxn, cap. a, racconta che quando questo pesce è circondato dalia ra­te, raspa colla coda la terra, onde fare un ba­co, in cni tta appiattato tino a che la rete tia passata oltre. Se accade poi che tia preto all'a­mo, dimenati fortemente col fine di allargare la ferita e di fuggire dall'amo. Sa ciò è vero, queslo petee sarebbe molto industrioso e co­raggioso.

(13) E tuo. Le prime ediiioni mettono suo ; ma è più probabile cbe Merala dirizzi quatte pa­role a Varrone ; perchè il noatro autore posse­deva tolto Cattino una caia villereccia, 00me é vede dal capitolo tegnente.

(14) Ursino corregge coti : Nostre, inquam, luxuria propagavit. Pontedera è pennato cbe Merula continui a parlare, perchè nou volge fl discorso ad Assio, che alla fine del capitolo ; per il che è da rigettarsi inquam. Due codici metto­no distaccato in quam ; cinque oodici poi e le prime edizioni hanno luxuriam, c quindi Pon­tedera legge : Sic nostra aetas in quam luxw- riam propagavit leporaria, etc.

(15) Crede si che la nostra orata ria para la orata dei Latini.

(16) Chiamava» nel foro il re degli oratori, a motivo della tua eloquenza : i tuoi scritti però erano mollo ioferiori alla stima cbe ai aveva di lui. Veggasi Cicerone nel libro intitolato Brutus.

(17) Avanti quare è da aottintendarti la per­tona di Merula.

C a p . IV. (1) Scaligero corregge così : a post­principiis, et in castris. Ursino è dell' attesto parere, te oon che vorrebbe tolto anche in ca­stris. Popma difende tcioccamente il tetta, quasi che fosse scritto : Ego te volo asse post princi­pia in c astrisy id est, ab his potius temporibus

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953 DI M. TERENZIO VARRONfc «54

quam prioribus Incipere. Per T intelligenza di qoesto pro Terbio, è da aapersi che chianuTaai princ ip ia la parte del campo, ove era la tenda del generale, quella dei tribuoi militari e dei primi affiliali, e del laogo ove si castodivaoo le aquile delle legioni e le insegne delle coorti. Si dava a questa parte il nome di principia o perchè era la testa del campo, ovvero perchè ivi stavano i primarii uffiziali.

(а) Qaesto è il oome della zia materna di Var­rone, di cui si è parlato nel cap. a.

(3) Si darà la descrizione di questa nel capi­tolo seguente. Antonio si appropriò qaesta uc- oelliera, come si può vedere nella seconda Filip­pica di Cicerone.

(4) Ivi abbondano gli alivi, i coi fratti piac­ciono mollo ai tordi.

(5) Questa uccelliera di Lucullo diede occa- sione a quell* arguto molto di Pompeo citato da Plutarco. Essendosi ammalato questo grand' uo­mo, i medici lo consigliarono di mangiare dei tor­di ; ma i suoi schiavi prevedevano che in quella stagione di estate sarebbe stato difficile di tro­varne, e che solo nell* uccelliera di Lucullo si sa­rebbero trolaii. Ciò udito da Pompeo, così disse loro : Vale a dire, se Lucullo non desse da man­giare a Pompeo, quesli oon viverebbe : ed ordi­nò che si comprassero a qualanque prezzo.

(б) l Romani chiamavano triclinium i nostri lineili dalla voce rfiff, tre, e xX/V», letto. Si sa che mangiavano sul ledo colle gambe incrocic­chiale, come fauno oggidì i Turchi.

(7) Quod alienus. Ursino correggi : offendit alienus odor, qui opplet nares.

Cap. V. (1) Ci piace dire colle prime edizioni e con Poliziano primo de ornithone : anche Ur- smo non trovò hoc in un vecchio codice. Qai Varrone descrive quell* uccelliera, dalla quale si traggono fuori gli uccelli ingrassati, noo già quella elegante uccelliera, in cui si mangiavano.

(a) Ut peristylum . E da seguirsi la lezione di un codice Polizianeo che mette aut per ut ; imperciocché I' uccelliera o ai fabbricava a cupo­la, nel qual caso non era mestieri di rete, e forse anche di tegole; or vero a peristilio, com'è qael- la di Strabone, accennata in queslo stesso capi­tolo, e questa era coperta da una rete. 11 peristi* lio è il tetrastulum di Vitruvio iti, a, vi, 3, e dei fratelli Arvali.

(3) Quidam. Ursino, dietro nn vecchio codi­ce, voleva cbe si leggesse : Quidam cum eo con­jiciunt alias quoque. Alle volte cum eo è stato adoperato per praeterea : quest1 ultima voce è certamente una glossa. Forse, dietro Crescenzio

>1. Tubbnzio Vahbokb

lib. ix, cap. 93,' è da leggersi : Qui eolunt eo adiicimnt. *

(4) Miliariae. V#rrone nel lib. iv, pag. ai de Lingua Latina , spiega cosa sieoo qaesli uc­celli detti miliariae : Ficedulae et miliariae dictae a cibo : quod alterae fico, alterae milio fiant pingues. Qai, come si vede, pattasi degli ortolani, e non in generale degli uccelli cbe man­giano il miglio.

(5) A ragione Crescenzio omette potius. Egli scrive canales angustos, e non angustas, come in Varrone. Ma questi e Catone hanno osato al­cune volte il genere femminino.

(6) Quae abundat. Queste parole si eredono spurie da Ursino, perchè Frontino 11, articolo 94 dell1 edizione di Poleni ba : A quam quae ex lacu abundat, nos caducam poca mus. Crede inoltre che sieno superflue le parole perfistulam :lo slesso avverti aoche Scotio Observ. m, 8, ri­guardo alle prime parole. Forse, dietro Cre­scenzio, è da leggerti : et ex potu quae abun­dat, avendo egli et quae superat ad potum avium. E incontrastabile però che è da dirsi con Gesntro caducam, perchè regge il verbo oportet.

(7) Queste porte, chiamate cochleae, erano, secondo Gesnero, rotonde ed aperte diametral­mente, come sono appunto quelle che volgar mente si chiamano ruote nei conventi delle mo­nache, se non che queste sono aperte in un solo lato. Quaodo i\ facevano girare, davano il pas­saggio all’ animale, e per contrario con un altro giro si vietava ad esso I1 uscita. Qaesta la) porla è mollo a proposito per arrestare la velocità de­gli uccelli, o per domare V impeto delle bestie feroci che si scioglievano sul teatro. Che se una tale macchina si crede troppo artefatta, il che non crede Gesnero, si potrebbe anche supporre che codeste porte fossero fatte in guisa, cbe si apris­sero più, o meno per mezzo di una vitq; e che quindi si fossero chiamate cochleae, perchè co­chlea vuol dire anche vite. Schneidero è per­suaso che si debba intendere qui la catarracta dei Latini, la quale, per mezzo di funi, o di ca­tene, poteva in un momento essere innalzata e calata. Lipsio Amphitheatro, cap. 9, intende per cavea lo stesso anfiteatro. Cosi appunto ab­biamo tradotto.

(8) Crescenzio ha '.circa ostia ac fenestras talis sit munitio, ne mus vel mustela vel alia bestia intrare possit ; il che piace più del cor­rente testo ne aqua intrare. Abbiamo ubbidito a Gesnero nel leggere colle prime edizioni ne qua intrare. Sarehbe quest1 intonaco molto debole per tenere lontana Tacqua; e d’ altronde noo si vede perché con tanta cara dcbbasi tenere lon­tana.

37

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955 ARNOTAZIONI AL LIB. Ili DE RE RUSTICA 956

(9) Ciwceozlo ha : Circa hujus aedificii. . . multi tin t paliy et etiam perticae inclinatae . . parietes, quibus multae perticae adnectantur ex transverso modicis intervallis ad speciem cancellorum. Cibatui turdorum ponantur of­fa e , etc. Si conferma dunque con queslo passo parallelo hi lezione di alcuoe edizioni: praete­rea et perticas inclinatas . . . transversas gra­dativi . . . . perticas annexas ad speciem, etc. Cosi vogliono che si legga Ursino e Schneide­ro, i quali fondatamente rigettano ac theatri, come una glossa del vocabolo scenicorum. Ge­snero incluse ad sulla supposizione che tulio riuscisse chiaro; perchè la voce speciem dipende ed è retta da oportet esse.

(10) Questi cancelli erano formati di tavole parallele ai gradini, e poste un poco sotto il gradioo, acciocché quello che era seduto, po­tesse mettere i suoi piedi sotlo queste tavole, senza timore di essere incomodalo dalla tavola del gradioo inferiore. Eranvi inoltre sopra que­ste tavole alcune barre perpendicolari per so­stenere il corpo di quelli che eraoo sedati so­pra il gradiuo inferiore, affinchè, poggiandosi colla schiena, non incomodassero quelli del gra­dino superiore. Vcggaii Borroanno ad Orici Amor. 111, a.

(11) Deorsum . . . . bibere possint. Come si fede daH’ annoiaz. 9, Cresceozio omette queste parole; e di fatti di ciò ai è detto superior­mente, nè occorreva farne, la replica. Stando al testo cibatui offas positast bisogna sodio ten­dere esse oportet ; ma è meglio dire con Cre- sceuzio cibatui turdorum ponantur offae. Co­lumella nel lib. vm, cap. 10, Palladio, 1, a6, e t Georgici greci xiv, °*tr« queste masse com­poste di fichi e di farre, danno ai tordi (a ogget­to che mangiando sempre lo stesso cibo, non riesca ad essi fastidioso ) anche dei grani di mir­to, di lentisco, di oleastro, di edera e di corbez­zolo, come frutti eh'essi amano mollissimo: la­onde non abbiamo puoto esitato di aggiungere con Crescenzio : m ixto . Caeteris tribuantur grana, quibus uti consueverunt, et ea quae praecipue avide sumunt. Diebus etc,

(la) Quod plus ponit. Dieeudo largius dat cibum, e plus ponit, non si dice forse lo stesso ? Laonde o V uno, o V altro si rigetti. In quattro edizioni si è voluto correggere qaesta ridondan­za, facendo largius dat cibum, et aquae plus ponit} ma non era mestieri replicare che l'acqua debba essere abbondante, avendo Yarrone già detto di sopra : in hoc tectum aquam veni­re oportet per fistulam . Se non altro era me­glio adottare la lezione delle prime edizioni e del codice Veneto, largius dat, cibumque plus po­

nit, Soprattutto ci piaee Crescenzio, il quale ba: largius det cibum, et fa rre , etc,

(13) In hoc tecto. V oscoriU di qoesto posso ha messo a tortora i migliori ingegni. Non abbiano avoto il coraggio di segoire alcun commentatore. Dai codici di Vittorio, nei qoali havvi caviis quae caviis . . . habeant aliquod adportat sub- plementum, Tumebo Advers. n x, a8, traeva il seguente testo: caulis, quae caulis habeat tabu­lata > aliquod adportat supplementum, S’ in­terpreta da esso caulis per caula, ossia auht. Per contrario Scaligero fa ehe il lesto sia : in hoc tecto caviisque avis tabulata habeant alìquota ed interpreta caviis per caveis, ed avis per aves. Secondo lui, per tabulatum è da intendersi il Wri&fer di Omero, ossia il vestibolo, ove reg­go ni i sui piedi tanto gli uccelli ehe eotrano*, quanto quelli che escono, lodi vuole cbe si legga ad portae sublimentum, cioè sublimen, ossia limen superius : ovvero sia leggere ad portam sub limentum. Piacerebbe a Popma di dire ad portae supplementum, perché i tordi non si la­sciano volare fuori della porta, come si permetta alle colombe e ad altri occelli ; e perciò debbono esservi questi tavolali, onde volino in alto gli occelli. Pensa Pontedera che Varrone abbia vo­luto dire : fia t veluti cella in cavea ad por­tam, , in qua aviarius mortuas aves servet ;io conseguenza di ciò, aggiusta il testo così : In hoc tecto caveisque caveae tabulata habeant aliquot ad portae sublementum contra hoc: aviarius quae mortuae ibi sunt aves, a t . . . Solet ibidem servare. Egli scriva alla maniera antica cavia in loogo di cavea ; a da qaelfta voce fa derivare la gabbia degl* Italiani nella qoale si mettono e gli uccelli e le fiere. Non si sa com­prendere come in oo peristilio coperto di reti ai possano fabbricare questi tavolati, aè perohè, oltre le pertiohe vi debbano essere aoche i tavo­lati, qoando gli occelli reggooai e dormono bone so quelle. Noo crediamo che si possa intendere qoesto passo senza l 'aiuto di migliori codici.

Non si potrebbe forte sospettare ehe le indi­cate parole si fossero qui trasportate, quando dovevano appartenere al pollaio? Varrooe de* scrive piò abbasso on* altra uccelliera, nella qoale v' entraoo pali e cancelli di teatro, non già i ta­volati, i qoali sono parimente esclusi dal to rn io di Colamella. Per contrario Columella nel lib. vm, cap. 3, fabbrica il gallinaio simile a quello di Varrone; e in questo fi che v’ entrino i ta­volati : sublimitas dividatur tabulatis, quae supra se quaternos et infra septenos liberos pedes habeant, quoniam ipsa singulos occu­pant. Utraque tabulata gallinis servire de­bent . . . tabulatis insistere dormientem avem

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o57 DI M. TERENZIO VARRONE ort

no»t expedit, ne suo laedatur stercore ; quod c u m pedibus uncis adhèesit, podagram creat : ea pernicies ut evitetur% perticae dolantur in quadrum ^ ne teres levitas earum supersilien­te m volucrem non recipiat, etc. Nel cap. ix di Varrooe noo ti f« alcooa parola di questi tavo­lati ; e perciò è da crederti cbe dopo le parole s in t cubilia earum^ti *ieno perdute le segoenti: I n hoc tecto caveisque tabulata habeant ali- q u o t a d perticae ( ovvero perticarum ) supple­m en tum . Columella dunque, ugualmente cbe Varrone, fa che il pollaio tia compotio di dae stanze, e tì aggiunge due livoIaiU tui quali alie­no le galline uel dì, quando rhe nella nolie deb­bano tiare tulle pertiche. Miyer oel la tua tradu­zione ledetcaba seguito Scaligero; ed interpreta che questi tavolali ti tono potli ad oggetto che

uccelli noo reggano e noo friggano per la porta , q u a n d o ti apre.

(>4) Nelle prime edizioni ed in qaattro codici leggeti aviarium quae mortuae ibi sint aves ; e perciò Pontedera corregge coti: aviarius quae m ortuae ibi sunt aves . . . solet ibidem serva­re . Omette dnnque la voce curator, come tu- perflua in tal cato.

(15) Opus sunt.fc da approvarti la lezione di Cretcenzio : opus est, ut ex hoc sumantur aviario , excludantur idoneae: te oon altro, nella corrente ti faccia sumantur, idoneae e x ­cluduntur.

(16) Ostio. Cretcemio ha : ostium lumine illustriore ibi sit, cum numerum habet exclu­sum . . . . secluso clam debet facere, ne reli­qu i s i videant, terreantur et ante tempus ven­ditionis moriantur. Ursino voleva leggere ma- fore majore ostie. Dietro tre edizioni, Schnei­dero fa ohe il testo tia cum majore, ostio et lu­mine.

(17) Perchè ferve a separare gli uccelli che ti vogliono prendere, dalla parola secludere che T u o i dire rinterrare a parte.

(18) Non ut advenae . . . quoque sint. Ge- tnero è persuasissimo che tutte queite parole fieno di Varrone, ma potle fuori di luogo ; co­sicché vorrebbe che precedesse praeterea volu­cres . . . trans mare remeant. E già nolo che i copisti, quaodo si accorgevano di qualche omis­sione, ti divano premura di restituirla anche in un luogo meno acconcio. Conveniamo con Ge­merò intorno al cangiamento di laogo, quantun­que siamo pertossi che la maggior parte di que- tle parole sieno disidatte : nonostante ti ti che Vin one è solito dilettarti di cotali tcherzi.

(19) Adventicio. Siimo con Urtino nel cre­dere superflua qaetta parola, perchè bssta de ilio genere.

(ao) Plinio, oel Gb. x, sei. 35, ba : Abeunt et merulae turdìque et s tur ni simili modo iu vicina; il ohe ha egli tratto da Aratotele nella Storia degli Animali vm, 16, ove dice che gli tlornelli, la merla, la tortorella, la lodola ed il tordo ttanno oatcotli, ma soprattutto la torto- retta che in tempo d1 inverno oon ti è mai veda­la. Inoltre Plinio nella tez. 36 dice che i tordi e le torlorelle ti latcitno vedere per tre meti ; ed Arittotele affermi nel cip. 3, che la tortorella ti liscia vedere nella Grecia soltanto nella fia­te, e che impinguatasi, ten vola altrove, come ti ha oel cap. 16. Non oega per altro nel cap. ia, che alcune torlorelle e quaglie non ti fer­mino nell1 inverno ne* luoghi esposti al tole. Dioendo Plinio che i lorditi fermano nell'Ita­lia per tre mesi, o ha inteso parlare di quello che noo è nominato da Varrone, ovvero egli dice il falso, perchè Colamella nel lib. vm, cap.9 dice che la maggior parte dei tordi ti irre­tii nell* Ittlii in tempo d* inverno. Aldrovtodi xvi, 1, afferma che rare volte vedeti io Itili» il tordo pilare ed iliaco. Celti Ornith. Sar­die. pag, i 54 ittesta che abbonda soltauto nel- l ' Italia il tordo musico ; cbe il pilare ( il tor­do mezzano, Olioi fol. »5, a ) parte dall' Ita­lia verso P equinozio autunnale, e che daietten- trione ten va verso mezzodì nella Sardegna, ove dimora in tutto l’ inverno, mtngiindo del lenlitco, delle >live, dell1 oleislro e dei frutti di corbezzolo. Avverte inoltre Celli cbe il ma­re nominato di Vairone è I1 Adriatico, ma quel­li parie del medetimo che è verso il settentrione deir Italia ; e che Delle itole nomioate da Var­rone non passano i tordi, ma bensì le torlo­relle e le quaglie. Le torlorelle vanno in Sar­degna nel mete di Mario, e passano da colà nel-I1 Africa nel mese di Settembre. Ma I1 interpre­tazione di Celti non può aver luogo, perche Varrone, dopo avere uominato i tordi, nominail mare ; e parimente ne fa raemione di nuovo, parlando del pissaggio delle lortorelle e delle qutglie, le qutli si fermano alqumto in qoelle isole nell1 ingresso non solo, mi eziandio nel- P uscire d1 Ittlii. Dunque in Varrone noo è da intenderti il mare Adriatico, mi tibbene quello di Sicilia ; quando non ti dica che ne) ritorno travalichino P Adriatico, e si arreftino aleno poco in illre itole.

(ai) Plinio, nel lib. ni, tez. ia, mette V ito­li di Santa Miria nel g >lfo di Pozzuolo, Palma- rola nel mare di Totcana, e Ponri contro For- mia. Altrove, nella sez. i 3, nomina nn1 altra Pon­za dirimpetto a Velia. Tolte queste itole giac­ciono sol lido meridiontle d1 Italia.

(sa) Qui ti ha io vista il cap. ft di quetto

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9 5q ANNOTAZIONI AL LIB. I l i DE RE RUSTICA 9 6 0

libro; e perciò Ursino avrebbe volato leggere sexaginta illa. Piuttosto è da dirsi aut trium ­phus, perchè si davano banchetti senza trionfi. Scaligero, appoggialo a monumenti antichi, legge : sexaginta quaevis millia lice­bit multum . Dic illud. Ursino, salia scoria di an vecchio codice, corregge : Mihi tunc dic illud, e Pontedera mihi tum dice illitd al­terum.

(aB) Plinio, nel lib. z, cap. 5o, dice : Aviaria primus instituit inclusis omnium generum avibus M. Laelius Strabo, equestris ordinis, Brundusii. Qai, come ben vide Pinziano, è da dirsi Laenius, e non correggere Varrone con Plinio, siccome ha fallo Ursino. Cicerone ad D i- vers. xiu, 63, xiv, 4 M. Lenio Flacco abi­tante ili Brindisi ; e nell'orazione/?ro Plancio 41, e pro Sextio 63, ricorda gli orti di Brindisi del padre e dei due figli.

U4) Plinio, nel lib. 11, sez. 96,dice: In Casina te fluvius appellatur Scatebra, frigidus, abun- dantior aestate. In eo, ut in Arcadiae Stym­phali, enascuntur aquatiles musculi. Non si sa di quale intenda parlare Varrone. Anche Colu­mella nel lib. vm, cap. 16, parla di un fiume vi­cino a Cassino, ma non lo no min*.

(a5) E t e villa in villam. Ursino vuole che si dica et e villa in insulam , perchè segue directum ab insula, quae est ab imo fluvio. Popma dice che la casa di villa di Varrone era situala nella parte più alta del fiume, che la aMraversava, e che Pisola era posta nel luogo piò basso dello stesso, per dove usciva : dunque, secondo lui, dalla casa alla villa si passava per mezzo di pootiil fiume, il qaale era diretto verso Pisola, posta nel luogo piò basso del fiame, ed ove se ne univa an altro. In tal modo Popma approva la corre- zione di Ursino ; ma questa non è abbracciala da Schneidero, il quale pensa che Varrone, parlando della larghezza del fiame, dica essere tale, che per passare dalla casa villereccia di Varrone in quella del vicino, sia mestieri passare pei ponli. Varrone inoltre assegna la lunghezza della saa casa e qoella del fiame che appartiene alla sua tenuta. Saboureux è persuaso che dicendo Varrò- ne che il fiame passa attraverso la saa casa di vil­la, si possano quelle parole e villa in villam in­terpretare cosi : che qaesta casa fosse divisa in varie parti dal fiame, e che per passare da una in an'altra, fosse mestieri dei ponti.

Cicerone, nel lib. 11, 1 de Legibus, rischiarerà questo baio. Egli descrive la sua casa di villa nel- P Arpicate colle seguenti parole che Irovansi nel cap. 1 : vii ne in insula, quae est in Fibreno, sermoni reliquo demus operam sedentes? Così gli parla Attico ; e Cicerone gli risponde : sane

quidem ; nam ilio loco libentissime solco uti, sive quid mecum ipse cogito, v ip e quid aut scri­bo aut lego. Qaesto è il Museum, ossia lo sludio di Cicerooe posto nell1 isola. Cootinua poi nel cap. 3 : Ventum in insulam est. Hac vero nihil est amoenius; etenim hoc quasi rostro fin d i­tur Fibrenus, et divisus aequaliter in duas partes latera haec alluit, rapideque dilapsus cito in unum confluit, et tantum complectitur, quod satis sit medicae palestrae loci ; quo ef­

fecto, tamquam id habuerit operis ac muneris, ut hanc nobis ejjiceret sedem ad disputandum, statim praecipitat in Lirem. Si veda dunque ehe quest1 isola era posta nella parte più bassa del fiume, e che nell’ uuioue dei dae fiumi eravilo studio di Cicerone : circostanze tatte cbe com­binano perfettamente colla casa di villa di Varro­ne. E perchè dunque non si dirà cbe il Museum di Varrone si trovava parimente nell1 isola ? il cbe essendo, non occorre rigettare con Gesnero ad Museum, ma bensì dopo dire summum flumen* ubi est circum hujus ripas, etc.

(26) Columella, nel lib. l, cap. 6, vuole che questi passeggi sieno volti al meridiano equino* ziale, acciocché nell’ inverno sieno molto esposti al sole, e poco nella state. Cicerone ad Atticum xm, 29, aveve anche nella sua casa di villa un passeggio coperto.

(27) Soltauto Orsino si accorse che qai vi è un trasponimelo di parole, come rilevasi anche dalle prime edizioni. Egli voleva inoltre cbe si omettessero form a e ad capitulum, e che si can­giasse quadrata in quadratus. Questo ultimo cangiamento è da approvarsi, come altresi è da leggersi ornithonis, deformatus.... cum capi­tulo, form a qua est quadratus, patet in latitu­dinem p. TLViu, in longitudinem, etc. Scaligero dice oUimamenle cbe si chiama capitulum quella piccola aggiunta rotonda di legno, che nella sua estremila è traforata, onde si possa attaccare e trasportare da un luogo all’ altro la tavoletta quadrata da scrivere. Chiamasi tavola quella, ove sogliono scrivere i fanciulli.

(28) L’ uccelliera di Varrone è stata sempre la tortura degl% ingegni. A togliere molle difficoltà riferiremo di tratto in tratto quanto ne hanoo detto gli altri. Scaligero corregge: Ab ornithone, p. /. v. 111, via, in qua media. Egli interpreta e distribuisce qaeste oote nel seguente modo : Ab ornithone pe<L l m i , via, qua iter in aream est, in qua media sunt cavae. Pietro Piloeo Subcis. 1, 12, vuole che il passeggio, che è dopo 1’ uccelliera, fosse lungo quarantotto piedi, e lar­go cinque. Turnebo zzi, a3, avverte che alcuni interprelapo la plumula per pterygium ; ma egli con Emaro Rauoooeto è persuaso che in Ulc voce

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9 6 i DI H. TERENZIO VARRONE 96*

corrotta si nasconda il namero dei piedi, e che perciò sia da correggersi p. n n % lat. non aggiun­ge poi la lunghezza, comé qaella che si raccoglie abbastanza dalla larghezza. Gesnero crede che il passeggio si faccia longo tanto, qaanto è il fiqrae. Opina dunque che nella voce plumula sì nasconda p . ucccc via, cioè una strada lunga novecento piedi. Sabooreox così traduce questo passo : de sorte cependant qu% i l y a entre eette prome­nade et ma voilière une esplanade de cinquan- te-huit pieds de long, au milieu de laquelle répond la principale porte par laquelleony entre. Dunque egli ha voluto correggere: ab hac inter ornithonem area est p. L rm longa, in qua media sunt cavae ( o cavea), qua introi- tur : ma nessuno mai ha detto cavea la porta. Pitoeo fa cbe queste caveae sieno sospese ; e Ge­snero te assomiglia ai palchi del teatro, e posti in tutto il margine inferiore di questa tavola* Tur- nebo le interpreta per l'area dell1 uccelliera : 1. A. de Segoer nella sua descrizione le omette del tutto. Pare per altro di poter dire, che abbastanza siasi determinata di sopra la larghezza e la lun­ghezza del passeggio, cioè che tuttadue queste misure corrispondessero alla lunghezza e larghez- ta dell1 uccelliera : duuque nella voce plumula aon si nasconde alcuna misura ; dunque sarebbe piuttosto da dirsi: ambulatio ab ornithone dis- juncta, in qua media introitus in aream est, che è quadrata, e di cui parla dappoi Varrone. Le parole poi sunt caveae, sono fuori di luogo, e debbonsi trasportare altrove, cioè dopo stylo- beten, come si dirà.

(29) È chiaro, quantunque Varrooe noi dica, che queste colonoe erano inalzate sopra piedi­stalli, e non sopra uno stilobato, o piedistallo continuo ; poiché in ogni intercolonnio eravi un alboriscetto : per oontrario le colonne interne ( il che debbesi supporre, quantunque V autore non ne faccia cenoo ) dovevano essere inalzate sopra un piedistallo contiouo, e oon interrotto, cominciando da uno dei muri laterali, e termi- nando alP altro, eccettualo per altro P intercolon­nio di mazzo, il quale doveva esser privo del pie­distallo continuo, affinchè si avesse per quella parte P ingresso principale. Varrone parla poi di queslo piedistallo interno, che è continuo. Eranvi dunque due ordini di colonne, uno esterno, e P altro iuterno : ora P interno non poteva poggiare sopra un piedistallo continuo, come Varrooe, di­ce, senza che poggiasse anche P esterno aopra un simile piedistallo, o se non altro, senza che pog­giasse sopra piedistalli tanto alti, quanto il piedi­stallo continuo; altrimenti il portico noo sareb­be sialo regolare. L perchè 1 piccioli alberi sono iocompatibili col piedistallo eoiitinuo ; dunque i

semplici piedistalli erano quelli ehe portavano le colonne esterne.

(30) Io tal modo la prima rete formava il cielo di questa maggior parte dell1 uccelli era, e sollaoto i portici eraoo difesi dalla pioggia. Gli uccelli n o n

entravano sotto questo coperto, perchè la seconda rete discendeva dall* architrave sino al piedistallo contiouo ; e taoto P ona, quanto l1 altra erano il termioe interno della parte qoadraogolare del- P uccelliera, ove gli uccelli erano rinchiusi. D’ al­tronde i portici sono coperti nel medesimo tempo che sono aperti io tult'i lati; per lo che erano composti almeno di due ordini di colonne isolate; ed era ben naturale che si riserbasse all1 occhio curioso il solo coperto che offriva P edifizio da queslo lato. Così Saboureox.

(3 1) Hae sunt. Nessuno dei comentatori ha detto se questo pronome sia da riferirsi agli an­tecedenti portici, che si nominano in vicinanza, ovvero alle caoeae nominate di sopra a riflessibi­le distanza, quantunque importi moltissimo qoe­sta distinzione per ben determioare il sito di lutto P edifizio. Di sopra, nell1 annolaz. a8, si è già detto che le parole sunt caveae erano fuori di luogo : ora qui si trasportino, e si faccia : Hae sunt caveae avibus omne genus% etc.

(3a) Interiorem partem. Noi abbiamo segnilo nella traduziooe di queslo periodo Saboureux, il quale, è combattuto da Schneidero nel seguente modo: uQuae aream interiorem, non maceriam exteriorem respicit, raonenle Gesnero. Longe aliter Gallus*: A' quel que distance de la face intirieure du stylobate, tant de celle qui règne depuis r entrée principale jusqu1 au mur d droitet que de celle qui règne depuis cette m i­me entrée jusqu' au mur d gauche, commen- cent deuoe viviers peu larges. u Scilicet Gallas imagioem cavearum, ornithonis, areae et porti­cuum situs longe diversam animo suo informave­rat, quam ez formula ab eo descripta lector pote­rit facile cognoscere. Loco enim eo, ubi Varro am­bulationem, sub diu ornithoni in infimo margine tabulae quadratae anteposuit,Gallus porlicus duas, vel unam potius porta divisam collocat; cujus 00- lumnis anterioribus (in ipsa versiooe exteriores dixit ) intermiscet arbores humiles ; interioribus seu posterioribus, stylobatae insistentibus, prae­tendit rete aviariam. Deiode a maceria summa utrinque rete caonabioum planum tendit ad epi­stylium columnarum interiorum seu posteriorum, atque ita omuem aream quadratam, retibus con­clusam, avibus destinat. Haoo ejus opinionem demonstrant verba in nota posita: r un comme P autre étaient le terme intirieur de la partie quadrangulaire de la voiliire, ou les oiseaux étaient renftrmés. Sed Gallum a situ porticuum

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o63 ANNOTAZIONI AL LIB. I l i DE E E RUSTICA 9 6 4

el loci, avibus definiti, aberraste, docet vel m o ­lai a quae tenuis, quem non opus eral affi aere loco, avibas attributo, ti ipta area quadrala con- duaao erant, abi piscinae duae aderant , qoae palum et lavacrum avibus submiuislrare pote­rant io margioe astideolibus. Gallo praeiverat Tnrnebus, qai stylobatis interiorem partem ad aream,exteriorem ad ambulationem spectasse ait... Diversae. Semita divisae, at postea monebit. Sed mihi verba e medio difficultati* aliquid habere videntur, quae plane omisit Gallus. Hic vero ali­ter etiam erravit in versione. Sic etiam facit Var­ronem loquentem : mais oblongsy en sens op­posi à celui du por lique : iis s ' i tendent ju s qui* au près de T ex trèm iti de la partie quadran- gulaire du pian. Scilicet nt errori sao de posi­tione porticuam opitularetur, verba, ut porticus versus, plane aliena sententia interpretatus est. Editio Broscbiana, qaa cum editiones prindpes consentire suspicor, habet quadrato jam e me- dioy in qua leclioae forte melior letet, a viris doctioribus exscalpenda, w

(33) Qaesti è quell' orator* che, essendo con­sole oon Mario, disfece i Cimbri, e cbe da qoesto S te sao Mario fa condannato alla morte, malgrado le istanze di molti cittadini cbe lo domandaronoio grazia. Catulo si rinserrò nella soa camera da letto, ove morì soffocato dai vapori dei carboni accesi. La saa casa era contigaa a quella di Cice­rone.

(34) Bisogna trasportare la virgola dopo /olo, al tra meo li come mai si sarebbe potata vedere la oooelliera, stando nel botco, at questo foste stato circondato in ogni ponto da alti muri T quindi abbiamo tradotto quasi tutto circondato.

(35) Perspici. Le prime edizioni ed il codio* di Breslavia dicono eon maggior fondamento prospici. Gli uccelli rinchiusi vedono da lungi qndli che liberamente volano nel bosco, senza che possano per altro passare nd medesimo : co­tale veduta li consola alquanto nella loro prigio­nia. Dopo sarebbe da leggersi : postini, et quae H i sunt, usque avis ea transire. Tarnebo voleva che si leggesse : ut perspici in silvam possit.

(36) E da riflettersi che la rete, le quale ser­viva di ddo alla grande uccelliera, era di filo di canape piuttosto grosso, perchè essa era esposta alle intemperie dall1 aria ; e d1 altronde noo po­teva nascondere la vista di cosa che convenisse a vedersi : quella poi che divideva il portico df in­gresso, era formata parimente di an simile filo, perché, in pari guisa ddla prima, era esposta alle iutemperie dell* stagione, e non era necessario che fosse sottile per vedere attraverso; ma qndla ehe inviluppava la rotonde, era formata dioorde di bodella, onda fosse nd medesimo tempo e

sottilissima e fortissima. Conveniva ehe foae set* tilissima, atteso che doveva permettere che ti ve­desse dd di fnori dentro la rotonda, e da questa al di fuori, come dtreaìdal portico d'ingreaao nel bosco ; doveva poi essere fortissima, perchè, come le dae prime, trovavasi esposta alle ingiurie dell’ aria. Finalmente la rete interna non era che quella comune, con coi si prendooo gli oocelli ; e perciò era sottilissima, e mollo più perchè non era esposta alla pioggia, e la sola che «tetta a co­perto.

(37) Per ben intendere qoesto pasto, bisogna richiamarsi alla memoria quanto ha detto di so­pra Varrone in proposito dell1 ocedliera de* lor­di. Egli coti disse : Circum hujus aedificii pa­rietes intrinsecus multos esse p*los% uhi mot» assidere possint : praeterea et perticas incli­natas ex humo ad parietem^ et in eis transver­sas gradatim modicis intervallis perticas «t- nexas ad speciem cancellorum scenicorum ac theatri• Giovanni Alberto deSegner da ona parte e dal l 'altra delle colonne ed on pooo indietro della rotonda, pianta dd mutili, e sopra questi mette delle verghe, qnai sedili piò a proposito per gli occelli, perchè credeva che sui molili lar­ghi non potessero reggersi comodamente ; ma in questo luogo i mutuli sono semplia pali,oome benlo dimostra l’ dlegato passo di Varrone. Lo stesso de Segoer vuole che qai s’ intenda il teatro, for­mato di parecchi mobili eooii di legno, ognuno dei qoali potesse essere collocato o rimosso, ae così bisognasse, dalf ioteroajponio, ma tatti poi disposti io guisa che rappresentassero nna specie di teatro. Cotale inlerpretaxione qoadra molle bene col passo riferito da Varrooe ; e differisce solo io questo, che le pertiche potevano etàare iodinate verso le pareli, laddove io questa ac* celliere dovevano essere incastona te e eoo giunte tra di loro colle pertiche trasversali, affinchè po­tessero stare diritte. Se ciò è vero, come v* è tolta la verisimiglianza, malameole dunque ditte Sa- boureax odia nola ia, pag. 3oi : u 11 faot top- poser qoe le gradin supérieur est le sommet de stylobate, et qua ce stylobate n' a de largear cn cel endroil que ce qu’ ea exigent les baaei de le colonoe de pierre, et qu' il repreod tuooetaive- menl de sa largear poar former chaqae gradin : qa' enfia leur hauteor est mesnrée de manière, qu’ iis parta geni égdement entre,eux la differenee qui se tronve entre le sommet du stylobate sor les colonnes extérienres, et le plein pied doni il va ètre question, lequd est an bas des gradina. On coofoit qoe celle différenee est rachetée poar les ooloooes intérieares, per oa sode sons la beta de ehacune. »

(38) * Ce stylobate est uniqoe poar le* d*«x

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g65 DI 11. TERENZIO VARRQNE 066

rangs de colonne*, et molile cd faveur des gra- dins. n Coti uola Saboureux.

(89) Lapis. Une assise de pierres. u Celte au ite, dice Saboureux, ett réglée suplriearement en parquet, pour enteudre en tirant au centre le plein-pied. t»

(\o) Falere. Saboureox traduce le socie, Tur­nebo io tende il contorno di pietra dello stagno, così chiamato dalla candidexxa della pietra, per- chè il colore candido si chiama in greco pdXnfw. Voleva per altro che si scrivesse phalerum , per­chè imita on porto. Scaligero è con Turnebo ; e paragonando • I* saxeam pilam di Virgi­lio, fa che Haleria e Faleria derivi da nrafd riir àia. Pop no* sciocca meni e fa derivare questa voce da pdXaj capo. Segner crede che sia una macchina fabbricala di (avole di legno.

(40 Di qaesto stagno ne parla poco dopo.(4 ) E n saillie horisontale sur le v i f du sty­

lobate, aggiunge Saboureux.(43) In culcitas. Segner voleva che si dicette

inter culcitas et columellas, come prova con sode ragioui in una tua dissertazione intorno alla uccelliera di Varrone. Parimente Saboureux è di quest' opinione : aftn que Ics convivés puissent marcher à V aise entre les colonnes et les lits; ed aggiunge in una nota: Car cet emplacement^ ainsi qu1 on va le voir, sert de satte à manger. Per contrario Scaligero interpreta la voce culci­tae per torosae stylobatae projecturae extra solidum procidentes, ut in peristyliis mona­chorum videre liceat; in quibus pulvinatae coronae stylobatarum extra perpendiculum praeberent sedes opportunas fessis deambu­lando. Nessuno per altro ha seguito quest1 opi­nione, stata già prima anche di Turnebo, eccetto di Popma. Turnebo, volete che si leggesse colu­mellam, perchè egli pensava che il banchetto si facesse nell' isola : ma Varrone chiama columel­lae le svelte colonne di abete, che sono interne nella rotonda.

Convivae. u Hoc verbam ( dice Schneidero ) et menlio peripetasmatum, quae aectio seqnens ait in suggesto phaleris esse solere, monaisse vi- dentar Gesnerura ; ut in hoc phalere lectos con­vivis itratos et convivium ipsum actum fuisse pu­taret ; quam quidem opinionem ante eum jam olim prodidit Tumebua, eamque recte secuti tunt recentiores interpretes. Nescio igitur, ut culcitas cum Scaligero interpretari quam ad conviviorum et lectorum nontivalium usum referre mallet m

(44) Infimo intra falere. Gesnero voleva si leggesse : In infimo falere ; ma è meglio dire col codice di Ursino: Infimo in falere. La voce mar­gine è tradotta sentìer da Saboureux. Gesnero dalle altre misure congettura ehe Pisola fosse

appena di nn piede ; e pensa che lo stagno fosse coperto dalla tavola posta solla ruota. Varrone assegna a questa tavola la larghezza di due piedi e mezzo. Gesnero è permaso che questo stagno contenesse un'acqua morta, e che fosse tanto picciolo, che tenisse coperto dalla tatola posta sopra la colonna. Seneca, nel lib. 111, cap. 17 delle Questioni naturali, ha avuto in tiata questa spe­cie di stagno, quando disse : in cubili natant pisces et sub ipsa mensa capitur, qui statim transfer a tur in mensam.

(45) Ut navalia. E piuttosto da approvarsi la lexione del codice di Ursino, che ba uti navalia.

(46) Orbile. Non possiamo far meglio che ri­ferire le varie opinioni in succinto colle flesse parole di Schneidero. u Turnebus interpretatur rotonditalera ipsint orbis, acutiorem in Ane. Re­ctius Scali ger, euro que secotus Popma, axis capitu­lum seu cardinem, qui in modioli foramen coo- veniebat : Graecia rjffyya . Praeterea S caliger corrigebat : orbile solet esse, acetabula cavata xif;intetpretatus acetabulam pro acetabulo. Con­tra Scheffer orbile tuli esse rolae perlpfteriam, et corrigli hoe loco orbile solet esse, arcus cunk tabula. Uude Gesner duxit soam conjecturam, arcuatum , et pluribus arcubus compositum in­terpretatus. Schefleri ratiooecn juvare videtur, quod Varro paulo post tabulam, quam hic tym­panum vocat, in primis radiis ait, quos Schef- ftr extremos interpretatur; quem sequitur gal- licits interpres; Popma Scaligerum. Schefferum sequi ipse non dubito, quoniam ipse Varro dein­ceps orbem ligneum mensam que vocat, quam hoc Io00 orbile et tabulam. Sed orbis is non so­let esse acutus; igitur aot Schefleri emendatio est probanda, aut legendnm orbi solet esse li­gneus. »

(47) Tympanum . Cioè ana roota senza rag­gi, ma solida e piena. Cotali ruote senza raggi sono nominate nel lib. 11, vers. 444 delle Georgi­che di Virgilio. Tali ruote ti usano oggi*)k in ai- coni luoghi della Spagna, come racconta Towu- send TraveI, Toro. 1, pag. »6 e 69.

(^Ó)Ex suggesto. Pensa Schneidero cbe que­ste parole sino ultro ac cito commeant abbia­no cangiato luogo, e che debbano stare di topra dopo : Circum falere uti navalia sunt excava­ta anatium stabula. È poi da dirti : Dum et aqua calida, etc.

(49) u Gesner pntat, ipsum phaleris sugge­stum vicem lectorum accubitoriorum praebuisse, unde peripetasmata dependere soleaot. Eadem peripetasmata in apparata lecti convivalis poni monet apud Varronem L. L. iv pag. 40. lin. i 5. Breviter, in hoc suggestu phaleris convivat col­locat Gesuer. * Coti Schneidero.

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0 C>; ANNOTAZIONI AL LIB. I l DE RE RUSTICA

(50) Primis. Scheffero interpreta summit, cioè le loro estremità : per contrario Scaligero interpreta privis, Tale a dire singulis.

(5 1) Epitoniis. Vittorio voleva che si legges­se così, perchè appuoto havvi epitoniis in tutt’ i codici. A questo proposito cita Vaipiano de actio­nibus venditi, ed an codice di Vitrario; ma qaeste non sono autorità di grau peso, essendoché que­st' è una voce alterata. Del parere di Vittorio sono pure Urtino Bynkershoek e Gesnero. Vit­torio e Scaligero interpretano per epitoma no istrumento teso da corde, per meno del quale si estrae V acqua ; e Gesaero interpreta il turaccio­lo. Ma* non è da alterarsi la leiione delle prime edizioni e di Aldo epistomiis, come ci persua­dono molte autorità.

Factum sit. Tarnebo correggeva: radiis essh ; epitoniis versis ad unumquemqne f a ­ctum sit u tflua t in convivam: per contrario Scaligero voleva che si dicesse : ad unumquem- que actum, sic adjluat in convivam ; ed inter­preta actum il momealo in coi lo schiavo lo gira.

(5a) Vittorio e Sabooreux accasano di errore Varrone, perchè fa cbe sieno due stelle distinte Lucifer ed Hesperus. Per contrario Ursino da nn passo di Plinio del lib. il, cap. 8, ove leggesi : infra solem ambii ingens sidus appellatum, Feneris alterno meatu vagum, ipsisque co- gnominibus aemulum solis ac lunae. Praeve­niens quippe et ante matutinum exoriens% Lu­ciferi nomen aecipit, ut sol alter diem matu­rans : contra ab occusu refulgens, nuncupatur vesper, ut prorogans lucem, vicemque lunae reddens, etc. voleva che Lucifer fosse il sole, ed Hesperus la luna. Nou pare probabile che Var­rone fosse tanto ignorante in astronomia. Piut­tosto è da dirsi che V artefice avrà fabbricate e poste nella cupola le immagini di Lucifero e di Esperò per distioguere le ore del giorno da quel­le della notte.

(53) A d infimum . u Io summa hemisphaerii parte horologium collocat Turnebus ; Gesner interpretatur in margine concava lecti hemis­phaerii, et in parte convivis obversa ; et negat, horologium hoc ex automatorum genere fuisse, contra Castellum, afiirtoanlera, quem sequitur etiam lo. A. de Segner. Gesner nilitur loco Pli­nii vii , sect. 6o, qui clepsydram publicam cele­brat. Qui, inquit, potuit praetermittere Plinius, qui clepsydram publicam celebrat T At, bone, a quo positam ? A Scipione Nasica, collega Lae­natis, primo horas aequinoctium ac dierum a- qua divisas fu isse referi anno U. C. 5q5. Quid igitur opus Plinio erat seorsum commemorare Varroais horologium privatam, jam diu osu ejus publicato ? n Cosi Schneidero.

(54) Vitruvio, nel lib. i, cap. 5 dtando que­at' orologio, ne fa autore dello stesso Aodronk» Cirreste, cioè della città di Cirro ; per coesa- gaenza Cirreste oou è an oome proprio, ma la patria dell* artefice, che Varrooe ooo nomina, perchè già aarà stato noto a quelli, ai quali par­lava.

(55) Gli antichi non distiosero io prindpio che quattro venti, poi otto, e fiualmente ne ag­giu n go altri quattro a questi otto ; il che b dodici venti: con tutto questo vollero tenersi •Ila aulica divisione di otto, come si ha «la Pliaio oel lib. ii, sez. 46.

(56) Parra è il oome di ao uccello cbe si con­siderava come di cattivo augurio, ed il coi casto era disgustoso. Varrooe che sceglie sempre per saoi iaterlocutori personaggi, i coi nomi siano analoghi all'oggetto che tratta, avrebbe forse affettato di seguire tal metodo sino in qoesto personaggio episodico ?

(5?) Per intendere questo passo, bisogna sa­pere come ti faceva a Roma la eleziooe de' aia- gistrati. Ognuno portava seco nn ballettino, ta­bula, sopra il quale era scrilto il nome del can­didato che si voleva Dominare ; ovvero nel cam­po di Marte davasi ad ogni cittadino no balletti* d o in bianco, affiuebè sopra il medesimo si scri­vesse il nome del candidato. Ognaoo metteva il suo bullettino in un' urea ; iodi si separavano, dirimere, ( e oel letto va detto coo Ursiao diri­merent) i varii bnllellini, per sapere quanti ap­partenevano a questo, od a qodl' altro candida­to. Quest' operazione si faceva in dae guise ; o scrivendo sopra una tavola il numero dei voti favorevoli eh'erano toccati ai rispettivi candi­dali, o trasportando, come qui, dall1 unta, in cui erano tuli' i voti, io uoa borsa particolare locu­lus, quelli che favorivaoo uo tale candidato; e perciò tante erano le borse, quanti erano i eao- didati. Si vede quiadi eh' era necessario cbe vi fossero dei custodi, custos, i quali io vigilassero, acciocché non nascessero frodi. Ora questi co- stodi avevano 1' occhio aoche respelli vanente tra di loro, ed accadeva alcuoa volta che venissero colli sul fatto qudli cha commettevano qualche frode, come appunto è avvenuto nel nostro caso. La frode la più comune consisteva iu accresce­re il numero dei voli, a favore di nn candi­dato, con un numero di bnllellini che una me­desima persona gettava o nell' urna generale, ovvero odia borsa particolare di qad candida­lo. Plutarco, nella vita di Catone di Utica, ri­ferisce uoa frode di questo genere. Catone et* seodosi accorto oei comizii, che si tenevano per 1' eleziooe degli edili, che la medesima mano aveva scrìtto un grau uumero di bnleiiiai ia

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9 C9 DI M. TERENZIO V A RRO Nt

favore di un candidato, • giudicando quindi che qael candidato, che egli favoriva, non sa­rebbe alato scelto, scoprì la frode, e fece annul­lare quanlo si era fatto.

Cap. VI. (i ) Questa piacevolezza cade sopra il nome di Pavone, che portava Fircellio.

(2) Nei codici si legge LyrcliOy e nelle prime edizioni Lurco. Plinio, uel lib. x, sez. 23, ha: Paeonem cibi gratia Romae primus occidit ora tor Hortensius aditiali coena sacerdotii, Saginare primus instituit circa novissimum piraticum bellum M. Aufidius Lurco, ex que co questu reditus sestertium sexagena mil~ lia habuit. Cicerone pure pro L . Flacco il chiama Lurco.

Supra sexagena. Nelle prime edizioni si ha S. ossi# Ia cifra de' sesterzii, in luogo di supra ; dunque dicasi sestertium con Plinio ; ciò è con­fermalo anche dal calcolo. Pontedera attesta che nel codice Cescnale si ha minimum in vece di numum ; variante da non isprezzarsi.

(3) Crescenzio, nel lib. ix, cap. Sa, dice : Uni masculo quinque foeminat sufficiunt, quod servandum est, ut ait Varro , si ad fructum spectes ; nam tunc pauciores debent esse ma­res,y quam foeminae . . . . enim est masculus. Palladio ha egualmente che Crescenzio ; non si sa poi ben dire, se in Varrone si leggesse pari­mente così.

(4) Pavonum gregei. Ursino voleva togliere queste due parole, ovvero dire agrestium greges transmarini.

(5) Ateneo, xiv, pag. 655, dice che i pavoni da quest* isola si sono sparsi per tutta la Grecia, Viltorio avverte che per qaesta ragione le moneto di Samo avevano il pavone.

(6) Planasia insula. Ursino crede che la voce in silva si sia corrotta, e che quindi sia nato in­sula. È persuaso inoltre che debba dirsi in silva, oode corrisponda al luco di sopra nominato. Popma è con Ursino.

(7) Birnae. Nel lib. v m , cap. 11 di Columella ti ha : Hoc genus avium cum trimatum exple­vi/, optime progenerat : lo stesso pure hanno i Georgici greci, xiv, 24 ; Plinio, x, 59; Aristotele nella Storia degli Animali, vi, 7 ; ed bliano, v, 3 2 .

Laonde si dica con Ursioo trimae.(8) Itaque Sejus. 1 commentatori vogliono

che Varrone alluda a quel Seio cbe ha lodalo nel capitolo secondo di questo libro. Ma le prime edizioni hanno senis his dant : lezione è questa da preferirsi (cangiando sollauto dant in dat) 9 quantunque sia da dubitarsi intorno alla quan­tità dell'orzo, che da uessuii autore viene deter­minala. Olire di che, subilochè delcriuiuavasi la

li. Tunsoizio

quantità defi'orzo, conveniva anche determinareil namero de* pavoni, ai quali era da darsi tate quantità di orzo. Varrooe duoqoe assegna la mi* sura del cibo da darsi a sei pavoni, poiché egli vuole che a cinque femmine basii un maschio, e che poi questi sei individui si debbano rinserrare insieme in ooa stanza particolare, come imparia­mo da Columella. Qui, come si vede, Varrone ha voluto seguire V esempio di Lorco, qual primo autore dei pavoni; non mai ba preteso di farne autore Seio. Dunque le parole dat9 e poi is sono da riferirsi a Lorco. Schneidero è di opinione che abbondi il secoodo singulos.

(9) Is a procuratore. Le prime edizioni met­tono hos, e cinque codici has ; e nel finevdi qae­sto capitolo si ha : si in singulos ternos exigent (exigerent altri) pullos : laonde è molto proba­bile che Varrone avrà scritto in singulas q pro­curatore, etc., le coi tracce si hanno in has che anticamente era las. Lurco duoqoe non ripeteva tre pavoncini per ogni maschio, ma per ogni femmina.

(10) E x iis. Gesnero, dietro il precetto di Ursino, ha rigettale queste paoele» quantunque *i possano difendere : a quibus, cioè gallinis, ex iis, cioè, oy/f, excusos.

(11) Tectorio levata. Crescenzio, nel lib. x, cap. 82, dice : Cubilia debent eis fieri sub tecto discreta, et a terra elevata, ut neque .. . bestia accedere ad ea possit, ut ait Varro.

(12) Crescenzio ha : Praeterea locum ante se purum habere. Ursino vool togliere habere, perchè oon si trova in un antico codice, e perchè è oo verbo totalmente soperfluo.

(13) Hortensius augurali. Ci piace dire con Vittorio Hortensius augur.

(i 4) Poutedera interpreta così : quod factum potius luxuriosi nepotis, quam severi boni viri laudabant; ita enim mores tum ferebant: dunque per ironia si sono detti boni viri.

(15) Ursioo voleva che si dicesse Albutius ajebat : ac si ut Sejus ternos, etc. ; ma nell* an­notazione ottava si è rigettato il oorae di Seio.

(16) Singulos. Nell'annotazione nona si è dello che va scritto singulas.

Cap. VII. (1) Si dava questo nome ad ogni uffiziale subalterno.

(2) Pontedera dal leggere in tre codici expe- risterotrophio, e dal vedere che nelle prime edi­zioni manca has, perchè suppone che Menila mostrasse già le colombe col dito, voleva che il testo fosse il ségoente : si umquam de r?o<pii<» constituisses, tuas esse putares.

(3) Saxatile. Crescenzio, nel lib. ìx, cap. 88, dice ; E x àis, qui ponuntur, meliores sunt sa-

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Xaroli, et post ipsos lurgni ; sic a vulgo ex pennarum colore vocati ; tales enim in colum- bar iis melius durare cernuntur, quam caeteri.I primi si chiamano in italiano sassaiaoli, ed i tecoudi turchini. Il sassaiuolo di Sardegna è stalo descritto da Celti, Tom. n, pag. 182.

(4) Agreste sine albo. Ur>ino le crede super­flue; ma il passo eh1 egli allega di Columella, ooo fa per la sua congettura.

(fi) Che vuol dire colomba.(6) Da 'raf/g’gffli» colomba, e da che

significa nodrire.(7) E stata rigettata la correzione di Vittorio

di habeant in habeat, quantunque qaesta goda ) 'appoggio ili tre riputatissimi codici : qui, come ni vede, habeat appartiene alla colomba ; per con­seguenza è da dirsi possit: dicasi anche coi me­desimi codici quomodo in luogo di quo. Si po­trebbe anche difendere habeant, facendo che questo veTbo appartenesse a singula paria ; ed in tal caso bisognerebbe poi dire possint. Atanti Gesnero correrà qaesta interpanzione : possit. Intus . . . partibus sub, etc. Egli vi ha rimedia*10 ; ma crediamo che così si debbano disporre le parole : Columbaria singula esse oportet intus ternorum . . . partibus, et ut os habeat quomo­do introire et exire possit.

(8) Aquam ... possint. NelPannot. 16 si diri11 perchè questo periodo siasi coli trasportato.

(9) Columbarium. Crescenzio e Poliziano mettono columbarum. Crescenzio poi così conti- aua : saepe debet eis mundare locum etfim um reponere, qui ad agri culturam est optimus. Apparisce quindi che qai si sono perdute alcaoe parole, come et recondere. Noo perchè lo sterco si scopa, per questo bisogna dire che sia utile al- I* agricoltura : ti serba, perchè è il miglior con­cime*

(10) Aliquot. Le prime edizioni mettono ali­qui. Vittorio diede aliquot ; il cbe si potrebbe tollerare in Palladio.

(it) Ursino è persuaso che sia da leggerti : Si quid offenderit, ut medeatur ; si qua perierit, ut efferatur, etc. ; le altre parole le crede ag­giunte da altri e sparie. Egli, dietro i Georgici greci, x»v, 6, voleva che il custode della colombaia avesse P occhio al fabbricato, non già alle colom­be che albergano nella medesima; ma tbaglia di grosso, perchè qui ti parla delle colombe amma­late.

(12) Item quae foetae ... redintegrentur. È capovolto tutto questo passo. Indicheremo le principati mutazioni. Si è cangiato foetae in fe ­rae, perchè in dae codici havvi cosi, e perchè in un codice di Crescenzio, che serbasi in s. Giustina di Padova, leggesi : Item si qui sunt nimis feri,

£ 7 1 ANNOTAZIONI a l l i b

et bellicosi ut alios laedant, eos inde remo­veat, et in alium lo cum secretum ab ilio per se ponat. Nelle prime edizioni ed in Poliziano si ha ree te in luogo di rete. Tre codici e le prime edi­zioni mettono habeat, e quattro codici transfe­ratur. Sette codici e le prime edizioni etque . . . . ex peristerone evocare. Vittorio e quattro c©> dit i pongono matresque ; e finalmente in quella edizioni ed in quattro codici si ha quod libero. Dietro qnesti pretidìi si è tradotto fi! segatola testo : Item quae ferae sunt, in certum locum ut disculsum ab aliis recte habeat, quo trans­fe r a t : ut et quo foras ex evocare possit matres. Qaae faciunt duabus de causis... una, s i ... consenescunt ; quod libero ... redinte* grentur. Vuole dunque Varroue che si formino per le colombe dae luoghi ; nel primo dei quali dehbonsi cuitodire quelle che aono selvagge, e nelP altro sono da chiamarsi faori della colom­baia le madri, affinchè ti ristorino ne1 campi at- P aria aperta. Nè occorre aggiustare Varrooe per mezzo di Colamella, lib. vm, cap. 8, perchè ivi ti mette la rete per difendere le colombe dagli au­gelli di rapina, e non si parla per niente delle colombe selvagge, come si farà ancora più chiaro nelP annot. 1 7 .

(i3) Non sappiamo deciderci ad abbracciare con Ursiuo e Schneidero pulliciem, ovvero tilt- cium con Vittorio, Scaligero e Gesnero. Parreb­be che fosse da dirsi illicium, perchè, se ai di­cesse pulliciem , si farebbe che Varrone, amante della brevità, replicasse lo stesso con dire propter pullos. Schneidero se la prende fieramente con­tro illicium : u quam sententiam (dic'egli) perse ineptam etiam, nullo modo ex verbis Varronis licet extorquere ; nec boni viri et honesti hoc est facere stadere. * Egli si fa forte anche con Colu­mella nel luogo citato e coi Georgici greci, xrv, 1, i quali, secondo lai, seguono Varrooe. Non lasce­remo di dire che de causa sono parole rigettate ragionevolmente da Ursino.

0 4 ) Item petere. Siamo con Salmasio, ad So- Unum, cap. 4°> pag* 614, nel leggere impetere. Crescenzio, nel lib. x, cap. 28, in tal modo de­scrive la maniera di prendere questi uccelli ra­paci. Si piantano in terra due, o tre bacchettine invischiate, aa pooo tra di loro distanti, e Puna verso P altra piegata : oel mezzo di qaeste si lega un qualche uccello, come Un colombo, o an pollo, ovvero della carne, od anche un sorcio pei nibbH, e per alcuni altri uccelli di rapioa, che amano tali animali: questi uccelli restano impaniati nelPatto che assaliscono quegli animali.

(i5) Atque ad locum redeunt. Gesnero fece molto bene a togliere con Ursino queste parole.

(t6) Qoi certamente vi è una lacuna. Nessuno

111 DF, RE RUSTICA 9 7 2

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degli antichi ha messo il cibo dell* colombe io canali. Si po Ir ebbe dire che ciò si fa ad oggetto che gettandolo per terra, noo retti imbralUlo dallo sterco. Ma se ciò fosse, in qual maniera si potrebbe per di faori introdurre col meno di canaletti il cibo ne'truogoli? Malamente adun­que si applicalo queste parole al cibo : piuttosto appartengono all'acqua, e per errore di luogo si erano trasportata di sopra ( vedi 1’ annoi. 8 ). I Georgici greci, xiv, 6, si accordano con Varrooe. Si restituisca duoqoe tulio al suo rispettivo luogo, e si faccia che il testo sia il seguente : circum pa­rietes. Aquam ( mundam si aggiunga colle edi- liooi dei Giunti e di Gimnioo ) esse oportet in canalibuSy quo influat, ei quas extrinsecus per fistulas supplent, unde et bibere et ubi lavari possint.

(17) Item feras has. 11 solo Aldo mette cosi: negli «liri leggesi o feras hasy ovvero fere haec. Schneidero si accorse che in queste varianti si nasconde la genuina lezione, perchè quella del testo è certamente corrotta. Pontedera è persuaso di leggere : Item fe ra haec in turriòus ac sum­inis villis qui habent, quoad possunt, immit­tendum in Egli rigetta, come fa an­che Schneidero, agrestes columbas, quale in­terpretazione di fera haec. Dunque si vede che

fera haec sono quelle colombe che di sopra ma­lamente si erano detlejbefae (vedi l’ annoi. 12), e cbe aucora queste debbousi rinserrare nella colombaia, come avverte Varrone ; perchè se ad esse si lasciasse la libertà di volare sulle torri, o sopra i colmi delle case, di leggeri ritornerebbero •i loro primi padroni. Gesnero vorrebbe che ai dicesse quae habent, cioè habitant. Abbiamo anche, come si vede, cangiata l ' inlerpuuziooe del teslo.

(18) Debbesi togliere il ponto dopo bona, e niellerò avanti aetate.

(19) Intervallum faciunt. Ursino vuole che •i legga interm ittit, e avanti facit. Schneidero amerebbe dire con Crescenzio, ut, 91, interval­lant. Gellio, xvn, ia, ha le febbri intervallatae.

(20) Ma Crescenzio aggiagoe cbe gli uomini speriiueulali assicurano che le colombe non par­toriscono se non dopo sei mesi, dacché sono nate,• che iu progresso partoriscono quattro, cinque, •ci, ed anche più volte all’ anno, purché trovino di che nodrirsi, ovvero se loro si somroiuislra il cibo in copia : che se poi si fanno scarseggiare di cibo, partoriscono almeno tre volte nella state. Aristotele pure nella Storia degli Auimali, vi, 4, fa che le colombe noo partoriscano se non dopo ehe hanno sei mesi.

(21) Hieme demunt cibum medium. Queste parole sono omesse da Cresceuiio, <ju ntuuque

ancor egli nelP inverno noo dia da mangiare ai colombi che due volte al giorno. Forse va toltoil cibo del mezzodì.

(22) Per vedere quanto manca nel nostio lesto, bisogna riferire due passi paralleli, 1' uno di Co- lamella, e 1' altro di Cresoenzio. 11 primo dice : Pulii vero facilius sub matribus pinguescunt, si jam firmis, prius quam subvolent, paucas subtrahas pinnas9 et obteras crura , ut uno loco quiescant^ praebeasque copiosum cibum parientibus, quo et se et eos abundanter alant ; ed il secondo : Eos vero, qui jam pennas ma­gnas habere incipiunt, relinquunt in nidis, frac tis cruribus, matribus nutriendos vel im­pinguandos, vel extrahunt de pennis unius alae ; nam, qui ita educantur, celerius impin­guantur, quam caeteri, ut ait Farro. L* accor­do perfetto di quesli due autori, fa credere cheil loro lesto era genuino, e cbe nel oorreoie souo da innestarsi le segueuli parole: vel extrahunt de pennis unius alae ; nam qui, etc. Parimeute Varrone, nel cap. 9 di questo libro, parlando del modo di ingrassare le galline, dice: Eas evulsis ex alis pinnis et e cauda farciun t turundis% ove veggasi la nostra annotazione.

(23) E t candidiores. Pare ad Ursino che sieno da togliersi le parole quam alii, et candidiores. Schneidero è persuasissimo che sia corrotto il le­sto ; ed egli lo aggiusta leg^cudo : quam alii grandiores, u Columella (dic’ egli) steriles et sordidi coloris culumbas veteres et adultas, ut gallioas saginari ail; caodidas vendi solitas fuisse, inde iotelligilur. Iliuc eliaca vilium vulgatae le­ctionis apparet, w Nei codici Poluiaueo e di s. Re­parata st legge et candidae fiu n t : seeondo T or­tografia antica sarà stato sentio candidci, ed ei si sarà cangiato posteriormente in ae. Noi siamo persuasi eoo Pontedera di dire: qui ita educan­tur , celerius quam alii pinguiores et candidi

fiunt.(»4) L. Axio. Plinio, nel lib. x, cap. 37, dice:

Lucius Axius eques Romanus ante bellum civile Pompejanum denariis quadringentis singula paria venditavit, uti tradit M. Varro. Columella pure nel lib. vm, cap. 8, conferma colle parole di Varrone P eccessivo prezzo di uu paio di colombi.

(25) Pontedera mette il puulo interrogativo avanti cum aliquot. Si è corretto il le*U> dietro Pedizione dei Giunti e di Giinuico. E da avver­tirsi cbe qui si chiamano instrumentum le co­lombe ; e perciò quelli che possedevate queste, possedevano anche le colombaie, sebbene uon ai tenessero in un luogo fabbricato a bella posta, ma sotto il tetto, ovvero dentro la casa. Columel­la, nel lib. vui, cap. 11, ha : fia n t arundinea se­

b i M. TERENZIO VARRONfi

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ANNOTAZIONI AL MB. Il i DE RE RUSTICA 9 7 6

pia in modum cavearum, qualia columbaria tectis superponuntur. Il lesto corredo è it se­guente: multi columbaria ....habent ; an tibi non videntur habere, etc.

(26) Ursino corregge così: aedifices rure magnum, condiscas hic in urbe quotidie asses condere in loculos, lo alcune edizioni leggesi : t x asse semissem, lezione che da Gesnero è in­terpretala nel seguente modo: u Ponamns, impen­disse aliquem 365 denarios in columbarium ; quotidie autem illi nummos redire binos sester­tios, h. e. asses (qui hic denarii sunt) dimidios a. semisses. Nonne ille dici possel quotidie lucrum condere in loculos, et quidem ex asse foenoris, dimidium s. semissem annuae nsurae? » Questa interpretazione non piace a Schneidero, benché non dica come vada spiegato qoesto passo.

Cip. VIII. (1) Popma, Gesnero e Schneidero verrebbero leggere: Tu , Merula, perge; almeno, dice Gesnero, Merula è qui vocativo. Le antiche edizioni ed i codici Fiorentini mettono : Tum Merula sic : perge, etc. Queste parole apparten­gono certamente a Pica, come quegli ohe conti­nua a parlare, avendo già interrotto di sopra As­sio. Se ciò è,dicasi piuttosto : Tum Merulae sic: perge deinceps. Si vede dunque che Pica eccita Merula a continuare la trattazione dell* intra­preso soggetto.

(2) Ordinem. Due passi paralleli dimostre­ranno cosa manca in Varrone. Crescenzio, dopr»• vere ora e suo ac camaras, così continua : tecto­rio ; et in eis habent multos palos infixos, sup­per quibus commode morari possint ; et lo­cum paratum congrue in quo pascantur. Ci- batui, etc. ; e Columella ha : A d lineam mutuli per parietem defixi tegeticulas cannabinas accipiunt praetentis retibus, quibus prohibe­antur volare. Apparisce dunque che dopo ordi­nem va inserito infixos.

(3) La correzione di Ursino : inter reliquos ab imo ad camararn ad semipedem aeque la­tum ac mutulus a pariete extat, in quibus% etc., è solidamente combattuta da Gronovio, Pecunia Veter., pag. 429, óve difende il testo corrente. Sbaglia però nell1 interpretare le parole aeque latum ac mutulus . . . . potest.

(4) A summo ad camaram. Schneidero vor­rebbe cbe si dicesse : summum ( ordinem ) a ca­mara ad semipedem, aeque latum , etc. ; per­ché in tal modo infimum ordinem oportet abes­se a terra non minus tres pedes, e meglio e piò acconciamente si uniscono le seguenti parole aeque latum alle altre. Varrone, dice Schnei- dero, parla della distanza che dee trovarsi tra il piò alto ordine e la volta, perchè a quel laogo le

pareti sì spiegano a volta. Gronovio per contra­rio, le parole aeque latum , le riferisce mala­mente al peduccio, che, secondo Ini, ha da essere aeque latum , cioè che debbe avanzar fuori della parete nn mezzo piede. Ma è pià naturale il rife­rirle a eiascon ordine, e dire che il peduecio usci­rà faori del muro tanto, quanta sarà la rispettiva distanza degli ordini. Pontedera, appoggialo a Colamella, dice che qui manca la rete ; perciò egli corregge : a sumnio ad camaram ad semi­pedem rete latum ac mutulus, a pariete extare potest : vale a dire, che dall' ordine basso sino alla volta debbe essere disteta ona rete, distante dal muro un mezzo piede, e ehe appunto il pe­duccio ha da essere fuori del muro un mezzo piede.

(5) Colamella mette, oltre il fomento, ancheil miglio : lo stesso ha pare Crescenzio. Forse si sarà perduto in Varrone.

(6) Appositissimum . Creseenzio deterive il modo, con cui si prendono e s ' ingrassano a Cre­mona.

(7) Cum pulii. Ci piace Geinero nel eagiare optimae in opimae ; ma piò di tatto Pontedera che legge tuncpulii : correzione cbe salta subito agli occhi.

C ap . IX. (1) Tutt1 i commentatori discordano tra di loro nel correggere ed interpretare que«to passo. Turnebo e Scaligero antepongono Farsu­rae, ma non soddisfano punto nell' interpretar­ne il senso. Ursino avrebbe voluto leggere: A- mius: Ego duo requiro farsurae membrande palumbis ac gallinis ; e pensa che la voce or- surae sia nata dall* antecedente sarsurae. Pon­tedera corregge così : A xius : Ego quae requi­ro assaturae assae membra de palumbis, de gallinis dice sodes Merula, ed ioterpreta : u Ego qaae de palumbis membra simpliciter as­sata requiro, dic de gallinis. Merula, w Altrove poi congetturava che fosse da dirsi : A xiu s : ego* que requiro . . . die, sodes, Merula, ed inter­pretava : «1 Et ego etiam in palumbis a su loram assam malo quam alio modo, qaod ia gallinis proprium, de gallinis notriendis narra naibi, Merula ; r> e crede di confermare la sua corre­zione con un passo di Apicio, nel lib. vi, cap 5, ove nel titolo assaturae si legge assaturam assam. Ma cosa ha mai a che fare in questo luogo assatura ? Meglio di tolti avrebbe fatto Gesnero, se per troppa riverenza a Vittorio, non avesse introdotto soltanto nelle note farturae, o farsurae , come si ha nelle prime edizioni. In luogo di de gallinis, dicasi piuttosto et gal­linis.

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(а) Ille igitur : Stati gallinae. Cosi havvi nelle edizioni «lei Giunti e di Ginnico : di fatti ora comincia Merula a parlare delle galline.

(3) Deinceps. Uriino avrebbe volato leggere: quas omnes fere habent, ovvero : quat fere omnes habent villae, perchè Columella, par­lando della gallina della caaa villereccia, dice : Cohortalis est avis, quae vulgo per omnes fere conspicitur villas. Che qui manchino al- cane parole, lo dimostra un fcodice Fiorentino, nel quale vi è aoa laguna tra deinceps e rure. Si potrebbe anche supplire oosì ( deinceps ut dieam ).

(4) Dal non trovarli nelle prime edizioni ed in tre codici ut avanti capiant, e dal leg­gerai in un codice Polizianeo vulut, ut, cioè vo­lani ut, ai è corretto il letto nel aegaente mo­do : De his. . . . volunt, ut, adhibita scientia ac cura, capiant, etc. Pii io, nel lib. x, cap. 5o, dioe che questi popoli aono itati 1 primi ad ingrassare il pollame; e qoesti tanto aono andati avanti in quest1 arte, che Cicerone dice, nel lib. li delle Qoeationi Accademiche, trovarsi Ira quei di Deio alcuni, i quali alla sola vista del- l'uovo pronunziavano con franoheaza quale era alala la falline che lo avea partorito.

(5) Admittant. Dicati piuttosto colle prime edizioni adnutriant.

(б) Pars quinta. Nelle prime edizioni si ha : scilicet que. Sa. pars r ; è da sospettarsi quin­di che in alcuni libri ai «ara letto : scilicet quasi pars quinta.

(y) A d infima crura. Schneidero, dietro tre ediiioni, corresse, facendo inurentes calcaria ad infima rumpantur, qual lezione voluta dal seato, e confermata da Columella, nel lib. vili, cap. a, ov-e leggesi : ferro candente calcaribus inustis, quae cum ignea vi consumta sunt, facta ulcera dum consanescant, figulari creta linuntur. Ursino voleva leggere semimares ca­pi. . . . inurentes infima . . rumpantur, ac

• quod, perchè dice che nei ondici havvi : ac quodoblinunt figulina ereta. Schueidero oon esita

un puuto nell1 adottare la correzione di Ursiuo oc quod. Plinio però, nel lib. x, sez. a5, ha : ca­strari gallos ait candente ferro lumbis adu­stis aut imis cruribus ; per lo che sarebbe da dirsi in Varroue : candenti fe rro inurentes lumbos aut calcaria ad infima crura, usque- dum consumantur. Questa maniera di castrare è antichissima, e si trova anche in Aristotele, nella Storia degli Animali, iv, 5o, cosicohè oon pare probabile che Varrone l1 abbia omessa, quantun­que 1’ abbia intralasciata Columella. Nessuno de­gli antichi parlò della castrazione ebe si fa ai gal­li, strappando ad esai i lealicoli ; operazione usa­

977

ta oggidì da tatti, mentre le altre dae si trascura­no totalmente. Vero si è che Columella dice : neo tamen id patiuntur genitalibus amissis, sed

ferro candente, etc. come un1 operazione disap­provata. Non potrebbe forae darsi che Varronal1 avesse intralasciata, appunto perchè la castra­zione lombare era disusata al suo tempo ? In un cibreo accennato da Apicio, nel lib. iv, cap. 3, si aggiungono * testiculi caponum : parimente Ga­leno, nel lib. in delle virtù degli alimenti, parla dei testicoli estratti agii animali, e che si mangia­no; ed aggiunge che per cibo si commendano soltanto i testicoli del pollame ingrassato. Se però alcuno volesse quindi ioferire che, perchè si parla dei testicoli estratti ai galli, fosse noia agli antichi qaesta maniera di capponare, si ingannerebbe di grosso parlando Galeno solamente dei testicoli estratti ai polli ingrassati; e questi appunto sono qoei testicoli mentovali da Apicio. Dunque è chia­ro che gli antichi ignoravano questa maniera di capponare.

(8) Sint licei. Scaligero corregge così : scili­cet ei genera tria parandum. Gesnero fa eoo a Scaligero, perchè io Poliziano si ha sic licei. Ursino poi legge: sint licei genera tria, paran­dum tamen villaticas. Piace più quest' ultima correzione della prima, perchè in questa si ripete che sonosi da apprettare tre specie di galline, che già di sopra si sono distintamente annoverate da Varrone.

(9) Ampla. Con Poliziano direi amplas ; e mollo piò perchè Columella ha nel luogo citato : rectis rutilisque crittis . . . et sub hae speci quam amplissimae. Ursino con Columella di­rebbe crista recta.

(10) Ursioo les«e in un vecchio codice : Gal­los salaces, quod animadvertunt : lezione da preferirsi ; ovvero da leggersi eoo-Gesnero ani­madvertuntur. Dopo salaces è da sottioleodersi eligat oportet.

(11) Pieno acuto. Columella ha : rostra bre­via et adunca: alcune edizioni omettono pieno; e Cresceniio meU* piene ara fo. Forse in origine sarà stalo scritto pene acuto.

(ia) Medicos. Nelle prime edizioni e nei co­dici di Poliziano e di Vittorio si ha Melicos: cotale vizio nella scrittura è rimbrottato da Fe- slo e da Columella, oel lib. vm, cap. a : Meiicae gallinae, quod in Media id genus avium cor­poris amplissimi fia t, L littera pro D substU tuta. L' islesso errore è corso nell1 erba medica, perchè Crescenzio, Alberto e gli altri scrittori dei medio evo, ed anche i recenti chiamano melica e melca quella che dagli odierni Italiani è chia­mata saggina, benché Vittorio creda che questa sia differente dalla medica degli antichi. Gl' Ita­

97»Di M. TERENZIO VARRONE

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liani chiamano saggina il miglio indioo , otiiaI1 holcus sorghum di Linneo, che avanti Piiuio fu trasportalo dall'1 odia nell'Italia, come alleala nel lib. xvm, cap. 7. I Bresciani sogliono chia­mare rnelga la melica, ossia la melca.

(i3) Quam in altitudine. Stando al testo, bi- segna dire che l1 altezza debba essere minore alquanto della largheiia, cioè meno di einqae piedi ; il che è un assurdo, perchè il custode del gallinaio bisognerebbe cbe stesse sempre curvo, nel tempo che dimora nelle capanne. Dunque, dice Ponlederà, è corrotta la voce in altitudine, ed invece è ila leggersi minores: quam in longi- tudine paullo humiliores. Crescenzio coù ha: parandus in quo duae caveae, id esc, mansio­nes conjunctae sunt, quae versus orientem spe­ctent et sint longitudinis circiter decem pe- dum , latitudinis paulo minus, in altitudine paulo humiliores ; e Columella, nel lib. vin, cap. 3, dice; totius officinae tres continuae extruunr- tur cellae, quarum perpetua frons orienti sit obversa. In ea deinde fronte exiguus detur unus omnino aditus mediae cellae% quae ipsa tribus minima debet esse in altitudinem et quoquoversus pedes septem ... Utraque cella longitudines et altitudines duodenos pedes habeant ; nec plus latitudinis quam media. Varrooe nomina qui soltanto due capanne, per­chè si riserba a parlare della tersa più avanti ; onde io questo si combina con Columella ; ma discordano nella misura. Comunque siasi, tanto Columella , quanto Crescenzio parlano dell1 al­leila ; ed è probabile che ne parli anche Var­rone. Secondo le leggi dell1 architettura, I' al­lena risolta dalla lunghezza e dalla larghezza ; e perciò qui dovrebbe essere di selle piedi : di fatti pare a noi che il testo dovrebbe essere mi- nores, altitudine paullo humiliores (longitu­dine).

0 4 ) Utraque fenestra. Crescenzio ha : una­quaeque habeat fenestra tripedalem uno pede altiorem ex viminibus factam raris . . . quid­quam intrare possit, quod nocere solet, etc. Columella voleva che i tavolali fossero illuminati da feneslre, e che di queste se ns trovsssero an­cora sotto i medesimi. Varrone parla di queste ultime, e Columella così dice : infra tabulata majores fenestrae aperiantur, et eae clathris muniantur, ne possint noxia irrepere anima­lia, sic tam en , ut illustria sint loca. Gesnero vuole che si corregga il testo corrente dietro le edizioni dei Giunti e di Gironico, le quali haono: utrisque fenestrae altitudine tripedali, vale a dire che iu tulle due le capanne si debbano fare parecchie fenestre. Così appunto va detto, come altresì è da dirsi con Cresceuiio uno pede

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ditiores. Qui iu Varrone non al ianoo parole dei tavolali che pure dovrebbero Irotarvisi ; ed è ragionevole il sospello che le parole mentovala nel cap. v, ove ai parla dell1 uccelliera dei tordi, dovessero trovarsi qui: vale a dire trasportare a questo luogo : In hoc tecto caveisque tabu­lata habeant aliquet ad perticae supplemen­tum ,,

( 15) Onde sia minore la nostra temerità, per aver trasportata ed agginnio, brevemente rende­remo regione della nostra operazione. Cre*ceo- 110 ba : inter ipsas duas sit estiuin, quo galli­narius curator . . . tractae sint. Queste parole di Varrope sono poste fuori di luogo, ed appar­tengono alla capanna del guardiano del galliuaee. Crescenzio omelie le parole ; Praeterea sit cella grandis, in qua curator habitet. Scaligero vuole cbe si tolgano le parole curator earum, oome uua glossa del vocabolo gallinarius, ed Ursino toglie gallinarius quala interpretazione di curator earum. Ursino per altro confessa cbe nei codici si legga sempliceaaeoie qua gelli- narius eorum; per lo che si conferma il su»pel-lo di Scaligero. 11 primo exsculpta è tralasciala

da Crescenzio ; ed è da ometterò, perché si ado­pera dopo, quando si parla eòa maggiore eccera- leiia della situazione da' nidi.

Cresceniio mette: Adsit quoque sterni dSxi, in luogo di ante sit, ut discL Qai Terrore è ma­nifesto, perché Yarrone non ha aocors parlata del vestibulo; uè iu questo le galline dimorano,* si rivolgono nella polvere, ma si posano in esso per discendere, o per salire al nido. Che sia così, si senta Columella : ila crassos parietes aedifi­care convenit, ut exisa per ordinem gallina- rum cubilia recipiant ... hoc eaim salubrius et elegantius est, quam quod quidam faciun t, ut palis in parietem vehementer actis vimineos qualos super imponant. Sive autem parieti­bus cavatis sive qualis vimineis praeponende erunt vestibula, per quae matrices ad cubilia perveniant. Ma 1« galline che stauuo rinchiuse, debbono avere un ampio vestibulo, circoodato da reli, ove possaoo passare a godere il sole, come si ha da Columella, nel lib. vili, cap. 4 : habere etiam clausum oportet amplum vestibulum^ quo prodeat et ubi apricetur, idque sit retibus munitum , ne aquila vel accipiter involet. Dao* que è da aggiungersi amplum al primo vestibu­lum, perchè le galliue che si tenguuo rinchiuse, debbono avere un cortile ove passare. Columella dunque ci è sialo di acorta nelP aggiungere : ante sit vestibulum positum* ubi consistere possint, cum descendunt vel adscendunt. Veg­gasi la nota Sa.

Ursiuo \ ole va cbe si leggesse : ita ut in pa-

laàNlNOTAZIOHI AL LIB. HI D b KK RUSTICA

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DI M. TERENZIO VARRONE

rietibuf circum omnia plena sint cubilibus gallinarum aut exis is aut affixis. La lezione plena sint si è omessa: Vittorio «letto non ha ardito di accettarla. Ora mettiamo per disteso il letto da noi volgarizzalo : gallinis. Praeterea sit cella grandis, in qua curator habitet : in- ter ipsas duas sit ostium, quo gallinarius ire possit. Adsit quoque amplum vestibulum rete septum, in quo diurno tempore esse possint, atque in pulvere volutari. In caveis crebrae perticae trajectae sinty ut omnes sustinere possint gallinas. Contra singulas perticas in pariete sint cubilia earum, ita, ut in parieti- bus circum ordine posita sint cubilia gallina- rum, aut exsculpta, aut afficta firm iter ; mo­tus enim cum incubant nocet. Ante sit vesti­bulum positum , ubi consistere possint, cum descendunt vel ascendunt.

(16) E t caetera. Crescenzio ha : eo quod pu­lices et alia nasci solent, quae gallinas quie­scere, etc. ; e Colameli», nel cap. 5, dioe : nam pulicibus aliisque similibus animalibus replen­tur ; per lo che *iamo tentati a dire con Crescen­zio pulices et alia animalia. Pontedera voleva rhe in Varrone si sostituisse pedibus, o pediculis, ed in Columella pedes, perchè le*galline sono tnoleslale particolarmente dai pidocchi pollini, Don già dalle pulci. Varrone dice pià sotto : a col­lo eorum crebro eligendi pedes. Le palline sono incomodale, oltre le pulci, anche dai pidocchi e dalle zecche ; insetti che tono annoverati da Lin- beo nella classe degli aeari che camminano eoa otto piedi. Quegli insetti cbe molestano le colom~ be, sono chiamati da Crescenzio sexcupedes, cioè pidocchi.

(17) Secondo Urtino, qoi mancano delle pa­role, come si raccoglie dai Georgici greci, i quali hanno tradotto questo passo di Varrone. Da que­sti si accennano due tempi, uno pel parto, cioè dallo spirare del Favonio sino all' equinozio ; ed ùno per la covazione, cioè principiando dallo stesso eqainozio di primavera. I copisti hanno realmente corrotto questo Inogo: frattauto dicasi con Crescenzio ab aequinoctio.

(16) Potius vetulis. Questo testo si accorda colle prime edizioni, coi Georgici greci e con Columella, nel lib. vm, cap. 2, il quale avverte inoltre cbe le galline fornite di sproni sono reilie *1 coìto, e che cogli slessi rompono le uova, quan­do covano. Varrone non vuole che le galline ab­biano il becco e le unghie acote, affinchè non rompano le uova o rivoltandole, o covandole. Laonde è da maravigliarsi, come in questo luogo e nella descrizione della gallioa, non abbia fatto parole degli sproni. La lezione di Vittorio è da •^provarsi in quitto, che alle veeehie galline ri

danno a covare le nova, non già, come in an1 an­tica lezione, si daono a covare le nova partorite dalle vecchie galline ; il che dice anche Columella : novellae magis edendis quam excludendis ovis utiliores sun t... veteranas igitur aves ad hanc rem eligi oportebit, quae jam saepius id fece­rint, moresque earum maxime pernosci, quo­niam aliae melius excludunt, aliae editos pul­los commodius educant. Il rimanente del pasto di Varrone ai può accomodare, dietro an' antica edizione di Crescenzio, nel seguente modo: non sunt supponenda, et ea quae subjicias, vetulis potius, et quae rostra aut ungues non habent acutos. Nam pullastrae, debent potius in con­cipiendo et ovando occuputae esse, quam in cubando. Aggiustando Varrone con Crescenzio, ne viene che il verbo ovare è di Varrone slesto* Plinio, nel (ih. xxix, cap. 3, usò la voce ovatio, Turnebo, Adversar., xix, cap. 28, voleva che io luogo di pullastris si leggeste pullinis: Scaligero preferiva pullitris, o pulletris, perchè le pulla­strae sono, secondo Ini, le galline nane; e per contrario le puìlitraa quelle cbe non ancora, o non mollo lunno partorito : in qaesto sanso si chiama anche porcetra la troia. Dell'opinione di Scaligero è anche Pontedera : Urtino loda pul- licis, qual lezione di un antico codice. Noi stia­mo per pullastrae, perchè così havvi in un anti­chissimo codice Polizianeo, ed in an’ antica edi­zione di Crescenzio.

(19) Gesnero ben si avvide che la sintassi ri­cercava che qui ti dicesse fovere coeperunt ; ma ti può far di meno, perchè quattro codici Fio­rentini hanoo subjicias ed exeudat. Dunque coepit ed exeudat ti riferiscono ad una sola gal­lina ; per conseguenza colle prime edizioni e col menzionati codiei si faccia che il lesto sia: subji­cias, cum jam decem dies fovere coepit, galli­nacea tum denique . . . ut una exeudat.

(20) Ter noveni. Columella, nel cap. 1 r, dice: decimo die omnia gallinacea subtrahantur, el totidem recentia ejusdem generis supponan­tur, ut trigesima luna (hoc est expletis triginta diebus, aggiunge Palladio), cum pavoninis ex­cludantur: così hanno pore Palladio, I. xxvnr, ed i Georgici greci, xiv, 18.Si fi quindi manifeste 1' errore del nostro testo col meltere ter noveni. Oscuramente avvertì questo errore Turnebo, Ad- vers., viti, 8, ove non è stato inteso da Gesnero. Vero si è che Columella, nel oap. 5 del lib. vnr, dice : diebus ter septenis opus est gallinaceo generi, at pavonino et anserino paulo amplimi ter novenis ; ma è d 'avvertirsi che il numero de' giorni si accresce, o diminuisce, secondo il calore della stagione.

(2*) Ursino, appoggiato ai Georgici greci,

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«83 ANNOTAZIONI AL LIB. Ili DE RE RUSTICA 98 4

corresse datur ia detur: coti pure ba Crescendo,il quale, unitamente alle edizioni dei Giunti a di £imnico, omette a avanti mane.

(aa) Colale metodo di rivolgere le uova, è condannato da alcuni, perchè lemono che ti possa danneggiare il pulcino. Ma senza ragione ti opera tanto da una parte, quanlo dall'altra; perchè non è mestieri di rivolgerle, facendo quest’ ope­ratione la stessa gallina; e d’ altronde il germe essendo posto nella parte superiore dell’ uovo, non ha bisogno di essere rivolto per essere riscal­dato ugualmente in lutl'i punti, perchè gii la gallina lo riscalda, qualunque aia la situazione dell' uovo* Per la medesima ragione è vano il timone di quelli che credono, che battendo le nova, si rompano i primi principii e V orditura del pulcino.

(23) In eis vitales venas. Le prime ediiioni ed i codici di Vittorio mettono inanes vitales ; laonde Scaligero voleva che si dicesse u quod inas vitales, cioè venas. Festo: llia dieta ab ina, quae pars chartae est tenuissima. Marcello Empirico, cap. 3 i, ha : ad ulcera in ano facta chartae combustae seu i narum ejus dracma, t: e questa voce la fa derivare da /ri;, vale a dire jibrae ; e ciò conferma coll1 auloiilà dei Georgici greci. Per contrario Ursino dalle tracce di un* an­tica lezione traeva animales vitales venas, ci­tando Plinio, nel lib. x, sez. a5. ove dice : Quarto die postquam coepere incubari, si oontra lu­men cacumine ovorum apprehenso una manu, purus et unius modi perluceat colort sterilia existimantur esse, proque eis alia substituen­da^ E t in aqua est experimentum: inane flu i­ta t: itaque sedentia, hoc est plena, subjici vo­lunt. Concuti vero experimento vetant, quo­niam non gignant confusis vitalibus venis. Salmasio, ad Solinum, cap. 3o, pag. 378, è con Scaligero. Finalmente Pontedera legge inanes vitales venas, perché le vene sono, secondo lui, vacue nel loro principio; ed essendo vacue e de­boli, facilmente si confondono, u Mihi placet in­nantes venas vitales confundant ( dice Schnei­dero ) ; quod probabunt, qui naturam ovornm et puocli salientis cognitam habent. r> Non sappiamo cosa intenda colla voce innantes: d'altronde bisogna ricordarli che le teorie fisiologiche d1 og­gidì non si confanno colle antiche ; ed alle volle col dire il vero, ai dioa il falso. Noi ci siamo al­lontanali dal testo.

(a4) In iis. Gesnero approva con ragione la variante in iisdem delle prime edizioni. Tolgati ob avanti inane, perchè non si può dire obinane, come in greco i/roxuw, iu quella guisa che pen­sava Scaligero.

(a5) Crescenzio ha: quae optime servari

possunt diu si perfricantur ...per tres horas, deinde abluantur et furfure ac paleis recon­dantur. Per altro Cretee oca o mette qaeste parola nella fine del capitolo ; e dopo le parole ob inane aggiunge tosto : Ova oblunga acuta masculos, rotunda foeminas tribuunt. Insuper ponenda , etc. Lo stesso insegna Columella, ooo già Palladio, nel lib. vili, cap. 5 ; e perciò Crescenzio non tolse queste parole ohe da Varroae atetto. Bechstein, nella Storia Naturale degli uccelli di Germania, ha scoperto testé che le uova allungate non dauno che volatili di collo lungo.

(a6) Crescenzio dice: insuper ponenda . . . . incubantur, habeant semen pulli nec n e . . . . postquam incubare coeperit; onde sarebbe da leggere habeant semen pulli, nec ne, come dice di so|>ra ova plena sint atque utilia, nec ne. È chiaro eh1 è da dirti con Pliuio coeperunt in luogo di coepit. 11 oorrente tatto non è senza er­rori : Crescenzio mette: tenuerit et purum quod unius modi animadvertit esse ; quindi ti dica : tenuti, quod purum et unius modi esse ani­madvertit, etc.

(27) Quatto testo noo è genuino. A chi mai, dice Schneidero, si riferiscono le parole ab ea- quer Varrone prescrive che dai nidi si tolgano i pulciui subilochè sooo nati ; e che restando po­che uova, qaeste si dieoo a covare alle galline che non ancora fecero schiudere i pulciai. Dunque si è dello ab eaque% comechè avanti aveste dello de unaquaque matre% o gallina che covasse. Fino a qui lutto cammina a dovere. Ma cbe cosa vogliono mai dire le seguenti parole : ct minus habent triginta pullos ? cootinua Schoeidavo. « Qaae noii lum excuderunt oia, iitdem reliqua ovatup- pooi vult; et tamen tubJil: quae minus 3opul­los habent. At omnino nondum habeul ilUe pul­los ! Igitur locus est vitiosus el lacaoosos. » Crede dunque che a questo luogo debbaosi trasportare le parole che si accenneranno neU’ annot. 34*

(28) Non sono minori le alterazioni del testo in questo Inogo. Crescenzio dice : prim is pullis debet objici pulvis, ne rostris .... dura* eisqme milium optimum et lolium et grana minuta tritici satis competunt ; sed gallinarum pabu­la sunt, quibus praecipue delectantur; vermi- culi, triticum et fere omnia grana, et praeci­pue dandum est eis lolium, quod eis competit et hoc est humano corpori inimicum : e Colu­mella. ha : fa rre ordeaceo cum aqua incocto* vel adoreo farre* vino resperso* modice alendi sunt, priusque, quam emittantur ad recentem cibum^ singuli tentandi, ne quid hesterni ha­beant in gutture ; nam si vacua non est inglu­vies, cruditatem significat* abstinerique de* bentt dum concoquant.... c^fgrina hordeacei

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p u ta n d i dmm corroborentur, cavendumque neo serpentibus afflentur, quorum odor tam pe­stilens est, ut interimat universos ; id vitatur saepius intento cernu cervino. 1 Georgici grtci aominano pire il farro e il vino u t , 9; laonde Pontedera voleva una volta leggere: et aqua aliquanta antefarre intrita ;t*\ un’ altra volta: et aqua aliquando ante tactam et vino, ne tum denique, etc. Ma è da dubbiarti mollissimo se i Georgici greci e Columella abbiano votolo copiare hi qaesto luogo Varrooe ; perchè i primi omettono molte cose, ed il secondo ne aggiunge mollissime. Pare che anticamente sari stato scritlò : et ne tum denique .... turgescat aqua, prohibendum.10 mancanza di migliori aiuti, siamo siati attac­cati al testo.

(29) Continuano lotiora i guai nel testo. Ur- amo conobbe che qai v* è ooa lacuna ; e credette di supplirvi, facendo che il lesto foste: quom eoeperint habere pinnas, eae de clunibus evel­lendae : rea oon peosò 1’ a orno grande ohe le pinnae non nascono in clunibus, e che ivi hanoo luogo soltanto te plumae. Columella disse: pri- mis pertractandi sunt, plumulaeque subcauda clunibus dttrahendaey ne stercore coinquina­tae durescanty et naturalia praecludant ; e

Varrone, insegnando di sotto ad ingrassare il pol­lame, dice che ciò si ottiene evulsis ex alis pin ­nis et e cauda. Ma qiri fa molto a proposito oo passo di Columella, uel lib. vm, cap. 8, ove parla del modo d 'ingrassare il pollame : pluma omnis e capite et sub alis atque clunibus detergetur ; illic, ne pediculum creety hic, ne stercore loca naturalia exulceret : per lo che è da sospettarsi ehe anticamente sarà stalo scritto : Quando coe­perint habere pinnas, de clunibus detergendum st ere us y e capile et e collo crebro eligendi pe­des, Columella nomina i clunes sotto la coda. Si chiama con lai voce propriamente Posso lomba­re, composto per lo più di cinqae vertebre.

(So) Intorno alle proprietà del eoroo di cervo veggasi Tomm. Bartolino de Vnicornuy cap. 33,11 quale vorrebbe leggere con Poliziano ne qua serpens accedat.

(3i) Cretceozio, dopo le parole noceat terra dura, meotovale nelPannot. 28, così continua: pulii parvi proferendi sunt ad solem et ster­quilinium ut in eo volutari possinty quod ita validiores fiun t: per contrario le prime edizioni hanno : prodigere deinde solent in sterquili­nium, ut volutare possint ; e perciò Ursroo vo­leva leggere : prodigere solent in sterquilinium , ubi se volutare possint. Vittorio difende la le­gione Poliiianea ut volitare possint ; ma ognuno •a che i pulcini nog volano che rare volte, e che volato anche rateale terra: le galline poi non «I

M. Tbibiiio Vaeboik

9 »

dilettano di volare Dicasi con Crescenzio : prodi­gendi in solem et in sterquilinium , ubi valu­tari possint, 1 pulcini sul letamaio non diventano alibiliores, ma ben» validiores, perchè con quel moto replioaio esercitano il corpo ; si prefe­risca dunque la lezione di Crescenzio validiores.

(32) Solameote in queslo luogo si parla del vestibolo ; e i questo luogo appunto andava tras­portalo : ante sit .... volutari. Il passo parallelo di Columella, riferito nelP annoi. i 5, dimostra chiarameute che queste parole debbono trotafsi qui. Nessuno dei coramenthlorl, fuori di Schofci- dero, ha sospettato di una lacuna: se non altro s’ indichi la stessa dopo mollis. Abbiamo credalo necessario di aggiungere nella traduzione: L'am­pio vestibulo, come ho detto ; «bramenti il leg­gitore non avrebbe saputo di che si parlaste. Colle prime edizioni dicasi atque in apricum.

(33) Evitantem. Noo beo ai unisce qaesta voce colle •antecedenti. Urtino, appoggiato ad on vecchio codice, voleva leggere evitandum calo- rem ; ma dioasi colle prime edizioni: evitare item .

(34) Negli altri scrittori non ti ha nn passo parallelo : solo Columella, nel lib* vui, cap. 5, ha : pulli autem duarum aut trium avium exclusi, dum adhuc teneri sunt, ad unam quae sit me­lior nutrix transferri debent.... negant enim hoc ampliorem gregem posse ab urm nutriri. Dalle serie di queslo discorso pare a Schneidero che queste parole sieno distaccale dalle superiori, accennale alP anoot. 27 : u Ibi igitur sequi debe­bant haec verba Varronis, quibus modum adhi­bere debebant verba: hoc enim gregem majo­rem non faciendum . Legendum tamen esse cen­seo : Antequam pinnas halkbunt. Nam primo quoque die transferendos esse, monet Colameli, dum maler snos et alieoot propter similitudioen* dignoscere noo possit. Nihil mulal Crescentius, qui haec verba subjecit superioribus alibiliores

fiun t.n(35) Villaticis, Ursioo crede spuria qoesta

voce; e Gesnero scioccamente voleva che ti leg­gesse : De avibus villaticis: perchè le galline oon si possono chiamare augelli, quantuuqoe ciò abbia fallo Columella oel cap. 8 del lib. iv, ove, parlando dette galline, disse : maximam quam­que avem lautioribus epulis destinare,

(36) Salmasio, ad Solinumy pag. io5, voleva ehe le galline selvatiche fossero i francolini : Ge­nero e Baooero credono che sieno i Csggiaoi, e Schoettgenlo è di parere che sieoo uoa specie di tetraone, chiamalo dai Francesi coq debois, ov­verofaisand bruyanty e dai Tedeschi haselhuhn. Ma tolti s ' ingannano, perchè la gallica tei va tic* è qoella ehe si chiama dagli scrittori Romani

9 8 6DI M. TERENZIO VARRONE

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987 ANNOTAZIONI AL LIB. IH DE RE RUS11CA 9**

perdix grisea, Dativa d' Italia, e diverta dalla perdix rubra graeca, come dimostrò Schneide­ro in Comment. ad Frideric. //.

Non his villaticis. Il contrario iotegoa Co- lamella, nel cap. a del lib. vm : rustica quae non dissimilis villaticae per aucupem decipi- tur , eaque plurima est in insula, quam in L i- gustico mari sitam producto nomine alitis Gallinariam vocarunt. Dietro dunque Cola­mella, Scaligero interpretava che fosse da dirsi : non solum his villaticis . . . sed etiam A frica­nis. Popma è con Scaligero ; e tutti due riferì- «cono Tarti etempii di simili reticenze. Tutto va bene; ma come ti accorda ciò con cinque codici, i quali mettono non hic villaticis ? Dunque bi­sogna interpretare Varroue coti : rusticas gal­linas similes facie non hic villaticis nostris gallinis, sed villaticis Africanis.

(37) Scaligero crede che sieno di altrui mano le parole aspectu ac facie ; e perciò corregge : ln conto miniato in ornatibus, etc. Schneidero è persuato che qui non ti parli della gallina sal- Tatica, come quella che è nativa di Italia; ed es­tendo tale, non poteva mettersi tra le rarità ed a petto dei pappagalli : laonde è di parere che siavi una laguna, e che tiensi perdute alcune pa­role relative alla pernice greca e rotta. Chi per altro non vuole dipartirsi da cinqae codici, leg­gerà ; incontaminatae in ornatibus, etc., Tale

a dire che queste galline selvatiche non ti colo­rivano, quando ti offrivano al pubblico, per es­sere di per sè stette bellitsime. Per beo inten­dere qaanto dice qui Varrooe, è da saperti che i magittraii che davano io Roma qualche spetta­colo, erano solili di colorire col minio non soloi bastoni, sui quali erano appollaiati gli uccelli stranieri, ma ancora gli uccelli medesimi, e tutte le rarità che esponevano alla curiosità del popo­lo. Vi tono i ta l i anche alcuni trionfatori, come Camillo, i quali abbellirono di minio di loro vito

nella cerimonia del trionfo. Quest1 aria trion­fante è tanto piaciuta alle oostre donne, che si direbbe volentieri col nostro autore nel cap. a, che il lusso è giunto a tal grado, che ai potrebbe quasi dire esservi lutt’ i giorni dei trionfi in Ve­nezia.

(38) Tutto queslo luogo è stato alterato, come ben lo dimostrano le molteplici varianti. I nomi delle città qui mentovate sono certamente di al­trui mano, ed inseriti ove non era a proposito. Di fatti, dopo di avere detto che l1 isola Gallina- ria è in vicinanza dell1 Italia e rimpetto i monti della Liguria, non era uecessario inculcare nuo­vamente chc T isola trovasi dirimpetto Vinlirai- glia ed Albenga. L1 isola Gallinaria si chiama og­gidì isola d1 Albenga.

(39) A lii. È da scartarsi la leziooe aliis delle prime edizioni. Se è sana quella del lesto, è da interpretarsi come abbiamo tradotto. Ci piace la correzione di Gian franeosco Gronovio procrea .- tos volunt. Columella non parla di qaesta secoo- da maniera.

(40) Plinio, nel lib. x, cap. 26, dice che la tomba di Meleagro in Beozia, è stata qoella che le ha rese celebri ; e che si eono coti chiamale, perchè iu certi tempi porlavaosi presso qoesta tomba per ballerai ; in quella guisa che dall' fc- tiopia si portaTaoo tutti gli anni a Troia, per bat­tersi sopra la tomba di Memnooe, e che quindi ti tono chiamale Memnonidae. Checché siane di questi racconti, è facile decidere di qaale specie erano queste galline. Varrone e Plinio accertano che queste sono galline africane ; Columella pa­re, nel lib. vm, cap. a, è di quest’ opinione, quantunque dica che il loro colore differisce da quelle di Numidia, le quali sooo parimente à* A- frica. Salmasio, Scaligero e molti altri autori vogliono che queste aieno le nottre galline d ' Io- dia. Altri pretendono per contrario che i nostri polli d’ India non abbiano alcano di qoe' carat­teri distintivi che Ateneo, nel lib. xiv, dà nella descrizione delle meleagridi. Di fatti la prim cosa che dice Ateneo, si è, che ette rassomigliano al pollame comune : ora egli è certo 000 esservi pollame comuue, per grande che tia, che possa essere paragonato al più picciolo pollo d' India. Ma ciò che prova iuconlrastabilmente la falsità di questa opinione, si è, che i polli d’ India d sono stali portali dall1 America, ignota agli an­tichi .

(40 Genearium. Turoebo legge in tricli­nium coenae avium , ed interpreta avium missus et fercula. Scaligero, trasportando alcnne lette­re, corregge genianum , e lo fa derivare d a re ­mo. Per contrario Ursino crede che sia aoa glossa di triclinium. Pontedera dalla variante genavium trae alienigenarum , dicendo Pliuio : quae novissimae sunt peregrinarum avium in mensas receptae propter ingratum virus. Noi

‘ preferiamo quest1 ultima correzione.(4a) Abbondiamo di simili etempii di cor­

ruzione di lingua. Teli è moglie di Peleo re di Tessaglia, figlia del dio marino Nereo, e ma­dre di Achille.

(43) Si è tradotto secondo la correzione di Ursioo similitudinem amplae omnes.

(44) Columella, nel cap. 7 del lib. tui, strap­pa la piuma da tutto il capo e quella sotto le ale ed alle cosce per impedire la generazione de1 pidocchi e delle ulcere. I Georgici greci, xiv, 7, strappano le penne dalle le, affinché il pol­lame, stando rinchiato, perda il detiderio di to-

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lare. Noo si fede poi le ragione, perchè voglia che si strappino aoehe le penne dalla coda. Co­lumella nel luogo citalo fa che da uoa parte della gabbia esca il capo, e dall’ opposto la co­da e la groppa. Vero si è che in tal modo si imbrattano anche le peone della coda, ma que­ste non produrranno giammai ulcere, come ac­ca il crebbe lasciando sussistere le piarne fra le cosce. Pare dunque che oel testo di Varrooe sia nata una qualche corrottela.

(45) Turundis. Abbiamo tradotto secondo la interpretazione di Scaligero. Colamella le chia­ma offae.

(46) Partim. Qneila voce significa qui a/i7, come si rileva anche da Columella nel luogo ci­tato.

(4?) Qyam secundum. Ci piacerebbe dire antequam secundum.

(48) Quum perpurgarunt. Colale faccenda la debbe fare il pollame stesso, come si raccoglie anche da Columella : Cum deinde satiata est avis . . . si quid est quod eam stimulet aut mordeat, rostro persequatur.

(49) Ac decem primis processit. Scaligero ed Ursino trovano soltanto d' avvertire che pro­cessit è in significalo di processerit, qaando colle prime edizioni è da cangiarsi ac in sicut, da dirsi diminuant, e da leggersi pari (scilicet ratione )y ovvero sint pares.

C i p . X. ( t) Da àfjtpay che vuol dire due, e da @{o( vita ; come chi dicesse di animali che hanno due generi di vita, Tona peli’ acqua, e l'altra •opra la terra. Poeo dopo Ursino, in luogo di ulta, leggerebbe sola ; ma è meglio dire con Gesnero una.

(a) Da TQ°1 dire oca, e da (Mvxitfyche significa nodrire.

(3) Di queslo si è parlato nel lib. ni, cap. a. Egli è P. Scipione Nasica, adottato da Metello Pio ; e perciò chiamato Q.Cecilio Metello Pio Scipione.

(4) Columella, nel lib. vm, cap. i 4* ha: ut mares foeminaeque quam amplissimi corporis et albi coloris eligantur: nam est aliud genus varium, quod a fe ro mitigatum domesticum factum est: id neque aeque foecundum est, nec iam pretiosum : propter quod minime nu­triendum est. Da questo passo si rileva essersi alterato il lesto di Varrone. Le prime ediziooi hanno nec non aeque f i t inconsuetus ; dal che Pontedera trae nec non aeque f i t inconsuetum, come si ha nel codice Veneto. Sarebbe bene cbe vi avesse aggiunta l ' interpretazione.

(5) Vittorio corresse così dietro Colamella, il qaale ha anseribus admittendis ; ma i codici

9®9

Polizianeo e Sangermanense mettono anseribus ad admittendum : così si faccia in Varrone.

(6) Inungentur. Tuti’ i commentatori o lo­dano questa voce, ovvero ne mettono an' altra equivalente. Il solo Pontedera mette exin ungun­tur,, perchè Varrone vuole che dopo il coito s ' im­mergano nell' acqua, come per purificarsi. E da dirsi dein merguntur in flumine, aut piscina, perchè hanno quasi lo slesso le prime edizioni, perchè Arisloiele, sialo molle volte codiato da Varrone, nel lib. vi, a della Storia degli Animali, è di quest'opinione, e perchè il Callo ciò confer­ma. L' anonimo autore appresso Vincenzo, xvi, cap. 5o, dice: post coitum frequenti caudae motu et rostri se aquis immergens (il cigno) purificat. Alberto il grande, pag. a33 : post coi­tum sicut et ceterae aves aquaticae% immer­gunt se aquis tam mas, quam foemina. Veg­gasi anche Schneidero, Comment. ad Fride- ric. II.

(7) Quater. Columella ha singulaeque ter anno pariunt ; laonde dicasi quam ter con Ur­sino, Popma e Pinziano.

(8) Circum pedes. Columella, nel lib. vnr, cap. 14, prescrive che ogni Soggetta abbia tre piedi in tutt'i sensi. Gesnero voleva leggere cir­citer ; ma Varrone vuole dir quoquo versus.

(9) Columella nel citato laogo, ed i Geòrgie! greci, xiv, 22, si acaordauo con Varrooe; ma la sperienia dimostra il coalrario, non essendovi dounicciuola, la quale non possa contraddire sa quest'articolo.

(10) Quinque diebus. Colamella insegna il contrario : decem primis diebus pascitur in hara clausus cum matre, postea, cum sereni­tas permittit, producitur in prata et ad pisci­nas. Lo stesso dicono Palladio ed i Georgici greci: laonde Ursino voleva che si dicesse anche in Var­rone decem diebus.

(11) Dicasi con Ursino in quasy perchè si ri­ferisce ad haras. Poliziano e Crescenzio mettono includant. Pontedera pare è persuaso di indù- eant, quantunque Vittorio non abbia osalo di adottare questa lezione, perchè più sotto dice Varrone : cum autem sunt inclusi in haras% aut speluncas^ ut dixi. E daoque probabile ehe in questo luogo Varrone avrà scritto specus in laogo di subtus: noi abbiamo creduto bene di tradurre specus.

(12) Ubi pabulum. Pontedera vuole ehe die­tro le prime edizioni si faccia locis. E t pabulum., perchè, secondo 1' autorità di Columella, o piut­tosto di Palladio, le oche offendono col loro becoo tati' i seminati, e gli sporcano collo sterco ; per conpegaenz&oon si potrà raccogliere alcun fratto, ove le oobe pascoleranno. Ma Columella, nel

99°DI M. TERENZIO VARRONE

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ANNOTAZIONI AL LIB. Ul DE KE RUSTICA 9 9 1

cap. i3, dice : sicubi flumen aut ìacus est, her- baeque copia, nec minus (ovvero nimis, il cbe è meglio) juxta satae fruges , id quoque genus nutriendum est. Palladio per cootrario.ha l.xxz: anser nec sine herba, nec sine aqua facile sustinetur ; locis consitis inimicus est, quia sata et morsu laedit et stercore polluit. Var rone per ellro non discorda in questo luogo da Columella, perchè questi nel cap. *4 dice: palu- stris quoque sed herbidus ager destinetur, atque alia pabula conserantur, ut vicia, trifo­lium,foenum graecum, sed praecipue genus intubi, quod Graeci riftv appellant. Dunque 1« oche si facciano pascolare Ira quesli seminati, ai quali noo cuoceranno. Varrone poi iotende, per piaote che producano qualche fratto, U veocia e gli altri legumi nominati da Columella.

l i 3) Seruntque his. Ursino è di opinione che aia da dirsi sed praecipue herbam, e p*nsa ohe da sed sia nato serant. Pontedera pretende cbe veda lelloyjrraf, plerumque his. Si crede che il seris sia una specie di cicorea, che si chiama endivia.

(14) Columella dice : cavendum e s t . . . . ne esuriens m ittatur in pascuumt sed ante con­cisi* intubis vel lactucae fo liis saturetur ; nam s i adhuc parum firmus et indigens ciborum pervenit in pascuum, fruticibus aut solidiori­bus herbis obluctatur ita pertinaciter, ut coi Ium abrumpat. Si T e d e dunque che Columella ba letto in Varrooe fruticem , non già radicem. È bensì Tero che in Plinio, nel lib. x, sez. 29, si l e g g e : quando apprehensa radice morsu saepe tonantes avellere ante colla sua abrumpunt.1 commentatori vorrebbero leggere in tutti que­sti lnogbi il verbo obrumpere. Egli è cerio che veramente il collo noo va soggetto a rottura, ma bensì a lussazione. Per altro è chiaro che i copisti banno (orbato qoesto luogo, poiché qoesle parole aono relative alle oche aocora picciole, e le prime tpettaoo a l le oche adulte.

(15) Ut in seri dixi. Le prime edizioni ed i codici variano tra di loro in queito luogo ; laonde è chiaro che il testo è corrotto. Ora chiama fa r ­rago ciò che di sopra nominò pabulum, Tale a dire la veccia, il trifoglio ed il fieno greco.

(16) Colamella nei primi cinque giorni, da die sooo nate le oche, da ad esse della polenta, o del farro ammollilo nell1 acqua, come usa coi p a T o n i | perchè nessuno, che sia di sana mente, darà alle oche di questa età l1 orto senz1 alcuna preparazione. Beocbè miuore sia la difficolti, dando Torio ammollito nell1 acqua, nulla di meno a questa prima età oon ben s'addice cotale orzo; sarebbe quindi più ragionevole il leggere ordea- ceum far, chiamandosi così ogoi specie di grano

macinato minatamente. Aggiungasi ebe Varrooe poco depo dice; cum autem sunt inclusi haras% aut speluncas, u t d ixi, victui objiciunt his polentam ordeaceam , aut farraginem, her- bamve teneram aliquam concisam. Consta dun­que chiaramente cbe cotale luogo è alalo alterato a capriccio dai copisti.

(17) Sexquimense. Le prime ediiioni beano sex qui menses . . . nati; quindi Ursioo corresse sesquimenses. Ma nessuno ingrassa di qoesl1 età le oche. Columella ha: mox ubi quatmor men­sium fa c ti sunt, farturae maximus qmisqmt destinatur : lo slesso pare ha Palladio. E dunque secondo la uà tura e 1* autorità il correggere così : quatuor sexve menses nati.

(18) Ut per dies. Io questo luogo v* è discre­panza nelle varianti. Ursino lesse molto bene ter in die saturent, perchè Columella e Palladio di­cono appunto lo stesso.

(19) Sumserunt. Qoi è da intendersi il cibo.

Cap. XI. (1) Colamella ehe ba attioto a que­sto luogo, non U nemnteno meaiique di questa porta.

(2) Columella ha: Ora lacus ne corrumpan* fur violentia restagnantis undae, quae semptr interfluere debety opere signino consternuntur, eaque non in gradus oportet erigi* sed paula- tim clivo subsidere v ut tanquam e litorc de- scendatur in aquam. Columella dunque chia­ma ora lacus ciò che Varrooe dice vestibulum. Qui si accorgerà ognuoo che i oopisti haono allo­ra lo quasi tutto questo capitolo.

(3) Vinacei, uvae. Pontedera a tutta ragione vuole che si tolga la voce uvae, perché nessuno che sia di sana mente darà per cibo alle anitre dell1 uva. Le vinacce poi, non già Tuta, si danno alle anitre da Varrooe, Columella, Palladio Pli­nio e Didimo. Se quesf ultime voce non si voole togliere, almeno si faccia vinacei ex uva , come già disse Varrooe parlando dei porci: dari solent vinacea ac scopi em uva.

(4) Columella ha : Aquatilibus arnUm cihiss si sit facultas, dmiur camma rUs té rivalis ale- cula, vel si qua sunt incrementi parvi fluvio- rum animalia. Queslo luogo è corrotto; ovvero, ove si legge ex a qua, è da intendersi in Verrette aquatiles cibos, perohè i gamberi stauuu tulli nell1 acqua. Vero si è che si dà una specie di gamberi terresH che sono amfibiii ma questi, ohe si chiamano da Linneo cancri curtores, erano ignorati dagli antichi, ovvero molto eoo- cernente ne hanno parlato, e da essi furoao detti equites Syriae.

(5) É da scriversi phaleridte oelle prime

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DI M. TERENZIO VARRONE 994

editioni, i come ai dirà oel lib. ?ui, cap. >4 di Colamella. Il padre Ardui no nelle aoe annet. lib. x, cap. 48 di Plioio, dice che sa ae trovano molta ae' cooloroi di Soissoas e di Beauvais, o cbe ai conoscono sotto il nome di pieties.

(6) Qoaalo dica Varrone, lo asserisce talla autorità di Archelao corae fa pare aache Aristo­tele e Plinio, il quale nel lib. x , m i . 5 i , rac­conta altre meraviglie di questa natura, tutte relative alla facilità che hanno le pernici di con­cepire, aeaxa essere loccate dal maschio. Qaesta fefola si appoggia alla aorpreadeole libidiut di tutte due le specie delle pernici, le qaali o aden­do la voce del maschio, ovvero comprimendosi scambievolmente e titillandosi le parti geniUli, gettano fuori bensì le uova, ma infeconde. Da qoeslo è da ripetersi forse 1' errore di Archelao.

(7) Urtino vorrebbe leggere eoo no vecchio codice, e come hanno le prime edizioni et sic pascendo. Non ti ta peraltro comprendere, come le pernici possano trovarsi ia compagnia dei volatili acquatici, quando quelle amano on vitto campereccio. Il testo è stalo pur troppo lace­rato ed alterato. Se poi il testo è sano, qui à da intendersi la pernice rossa o greca, trala­sciata da Columella; perocché questi vuole che la volgare bigia o rustica, mangi in libertà nella casa rusticana, quantunque ivi oon partorisca nova.

C a p . XII. (1) Actus secandi. Ursino voleva che si leggesse: actus secundus ejus generis ajffictitium ad villam quod solet essey perché nel cap. 3 di questo libro havvi : pastionis vii* laticae sunt genera tria, ornithones, hpora~ ria, piscinae. Leporaria te accipere volo om­nia afficta ad villam quae sunt.

(a) Vale a dire de* lepri : leporarium, deriva dal vocabolo lepus, che significa lepre.

(3) Silva. Ursino vuole che ai tolga questa voce : è più tosto da preferirsi la lezione in eo. A qaesto luogo appartiene quanto dice Gellio, 11, ao : quae leporaria Varro dicity haud usquam memini apud vetustiores scriptum. Sed quod apud Scipionem legimus roboraria% aliquot Romae doctos viros dicere audivi id signifi­care, quod nos vivaria dicimus, appellataquc esse a talibus roboreis quibus septa essent : quod genus septorum vidimus in Italia loeis pleris que. Dopo mette uo pezzo del discorso di Scipione, cioè : aliis per vineas medias, aliis per roborarium atque piscinam, aliis per vil­lam.

(4) Lippinus. Vittorio ed Uraino hanno vo­lato leggere cosi, qaando nelle prime ediiioni leggasi Lupinus. Plioio, nel lib. yui, ae*. 38, ha :

Vivar im aprorum ce tero rum que silvestrium primus togati generis invenit Fulvius Lupi- mus, qui in Tarquiniensi feras pascere insti­tuit. Lo slesao però, nel lib. ìx, sei. 81, lo chia­ma Fulvius Hirpinus. Arduino è molto inco- ataote, perchè nel primo luogo scrive Lupinus coi codici Regii, ed Hirpinus nel secondo luogo, appoggialo all* adizione di Parma. Avverte però mollo a proposito eoa Feslo che i Sanniti chia­mavamo irputn il lupo : e cbe quindi Hirpinus è lo slesao di Lupinus. Po* qoesla ragione ab­biamo adottata questa ultima voce. Varrooe, co­me si è veduto, chiama i suoi personaggi eoo no­mi analoghi agli oggetti che tratta.

(5) Plinto, nel lib. 111, sei. 8, nomina gli Staio- meSy come quelli cbe abitano presso i Tarqai- uiensi. Lo stesso, nel lih. u, sezione 95, nomina il paludoso distrailo Sialo nenia unitamente al lago Tarqoiniense, il quale, secando Arduino, è pò» sto nella Toscana, e si dice lago di Bracciano. Tuli1 i codici Regii mattono Stationensi ; ma in due altri luoghi Stateniensi. Queslo distretto appartenne anticamente al ducato di Castro.

(6) Le prime ediiioni mettono Cn. Pompe- jus. Pare che qui si debba intendere quel Poca* peo, peritissimo agricoltore, cbe diede il nome di Pompeja ad un fico, come si ha da Plioio. Ad Ursioo è sembralo cho sia di altrui maoo il vo* cabolo septum.

(7) Abbiamo tradotto queste cifre numerali secondo la spiegazione di Gesnero.

(8) De animalibus. Meritamente si rigeltauo da Ursino e da Gesnero queste parole.

(9) Maelis. Molti credono che quest1 animala aia il Trachum di Aristotele, ovvero il tasso dei recenti. Per contrario Salmasio opina che sia del­la specie dei gatti, ehiamati comonemeole mor­tes. Molti con iscioeche ragioni hanno voluto combattere I’ opinione di Salmasio. Gianfranca- sco Gronovio in Plauti Epidico è del sentimen­to di Salmasio. Noi abbiamo tradotto coerente­mente a queati ultimi.

(10) Ursino voleva che colle priaie edizioni ai leggesse autfoeminas. Crescenzio è dell' opinio­ne di Ursino: nulladimeno non è da approvarsi questa lezione, perehè debbono introdursi nel parco e maschi e femmine. Potrebbe per altro alcuno sospettare che Varrooe fosse del parerà di Democrito, il quale voleva che le lepri fossaro ermafrodite. Veggasi anche Eliaao, oel lib. x m ,

eap. i a . In cosa contraria alla natura, abbiamo credulo bene di stare al corrente testo.

(11) Intromisit. Dicasi oolle prime editioni e oon Ursino intromissis. Sono assolutamente da scartarsi le parole : Quatuor . . . r eplsri, oo* me una repeliziooe di quanto ai è detto avanti,

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ANNOTAZIONI AL LIB. I l i DE RE RUSTICA 99®

• perchè si tono inehe in Infoici* te di Cre­scenzio.

(12) F it enim . Le prime edizioni hanno u t enim; e perciò Urtino leggeva etenim : le alea- ae mettono poco dopo : alios in ventre habere reperiuntur : lezio oc adottata da Creioenzio e da seguirsi unitamente a quella di Urtino. Oggidì è nota la anperfetazione delle lepri, benché Pli- uio, nel lib. vm, sez, 81, la voglia privati?! dei conigli, diceodo : tolus praeter dasjrpodem ru­pe rfaetat aliud educanst aliud in utero pilis vestitum, aliud implume, aliud inchoatum ge+ rens pariter.

(13) Crescenzio ha interpretato diversamente Varrone, dicendo : Itaque, qui scire volet ma­sculum a fo t mina discernere, mt Archelaus scribit, naturae foram ina debet inspicere ; nam sine dubio masculus unum,foemina duo inveniuntur habere, si caute et subtiliter in- spiciatur. Plinio, nel lib. vm, aez. 81, è con Var­rone ; poiché dice : Archelaus auctor est, quot sint corporis cavernae ad excrementa lepori, totidem annos esse aetatis.

(14) Saginarent pleraque. Macrobio Satur­nale if, 9, ha : Varro de agricoltura lib. ///, cum de leporibus loquitur, sic ait : Hoc quo­que nuper institutum, ut lepores saginaren- tur, cum exceptos e leporario quidam in ca­veis, et loco clauso faciunt pingues. Alcuni codici, in luogo di quidam, mettono condunt. Anche Giovanni Sariiberiense, vm, 7, citando questo patto, dice : Hoc quoque nuper institu­tum est saginari et lepores. Laonde non si è dli­bi tato di correggere il testo nel seguente modo : Hoc quoque . •. saginarentur lepores. .. lepo­rario condunt in caveis . . . clauso faciunt pin­gues. Alcuue di queste correzioni tono adottate anche da Genson, Ursino e Schoetlgenio ; ma Pontedera vorrebbe ut saginarent, ut plera­que; ed interpreta : quae in villa et circa vil­lam nutriuntur ; quod etiam cochleas et glires saginari docet. Per altro Plinio, nel lib. 11, aez. 85, insegna il contrario, dicendo quaedam non pinguescunt, ut lepus et perdix: ma 1' anonimo autore de Rerum Natura appresto Vicenzio, xviii, cap. 62, è del parere di Varrone, diceudo che tenendosi rinchiuse le lepri, e proibendo ad esse il moto, sì smoderatameote a’ ingrassano so­pra le reni, che muoiono.

(15) Sopra queste tre apecie veggasi Senofon­te nel cap. v della caccia, ed il celebre Pallas No­va Glirium spec. pag. 2 e tegg.

(16) Primis. « Corrigo prioribus. Nam to­ti pedes priores snnt humiles, non pars prima tantum. w Così Schneidero.

(17) A d Alpes. Io uq vecchio codice leste

Ursino dasypus: lo stesso quasi leggesi io Poli­ziano e nelle prime edizioni. Plinio, nel lib. in i , aez. 81, dice : E t leporum plura sunt genera, in Alpibus candidi. Egli è vero che le lepri nell’ inverno sono candide, ma quando si squa­glia la neve, cangiano colore, e diventano rossic­ce. Senofonte pure nel luogo citato sta per que­sto cangiamento di colore. Sarebbe dunque da eoVreggersi così; qui colorem mutant, quod toti candidifiunt.

(18) Humile. È da dirsi con Crescenzio hu­milis. Con fiacche e mendicale ragioni Gesnero difende humile.

(*9) Questi souo i conigli. ^(20) Cioè da piede leggiere. Ursino orede che

sieno di altrui mano le parole a celeritudine. Vero si è che anehe Crescenzio le omette ; ma non occorre intralasciarle, dicendo Isidoro xii, 1 : lepus quasi levipes, quia velociter currit.

(21) Ursino vuole leggere : quod eum e Si- coleis Graeci Xrf<rof/r appellabant, perchè Var­rone nel lib. v De Lingua Latina dice : Lepus, quod e Sicoleis quidam Graeci dicunt \iwof ir, a Roma, quod orti Sicoli, ut annales nostri veteres dicunt, fonasse hinc illuc tulerunt, et hic reliquerunt id nomen. Vittorio lesse nei codici Aeolis et bonum leporum; su di che Sca­ligero, Popma e Pontedera hanno proferite varie congetture. Ma ignoriamo il vocabolo greco, da cui possiamo derivare la voce lepus.

(22) Cuniculi. Plinio, nel lib. vm, aez. 81, parlando dei conigli, diee: Leporum generis sunt et quos Hispania cuniculos appellat, foe- cunditatis innumerae....foetus ventri exsectos vel uteribus ablatos non repurgatis interaneis, gratissimo in cibo habent, laurices vocant: indi, dopo di avere parlato dei furetti che danno la caccia ai conigli, soggiunge : injiciunt eas in specus, qui sunt m ulti form es in terra , un de et nomen animali. Arduino, nel luogo citalo di Plinio, si sforza, ma senza aolidi appoggi, di pro­vare che la voce cuniculus è una voce Ialina, quando consta che si è trasportato dalla Spagna a Roma, e che quivi si è chiamato coH’ antioo nome spagnolo. Altri antori, come Marziale e Vegezio, hanno preteso che i buchi sotterranei si chiamassero cuniculi, perchè li fanno i conigli.

(a3) Persecutos. Uraino voleva che ai leggesse prosecutos. Qui è da togliersi et avanti quod. E chiaro che Appio indirizza il discorso a Varrooe, come a quello che dimorò lungamente in lspagoa,- come dicemmo nella vita di Varrone.

Cap. XIII. (1) Crescenzio dice : Apros habere posse in leporario et capreolos et cervos nou est dubium ; e perciò pare ohe io Varrone abbia

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997 DI M. TERENZIO VARRONE 99»

letto ibi et capreolos et cervos. Non pare pro­babile che Varrooe abbia tralasciato di parlare dei cervi, dei caprioli e delle capre selvatiche, per essere questi quadrupedi nativi d'Italia. E ehi mai paò chiamare domestici i doghiali nati nel parco ? Noo ostante abbiamo tradotto come sta nel testo.

Non paò erer laogo li voce inquanto perchè non è Varrone quegli che parla, oome ben lo di­mostrano le parole aeguenti. Siamo piuttosto per- soasi di leggere con Ursino e Pontedera : Scis, inquit Appius, A x i .

(a) Pisone Calpurniano, intoroo al qoale veggati V indice Ciceroniano di Ernesto. Questi è chiamato di sopra nel cap. 3 M. Piso; e Plinio dice due volte che è slato console.

(3) Certo tempore. Urlino vuole che si legga uno tempore, cioè simul. Col corno parimente unisce Varrone i porci nel lib. n, cap. 4* c Colu­mella le vacche nel lib. vi, cap. 23. Polibio, xm, pag. 389, attesta che io Grecia i sonatori del corno non istanno dietro le gregge, ma avanti, e che in colai guisa si separano le varie gregge.

(4) Palaestra . Ursino voole che si tolga e palaestra, ovvero che si legga e fenestra. Ma Scaligero combatte Ursino con Marziale 111, 82;lo stesso fa pure L'piio.

(5) Crescenzio, ix, 80, ha: magistraliterfieri vidit ( Varrò). Forse voleva dire magis theatra- liter. •

(6) Festo : Stura flumen in agro Laurenti est, quod quidam Asturam vocant. Questa città è presentemente tra Anzio ed Oslia.

(7) Vale a dire un ricovero di ogni specie di bestia selvaggia, da iovy bestia selvaggia, e da rfipìtry nodrire.

(8) Ponledera preferiva la lezione delle prime edizioni : Apud quod Orpheay cioè apud in lao­go di ad (triclinium ). Orfeo è stato il più fa­moso cantore della antichità. Alcuni lo faono figlio di Apollo e di Calliope, ed altri del fiume Eagrio e della musa Polinnia. Egli discese all' in­ferno per chiedere a Plutone la sua Euridice. Veggasi il lib. ìv delle Georgiche di Virgilio.

(9) Scaligero approva la lezione trovata da Vittorio nei codici ut tantum circumfluxerit nos9 ed omette multitudo. Ursino voleva che si leggesse : ubi tantum circumfluxerit ( forse era saa intentione di dire colle prime edizioni cir­cumfluxit) mox, e similmeule tralascia m ulti­tudo. Lezione è questa da seguirsi. Crescenzio mette subito in luogo di mox.

(10) Aedilium. Cioè spectaculum. Scaligero avrebbe voluto leggere aedilitium.

(11) Sine Africanis. Tre edizioni mettono non sine Africanis. Al tempo di Varrooe non

erano rare le africanae, ossia le pantere, che si chiamavano anche variae. Ma Varrooe ha qoi in vista l'antico decreto del Senato, il qnale proi­biva di portare in Italia le pantere. Gneo Aufi­dio, Iribano della plebe, nell'anno 670 dalla fondazione di Roma, fere che il popolo decretasse altramente ; ed in progresso ognuno ne portò, pnrchè si destinassero al Circo. Secondo Plinio, nel lib. vm, sez. 24, Scauro edile fa il primo a farne venire ; e perciò Varronc aggiunge aedili­tium spectaculum ; appunto perchè era lecito trasportarle pei pubblici giuochi del Circo.

Ci p . XIV. (1) Abbiamo tradotto emolumen­tum secondo l1 interpretazione di Palmerio, Vit­torio, Daviis e Voss.

(2) Simplex est. Ursino voleva cbe si dicesse: simplex, inquamy ut tu put<is% perchè poco dopo si legge aquamy inquam ; ma saviamente avverti Gesoero non esservi mestieri di quest1 aggiunta.

(3) Gesnero è permaso che Varrone scherzi colla formola liberos quaerere. Schneidero è piuttosto persuaso cbe ciò siasi detto in laogo di : ne frustra matres etiamy non solum liberos eorum quaeras. Qai dalla menzione dell’ acqaa apparisce chiaramente che si mangiavano le lu­mache terrestri.

(4) Questi è quegli che va a raggiungere gli schiavi fuggitivi.

(5) Villorio, Variar. Lect., xxxm, cap. 23, illustra questo luogo con due passi, dai qaali consta, che le lumache escono dai loro nascon­digli dopo una pioggetta, oode cibarsi di ortag­gi. Secondo Schneidero, dopo ros, debbe segui­re : ut fere non sunt in aprico loco, sed sub rupibus ... ac f lu v ii; e dopo è da soggiungersi : Qui si naturalis ...ut facias, manu facere, etc. Le prime parole sono non solo distaccale da altre che loro sono relative, ma ancora iotrase in luogo non suo.

(6) Ursino avrebbe voluto che si leggesse; etenim dum serpit.

(7) Ursino vuole che si legga in pariete, per­chè cosi havvi nelle prime edizioni e ne'codici. In parietes stantes viene inlerpretato da Gesne­ro in parietibus stantibus. Ma il testo è certa­mente alterato, essendoché le pareti sono stantes di loro nalara , nè si può dire altramente. In secondo luogo la parete non può somministrare alcun cibo alle lumache, perchè quelle sono sec­che. Per contrario, se il luogo destinalo alle lumache si stabilirà sotto le rocce ed i monti, e che sia rug:adoso ( situazione principalmente commendata da Varroue), in allora potranno le lumache nodrirsi anche sai lati dei monli,quando

non sia ad essere di ostacolo no qualche ruscello.

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ANNOTAZIONI AL UB. IH DE BE RUSTICA

Penta dunqee Schneidero che qui «ia da leggerci pariete adstante, e che quetla parete tia da terpretarii il la lo della roccia, o del monte.

(8) E da dirsi eoa Urlino, Scaligero e Comme* lino propolam.

(9) Vedi Plinio, ne) lib. iz, aez. 82.(10) Non è da rigellarti.(11) Quamquam. E meglio dire colle edizio­

ni dei Giuoli e di Gimnico quaedam ex Africa.(12) Qui è da restituirsi l’ aulica lezione che

correva avanti Vittorio: solitanae>, ita utearum calices quadrantes octoginta capere possint. Questa è 000ferra*li anche da Plinio, nel lib. ix, tei. ia. Inoltre determina qoella specie di luma­ca, di cui facevano uso gli antichi, perchè tooovi delle lumache ignude e senza guscio. Plinio, nel lib. vm, aez. 59, commenda per eibo le lumache a guscio, traile dalle Alpi mari llime, dalla Torre di Patrie e dall* isola Astipalea. Nel lib. xxx, aez. i 5, loda nuovamente le solitanae, le Siciliane, quelle di Maiorica e di Minorica, e di Aslipalea. Pare che si lieno chiamale solitanae dal promon­torio del Sole, eh'è nelP Africa, e che gl’ inter­preti di Plinio dicooo che aia le Cap Cantin. 1 nostri mangioni si cibano volootieri dell' Helix pommtia di Lioneo.

(13) Intorno alle uova della lumaca oriente, otsia pomatias veggasi l'egregia opera di Swa- inerdam Biblia Naturae la v. iv, Lisler, e le osser­vazioni di Antonio Felice e di Arderò, che tro­vanti oel tom. 11, pag. 85 e tegg. delle opere di Malpighio.

(14) Ursino crede spuria la voce atris. u Me­taphora (dice Schneidero) etl ducta a pi tea lo rum floXvy jaclu, cum rele educlo vident capturam. Equidem malim conferunt» n

(15) Ecco la maniera ioaegoata da Apicio, nel lib. yii, cap. 16, per nodrire e preparare le luma­che: Accipies cochleas, spongiiabis, membra­nam folles {ciotti coverchio) ut possint prodire, adjicies in vas lac et salem uno dies ceteris diebus lac per /e, et omni hora mundabis ster­cus ; quum pastae fu e r in t , ut non possint se retrahere, ex oleo friges. Similiter ex pulte pasci possunt.. . Cochleas viventes in lac sili­gineum infundis: ubi pastae fueriàt, coques. È chiaro dunque che ti preparavano anche col guscio. Altrove, nel’ lib. vm, cap. 7, ioaagoa la maniera di prepararle col brodo, ma seoza guteio. ▲ ragione crede Urtino ehe tieoo sparie le parole cum foram inibus , perohè subito «egue qume

foram ina habeat.

Cap. XV. (1) 1 R enani mangiavano questi animali ; « teeoodo quello cbe ci dim Plinio nel

lib. xx, 16, i eentori fecero delle leggi per fre­nare qaesta voracità piò (astata cbe delicata.

(a) Ne ex ea. Urtino ynole ehe ti dica ne ea, e pensa che ex tia nato da ea. Va detto possint,

(3) In hoc dolium. Urtino corregge : in eo addunt glandem .... quibus in tenebris fiunt pingues. Non beoesi comprende la forma di que­ste botti descritta da Varroue, perchè in queslo cato riasce oscuro il vocabolo semita. Pare che queste semitae dovessero essere coperte.

(4) Pontedera legge : cum affatim positum est ( cioè il cibo ) in doliis. Plinio, oel lib. vin, tei. 82, deteri re i costumi dei ghiri ; ma pià pie­namente ti trovano descritti da Alberto, d tA ni- malibus% pag. 221. I Francesi chiamano queat* a» nimale Loir, quei delU Carimi» Billigy o Wil- ligy e Linneo il nomina Sciurus glis.

Cap. XVI. (1) De piscinis. Urtino non trovi quelle parole in un vecchio codice: lo stessete* gai tee dai Georgici greci, xv, a, ohe in questo capitolo manchino molta cote in Varrone, perchè quelli, dietro Taulorilà del nostro Tereuiio, rac­contano che nascono le api dal cadavere del bue.

(a) Mutando V interpunzione, come ba fallo qui Getnero, ooo è mestieri leggere eoa Ursino : A xius nobis .... inquit. Gli eruditi arguiscono da Gicerone, Epist. ad Divers.y 1. ix, 34« cht Appio avesse tre sorelle.

(3) Quarum. Earum vogliouo che si legga Soaligero ed Urtine. Gianfranteseo Gronovio corregge meglio di tuiti duarum alteram.

(4) Afe. Secondo 1* uto antico dice me in loege di mi hi. Veggati Feito e Periionio ad Sanctii Minerv. I. vi.

(5) Ciò dice a motivo del oome di Appius, chi Viene da apist nella tletta guita che Vaccio diceva, nel cap. a del lib. 11, toccare ad esso a parlare dei buoi, perchè aveva oome Vaccius.

|6) Poolederà incliutrebbe a leggere colTAm- brotiauo arte io luogo di avium.

(7) Idem. Queslo verso è di Nicandro, e leg-

gesi al verso della Teriaca : Urtino dnoqne in luogo di idem leggerebbe Nicander.

(8) Ursiuo toglie, come to perflue, le parole sed ut homines* e qual glossa la foce apes.

(9) Graculi. Varrone, nel Jib. iv de Lingue Latina , crede che coti ti chiamino dal velari gregatim: ma Feslo ed Itidoro ripetono quetlt parola dal mono della loro voce.

(10) Gesnero ha voluto cangiare nam in noi1, ed aggiungerei! puulo interrogativo; ma sarebbe stalo meglio eon Ursiuo omettere nam. Qui per certo non v* entra punto interrogativo.

(11) E ooto a' geometri che il poligono rego­lare interitio nel circolo ha maggia re superficia,

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looi DI M. TERENZIO VARRONE tooa

quanto piò ha di lati, essendoché il circolo non è altro che un poligono regolare composto di in­finiti angoli. Vegga» anche Reaomur nella sua egregia opera delle api.

(12) Opus faciunt. Forse senta ragione Vit­torio ha cangiato P antico (esto favos meile fa r ­ciunt.

(13) I Romani adoperavano molto miele nei sacrifìzii e cominciavano i banchetti dal bere del ▼ino melato, detto da essi mulsum : quindi n' è venula la voce promulsis per dinotare il princi­pio di nn banchetto. Eglino credevano che quan­do il ventricolo era voto, bisognasse cominciare ad omettarlo con un liquore dolce. Noi invece facciamo uso di cibi indigesti e duri, delti dai Francesi hers <T oeuvre; nel che forse siamo meno saggi.

(14) Quasi tutto quello cbe dice Varrone in­torno la natura e gli osi delle api, lo ha tolto da Aristotele, ix, 4°« della Storia degli animali.

(15) Imbecillitatis. Avverte Ursino che dopo questa voce si sono perdute delle parole, alla cui perdita vuol egli supplire co'Georgioi greci,xv, 3 ; ma è chiaro eh’ essi non hanno sempre segoito Vairone. Sono vi in queslo capitolo molle altre lacune.

(16) Insectantes, Cresceotio espresse la ge­nuina ed antica lezione, pubblicando ineptum

fac ien tes . Noi attribuiamo ai calabroni la voce di vocificantes, quantunque possa egualmente attri­buirsi alle api; poiohè esse roaoreggiano quando si battono contro di quelli. Ursino dal leggere in Plioiò, xi, 11 : abigunt fucos, multaeque singu­los aggressae trucidant, voleva che si leggesse in Varrone paucos.

(17) Plioio, xi, 7, diee che Veritraee serve 4* nodrimenlo alle api ; e Varrone più abbasso fa che il propolis sta la materia, eoo coi le api ottu­rano i luoghi, pei quali potrebbe eotrare Paria dentro le arnie. Pare che qui siavi una laeuoa.

(18) Con Crescemmo sarebbe da leggersi : ut colonias mittunt, harumque duces. Conficiunt .... belli habent,

(19) Addiscat. Tuti'i codici hanno altramen­te : il Cesenate ha maciscat, È da preferirsi qoe­sta lezione, ovvero fa tisca t, perchè quella del lesto ha on senso totalmente contrario. È pure da rigettarsi mute, e da sostituirsi eolie prime edizioni e ceo quattro oodiei non.

(ao) Come chi dieesse foglia di miele,da pólkofy foglia, e da /rfX/, miele.

(ai) €ome si dicesse foglia di ape.(ao) Questa parola greca è ignota. Scaligero,

dietro il codice Polizianeo, voleva che si dicesse m eliina , voce egualmente ignota. Vittorio ci av­verta cbe da altri è chiamata (uXirratwa, Filar­

ci. Tt&estzio Via a oh*

girio ne* tuoi comenti al lib. tv, vers. 63 delle Georgiche, dice: Melisphylla herba est, quamt ut ait Farro, alii jzpiastrum , alii melinem appellant ; e Servio al luogo testé allegato ha : Varro hanc herbam apiastrum dicit in primo libro operis rustici.

(a3) Tutte queste voci si riferiscono al micia che si chiama fiiXt in greco, e mel in lalioo. La voce (ÀtXtTfopua deriva e da quest' ultima parola e da quella di che vuol dir nodrire, per­chè le arnie tono il luogo, ove si nodriscono le «pi che fanno il miele.

(24) Scaligero ha preteso di correggere il te­sto, facendo: hic enim sonus harumfugae exi- stima tur esse protelumy interpretando così : ejusmodi sonis lon*e protelantur in fugam, Gesnero ha seguito Scaligero ; e perciò ha messo tra parentesi causa, qual glossa derivata da pro­telum. E piò semplice la correzione di Ursino : praeterea locum esse oportet ; e l’ abbiamo adottata.

(a5) Cyperum. Il cipero non ha fiore, ma solo alcuni filamenti che sono ioulili per te api. Me­glio sarebbe leggere cypiron eh’ è il giaggiuolo, pianta non inutile per le api, e di cui parlano gli altri autori di agricoltura.

(26) Ursino ci è stato di scoria a tradurre mi­nus valentibus, Columella, nel lib. ix, cap. 5, eoo ferma qaesta correzione, dicendo: sunt re- tnediOy languentibus cytisi.

(27) Pontedera vuole che si tolga alterum ovvero autumni.

(28) Tre codici Fiorentini mettono : ted ita uti parum sunt quae compleant, ut eas conan- gustent in vasto loco inani despondeant ani­mum, Come si vede ubi si è corrotto in ufi, e si è perdolo ne avanti in: in oltre le parole looo inani sono uo* interpretazione della voce vasto : difilli oon si può chiamare uo luogo vacuo, ove sonovi delle api, benché in poca quantità. Cor­reggasi dunque il lesto così : Sed ita ubi parum sunt, quae compleant, uti eas conangustent, ne in vasto despondeant animum.

(39) Che significa ventri. Ognuno sa che nel Tentre si digeriscono i cibi, e che da di là parteil sostentamento di lotta la macchina umana. Veggasi Festo a questa voce.

(30) I Romani chiamavano cinguli qnelli che avevano questa figura.

(31) Vitiles. Vittorio, appoggiato a’ codici ed alla ragione, cangiò fictiles in vitiles ; ma Pon­tedera pretende che vada meglio fictiles, perchè quesli si vestono anche internamente per essere aspri ; laddove quelli di vinchi si vestono ester­namente, oode non entri P aria. I Georgici gre­ci, xv, a, incrostano esternamente con una roe-

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io«3 ANNOTAZIONI AL LIB. Ili DE RB RUSTICA

s c o la m i di cenere e ili stereo bovino gli alveari «Ji legno per difenderli dalla corrottela. Colo­nnella, oel lib. ix, cap. 14, col faogo misto al men­tovato sterco incrosta all’ esterno le fessure ed i fori ; e Plinio, nel lib. xxi, set. 47> dice soltanto essere cosa utilissima circumlini alvos fimo bu­bulo. Varrone disapprova gli alveari di terra, onde pare probabile che qui parli di quelli di vinchi, i quali appunto vanno incrostali e di den­tro e di fuori.

(за) In qua introéant. E da mettersi tra pa­rentesi i/?, perchè subito segoe qua mellarii f a ­vum eximere possint, e non possunt colle vec­chie edizioni.

(33) Hic. Gesnero voleva che si cangiasse in Ztae, ovtero in haec ; ma è piuttosto da ommet- tersi.

(34) Nessun autore conosce tre specie di capi, ma soltanto due oon Aristotele, ix, della Sto­ria degli animali. Pontedera, sulla scorta di quat­tro codici correggeva net seguente modo: sedi­tiones ducum. E t , ut quidam dicunt, tria ge­nera . . .

(35) Qui ita melior. Gesnero amava che si dicesse hic ita melior, ut ; e Scaligero sospetta­va che anticamente fosse scritto : Menecrates scribit, duo : niger et varius ; ma è da dubi­tarsi se Menecrate abbia sempre seguito Aristo­tele, perchè egli era poeta di Efeso. Qoello che si può dire di certo, si è, che queslo luogo è al­terato e corrotto : ed è a sospettarsi che dall'ave­re veduto tre colori, abbiano creati anche tre capi doll'istesto colore.

(зб) Alter. Dietro al luogo citalo di Aristo­tele, Scaligero ben vide che andava letto ater. Plinio, nel lib. xi, sez. 18, conferma questa cor­rezione dicendo : quanquam defucis video du­bitari,, propriumque iis genus esse aliquos existimare, sicut furibus grandissimis inter illas, sed nigris, lataque alvo, ita appellatis, q u ia fir tim devorant mella. Ursino, e special-' mente Beckmanno, Antigonum Carystium , pag. io5, sono d' opioione che le parole qui vocatur ab aliis fucus sieno ona glossa, perchè Aristo­tele distinse sempre i ladri dai fuchi: difatti quelli sono rapaci, fanno parte della specie delle api comuni, e diventano ladri o per occasione, o per necessità. Che se la corrente lezione non è gua*la, in allora bisogna credere che Varrone, o Meoccrafe si *ieno ingannati sopra Aristotele, il quale non ignorava che i fuchi si chiamavano «tagli autori anche ladri, siccome si è fatto da E- Jiaoo nella Storia degli animali I. ix. Pontedera con, cinque codici vorrebbe leggere : Fur, qui vocabitur ab aliis fucus, est alter: est lato wntre vespa, quae . . . ’

(37) Quae ferae. Schneidero* pensa che si da dirsi qua ferae . Vedi a questo proposito Pli­nio, nel lib. xi, set. 19.

(38) Ut pulverulentae. E da dirsi certamente aut in luogo di u/, come costa anche da Virgilio,il quale ebbe in vista qnesto luogo, quando disse:

u Namque aliae turpes horreot, ceu pulvere abalto

Quum venit, et sicco terram ipnit ore viator.n

Quindi apparisce lo sbaglio di Colamella, che nel lib. ix, cap. 10, riferiva questi versi di Vir­gilio ai re delle api.

(3g) Quo sunt translatae, manere. Secondo Ursino queste sono parole di altrui mano ; e se­condo Pontedera non sono di Varrone nemme­no te parole itaque fugiunt plerumque. Diffatti te api nell' inverno si trovano intormentite nel­le arnie, nè escono a pasturare, se non quandoil cielo è tiepido e mite; e perciò è falso che per lo più friggano. Nelle prime edizioni ed in tre codici si ha quod translatae manere. Ita­que fug iun t plerumque.

(4o) Dietro alcune edizioni è da dirsi sed et alvus, in quam transiturae sunt apesy apia­stro . . .

(40 Ne cum animadverterint. . . . Popma apportò al testo la seguente medicina : animad­verterint fa v i inopiam esse, habuisse divitis malint, vale a dire habitare divites alvos ma­lint ; indi corregge così: Cum sunt apes . . . urina pota reficiendum. Pontedera trorò mol­te varietà sulla voce urina pota ; dal che con- ojuse che siccome 1' ape di saa natora corre dietro a quanto è puro ed odoroso ; e siccome la variante urinte si discosta poco dalla scrit­tura di cerinthe ; così crede che qui abbia luo­go quest' erba mollo amata dalle api, e di cui in tal modo cantò Virgilio, nel lib. ivr vers. Ga delle Georgiche :

u . . . . Huc to jussoi adsperge sapores, Trita melisphylla, et cerinthae ignobile gramen.»

Gesnero e Schneidero hanno tutta la ragione di credere che qui siavi una benna. Ciò che dice Varrone in proposito de' cornii, lo afferma an­che Plinio, anzi egli aggionge che tati’ i Bori gustati dalle api ne' primi giorni di primavera nuocono alle stesse. Columella insegna che i fio­ri d’ olmo generano la diarrea.

(4a) De his. Ursino ben s' accorse che si so­no perdute delle parole avanti queste.

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DI M. TERENZIO YARRONE ioo6

(43) Si Tede da questo passo di Varrone che i medici, fioo dal tempo di Varrone, da­vano aoche alle cose le pià comuni nomi scien­tifici.

(44) Cosi trovò scrilto Vittorio ne’ suoi co­dici ; ma Ursino avrebbe voluto che si legges­se melle et propoli, o piuttosto mel e propoli, secondo che hanno le antiche edizioni.

(45) Afferuntur. Gesoero voleva che si di­cesse offeruntur . . . . ex iisdem omnia rebus : inoltre gli sarebbe piaciuto leggere colle prime edizioni dicunt.

( 6) Simplex. Sarebbe da aggiungersi colle prime edizioni ministerium. Ursino crede che avanti semplex si sieno perdute molte parole; al cbe acconseoloao anche Geinero e Schnei- dero.

(4 ) Discrimen. Ursino voleva che si omet­tesse questa parola, e si leggesse : nec non etiam aliud sequuntur in carptura, ut id sequan­tur in melle. Scaligero legge : ut eas sequa- tur, e che si solliutenda herbas, e Pontedera: aliud eas sequatur, ovvero sequitur. Ma pare che sia da dirsi : sequuntur in carptura, ut in melle ; quod etc., oraetleudo le parole inter­medie aut eas sequatur, le quali, a quel che sembra, hanno avuto origine dalle varie lezioui.

(48) Sisere. Scaligero pensa che sia da leg­gersi sisarae ; e pretende che qui si parli del- r erica di Plinio e del miele che le api trag» gono da questa pianta. 11 uostro Ermolao Bar­baro al corollario.! del cap. >25 aveva dellolo slesso avanti Scaligero. Pontedera è d' opi­nione contraria, perchè il miele tratto dall’ eri­ca non è liquido, ma arenoso ; e dimostra con sode ragioni, perchè dall’ erica si tragga piut­tosto un miele denso, che liquide. Crescenzio, nel lib. ìx, cap. i o o , dice : Item ex alia re Ja ­ciunt liquidum mel: ut ex ciceris flore, ex alia e contra spissum, ut rore marino. La traduzione italiana concorda pienamente.

(49) Cibi pars. Scaligero voleva leggere : Cibi pars quod potio : et ea iis aqualicula, unde bibant . . . . eamque liquidam , . . . ov­vero eis aqualicula. Egli iuterpreta per aqua­licula T asi pieni d' a c q u a ; ed ea per ideo. Ur­sino, dietro un Tecchio codice, leggeva : cibi pars quod potio, et ex iis aqua, unde bi­bant, etc.

(50) Ascendat. Crescenzio ha : ne profunda ultra duos aut tres digitos sit ; laonde qui sarebbe da leggersi : ascendat ultra duos aut tres digitos.

(51) A ut relinquere. Urtino e Pontedera vogliono leggere ac relinquere. Non è neces­saria questa correzione, perchè o le api vivono

di solo miele, se ad esse non ai dà del cibo, ovvero, mancando 1’ uno e V altro, abbandona­no 1’ alveare*

(52) Coctas. A ragione è da leggersi con Ur­sino coactas, dicendosi di sotto: offas ex eo factas apponaat.

(53) Purpuream. Le autorità di Columella e di Crescenzio ci sforzano a leggere perpu­ram , diceodo il primo nel lib. ìx : quibus li­quoribus mundam lanam imbuere oportebit ; ed il secondo : alii aquam mulsam ut sit pro­pe curant, in qua addunt lanam puram.

(54) Apponunt ibi. Ursino, appoggialo al suo codice, legge : ibi, quum foras àie me in pabu­lum procedere non possunt: sospetta che la voce hieme sia una glossa. Pontedera corregge : ibi, quo foras ad pabulum procedere tamen pos­sint. Gesnero ha bensì corretto con Ponlederà quo foras, ina ha lasciato sussistere hieme ; il che era da togliersi, perchè le àpi sono intormen­tite nell’ inverno. Noo saprei dire se hiems si possa adoperare iu significato di tempestas.

(55) E da dirsi con alcune edizioui inde ra­mum vel quid aliud oblinunt, perchè di sopra disse: Examen ubi volunt condere, tum ramum aliamve quam rem oblinunt.

(56) Prope eisdem. Ne’ codici e nelle vecchie edizioni si legge easdem, cioè apes, e adpositae (alvo) : leggesi pure in quelli e in queste circum­dato in luogo di circumeundo.

(5?) Sumunt. Scaligero e Vittorio non sanno come aggiustare queslo passo. Popma è stalo il primo a segnare la vera strada, volendo che si legga : ex ipsis, si fu res alvos habeat, quem concerminarint, ossia, com’egli interpreta, quas concerpserint. Appoggialo a Columella, avveri e che si sa essersi il miei* maturato, allorquando si T e d e che i fuchi sono scacciali e fugati dalle api. Le seguenti pa^Ie conjecturam faciunt le riferisce alle api ; e secoudo lui, bisogna distin­guere il primo seguo, eh’ è certo e chiaro, dalla congettura eh’ è iucerta ed oscura. Pouledera ap­prova la prima parte della correzione di Popma, e vuole che si legga : fu re s si alvos habeat, nam cum germinavit, conjecturam capiunt, si intus

faciunt; ovvero cosi : fures alvos habealne,narn cum germinarti. Itta utinmeno iu questa manie­ra si aggiusta il testo. Qui bisogna distinguere con Popma i segni certi dalle congetture. 1 segni si traggono dagli stessi favi pieni e coperti da picciolo membrane. Si congettura poi dalle api se i favi sieno pieni e se debbasi levare il miele maturo, quando si sente del bisbiglio, quando le api qua e là correndo tremolano, e finalmente quando ammazzano i fuchi. Vedi Palladio al roe«? di Giugno, vii.

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ANNOTAZIONI AL LIB. III DE R E RUSTICA 1008

(58) Decimam. I Georgici greci nella prima­vera e nella stale lasciano addietro una decima parte, e nell’ autunno nna terza parte : in Plioio poi te ne lascia nell1 alveare una dao decima, ed in Columella una quinta.

(59) Ursino avrebbe volato che ai diceise non restibiles segetes. 11 campo restibilis è quello che ti semina per due anni continui, ed il nova- lis qaello che qaalche anno si lascia riposare.

(60) Quoque multum. Ursino corregge quo­tannis m ultum . . . . magis assiduas. La voce his qui è superflua.

(61) Tertia pars. Crescenzio dice : sed Var­ro scribi f, quod pars tertia favorum tantum­modo t+llatur pro hieme, reliquum relinqua­tur■, licet plena sint alvearia meile. Si vede dunque che Crescenzio lesse iu Varrone; etiamsi foecunda sit alvus. 1

(62) Si vero alvus. Ursino, dietro un vecchio codice leggeva : si non sit fe r tilis , ni quid exi­matur exemtione deficiant animum. Favi cum eximuntur. Ponledera congettura che sia da leg­gersi : sane alvos non f i t fe rtilis , nisi quid exi­matur. Varrone mette in confronto all’ arnia fe­condi* la slerile, e qui parla delta terza raccolta. Schneidero aggiusterebbe il testo così : reliquum hiemationi relinquatur^ ne dejiciant animum , exemtio cum est major ; neque universam , neque palam jacere oportet. Si vero alvus non sit fertilis, ne quid eximatur. Noi abbiamo tra­dotto sit fertilis.

(63) Universam. Relativamente alle dieoi parli, delle qnali parlò di sopra.

(64) Apponendum. Pontedera vuole che si aggiunga con Crescenzio aliquid.

(65) Tecto. Crescenzio ha : tecto, loco tepido et bene cinere tepido plus calido quam tepido, ejiciendum super eas et excutiendum leviter vas% et apes, manu non tflngas, et ponendum in sole quo reviviscant ju x ta suos alveos, ut ad domicilia redeant. Scaligero cosi corresse qoeslo luogo : Promendae quam maxime tem­pestate bona ; ed Ursino voleva cbe si dicesse : promendumque maxime, ovvero promendum- que vere maxime. Columella e Plinio insegnano che in primavera ritornano in vita mettendole al sole, e spurgandovi sopra della cenere di fico.

(66) Concutiendum. Uriino legge : concu­tiendum leviter ipso vase, ut manu non tangas.

Cap. XVII. (1) Questi era partito di sopra verso il fine del cap. 5 di questo lib.

(a) Si tirava prima alla sorte per sapere con qual ordine dovessero volare le tribù ne’comizii; e quando molti competitori avevano un egual numero di tribù iu loro favore, nuovamente si

tfrava alla sorte, per sapere quale di essi fotte preferito. Cicerone parla di queste dae estrazio­ni, e le chiama sortitio : della prima fa parola celta seconda Filippica; e della seconda nell’ ora­zione a favore di Plancio. Qui per altro noo ti tratta della prima, perchè Varrooe ed Assio ave­vano già dato it loro voto nel cap. a, e nel 5 ù era fatto il conteggio dei voli.

(3) Questi era on ministro, il coi uffizio con­sisteva in chiamare le tribù al loro posto, onde votassero ne’ comiiii. Egli pubblicava anche il nome dei magistrati eh’ erano stati eletti per la lettura delle leggi che si proponevano; citava : giudici, i testimooii e gli accasati ne’ giù.e finalmente era banditore nelle veodite.

(4) Ursino corregge con eleganza quod ea candidatum .

(5) Aldo capricciosamente raffazzonò qoeslo passo; é Gesnero vi aggioose non avanti j*fl*,qaaD- do che le prime edizioni e quattro codici oe tono privi. Meglio era piuttosto sospettare che fruc tu fosse on errore del copista, dovendosi leggere qai sine suc/u; ed allora si concorda qoaoto segue ; perchè alle peschiere di mare, che costano troppo, si oppongono quelle di acqua dolee, che si man­tengono sine suctu. E perchè mai Aldo sì fece lecito di cangiare et piscibus delle prime edizioni e di cinque codici in sic et pisces? Le peschiere di mare, come dice poco dopo, costano molto per il nodrimenlo, aluntur magno; e lo confer­ma coll' esempio d’ Irrio, il quale consumava il guadagno, comperando l’ esca pei pesci. Si è dunque perduta la voce excam, ed è da dirsi sic et escam piscibus ministrat, li 1 sentenza di Varrooe, i proprietarii delle peschiere solevaoe mantenere dei pescatori, i qaali andavano a pe­scare dei minuti pesci per versarli dappoi nelle peschiere.

(6) Questi è il famoso dittatore ed il più gron­de eroe che sia vissuto. Si può a buon diritto riguardare come il capo d' opera della natura umana, prescindendo dai suoi costumi, e come le delizie della fortuna, eccettuato per altro il ano fine tragico.

(7) .Questo pittore era di Sicione e scolare di Panfilo che fa anche il maestro di Apelle. Egli dipingeva all’ encausto (veggasi la nota seguente) quantunque adoperasse anche il pennello, e fo il primo che immaginò di dipingere le volte e i dintorni delle stanze.

(8) Questa specie di pittura ai chiamava en­caustum, perchè si adoperava il fuooo. Gli anti­chi in varie guise dipingevano all’ encaosto. Pii- oro, nel lib. xzxv, sez. 39, le descrive, ma non fa parole di quella in cui entrava la cera, e di cai parla Varrone. Para che a’ intagliassero primadal-

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DI M. TEKKNZIO VARRONE l o i a

le 4 a Tolette di legno e che dopo ti empissero i •oIcKmocìsì di cera fusa e di Tarii colori ; io<£ riscaldando queste tavolette per di tolto, si fa­ceva che la cera si sprofondasse di piò ne1 sol­chi, ed io guisa che oon potesse più uscire.

(9) L'espressione latina presenta oa giuoco di parole, e h 'è impossibile di tradurre in nostra lingua. Questo giooco è fondato topra la doppia significazione della voce jus, che Tuoi dire giu­stizia e brodo : di maniera che vocare in jus, che alle Tolte lignifica citare io g iu tliz ia , qui lignifica meilere in brodo.

(10) Plinio, nel lib. n, cap. a5, parla di qoeito fatto, il quale, quantunque aingoiare, non è però inesplicabile. Queste isole non saranno state forte che picciole parti di palude,che si saranno smosje nell'allo che si damava ne* contorni.

(11) Schoeidero approva con Ursino la lezione delle prime edizioni eh* è : ut per tempestatem macellum piscinis, ut mare obsonium prae~ beret Noi coi codici e colle prime edizioni abbia­mo aggiustato il testo così : ac per tempestatem macellum piscinarium , uti mare obsonium praeberet. Ursino vuole che si ometta pisces.

(12) È da approvarsi la lezione aulica r he da­rios ... mulos, come quella che meglio couvieoe nel presente giuoco di parole. E da dirti poco

dopo atque illiy e da mettersi tra parente» ejus, perchè Yarrone continua a parlare.

(13) Plinio, nel lib. ìx, cap. 55, dice che Lu­cullo ebbe tanta debolezza per ona morena, che pianse quando morì. Vogliono alcuni che si legga aestivaria, ma è da dirsi aestuaria.

(14) Plinio dice a questo proposito, oel lib. ìx, tez. 80 : Lucullus, exiso etiam monte juxU* Neapolin majore impendio, quam villam aedi-

Jicaveraty euripum et maria admisit, qua de causa Magnus Pompejus Xerxem togatum eum appellabat.

( 15) È da dirti con Urtino quae reciproce ...

ip s i ... cedere.(16) Eccum recta. È da dirsi cum lata% ci#t

porpora, con cui si Testivan+i candidati!(17) Occurrimus. Così fi è corrotto da molti;

ma dicasi occidimus, parola antica, e di cui Fe­sto dice : Occidamus Plautus pònti pro con- tracedamus.

(18) Il Campidoglio era una cittadella fabbri­cata in Roma sopra il monta Saturnino da Tar­quinio il Superbo. Si chiamava così a capite, perchè nell'allo che si scaTaTa per la fondazione del tempio di Giove, si trovò uoa testa d'uomo.

(19) È da dirsi col codice di Ursino : O Pinni noster, sermonem, etc.