Marche Centro d'Arte - Peer to Peer (2013)

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>>>Peer toPeer<<< MARCHE CENTRO expo di arte contemporanea 3 a edizione 2013 - 7 luglio - 30 agosto palariviera - san benedetto del tronto

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Ebook catalogo di Marche Centro d&#39;Arte expo di arte contemporanea 2013 (3a edizione). ISBN: 978-88-6057-191-5

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>>>PeertoPeer<<<

MARCHECENTRO

expo di arte contemporanea

3a edizione 2013 - 7 luglio - 30 agostopalariviera - san benedetto del tronto

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MARCHECENTRO

expo di arte contemporanea

3a edizione 2013 - 7 luglio - 30 agostopalariviera - san benedetto del tronto

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Cos’è Marche Centro d’Arte? Un’associazione che si pone come obiet-tivo la promozione e la diffusione dell’arte contemporanea. Obiettivi im-portanti che vengono portati avanti lungo tutto l’arco dell’anno attraver-so mostre e incontri per avvicinare le persone all’Arte, anche quelle che normalmente non frequentano le gallerie e/o le mostre. Come momen-to culminante di questa attività c’è poi l’Expo di Arte Contemporanea, che quest’anno giunge alla terza edizione.Il PalaRiviera apre i suoi spazi per ospitare artisti, critici e visitatori, in un gioco di ibridazioni e sinergie che rende visibile la possibilità di met-tere in rete realtà differenti se mosse da un’idea comune.Marche Centro d’Arte è partita da un territorio specifico, la Riviera delle Palme per espandersi poi all’intera nazione e quindi all’intero paese, senza rinunciare a fare delle incursioni anche all’estero.Un percorso diretto alla qualità e all’eccellenza artistica del paese che si è sempre voluta coniugare con la ricerca e le nuove espressioni che emergono dalla società.Quel che muove tutto questo spirito è la convinzione che la ripresa del nostro paese dovrà venire anche dalla cultura e che l’arte darà in questo senso un contributo importante, insomma: lavorare per l’arte per uscire dalla crisi e riconquistare un domani.La terza edizione vede alcune novità inserite per rispondere agli obiet-tivi che Marche Centro d’Arte si pone. Le due sezioni che quest’anno compongono l’Expo hanno ciascuna un preciso indirizzo: ME, MYSELF AND I a cura di Sonia Borsato propone un ponte ideale tra le Marche e la Sardegna e offre uno spaccato dell’arte che parte dall’isola per pro-iettarsi all’esterno; Associazione culturale Verticale d’Arte propone invece CROSSWAYS, la sezione nata, attraverso un bando nazionale, per valorizzare e promuovere l’arte contemporanea e per individuare nuovi talenti e tendenze espressive.Non ci resta che ringraziare tutti gli artisti, i critici e i collaboratori per lo splendido lavoro che hanno fatto e fanno per permettere a Marche Centro d’Arte di andare avanti, crescere e migliorare.

Grazie

Fausto, Franco, Lino

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>>>Un’iniziativa voluta da<<<

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Galleria Marconi

La Galleria Marconi di Cupra Marittima aperta nel 1995, (http://galleriamarconicupra.blogspot.com) ha da subito mostrato il suo carattere.Oltre ad essere un luogo dove trovare oggetti di design è uno spazio espositivo dove si svolgono mostre e reading di poesia. Le mostre propongono giovani emergenti nel panorama nazionale ed internazionale, e artisti ormai affermati (Karin Andersen, Nicola Bolla, Paolo Consorti, Rocco Dubbini, Francesca Gentili, Maicol e Mirco, Carla Mattii, Sabrina Muzi, Pastorello, Giuseppe Restano, Rita Vitali Rosati). La Galleria Marconi è diventato un punto di riferimento per quanto riguarda la ricerca e la promozione artistica nelle Marche, ma anche un ponte per far conoscere i nostri artisti oltre i confini nazionali, grazie alla collaborazione con altre gallerie all’estero. Infatti da tempo la ricerca della Galleria Marconi passa attraverso lo scambio di realtà culturali con altri operatori sia pubblici che privati, nella convinzione che per poter crescere non ci si può fermare al proprio spazio ma bisogna aprire il proprio territorio creando delle sinergie.

Palariviera

Il Multiplex, Teatro, Centro Congressi Pala Riviera (www.palariviera.com) nasce nel 2009, dalla necessità di rispondere alla domanda del territorio di dotarsi di un centro polivalente capace di essere una struttura volano per il turismo congressuale interregionale e contemporaneamente un luogo di cultura e intrattenimento. La realizzazione del PalaRiviera Multi-plex Teatro Congressi è stata possibile grazie alla sinergia tra un gruppo di privati e l’Amministrazione Comunale di San Benedetto del Tronto, che ha permesso l’organizzazione di una struttura adeguata per convegni, congressi, concerti, manifestazioni teatrali, musica lirica, cinema, intrat-tenimenti, attività ricreative, ludiche e di svago, attività ristorative. Il Mul-tiplex, Teatro, Centro Congressi Pala Riviera di San Benedetto del Tronto, anche dal punto di vista architettonico, è una delle strutture più moderne ed all’avanguardia del centro Italia.

cocalo’s clUb

Il Cocalo’s club (www.cocalosclub.it) è una community che nasce e si sviluppa in seno ai negozi Cocalo’s e, attraverso i suoi partner (operatori nei più svariati ambiti: cultura, sport, salute e bellezza, motori, ristorazio-ne e intrattenimento), sviluppa la propria azione nelle Marche, in Abruzzo e a Malta. Fra i partner operano con il compito di informare e stimolare la community gli ”expert fan” (artisti, intellettuali, operatori economici) che, coltivando la loro passione, rappresentano il legame fra motivazio-ne e azione. Il Cocalo’s Club offre ai propri associati e al territorio di ap-partenenza, oltre agli sconti e i vantaggi proposti dalla rete dei partner sotto l’egida del Cocalo’s Club, l’organizzazione di eventi ed iniziative di scambio e socializzazione che coniugano, in una dimensione di reciproca valorizzazione, gli ambiti della cultura, del sociale, dell’enogastronomia, dell’ambiente, dell’economia.

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>>>adozione artistica Mcda<<<

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Il bisogno di socialità e la cultura partecipativa.La risposta di un territorio che cambia e si modifica. Come sopravvivere alla crisi attraverso la creatività e l’esperimento della socialità fra le con-venienze. MCdA non solo come “fine e premio a se stesso” ma come ricerca sperimentale nell’ambito della socialità.

Che la crisi economica del 2008 abbia introdotto innumerevoli difficoltà nel nostro territorio e nel sistema economico “tutto”, ormai è un dato di fatto. Come è un dato di fatto che le risorse messe in campo per sopperire alle diverse esigenze territoriali si sono da tempo esaurite. Immaginare poi forze economiche extra per la causa persa che per mol-ti rappresenta l’Arte e tutto il modo di persone e personaggi che intorno ad “ella” gravitano, risulta oggi, per il nostro complesso contesto, uto-pistico.

La visione della società che premia i comportamenti fortemente indi-vidualizzati non ha dato i frutti sperati e quel che resta del giorno è una lunga ed inesorabile crisi economica che ha avuto il triste compito di celebrare alcuni funerali. Eticamente rilevante è che il bisogno di socia-lità, è emerso dalla inaspettata costruzione delle relazioni amicali che si sono via via costituite lungo il percorso critico, non solo fra gli individui, ma fatto ancor più notevole, anche fra realtà economico – commerciali che impegnano i protagonisti, in un continuo lavoro di scambio e di in-contro con l’Altro. MCdA rappresenta innanzitutto, attraverso la socialità dei terzi, l’incipit di un rinascimento artistico e culturale. Il bisogno di socialità è l’inizio di un progetto sperimentale che intercetta sociologia, economia e politica del territorio, che parla il linguaggio della contem-poraneità. La partecipazione all’”idea” è democratica nel senso che è si, diffusa e condivisa, ma innanzitutto non gerarchizzata. Recupera l’approccio relazionale, per riscrivere e ridefinire, attraverso l’occasione di MCdA, le nuove proporzioni umane. La possibilità di tutto questo sta, ancora una volta, nella nostra capacità di cambiare gli schemi e creare valore nella catena del prodotto che non sembra risiedere più solo nel contenuto ma nella interconnessione dei contenuti. La nuova realtà sociale che lega cultura partecipativa e intelligenza collettiva, ci permette di entrare direttamente in contatto con la ricerca sperimenta-le nell’ambito della socialità, di cui MCdA è solo e non solo un esempio concreto. L’idea Adottante-Adottato presupposto della rassegna, nella sua dimensione “privata” corrisponde ad una volontà di costruire, il “peer to peer” a cui va attribuito il merito di un completo rinnovamento della visione artistica contemporanea che grazie al suo contributo si fa “pubblica”.

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>>>PeertoPeer<<<

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Peer to Peer è un tentativo, una testimonianza, il prodotto di un’opera-zione che coinvolge soggetti diversi, a volte lontani, in una condivisione di idee, suggestioni, forme.Non ci troviamo di fronte a un ponte tra mondi diversi, ma nel mezzo di una rete dove ogni nodo è un punto di arrivo e di partenza. Peer to peer è la prova della possibilità che energie diverse si incontrino e operino in maniera sinergica per dare forma e voce alla ricchezza che un territorio può esprimere.Nel linguaggio di internet il peer to peer è la possibilità che ognuno di noi può avere di scambiare informazioni e dati, essendo nello stesso tempo fruitore attivo e passivo. In Marche Centro d’Arte ogni soggetto coinvolto è un punto che permette al progetto di crescere e realizzarsi. Artisti, adottanti, critici, pubblico e ideatori sono nodi equivalenti di una rete che, come nel peer to peer, permette a chiunque entri in contatto di poter condividere la propria ricchezza interiore e apportare un matto-ne alla realizzazione di un progetto che vuole far crescere il territorio e farlo aprire alla contemporaneità.Peer to Peer è un catalogo, che supera la forma catalogo per trasformar-si in qualcosa di nuovo, in un peer to peer insomma.

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LA CURATRICE

sonia borsato (alghero, 1977)

Curatore e critico d’arte, dal 2009 al 2011 ha diretto Su Palatu-spazio culturale per la fotografia e dal 2007 al 2011 è stata responsabile dello spazio per l’arte contemporanea Sa Domo Manna, entrambi a Villanova Monteleone (SS). Nel 2009 è stata direttore artistico della sezione arti visive della V edizio-ne del festival della letteratura e delle arti di Asuni. Dal 2012 è direttore artistico di BVM-Ben Venga Maggio, rassegna culturale di arte, musica, danza, teatro, architettura ad Alghero (SS).Attualmente è docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Sassari.

artisti

SILVIA IDILI FABIOLA LEDDA

GIOVANNI MANUNTA PASTORELLO STEFANIA MATTUNARCISA MONNI

ChIARA PORChEDDU JOSEPhINE SASSUChIARA SEGhENE

LUCA SPANOGIANLUCA VASSALLO

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>>>Me, MYselF anD i<<<singing an ordinary blues

Iniziamo con un furto. Ma dichiarato! Quello del titolo, Me, myself and I, rubato a un classico di Billie holiday, la Lady Day che, come dicono gli U2, “sees the truth behind the lies”. Ben oltre bugie, apparenze, miti e luoghi comuni vuole andare questo viaggio, fisico ed emotivo, attraverso un’isola-continente e ciò che la connette al resto del mondo.

Oltre ad avere un suono musicale, Me, myself and I sintetizza un viag-gio tripartito, una rocambolesca discesa attraverso tre sfumature di ri-flessione, tre fari impietosi che illuminano il contemporaneo.

Il primo incespicante passo contempla la frantumazione dell’Io nelle molte personalità che siamo quotidianamente chiamati ad indossare. Con il precariato del lavoro si vive un precariato dell’essere: venuta meno una coscienza di classe ci si reinventa ogni giorno nel caleidosco-pico tentativo di costruire una identità certa.

Il secondo step, come in immersione progressiva, evidenzia una perico-losa autoreferenzialità che trasforma le nostre giornate e ci rende citta-dini pigri e disinteressati a regole che non ci rappresentano più e che ci sospingono lontano da una dimensione attiva nei confronti della vita.

Infine la parte più intima, delicata e fragile, contempla la personale cre-azione di mondi alternativi, dove trovare rifugio e riparo. Un viaggio che spesso compiamo in solitaria, dimentichi del senso di comunità.

Me, myself and I, tre sfumature esistenziali vicine, simili, interscambia-bili che segnano il quotidiano e limitano gli orizzonti verso il futuro. Tre tappe d’indagine nella formazione dell’uomo contemporaneo attraverso la narrazione di 10 differenti identità artistiche, 10 personalità legate in varia misura alla Sardegna, questo zoccolo di terra nel Mediterraneo che si dibatte nel tentativo di ricostruire la sua identità lontano da cli-chè televisivi o trappole turistiche. Un’isola che, in quanto periferia del regno, si candida a diventare torre di guardia del pensiero irriverente, buen retiro per i viaggiatori contemporanei, avamposto privilegiato per ridefinire il futuro.

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silvia iDili (cagliari, 1982)

Consegue la maturità artistica presso il Liceo Artistico di Cagliari. Nel 2007 si trasferisce a Milano, dove vive e lavora. Nel 2008 è finalista per il Premio Celeste a cura di Gianluca Marziani.

La ricerca artistica di Silvia Idili è una raffinata operazione di camouflage: ci attira a sé come una farfalla tropicale, ostentando una preziosa vulne-rabilità. Irretiti da un figurativo fantastico, ci si sente conquistati e ci si avvicina arresi, ingenui, disarmati come davanti a disegni dell’infanzia. Ci si affida alla sua ipnotica narrazione ignari del potere evocativo che scaturisce dalle composizioni pittoriche della giovane artista sarda ormai da anni residente a Milano. Solitamente di medie o piccole dimensioni, le sue tavole hanno l’allure di oggetti preziosi, icone da contemplare nel silenzio delle camere da letto, reliquie di un tempo inesatto.La tavolozza notturna, densa e vellutata, con pochi vivi accenni cromati-ci che si stagliano come ferite su un orizzonte senza stelle, definisce un universo circense ma senza brio: animali bardati, stendardi che oscilla-no al vento, bambini vestiti a festa e tendoni che ricordano allo stesso tempo campeggi estivi e banchetti medievali. Ma in questa fiera non c’è gioia né senso di indomita attesa. È una giostra senza musica, un sabato del villaggio di memoria leopardiana ma con vaghi toni gotici im-putabili più all’atmosfera satura che non a stilemi estetici identificabili.Mentre si animano simboli geometrici e scenografie inquietanti, sullo sfondo una piatta oscurità sembra inghiottire i protagonisti delle com-posizioni o, per lo meno, chiamarli a sé con implacabile malía, e noi rotoliamo con loro verso l’ignoto del nostro quotidiano.È una pittura di suggestione, quella di Silvia Idili. Di tensione. La manife-stazione di una singolare capacità nel rendere tangibile il moderno tur-bamento, il tremore, la paura del vivere in una dimensione spalancata e universale. Un male a cui è impossibile dare nome e forma. La contemplazione del contemporaneo si risolve per la Idili nell’assenza di giudizio che converte ogni affanno in una tensione spirituale, mistica quasi; la forma e il colore sono declinati come preghiere pagane che sanno dare ristoro al cuore e l’arte invocata come unico antidoto alla noia, vera peste del nuovo millennio.

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Silvia Idili, C’e profondita nel vuoto, 2012, olio su tavola, cm 40x60

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Fabiola leDDa

(Germania, 1971)

Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna, città dove vive e lavora. Indaga diversi linguaggi – fotografia, pittura, installazione, performance – orientando la sua ricerca prevalentemente su tematiche di denuncia sociale.

Il percorso di Fabiola Ledda è un percorso in levare, un processo crea-tivo condotto in modalità di sobria asciuttezza. La luce fredda che inda-ga imparziale, la scelta oculata di oggetti o riferimenti, l’ambientazione spartana, tutto conduce ad un approccio di ruvida essenzialità visiva dove niente è casuale e tutto decisivo. Dopo aver indagato diversi linguaggi – pittura, installazione, performan-ce – la sua ricerca si è stabilizzata sul binomio corpo-fotografia in cui lo strumento principale è sempre la sua fisicità offerta in dimensione piena, senza sconti o licenze. Lo scatto arriva dunque nella fase matura e responsabile di una prassi artistica declinata sempre e intensamente come impegno sociale, commento al proprio esistere non per vanità o paura dell’oblio ma perché possa essere voce dei molti silenziosi a cui non è concesso commento. Se, come dice Foucault, il corpo è sede del potere, Fabiola Ledda vi attinge a piene mani decidendo di es-porsi, di porsi fuori da sé in una dimensione di totale contatto e condivisione con il mondo di cui diventa cassa di risonanza.Le sue installazioni fotografiche lavorano su quel confine sottile che è l’epidermide tesa a difenderci dal mondo, a raccoglierne suggestioni e impressioni. La pelle diventa così campo di battaglia su cui intervenire per raccontare le vite dei dimenticati, degli sconfitti, degli invisibili. Attraverso un corpo quasi Cristico, offerto a redenzione degli oppressi, degli afflitti e dei dimenticati, Ledda conduce la sua ricerca come un pensiero stridente e laterale sfruttando le dimensioni del proprio dive-nire, del quotidiano accadere, per trasporle poeticamente e dilatarle in considerazioni universali tentando, attraverso l’espressione di un carat-tere familiare e intimo, di ripristinare il ruolo dell’arte come commento alla vita.Le ambientazioni, sempre domestiche, spartane ed essenziali, raccon-tano una dimensione di minima protezione. Un guscio di noce in cui trovare momentaneo rifugio. Lontano da violenza o forza, Fabiola Ledda declina il più difficile dei trittici – semplicità, presenza ed evidenza – con l’unico, fondamentale scopo di destare le coscienze, risvegliare animi assopiti e riportarci ad un ruolo attivo nel mondo.

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Fabiola Ledda, Rami, dalla serie Im Requiem, 2011, stampa fotografica su PVC, cm 90x180

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Giovanni ManUnta Pastorello (sassari, 1967)

Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1991. Vive e lavora a Sassari e a Roma. Nel 2012 ha partecipato alla collettiva “Come Una Bestia Feroce”, presso BonelliLAB, Canneto sull’Oglio (MN).

Quella di Pastorello con la Pittura è una lunga storia d’amore. Due P che si intrecciano diventando omonime, inscindibili.Lunga davvero, questa relazione; lunga talmente da ricapitolare (quasi) gli ultimi trent’anni di ricerca isolana. E scusate se è poco. In queste “nozze di perle” (come tradizione vuole) la passione non è mai venuta meno e Giovanni Manunta (all’anagrafe) continua a corteggiare la Pittura come fosse il primo giorno; come un discepolo, ne rispetta la potenza e ne consacra il mistero. La ricerca di Pastorello si manifesta, in questa sua fase più matura, come incontro e confronto tra differenti tradizioni pittoriche riuscendo a condensare la gestualità orientale e la costruzione figurativa occidenta-le; il senso mediterraneo del colore e un approccio avanguardistico che flirta con la scomposizione dei volumi. Dopo le iniziali produzioni dal sapore fumettistico, di irriverente deriva-zione manga con cui aggredire e didascalizzare un mondo incompren-sibile, e dopo le recenti riflessioni para-religiose, con Barbie-Madonne dalle folte chiome, Pastorello giunge ad una estrema sintesi che con-densa inquietudine e speranza in forme astratte, aliene. Con gesto netto si libera dal giogo del figurativo e dal gioco dell’identificazione optando per misteriose Tubular Bells che rintoccano di colore vibrante, si bagna-no in una tavolozza vivissima e sempre nuova, imprevedibile.Vengono alla mente le parole di Gustav Jung, “Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia” ed ecco che il processo di astrazione e concentrazione praticato da Pastorello negli ultimi anni ci appare in tutta la sua potenza meditativa, crudele commento ad un’era che corre velo-ce verso nessuna destinazione che non sia l’ottusa implosione. Il fare ci appare non vano commento ma unica, concreta opzione; un fare visionario e irriverente che non raccoglie affermazioni ma semina interrogativi. Dubito, dunque sono. Forse la scelta del nome d’arte ne ha inconsciamente determinato il percorso, l’eterno cercare, l’errare come declinazione esperienziale; l’errore come pratica di costante mi-glioramento. Colui che cerca sa però essere anche colui che guida, che sperimenta e indica il cammino. Ma non ne sente il peso.

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Giovanni Manunta Pastorello, Senza titolo, 2013, acrilico su tela, cm 120x150

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steFania MattU

(sardegna, 1985)

Si diploma presso l’Istituto Europeo di Design a Roma e inizia a lavorare come fotografa commerciale e nel campo della postproduzione. Conse-gue un master presso l’ICP a New York dove vive e lavora.

Pensando ad Adamo ed Eva molti di noi sfoglieranno mentalmente i manuali di storia dell’arte che hanno attraversato le nostre esperienze scolastiche; alcuni visualizzeranno la drammatica cacciata di Masaccio, altri la contenutissima coppia di Cranach. In ogni caso, qualsiasi sia la nostra preferenza stilistica, molti e importanti precedenti artistici hanno didascalizzato la dottrina biblica. Al termine di una lunga tradizione si pone dunque, in maniera solo apparentemente ingenua e casuale, il dittico fotografico di Stefania Mattu, che presenta, in totale e impietosa nudità, una coppia di mezza età, dall’anonima identità, indicata con solo le iniziali dei loro nomi (e sarà un caso se queste corrispondono anche alle iniziali delle relative parti anatomiche?!). A vederli così, nudi e persi, spontanea sorge l’associazione con i proge-nitori della stirpe umana, con coloro che scoprirono il dolce sapore del peccato e l’inestinguibile tormento della conoscenza.I corpi hanno però perso ogni eleganza o felicità, nessuna memoria della gloria del paradiso illumina i loro volti che sembrano invece contemplare l’abisso di una vita terrena in cui il godimento della carne ha lasciato il posto all’incognita del futuro. Addolorate, contratte, scomposte: così appaiono le candide membra dei due modelli a raccontare l’umano af-fannarsi, il continuo annaspare e dubitare, il non sapersi accettare nella tenera, goffa bestialità. Quella di Stefania Mattu è una fotografia che si confronta con la più ricca tradizione pittorica e, al tempo stesso, la supera, ne fa tesoro ma la mette da parte per sperimentare una fredda lobotomia del contem-poraneo, una impietosa registrazione della valle di lacrime – sempre per restare in ambito religioso – in cui brancoliamo ogni giorno. È uno sguardo tenero e fermo, sguardo che usa la fotografia per inondare di luce le pieghe ombrose del nostro sentire, dove si annidano vergogne e pudori come inutili fardelli nel cammino. Una luce che registra e non giudica, una luce di comprensione e pietà, sentimenti rari, che abbiamo deposto o dimenticato. Alla fotografia il compito di ripristinare una scala di valori che ci riconfermi nel nostro essere umani e dunque fallaci ma sempre tesi verso la redenzione. Perché guardare, e vedere, è un folle atto di misericordia che solo pochi sanno compiere con completezza di intento e risultato.

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Stefania Mattu, V. e P., 2012, dalla serie Fractures, stampe giclée incorniciate, cm 20x50 cad

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narcisa Monni (alghero, 1981)

Nel 2009 consegue il Diploma di laurea in pittura all’Accademia di Belle Arti di Sassari dove poi lavora come tutor per un anno. Successivamen-te si specializza in Interaction Design Experience presso la Facoltà di Architettura di Alghero.

Narcisa Monni è una girovaga dell’arte, nel senso più intimo del termine. Un’artista la cui curiosità viene declinata in una continua fase di indagine che l’ha portata, nel tempo, ad attraversare varie modalità espressive, tutte sperimentate e consumate in maniera intensa e piena. In un processo inverso rispetto al solito percorso accademico comu-nemente inteso, Monni arriva alla pittura in una fase matura della sua ricerca e fa colare, insieme al colore, riflessioni e considerazioni mai banali, mai scontate ma sempre autentiche e sofferte.Quello che scruta è un quotidiano sgualcito, una successione infinita di movimenti banali, disarmanti nella loro semplicità che ci appaiono, così decontestualizzati e macroscopicamente indagati, sublimi e terribili.Ogni parte del suo appartamento viene ritratta come momento unico e ir-ripetibile, ogni oggetto diventa modello di rara bellezza, totem votivo eret-to in onore di una continua ricerca di sicurezza, rincorsa della stabilità. L’armadio, in particolare, funziona come mondo parallelo, un fragile e ingenuo sentimental journey, struggente fino all’inverosimile, che nien-te ha da invidiare ai poemi di C. S. Lewis. Ci si trova impreparati alla incorporea tessitura del colore, un sospiro cromatico su alluminio; una contrapposizione materica che rende perfettamente l’incoerenza dei sentimenti, il nostro annaspare nel mare delle possibilità.Amiamo come possiamo. Amiamo come sappiamo. Siamo eterni ap-prendisti del sentimento. Ciechi topolini da laboratorio che continuano a sbattere il muso contro lo stesso muro di un eterno labirinto eretto dalle nostre pulsioni, vergognoso retaggio della nostra bestialità.I secoli di letteratura, musica e cinema non redimono un costante dis-sanguarsi, che è poi la lotta quotidiana tra ciò che siamo e ciò che de-sideriamo.I sentimenti sono alla fine solo vestiti appesi in un armadio buio, abiti che solo occasionalmente decidiamo di indossare.Con una pittura evanescente, liquida come il nostro presente, Narcisa Monni ritrae la triste ballata dell’amore contemporaneo. I titoli, curati e spiazzanti, sono brevi romanzi rosa in cui confluiscono i sogni pop-rock di una generazione implosa. Una ridicola e raffinatissima sfilata di possi-bilità da cui però usciamo sempre sconfitti: se tutto vale, niente vale.

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Narcisa Monni, Si vince da soli, 2013, acrilico su alluminio + flatting, cm 100x80

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chiara PorcheDDU (sassari, 1982)

Nel 2006 si diploma allo IED di Torino con Cicatrici, tesi-reportage su Sarajevo dieci anni dopo il conflitto. Dal 2007 collabora con lo studio fotografico Armellino&Co di Torino.Vive e lavora tra la Sardegna, Torino e Londra.

Chiara Porcheddu sceglie per questa installazione fotografica un titolo la cui evidenza non lascia scampo: My weight in time.L’assonanza fa pensare a Lost in time, oscillando tra Doctor Who e un hong Kong drama del 2003, dal video gioco anni ‘90 a vari album mu-sicali.Al di là dei riferimenti culturali che ci rivelano figli del nostro tempo, il gioco delle assonanze, apparentemente innocente, fa emergere un senso di spaesamento, una perdita di punti di riferimento. Le polaroid – tutte accompagnate da didascalia che registra peso, data e città come se si trattasse di un referto medico, la registrazione di un paziente – scandiscono la quotidianità di Chiara e ci ammaliano come un rituale domestico in cui la dinamica è semplice e il fatto temporale dominante. La lunga durata, la reiterazione del gesto, incombono.Londra, Sassari, Torino, Salisburgo, Alghero... cambiano le mattonelle, cambia la bilancia e cambiano le date. Cambiano anche i piedi fotogra-fati che, delle volte, appaiono magri fino alla tenerezza.Cambiano le città, gli studi e i lavori; si accumulano biglietti e cartoline e destinazioni ma in valigia, insieme a mutande e camicie, Chiara infila anche l’ossessione per il peso.Il work in progress di Chiara Porcheddu è un costante dialogo con se stessa, un diario di bordo di un viaggio che la trascina verso aspettative ogni volta più alte; un confronto che la vede sempre perdente, affaticata dall’interrogarsi, misurarsi, registrarsi in modi che nessun giudice utiliz-zerebbe mai. L’uso della polaroid ricalca una lunga tradizione snapshot – da Andy Warhol all’irriverente Araki – e conferisce al lavoro un senso di momento rubato, di immagine caduta dal diario di una adolescente.Il senso voyeuristico è lo stesso anche se non stiamo frugando nella camera di una teenager ma assistiamo al volontario martirio di una gio-vane donna.Porcheddu, come un’equilibrista, si mantiene sospesa tra reportage e diario, con la delicata e visionaria sensibilità che contraddistingue tutti i suoi lavori, delicata Alice che ha perso la strada del paese delle meravi-glie e si dibatte in questo paese, un paese reale come i suoi fantasmi.

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Chiara Porcheddu, My weight in time, 2008-2013, installazione fotografica – work in progress

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JosePhine sassU

(emsdetten, Germania, 1970)

Vive prevalentemente in Sardegna. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, dove si diploma con una tesi su Pino Pascali, si dedica alla carriera artistica e si occupa di didattiche dell’arte.

C’è sempre una reale, tangibile, irriverente e straripante poesia nei titoli che Josephine Sassu compone per i suoi lavori. E il verbo comporre non è im-proprio se accostato a questi piccoli haiku che segnano non solo il tempo del suo fare ma, con ancor maggiore acume, scandiscono il procedere del contemporaneo. Un procedere sbadato e sbandato, stando al titolo del suo ultimo lavoro, Non mi ricordo dove volessi andare.Un pensiero comune, che ci avvicina tutti, ci svela fragili e difettosi.Come sempre la Sassu parte da qui, da una supposta e condivisa fragilità. Parte da sé, dai suoi vizi e dalle sue virtù, dalle sue vittorie o dai suoi (sup-posti) fallimenti. Soprattutto sa partire dai suoi dubbi. Dubbi declinati come sempre in porzione apparentemente ridotta, con modi silenziosi e un mood casalingo, minuto, infantile alle volte, per opere che fanno sorridere, tanta è l’apparente semplicità.Josephine Sassu costruisce storie con il movimento delle mani in un re-cupero mai ingenuo del fare come pratica terapeutica, antidoto al grigiore dei giorni e al logorio da tubo catodico che sembra avvilupparci tutti in un sordo malcontento di cui non scorgiamo più il perimetro, non individuiamo la forma.Come ostinata manifestazione di presenza e volontà, la Sassu realizza lavori che si muovono e organizzano obbedendo alla regola matematica del “mi-nimo comune multiplo”, una poetica del sobrio, dell’essenziale; un processo ascendente fedele a quell’umano sentire che ci accomuna tutti, per un atti-mo, una frazione in cui il mio io trova eco nell’universo a lenire solitudine.Il già citato titolo Non mi ricordo dove volessi andare nasconde, dietro toni da piccola profezia quotidiana, un’installazione solo apparentemente giocosa in cui la plastilina – materiale che la maggior parte di noi non frequenta più dopo l’asilo – serve per creare fantastici quanto basici bestiari – l’elefante, mito della memoria, che si accompagna al baobab, il più magico e longevo tra gli alberi – in cui si impigliano i racconti distratti delle nostre giornate. Giornate in cui desideriamo un firmamento che ci indichi il cammino, non per forza un stella cometa di troppo evidenti implicazioni bibliche, ma almeno una lu-minosa costellazione, come quella che la Sassu fa brillare nello spazio – che non teme ma con cui dialoga – nel tentativo, forse sciamanico, di tracciare il proprio destino.Del resto, come dicono i saggi, la strada si fa sotto i piedi. O attraverso il desiderio delle mani.

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Josephine Sassu, Non mi ricordo dove volessi andare, 2013, installazione: sculture di plastilina, piedistalli in legno, stelle adesive in pvc, misure variabili

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chiara seGhene

(sassari, 1983)

Nel 2007 si laurea in Decorazione all’Accademia di Belle arti di Sassari.Nel 2011 consegue la laurea specialistica in Arti visive e Discipline dello Spettacolo ad Urbino. Vive e lavora tra Londra e la Sardegna.

Chiara Seghene sembra essersi votata ad un dio specialissimo e nasco-sto, quel dio delle piccole cose che gode di pochi e selezionati adepti in un’era di conclamato consumismo (appena scalfito dall’innegabile crisi).Gli oggetti, quelli piccoli appunto, quotidiani, banali e quasi invisibili nel-la loro consumata utilità, sono al centro dell’innamoramento artistico della Seghene che ne manipola l’identità con operazioni di rituale prag-matismo: ricami, alterazioni, incisioni... un fare che richiede tempo e attenzione; una cura che sfiora l’efficienza; un senso del sacro costruito nella reiterazione.In fondo la religione, o meglio, la fede altro non è che la sfida dell’uomo alle leggi del creato; è un pensiero ambizioso tradotto in azione, mutato in un agire che converte gli oggetti ammantandoli di prezioso; un’aspirazione secolare che diventa simbolo, nome che battezza e possiede come quello sinteticamente inciso – Chi Rho – sul Vello che dà il titolo all’opera. L’arte della Seghene sfiora processi sciamanici nel congiungere cielo e terra, materiale e immateriale, declinando quello slancio divino che ci rende la più consapevole tra le bestie del creato. E forse, per questo, anche la più fragile e infelice. L’artista si cimenta in una riflessione intima e molto umana attraverso cui analizza la prosaica trinità di Amore-Addomesticamento-Possesso nel doppio movimento che da Dio plana verso l’uomo e poi dall’uomo verso la natura.Ma ci muoviamo nel regno dell’illusione e della speranza e l’arte è un estremo tentativo di opporsi alla legge del caos, declinato attraverso due differenti linguaggi: il video e l’installazione. Alla pelliccia – scura, incisa e vagamente inquietante – fa eco la registra-zione di ingenue riprese da documentario pomeridiano, tenere corse di animali di razze varie; sequenze talmente ipnotiche da indurre in una sorta di trance ma alterate da un suono stridente, preludio di eventi apocalittici, quanto meno; punizione certa per aver tecnologizzato ogni aspetto della vita, per esserci voluti intromettere nel mistero della creazione.La Seghene evidenzia, con scarto minimo, la scomoda posizione dell’uomo nel suo essere presuntuoso anello di congiunzione tra il divi-no e l’animale ma soprattutto rivela l’inadeguatezza nel gestire questo ruolo e, soprattutto, il nostro essere padroni di niente.

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Chiara Seghene, Vello, 2012, pelliccia, incisione, cm 120x75 / Vello, 2012, video, durata 04:22

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lUca sPano

(cagliari, 1982)

Dopo la Laurea in Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma consegue un Master in fotografia al London College of Communica-tion. La sua ricerca si focalizza sulla relazione tra paesaggio, cultura e soggettività.

La fotografia cambia il rapporto con i luoghi. E con noi stessi. In dimensione dialettica, paesaggio e autoritratto convergono in una riflessione esistenziale di non immediata comprensione. In una doppia messa a fuoco, un viaggio bi-direzionale, l’esplorazione del paesaggio equivale ad una spietata autoanalisi.In questo doppio movimento, Luca Spano usa lo scatto come pratica incisoria per scandagliare la realtà, esteriore ed interiore al contempo. Posa sul (suo) mondo una luce chirurgica, ammaliante e straniante. Una luce fredda e tagliente; luce che dubita e riflette, appare decisa-mente insolita se pensata per un’isola nel cuore del Mediterraneo e che è, prima di tutto, indagine, ammissione e accettazione mentre dipana un tempo dilatato, incommensurabile, diverso dal piccolo ritmo del quo-tidiano affannarsi, dell’umano rovello. È il tempo dell’essere, della terra che muta e dell’animo che si eleva; il tempo della convivenza tra uomo e natura.In One, Luca Spano inanella frammenti raffinatissimi di un’isola da troppi grossolanamente raccontata e mediaticamente svenduta – come sem-pre più lo sono anche le nostre vite – e, per questo, eterna sconosciuta, costante rivelazione ai suoi stessi abitanti. È un secondo incontro, il ten-tativo di ri-innamorarsi, di darsi reciprocamente una seconda chance.Gli scatti sono organizzati secondo una ferma prospettiva frontale, neu-tra, senza angoli o prese di coscienza che sappiano di militanza. Molto più che luoghi, Spano ritrae ipotesi di esistenze, immortala crocevia dove tutto sembra possibile, in un cortocircuito tra passato e futuro in cui si dipana un presente sfocato. I luoghi hanno memoria. Conservano tutto, preservano ogni sentimen-to che li ha attraversati. E poi tutto restituiscono.La fotografia di paesaggio nel nuovo millennio ha senso solo per queste intersezioni della realtà, per il tentativo che uomo e natura concorrono nel desiderio di ritrovarsi, uno slancio struggente, mosso dalla nostalgia di una completezza smarrita. Una reale scrittura di luce che glorifica l’evidenza; un’appartenenza che si traduce in cura. Una cura che parte dallo sguardo prima che da ogni altro gesto consapevole. Uno sguardo autentico, che non si limita solo a guardare ma vede, comprende, ama.

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Luca Spano, One #2, 2008, stampa ai pigmenti colore su carta 100% cotone archival hahnemühle photo rag satin, montata su dibond con cornice distanziatrice sul retro, cm 50x50, ed. 3+2 PA

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GianlUca vassallo

(castellammare di stabia, 1974) Esordisce nel 2010 con una mostra al PAN di Napoli. Nel 2011 pubblica sul giornale La Nuova Sardegna Photomoleskine: Appunti Visivi sulla Sardegna Contemporanea. Finalista al Premio Terna 2012. Nel 2013 il MART ospita il site specific DentroInside.

Gianluca Vassallo non fa sconti a nessuno. Nemmeno a se stesso. Usa la fotografia come un bisturi che insinua negli interstizi sociali allargan-do ferite già infette, operando senza anestesia. Ogni suo lavoro sonda differenti soglie di dolore senza mai assicurare redenzione. Con Krisis, sua fatica più recente, indaga senza pudore la sottile linea di confine tra vittima e carnefice. O, andando ancora più a fondo, tra umanità e bestialità.Evidente, in questa soglia d’azione, è la consapevolezza del privilegio e, al tempo stesso, della responsabilità che si assume nel fare arte in generale ma ancor di più in tempi di crisi. Non ci sono mai stati tempi favorevoli, la consapevolezza arriva tardi-va. Semmai ci sono, a memoria d’uomo, tempi particolarmente duri, disagevoli, ardui. E questi, i giorni che stiamo vivendo, lo sono senza dubbio. Non solo per una dimensione economica, seppure questa inci-da notevolmente, ma soprattutto per una svalutazione dei valori, delle emozioni, delle aspettative. Una landa dormiente in attesa della fine. Una terra senza più lotte o spinte, merito o paura di punizione. Nella caduta dei vincoli sociali emerge la bassezza dell’animo umano, nudo nel suo stato primordiale.Vassallo cita implicitamente hobbes e un iper-contemporaneo Homo ho-mini lupus che trova credibile e dolorosa pregnanza in un’attualità edulco-rata in cui il compito scomodo della denuncia sembra affidato all’arte. Per assolvere il compito, Vassallo realizza una serie di autoritratti. Un numero non casuale di scatti dato che il 6 evoca l’equilibrio e l’ordi-ne perfetto ma, allo stesso tempo, genera confusione e turbamento. Sentimenti che sottendono fortemente alla metamorfosi che vediamo attuarsi nel procedere delle immagini mentre sotto i nostri occhi avvie-ne la trasformazione da giovane uomo scanzonato a serial-hitler-killer: uccidersi o uccidere? Soccombere o aggredire? Interrogativi aperti.Il gioco però è fortemente duale: l’estrema sobrietà del bianco totale fa galleggiare il corpo nudo in una dimensione senza tempo e senza spa-zio che agevola e quasi istiga l’identificazione. È un crudele rimando di specchi che ci sconfessa nella nostra ignavia, nell’aggressione passiva, nella non reazione che genera esplosione folle. La storia si ripete eppu-re da questo ciclico orrore sembriamo non imparare poi molto.

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Gianluca Vassallo, Krisis (dalla serie), 2013

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CURATORE

associazione cUltUrale “verticale D’arte”

elisa Mori, Giorgia berardinelli, silvia bartolini

Tre giovani responsabili di settore, affiatamento, entusiasmo e voglia di fare: dall’incontro tra Elisa Mori, Giorgia Berardinelli e Silvia Barto-lini come una scintilla nasce l’Associazione culturale “Verticale d’Arte”, innovativa piattaforma di servizi per la promozione e la diffusione della cultura artistica contemporanea, che scruta luoghi non comuni e part-ner sensibili per ideare e realizzare iniziative originali, volte alla valo-rizzazione delle diverse espressioni artistiche, intese come reciproche occasioni di scambio, contaminazioni creative, nonché concrete azioni di tutela e promozione nei confronti della realtà in cui si opera.

artisti

FEDERICA AMIChETTIATTINIA

ALESSANDRA BALDONIGIUSEPPE BIGUzzIKARMIL CARDONEhERNÀN ChAVARMăDăLIN CIUCă

TIzIANA CONTINOGIORGIO DURSI

ELENA GIUSTOzzIALICE GRASSI

GIUSEPPE LANAPING LI

SILVIA MARIOTTIBARBARA NATI

NIBACATIA PANCIERA

GIOVANNI PRESUTTISERENA SCOPINIGIOVANNI SCOTTIFRANCESCA TILIO

LIDIA TROPEA

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>>>crossWaYs<<<

Homo faber fortunae suae, è vero, ma la nostra vita è fatta anche di di-strazioni, di eventi fortuiti, di incontri e incroci che sembrano il più delle volte casuali. Infatti c’è sempre una ratio segreta per cui alcune strade finiscono per confluire in altre. È successo prima a noi tre dell’Associazione culturale “Verticale d’Ar-te”, provenienti da percorsi di formazione e lavorativi nell’ambito della curatela e della ricerca artistica diversi ma spesso tangenti, ed è poi successo tra noi – entità unica ma plurale – e il team di Marche Centro d’Arte. E Crossways, “incroci” appunto, è il frutto di questo nostro aver intercettato altre vie, altre strade: quelle degli artisti qui presentati, che a loro volta tracciano il proprio cammino come tante rette che ora si intersecano nelle sale del PalaRiviera. Mossi dalla volontà di promuovere e valorizzare originali tendenze espressive e nuovi talenti artistici, come pool abbiamo indetto, infat-ti, un bando di selezione, cui hanno risposto quasi duecentocinquanta artisti, tra i quali abbiamo scelto – senza alcun vincolo tematico o di lin-guaggio, ma solo in considerazione della qualità, originalità, contempo-raneità e innovazione della ricerca – i ventidue che espongono in questa sezione curata da “Verticale d’Arte”.Di qui l’idea, dunque, di catalizzare incroci e di creare non frammenta-zione ma pluralità, intersezione, contaminazione, confluenza e unione, facendo incontrare esperienze artistiche singole e diverse, dal cui con-fronto possono scaturire punti di vista, nuove invenzioni e nuove verità (senza la pretesa di esser davvero tali).

Elisa Mori, Giorgia Berardinelli, Silvia Bartolini

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FeDerica aMichetti (recanati, 1976)

Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, mentre frequenta la scuola di recitazione del Minimo teatro e partecipa a numerosi wor-kshop con artisti di fama internazionale. Tra la esposizioni più importan-ti, si segnalano l’invito alla 54^ Biennale di Venezia – Padiglione Marche, Ancona, le installazioni site-specific Im-perfetto equilibrio, Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, e Mater Mater-ia, Colle San Marco.

Viaggiatrice curiosa, sperimentatrice infiaccabile, Federica Amichetti è da sempre dedita alle arti figurative che pratica e coltiva avvalendosi di una impressionante diversità di mezzi espressivi che, con sapiente re-gia, di volta in volta, si rivelano i più congeniali alla sua costante ricerca dell’estrinsecazione di significato. Il suo lavoro infatti si nutre di stimoli sempre nuovi e di diverse modalità espressive, che l’artista coniuga e fa convivere con estrema naturalez-za in opere che attingono al senso più profondo dell’io e della natura, e dell’io a contatto con la natura. Pur privilegiando la pittura, invero, Federica Amichetti si avvale di una originale sperimentazione e sovrap-posizione di linguaggi come la ceramica, la video arte (per cui Ida Ge-rosa costituisce uno dei suoi più grandi punti di riferimento), la scultura effimera, l’istallazione e di recente anche la performance e la land art.Da sempre la ricerca di Federica Amichetti riflette sul doppio binario della natura e del sentimento umano, trovando nella visione il proprio punto di contatto, per cui ciò che è esterno al soggetto viene da esso interiorizzato. Dalla visione all’illusione il passo è breve. E la visione come illusione, come liquefazione e scolorire dell’immagine per diveni-re altro, è il punto di arrivo dei Liquiscapes, ciclo di cui fa parte l’opera presentata per l’Expò di Marche Centro d’Arte. In Liquiscape 12 sembra propriamente trascolorare un paesaggio palu-stre, in cui, a un fitto canneto che emerge più distintamente, fanno da contrappeso nebbie ed esalazioni che invece fagocitano e annullano il panorama retrostante. Nella loro contemplazione, improvvisamente si viene come assaliti da una vertigine, poiché ci si accorge che quell’im-magine, che a primo impatto sembrava essere tanto reale, di fatto non lo è, e nemmeno quel canneto pare più tale: l’illusione rompe l’equili-brio tra reale e immagine e tra immagine e sua percezione, e l’opera d’arte diventa, così, un dono che l’artista fa a chiunque l’ammiri, perché eludendo la visione consueta, meccanica e assuefatta della natura, gli svela l’essenzialità e l’universale che va cercato sotto la superficie delle mere cose. [SB]

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Federica Amichetti, Liquiscape 12, 2011, olio e grafite su tela, cm 113x200

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attinia(san benedetto del tronto)

Nativa di San Benedetto del Tronto (AP), dove vive e lavora, Attinia si avvicina all’arte frequentando l’Istituto d’Arte prima e l’Accademia di Belle Arti (sezio-ne Scenografia) poi, entrambi a Macerata. Dopo un lungo trascorso legato al mondo del teatro, della pubblicità e della moda, circa otto anni fa, riprende il suo intimo dialogo con l’arte, iscrivendosi nuovamente all’Accademia per il biennio specialistico in scultura, arrivando a laurearsi nel febbraio 2012, con il massimo dei voti, con il celebre artista performer Franko B, che defini-sce l’iter di Attinia “un percorso sensuale, organico, una mappa del corpo e dell’anima, è un percorso molto personale quindi vissuto senza tregua”.

“In questa epoca dove tutti pensiamo di esistere solo se siamo resi visibili, io voglio diventare invisibile”. Dietro questa frase si cela il credo profondo di un’artista come Attinia, che per scelta privilegia parlare e raccontare qualco-sa di sé attraverso le sue opere, le sue ricerche piuttosto che attraverso il suo essere artista. La sua naturale inclinazione all’arte si esplicita nella scultura, o meglio nella scultura installativa, nella quale Attinia riesce a far convivere ma-teriali e oggetti diversi, naturali, organici, artificiali, derivati della produzione industriale, plexiglass, metalli, oggetti trovati, immagine, suono e video che insieme sono espressione di una sua personale narrazione. “La spinta ideativa mi porta a spaziare tra diverse soluzioni artistiche che mi conducono verso risultati eterogenei ed il mio interesse si dipana nella sperimentazione sui materiali e nella ricerca della forma e del senso dell’ar-te, ma soprattutto nel provare a dare espressione all’incontenibile curiosità dell’essere e alla necessità umana della scoperta”. L’esperienza creativa per Attinia rappresenta un costante superamento, un desiderio profondo di an-dare oltre, generando molteplici significati dalla forte valenza simbolica.Il sociale e l’attualità sono spesso componenti fondamentali nel messaggio lanciato da Attinia attraverso le sue opere, la possibilità di instillare il dubbio nell’osservatore, di indurre al pensiero e alla formulazione di quesiti sono alla base di scelte consapevoli.Mediante Spirito di conservazione, opera composta da 193 barattoli da con-fettura vuoti e ordinati all’interno di una rete metallica tipica dell’edilizia che ne impedisce qualsiasi tipo di contatto, il riferimento va agli Stati riconosciu-ti dall’ONU nel 2011, i quali, sotto l’egida delle rispettive bandiere, celanti ideologie democratiche spesso precarie e frammentarie, non mancano di mostrare le loro fragilità e la loro penuria di contenuto.In Accadueo, una moltitudine di bottiglie vuote traccia la formula chimica dell’acqua (h2O), patrimonio primario di tutti i tempi e di tutte le popolazioni, e spinge l’osservatore ad una riflessione su quello che è, o dovrebbe essere, un bene comune alla base di tutte le forme di vita conosciute. [EM]

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Attinia, Accadueo, 2012, bottiglie vetro, tappi a corona, etichette carta adesiva stampate, cm 260x160x30

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alessanDra balDoni(Perugia, 1976)

Vive e lavora a Perugia. Dalla maturità classica, passando per gli studi universitari in filosofia, approda alla fotografia con all’attivo numerose mostre personali e collettive, nazionali e internazionali. Ne è un esem-pio il recente lavoro Vite di uomini non illustri (2012-2013) attualmente esposto nella pregevole rassegna perugina di Palazzo della Penna “L’ar-te è un romanzo” curata da Luca Beatrice.

Il duplice ruolo di Alessandra Baldoni, fotografa e poetessa, gli con-sente di dar vita a delle “piccole sceneggiature scritte per uno scatto”, creando una connessione osmotica tra l’immagine e la parola scritta, sempre presente nella sua produzione.L’artista confida di essere interessata alle “immagini simili alla poesia, immagini che parlino sottovoce senza bisogno di urlare o attaccarsi a forza agli occhi che dicano qualcosa ma non tutto, che lascino un miste-ro e facciano intuire un segreto: immagini cortocircuito/emotivo, picco-le imboscate al cuore che spingano l’osservatore a frugarsi l’anima, a risolvere un’inquietudine”. Ci troviamo di fronte ad opere in cui convive una duplice narrazione fatta di immagini e di parole, che vengono scomposte e rielaborate a crea-re di volta in volta nuove sceneggiature, nuove storie da raccontare, popolate da giovani ed enigmatiche eroine, perlopiù in solitudine, che sembrano provenire da mondi onirici, decontestualizzate e estranee al circostante, quasi fossero delle apparizioni in spazi di natura incontami-nati, quali boschi, mari e prati.Ne sono un esempio i due scatti presenti in mostra So we must meet apart e Love-by Memorial Mold, entrambi del 2011, nei quali i protagonisti sembrano completamente avulsi dal paesaggio naturale circostante. L’artista, indagando i temi del sogno, della memoria, della favola e dell’amore, crea delle personali mise en scene, a metà strada tra il me-tafisico e l’incantato, con l’intento di narrare i luoghi della memoria, le geografie esistenziali nel quale l’osservatore può identificarsi.La fotografia per Alessandra Baldoni è il tramite per poter “immortalare il mondo, per raccontarlo e raccontarsi”. [EM]

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Alessandra Baldoni, So we must meet apart, 2011, stampa fotografica da negativo su dibond, cm 60x110

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GiUsePPe biGUzzi(ravenna, 1968)

È Maestro D’Arte e consegue il diploma di maturità di Arte Applicata presso l’Istituto D’Arte di Venezia. Vive ed opera a San Donà di Piave e collabora con diverse gallerie.

Giuseppe Biguzzi fornisce la propria versione della contemporanea conditio humana mediante una lezione figurativa che al proprio interno permette di rilevare elementi compositivi novecenteschi che sono echi lontani – ma presenti – tanto letterari quanto artistici. La disillusione ed il graduale abbandono vengono resi manifesti attraverso uno sguardo negato.Le donne di Giuseppe Biguzzi sono figure ritratte sedute, sdraiate, op-pure con braccia intente a stringere ginocchia o caviglie, e quando sono rappresentate in piedi, l’atteggiamento del corpo non tradisce una fiera affermazione della conquista dello spazio circostante, quanto un pro-gressivo discostarsi tanto da quello spazio che si sta occupando in modo indolente che dalla propria fisicità. Il dato certo è la presenza dell’abban-dono. Ma non è un abbandono proveniente ed imposto dall’esterno, piuttosto un sistematico inesorabile scivolamento di volontà, uno smar-rimento dell’io ed una cancellazione della propria identità. Le due tele presentate all’Expò di Marche Centro D’Arte compongono attraverso un dittico, due momenti posturali differenti di Romina sog-getto che già precedentemente è stato affrontato dall’artista.Romina è in entrambe le tele raffigurata in piedi, un’esile figura con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo chino a terra oppure con le braccia raccolte lungo il busto e posta di tre quarti nei confronti dello spettato-re, trovandosi perciò di spalle rispetto ad egli. La comunicazione tra le parti (oppure il legame che in genere tende ad instaurarsi tra ciò che c’è al di là della composizione e quello che si trova all’interno della compo-sizione stessa) che si trova in un dittico, qui è cancellata.Formalmente l’opera è costituita di due sezioni distinte e tenute as-sieme da un unico motivo ispiratore, quello che viene meno però non è solo il contatto con l’osservatore – che in genere si stabilisce con lo sguardo rivolto all’esterno – ma anche il contatto tra le due raffigurazio-ni di Romina. La protagonista è come sdoppiata e persa in un dialogo mancato con la propria interiorità, e sembra aver compreso l’isolamen-to in cui è immersa e dal quale non ha modo e voglia di uscire.Il grigio dello sfondo – usato come tòpos artistico – aumenta il senso di sospensione di queste due silhouettes che non riescono nemmeno a conquistarsi il ruolo di alter ego reciproco, ma fluttuano in uno spazio che non determinano e non hanno alcun interesse a gestire. [GB]

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Giuseppe Biguzzi, Romina 21, 2013, dittico (part.), olio su tela, cm 160x90 cad.

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KarMil carDone

(Potenza, 1985)

Compie studi artistici, prima diplomandosi presso l’Istituto d’arte di Po-tenza, poi laureandosi in Storia dell’arte e dello spettacolo all’Università La Sapienza di Roma con un progetto interattivo sulla corrispondenza sinestetica tra suono e colore.

Giovane artista della generazione under 30, Karmil Cardone vive e lavo-ra tra Potenza, sua città natale, e Roma, luogo della sua formazione e sperimentazione artistica, in cui intraprende un percorso che lo porta in poco tempo a vincere numerosi premi nonché a partecipare a importanti esposizioni e manifestazioni in Italia e all’estero, come il Padiglione Italia/Basilicata della 54^ Biennale di Venezia, la Biennale de la Mediterranée a Salonicco, il Word Event Young Artist di Nottingham e il Premio Celeste a Roma.Dai lavori di Cardone emerge una disciplina che è frutto di studio e ri-flessione sulla storia e sulla contemporaneità. Egli, infatti, è un fotografo attento e raffinato che costruisce ogni immagine con rigore tecnico e compositivo, riversandovi echi e suggestioni colte che l’artista rielabora dalla storia dell’arte, dal cinema e ovviamente dalla fotografia (importante sembra essere l’influenza di artisti come Fontana, Ghirri o Cresci).Sia che focalizzino paesaggi naturali o artificiali, interni o esterni, le im-magini di Cardone, con ponderata regia e misurato equilibrio, tentano sempre di far emergere l’aspetto più nascosto del quotidiano, o forse il tragico quotidiano, senza tuttavia scendere nella denuncia o nel reali-smo sociale. Al contrario, l’artista rende irriconoscibili luoghi reali cosic-ché diventino archetipici, dei non-luoghi di fatto, in cui anche il tempo è sospeso in un’attesa quasi metafisica dove interiorità e mondo esterno possono incontrarsi in un comune viaggio verso l’assoluto. I personaggi che si muovono in questi spazi, tra le architetture urbane e suburbane col-te dall’obbiettivo di Cardone, appaiono come moderni eroi romantici, soli, spesso di spalle come il viandante o il monaco di Friedrich (da cui il titolo di alcuni lavori) ma estremamente anonimi e ‘normali’, in attesa o spesso in fuga, e comunque sempre in balia dell’incertezza della vita contempo-ranea, di un disagio esistenziale che li spinge a dissolversi o a vagare.Marchette è il titolo di due opere in cui tale disagio è reso manifesto da una presenza giovanile (sia un uomo che una donna) che si staglia sullo sfondo di un paesaggio urbano fatiscente, della più remota e trascurata periferia, cui senz’altro non è estranea la lezione del grande cinema di Pasolini. E le fugaci prospettive, il taglio ribassato e le tonalità fortemente plumbee introducono un quid di malinconico ma distaccato che rende l’immagine ancora più enigmatica e suggestiva. [SB]

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Kaarmil Cardone, Marchette, 2011, fotografia, stampa fine art, carta hahnemuele Photo Rag Bright White 310 g/mq, cm 90x60

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hernàn chavar

(buenos aires, argentina, 1979)

Si trasferisce in Italia all’inizio degli anni ’80. Dopo aver frequentato l’Istituto Statale d’Arte di Macerata, si diploma con il massimo dei voti presso l’Accademia di Belle Arti della stessa città.

Demiurgo di immagini conturbanti ed enigmatiche, hernàn Chavar è un artista infaticabile e ipertrofico che, armato di china e colori, dà vita a fantasmagoriche illustrazioni popolate da strani esseri, in bilico tra realtà, mito e fantasia. Sono opere che l’artista ha esposto in diverse personali dai titoli altrettanto favolistici a Corridonia (Hernan Chavar Vs l’Uomo gamberetto), Macerata (Project H), Grattammare (Hunters in the Snow), San Benedetto del Tronto (Il Sacerdote e Non sparate al Pit-tore) e Fermo (Hernan viene a prendere un te allo spazio 1627), nonché in numerose collettive tra le Marche, la Puglia, Roma e Berlino.L’immaginario cui Chavar dà corpo è davvero sensazionale, e attinge da ogni sfera del suo vissuto e del suo rapporto con la realtà: non solo dunque ciò che lo circonda, dalla fisicità all’emotività, ma anche la natu-ra (vero e proprio libro sacro per l’artista), la flora e la fauna, la musica, l’antropologia e l’etnologia, gli usi e i costumi di popoli lontani nel tem-po e nello spazio, l’archeologia, la mitologia, il cinema, la letteratura e il teatro diventano per lui fonte di costante ispirazione, da cui attingere elementi o sensazioni da smontare e rimontare, elaborare, rimaneggia-re e riassemblare in universi sempre nuovi.Ne derivano figure quasi esoteriche, di un’intensità mistica e spirituale, a metà tra nuovi enigmatici santi e spaventevoli demoni, in continua tensione tra una natura bestiale e una bestialità disumana, i cui colori lividi e violenti infondono un senso di inquietudine che incanta e turba allo stesso tempo. Proprio come di fronte a certe immagini di Dürer o di Pieter Bruegel il Vecchio, si subisce una fascinazione evocatoria che annulla ogni riferimento descrittivo pur nella dovizia dei particolari. Il Ragazzo con la testa a forma di casetta per uccelli (e i volatili sono frequentissimi nelle sue opere, forse per la potenzialità del volo e di astrazione dalla terra) e lo Sputafuoco esposti in mostra sono solo due di queste figure sacrali, veri e propri “fantasmi di carta ed inchiostro, abitatori di una dimensione a parte, specchi ridotti in frantumi in cui gli archetipi danzano senza trovare un luogo definito dal quale costituire degli affidabili punti di riferimento” (Giovanni Matteo). In Casa invece una costruzione alla hopper (o hitchcock) poggia su un terreno costitui-to da un intrico di organi e viscere umane, in una continuità di linee che allude alla contiguità tra la vita e la morte. [SB]

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hernàn Chavar, Ragazzo con la testa a forma di casetta per gli uccelli, 2013, tecnica mista su carta, cm 35x50

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MăDălin ciUcă(brasov, romania, 1987)

Nato in Romania nel 1987, dove consegue la maturità artistica, Mădălin Ciucă porta a compimento gli studi pittorici presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, città in cui attualmente vive e lavora.

Praticamente marchigiano d’adozione, Mădălin Ciucă è senza alcun dubbio uno degli artisti under 30 tra i più promettenti dell’attuale panorama artistico regionale. Nonostante la giovane età, infatti, può già vantare un medagliere di tutto rispetto: vincitore del primo premio al Painting National Workshop di homorod nel 1998, della medaglia d’oro all’Eveil des Jeunes Artistes di Epernay nel 2000, del primo premio alle Olimpiadi delle Arti Visive ad Arad nel 2004, della sezione Giovani al Premio Artemisia di Ancona nel 2008 e di uno dei premi speciali nell’ambito di InOpera 2010. Sulle orme di Padre Matteo Ricci a Macerata – solo per citarne alcuni – espone con assiduità in numerose personali e collettive a livello nazionale. È recente una personale a Firenze, presso il Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio. Tuttavia, il ricono-scimento forse maggiore per la sua arte arriva nel 2011 con l’invito ad espor-re presso il padiglione regionale di Urbino nell’ambito della 54^ Esposizione internazionale d’Arte della Biennale di Venezia.Dedito alla pittura, dalle sue opere emerge una straordinaria manualità e una padronanza della materia quasi da maestro ottocentesco, con cui tuttavia egli riesce a raggiungere esiti del tutto contemporanei, di una modernità se-gnica e gestuale che, in tal modo, risulta ancor più sorprendente. Procedendo verso una graduale attenuazione della tavolozza, e giungendo negli ultimi tempi addirittura all’annullamento del colore per privilegiare il bianco e il nero – è il caso dei due Senza titolo presenti in mostra – per l’artista rimane costante la ricerca della luce, intesa sia come realtà fisica che immateriale, grazie alla quale il reale viene trasposto sulla tela filtrata dall’interiorizzazione di una sensibilità in continua ricerca di una dimensione poetica e umana.“Focalizzo la mia attenzione sulle persone; molte di loro sono amici cono-sciuti in Italia” – dichiara infatti l’artista – “La pittura nasce da foto scattate per fermare attimi, sintonie”. Il genere del ritratto costituisce infatti il campo d’indagine privilegiato nella ricerca di Mădălin Ciucă, che, per questa stessa natura, si ascrive al filone figurativo-realista. Tuttavia con piccole pennellate dense e vorticose, quasi al limite dell’espressionismo, nelle due opere Senza titolo l’artista smonta la costruzione tradizionale della visione e crea immagini in bilico tra l’addensarsi e il loro scioglimento, quasi scandite dalla pulsazione del battito cardiaco. Come la fotografia, che lo affascina molto, così anche la creazione dell’imma-gine è un attimo: il soggetto si dà nella sua immediatezza e intensità, e come tale non è mai “in posa”, ma sempre in divenire. [SB]

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Mădălin Ciucă, Senza titolo, 2012, olio su tela, cm 70x60

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tiziana contino(catania, 1979)

È attualmente docente di Graphic design e cultore della materia di In-stallazioni multimediali presso l’Accademia di Belle Arti di Catania, dove si era diplomata prima in Decorazione, poi in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo.

Dopo le prime esperienze artistiche legate a una profonda ricerca pittorica, Tiziana Contino vira verso linguaggi che le risultano più congeniali dedi-candosi poi, con sempre crescente fervore, alla fotografia, alla video arte, all’installazione e alla performance. Si tratta di ambiti in cui l’artista ha modo di dar corpo a tutto il suo potenziale espressivo avvalendosi anche della loro combinazione, per cui attualmente è riconosciuta in ambito nazionale e non solo. Tiziana Contino ha partecipato infatti a numerosissimi festival, workshop e manifestazioni in Italia e all’estero, come il Contemporary Art Festival di Praga, Videominuto al Museo Pecci di Prato, un programma di residenza d’artista presso la Fabbrica del Vapore, il Padiglione Italia/Acca-demie nell’ambito della 54^ Biennale di Venezia, il Premio Arti Visive San Fedele a Milano e il Premio Arte Laguna a Venezia, per citarne solo alcuni. La ricerca di Tiziana Contino si concretizza in progetti multimediali in cui lo spettatore assume un ruolo di primo piano: egli infatti, da semplice astan-te, ricevente del messaggio sviluppato attraverso i diversi media – fotogra-fia, video, installazioni audio-visive e performance che creano veri e propri scenari immersivi – è chiamato in causa nella costruzione del significato, il che coincide con la realizzazione stessa dell’opera d’arte. Lo spettato-re, dunque, viene chiamato a intervenire nel processo attivato dall’artista, ed egli si trova, così, a interagire non solo con l’artista stessa, ma anche con gli altri: si tratta, questo, di un esercizio emotivo, di un’educazione alla sensibilità e alla condivisione che ha come scopo quello di stabilire un contatto umano, limando o azzerando la distanza, le barriere che nel vivere quotidiano poniamo nei confronti degli altri uomini, in un’esistenza sempre più parcellizzata e individualistica. L’uomo, dunque, nei risvolti relazionali e antropologici del vivere, assume una centralità assoluta nel lavoro della Contino.L’opera Honey/Money – Poetiche dell’assenza sintetizza fotograficamente l’omonima performance che riflette attorno al tema del denaro (cui allu-dono poeticamente i petali di rosa contrassegnati dai simboli delle diver-se monete del mondo) e della ricchezza come miti transeunti, effimeri e pericolosi: la protagonista infatti è colta nell’atto di incollare i petali/denari sul suo volto, quasi a realizzare una maschera di bellezza. Ma poi i petali aumentano in modo esponenziale, fino a consumare e cancellare l’essere umano, simboleggiando la bramosia che lo consuma. [SB]

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Tiziana Contino, Honey/Money - poetiche dell’assenza, 2009, polittico fotografico, stampa lambda montata sotto doppio vetro con cornice in alluminio, 4 foto cm 50x50 cad.

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GiorGio DUrsi (nereto, 1982)

Si laurea presso l’Università La Sapienza di Roma in Scienze Umani-stiche, indirizzo Storico-Artistico. Contemporaneamente allo studio in ambito umanistico, con una vera e propria predilezione per la storia dell’arte, si avvicina in maniera spontanea e amatoriale alla fisica teori-ca, all’astronomia, e ai principi elementari di matematica.

Artista e curatore di eventi culturali, Giorgio Dursi sceglie l’installazione, la performance e la video arte come linguaggi espressivi privilegiati, da cui spesso trae sequenze fotografiche che non solo rimangono a docu-mentare l’azione svolta, ma che costituiscono anche di per sé un’opera d’arte dal valore intrinseco. Dursi proviene da un percorso creativo intrapreso in tempi piuttosto recenti, ma che, per l’originalità e la genialità dei risultati raggiunti, ha immediatamente bruciato tutte le tappe e si configura come una delle esperienze più importanti in ambito regionale e non solo. Lo testimonia-no il progetto realizzato per l’Atelier Soldina a Berlino (A folded expan-ding system, in cui sei specchi quadrati vengono montati a costituire un cubo che, una volta completo, mantiene la superficie riflettente al suo interno, una sorta di tentativo di conservare l’immagine che ha cattura-to dal mondo esterno), nonché la partecipazione a For You, a San Bene-detto del Tronto (AP), Sogni e Migrazioni presso la Galleria Quattrocento Metriquadri di Ancona, Il Gatto di Schroedinger a Monteprandone (AP), Radical Everyday a Grottammare, H curato dall’ADAM nell’Ex Ostello Ricci di Macerata e ZzZleeping in collaborazione con il Centro Speri-mentale di Design Poliarte di Ancona.L’opera presentata alla terza edizione dell’Expò di Marche Centro d’Arte, Thinking about something in a changing state of matter, si avvale della combinazione di video, performance e infine documentazione fotografi-ca, tipica della ricerca di Dursi, il quale è il protagonista dell’azione. Egli viene colto nel processo in cui immerge i piedi nel cemento a presa rapida e rimane in silenziosa attesa, aspettando che esso solidifichi e che intrappoli il suo movimento. È proprio di Giorgio Dursi indagare le diverse sfumature della realtà at-traverso simili procedimenti semplici e materiali comuni, spingendosi e spingendo l’osservatore ogni volta ai limiti dei confini della percezione consueta. [SB]

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Giorgio Dursi, Thinking about something in a changing state of matter, 2012, tecnica mista, dimensioni variabili, documentazione fotografica

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elena GiUstozzi(civitanova Marche, 1983)

Dopo la maturità scientifica, alla soglia dei trent’anni, Elena Giustozzi termina i suoi studi in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Mace-rata. Sono seguiti importanti riconoscimenti, mostre collettive e perso-nali, che confermano la levatura e la qualità della sua ricerca e dei suoi lavori, tra cui si segnalano il Premio Biennale Giovani Artisti Marchigiani, il Premio Business for Art - Premio Arte Laguna, il Premio Combat e la personale Tranches de vie presso la Fondazione Luigi di Sarro a Roma.

Muovendoci tra le affascinanti tele di Elena Giustozzi appare evidente, sin dalle sue prime prove, una grande capacità narrativa combinata ad una no-tevole padronanza della tecnica, privilegiando in modo particolare la pittura ad olio. Le opere dell’artista rinviano a un recente passato, con lo scopo non tanto di far rivivere i valori della tradizione ma di attualizzarla, di dare alla stessa una forma presente. I protagonisti della pittura della Giustozzi emergono da una sfera privata, in un certo senso familiare, legata al passato e nel contempo al ricordo, alla memoria, recuperando in quest’ultima quel di-stacco, tanto emotivo quanto sentimentale, necessario per poter rievocare i soggetti presentati.L’ispirazione attinge al suggestivo mondo, in bianco e nero, della foto-ritratto di famiglia dei primi anni del XX secolo, dalla quale vi è una palese distanza temporale che sembra accentuare l’elemento malinconico.La famiglia, dunque, non solo come nucleo di individui che accompagna la nostra singola esistenza bensì quale legame atemporale, filo invisibile, che è parte fondante dell’essere.Tela dopo tela, scorrono le immagini, calate in un’insolita atmosfera intima, familiare, che si ricompongono nella mente di Elena Giustozzi, costruite at-traverso piccoli scorci, frammentate, il più delle volte avvicinate e collocate in un tempo e in un luogo inediti. Ne è un esempio Senza titolo (2012), opera nella quale l’artista sembra az-zerare la distanza temporale attraverso un’inquadratura estremamente rav-vicinata e, al tempo stesso, ribassata del soggetto, quasi a voler imitare la moderna fotografia. Tagli arditi incorniciano le parti centrali del corpo (dalle ginocchia alla parte alta del busto), che emergono prepotentemente dalla tela in un gioco sottile e raffinato reso ancor più evidente dall’uso di una cromia tutta giocata su una scala di grigi che rasenta quasi il monocromo. Singoli frammenti di un recente passato sembrano ricomporsi anche in Rammemorazioni (2012), in cui Elena Giustozzi, servendosi di un nuovo medium, stampa digitale e luce a led, restituisce in una sua personale nar-razione personaggi e luoghi di un tempo fu. [EM]

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Elena Giustozzi, Senza titolo, 2012, olio su tela, cm 90x150

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alice Grassi(catania, 1981)

Si forma presso lo IED di Roma, l’Accademia Multimediale di Belle Arti di Brera ed il C.F.P. Bauer di Milano. Molte sono le collettive e personali sul territorio nazionale ed internazionale. Vive e lavora a Milano.

Alice Grassi indaga la natura attraverso la fotografia ed il video, molto spesso si trova a far interagire questi due elementi espressivi assem-blandoli in complesse istallazioni che acquistano un forte impatto sia sul versante tecnico che emotivo. La perpetua attività generatrice della natura è qui portata ad emersione e documentata dalla sensibilità umana, che si pone in un necessario – quanto arduo – dialogo con un interlocutore terribile e meraviglioso. La ricerca poetica nelle tre Hot Guest sembra attingere da fonti lette-rarie classiche e da una concezione filosofica di natura naturante (dina-mica nel divenire della propria perfezione) e natura naturata (ovvero la perfezione come risultato compiuto, perciò statica) declinata con un linguaggio estremamente contemporaneo e che, al contempo, mantie-ne intatto un lirismo di matrice romantica (il pensiero corre inevitabile a “Dialogo della Natura e di un Islandese” ne “Le Operette Morali” di Giacomo Leopardi).L’uomo, da privilegiato osservatore, sembra rimanere volutamente a latere dello scenario, consapevole che il dialogo con la natura poggia su fragilissime gambe e su equilibri estremamente labili, ma altresì con-scio del fatto che non ha facoltà alcuna di sottrarsi a questo rapporto, e che deve continuare inesorabilmente ad alimentarlo e coltivarlo.Gli elementi naturali, presentati da Alice Grassi nei lavori qui esposti, sonno immersi in un non-tempo, si mantengono equidistanti dal giorno e dalla notte, dal mutare delle stagioni e dal modificarsi dei contesti.La modalità “scatole luminose” racconta con un linguaggio moderno una genesi che dalla notte dei tempi si ripropone in moto ed in modo infinito e costante, isola il particolare fino a renderlo sia il punto di par-tenza che quello conclusivo della narrazione fatta per immagini. Lo spettatore che entra in relazione con le opere, si trova a cogliere – in modo sempre differente – i dettagli o gli scorci che caratterizzano la composizione, ponendo attenzione di volta in volta a parti in un primo momento non prese in considerazione. La predisposizione emotiva e così anche la sensibilità percettiva di colui che entra in connessione con i lavori di Alice Grassi modificano di volta in volta l’approccio ed il coinvolgimento visivo. [GB]

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Alice Grassi, Host Guest 2, 2011, fotografia light box, cm 15x22x7

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GiUsePPe lana(catania, 1979)

Studia all’Accademia di Belle Arti ed ha trascorsi in ambito teatrale. Dal 2008 è Direttore Artistico di BOCS (box of contemporary space) a Ca-tania, un luogo atto a far dialogare le arti che mira a rivolgersi non solo agli addetti ai lavori.

Annullare dettami e scardinare coordinate per ricreare confini. Rove-sciare le prospettive temporali per sottolineare l’imprevedibilità degli eventi con i quali l’uomo è costretto ad interagire e confrontarsi.Questo emerge dal progetto che Giuseppe Lana presenta all’Expò. DRON. La ricerca umana non procede per assunti monolitici ed inat-taccabili, ma cambia le prospettive di volta in volta, e l’individuo, che si trova a fronteggiare quotidianamente le molteplici variabili che la quoti-dianità gli squaderna dinnanzi agli occhi, varia continuamente gli angoli di osservazione e l’impatto percettivo che ha di sé e del circostante.Il fatto che questo percorso artistico sia cominciato nel 2008, e non si sia ancora arrestato, rafforza in modo profondo il tema del rapporto con il tempo in perenne trasformazione. DRON 5: Chronos, vera e propria unità di misura. Giuseppe Lana utilizza i capelli per misurare il tempo così come la dendrocronologia riesce, dagli anelli di accrescimento annuo delle sezioni dei tronchi, a definire l’età di un albero. I capelli sono uno dei tratti distintivi e caratterizzanti dell’uomo. I capelli si rigenerano continuamente, sono l’elemento più resistente dell’uomo dopo la morte e con il cambiamento di colore – e spesso anche di consistenza – determinano in modo efficace la scan-sione ed il ritmo temporale.Il progetto di Giuseppe Lana si compone ad oggi di una trentina di sfere tricotiche, di differenti dimensioni e peso e colore che descrivono ed attestano lo scorrere degli anni ed il modificarsi degli elementi presi in esame. Con il passare delle stagioni il colore del capello muta, anche se impercettibilmente, il nero perciò si trova a smarrire la propria intensità, come si assottiglia il tempo che l’individuo ha a disposizione nell’arco della propria vita. La matassa rotonda di capelli, vero e proprio gomito-lo, è simbolo anche del groviglio emotivo ed esistenziale che l’uomo porta con sé nel momento storico che sta affrontando. E pur essendo un progetto che parte dall’autoreferenzialità – e apparentemente all’au-toreferenzialità torna – in realtà si trova a descrivere ed a raccontare una condizione condivisa ed universale, ed arriva a coinvolgere potenzial-mente chiunque, perché l’elemento in mostra è un elemento comune e codificato da tutti. [GB]

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Giuseppe Lana, Dron 5, installazione variabile sia colore, grandezza e peso

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PinG li(Yongzhou, cina, 1987)

Nato nel 1987 a Yongzhou nella provincia di hunan, Cina. Nel 2010 si laurea presso la South Central University of Nationalities del suo Pa-ese. Dal 2011 frequenta il corso di pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Vincitore del Florence-Shangai Prize 2013 e finalista dell’ultima edizione del Premio Celeste, Ping Li nelle sue opere combina luce ed ambiente e li mescola sino a ricreare uno spazio altro, uno spazio fatto di luce e di zone d’ombra, una mappa che non esiste e che fa leva sul potere delle suggestioni cromatiche e sensoriali.Nei lavori selezionati per la terza edizione dell’Expò di Marche Centro d’Arte, Nuove Sostanze 1 e Nuove Sostanze 2 – dall’omonimo ciclo – egli tratta il colore e la forma della composizione come se si riferisse agli organi di senso.Le sensazioni (soprattutto tattile e visiva) costituiscono infatti il modo in cui l’uomo non solo percepisce il circostante, ma anche la maniera con cui egli sceglie di recepire e incamerare quello che gli ruota attorno. E tra i cinque, sicuramente il senso più coinvolto nella percezione del mondo è quello della vista. E di questo l’artista si serve per incamerare ciò che osserva, in modo da filtrarlo attraverso la propria esperienza sensibile, dalla quale poi si genera l’atto creativo.Ping Li sembra avvalersi tanto di una “visione ravvicinata” quanto di una “visione a distanza” nei confronti del mondo, per il suo approccio alla rappresentazione della forma artistica. Le sue opere – di un’essen-zialità pacata che si ritrova nel pensiero orientale – sono infatti di puro colore, ma suggeriscono una visione tattile in quanto l’occhio si trova a compiere movimenti del tutto simili a quelli che potrebbe compiere una mano. Sono dunque opere illusorie, costruite dal quel che a prima vista sembra una tinta monocroma modulata da sapienti sovrapposizioni e velature di colore, stese con una rara maestria. Tuttavia, al loro interno si può scorgere anche una forte concezione ottica, perché la visione di insieme può essere ottenuta e colta anche a distanza. La poetica di Ping Li perciò conquista due dimensioni, quella tattile (nel-la visione fisica dell’opera d’arte) e quella ottica (nella visione d’insieme che determina unità artistica). [GB e SB]

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Ping Li, Nuove sostanze, 2013, olio su tela, cm 100x100 cad.

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silvia Mariotti(Fano, 1980)

Consegue nel 2005 il diploma accademico di pittura, indirizzo sperimen-tale di linguaggi multimediali presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino dove nel 2009 acquisisce il titolo abilitante per l’insegnamento. Vive ed opera a Milano.

La ricerca poetica di Silvia Mariotti è concentrata ad esaltare – ingab-biandoli su supporto fotografico – degli istanti precisi con l’intento di sottrarli al canonico flusso temporale.Isolando le azioni, spersonalizzando i luoghi e cancellando i caratteri so-matici ai volti delle persone ritratte attraverso il concetto della masche-ra, connota il tutto di nuovi significati semantici e metaforici ed erge le sue composizioni fotografiche a simbolo di uno stato alienato e precario tipico dello scenario contemporaneo (“he’s a real nowhere man/Sitting in his nowhere land/Making all his nowhere plans for nobody.” Canta John Lennon in Nowhere man – Uomo di nessun luogo).L’individuazione degli spazi e dei momenti del giorno è calibrata con cura meticolosa – anche se la costruzione dell’immagine è guidata da un elemento forte di imprevedibilità e casualità dei luoghi incontrati – perché le località isolate e non ben definite danno la sensazione di un deja-vù che a tratti si ha la sensazione di riconoscere ma che, di fatto, si è impossibilitati a collocare con precisione.Si amplifica, perciò, un senso di smarrimento che è individuale – e nel quale l’individuo riversa ogni personale elemento legato all’horror va-cui – ma anche specchio di una condizione universale inevitabilmente condivisa.Uno scorcio autostradale, presumibilmente, con segnaletica ben in evi-denza ma vista da dietro non consente di identificare e localizzare lo sfondo della prima immagine, e in questo non ambiente si innesta una figura in primo piano, con una postura ed una gestualità importanti, i cui abiti non riescono ad indicare nessun tipo di caratterizzazione sociale; ad un primo sguardo si potrebbe far fatica ad identificare sessualmente ed affibbiare un’età di massima al soggetto fotografato.Il viso è completamente fagocitato da un sacchetto bianco opaco, a gui-sa di moderna maschera (che riporta alla mente la concezione teatrale di Benno Besson e dell’Ensemble Berliner teatro fondato da Bertold Brecht), si riesce solo a scorgere la bocca spalancata nell’atto di respi-rare o di gettare un grido soffocato all’esterno. Il sacchetto/maschera annulla qualsiasi tipo di stato pregresso riconoscibile dell’individuo a favore di una impressionante suggestione che fluttua sospesa tra il re-ale e l’onirico. [GB]

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Silvia Mariotti, Breathless, dalla serie Composition with man, 2012, stampa lambda su dibond e plexiglass, cm 70x210

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barbara nati

(roma, 1980)

Attualmente vive e lavora a Londra. Vincitrice di residenze artistiche in Svezia e Irlanda, finalista alle edizioni 2013 del Premio Arte Laguna e del Premio Terna, ha esposto in numerose personali e collettive in Italia e all’estero, soprattutto presso prestigiose gallerie londinesi.

La ricerca di Barbara Nati è incardinata su un uso non convenzionale del medium fotografico, per cui il momento di postproduzione si trova quasi a prevalere su quello della presa diretta dell’immagine. È una tecnica, que-sta, che risente molto dell’esperienza dell’artista nell’ambito della grafica pubblicitaria, e che è quanto più congeniale al suo modo di concepire l’arte come indagine su tematiche ambientali e sociali, e, in quanto tale, come messaggio universale, che, investito di un ruolo demagogico, parla la lin-gua di tutti gli uomini.Le immagini create da Barbara Nati non hanno infatti una corrisponden-za fisica nella realtà, ma combinano elementi di provenienza diversa che vanno dalla storia alle arti visive, dalla geografia urbana alla comunicazione pubblicitaria. Esse tuttavia non si configurano come meri fotomontaggi, ma, per la dovizia e la meticolosità dei dettagli e per l’uniformità della con-taminazione, costruiscono veri e propri universi che scardinano la visione consueta della realtà quotidiana, nota e divulgata dai media, pur cedendo alla loro seduzione. È come se un’ossessiva mimesi del reale finisse poi, quasi con apparente paradosso, per plasmarne uno nuovo, che è assoluta-mente iperrealista, cioè un falso poiché più reale del reale stesso. L’effetto prodotto è dunque del tutto straniante, dato che si è come sopraffatti dal rovesciamento di tutto ciò che ai nostri sensi risulta familiare, abitudinario, scontato e prevedibile. E per farlo, Barbara Nati si avvale di un linguaggio al-legorico ma ironico e leggero allo stesso tempo, facendo propria la lezione di grandi demolitori di certezze come Nietzsche, Pirandello e Calvino.Le opere esposte in mostra fanno parte dell’ultima serie di scatti rielaborati digitalmente ed emblematicamente intitolati Nessun addio solo eterni arri-vederci, in cui costruzioni e architetture antropiche più o meno note e rico-noscibili sembrano prendere la via del viaggio, spostarsi precipitevolmente su improbabili convogli o incredibili navi e velivoli verso mete sconosciute o, forse, verso il nulla. Prospettive falsate, distopie e scorci imprevedibili esasperano questa vera e propria fuga dalla realtà, da un Occidente che, ormai in degrado – come fanno presupporre i cieli plumbei e nuvolosi – si sposta altrove, colonizzando nuove terre ed eternandosi, così, sempre uguale a se stesso, in una sorta di nietzscheano eterno ritorno dell’uguale, per cui anche l’“addio” non può essere definitivo, ma sempre rimandato in un eterno “arrivederci”. [SB]

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Barbara Nati, Nessun addio solo eterni arrivederci, 2013, stampa lambda su carta Kodak metallic Endura, cm 120x80

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niba(recanati, 1973)

Michela Nibaldi, in arte Niba, vive e lavora a Recanati (MC). Da Macerata, città della sua formazione, nella quale ha frequentato prima l’Istituto d’Arte e poi la Scuola Libera del Nudo presso l’Accademia di Belle Arti, ben presto approda alla scultura, medium a lei congeniale, passando per il cinema e realizzando effetti speciali, protesi e oggetti scenografici per film e videoclip. Oggi Niba è un’affermata e riconosciuta protagonista del mondo dell’arte contempora-nea e continua a sorprenderci con una produzione di volta in volta più ardita, sia per la ricerca e i soggetti proposti, sia per la perizia tecnica.

Difficilmente si può incasellare l’arte di Niba in un filone ben preciso, se non quello di una personale ricerca che la porta a ricreare, con continua perse-veranza, una sorta di contemporanea Wunderkammer popolata da animali e personaggi al limite del bizzarro, in cui si mescolano sperimentazione e immaginazione insieme all’elemento artificiale e fantastico, il tutto condito da una padronanza esecutiva e tecnica inusuale.Dalle ormai celebri serie dei gatti e dei conigli, rivisitati e interpretati dall’artista marchigiana in chiave “estetica” fetish con rimandi all’universo BDSM (Bonda-ge – Sadomaso), stretti in tutine e corsetti stringati e in maschere nere in latex, con tanto di tatuaggi e piercing, che sembrano voler parafrasare i vizi dell’uomo contemporaneo, alle sensuali figure femminili, dalla bellezza astratta ed onirica al tempo stesso, prive talora dei volti ma fortemente caratterizzate nei tratti anatomici grazie anche ad aderentissimi abiti-guaina, sempre in latex, corredati da lacci e cerniere. Il fascino dell’incorporeo prende il sopravvento e spinge la fantasia, prima dell’artista e poi dell’osservatore, oltre i limiti del reale.La ricerca di Niba ha subito catturato l’attenzione di esperti e appassionati del settore, che continuano ad apprezzarla anche nella sua produzione più recente, come nel caso del progetto presentato presso la Galleria Marconi (Cupra Marittima) con il titolo di De humana physiognomonia. Quest’ultimo lavoro, come anche quello presentato in questa occasione, segna alcuni pas-saggi importanti nell’evoluzione del percorso artistico di Niba. Da un punto di vista tecnico, vi è la migrazione dall’amata terracotta, attualizzata dall’artista attraverso l’impiego di smalti, acrilici e olii, alla resina, già in uso per lavori di piccole dimensioni, ma ora applicata a sculture anche di grande formato. L’intero progetto rinvia all’idea del museo naturalistico, o meglio all’interesse dell’artista verso i musei di ceroplastica anatomica settecentesca. Si tratta di una vera e propria ricerca metodica che porta Niba alla produzione di una serie di opere che puntano a dare immagine, forma e corpo alle diverse umanità.Le recenti esperienze di Niba con molta probabilità sono alla base anche di Toxoplasma Gondii, installazione presentata nella sezione Crossways, nella quale due scheletri, rispettivamente di gatto e topo, si fronteggiano, rinvian-do ad un altro aspetto della storia naturale come quello relativo ad un paras-sita, il Toxoplasma Gondii appunto, che viene trasmesso all’uomo attraverso i felini. [EM]

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Niba, Toxoplasma Gondii, 2010, installazione: scheletro di gatto, scheletro di topo, vetro, stoffa, carta, in teca di vetro

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catia Panciera(san benedetto, 1975)

Nata da padre veneto e madre marchigiana, mentre nelle sale cine-matografiche usciva il film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, Catia Panciera concilia il ruolo di madre e moglie con l’amore per l’indagine fotografica, fornendo reportage di manifestazioni sportive.

“…ogni volta che la solitudine ti cresce dentro come un continente in ebollizione, ti allacci le scarpe e parti, e questo ti aiuta;

ti aiuta davvero.” J. Dìaz

AFTER è la declinazione in cinquanta modi diversi – tanti quanti sono i volti catturati da Catia Panciera ed inseriti nel progetto confluito poi in un libro fotografico – del momento che segue immediatamente la fine di una corsa podistica. L’istante sospeso tra la sublimazione di tutto lo sforzo fisico, il dolore, la fatica, l’impegno di ogni muscolo nell’atto di correre e la distensione progressiva di corpo e mente (ma anche il ritor-no alla propria condizione umana) rimane appeso alle pieghe del volto di ogni singolo corridore catturato dall’obiettivo. AFTER è la cronaca della restituzione di quel preciso istante allo spettatore.L’occhio del reporter che scruta ed indaga, è anche l’occhio di chi ha calpestato (in un passato non troppo lontano) gli stessi kilometri che percorrono i protagonisti di questi scatti. Per questo è un occhio che si è allenato, che ha masticato asfalto, scarpe e caviglie e che conosce a fondo cosa racchiude il DOPO gara, in termini fisici e simbolici. Il pro-getto ha preso forma in tempi rapidi, proprio sulla scia del ritmo dettato dalla corsa, ed ha visto la assoluta disponibilità degli atleti ad essere colti nella fase di recupero dopo uno sforzo durato ore ma che si porta dietro anche l’impegno pregresso degli allenamenti, dei regimi alimen-tari controllati, degli obiettivi e traguardi da raggiungere, della sfida da affrontare. I volti si trovano ad essere assoluti protagonisti di una narra-zione muta e priva di coordinate – non emerge alcun tipo di riferimento anagrafico- ma ugualmente provvista di una prepotente eloquenza for-nita dalla carrellata degli sguardi, dal rilassamento dei muscoli facciali, dalle labbra ripiegate in una smorfia precedente – probabilmente frutto di una fatica prolungata – che recuperano il loro colore e forme consueti. Non è l’atleta ad essere il fulcro della storia che racconta, ma sono le pieghe del suo viso ad entrare in relazione con chi le osserva, stabilen-do un contatto immediato proprio perché divengono veicolo di vicende universali di risultati raggiunti o falliti, di momenti di soddisfazione o di pieno sconforto, condivise in modo empatico e nella loro essenza, sen-za bisogno di ulteriori mediazioni e dettagli biografici. [GB]

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Catia Panciera, AFTER, 2012, foto stampata su carta baritata, con supporto gataform, cm 30x30

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Giovanni PresUtti

(Firenze, 1965)

Nel 1998, dopo una laurea in legge, si diploma alla Scuola Art’E (Firen-ze), dal 2003 al 2005 partecipa al progetto Reflexions Masterclass e nel 2004 frequenta il Master di reportage alla scuola di John Kaverdash (Milano). Collabora con alcune riviste di spicco, quali Vanity Fair, Sette magazine e l’Espresso, arrivando nel 2008 all’uscita del suo primo libro Mirror edito dalla casa editrice Polyorama. Molte le partecipazioni a mostre personali e collettive, nazionali e inter-nazionali, come anche il conseguimento di numerosi premi e prestigiosi riconoscimenti.

Contemporanea è il progetto di installazione fotografica di Giovanni Pre-sutti selezionato per Crossways nell’ambito dell’Expò Arte Contempo-ranea Marche Centro d’Arte. Si tratta di un lavoro che ha impegnato lungamente l’artista nel corso degli anni, in quanto composto da una selezione di scatti, venti quelli esposti per la precisione, ripresi metodicamente, tra il 2009 e il 2012, nelle principali città europee, che hanno come soggetto alcune opere di architettura contemporanea dell’ultimo decennio.L’obiettivo di Presutti, nel catturare gli edifici, ha puntato prevalentemen-te sia sulla spettacolarità, sull’imponenza e sull’estetica degli stessi, quest’ultima specchio della società contemporanea sempre più dedita alla cura dell’esteriorità, sia sulla concordanza stilistica e progettuale. Il risultato è un insieme di inquadrature piuttosto ardite, con prospettive vertiginose, che mettono in luce linee, materiali e riflessi allo scopo di arrivare alla purezza delle forme per poi individuare un unico contesto rappresentativo dei nostri tempi.L’abilità di Presutti nei suoi itinerari europei, e nel reportage che com-pone il progetto Contemporanea, è quella di essere riuscito con grande sapienza a cogliere singolari angolazioni o prospettive architettoniche per poi rielaborarle e restituirle in una veste nuova, con un formato piut-tosto contenuto ma perfettamente funzionale ai soggetti protagonisti degli scatti.Gli esiti mirabolanti delle architetture riprese dall’artista sono il frutto an-che dell’uso reiterato della prospettiva dal basso, del focus sul dettaglio, dei contorni sfuocati, della frammentazione di una stessa architettura per poi riproporla in una scala dimensionale insolita, lasciando spazio all’osservatore di poter ridefinire l’immagine secondo la propria sensi-bilità. [EM]

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Giovanni Presutti, Contemporanea, 2009 – 2012, installazione fotografica composta da n° 20 fotografie, cm 28x14 e cm 18x18

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serena scoPini(Macerata, 1986)

Annovera tra le proprie esperienze formative stages presso l’Arena Sfe-risterio di Macerata riguardanti la messa in scena di opere teatrali. ha partecipato a varie collettive e premi d’arte regionali e nazionali.

La ricerca poetica di Serena Scopini è in costante divenire. Uno degli obiettivi che l’artista pone al suo lavoro è di andare oltre il visibile e di mettere in relazione, mediante il suo sentire l’arte ed il modo di opera-re, un mondo interiore di cui si fa portatrice ed il circostante, al fine di creare nuove tavolozze di suggestioni non contemplate in precedenza.La luce ed il lumen sono il leit motiv della sua indagine: da un lato la luce consente di vedere, di distinguere le forme e gli elementi spaziali, di definire la profondità della realtà, dall’altro il lumen interiorizza e ren-de densa, pastosa la percezione dell’elemento spaziale nel quale si è immersi. La luce ed il buio costituiscono la potente contrapposizione del concet-to di pieno e vuoto. Con le opere esposte nell’occasione dell’Expò di Marche Centro D’Arte, Serena Scopini si sofferma su uno spazio quasi drammaticamente svuotato da ogni tipo di caratterizzazione che rende vana la definizione di interno ed esterno. I luoghi rappresentati non dan-no modo di essere identificati, è irrilevante che siano artificiali o naturali il dato sul quale ci si focalizza è esaltare il ruolo della luce, e anche quel-lo del lumen, in antitesi con ciò che non viene illuminato. La luce svela e rivela, infatti permette di portare ad emersione ciò che il buio non da modo di afferrare, di conoscere e di definire. Si ha una pre-cisa rivelazione della scoperta dello spazio nascosto sino a poco prima dalla penombra e perciò inconnu. La luce, nelle opere qui esposte di Serena Scopini, annuncia uno spazio conquistato, fatto proprio e colo-nizzato dalla retina. Poi arriva il lumen – non debordante, più circoscritto – che si fa portavoce dell’espressione interiore. Non ha come scopo quello di mettere in risalto oggetti, non definisce elementi perimetrali e non ne crea di nuovi. Si concentra sul senso di intimità, sul gioco di sfumature e sulla creazione di una tremolante armonia cromatica che si attesta nell’oscillazione tra il bianco ed il nero. Nessuna concessione al decorativismo, le linee ed i toni sono elementi di una storia, ad intes-serne la trama ci pensano il lumen e la luce. [GB]

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Serena Scopini, Senza titolo, 2011, olio su tela, cm 100x120

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Giovanni scotti(napoli, 1978)

Giovane fotografo e visual artist, dopo essersi diplomato in pittura all’Ac-cademia di Belle Arti di Napoli si trasferisce a Milano, dove tuttora vive e lavora, per frequentare il Master in Photography & Visual Design presso NABA (Nuova Accademia di Belle Arti di Milano).Ben presto comincia a collaborare a progetti discografici e editoriali in qualità di disegnatore, illustratore e fotografo; tra questi si segnala il volume Prossimamente edito da Franco Cosimo Panini Editore.Parallelamente lo troviamo in pregevoli esposizioni come quella del Complesso del Vittoriano a Roma (2007) o del PAN a Napoli (2006).

Il percorso di Giovanni Scotti prende avvio dall’urgenza di indagare dif-ferenti temi come quello della percezione della realtà, del tempo, del-lo spazio, della dicotomia tra giorno e notte e della connessione tra strumentazione analogica e tecnica digitale, privilegiando i fenomeni di transizione e i luoghi.I due scatti presentati per l’Expò di Marche Centro d’Arte fanno parte della serie fotografica Out and Around, realizzata nel 2011, in linea con quegli interrogativi che assillano l’artista sull’immagine e sulle sue re-lazioni con la realtà, e con la necessità di esplorare il senso di apparte-nenza ad un luogo.Si tratta di un lavoro più intimistico rispetto ad altri, caratterizzato dalla totale assenza della figura umana, dal trattamento singolare della luce notturna; i paesaggi urbani e non proposti sono immersi in una fitta cor-tina di nebbia che sembra dissolvere contorni e volumi, conferendo alla scena una componente tanto onirica quanto atemporale.Nello sviluppare questo progetto Giovanni Scotti si serve di coppie di fotografie stereoscopiche (cm 60x60 e cm 6x6) e del coinvolgimento dell’osservatore che è chiamato ad avere un ruolo attivo sovrapponen-do l’immagine piccola a quella grande allo scopo di ottenere una terza immagine tridimensionale e virtuale al tempo stesso. [EM]

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Giovanni Scotti, Out and around F 04, 2011, stereografia, cm 60x60

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Francesca tilio(Jesi, 1975)

Si dedica al teatro come attrice, autrice e regista sino all’incontro con la macchina fotografica nel 2007. Nel 2013 collabora con l’AMAT (Associa-zione Marchigiana Attività Teatrali) per il progetto europeo “Transparent Boundaries” sul ruolo attivo della terza età.

Holiday è frutto di una suggestione musicale evocativa, quella del brano di Jon hassell Last night the moon came. L’intreccio sonoro permea tutto il pro-getto e si annida fortemente in questi due istanti – una visione di interno ed una esterna – selezionati qui per l’Expò di Marche Centro D’Arte, che sono dilatati e poi bloccati dallo scatto fotografico.Le ragazze riunite attorno al gioco del monopoli – estraniate lolite contempo-ranee – e poi le due figure femminili sdraiate sulla panchina di una decadente tavola calda concorrono ad una mise-en-scene dal taglio cinematografico ma priva di incipit e conclusione. Ci si trova dinnanzi a due varianti di dramma ma svuotate di sinossi. I trascorsi nel mondo teatrale di Francesca Tilio, tanto come attrice quanto come autrice, producono un immaginario che qui si colora di esasperate fascinazioni e procede nella direzione della rottura della quarta parete cine-matografica, televisiva e teatrale, assottigliando le distanze con colui che os-serva e che riesce a cogliere facilmente la finzione scenica.Le parrucche, che sono un altro elemento stilistico e distintivo della poetica della Tilio, cancellano le vere identità per una nuova assegnazione di ruoli. La parrucca mette in stand by temporaneo l’io a favore di una personificazione del proprio alter ego, al fine di idealizzarlo oppure per esorcizzarlo del tutto nell’artificio creato ad hoc. Niente è naturale, il trucco ed il mascheramento progressivo, curato personalmente dall’artista, rientrano nel processo di im-mobilismo prima del click da parte dell’apparecchio fotografico. I luoghi e le azioni sono sottratti al regolare scorrere del tempo e si concen-trano su di una dilatazione del tutto simile alla rarefazione musicale costruita da un insieme di suoni lontani, echi perpetui sui quali si innestano le immagi-ni, e gli abbandoni posturali delle protagoniste ritratte.Ed anche gli spazi, seppur connotati da qualche elemento caratterizzante, si slabbrano elegantemente ed in modo lascivo facendo intravedere, a chi entra in traiettoria delle immagini, scorci ed angoli di sottesa sensualità. Co-lui che osserva alterna, senza soluzione di continuità, il ruolo di spettatore e quello di voyeur.Holiday è il momento del gioco proposto a fior di labbra, dell’epidermide imperlata di sudore per quell’afa rovente tipica di ogni preludio di temporale estivo. Holiday è quella pausa silenziosa presente nel pentagramma tra una figura musicale e l’altra ripetuta ad libitum. [GB]

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Francesca Tilio, HOLIDAY, 2011, fotografia digitale, stampa fine art su carta hahnemühle, cm 70x100

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liDia troPea(catania, 1974)

Dopo aver conseguito il diploma di maturità scientifica si iscrive all’Ac-cademia di Belle Arti catanese prima in Scenografia e poi in Fotogra-fia. Nel giro di pochi anni consegue pregevoli riconoscimenti e premi, partecipa ad esposizioni personali e collettive, compresa anche la 54° Biennale di Venezia nel 2011 nel Padiglione Italia. Attualmente l’artista vive e lavora a Pistoia.

La ricerca e il percorso artistico di Lidia Tropea si muovono esplorando le potenzialità e giocando con i diversi linguaggi dell’arte: fotografia, video ed espressione corporea. Tutto senza mai dimenticare la sua terra di origine, la Sicilia appunto, spesso fonte d’ispirazione per i suoi lavori passati e presenti.Alla tradizione siciliana si ricollega anche quest’ultima installazione vi-deo sonora Liquido_I minni di Sant’Aita, realizzata nel 2012, che prende spunto dai rituali della festa catanese in onore di Sant’Agata. In occa-sione della ricorrenza le donne preparavano un dolce tipico, “I minni di Sant’Aita” (i seni di Sant’Agata), che allude alle torture subite dalla Santa alla quale vennero asportati i seni. Tale rito serviva alle donne per ac-caparrarsi la protezione della Santa contro possibili malattie soprattutto per quelle relative alle mammelle.Lidia Tropea in questo lavoro fa riferimento, come nella recente mostra di Sponge Living Space di Pergola (PU), all’elemento “liquido”, parago-nandolo ad un fiume che trasporta con sé verso il mare ciò che trova nel suo percorso, al pari di un racconto che si arricchisce di generazione in generazione confluendo nel “mare della tradizione culturale di ognuno di noi”. [EM]

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Lidia Tropea, Liquido. I minni di Sant’Aita, 2012, video installazione

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>>>adottanti 2013<<<Vittorio Massi – imprenditore. Titolare della SAXA costruzioni edili.via mare, v148 – San Benedetto Del Tronto (AP)

Fausto Massi – imprenditore. Titolare della SAXA costruzioni edili.via mare, v148 – San Benedetto Del Tronto (AP)

Fratelli Rosati – imprenditori. Titolari della Pitture Chic decorazioni.via Giuseppe Parini, 20 – Grottammare (AP)

Marte – imprenditore. Casa editrice. Contrada San Giovanni, 51 – Colonnella (TE)

Grafiche Martintype – imprenditore. Industria Grafica.Strada Bonifica Tronto km 1,800 – Colonnella (TE)

Fausto Calabresi – imprenditore. Titolare dell’hotel Calabresi.Via Milanesi, 1 – San Benedetto del Tronto (AP)

Mimmo Minuto – giornalista. Titolare della libreria Bibliofila

Asterio Tubaldi – giornalista.Titolare Radioerre Recanati.Contrada S. Agostino, 2 – Recanati (MC)

Sergio Lenhardy – notaio. Titolare dell’omonimo studio notarile.Via Dante Alighieri, 1 – Grottammare (AP)

Lino Rosetti – imprenditore. Amministratore della Modatrading International.Via Montecristallo, 26 – San Benedetto del Tronto (AP)

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Massimiliano Bartolomei – imprenditore. Titolare della nota casa vitivinicola Ciù Ciù.c.da Ciafone, 106 – Offida (AP)

Silvio Pulcini – commercialista. Titolare dell’omonimo studio di consulenza aziendale.Via Monte Cristallo, 26 – San Benedetto del Tronto (AP)

Francesco Liberati – psicologo. Titolare dell’omonimo studio psicoterapeutico.Via Goffredo Mameli – San Benedetto del Tronto (AP)

Cristina Perotti – giornalista. Responsabile Marketing del giornale online RIVIERA OGGI.Via Val Gardena, 5 – San Benedetto del Tronto (AP)

Bruno Di Luzio – op. tecnico. Responsabile sicurezza e qualità [email protected]

Guido Ranalli – imprenditore. Presidente AQUILE MILLENARIE – GUzzI CLUB centro Italia.Via Silvio Pellico, 198 – San Benedetto del Tronto (AP)

Tania e Maurizio Sartarelli – imprenditori. Titolari del Centro Degradè Joelle – SARTARELLI.Via Laberinto, 54 – San Benedetto del Tronto (AP)

Meri De Carolis – imprenditore. Responsabile marketing del complesso turistico Verde Cupra.Via Lazio 2/6 Cupra Marittima (AP)

ArteContemporaneaPicena – op. culturale. È un’associazione che si occupa di arti visive e che vuole mettere in rete le realtà più stimolanti del nostro territorio – www.galleriartecontemporanea.it

Gaetano Lofrano – op. culturale. Presidente dell’Associazione ArtePollino.via Dante, 34 - Latronico (Pz) - www.artepollino.it

IS-gallery – Infinito Spazio – op. culturale. È galleria d’arte contemporanea on line. IS-g nasce nel 2010 da un’idea di Nikla Cin-golani – www.is-gallery.com

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Lorenzo Paci – op. culturale. Responsabile del social network Equilibriarte dedicato al mondo dell’arte e della cultura – www.equilibriarte.net

Roberto Vidali – giornalista. Direttore della rivista di arte contemporanea JULIET ART MAGAzINEwww.julietart.net

Laboratorio di Estetica Moderna L.E.M. – op. culturale. Galleria di arte contemporanea, luogo double-face: aperto e pubblico, e “riservato” alla ricerca artistica – www.gallerialem.com

Steven Music – Premio Celeste – op. culturale. Network on line per artisti e professionisti dell’arte contemporaneawww.premioceleste.it

Luca Aliprandi – op. culturale. Fondatore del Premio ORA, manifestazione che mette in contatto gli artisti con delle gallerie interessate a esporre il loro lavoro – www.premio-ora.it

Lucia Spadano – giornalista. Direttore della rivista di arte contemporanea Segno. www.rivistasegno.eu

Giuseppe Compare – gallerista. Titolare della galleria Il ritrovo di Rob Shazar. Via Generale Armando Diaz, 26 – Sant’Agata De’ Goti (BN)

Lucia Zappacosta – op. culturale. Direttore Artistico Alviani ArtSpace | Aurum | Pescara – Spazio di ricerca e sperimen-tazione sul contemporaneo – www.alviani-artspace.net

Angelo Bianco – op. culturale. Direttore artistico Fondazione Southeritage per l’arte contemporanea. Piazza Duomo, Matera – www.southeritage.it

Angelo Raffaele Villani – architetto. Titolare e direttore artistico di ROSSOCONTEMPORANEO, galleria d’arte. Via Regina Margherita, 40 –Taranto

Massimo Rebecchi – stilista. Stilista e titolare della casa di moda Massimo Rebecchi. V.l Ceccarini (RN)

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I.I.E. di Martorelli & C. Snc – imprenditore. Installazione Impianti Elettrici.Via S. Allende n.45 – 62010 Urbisaglia (MC) – Tel: +39 0733 506414 - 348 8210964

SEROXCULT – op. culturale. Terapia a base di cultura contemporanea. Appartiene alla classe delle web-zones di automedicazione – www.seroxcult.com

Roberto Ratti – gallerista. Titolare di Traffic Gallery, luogo di sostegno e promozione della conoscenza dell’arte del nostro tempo – www.trafficgallery.org

Visual Container – op. culturale. Piattaforma di videoarte, no profit impegnata nella divulgazione e nella distribuzione di videoarte in Italia e all’estero – www.visualcontainer.org

Anteo Radovan – op. culturale. Artista e curatore, ideatore dello spazio Casabianca a Bologna.http://casabianca12-info.blogspot.it

Daniele De Angelis – op. culturale. Titolare della Libreria Prosperi e responsabile dello spazio espositivo al suo interno Spazio NovaDea

Sponge Artecontemporanea – op. culturale. Associazione Culturale arte contemporanea.www.spongeartecontemporanea.net

Alta Fedeltà – op. culturale. Associazione di promozione e diffusione culturale.www.associazionealtafedelta.org

Sabatino Polce e Catia Gambetta – imprenditori. Proprietari di La gatta Carillon, produzione artigianale carillon. www.lagattacarillon.it

New Tech srl – imprenditore. Azienda specializzata in sistemi di sicurezza.c.da Alberotondo, 27 – 62100 Macerata (MC) – www.newtechsrl.it – Tel. 0733 1833233

Gino Monti – gallerista. Titolare di Per mare e monti arte contemporanea.Via Vittorio Veneto n. 53 – Civitanova Marche (MC)

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>>>iDeatori<<<

Fausto Calabresi – PalaRiviera

Franco Marconi – Galleria Marconi

Lino Rosetti – Cocalo’s Club

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>>>staFF<<<

Gloria Gradassi – consulente artistico

Nikla Cingolani – relazioni esterne e promozione delle attività

Rita Soccio – responsabile della grafica

Dario Ciferri – ufficio stampa e comunicazione

Matteo Bianchini – web master

Daniela Saiz – gestione logistica

Stefano Capocasa – fotografo

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Un grazie speciale a tutti coloro che hanno collaborato alla riuscitadi questo progettomeraviglioso…

Franco Marconi, Lino Rosetti, Fausto Calabresi

è un progetto di

Traversa dei Ceramisti, 817012 Albissola Marina (SV)Tel. + 39 019 4500659Fax + 39 019 [email protected]

ISBN 978-88-6057-191-5

GRAPhIC & LAYOUTElena Borneto

COPYRIGhT© per le opere, gli artisti© per i testi, gli autori© vanillaedizioni

Ebook pubblicato nel mese di luglio 2013.Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

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MARCHECENTRO

expo di arte contemporanea

3a edizione 2013 - 7 luglio - 30 agostopalariviera - san benedetto del tronto