Manuale Teoria Generale Del Diritto ( Completo)

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Manuale di teoria generale del diritto

Capitolo primo: che cos’è la teoria generale del diritto

1. La caratterizzazione e l’autonomia di una disciplina

Può sembrare veramente arduo il tentativo di scrivere una teoria generale del diritto che,pur senza avere ovviamente la pretesa di servire per ogni tempo e per ogni luogo,nel momento stesso in cui si presenta come generale, aspira ,attraverso la comparazione dei contenuti degli ordinamenti giuridici storicamente presenti ed effettivi, delineare e descrivere taluni concetti di uso comune,utilizzabili da chiunque voglia poi conoscere e descrivere un determinato ordinamento giuridico con i suoi particolari contenuti. L’impresa è ardua perché,come è a tutti noto,mai come in questo secolo il diritto è stato profondamente e strutturalmente collegato all’elaborazione ideologica,sino ad apparire,nelle esperienze totalitarie,addirittura nulla più che la concretizzazione di un programma di tipo partitico. Secondo me non bisogna rinunciare a elaborare una teoria generale senza che questo significhi un quadro sistematico assolutamente coerente completo, unitario, della forma giuridica. È evidente che qui "generale" non significa pura, così come nella più nota teoria generale di questo secolo, vale a dire quella di Hans Kelsen il termine "generale" vuole significare soltanto elaborazione concettuale di quegli strumenti quali concetti di norma, validità, efficacia che possono rendere più facilmente comprensibile le esperienze contenuti in stile degli ordinamenti giuridici storicamente dati. Attenzione: non che in Kelsen teoria pura volesse significare teoria astratta, valevole per ogni tempo e ogni luogo; lì purezza voleva significare scientificamente consapevolmente in dipendenza dal condizionamento ideologico e politico, e quindi tentativo di elaborare una politica del diritto ma una conoscenza dello stesso. Per cui nel suo linguaggio teoria generale è così è semplicemente la rivendicazione della possibilità di una teoria scientifica veramente conoscitiva del diritto. Lo scenario di questo finale di millenni è completamente diverso da quello che ha spinto Hans Kelsen verso una teoria pura scientifica del diritto. Oggi alcuna preoccupazioni kelseniane non sono attuali. La verità di una "teoria generale" si misura nella sua capacità di offrire strumenti praticamente soddisfacenti a orientarsi in un fenomeno e a chiarirne, se non a risolverle, i problemi. Insomma, tutto questo per dire che oggi, a mio avviso, è ancora possibile tentare una teoria generale, ma a condizione di essere consapevoli che il diritto, in un modo particolare all'interno delle scienze sociali, mostra una intrinseca "impurezza”, per cui teoria generale può essere solo elaborazione di concetti generali che in nessun caso debbono tradire con il carattere specifico "impuro" del diritto stesso, pena la loro sterilità ermeneutica. Teoria generale viene significare semplicemente la possibilità, e deve essere data, di delineare delle figure delle elezioni generali che si mettano in condizione di conoscere per entrare il mondo giuridico sociale e la sua in purezza e complessità e anche le sue contraddizioni

2.distinzione collegamento con la filosofia del diritto.

Teoria generale del diritto ovviamente non può che essere teoria generale del diritto positivo, vale a dire elaborazione di strumenti e si ricavano proprio ed esattamente dalla struttura formale semantica come dei contenuti degli ordinamenti giuridici positivi, effettivi e storici. La filosofia del diritto a una dimensione un ambito di riflessione, anche sotto il profilo storico, molto più ampia della teoria generale. La filosofia del diritto come disciplina può essere intesa, ed è stata intesa, in molti modi che afferiscono alla tematica del valore e che sottolineano la prospettiva assiologica del diritto, come anche possono riferirsi a una vera e propria ontologia metafisica del diritto e perciò del fondamento metastorico e universale dello stesso. Mentre la teoria generale, è comunque studio infrasistematico del diritto positivo, la filosofia del diritto può essere, e in effetti è storicamente stata, la filosofia del diritto naturale. In effetti la teoria generale in qualche modo emerge storicamente, quando lo Stato moderno ha ormai raggiunto un assetto di notevole stabilità, dallo sviluppo della dottrina tedesca del diritto pubblico, mentre mi converge da altra area culturale, quello anglosassone, il prodotto della teorizzazione della giurisprudenza. Il comune le due tradizioni ostentano, nell'ambito della teoria generale, l'atteggiamento avalutativo e "scientifico" che permettono d'iscrizione neutrale e il più possibile fedele del fenomeno giuridico, considerando la descrizione la conoscenza l'unica corretta propedeutica all'indispensabile momento valutativo apolitico. Il conoscere non è identificata affatto, in nessun modo, con una visione etica e valutativa. Insomma la teoria generale si distingue dalla filosofia del diritto perché già metodologicamente si autodelimita in quello che tradizionalmente è stato chiamato il problema ontico del diritto, vale a dire il problema

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inerente l'esistenza del diritto stesso. La filosofia del diritto, anche quando il clima culturale prevalente è stato di tipo giuspositivistico, ha sempre mantenuto un'apertura di tipo deontologico, vale a dire sempre stata disciplina in qualche modo collegata al problema dell'elaborazione di un diritto giusto, dunque l'elaborazione o il rinvenimento di un diritto ideale che legittimarsi o delegittimar seguire esistente: idealità che può assumere il carattere tradizionale del giusnaturalismo o quello tipicamente anglosassone dell'utilitarismo o in fine, oggi, soprattutto negli Stati Uniti, la forma del neocontrattualismo in somma un'indagine di tipo teorico generale ha come campo d'indagine il solo diritto vigente, vale a dire il diritto positivo, non per questo aproblematico e di facile individuazione empirica. Un'indagine invece filosofico giuridica non può assolutamente dare per scontato tutto questo: la problematizzazione tipica del suo procedere è, per sua natura, molto più ampia; la parola "diritto" vi appare più complesse controversa, più profondamente intrecciata con quel concetto di giusto che l'etimologia del termine e la stessa coscienza comune vi includono.

3.i rapporti con la sociologia del diritto.

Mentre la teoria generale indaga sulle figure deontiche tradizionali del linguaggio giuridico, quali la validità del diritto (il cosiddetto problema della normatività), il potere, l'autorizzazione, l'onere, insomma tutte le figure che in un modo o nell'altro hanno una significazione linguaggio deontico il normativo, la sociologia del diritto si occupa dei comportamenti in relazione al diritto stesso. Nella specifica terminologia giuridica, comportamenti vengono definiti come l'ambito dell'affettività o efficacia del diritto. Volendo semplificare, mentre la teoria generale si occupa dello statuto deontico delle norme e quindi esplora la possibile significazione di espressioni del tipo "devi fare così", "hai l'obbligo di ", "è vietato", la sociologia del diritto si occupa del problema fenomenologico, volgendosi all'indagine il più possibile scientificamente corretta ed empiricamente verificabile sul se e in quale misura un sistema di norme è per lo meno efficace. La teoria generale si occupa della validità delle norme, la sociologia dell'efficacia delle stesse, avvertendo che è qui efficacia significa sociologicamente, fenomenologicamente o se si preferisce psicologicamente, seconda dei casi, comportamento dei consociati, anche in relazione a ciò che psicologicamente e si rappresentano in termini di enorme o di sistema di norma. La teoria generale si occupa della validità (dover essere), la sociologia del diritto dell'efficacia (essere) e quindi se è vero che la specificità tipologica dell'oggetto e qui piuttosto marcata per l'uno per l'altra disciplina, è altrettanto vero che le due discipline, o se si preferisce le due indagini, fanno delle convergenze strutturalmente fortissime. Infatti quando noi introdurremo il concetto di sistema o di ordinamento giuridico, ne deriva che non è possibile nell'ambito del diritto, addirittura dei fini del diritto stesso, inteso come ordinamento, senza fare ricorso a quell'elemento dell'efficacia che era specifica tipologia oggettuale della sociologia del diritto. La problematiche per molti aspetti (anche se non per tutti) invecchiata; oggi teoria generale sociologia del diritto sono due discipline che si muovono attorno lo stesso fenomeno (il diritto), ma nulla si muove prevalentemente nell'ambito degli elementi deoontici, l'altra si muove nell'ambito, in senso lato, dei fatti fenomeno logici. In modo consapevolmente,sincretistico,secondo me, il diritto può essere spiegata adeguatamente solo dando conveniente spazio sia gli elementi deontici sia agli elementi fenomenologiche. Come ho detto prime come vedremo meglio in seguito, vi è addirittura un punto dove teorie sociologia convergono perché convergono validità ed è affettività, vale a dire la definizione stessa del diritto come ordinamento giuridico.

Capitolo secondo

Il diritto

1.alcuni possibili concezioni generali del diritto

All'interno di una trattazione squisitamente teorico generale, ci si può limitare a ricordare quelle concezioni generali che si riferiscono all'ambito giuspositivistico, nella misura in cui non metto in discussione la caratterizzazione positiva del

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diritto di cui trattano. Nel nostro secolo e in relazione alla cultura giuridica italiana, si possono numerare tre teorie generali del diritto: quella normatività etica, quella istituzionali e infine la cosiddetta teoria razionale o del rapporto giuridico. La cosiddetta teoria del rapporto giuridico pone al centro del fenomeno giuridico la rete di rapporti intersoggettivi "tra arbitrii", secondo l'espressione di Kant, che vedeva nel diritto esattamente l'alimentazione reciproca, attraverso regole, delle sfere di libertà tra individui-arbitri. In Italia teoria venne ripresa dal neokantismo di Giorgio Del Vecchio, e sostenuta particolarmente da Alessandro Levi e Francesco Bernardino Cicala. Non ci soffermeremo particolarmente questa concezione che ha avuto la sua storica giustificazione come tentativo di resistere all'ondata di neoidealismo che nei primi decenni del secolo ha caratterizzato la cultura italiana. Diversa è la situazione quando noi affrontiamo le altre due concezioni generali, c'è quella normativa è quella istituzionalistica. Entrambe queste concezioni hanno dimostrato una vitalità fecondità. L'evoluzione storica di queste due concezioni mostra infatti interessanti intrecci tra l'una e l'altra. Innanzi tutto la tradizionale teoria normativa nel nostro secolo, soprattutto a opera di Hans Kelsen, si presenta come teoria dell'ordinamento giuridico. Sia Hans Kelsen, sia in un altro esponente della scuola normativa,Herbert Hart, sia in Italia Norberto Bobbio, sono teorici generali, a un tempo normativisti e ordinamentalisti. L’altra concezioni che sarà dettagliatamente studiata, quella dell'istituzionalismo, insiste in modo particolare sul fenomeno organizzatore del diritto, ovverossia sulla complessità delle strutture istituzionali in cui fenomeni giuridici si presentano. Essa è stata sostenuta sia in Italia (Santi Romano) sia in Francia (Hauriou, Gurvitch,Renard). In realtà queste concezioni sono vitale e fertile risposta o, se si preferisce, la speculare riflessione su fatti storici fondamentali della fine dell'800 e dell'inizio del nostro secolo: la crisi dello Stato liberale moderno è il fenomeno del sindacalismo. Normativismo e istituzionalismo, si intrecciano sino al punto che, oggi, viene proposta una concezione del diritto come fatto istituzionale o, se si preferisce, " neoistituzionalismo", dove alle norme si affianca l'importanza dei concetti giuridici che si riferiscono ampiamente ai valori sociali, alle istituzioni culturali, alla prassi giuridica di un determinato contesto storico.

2.il diritto come ordinamento

L'esistenza (o validità di una norma) significa appartenenza all'ordinamento. I problemi inerenti al concetto di ordinamento in questa nuova prospettiva diventano quindi problema autonomi rispetto a quelli che tradizionalmente si ponevano in relazione alla norma singola. Nell'ambito del normativismo i tentativi più importanti che sono stati fatti per fondare costituir rappresentare l'unità dell'ordinamento sono quelli di Hans Kelsen e di Hart. In entrambi il problema viene affrontato attraverso il ricorso ad una norma fondamentale che nel'uno, cioè in Kelsen, è intesa come ipotesi o come finzione, nell'altro, cioè in Hart, è norma di riconoscimento suprema e definitiva concernente un certo tipo di prassi (comportamento dei funzionari).

3.ordinamento e organizzazione: l’istituzionalismo

È una teoria che in qualche modo ha favorito forse meglio costituisce le riflessioni critiche in termini giuridici della crisi dello Stato moderno, vale a dire quella specifica crisi che a partire dall'inizio del secolo trovò la sua prima drammatica esplosione con la prima guerra mondiale. Lo Stato moderno non riesce a dare più risposte adeguate ai fenomeni sociali che, caratterizzare al coinvolgimento delle masse, premono sulle fragili è troppo rigide pareti dello Stato di diritto. La teoria generale del diritto, detta istituzionalista, in linea generale, asserisce che l'essenza del fenomeno giuridico può essere individuata esclusivamente la sintesi tra struttura sociale in forma giuridica, e non negli elementi oggettivistici nella prima o formalistici della seconda. Santi Romano identifica il concetto di ordinamento con il concetto di istituzione di organizzazione. Attenzione, mentre per i normativisti è un insieme di norme in un modo o nell'altro condizionato dall’ effettività, per Romano, l'ordinamento coincide pienamente con le dimensioni istituzionale, ovvero con l'organizzazione. L'autore parte degli aforismi ubi societas ibi ius,ubi ius ibi societas e riconosce la giuridicità solo quando il fenomeno sociale si presenta sotto la forma dell'organizzazione. L'istituzione è quella sintesi che lega la relazione indissolubile tra società di diritto. Il diritto è quindi, originariamente e totalmente, unità di fatto sociale

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struttura normativa: ha nemmeno nell'intenzione teorica, e esplicitamente antinormativista e antikelseniana di Santi Romano . Non già che la struttura normativa scompaia; in Romano, le norme sono strumenti, pedina dell'organizzazione, ma in primis è il fenomeno dell'organizzazione che l'elemento di qualificazione del giuridico stessa. La norma è un elemento sussidiario, non nel senso che l'organizzazione possa farne a meno per muoversi, per esistere, ma nel senso di non essere elemento principale di qualificazione del giuridico. Le norme sono pedine dell'organizzazione, in Romano. In una simile visione, viene evidente mente a perdersi la dimensione in qualche modo di non logica del diritto, quella dimensione che, attraverso la dicotomia e del benessere, del diritto a uno strumento che proprio attraverso l'enorme, e non certo senso, viene a esprimere l'attenzione degli unni verso la realtà, le esigenze di e desideri, le passioni, dell'ideologia degli individui. Ma la singolarità del pensiero del giurista Romano che il suo concetto di organizzazione non è nè un dato sociologico come molte concezioni giuridiche di tipo realistico di oggi, è un insieme di norme sia pure di tipo particolare che, in qualche modo, manterrebbero con quel carattere tensionistico, doveristico del diritto. Non è sufficiente però che l'autore dichiari che le norme sono le pedine che fanno muovere l'organizzazione. È l'organizzazione che può essere penetrata,capita attraverso la rappresentazione di un insieme di norme, ma organizzazione e norme hanno una propria significazione forte all'interno del fenomeno giuridico nella misura in cui si collegano in veste strumentale al comportamento degli uomini. Paradossalmente in Romano manca la dimensione dell’ effettività che, per esempio, gioco ruolo dinamico in concezione normativistiche quali quelle di Kelsen e Hart. Questo secondo si coglie molto bene proprio nella nota polemica che romano inaugura circa il carattere interno e giuridico persino delle organizzazioni che per definizioni sono illecite, contrari allo Stato. Sia chiaro, se Romano è certamente una di antinormativista tenendo presente il normativismo dominante imperante dell'inizio del secolo, non è affatto anche positivista, contrariamente al giurista tedesco coevo il suo grande ammiratore, Carl Schmitt. Ebbene, nel pieno riconoscimento del diritto positivo,Romano non ha nessuna difficoltà sul piano logico ad ascrivere al giuridico sia l'ordinamento giuridico dello stato sia l'ordinamento che fuoriesce dalle organizzazioni criminali come, per esempio, la mafia. Questo secondo me conferma quella che ho poco prima affermato circa la paradossale mancanza in Romano , e vorrei diritto in cui si identificano ordinamento giuridico e reale sociale, dimensione dell’effettività. Non poté distinguere i ordinamenti sotto il profilo del contenuto (mano è assolutamente positivista), l'autore affronta il problema dell'identificazione del giuridico di concepir organizzazione. A questo punto qualunque tipo di società, anche quella delinquenziale, e al suo interno è organizzata realizzò l'ordine (socialità, organizzazione ordine sono i tre elementi del diritto di Romano) è una società giuridicamente organizzata diritto. Il problema che io pongo non è qua di un ordine valutativo immorale, ma è invece relativa alla possibilità di conoscere distinguere il diritto all'interno del fenomeno sociale; è un problema schiettamente gnoseologico la distinzione tra ordinamento giuridico statuale e una banda di briganti, introduca come criterio di distinzione il tema della norma fondamentale, che è onesto finzione della conoscenza, e qui inserisca il tema della connessione con l'effettività, cioè con il comportamento degli uomini. Ricordiamo ancora una volta che queste considerazioni sono sempre relazione che riflette sul diritto che lo investe nella misura in cui ne disciplina il comportamento, sono insomma considerazioni in relazione al diritto che oggi è, per un immediato futuro. Dico questo perché, secondo me,una concezione come quella romaniana di tipo istituzionali, può essere molto utile quando noi, da storici del diritto, ad esplorare ciò che il diritto complessivamente considerato è stato, ha prodotto, di valore storico protetto. Secondo me la dimensione del istituzionali, a parte i specifici contributi all'articolazione pluralistica del sistema giuridico, paradossalmente la dimensione propria della storia del diritto. Dico paradossalmente perché nella concezione romaniana, come detto prima, sembra che manchino il uomini alle loro passioni, interessi, esigenze: la mobilità dei fenomeni umani e sociali è sempre come riassunta, riassorbire le lenti da stabilizzatrici del diritto all'istituzione. Lo storico, quando da ricostruire un istituto che ha appunto storicamente prodotti sui frutti, va alla ricerca di quegli elementi formali e organizzatori che gli facilitino il di formulare ipotesi sulle credenze, sui miti, sulle passioni che sono state operanti nel mondo di ieri, e che egli rintraccia nelle istituzioni che le hanno raccolto ed espresse. Ciò che manca alla concezione istituzionale è il punto di vista di colui il quale, oggi, vuole conoscere, per poter agire, che cosa il diritto qualifichi giuridicamente nell'ambito dei comportamenti sociali. Nel mondo di ieri, società di diritto in qualche modo tendono effettivamente a confondersi, nel mondo di oggi, nel mondo che ci appartiene perché è teatro delle nostre azioni, società e diritto sono distinti, non senza il diritto non sia un'esperienza sociale, ma nel senso che, all'interno delle tante esperienze sociali è un espediente tipicità, particolare. E conoscere il diritto e cercare di cogliere queste le mente di caratterizzazione, il farsi non il fatto. Nel mondo istituzionale questo non è possibile.

4.l'eliminazione del dualismo essere e deve essere nelle teorie giusrealistiche.

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Il movimento e scientificamente utilizza una metodologia che, sia pure in senso lato, potremmo definire sociologica e quello denominato "realismo giuridico", ha i suoi rappresentanti più importanti, nell'ambito del cosiddetto realismo giuridico scandinavo o della scuola di Uppsala, Oliver Crona e Alf Ross. Bisogna però ricordare che nel mondo angloamericano particolare importanza, anche il movimento delle "realismo giuridico behaviuristico" che ha i suoi rappresentanti illustri in Holmes e Frank. Le differenze tra l'uno dell'altro movimento sono noti. Il realismo giuridico, cerca di definire il fenomeno giuridico mettendo a fuoco il comportamento dei giudici. Il riferimento alla cultura giuridica anglosassone del Common Law , alla tradizione giuridica è pensata come soluzione giurisprudenziale delle controversie, secondo la prassi è nell'ambito delle direttive dei principi generalissimi stabiliti dalla costituzione. Si può dire che tutta la cultura liberale lockiana che vada fondamento filosofico al diritto americano non può non notare attorno alla figura del giudice. Il terzo garante dei diritti che, almeno in linea di principio, unico vero motivo del passaggio dalla spontanea società naturale, l'ordinamento statale politico. Nell'ambito di questo movimento, il realismo giuridico behaviuristico o americano, sotto il profilo gnoseologico l'eliminazione del dualismo essere e dove essere è totale. Se possiamo indicare nella redige il momento del dovere essere il diritto e nella sua legazione da parte dei giudici il momento dell'essere (affettività giudiziale, cioè considerazione il comportamento dei giudici), allora dobbiamo constatare che il concetto stesso di ricchi, ovviamente con notevoli differenze tra autore e autore, in qualche modo si affievolisce, in qualche senso diviene una sorta di attività programmatorie pure fortemente vincolante per i giudici. Il risultato di queste teorie, hanno il merito di criticare l'illusione di un diritto legalmente codificato dagli effetti prevedibili, è quello di annientare la certezza della garanzia giuridica, non la distanza tra il potere giudiziario e il diritto. Negli anni delle realismo giuridico scandinavo, secondo me, le più interessanti teorie sono, da un lato la cosiddetta concezione del diritto come fatto di Karl Olivercrona e dall'altra concezione della verità come affettività sostenuta da Alf Ross. Per Olivercrona, che tra l'altro, a mia conoscenza, è stato uno dei pochissimi che ha avuto il coraggio di teorizzare apertamente, già nel titolo della sua opera più famosa, il diritto come fatto, il diritto appunto può essere conosciuto solo empiricamente come un'esperienza di tipo psico-emotivo. Attenzione, tutti il discorso di Karl Olivercrona è afferente al diritto visto nel suo complesso, l'uno, come del realismo giuridica americano, visto sotto solo l'angolatura della sentenza giudiziaria o in generale del comportamento del giudice. Con Olivercrona, la teoria giuridiche si arricchisce nella misura in cui c'è lezione anche il ruolo, che nell'ambito del giuridico, svolgono i consociati con le proprie "idee" sul diritto stesso. Attenzione, per quanto riguarda la forza, per forza si intende non la celebrazione della forza e chi si tratta, come quella delle dottrine totalitaristiche, ma demistificazione dell'intrinseco peso di repressione e di male che il diritto reca in sé, quanto e poi lo possa apparire. Per quanto riguarda Ross, lui non è assimilabile ai realisti americani perché non riduce tutto ciò che fanno i giudici, e non è assimilabile al realismo olivercroniano perché il sentimento di obbligatorietà non realizzati in modo approssimativo così come in Olivercrona, dove è afferente a tutti i consociati, mai e scientificamente considerato come il prodotto ermeneutico che si ricava dalla lettura delle sentenze dei giudici. Insomma la sentenza nell'ambito della concezione rossiana è ciò che,popperianamente, è il campo di sperimentazione e di verifica. Le cose stanno in questo modo: la sentenza della concezione realistica di Alf Ross costituisce l'elemento esterno partendo dal quale attraverso la lettura delle motivazioni possiamo formulare delle ipotesi sulla vita interiore del giudice. L'ipotesi formulata da Ross è che nei giudici e di vitale rilevanza ai fini del comportamento il cosiddetto "sentimento di obbligatorietà", vale a dire, risalendo via via verso le norme superiori,1 sorta di fedeltà alle istituzioni che, secondo Ross, sarebbe all'origine della spiegazione dei meccanismi giuridici. In Ross la validità è da identificarsi con l’effettività giudiziaria in sostanza è la sentenza in cui il comportamento di giudici a essere il fulcro centrale della sua contrizione. La validità mantiene qualcosa della, abilitati della validità di tipo normativistico sotto il profilo di obbligatorietà psicologicamente determinato inaccettabile, di sentenze. Questa di Ross è una concezione certamente interessante ma troppo sofisticata, è a mio modo di vedere troppo chiusa nell'ambito di un settore che è si importante, ma non esclusivo del mondo giuridico, cioè il mondo delle corti e delle sentenze giudiziarie

Capitolo terzo

L'ordinamento giuridico

1.l'ordinamento giuridico in una visione nomodinamica.

Che l'ordinamento giuridico si configuri come un fenomeno sociale, può essere agevolmente mostrato dal fatto che esso è un insieme di norme che in un modo o nell'altro ineriscono al comportamento dell'uomo. Quando affermiamo che l'ordinamento giuridico è un'organizzazione della forza quindi quando affermiamo che un insieme di norme che direttamente o indirettamente disciplinano l'atto di coazione fisica (sanzione), in realtà noi consideriamo l'ordinamento orizzontale, praticamente, contenutisticamente. La loro validità di ricondotta a una norma generale dal cui contenuto è possibile dedurre il contenuto particolare delle norme tutte. Se siamo all'interno di una nomostatica specificatamente giuridiche, il contenuto sarà la forza e guarderemo a esse norme attraversate la tradizionale dicotomia precetto-sanzione. Insomma, ogni qualvolta si fa ricorso alla sanzione come possibile specificità della norma, la metodologie utilizzate l'approccio al diritto è di tipo statico. Si dice: la norma primaria stabilisce il modo in cui il soggetto deve comportarsi (precetta), norma secondaria predispone la conseguenza nelle ipotesi di un comportamento dell'uomo di deviazione

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rispetto al modello ha indicato dalla norma primaria. Ben più significativa è l'innovazione sempre introdotta da Kelsen, o meglio dalla cosiddetta "scuola di Vienna" (su questo specifico punto l'elaborazione originaria si deve ad Adolf Merkel): sto parlando dell'ordinamento giuridico in una visione gradualistica o nomodinamica. Quelle norme non appaiono sistemate secondo la dicotomia orizzontale primario e secondario, ma attraverso la dicotomia norma superiore norma inferiore. Non si si chiede se il contenuto della norma sia più o meno direttamente né indirettamente collegata ad un altro atto di coazione fisica, ci si chiede di vice su cosa sta dinamicamente gradualistica mentre seconda della validità di una norma data. Il modello dinamico di ordinamento è caratterizzato dall'istituzione di regole per la produzione giuridica autorizzata, quindi lo rapporto di delega dell'autorità superiore e inferiore. E, nel momento stesso in cui l'ordinamento giuridico viene considerata un ordinamento dinamico, mostra le norme situate su piani diversi una visione gerarchica. Partendo dal basso va dall'esecuzione della sentenza giudiziaria attraverso atti amministrativi, leggi ordinarie, per posizionare fino alla norma fondamentale, presupposto alla fine di chiudere la gerarchia con un'autorizzazione a legiferare.

2.sistemi statici sistemi dinamici

La specificità del sistema statico sta nel fatto che, in un modo o in un altro, le norme appaiono come concretizzazione, se così posso dire, di una norma generale che viene considerata per la sua caratterizzazione contenutica. Sono per Kelsen tipicamente statico o materiali sistemi normativi morali e giusnaturalistici in cui si presuppone un principio morale e, sempre secondo Kelsen, da esso si deducono logicamente le norme particolari. Insomma ciò che viene essere una specifica del sistema statico è dato dal fatto che i nessi tra norma in norma sono sempre di implicazione esplicazione il processo di conoscenza è costruito metodo logicamente intorno al concetto di deduzione del particolare dall'universale. In un sistema statico contenutistico, è, per definizione, assente ogni elemento dinamico, vale a dire manca la dimensione della delega. Nel momento se si sistema viene introdotto il concetto di delega-nella misura in cui il contenuto di una norma inferiore rispetto a una norma superiore viene non prefissato ma lascia dalla creazione dell'organo indicato nella norma superiore-il sistema si avvia a diventare dinamico. Attenzione: accanto al concetto di delega ed ad essa connessa, viene introdotto come caratteristiche del sistema dinamica cosiddetto "principio di autorità". Così ogni norma a un tempo, o meglio funge a un tempo da norma superiore norma inferiore. Il nesso formale non sostanziale perché la verifica sulla norma superiore che funge da fonte di legittimazione riguarda esattamente tutti quegli elementi che fungono da fonte autorizzativa. Così chi ogni qualvolta l'interno dell'ordinamento giuridico non li predichiamo la validità di una norma, facciamo in relazione a un'analisi di tipo formale a controllare se la norma è stata posta in essere dall'organo competente: la competenza può essere ovviamente di vario tipo, come la considerazione formale può ricadere nel riguardare anche la norma da un punto di vista contenutistico, che non sia in contrasto con quei principi generali che, ripeto, spesso vengono essere positività che nelle moderne costituzioni. A me preme però sottolineare come, nell'ambito degli ordinamenti giuridici di cultura codicistica, questo modo di rappresentare il diritto mette in evidenza una caratteristica estremamente importanti: ogni qual volta ci troviamo dinanzi a una norma di cui viene predicata la validità, questo deve ricordarci che il contenuto della norma in questione non è assolutamente la concretizzazione di un principio quale potrebbe essere il principio della verità, ma piuttosto principio di autorità. Attraverso il collocamento della norma all'interno del sistema dinamico, norma appare come in un certo senso depotenziata e demistificata nella sua pretesa di giustizia e verità, nella misura in cui comunque, per la sua determinazione, deve rinviarsi al processo di autorità e quindi a un processo di volontà dell'uomo. La caratterizzazione nomodinamica del diritto, secondo me, ha la sua specificità proprio nel mostrare quella era caratteristica precisa di ogni sistema giuridico, vale a dire che la norme è valida quindi obbligo non per quello che dice, ma perché, semplificando, in altre norme dell'ordinamento, vengono indicati coloro che sono autorizzati a dire. Tutto il sistema giuridico è pervasa dal principio di autorità. Tutto il meccanismo della nomodinamica mostra il fondamento di ogni norma da un punto di vista sostanziale sempre un fondamento che non ha attinenza con il giuridico, perché il giuridiche principalmente la fissazione della statuizione delle norme (anche l'autorità è una forma) in cui si può produrre il diritto. La superiorità di una metodologia come quella nomodinamica, che rifugge da queste valutazioni, sta, secondo me, nel fatto che esplicita la natura autoritativa del diritto stesso.

3.il diritto: elementi statici dinamici per l'elaborazione di un modello scientifico

Il modello nomodinamico permette di cogliere il diritto attraverso quel fenomeno dell'autoproduzione del diritto stesso che una caratteristica molto importante da sottolineare energeticamente. Questo significa che la rappresentazione del movente produttivo del diritto di tipo normativo, nel senso che ogni norma ha il suo fondamento in un'altra norma superiore. Tutto il mondo delle norme giuridiche può essere rappresentata attraverso la dicotomia norma superiore norma inferiore, ma la norma inferiore non è mai semplice applicazione esecuzione della norma superiore: è applicazione o esecuzione nella misura in cui si produce attraverso quella modalità stabilita dalla norma superiore, ma rispetta quest'ultima ha per definizione sempre un di più di innovativo. Questo qualcosa di nuovo e in realtà il contenuto della decisione che viene a prodursi all'interno della cornice normativa. La dinamicità dell'ordinamento è strettamente collegata quelle che prima ho chiamato il principio di autorità, che impedisce di vedere nel sistema normativo quando è dinamico-e l'ordinamento giuridico ha questa caratterizzazione - un sistema autoreferenziale in maniera forte. La

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dinamicità dell'ordinamento conferma la definizione del diritto come strumento, come tecnica finalizzata alla convivenza degli uomini. La struttura dinamico autoritativa apra all'azione, non la occulta,io voglio soltanto affermare che tutto il meccanismo nomostatico kelseniano inerente alla presentazione del diritto come in ultima analisi composto di norme disciplina dell'uso della forza sia inadeguato a capire la complessità dei modi con cui il diritto oriente regole di comportamento umano: specificatamente c'impedisce di cogliere la dimensione attiva che in una società avanzata il diritto gioca a opera dei consociati che lo usano per la tua dei propri fini, senza limitarsi a subirlo. Insomma io credo nella definizione generale compatibile con la presentazione gradualistica e nomodinamica dell'ordinamento. La presentazione invece della funzione tecnica attraverso la tipologia delle norme primarie come norme sanzionatorie indubbiamente unità del mondo giuridico solo repressivo. Io penso che, pur non seguendo Kelsen nelle riduzionismo normativo cui ho fatto cenno, bisogna però ritenere necessaria l'affiancamento,1 rappresentazione nomodinamica od ad una rappresentazione di tipo nomostatica. Infatti se noi ci limitassimo alla nomodinamica, non riusciremo recepire fino in fondo il carattere strumentale del diritto stesso e poi, e questa mi sembra la cosa più importante, non riusciremo a capire il ruolo che la forza, coercizione, comunque, in un modo o nell'altro, giocano nell'ambito del fenomeno giuridico. Se è vero che non tutte le norme giuridiche possono essere intimamente comprese nel loro funzionalismo interno, se vengono ridotte norme che direttamente o indirettamente concernono la sanzione fisica, è altrettanto vero che nell'ambito di una rappresentazione del fenomeno giuridico non può non essere richiamata l'importanza di quelle norme sanzionatorie e non può non essere studiato il ruolo che, nell'economia generale del discorso,esse svolgono. Si tratta, ancora una volta, il problema dei rapporti tra il diritto della forza: e allora, se di diritto non può, dal punto di vista mio, essere composto solo da norma da cui specificità giuridica in ultima analisi la disciplina della forza fisica, però è altrettanto vero che nei momenti in cui dalla definizione di diritto scompare riferimento alla sua attività e alla forza, la presentazione del fenomeno giuridico finisce con l'essere rischiosamente parziale.

4.norma e piani di norme nell'ordinamento

Nell'ambito del fenomeno giuridico, e utilizziamo quella distinzione fondamentale della nomostatica, la norma in un modo o nell'altro tende sempre a regolamentare il comportamento dell'uomo sia quando si pone alcun obbligo (modello recettivo), sia quando si offre al consociato come possibilità di conseguire degli specifici i risultati in conseguenza della sua utilizzazione (norme che conferiscono poteri pubblici o privati). Importante distinzione secondo la quale una norma primaria e una norma che conferisce un modello di condotta, che impone un obbligo,1 norma secondaria è una norma attribuisce un potere, pubblico o privato.

5.documenti, leggi e norme

L'ordinamento è un insieme di fatti, atti, documenti, disposizioni, dove la norma costituisce soltanto (ma ovviamente non è poco) il risultato finale dell'attività interpretativa cosiddetta giuridica. Quindi dire che l'ordinamento è un insieme di norme e un modo abbreviato che sottintende quei dati, quell'attività degli organi competenti, quelle disposizioni legislative su vari piani situate a (leggi ordinarie e leggi costituzionale) da interpretare, da cui è possibile ricavare le norme valide. Quindi è forse preferibile definire l'ordinamento come quelli in simili documenti fatti sociali (le consuetudini, per esempio) da cui fuoriescono, attraverso un processo interpretativa che si rinnova e non è necessariamente sempre univoco, le cosiddette norme vere e proprie. Un'altra avvertenza riguarda in modo specifico il rapporto tra legge e norma. Nell'ambito degli ordinamenti giuridici contemporanei, produzione legislativa si svolge attraverso un'elevata complessità tecnica, per cui è importante distinguere il documento ufficiale che chiamiamo legge che noi riceviamo dal documento stesso, o ancora dalle norme che possiamo ermeneuticamente ricavare dalla lettura del documento-legge. Quest'ultimo-e che è ormai una prassi consueta-rinvia ad altre leggi, quindi ad altri documenti; così che la costruzione e la individuazione delle norme costituiscono un’operazione ermeneutica complessa che nasce dal confronto di più documenti-legge. L'indecisa tra parentesi di cui sopra, e cioè il fatto che talvolta l'operazione non è possibile, non è un paradosso, ma la constatazione che può capitare che dalla lettura di un documento non si riesca, neppure attraverso gli artifici logici più complicati, a ricavare quale sia il comportamento obbligatorio, o quale sia il comportamento permesso. Da quanto abbiamo detto che dovrebbe essere chiaro il rapporto tra legge norma nel senso che dai documenti legislativi è possibile ricavare norme, laddove, per una rappresentazione completa della norma stessa, è necessario operare dei collegamenti tra leggi anche emanate in tempi diversi.

6.determinazione e concretizzazione della norma: potere discrezionale e "auctoritas interpositio"

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Da quella che abbiamo detto, consegue che le norme, gli enunciati normativi che emergono dalle disposizione dagli atti, non sono assolutamente da ritenere come tipici sono di certi gradi dell'attività normativa, per esempio l'attività del potere costituzionale del potere parlamentare. Le norme possano essere, di regola solo, "generali ed astratte", come tecnicamente suole dirsi, ma possono essere anche individuali concrete, come appunto nel caso della sentenza del giudice. D'altra parte, l'evoluzione (o, da un altro punto di vista, all'involuzione) negli ordinamenti giuridici contemporanei avviene nel senso di produrre anche le leggi per niente caratterizzata dall'astrattezza e della generalità.questi erano valori tipici dello Stato di diritto e hanno un'importante giustificazione ideologica nelle riferimento all'equiparazione giuridica, che certo un valore chiave della cultura giuridica liberale. L'altra parte via una logica interna che collega d'esperienza giuridica degli ordinamenti giuridici contemporanei come le tipologie dei decreti legge, e delle leggi-provvedimento (tutti sono creati da organi legislativi e però contengono prescrizioni da ritenere, per certi aspetti, individuali concrete) con il considerare l'attività normativa anche quella del giudice che elabora la sentenza da cui fuoriescono norme individuali (cioè rivolte alle parti) è concrete (cioè sono specifiche delle rime al comportamento da tenere). Auctoritas interpositio La nozione di autorità cui evocata non si riferisce al concetto di autorevolezza e al riconoscimento consensuale di qualità, di guida o di orientamento, ma riprende il significato laico e moderno dell'acutoritas, inaugurato dal Leviatano di Hobbes. In questo senso l'autorità è concepita come quell'insieme di prerogative giuridiche formali che permettono all'esercizio del potere e sono sganciate dalla verità e dalla giustificazione etica, almeno in linea principio:"auctoritas,non veritas facit legem". Questo permette una visione moderna e non ideologica, laica dell'ordinamento giuridico come struttura, formale e autoritativa. Perché aprire questo legame tra ordinamento formale autorità, è utile introdurre nella nostra trattazione una famosa critica l'ordinamento giuridico vi sia una rappresentazione gradualistica, che fu formulata da un celebre giurista del nostro secolo, Carl Schimitt. Un'avvertenza, però: la presentazione nomodinamica e personalmente sta portando avanti non è affatto una riproduzione della nomodinamica di Merkel e di Kelsen. Personalmente sto proponendo la visione del diritto come ordinamento a gradi, tenendo però presente altri apporti della scienza giuridica, che vanno modificate corretto alcune rigidità del primitivo modello rendendolo più adeguata alla complessa realtà contemporanea. In special modo utilizzare il pensiero filosofico e giuridico di Hart, così che la costruzione nomodinamica di questo manuale non può essere considerata come filologicamente fondata sulla nomodinamica di Merkel e Kelsen. Ciò detto, però io non posso non intendere l'ordinamento giuridico a gradi così come veniva rappresentato dalla cosiddetta "scuola di Vienna" dall'accusa che appunto in quegli anni 20 e 30 gli mosse Schimitt. Il giurista di Plettemberg affermò che l'ordinamento giuridico a gradi altro non era che una formalizzazione all'estremo, ove i rapporti volontaristici, le decisioni, il potere discrezionale tipici del mondo giuridico venivano occultati, anzi annientati e distrutti. L'accusa, poi tante volte ricorrente nell'ambito della scienza giuridica, è volta mettere in evidenza l'incapacità di una simile costruzione di spiegare inizi vitali dell'esperienza giuridica, in modo particolare la vita concreta degli uomini che appunto giuridicamente si organizza reagiscono. E, in questo quadro,Schimitt faceva notare che assolutamente inadeguato collegare i piani di norme dell'ordinamento giuridico formalisticamente, a gradi, senza mettere in evidenza il fatto assolutamente significativo che, nel passaggio da un piano all'altro, vi è sempre l'intromissione dell'attività dell'organo che, a autoritativa mente interpretando la norma superiore, e mette qualcosa di nuovo. Il nuovo a, nella norma che produce: cioè appunto l'auctoritas interpositio . Dovrebbe essere chiara da quelle che abbiamo detto precedentemente, impostando la descrizione della struttura dinamica come la struttura autoritativa e di delega, di questo tipo di critica non può assolutamente essere calzante. E' della stessa natura dinamica dell'ordinamento postulare un modo di determinazione interpretativa che agisca nomodinamicamente attraverso la determinazione creativa del particolare rispetto a un generale dato. Cioè, è proprio dei lillà dinamicità dell'ordinamento, con i suoi procedimenti di delega, essere naturalmente predisposta all'aucotirtas interpositio. Ciò che Schimitt dice potrebbe essere giustificabile solo ed esclusivamente in relazione all'ordinamento giuridico ipoteticamente rappresentati in modo verticistica e con un procedimento nomostatico e non nomodinamico. Per definizione, invece, la metodologia nomodinamica è una metodologia aperta al potere discrezionale, e anzi imperniata su di esso. Un modello di ordinamento giuridico, costruita attraverso la nomodinamica come quello di Merkel e Kelsen, voleva essere un mondo,1 schema per capire, decifrare, interpretare la realtà giuridica e sociale e complessa, e quindi naturalmente una metodologia volta a non occultare il momento decisionale del diritto. Lo spostamento che la teoria nomodinamica e dei contenuti delegittimanti alla struttura formale, al controllo di validità interna delle leggi come meccanismo dinamico della legalità, è davvero una rilevante e decisivo punto di svolta verso il meccanismo procedurale che presiede alle democrazie contemporanee e alla loro apertura al pluralismo. I limiti normali dell'organizzazione delle fonti di diritto, la gerarchia delle competenze e la determinazione degli ambiti di potere fanno risaltare il momento della mediazione non irrazionale ma a autoritativa che il diritto compie tra le parti sociali e chiudono l'illusione di una oggettiva unificazione delle parti stesse su un unico, collettivo bene comune. E poi c'è il problema del differente approccio conoscitivo al fenomeno giuridico che intercorre tra una metodologia alla Kelsen o alla Schimitt. Kelsen era alla ricerca di un modello che non trasfigurasse la realtà, ma la rappresentasse nella intrinseca e ambigua commistione conflittuale di elementi etici e politici, che inserisce, almeno in taluni settori in talune zone, contenuta stesso del diritto.qui, anche se può apparire datata, la terminologia efficacemente mostra come Kelsen si rappresentasse da un lato la polivalente realtà giuridica e sociale che può essere appunto intrisa di azioni conflittuali, per usare le sue stesse parole, avvolta dalla volontà, dall'altro lato è un modello di diritto, costruito anche sulla struttura nomodinamica, che in qualche modo serva a decifrare i capire, a "squarciare i veli". Il modello di

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diritto comunque è sempre al servizio della realtà, a cui essa si riferisce. Che il diritto sia, sotto il profilo contenutistico, intriso di politica strumento di una realtà sociale non pacificata né vagamente comunitaria va svelato, non occultato trasfigurata. Questo è il modello proposto da Kelsen in quegli anni drammatici, che vedranno l'estremo tentativo totalitario di rifiutare il pluralismo etnico e la conflittualità sociale riassorbendoli con la violenza all'interno di uno Stato-nazione omogeneo e impossibile. Dall'altra parte c'è invece il giurista Schimitt è esattamente un calarsi diretto nell'esperienza giuridica concreta e storica nella quale il giurista vide i proporre alla forza politica che ne sarà capace una risoluzione volontaristica dei conflitti delle disaggregazioni che, dal punto di vista del giurista stesso, mina e corrompe lo Stato; Schimitt cerca una commistione fra indagine sul diritto il diritto stesso. Ecco perché la metodologia schmittiana di quegli anni, e quando la proposta è in direzione di un procedere decisionisti come quando essa sfocia nella rappresentazione dell'ordinamento giuridico concreto e pacificato, è fortemente politica, nel senso esatto di porre in qualche modo il diritto (qui non più separato dalla scienza giuridica) a servizio della politica. Al giurista schmittiano è richiesta una cooperazione politica in direzione neutralizzazione dei conflitti e della tutela della capacità "sovrana" di rappresentare lo Stato l'unità politica di un popolo.

7.ordinamento giuridico e fonti del diritto

In uno dei suoi possibili significati, il positivismo giuridico postula la necessità di ritenere giuridico tutto ciò che è riconducibile alla volontà dello Stato. Poiché tra l'altro non abbiamo ricordato nel capitolo precedente la cosiddetta concezione istituzionalistica che, sostenuta in Italia da Romano, in quell'autore si accompagnava anche alla teoria della pluralità degli ordinamenti, allora è necessario chiarire se per caso il contrasto tra una concezione ordinamentale di tipo normativistico e una concezione ordinamentale di tipo istituzionalistico non sfoci, sul problema delle fonti, in un contrasto tra teoria stato balistica e teoria pluralistica. Debbo chiarire immediatamente che, secondo me, il pluralismo giuridico o meglio il pluralismo circa le fonti del diritto non può essere una specificazione volta a caratterizzare un modello piuttosto che un altro. La dottrina del pluralismo può essere o non essere una caratterizzazione di una concezione ordinamentale di tipo normativistico dinamico. Personalmente ritengo che quando il positivismo giuridico sostiene la connessione tra l'ordinamento giuridico ed esclusiva fonte giuridica nella volontà dello Stato, sia in errore. Certamente la tradizionale autorappresentazione storiografica del processo dello Stato moderno tende a dare forte, se non esclusivo, risalto al momento hobbesiano della convergenza tra l'ordinamento giuridico il potere dello Stato. A lungo, e certe, in parte, in modo persuasivo, l'interpretazione storiografica che ha rappresentato lo strettissimo nesso tra processo di statalizzazione del diritto il processo di giuridificazione dello Stato. Naturalmente questo significa un paradigma di Stato moderno caratterizzato dal monopolio della forza legittima, dall'uniformazione delle regole nel territorio, dalla crescita di una parata ministra di voce alla trasparente che da un punto di vista fenomenologico e concretamente storico è riscontrabile solo in via tendenziale e incoerente, è comunque solo nel pieno 800. Un modello di questo tipo, non solo non è assolutamente in grado di farci capire fenomeni li di esperienze giuridiche che nello stesso tempo non hanno avuto niente a che vedere con la volontà dello Stato, perché in sostanza lo Stato come organizzazione e come Stato moderno neppure esisteva, ma escludono anche qualsiasi considerazione di una dimensione alternativa della politica e del diritto.detto questo, poiché noi viviamo alla fine del secondo millennio non possiamo non constatare che l'orientazione statuale così come tipica dello Stato moderno non è affatto scomparsa nel mondo. Certo, il tema della crisi dello Stato nazionale o meglio della crisi della volontà nazionale è una sorta di motivo ricorrente nel nostro secolo. Essa si presenta come esplosione di nuove situazioni sociali, nuovi soggetti, dai partiti ai sindacati, che premono sulle pareti dello Stato-persona riluttante a dar loro voce e rappresentanza, e alla cui difesa da man forte proprio il paradigma tradizionale dello Stato moderno come accentramento del potere, della sovranità del diritto. Il contributo decisivo del giurista Kelsen fu proprio nella direzione di smontare e demistificare l'ideologia della sovranità politica sostanziale dello Stato, sciogliendolo nell'ordinamento giuridico la cui unica formale poteva regolamentare conflitti e particolarismi, spinte pluraliste e sociali senza il venir meno di una unità e sovranità che sono per lui squisitamente strutturale giuridiche. In realtà oggi problemi sono diversi da quelli di allora: alle spinte pluraliste interne che apparivano dissolutorie nei riguardi di uno Stato-persona, si sostituisce un declino della sovranità nazionale degli ordinamenti giuridici, in relazione alla modalità internazionale, globale, di tutta una serie di problemi che richiedono soluzioni, decisione. Internazionale globali. E però ancora, a mio avviso, la strada tracciata dal grande giurista praghese mi sembra ricca di suggerimenti e indicazioni: soltanto la rete regolamentativa degli accordi, la giuridificazione formale e non le riduttivamente sostanziale dei compromessi fra le diverse parti, può sperare di disciplinare conflitti di valore che nascono dall'inevitabile interazione di gruppi con forme di vita multiculturale a livello internazionale. La strada proceduralistica e nomodinamica indicata da Kelsen non può rinunciare alla necessaria qualità della sovranità che garantisca l'efficacia della coesistenza giuridicamente regolata, ma non la fa coincidere con la dimensione né dello Stato nazionale né di un forse più angosciante superstato globale, ma esattamente della qualificazione giuridica dei rapporti delle mediazioni fra conflitti di di volta in volta raggiunti. Dello spettro delle differenze di valore di cultura, percepire degli individui, cresce, e cresce, con i fenomeni di democratizzazione e partecipazione, il numero di ordinamenti regolamentativi e associazioni volontarie che si intersecano riferendosi a sfere di "beni" incompatibili, la possibilità di istituire mantenere una società pluralista sta nella statuizione di rapporti giuridici che astraggano le differenze e neutralizzi noi conflitti, tutelando la coesistenza giuridicamente paritaria alle

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differenti forme di vita: è a queste relazioni giuridiche che va attribuita la sovranità, proprio perché l'opera di garanzia possa essere svolta, mi sembra che questa sovrana possa avere una legittimazione politica solo se strettamente procedurale. Indubbiamente, rispetto agli anni weimeriani lo spazio di giuristi filosofi del diritto dannò delle fonti giuridiche non strettamente statuali è proporzionale al ruolo che sempre di più di viene riconosciuto, nella rappresentazione del giuridico, è consociati e alla loro prassi direttamente istitutive di accordi deregolamentazione normative, insomma al loro uso attivo del diritto: si pensi in questa chiave alla teoria di Hart. Naturalmente non voglia affermare che la fonte del diritto o una delle possibili fonti del diritto sia nella disposizione riconoscimentale è consociati nei confronti del diritto stesso. Però non si può più, trattando del problema delle fonti, non guardare anche a quegli atteggiamenti normativi che, in un certo senso, sono a monte del fenomeno del diritto stesso.

8.l'ordinamento e la costituzione

Abbiamo visto nel corso di questo capitolo che cosa significa rappresentare in modo nomodinamico l'ordinamento. E semplificando, abbiamo detto che se per esempio partiamo dal basso delle esperienze giuridiche cominciano a porsi il problema del fondamento di validità dell'esecuzione della sentenza giudiziaria, via via risaliremo i gradini della struttura di deleghe e risponderemo ai vari quesiti sulla validità dei vari passaggi, fino a giungere alla costituzione. Così, sempre semplificando, diremo che l'esecuzione della sentenza è valida nella misura in cui la sentenza è stata posta in essere dal giudice competente. E se ci chiederemo se la sentenza emessa è valida, o meglio dove riposa la sua validità, andremo a cercare nelle leggi ordinarie fondamenta di validità in relazione alle leggi appunto applicate dal giudice che fungono da fondamento della sua sentenza. Se poi risalendoci interrogassi molto dove risiede le fondamenta di validità della legge ordinaria, risponderemo che, almeno per molte ordinamenti giuridici, il fondamento della legge ordinaria è nella costituzione. Attenzione: in tutti passaggi attraverso i quali noi risaliamo di grado in grado, l'analisi è sempre formale. Poiché molte costituzioni degli ordinamenti giuridici contemporanei, oltre a regolare e a disciplinare il funzionamento degli organi del diritto, recepiscono, specie i di norma nella prima parte del testo costituzionale, taluni principio talune visioni di giustizia generale, secondo alcuni anche all'interno di una concezione del diritto visto nel processo di auto produzione normativa, cioè nomodinamicamente, la validità come predicato delle norme non è soltanto formale ma è anche validità sostanziale. Difatti il contenuto "spadino" dei diritti garantiti dalle norme così tra le tende a vincolare materialmente il contenuto delle norme di grado inferiore. Questo vincolo "statico" esprime ragionevolmente la necessità del costituzionalismo del 900 di soddisfare la questione dei valori dei principi fondamentali cui può riferirsi la realtà politica e il consenso dei cittadini verso il potere costituito: non si tratta di riproporre lo Stato olismo della tradizione ottocentesca e il valore etico dello Stato stesso. Piuttosto una costituzione è il punto delicatissimo di intreccio tra politica e diritto e, per quanto possa valere in paese a struttura liberale e democratica la tesi proceduralista, dinamica, aperta la pluralità dei valori, non va dimenticata l'esigenza,. Schiettamente politica, di legittimazione fondazione assiologica del diritto stesso. Ma in relazione a quanto detto vanno fatte alcune osservazioni secondo importanti:

Non tutti gli ordinamenti giuridici presentano costrizioni del tipo delineato precedentemente: è chiaro che chi sottolinea la sostanzialità contenuti sia della validità delle norme tiene presente soprattutto ordinamenti giuridici liberali e democratici; e, come è noto tutti, questi ordinamenti sono sono purtroppo oggi nel mondo minoritari.

indipendentemente dalla struttura liberale democratica del ordinamenti in questione, spesso, e la storia del nostro secolo ce lo ha dimostrato per esempio con la costituzione della dissolta unione sovietica, gli ordinamenti fanno riferimento a una dichiarazione posizionale dove solo in un modo cartaceo viene reso omaggio a certi valori come la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani. In ordinamenti di questo tipo, certamente passaggi nomodinamici inerente alla valida della norme fanno riferimento alla costituzione, ma la terminologia adoperata nella parte dichiarativa su cui ci stiamo soffermando (libertà, democrazia, uguaglianza, popolo, giustizia) è vaga e soggette interpretazioni ideologiche sorprendenti; per non parlare dell'esplicita malafede nell'applicazione di questi valori.

che la costituzione gli Stati liberali e democratici positivizzi importanti principi e incorpori modelli e visioni di giustizia spesso largamente condivisi è un fatto; ma è altrettanto un fatto, e di sempre crescente rilievo, il constatare che vi sono sempre in individuo gruppi di individui che non si riconoscono in questi principi in questi valori. L'integrazione etica nazionale e dissolta, coesistono diverse comunità culturali, diverse sotto culture che si sentono minacciate dalla maggioranza la dominante è espressa nei rapporti giuridici; è chiaro che in quanto consociate in un unico ordinamento giuridico, queste minoranze sono tenute a riferirsi alle norme giuridiche "formalmente" valide e a riconoscerne la validità obbligante. È ovvio che quanto più la norma superiore sarà astrattamente Chiesa regolare la coesistenza della tolleranza, tanto meno sarà sentito il peso dell'integrazione a una specifica visione di giustizia. Così che, quando noi sosteniamo che il problema della validità inerente alla forma e non al contenuto, vogliamo soltanto dire che la norma invalida, e come vedremo nel prossimo capitolo obbligatoria, indipendentemente dal fatto se essa è rispondendo a mila a principi di giustizia. Giuridicamente non possiamo solo dire, ma-si badi-il processo ancora formale, se la norma si è riconducibile a quei principi di giustizia e sono previsti dalla costituzione. Ma la costituzione è essa stessa norma e quindi funge da fondamento, cornice e spazio delle norme inferiori. Il fatto che la selezione contenga

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corposamente principi e valori non rende di per sé sostanziale la validità. Una valida sostanziale può avere un significato solo nella dimensione politica di legittimazione.

Capitolo Quarto

La validità

1.La validità come appartenenza della norma all'ordinamento.

Predicare la validità di una norma significa leggere,interpretare quei documenti legislativi emanati nei modi previsti dalle norme sulla produzione legislativa, attraverso i quali noi possiamo ricavare ermeneutica mente una norma che affermare che la norma è collocabile su un piano dell'ordinamento, visto appunto nomodinamicamente. Qui la norma viene, come suol dirsi, essere considerata esistente giuridicamente della sua esistenza giuridica e nell'appartenenza, cioè nella possibilità di affermare che essa è valida nella misura in cui trova il suo fondamento in una norma superiore o, se si preferisce, in quel documento fatti giuridici attraverso la lettura dei quali non possiamo appunto ricavare la norma superiore che funga da fondamento della norma presa in esame. Sto insistendo sulla distinzione tra concetti di norme di documento perché, come abbiamo visto precedentemente, la norma è una significato ermeneuticamente ricavabile dal documento legislativo, è un enunciato precettivo, frutto di un procedimento interpretativo. A mio avviso, non è possibile scindere in modo netto il concetto di validità come appartenenza del concetto di validità come obbligatorietà della norma. Molti critici ragionano in questi termini: fino a quando predichiamo che la validità significa appartenenza al sistema, il procedimento adoperato si può considerare scientifico; nel momento stesso in cui affermiamo che la validità, solo in quanto significa appartenenza, comporta anche l'obbligatorietà, allora entriamo in una dimensione di considerazioni di tipo valutativo, non è scientifico né correttamente logico. Cosicché il giurista dovrebbe limitarsi a registrare o meno del soddisfacimento dei requisiti indicati predisposti dall'ordinamento di predicare la validità come mera appartenenza della norma sistema. Dovrebbe quindi astenersi dal dichiarare obbligatorio il contenuto della norma, perché ripeto, sempre secondo alcuni, intendendo la validità con l'obbligatorietà si valuterebbe in senso positivo il contenuto si esprimerebbe una sorta di apprezzamento sul contenuto stesso. Ritornerò nel prossimo paragrafo su questa scissione tra appartenenze validità con l'obbligatorietà. Soffermiamoci invece sul problema della validità come appartenenza, avvertendo sin da ora che, per me, il giudizio sull'appartenenza implica necessariamente il giudizio sulla obbligatorietà. A questo punto, secondo alcuni, noi qui dobbiamo fermarci nel senso che se ci poniamo l'ulteriore domanda, vale a dire su quale fondamento potrà validità della costituzione, noi dobbiamo rispondere che la costituzione è valida perché è effettiva, cioè perché è obbedita. Essa è dunque strutturalmente formalmente valida se è operativa, dunque nella misura in cui funziona nella prassi concorde dei funzionari e organi che la applicano, dei consociati che appunto agiscono in conformità con i contenuti della stessa. Secondo altri invece, per esempio Kelsen, la domanda sul perché è valida questa costituzione, non possiamo rispondere andando ulteriormente a ritroso e risalendo una posizione più antica da cui questa può essere generata e così via, finché storicamente questo è possibile: a ultimo, arriveremo comunque un'azione, a un atto fondativo di un usurpatore (nel senso di non essere già legittimato dall'ordinamento) che viene interpretato come diritto. Nel primo caso, vale a dire nel caso di coloro che rimandano la validità all'effettività della questione dell'ordinamento viene ad essere "chiuso", dalla prassi concorde che utilizza e applica le norme condizionali; l'elemento formale della doverosità (la validità è il dover essere) viene sospeso, fatto dipendere dalla fattualità dei comportamento dei consociati. È evidentemente la chiusura dell'ordinamento avviene attraverso una modalità fattuale . La prassi concorde è il frutto di una costatazione fenomenologica: è un essere, non un dover essere. Si afferma cioè che per esempio, in Italia, almeno fino ad oggi, alla costrizione è stata ed è effettiva, perché constatiamo sociologicamente che essa, come suol dirsi, "vivere" di comportamenti dei funzionari dei cittadini che la applicano e la osservano. Naturalmente a tutti dovrebbe essere chiara la distinzione tra un'affermazione del tipo: in Italia è operante la costituzione che fu emanata ed entrò in vigore nel 1948 rispetto all'altra affermazione: la costituzione deve esser obbedita. In realtà coloro i quali chiudono l'ordinamento ponendo al vertice l’ effettività della costituzione, non si pongono il problema della doverosità della costituzione stessa: ne constatano solamente la operatività, cioè il fatto che essa, di fatto, ben obbedita. Qui la chiusura e chiaramente dalla da un fatto: il fatto dell'obbedienza. Nell'altro caso, quello di Kelsen, l'ordinamento giuridico, di cui si vuole salvaguardare la natura normative di tensione doverosa verso la realtà, viene chiudersi con un dover essere, non con un essere. Infatti giuridificare l'atto fondativo primario significa ipotizzare una norma del tipo: è da considerarsi giuridico l'ordine del usurpatore, il quale equivale a ipotizzare una norma del tipo "devi obbedire al potere costituente-costituito". In fondo anche la prassi concorde fenomenologica e sociologica che applica la costituzione, in un certo senso costituisce, fonda, rendendolo giuridico, il potere costituito. La differenza sta nel fatto che Kelsen e in generale i normativisti più sensibile alle questioni epistemologiche e in modo specifico seguace del principio di Hume (secondo il quale un non dover essere sul piano logico deve sempre avere nelle sue le premesse un ulteriore o superiore dover essere, e non è possibile ricavare dal piano dei fatti la loro doverosità) non si vogliono fermare alla constatazione sociologica che c'è un potere costituito, obbedito e formulano l'ipotesi o, se si preferisce, costruiscono una finzione, attraverso la quale il potere costituito il viene sospeso, come abbiamo detto, fatto dipendere dalla "dover essere" del potere costituito stesso. La formulazione di una norma fondamentale ipotetica,

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cioè pensata,ficta, è introdotta da Kelsen per fornire un criterio ultimo di validità dell'ordinamento che appartenga ancora alla sfera del dover essere e quindi faccia dipendere la validità dell'ordinamento dell'ordinamento stesso: si tratta di una ipotesi che esprime la doverosità dell'ordinamento tutto, nel suo complesso, che esprime quindi la sua pretesa di essere dover uso, il suo porsi in relazione alla reale, non come un ordine già realizzato, ma con un ordine da realizzare, dunque normativamente. Certo il termine "fondamentale" può apparire fuorviante o metafisico, perché in realtà non è la norma fondale, c'è a dare fondamenta è stabilita l'ordinamento. Esso sarà un ordinamento solo se sarà soddisfatta la condizione necessaria del osservanza da parte dei consociati: la prassi cioè che l'altra giuria, che non ho esposto prima, considera infatti sufficiente. A Kelsen sembra importante mostrare l'aspetto doveristico, tensionale del diritto che, come sistema di norme, ha una valida propria si contrappone, o oppone, alla realtà per regolarla, volendo regolarla di solo così possiamo immaginare che il sistema di non può anche non essere obbedito, solo così possiamo rendere evidente che quella del diritto è una pretesa di doverosità del sistema di norme valide, perché autoritativamente concatenate i dipendenti dal punto iniziale della norma che dice: questo è un sistema normativo che chiede obbedienza. La condizione delle affettività, che rimanda al comportamento e alla responsabilità dei funzionari dei consociati, ci dirà se quel sistema di norme è diretta, se un ordinamento giuridico in senso pieno, effettivamente regolante una comunità. Paradossalmente, sono state mosse critiche a Kelsen sulla norma fondamentale, come una possibile giustificazione del potere costituito. È sembrato cioè a molti che il elemento normativo della grundnorm fosse da interpretarsi come una valorizzazione del diritto esistente; ci auguriamo di avere mostrato come l'obiettivo fosse esattamente l'opposto: solo se si mantiene la tensione tra normatività e fattualità, se quindi non si dimentica la natura di "pretesa" delle norme valide formalmente, siamo liberi di pensare a una loro possibile critica in sede politica o etica e un possibile rifiuto di obbedirle. È comprensibile che le tradizioni americane e anglosassoni, maggiormente collegate a esperienze democratiche e ha un'idea di diritto neocontrattualistico come sistema di regole orizzontali e cittadini usano per convivere, siano propensi a vedere nella norma una prassi regolativa. Ma l'esperienza della cultura codicistica sembra unirci dal dimenticare la tensione tra regole infatti, che Kelsen voleva salvaguardare: oggi chi, anche una società democratica, le possibilità di convergenza sui valori comuni sono ristrette e sono da salvaguardarsi le prospettive di dissens, di conformità non etica mentre sostenuta, oggi che sembra probabile che le regole comuni possano essere avvertite come "pretese" estranee alla propria cultura minoritaria. Alla domanda "che rapporto intercorre tra la norma fondamentale tutte le altre norme dichiarate valide del sistema?", nel senso indicato prima, si può rispondere che queste ultime sono dotate di positività e ineriscono al processo di determinazione di operatività del diritto stesso, insomma diritto del suo processo di autoderminazione. La norma fondamentale invece è differente: segna momento completamente diverso l'approccio al diritto stesso. La norma fondamentale, come ipotesi come finzione, è funzione della conoscenza. Le norme invece valide positive del sistema sono precisamente in funzione della prassi e della volontà. Certamente, nello stesso Kelsen,1 norma la norma fondamentale che inserisce alla possibilità della conoscenza normativa, conoscenza delle qualità normative del sistema di norme, altra cosa è il complesso delle norme valide positive costituiscono il diritto positivo, esattamente, attraverso le parole testuali di Kelsen "prescrive, permette autorizza, ma non insegna". Deve essere cioè chiaro che una cosa è il mondo del diritto che, in un modo o nell'altro, ruota sempre attorno al concetto di volontà, altra cosa è lo strumento logico o offerto dalla norma fondamentale, che, per definizione non può avere nulla che vedere con concetto di volontà, ma è solo una possibile funzione della conoscenza, in definitiva un modo in cui può esplicarsi l'attività della scienza giuridica. Si potrà dire che essa è superflua,1 via metodologica scientificamente infruttuosa poiché la generosità può salvaguardarsi altrimenti; penso che queste cose siano sostenibili: non è sostenibile, mi avviso, che sta teoria della conoscenza che, oltretutto, pari così fragile in tanti punti, valorizzi le celebri il fatto compiuto, il potere costituito.

2.la validità come obbligatorietà della norma.

Attenzione: per certi aspetti la validità in qualche modo non aggiunge nulla alla norma, nel senso che dire che una norma invalida significa semplicemente che la norme esiste, significa cioè ermeneuticamente essere in condizione di ricavare dai documenti legislativi ed altri fatti sociali, attraverso linee di qualificazioni, la norma stessa. Anzi proprio qui, secondo molti critici, Kelsen avrebbe generato confusione nell'affermare che da un lato la norma è valida nella misura in cui appartiene all'ordinamento, dall'altro la norma è obbligatoria nel senso che è dotata di forza vincolante, cioè indica quel comportamento come quella che deve tenersi. Questo assunto si traduce nella possibilità di sottolineare la coincidenza della dimensione della validità-dover essere con l'obbligatorietà intesa come vincolabilità dell'ordinamento stesso: la pretesa delle norme valide regolare obbligatoriamente, in modo vincolante, i comportamenti. La specificità della dimensione narrativa, doverosa, delle norme giuridiche relazione ad altri tipi di norme sociali, sta appunto nel carattere obbligatorio, vincolante, della loro doverosità. Personalmente ritengo che la valida, da un punto di vista giuridico, non possa non significare obbligatorietà del comportamento ridurre l'obbligatorietà a una questione psicologica, così come vogliono i realisti scandinavi, significa non riuscì raccogliere uno specifico carattere strumentale che è tipico del diritto. Se l'obbligatorietà giuridica diviene una questione interna, altro non è che il sentimento di obbligatorietà o, se si preferisce, idea o senso di costrizione che sperimentalmente il singolo prova, allora l'obbligatorietà giuridica, che pretende obbedienza anche attraverso la minaccia di un apparato costrittivo, finisce con il non avere una caratterizzazione specifica e distinta da altri tipi di obbligatorietà, per esempio un obbligatorietà meramente sociale oppure un obbligatorietà che incide profondamente nel foro interno e che è di tipo morale.

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Evidentemente l'assunto metodologico radicalmente empirico degli scandinavi e li spinge a far corrispondere all'obbligo qualcosa di empiricamente constatabile, di "reale", ma così facendo, sciolgono la forma giuridica, che si struttura in modo tale da pretendere una concreta risposta di conformità, nella parte problematica risposta psicologica e gli individui dei giudici. In realtà tutti il problema dell'obbligatorietà della norma non è che una specificazione del problema più generale che afferisce a tutti il diritto: vale a dire il significato dell'affermazione che il diritto, vuole e pretende di essere osservato. La possibilità della distinzione tra il foro interno del foro esterno, tra l'obbligazione integrale, interiorizzata, di convinzione totale e l'obbligazione puramente esterna è fondamentale per capire il diritto nel senso moderno che, non dobbiamo dimenticare, nasce seguito di un periodo caratterizzato in Europa dalle guerre di religione che furono terribili. In fondo, proprio il distacco dell'obbligazione giuridica da un'obbligazione integrale di totale convinzione rende in qualche modo il discorso il diritto più leggero, capace di una certa dose di neutralità, che rende oggi di nuovo possibile un ruolo di mediazione tra parti etiche in conflitto. Nella misura in cui predicare la validità di una norma significa indicare quale il comportamento giuridicamente obbligatorio senza che questa qualificazione pregiudichi la questione del giudizio interno, morale, o anche politico sul comportamento medesimo, sia la possibilità di una regolazione procedurale e giuridico-formale della pluralità, o anche di una presa di distanza critica dell'ordinamento stesso da parte dei consociati. La dottrina di Kelsen, che presenta sempre come unite la validità come appartenente la valigia con obbligatorietà, esprime la giuste intuizioni che o si può fare un discorso scientifico, descrittivo sulla prescrizione-norma oppure non vi è più scienza del diritto.

3.validità e valore

Anche questa distinzione, come quella precedente, è particolarmente importante in un certo senso è una distinzione in profonda connessione con il diritto moderno. Ciò che voglio sottolineare è che è fondamentale distinguere le situazioni in linea di principio, perché solo per anni in questo modo possiamo cogliere la specifica funzione del diritto, e cioè quello specifico controllo del comportamento che naturalmente è limitata al comportamento esteriore e ancora naturalmente tende, pretende questo controllo medesimo. Che poi nei fatti l'affermazione sull'obbligo del sentimento di obbligatorietà spesso coincidano, che può nei fatti la validità della norma e apprezzamento valutativo della stessa coincidano, queste sono importanti questioni sociologiche psicologiche, importanti questioni politiche: lo Stato democratico di diritto non potrebbe praticamente legittimarsi da chiedersi se non vi fosse questa sostanziale coincidenza, ma questa è una coincidenza che non deve impedirci le nostre distinzione concettuale. Da tutto ciò infatti non si può ricavare che l'obbligo e il sentimento di obbligatorietà, validità e valore debbano coincidere sotto il profilo logico: ansia possibilità logica della distinzione fornisce un modello che ci mette in condizione di capire sia l'atteggiamento di coloro i quali hanno l'obbligo ma non si sentono obbligati, se l'atteggiamento di coloro i quali sono giuridicamente obbligati ma moralmente dissentono, e magari anche decidere di disobbedire. Sotto il profilo della distinzione tra validità e valore l'esempio sull'aborto mi sembra quanto mai eloquente.

4.validità ed efficacia

Sotto il profilo logico è concettuale, la distinzione è per certi aspetti è netta e chiara: la validità afferisce al dover essere, è una qualificazione deontica, l'efficacia afferisce all'essere, è una constatazione fenomenologica. Dire che una norma e valide, come abbiamo visto, significa esperire quei percorsi interni normativi che si concludono sempre con la predicazione di un comportamento come giuridicamente esistente, il che significa che, secondo il diritto, deve essere tenuto col comportamento. La validità esprime il dover essere del diritto, è la categoria che si mette a confronto col fatto che il diritto non può coincidere tout court con la realtà perché altrimenti non si ricaverebbe neppure, persino sotto il profilo pratico, l'esigenza del diritto stesso, di questa antichissima tecnica della convivenza sociale. Se il diritto fosse ciò che deve necessariamente accadere o ciò che di fatto inevitabilmente a casa, allora sarebbe "fatto", cioè non avrebbe una sua specifica esistenza: qui il fatto è il comportamento degli uomini. La rivendicata tensione tra validità e fattualità, dove l'essere e essere nella pratica significa che il comportamento degli uomini può essere sintonia oppure può essere di devianza rispetto al comportamento prescritto, dal comportamento ritenuto valido giuridicamente. L'efficacia e la situazione che viene a determinarsi quando la norma viene "di fatto", effettivamente, osservato applicata. Qui non si afferma che qualcosa deve accadere, come quando si fa un discorso in termini di validità delle fonti qui invece si dice che non certo, determinato momento storico e tenendo presente un determinato il concreto ordinamento, comportamento degli uomini è in sintonia con la norma stessa. È evidente che tutto il discorso l'efficacia e un discorso di tipo fenomenologico. La validità è un problema di qualificazione interna, la catena di rimandi della validità in un ordinamento dinamico è autoreferenziale, l'efficacia, invece, è l'oggetto di un giudizio esterna che raccorda quella catena di norme alla situazione di fatto storicamente reale di comportamenti conformi: in qualche modo la potenzialità normativa implicita nella dimensione della validità si limita storicamente, attraverso l'efficace, anche mangiandosi al dato concreto: quel delitto genericamente valido e in quel momento, su quel territorio, efficace, dunque non concreto ordinamento giuridico. Una volta delineata la netta distinzione tra validità ed efficacia, almeno secondo il mio punto di vista, non è invece affatto facile capire il "rapporto" che intercorre tra le due categorie, fra validità e l'efficacia delle norme. Per quanto riguarda il rapporto tra validità ed efficacia in relazione alla singola norma, in questo ambito, il problema si presenta in modo diverso secondo se teniamo presente strutture giuridiche con tradizioni storiche di tipo

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codicistica oppure se prendiamo a parametro delle nostre considerazioni ordinamenti di common law. Nel primo caso e l'ordinamento italiano rientra in questo primo caso, validità ed efficacia in qualche modo possono anche non incontrarsi, nel senso di una norma dichiarata valida può essere duplicemente inefficace, per esempio perché non osservato dei consociati e non fatto osservare, e quindi non applicata, dei giudici: non per questo la norma perde, negli ordinamenti di tipo codicistica, la sua validità, quindi la sua pretesa al obbedienza. Per esempio, nell'ordinamento giuridico italiano, in base all'articolo 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, la norma non perde la sua validità se non in base a una norma successiva nel tempo che ardono i specificatamente o che sia di contenuti innovativo o l'esito di un referendum abrogativo (articolo 75 della costituzione) che esplicitamente consegua questo tipo di risultato. La conseguenza è che per l'ordinamento giuridico italiano una norma un gruppo di norme posso tranquillamente essere giuridicamente valide e "abitualmente" non efficaci. A mio avviso, ciò che è accaduto in Italia con quella che è stata chiamata la "fine della prima Repubblica" può essere letto anche come rapporto tra validità ed efficacia dell'azione a reati diffusamente commessi, che non sono stati perseguiti o che le forze politiche della prima Repubblica riuscivano a non far perseguire il sistema angloamericano questo non sarebbe possibile. In sostanza, poiché il ruolo del giudice in generale della sentenza è più marcato importante all'interno del fenomeno giuridico, se il giudice comincia disapplicare una norma, la norma può non essere più considerata dagli stessi consociati una norma giuridica. Nei sistemi angloamericani, di conseguenza, l'efficacia per certi aspetti una condizione della validità anche in relazione alla singola norma. Questa differente situazione culturale tra due tipi di sistema spiega la diversa posizione di Kelsen su questo ponte relazione alla prima edizione della dottrina pura, che è del 1934, e alla seconda edizione che è del 1960. In realtà fino a quando Kelsen a lavorare in Europa e ha considerato gli ordinamenti giuridici a struttura codicistica,ha sostenuto l’ influenza dell'efficacia in relazione alla validità delle singole norme. Nel 1960, nella seconda edizione della dottrina pura, dopo l'esperienza americana, Kelsen muta completamente opinione: l'efficacia diventa condizionante per la validità della singola norma.

5.validità e positività del diritto

In realtà il common law presente un diritto positivo altamente dinamico: i diritti e gli obblighi si producono le correlazioni continuamente rinnovatesi, in cui il diritto positivo è semplicemente l'applicazione del diritto ai casi singoli. Questo principio pratico: law is just the application of law to single case fornisce una visione del diritto tanto mutevole da essere dissolvente e inquietante. In qualche modo essa è oggi, anche nel mondo anglosassone, relativamente in crisi, perché sembra sottrarre troppo il diritto positivo alla legittimazione del legislatore eletto democraticamente i sembra esasperare la funzione legislativa parallela della giurisprudenza. L'insistenza sulla "positività" del diritto codificato a appare una garanzia di prevedibilità delle decisioni di controllo democratico difficilmente rinunciabile. Il nostro sistema, proprio dello Stato di diritto liberale, e comunque diverso: originato da una opposizione e una diffidenza nei confronti del potere voltò a limitarlo, considera indispensabile, per la funzionalità del diritto, con certo grado di certezze di prevedibilità che stabilizzi le aspettative dei consociati e i loro comportamenti. Dunque la positività del diritto si riferisce a codice, disposizioni, atti e documenti oggettivamente rinvenibili: un bene succintamente ricordare che, in questo contesto,1 cosa è la validità, altra cosa la positività, altra cosa ancora l'efficacia o effettività. Il rapporto tra validità e positività, se volessimo essere rigorosi, dovrebbe essere nel senso di parlare di norme valide e gravate da documenti caratterizzati dalla positività, nel senso che da un punto di vista storico sono riconosciuti come documenti giuridici da cui appunto si ricavano norme. È chiaro che tutto il discorso della validità giuridica dell'enorme poggia sempre sul presupposto della positività del diritto stesso cioè di quegli elementi (documenti, leggi, fatti sociali e consuetudini) che sono appunto elementi positivi della struttura giuridica stessa.

Capitolo quinto

L'efficacia

1. L'efficacia come problema specifico della sociologia del diritto

Max Weber, riteneva indispensabile distinzione dell'approccio sociologico da quello giuridico in relazione al diritto. Il punto di vista sociologico esamina la realtà dei comportamenti di coloro che agiscono una comunità in relazione al fatto che essi considerano "oggettivamente" e trattano "praticamente" l'ordinamento giuridico come valido. Ovvero, i consociati in particolare, per Weber, quelli di essi che hanno una posizione socialmente rilevante e influente, come abbiamo detto, presuppongono il sistema di norme considerando ,orientando il proprio agire in relazione ad esso. In effetti non si dà il caso che tutti i membri di una comunità, assumo le norme come motivo, ragione, della protezione. Di fatto abbiamo adoperato il sintagma di "orientamenti" dell'agire in base alle norme, perché,1 fisiologica quantità di casi di devianza, si può considerare sufficiente, per parlarsi di effettività dell'ordinamento, il generale orientarsi sulle norme, senza che si indaghi sui motivi e i moventi dell'agire stesso, motivi e moventi che possono essere, per definizione, disparati ed eticamente contraddittori.

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2.essenzialità dell'efficacia per un modello di diritto inteso come ordinamento

Come avevo già annunciato nel capitolo precedente, quando noi non consideriamo una singola norma ma l'ordinamento giuridico come un tutto, l'efficacia viene a essere una condizione l'ordinamento. Secondo alcuni, l'efficacia o l'inefficacia in relazione tutto l'ordinamento non è una condizione sufficiente: perché possa parlarsi di ordinamento non basta che le prescrizioni normative siano empiricamente osservate, magari per abitudine e con regolarità. Per esempio, perché la selettività è una condizione necessaria perché si possa parlare di ordinamento giuridico, ma non sufficiente per la validità dell'ordinamento stesso, cioè non fondativa della validità stessa. Infatti solo attraverso la teoria della norma fondamentale si risolve il problema dell'ascrizione della giuridicità. Progressivamente se firme viene sempre di più osservare fatto osservare lo ordinamento e fuoriesce dalla rivoluzione. Secondo alcuni autori, e tra questi Kelsen modo particolare, le affettività, sul comportamento conforme alle nuove regole, al nuovo sistema di norme, non è l'origine della giuridicità di questo: perché si possa parlare di ordinamento giuridico si deve presupporre la nuova norma fondamentale, che viene a essere pensata in modo da coprire nuovi elementi di fatto, i nuovi assetti di potere. Secondo molti, questo modo di ragionare è soltanto un artificio logico per nascondere la nuda realtà, che, a seguito di una rivoluzione, è il "fatto" nuovo che determina la caduta del vecchio ordinamento e l'origine del nuovo. La questione molto complessa, ma io ho già detto, nel primo capitolo, che la complessità logica della finzione della norma fondamentale ha lo scopo non derogabile di tenere distinte fattualità e normatività, dato di fatto del potere e giuridificazione dello stesso che gli conferisce la pretesa di doverosità. Non è possibile considerare semplicemente l'effettività come l'esclusiva condizione della validità dell'ordinamento. Ora basti dire che l’effettività è certamente una condizione indispensabile, ma da sola non può assolutamente provare nulla sul giuridico. Può darsi che la norma fondamentale di Kelsen non abbia affatto risolto il problema del giuridico, ma va sicuramente confermata l'importanza di un tentativo di riconoscere da una parte il peso delle affettività, dall'altra parola dimensione normative non fattuale del diritto stesso. Le realtà tutti possono capire intuitivamente che il diritto una qualificazione del fatto, non è il fatto. Le realtà il diritto è una pretesa,1 istanza di comportamento, non è un comportamento. Si può esprimere tutto questo discende delle affettività e una condizione necessaria, ma non sufficiente. Naturalmente andare poi al di là della mera constatazione sociologica del fatto (l’effettività) spesso comporta notevoli problemi epistemologici, non facilmente risolvibili.

3. Efficacia ed è affettività

L'efficacia verrebbe nel rilievo sociologico o fenomenologico nel comportamento in relazione alla singola norma, le affettività, anzi il principio di affettività sarebbe invece la constatazione fenomenologico-sociologica in relazione al tutto, sistema di norme complessivamente considerato. In realtà tutto quello che si può dire è che, usualmente, si associa l'ordinamento con le affettività perché nell'ambito della prassi internazionalisti che si chiama principio di affettività quel principio in base al quale è riconosciuto come ordinamento effettivo il governo che riceve abitualmente, in modo non episodico o parziale, obbedienza. Insomma, poiché nella prassi internazionalisti in considerazione l'ordinamento nel suo complesso e in relazione a questo, in base al principio di effettività, vengono svolte considerazioni in tema di riconoscimento del governo del suo carattere legittimo, è invalso l'uso di connettere l'ordinamento all’effettività. Personalmente usa indifferentemente efficace di affettività, sia quando parlo di norme singole sia quando parlo di ordinamento nel suo complesso. Se teniamo presente anche il sistema giuridico angloamericano, diventa particolarmente difficile distinguere tra efficacia e di affettività come termini che andrebbero riservati rispettivamente alla norma singola e all'ordinamento nel suo complesso.

4. Effettività generale e effettività giudiziaria.

Per effettività generale è da intendersi comportamento generalmente conforme dei consociati, senza differenziazioni relazione alle eventuali funzione attiva che alcuni di essi svolgono all'interno dell'ordinamento stesso. Insomma l'effettività generale include anche il comportamento dei giudici. L' effettività sociale dell'insieme di norme giuridiche è determinata dal grado in cui essi, nel loro complesso sistematico, si impongono alla realtà, quindi da quanto e come siano accettate nei fatti dai consociati. Ma in ultima analisi e un comportamento fattuale , prodotto dalla minaccia di sanzioni che sono statuite giuridicamente e che i tribunali rendono azionabili. La risposta sta nel fatto che vi sono numerose teorie giuridiche nelle quali la figura del giudice diventa centrale per la definizione stessa del diritto. In questa concezione si parla di effettività giudiziaria per esprimere il fatto che, in ultima analisi, il diritto è ciò che fanno i tribunali: il diritto, in questa prospettiva, non coincide né riconducibile a saldamente al insieme delle leggi scritte. La decisione del tribunale, a questo punto, non essendoci interpretazione (che in quanto tale, come vedremo, è sempre innovativa) ma ha un potere delegato di formulare attraverso argomentazioni razionali un arricchimenti un perfezionamento delle statuizione positive. Per i realisti americani di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo, e che si riferiscono ai sistemi legislativi di common law, gli unici comportamenti rilevante sotto il profilo giuridico e per una definizione del diritto sono dunque comportamenti dei giudici. Un altro caso significativo in cui l'effettività viene considerata sotto il profilo giudiziario è quello di Alf Ross. Nella concezione rossiana della validità come effettività la sentenza diviene il campo di sperimentazione per risalire al sentimento di obbligatorietà come tipica espressione del

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giuridico che va provata, ai fini di una possibile definizione del diritto, soprattutto nei giudici. In realtà, da questo un'edilizia, è possibile solo "indicare" l'ordinamento giuridico nell'azione processuale ed esperirlo nel sentimento del giudice psicologicamente si dispongono ad osservarlo.

5. Effettività ed obbedienza: rilevanza fenomenologica del comportamento esterno

Ogni qualvolta l'ordinamento giuridico, giusta la propria natura di tecniche di integrazione sociale, si mette a disposizione dei consociati, nel senso che conferisce loro poteri pubblici o privati, oppure, per usare un'altra figura ricorrente nella terminologia giuridica, "autorizza", l'uso del termine "obbedienza" invece di quelli, molto più tecnici, di "effettività" o "efficacia", è fuori luogo. In effetti il termine non tecnico di "obbedienza" sembra rimandare al integrazione sociale ottenute in istituzioni arcaiche tramite la doppia e contestuale pressione dell'autorità dispotica, provvista di carisma mitico, che minaccia con la costrizione di un potere vendicatore e violento e insieme, attraverso credenze profondamente introiate e magari sanzionate anche socialmente. La società moderna e soprattutto il diritto moderna vedono la separazione di fattualità il validità proprio perché la complessità sociale apre margini di dissenso potenziale molto più ampi e ammette prese di posizioni critiche e devianti più consapevoli verso le pretese di validità dell'ordinamento giuridico. Perché allora io insisto nel ricordare che l'effettività ha il significato anche dell'obbedienza? Certamente quando Austin e finì nel diritto gli ordini del sovrano abitualmente o aggrediti, dava del diritto stesso un'immagine che oggi appare decisamente fuorviante, assolutamente incapace di riflettere l'attuale realtà giuridica. Il termine "obbedienza", come abbiamo detto, sembrerebbe quasi riproporre l'antica dicotomia sovrano da una parte e l'obbedienza dei sudditi dall'altra (quindi una visione di sudditanza e non di cittadinanza), laddove sappiamo che se chiamiamo sovrani le leggi o il diritto, questo significa che non si obbedisce a qualcuno, ma ci si comporta conformemente alle norme. Detto questo, però, talvolta è necessario ricordare il permanere, anche all'interno della bella visione liberale di cittadini sovrani, di ciò che un tempo veniva definita "obbedienza". La sovranità giuridica spiega come ciò nonostante ci si possa attendere una stabilizzazione e una citazione non interiorizzata, ma esteriore, di comportamenti, che di per sé sarebbe la autonomizzati e differenziati. Il fatto è che, quando fenomenologicamente si guarda il comportamento dei consociati, soprattutto ai fini di stabilire se c'è o meno la condizione per la validità di tutto l'ordinamento, viene rilievo la cosiddetta "obbedienza esterna", non l'obbedienza per convinzione. È molto importante questo, perché la determinazione della condizione dell' effettività da un punto di vista logico deve essere distinta dal problema del consenso. È evidente che, in ordinamenti liberaldemocratici, se l'ordinamento è effettivo, presumibilmente comportamenti di conformità sono legittimati politicamente e implica una adesione che, sola, rende possibile la stabilità del sistema politico. È evidente che la valida formale del diritto positivamente statuito viene generalmente riscattata, e la sua pretesa di obbedienza, attraverso la legittimazione consensuale delle norme stesse esse vengono fatte risalire al procedimento legislativo democratico che le ha poste in essere che riflettendo un' opinione comune della maggioranza dovrebbe rendere giustificabile da un punto di vista pragmatico, etico e morale. La base forte dell'obbedienza fattuale non può non poggiare che su una credenza di legittimità delle fonti giuridiche e su una generale adesione contenuti etici delle leggi più importanti: ma tutto questo è il meccanismo "politico" che richiede che l'ordinamento si è effettivo perché c'è adesione da parte dei consociati appunto di contenuti, sulle linee e sui principi generali dell'ordinamento stesso. Può darsi però anche l'effettività (quindi l'obbedienza esterna) sia semplicemente il frutto di ordinamenti basati sull'intimidazione, sulla forza delle circostanze addirittura dal terrore (tecnicamente,1'obbedienza ottenuta attraverso la forza). E la storia anche recente ha mostrato che effettività il consenso solo non necessariamente convergenti.

Capitolo sesto

La norma

1.norma, proposizione normativa e dover essere

Abbiamo notato che in alcune concezioni, per esempio nell' istituzionalismo o per esempio in certi correnti culturali all'interno delle realismo giuridico vi sono stati tentativi di attutire, se non eliminare, la cosiddetta "dimensione normative del diritto". Secondo me questi tentativi sono sempre destinati a fallire, perché il diritto - ma in realtà il discorso può opporsi per tutti i sistemi sociali - non può assolutamente fare a meno degli elementi tensionistici tra ciò che è e ciò che deve essere. Ogni qualvolta prevalgono i cosiddetti elementi realistici, ogni qualvolta prevale in modo esclusivo il piano dell'essere, non si riesce più raccogliere uno specifico del diritto, e in effetti di ogni sistema sociale, che sta esattamente nel tentare di orientare comportamenti, non di riprodurli. È evidente d'altra parte che si osserviamo una modificazione di comportamenti una modalità di comportamento largamente diffuse conforme, questa costatazione non è sufficiente farci parlare di norma. Perché vi sia norma occorre supporre la presenza di un modello normativo, segnalate empiricamente in qualche modo, concreto e riconoscibile, rispetto al quale il uomini possono, e non possono, a adeguarsi: occorre quindi un piano normativo che regoli e orienti comportamenti. È stato spesso dibattuti infatti il problema sia possibile lo meno "de-scrivere norme" cioè, in una delle possibili accezioni, pre-scrizioni la differenza tra proposizioni descrittive una prescrizione che si riferisca allo stesso contenuto sembrerebbe funzionale: l'una volendo fornire una informazione, l'altra essendo tesa a orientare comportamenti. E si è discusso sulle differenti caratteristiche

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della norma e la proposizione giuridica. Per quanto possa essere interessante la distinzione, bisogna comunque ricordare che un momento conoscitivo è presente anche quando si agisce all'interno dell'ordinamento. Voglio dire che una distinzione molto netta tra i consociati che agiscono con norme i giuristi, qui nell'accezione di scienziati del diritto, che procedono attraverso proposizione normative, in tutta franchezza una distinzione che nella sua radicalità può appunto suggerire la necessità di distinguere logicamente la situazione di chi agisce normativamente nella situazione di colui o coloro i quali, scienziati del diritto, de-scrivono il modo in cui altri normativamente agisce. Insomma io non nego la possibilità di distinguere tra norma e proposizione normativa, ma mi chiede se norme proposizione normativo non si intreccino, non si intersecano, anche a livello dell'azione giuridica, all'interno di un ordinamento giuridico.

2.norma e regola

Questa distinzione, a cui taluni critici danno molta importanza, secondo me non è particolarmente pertinente proficua sotto il profilo di una conoscenza approfondita del fenomeno giuridico. Non prendiamo qui in considerazione l'uso, che pure è corretto, del termine "regola", per indicare una "regola tecnica", c'è una massima d'esperienza che può essere frutto dell'osservazione di rapporti necessariamente concatenati: da questa necessaria concatenazione causa-effetto, si ricava la regola tecnica, mezzo-fine. Il termine "regola" (ancora una volta sarebbe meglio pensare alla rule anglosassone che, per tradizione, si riferisce anche soprattutto alle prassi consolidate da comportamenti "regolari"), all'interno del mondo giuridico, per alcuni, avrebbe qualcosa in più rispetto alla norma: il fatto- il termine stesso lo suggerisce - di sintonizzarsi più su ciò che normalmente accade, che sul momento di trascendenza normativa, su ciò che deve accadere. Sia se usiamo il termine "norma" si è si usano il termine "regola", il concetto di dover essere deve essere mantenuto inalterato, così chi è preferibile usare "norma" non "regola" perché, almeno nella lingua italiana, il termine sembra essere più in sintonia con il momento non immanente, il concetto di norma giuridica.

3.norme giuridiche e norme puramente sociali

Io penso che questa distinzione sia particolarmente importante. Naturalmente poiché la scienza giuridica spesso si è sviluppata con un tecnicismo esasperato,1 distinzione di questo tipo è apparsa addirittura inutile, superflua in quanto ogni ordinamento tecnicamente indica precisi percorsi attraverso i quali identificare norme giuridiche. Questo tecnicismo ha fatto dimenticare spesso che vi è una notevole convergenza tra le norme giuridiche e le norme sociali, nella misura in cui non può assolutamente mai perdersi di vista il fatto che le norme giuridiche appartengono comunque a una famiglia più ampia che noi chiamiamo "norme sociali": si tratta di una differenza specifica all'interno del genere delle norme di comportamento. Le norme giuridiche si differenziano ulteriormente, insieme alle norme sociali, dalle norme morali che nella definizione classica-kantiana regolano il comportamento agendo in modo "autonoma", nell'interiorità dell'uomo. Le norme sociali giuridiche infatti sono eteronome (cioè poste in essere da una fonte autoritativa esterne diversa da chi li segue) e agiscono su comportamenti esterni, esteriori. Ovviamente discorso di può anche spostare livello di sistema: il sistema giuridico è o non è possibile sistemi sociale. Ecco, io volevo soltanto ricordare le connessioni e le discordanze tra norme giuridiche e norme puramente sociali: il tratto normativo, il dover essere, che le distingue entrambe, sia pure livelli di vero, da una pura regolarità, si rileva nel loro essere accompagnate da sanzioni positive o negative che nella semplice abitudine sono assenti; secondo Hart, all'origine della trasformazione di certe norme sociali in norme giuridiche, in un ipotetico passaggio da società semplici, ad alta integrazione sociale omogenee, società più complesse, le norme giuridiche sono quelle che via via sono sostenute da una pressione sociale sempre più intende sempre più forte. Questa teoria è per certi aspetti molto interessante, ma mostra molti lati deboli, perché sostanzialmente da indicare nella pressione sociale, indifferenziatamente sociale senza distinzione di classi, gruppi, la molla in ultima analisi la fonte dell'operazione della qualificazione giuridica. Hart esplicitamente si dichiara giuspositivista e normativista e esplicitamente introduce nella sua teoria delle correzioni che finiscono per attutire in modo pregnante l'immagine di una società che giuridica perché sana è perché sostanzialmente nell'accettazione dei contenuti del diritto stesso. Ma al di là di questo specifico problema, non c'è dubbio alcuno che proprio Hart , con questo tipo di distinzione, cioè abitudini sociali, norme sociali, norme giuridiche, punto di vista interno, punto di vista esterno, accettazione rifiuto delle norme, abbia, all'interno della teoria generale di ispirazione normativistica, iniettato una nuova linfa il positivismo giuridico. Pur mantenendo una considerazione del giuridico in cui la validità delle prescrizioni giuridiche si fa risalire esclusivamente alla corretta osservanza dei procedimenti di statuizione e a una norma di riconoscimento e si permette di identificare diritto vigente, Hart ha messo in chiaro i legami che tale norma ha con la prassi che, se descrivibile esteriormente come fattualità, rimanda anche a una attiva identificazione del diritto da parte dei consociati. Così giuridico viene riconsiderato nei suoi strettissimi legami con il mondo di colori quale vivono le fanno vivere il diritto: consociati.

4.norme primarie e norme secondarie

In un certo senso si può dire che prima dell'introduzione della nomodinamica all'interno della scienza giuridica, essa costituiva la tipica modalità attraverso la quale la teoria generale cercava di spiegare i vari meccanismi e le funzioni interne al mondo normativo del diritto stesso. Nell'ambito della scienza giuridica tradizionale venivano indicate come

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primarie le cosiddette "norme precettive", che esprimevano cioè un modello di condotta dei consociati, e come secondarie le norme che concernevano la sanzione, vale a dire quelle che stabiliscono la conseguenza della deviazione dalle norme primarie. Per molto tempo questo stato lo schema più usuale, sorretto anche dalla considerazione che, per certi aspetti una norma che stabilisce una sanzione fa in qualche modo logicamente riferimento a una norma di condotta da cui si è deviato. In realtà , con Jhering , ci fu il primo importante tentativo di capovolgere la coppia primario-secondario e considerare come primaria la norma sanzionatoria. La considerazione che porta Jhering a spostare il momento focale del diritto nella sanzione è il frutto dell'applicazione di un criterio di importanza. Il ragionamento è questo: se il diritto è tale perché espressione della volontà della forza dello Stato, allora il diritto si articolo, primariamente, in quelle norme che stabiliscono appunto le sanzioni negative, cioè la manifestazione della forza coercitiva del diritto. Nei primi anni del secolo il clima cambia notevolmente: dimensioni istituzionale che comincia subire delle profonde modificazioni. E inizio quel processo di crisi dello Stato che sarà un tema ricorrente per tutto il nostro secolo. La distinzione jheringhiana per certi aspetti subisce uno slittamento semantico e una trasformazione in senso scientifico, opera di Kelsen. Com'è noto, anche Kelsen considera primaria la norma sanzionatorie a o, mutando la distinzione dalla seconda edizione della dottrina pura del diritto, considera autonoma la norma quando essa è in grado di stabilire un atto di coazione fisica. L'interesse di Kelsen è tutto nel tentativo di descrivere i meccanismi giuridici attraverso metodo che sia purificato dalle incrostazioni politiche e ideologiche, cosicché il centrare il momento della qualificazione giuridica principale, se non esclusiva, nella sanzione fisica, in Kelsen non significa come in Jering celebrazione della forza stessa, ma a svelamento dei meccanismi coercitivi che giuridico gestisce. Significa rappresentare in modo disincantato realistico il fenomeno giuridico. A mio avviso, può essere molto interessante questo confronto e possono essere interessanti il collegamento il mutamento di prospettiva circa il concetto di forza che si verifica all'interno del confronto Jhering Kelsen. La forza in Jhering non oggetto di una descrizione, ma è rappresentazione valoritativa delle sue funzioni. All'interno invece della dottrina "pura" di Kelsen , la diviene esclusivamente l'elemento che aggancia la ricerca del miglior modello teorico per rappresentare il diritto a un elemento di tipo realistico effettivamente cruciale nella specificazione giuridica. Nell'ambito delle distinzioni tra norme primarie norme secondarie mi sembra salutare il ritorno ad Hart nell'ambito di una distinzione più tradizionale, dove il diritto è più che punitivo e penale appare nella sua dimensione di principale strumento di integrazione e convivenza sociale. Hart sostiene, in linea con il suo tentativo di riconsiderare il diritto nell'ambito degli atteggiamenti normativi dei consociati, che le norme primarie sono le norme che forniscono un modello di condotta. Insomma Hart non ha nessuna difficoltà a tornare a una situazione prima di Jhering e prima di Kelsen. Una gran innovazione sta nel fatto che l'autore inglese cerca di spiegare le norme che forniscono modelli di condotta, attraverso l'introduzione del ponte di vista interno e del punto di vista esterna nell'ambito della fenomenologia giuridica. Abbiamo già accennato al fatto che nella prospettiva dell'autore inglese, se dal punto di vista esterno, della osservabilità empirica, abitudini, norme sociali e norme giuridiche possono manifestarsi similmente attraverso comportamenti irregolari e regolarmente ripetuti, la specificità delle norme è data dalla presenza di un punto di vista interno, appunto normativo, che implica una qualificazione precettiva del comportamento dovuto. L'altra importante novità della concezione dell'autore inglese sta nella rappresentare in modo molto articolato la tipologia delle norme secondarie. Sono norme secondarie, o norme di seconda istanza, o ancora metanorme, quelle che si volgono a regolare i specifici atti umani produttori di norme. E ovviamente la crescente complessità della rete di rapporti sociali a sollecitare lo sviluppo del momento più squisitamente organizzativo del diritto. Forse quella di Hart era più intelligente rappresentazione della tipologia delle norme che esprimono tutto l'aspetto organizzatore del diritto stesso. Infatti per l'autore inglese mentre le norme primarie sono norme che impongono obblighi, le norme secondarie conferiscono poteri pubblici o privati. Questa dicotomia obbligo-potere molto interessante come tentativo di definire le funzioni interne delle varie articolate norme giuridiche. In realtà però l'autore inglese definisce le norme secondarie anche diversamente, come norme relative al norme. Dettagliatamente i analiticamente le norme secondarie possono essere distinte in questi sottotipi:

Norme di mutamento sono quelle norme che appunto conferendo poteri privati e pubblici, permettono ai consociati di introdurre innovazioni nel sistema giuridico per correggere il difetto della staticità di un'ipotetica società semplice.

norme di giudizio sono quelle che riguardano l'organizzazione dei tribunali e che hanno la specifica funzione di eliminare, nel passaggio dalla società ipoteticamente semplice ad una società complessa, tendenzialmente l'inefficienza. Come si può agevolmente notare, sia le norme di mutamento sia quelle di giudizio possono essere tranquillamente definite sia come norme relativa norme sia come norme conferenti poteri.

Norme di riconoscimento sono quelle norme in base alle quali noi possiamo essere messi in condizione di identificare, riconoscere, ciò che è diritto è ciò che non è diritto sotto il profilo della validità. E se sono estremamente importante fini della validità.

Non c'è dubbio alcuno, e io l'ho sottolineato più volte, che il modo di impostare il problema operato da Hart ha l'indiscutibile vantaggio, all'interno di una costruzione di una teoria generale del diritto, di sottolineare sempre il momento dell'azione dei consociati. Questo elemento prassistico, che è un vero e proprio atteggiamento normativo in senso forte e altre volte appare come un qualcosa più legato al piano dell'essere che non a quello del dovere essere tipico del mondo normativo, indubbiamente si fa cogliere bene quanto si è intrecciato e

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coinvolgente il binomio azione umana-diritto. E certamente una rappresentazione di questo tipo, che nonostante l'apertura prassistica mantiene i caratteri essenziale del normativismo, si sottrae al rischio di apparire come astratta, formale, lontano dagli uomini.

5.norme superiori e norme inferiori

La rappresentazione delle norme in modo tale che esse derivino le una dalle altre, mediante deleghe successive, cioè emanate dall'autorità inferiori che successivamente rimandano il proprio fondamento ad autorità superiori, costituisce così semplicemente una metodologia volta capire e a decifrare più a fondo il carattere formale dell'unità del mondo del diritto. Questa distinzione appunto può tranquillamente essere utilizzata anche assieme a quella, già esaminata, tra norme primarie norme secondarie, che una distinzione che ha un approccio nomostatico, vale a dire che riferisce la rappresentazione del sistema normativo ai "contenuti" delle norme stesse non alla loro posizione formale all'interno dell'ordinamento. Mettere assieme, all'interno dello stesso capitolo dedicato alla norma, le due approcci descrittivi significa esprimere l'opportunità di utilizzare entrambi i criteri per una più efficace rappresentazione del mondo giuridico.

6.norme e principi

La teoria dei diritti e dei principi di Dworkin rappresenta un importante tentativo di superamento di quelli che sono avvertiti come limiti della teoria positivista-normativista da una parte e della teoria realista dall'altra. Insomma caratteristica delle norme riconosciuta anche da Dworkin è esattamente la positività che le rende identificabili e rinvenibile all'interno dell'ordinamento tramite quei criteri di identificazione della validità formale che abbiamo già visto che fanno risalire questa loro validità alla corretta produzione: normativisti e nomodinamici e giusrealisti concordano in questa definizione che in ultima istanza sposta il tema centrale della scienza giuridica sull'accertamento e correlativamente sulla certezza del diritto come esigenza primaria e unica da soddisfarsi. Lo scopo ultimo è dunque ricucire, almeno nell'area occidentale liberale e democratica, il rapporto tra diritte politica, che il giuspositivismo mantiene, almeno dal punto di vista dell'approccio metodologico, rigorosamente separati. È una separatezza, questa, che comporta una serie di conseguenze anche ai fini della prassi decisionale giudiziari: infatti nel caso di conflitti di norme, all'interno del sistema chiuso di tipo giuspositivistico, che abbiamo finora studiato, volta che si siano sperimentate le vie di risoluzione formale tramite la priorità gerarchica o la clausola d'eccezione, non si può che "decidere" con autorità, secondo il modello del tutto niente. Attenzione: la tesi di Dworkin non si riferisce a una pre-comprensione ermeneutica di principi etici della tradizione, la quale a questo punto il giudice sarebbe soggetto acriticamente o: al contrario l'ipotesi è quella di un giudice attivo, interprete della storia giuridico-istituzionale del proprio paese, che si è in grado di ricavare ermeneutica mente di principio dei diritti che sono in qualche modo interna al diritto positivo, sia pure non in modo esplicito. Questi "diritti" esistono all'interno dell'ordinamento, titolo diverso delle norme o regole che vi sono poste che sono direttamente identificabili. Infine, l'ipotesi di Dworkin che il giudice sia capace culturalmente razionalmente di una così complessa opera di interpretazione infra-giuridica e di costruzione ermeneutica di principi risulta abbastanza ideale, come spesso peraltro succede nell'ambito di questo filone della filosofia giuridica, e dunque paradossalmente può finire con il coprire ideologicamente con la dicitura "principi", "diritti fondamentali", scelte della prassi decisionale influenzate, come nei fatti avviene, e come il diritto posto sa bene, da passioni politico addirittura da interessi personali pregiudizi che trovano una razionalizzazione ideologica nei principi, e aumentano la pericolosità dell'attività discrezionale del giudice, che non è selezionato democraticamente

7.norme costitutive

Secondo alcuni critici, importanti spiegazioni di taluni aspetti organizzativi del fenomeno giuridico sarebbe da collegare una specie particolare di norme chiamate "costitutive". L'effetto della norma sarebbe "costituito" immediatamente, contestualmente alla diligenza della norma stessa. Il problema non è di non ammettere la cosiddetta "costitutività" delle norme all'interno del fenomeno giuridico o addirittura di non tentare strade che tendano ad allargare la funzione costitutiva delle norme stesse fino a ricomprendere anche le norme primarie o di condotta (del resto, tutte le norme non cosnsuetudinarie istituiscono, costituiscono un'artificiale collegamento tra eventi, tra comportamenti effetti). Il problema invece sta nell'evitare di suggerire nuovamente, con questo tipo di problematica,1 modello che appaia fortemente formalizzato, quasi si tratta di un inverso linguistico, di formule rituali dove l'universo di parole non ha bisogno di essere riconosciuti adoperato da uomini che attraverso di esso perseguono fini umani. Voglio dire che si è meccanismi comportamentali, riconoscimentali, non appaiono adeguatamente rappresentati in una teoria, si produce l'impressione che il mondo giuridico, rappresentata attraverso le norme costitutive, sia un mondo tutto formalizzato, staccato dall'attività comportamentale degli uomini. Secondo me non è un caso che normativisti come Hart o realisti come Ross, nonostante la grande importanza che entrambi danno all'aspetto dell'organizzazione del diritto, non abbiano utilizzato, come Hart o addirittura criticato, come Ross , l'uso dei performativi all'interno del mondo giuridico.

8.norma e ordinamento

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L'ordinamento non è soltanto da cogliersi nel insieme sistematiche unitaria delle norme, posso che questo insieme possa ricavarsi dall'interpretazione di tanti elementi, ma l'ordinamento fa riferimento anche, sociologicamente e fenomenologicamente, quei fatti sociali attraverso la lettura ermeneutica dei quali noi possiamo elaborare norme. La ragione per la quale preferibile parlare di ordinamento e non di sistema se il fatto dell'ordinamento suggerisce un'operazione di interpretazione costruito su un modello che ha appunto un "Ordine" razionalizzi, in qualche modo, tanti elementi; tra questi primariamente le norme, che sintetizzano e rappresentano l'elemento di tensione, di dover essere del diritto

Capitolo settimo

La struttura del diritto 1.sanzione e sanzione negativa

La prima specificazione è data dal fatto che qui per sanzione non si intende esclusivamente alla sanzione negativa. Attenzione: sanzionare un comportamento vuol dire semplicemente prevedere una conseguenza al verificarsi di quel comportamento. La struttura del diritto nell'accostamento "artificiale", volontariamente statuito, di un comportamento e una conseguenza. Non è affatto stabiliti in partenza che la conseguenza debba essere un qualcosa di sfavorevole per colui che l'ha prodotta, adottando un certo particolare comportamento. In effetti vedremo come, accanto alla sanzione negativa consistenti in una conseguenza considerata sfavorevole, possa configurarsi alcuna sanzione positiva intesa come conseguenza normalmente ritenuta augurabile. Il fatto delle sanzione negative siano state considerate per molto tempo come l'aspecifico giuridico è dipeso dal fatto che nello Stato ottocentesco di matrice liberale e non certo senza l'intervento pubblico, tipico dello Stato, stava nell'esercizio della funzione depressive punitiva, volta a orientare le i comportamenti dissuadendo "violentemente" da quelli considerati illegali. Ma questa situazione della realtà istituzionale giuridica e storica degli Stati di diritto in Europa fino alla fine dell'800 non ha impedito un notevole affinamento della tematica strutturale all'interno della teoria generale del diritto, proprio a partire dal concetto di sanzione negativa.

2.principio di imputazione: illecito e sanzione

Partiamo dalla definizione della norma con giudizio ipotetico. Diversamente dalle tradizionali teorie imperativistiche che venivano nella norma un comando, Kelsen li individua la struttura di un giudizio,appunto ipotetico, caratterizzato da una connessione normativa, posta dal legislatore. Kelsen dice che la norma può essere spiegata attraverso questa formulazione, come il giudizio "se è A,deve essere B". Con A indichiamo l'illecito, con B la sanzione. Attenzione: dei due elementi, il comportamento della sanzione, l'elemento strutturale di qualificazione è la sanzione, non l'illecito. Infatti, se si verifica un accadimento nel mondo dei fatti quale potrebbe essere l'uccisione di un uomo da parte di un altro uomo, questo fatto non è in se stesso un illecito giuridico, ma diventa tale perché l'ordinamento giuridico in tuta al verificarsi di questo determinato fatto una conseguenza negativa, che è la sanzione. In effetti l'ordinamento non sembra prescrivere nessun comportamento in modo diretta, ma si rivolge agli organi dell'ordinamento stesso che devono comminare la sanzione se si verifica l'illecito. In realtà si vuole sottolineare che il diritto ha un suo specifico principio, appunto il principio di imputazione che ha una struttura diversa dal principio di causalità, tipico di una tradizionale immagine della scienza della natura.

3.la qualificazione giuridica: la sanzione negativa come elemento centrale

Il modo di procedere dei giuristi tradizionale, consapevolmente o spesso inconsapevolmente, in qualche modo fa proprio quello che Hart ha chiamato il "punto di vista interno", vale a dire il punto di vista di chi in qualche modo si immedesima con le valutazioni di atteggiamenti interni propri dell'ordinamento giuridico, sia a codicistica che, più facilmente, di common law. È non è questa invece il procedimento metodologico kelseniano. La prospettiva hartiana è indifferente, dal momento che Hart non ha più quelle preoccupazioni che un giurista come Kelsen non poteva non avere in un clima culturale dove il mondo scientifico e giuridico era in profonda connessione ideologico e politica con lo stesso potere costituito e riteneva suo compito supportarlo. Hart, che fa riferimento una diversa tradizione culturale, quella anglosassone dove lo Stato di diritto non fu mai pensabile il modo indipendente dal processo democratico che lo legittimava, può tranquillamente usare termini come accettazione delle norme, società sana, pressione sociale, moralità positiva, contenuto minimo del diritto nazionale. Nel suo discorso si inserisce in modo non problematico, e non certo tipo di tradizione politico culturale inglese che, attraverso Bentham e Austin, ha già mostrato la capacità di una considerazione non ideologica, ma duttile viva, del diritto del ruolo attivo di consociate, senza che questo che lei fraintendimenti.

4.le sanzioni, il diritto della forza

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Io credo che si possa essere d'accordo sul fatto che la sanzione che io, in vista esattamente come la intende Kelsen , cioè come sanzione fisica, sia uno degli elementi fondamentali della qualificazione giuridica: allo stesso modo io credo che si debba accogliere la teoria kelseniana che lì nel mondo del diritto al cosiddetto "principio di imputazione". "L'essenza qualificante del diritto positivo", per usare l'espressione certamente datata di Kelsen , non è entrata soltanto dalla sanzione negativa, e quindi dalla funzione punitiva o comunque di ascrivere a conseguenze negative, cioè ritenute spiacevoli, dinnanzi al verificarsi di un determinato fatto. Se certamente gli ordinamenti giuridici, per rientrare il comportamento, si servono di norme strutturate diversamente, non si vede perché di queste norme non possa essere mantenuta a diversità strutturale. In definitiva sarebbe un impoverimento e una chiusura inaccettabile se, per amore dell'uniformità, si riducessero tutte le norme a norme sulla sanzione fisica. E così, con rispettivamente, in generale, per il concetto di forza. A me sembra particolarmente proficua la teoria secondo la quale la forza è un elemento interna al diritto stesso: il vantaggio di questa posizione che sta nel fatto che, rendendola un elemento interna del diritto stesso, la forza diviene l'oggetto delle norme, con possibile oggetto delle norme, lo razionalizza; quindi la forza diviene un elemento che può essere strutturalmente indagato, spiegato, capito. Rispettate teoria tradizionale secondo la quale il diritto non può non essere assistito dalla forza, e quindi rispettano posizione che vede la Ford fuori dal diritto come un'entità dualisticamente altra, nella nuova concezione essa diventa un elemento conoscibile, penetrabile analiticamente. Un modello di diritto costruito sul norme primarie che impongono obblighi e norme secondarie che conferiscono poteri un modello molto più appropriato rispetto a quello kelseniano di tipo riduzionistico; e però questo tipo di modello è compatibile, secondo il mio punto di vista, con la teoria che vede la forza con un elemento interna al diritto: un elemento, non l'elemento. Peraltro, a sdrammatizzare la struttura sanzionatorie del diritto, accanto alla sanzione negativa, contrariamente a quanto afferma Kelsen , possiamo tranquillamente ammettere le cosiddette "sanzioni positive".

Capitolo ottavo

Funzione e funzione del diritto

1.esiste una funzione propria del diritto?

Attraverso il diritto si mira la convivenza pacifica, cioè non violenta, così che il diritto strutturalmente tende alla realizzazione della funzione minimale dell'ordine o della pace sociale, intesa quest'ultima come semplice assenza di conflitti, quindi in un senso debole, come non conflitto, e non in senso forte, come armonia positiva. A mio avviso, comunque, non è proficua in nessun senso una rappresentazione degli approcci metodologici alla funzione del diritto e si attesti su una rigida alternativa tra il diritto come perseguimento dell'ordine tramite la forza e diritto come semplice mediazione di una prassi ordinaria ragionevole sempre già preesistente. Se un certo livello di ordine si conserve si riproduce una società altamente pluralistica, articolata in individui gruppi differenziali comporti richieste di spazi autonomi, ciò è possibile perché esiste la mediazione del diritto. L'ordine maggiore un minimo, che si viene a produrre, va riferito alla presenza di un ordinamento giuridico che contemporaneamente, attraverso la forza e le sanzioni, e fonda sul presunto consenso dei consociati che non legittimano politicamente con argomentazioni ideologiche e o razionali. Lo scopo minimo, che di fatto si realizza sempre, quando c'è ed è valido ed efficace l'ordinamento, e dunque la direttiva del comportamento umano, ai fini di una convivenza pacifica e della sopravvivenza del gruppo sociale; il diritto rappresenta il disciplinamento della dinamica sociale. Il diritto non è attività, o meglio non è sull'effettività: il diritto in tensione tra validità ed effettività. Costituisce a partire dalle effettività e, come funzione minimale, mira al mantenimento dell’effettività; quindi se volessimo sinteticamente dire che esistono almeno una funzione propria del diritto, non potrei mai rispondere che il diritto in viso con l'ordinamento si muove dall'ordine (e effettività) attraverso l'ordine. L'attenzione è appunto in quella "andare verso".

2.sanzioni relative sanzioni positive

La sanzione negativa è la conseguenza predisposta dall'ordinamento considerata generalmente spiacevole, al verificarsi di un determinato fatto. Il fatti in questione, come abbiamo visto nel capitolo precedente, diventa illecito, viene dichiarato il lecito, propria attraverso l'imputazione della sanzione. La sanzione positiva della predisposizione di una conseguenza generalmente considerata favorevole al verificarsi di un certo, determinato comportamento. La sanzione positiva conseguenza che viene essere imputata al verificarsi di un comportamento evidentemente vuol essere promosso dall'ordinamento. Il diritto, in questo caso, oriente direttamente, esplicitamente, favorendo una scelta possibile dei consociati. Mentre attraverso la predisposizione della funzione direttiva si vuole scoraggiare un comportamento e infatti attraverso la sanzione questo comportamento diventa illecito, nell'ambito del meccanismo basato sulle sanzioni positive, il comportamento collegata alla conseguenza favorevole è un comportamento desiderato, voluto, stimolato.

3.la funzione promozionale del diritto e la premialità.

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Innanzi tutto e preliminarmente va chiarito che "promozionalità" e "premialità" non vengono usati come sinonimi. Se è vero che sia l'una che l'altra parola, in un modo nell'altro, gli hanno il concetto di sanzione positiva, è altrettanto vero che la promozionalità è concetto più ampio e, per certi aspetti, più ambiguo; mentre la premialità suggerisce immediatamente una correlazione del tipo: "pena (sanzione negativa), ricompensa (sanzione positiva)", tutto questo non è possibile in maniera così puntuale diretta per la promozionalità. Se gli ordinamenti giuridici contemporanei danno sempre più spazio alle sanzioni positive, allora l'ordinamento giuridico, o meglio il modello di ordinamento giuridico proposto da Kelsen, tutti incentrato sulla primarietà della sanzione negativa e sulla definizione di tipo strutturalistica che incentra la rappresentazione del diritto sull'organizzazione della forza, non è adeguata. Di qui, in relazione alla specifica situazione degli ordinamenti giuridici di quegli anni che vedono il diffondersi del walfare State e dell'indirizzo politico economico sociale, la forte associazione dell'idea di promozionalità con quella di sanzione positiva. Dalla constatazione della sempre più massiccia presenza delle ricorso, da parte del legislatore, le sanzioni positive per ottenere o stimolare un certo determinato comportamento, si è passati alla qualificazione di questo fenomeno come tipi espressione della funzione promozionale. Il concetto di premialità viene innanzitutto collegata quello di "riconoscimento", pubblico e addirittura sanzionato giuridicamente, in relazione a una qualunque azione particolarmente importante o ritenuta tale. La promozionalità, in questo caso, non mi pare che possa svolgere alcuna funzione di chiarimento. Nel sistema che è appunto un complesso di norme che costituisce un vero e proprio diritto premiale, ma non promozionale: si sanziona qualcosa che avvenuto e non si vuole invece stimolare un qualche comportamento in alternativa ad altri comportamenti comunque leciti e possibili, ricollegando all'ipotesi di compimento del comportamento prescelto una qualche conseguenza positiva. La premialità si associa così al valore edificante ideologico della virtù che fa da esempio, cioè da modello, in modo genericamente orientativo, per i costumi dei cittadini. Si potrebbe affermare che la cerimonia del trionfo, della corona e così via, siano a autoaffermazione autocelebrazioni che la Repubblica tributa se stessa, nella persona dei suoi condottieri, al fine di acquisire autorevolezza, stabilità e prestigio. Questo lo scopo primario promosso dal diritto premiale, assai blandamente orientativo dei comportamenti concreti e piuttosto centrato sulla promozione di valori considerati esemplari. In realtà quando le parliamo di funzione promozionale del diritto già diamo per scontato quel fenomeno del diritto positivo ordinamentale che ci è familiare e che si è andato organizzando a partire dai secoli precedentemente evocati: da allora, progressivamente si costruisce, attraverso la monopolizzazione della produzione giuridica,1 modello di strada che si presenta come ordinamento, concetto quest'ultimo che implica a un tempo la realizzazione dell'ordine e paradossalmente lo scopo minimale dell'ordine. Allora, solo se il diritto appare come un complesso di regole che sono più o meno obbedite non certo determinato momento storico,1 certa determinata comunità, non certo determinato territorio, ci si può porre il problema di una funzione promozionale che appare dunque con ulteriori indirizzi orientativo, partire dal raggiungimento dello scopo dell'ordine. La promozionalità è quindi, non certo senso, già implicita nella modernità il concetto di diritto artificiale, "posto". La presenza determinante, a partire dal 1789, della componente consensualistica-la titolarità della sovranità in capo al popolo-ha fatto sì che l'orientamento, la direzionalità impressa dal politico, in una parola la promozionalità, fa sempre più fatto ricorso a tecniche incentivali o sanzioni positive, in cui fosse evidentemente indispensabile e precipuo un comportamento attivo,1 collaborazione dei destinatari delle norme giuridiche. Questo, mi avviso, non implica che si debba ideologicamente oscurare il permanente carattere del diritto, tecniche di controllo del sociale, e questo sociale "temi" a indirizzare verso il dover essere: non mi sembra ciò che si debba occultare, pur nel riconoscimento dei comportamenti attivi e collaborativi prove della società più avanzate, la volontà dirigistica dello Stato che, nel promuovere premiando, reprime con gli atteggiamenti "altri" da quello premiato incentivato.

4.la funzione promozionale della dimensione delle affettività

Come abbiamo visto, all'interno della filosofia giuridica del ventesimo secolo, le affettività ovvero, se non l'osservanza, almeno l'orientamento dell'agire in base all'ordinamento, è divenuta sempre più tema centrale. E che il comportamento generale conforme si sia apparso sotto la forma della conditio sine qua non, come vorrebbe Kelsen, e che esso finisca con l'essere, in Hart, avere propria conditio per quam, e che sia addirittura la dimensione unica della definizione del diritto con l'eliminazione totale o tendenziale dell'altro termine, vale a dire la validità, che siamo comunque maturi nel ruolo centrale delle affettività. D'altronde, niente di nuovo sotto il sole: la dicotomia validità e le affettività non è altro che la meccanizzazione o, se si preferisce, la ridefinizione scientifica dell'antica contrapposizione tra diritte fatte, con le antichissime e arcinote dispute sul clima. Io non ho nessuna remora a schierarmi dalla parte di Hart, indipendentemente dalle eventuali difficoltà della soluzione prassistica, cioè indipendentemente dal fatto se Hart sia riuscito o meno, con la sua concezione di tipo normativistico e realistico insieme, superare le contraddizioni e aporiedell'ipoticismo o finzionalismo kelseniano. Richiama ora tutto questo perché, in generale, la mia opzione per la cosiddetta affettività generale trova, a mio parere,1 conferma quando non andiamo ad accostare la promozionalità alle affettività. Promozionalità e l’effettività generale diventano il binomio che dava un senso al fenomeno dello Stato interventista, dello Stato sociale: con i sedili che viene chiamato a mediare attivamente tra le istanze e bisogni sostanziali di quanti subiscono diseguaglianze distributive del sistema economico capitalistico, senza intaccare la struttura. Certamente mi sembra che una forma di promozionalità anche quella che vuol appunto realizzare il programma della lotta alla criminalità attraverso la dissociazione. Evidentemente qui si tratterebbe appunto di una premialità dove il soggetto centrale è appunto il giudice, forse più esattamente l'apparato della giustizia. Non mi sembra

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però che questo fenomeno, pur molto importante, soprattutto per alcune azione, come per esempio la nostra, possa essere considerato tanto rilevante centrale da caratterizzare come una nuova specificità il diritto contemporaneo. Lo Stato sociale significa molte cose: in termini giuridici è la concretizzazione, direi quasi la fatticizzazione, della trasformazione della legge generale astratta: è il momento in cui la legge diviene strumento mirato al particolare al concreta. Il compromesso politico tra i principi di mercato esigenze di giustizia sociale hanno richiesto rafforzamento del carattere mirato, dell'indirizzo politico economico delle rigide provvedimento esplicitamente tesa a modificare gli spontanei rapporti di forza del mercato.

Capitolo nove

L'interpretazione

1.l'importanza del momento giurisprudenziale nel diritto e l'interpretazione scientifica

Secondo il nostro modo di vedere, aperta l'indispensabile attenzione verso la prassi sociologica tanto degli operatori giuridici e dei consociati, la dimensione ermeneutica è di fondamentale importanza. L’effettività della norma, abbiamo ricordati i casi in cui l'applicazione da parte dei giudici è tutt'altro che automatica, ma storicamente condizionata e condizionante. I giuristi, o ovvero quanti sono esperti di diritto a diverso titolo, dal legislatore ai giudici, dagli amministratori degli avvocati, ai consulenti legali, i notai, ai docenti di materie giuridiche, costituiscono l'area della cosiddetta giurisprudenza che assomma alla competenza scientifica sul diritto l'autorevolezza di circa il carattere del ragionamento giuridico e, con quest'autorevolezza,1'efficacia persuasiva nel necessario momento dell'interpretazione del diritto. Per interpretazione scientifica s'intende l'interpretazione del mondo normativo a opera della scienza del diritto. Per interpretazione autentica s'intende l'interpretazione che è sottesa a ogni operazione di "applicazione" opera di un organo o comunque non soggette all'interno del fenomeno della concretizzazione del diritto, esemplifica dell'ordinamento a gradi. E emergono forme di ragionamento pratico estranee ai metodi assiomantici moduli sistematici; piuttosto sembra adeguata la tecnica del ragionare per problemi, o topica: si evidenzia il momento attivo, inventivo, l'imprescindibilità del momento e individualizzata, nel caso specifico che fa da stimola l'indagine, la costante integrazione della legge nella totalità del contesto sistematico del diritto positivo vigente, non solo sotto il profilo formale, ma in relazione al complesso di principi e valori che "liberamente" e " creativamente" è possibile evincere. Inizia una revisione di formalista che corrisponde, in area anglosassone, alla critica radicale del ragionamento logico deduttivo avanzato dal realismo, tenta valorizzare la componente extra giuridica della decisione giudiziale e l'indeterminatezza del diritto. Tornando comunque l'interpretazione scientifica, sembra evidente che già il fatto che sia tanto dibattuto se il procedimento di ricerca dovesse andare verso la volontà del legislatore, verso la prassi giudiziale oppure verso la ragione oggettiva delle parole della legge, già il fatto è che vi sia stato questo tipo di dibattito, fa capire quanto fosse poco fondato e destinata all'insuccesso il tentativo ideologico di sorreggere un certo di quell'interrelazione con l'argomento della scienza autentica, apodittica con il crisma della verità. In realtà l'interpretazione scientifica può significare soltanto proposta dell'eleborazione delle norme relazioni certe determinate ordinamento giuridico. Vale a dire proposta, relazione a un determinato storico ordinamento giuridico individuato come materiale empirico oggetto di indagine, di rappresentarlo attraverso una sistemazione di norme che esprime il punto di vista di colui o di coloro i quali rappresentano il tutto in villa conoscenze non della volontà e della produzione del diritto funzione. Interpretazione scientifica è attività interpretativa operata da chi nei momenti in cui propone una modalità di esegesi e lettura interpretativa del testo agisce solo teoreticamente, suggerisce il re alla pratica del diritto una rappresentazione normativa dell'ordinamento, secondo dei casi, globalmente, per materia, per settori. Insomma interpretazione scientifica è una possibile interpretazione scientifica e quindi intendere le scienze giuridiche in un senso debole, non nel significato forte della scienza giuridica tradizionale che pretendeva un risultato obiettivo è vero come frutto della propria enunciazione. Questa immagine dell'interprete ne scientifica di riferisce da quella proposta da Kelsen che, profondamente persuaso dalla possibilità di avalutatività e di "purezza" della ricerca scientifica, vorrebbe ascrivere alla scienza del diritto sono il compito di rappresentare la pluralità dei significati ascrivibili alla norma.

2.l'interpretazione autentica e la scelta

Se è giusta la differenziazione tra testo normativo e norma, interpretazione autentica si ha quando, agendo all'interno dell'ordinamento attraverso la lettura di un testo, interpretazione di un fatto, si ricava in modo univoco una norma. La norma è ricavata da una scelta tra una pluralità di interpretazioni possibili dello stesso enunciato normativo o tra una pluralità di enunciati interpretati che possano riferirsi, in modo diverso, la stessa fattispecie. L'interpretazione e autentica nella misura in cui viene prodotta quella norma che da un punto di vista giuridico è la sola che viene a incidere nel mondo giuridico. L'interpretazione autentica è quella che legislatore pone in essere quanto, all'interno di una pluralità di possibilità interpretative offerte dalla norma così nazionale, realizza e concretizza solo una possibilità in

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questo senso produce sono una norma. Allo stesso modo nella rapporto tra legge ordinaria sentenza del giudice la legge funge da schema che ha possibilità interpretative: nel momento stesso in cui viene emanata la sentenza, viene a prodursi una norma che l'unica che determinerà effetti giuridici. Insomma interpretazione autentica inerisce all'attività di tutti coloro i quali agiscono all'interno dell'ordinamento, sia quando hanno un ruolo che viene essere definito dallo stesso ordinamento è che li vede come organi (il giudice, il legislatore, il funzionale), sia quando si tratta dell'attività del consociata nelle vesti di privato cittadino. Anche quest'ultimo, nel momento stesso in cui agisce giuridicamente interpretando un documento normativo scegliendo un determinato comportamento ritenuto quello previsto, fissato, modellato dalla norma, interpreta in modo autentico, nel senso che scegli un significato della norma e non può non scegliere una sola ed esclusiva determinazione normativa. Ovviamente non è detto che questa scelta sia considerata giusta, per esempio, dal giudice, che potrebbe leggere il comportamento del cittadino come presupposto di un'azione illecita sotto il profilo del diritto. Quello che si vuole sottolineare è che, all'interno del mondo normativo, l'azione a tutti i livelli e in relazione tutti piani dell'ordinamento visto gradualisticamente è un'azione che si svolge sempre nel contesto interpretativo, e soprattutto sempre in connessione con una scelto decisione. Insomma non è possibile, come nel caso del interpretazione scientifica, suggerì di argomentare una soluzione senza che qui, appunto nell'interpretazione autentica, questa soluzione venga a essere messe necessariamente in pratica, diventi cioè una decisione. Il giudice non può dire dinanzi alla controversia "forse rientra nell'ambito di questa fattispecie giuridica, forse non rientra" oppure "La fattispecie prevista dal legislatore forse è X., forse è Y"; no, il giudice ha anche ha dubbi, anche se in un primo momento opera esattamente come opera colui che formula una interpretazione meramente scientifica, prospettandosi il ventaglio di possibilità ermeneutiche, deve poi necessariamente porre in essere una decisione che ha. All'interno di più possibilità, assume come unica scelta. Questo momento del sì o del no non si riferisce sempre alla validità di una norma, dove effettivamente la logica del tutto niente si pone come esclusione della validità di una norma se confliggente con un'altra scelta autoritativamente come valida: questo caso ho effettivamente distinguere ordinamenti positivistici da quelli di common law, secondo Dworking , al livello di principi è possibile applicare un principio un altro senza perciò escluderlo, come non valido, dall'ordinamento. La decisione non si riferisce solo al giudizio, escludente (sì o no), di valida, ma tutte le concretizzazioni dell'anno era in una determinazione normativa, che, pur se in essere, escludano non delle norme, ma le possibilità interpretative della stessa non scelta.

3.Le qualificazioni normative fondamentali.

Normalmente esiste in tutte le società, retto dal diritto,1 nucleo essenziale di norme dal significato chiaro e inequivocabile; o, se si preferisce, esistono dei fatti normative sociali che originano in modo chiaro un'interpretazione comune, volta individuare le modelle solo quello come, il modello normativo se intendiamo mantenere la distinzione tra il documento-legge e le norme che possiamo ricavare dalla lettura interpretativa dello stesso, dobbiamo ragionevolmente pensare che il più delle volte vi è una larga convergenza dei consociati sul significato normative quindi sulle norme dichiarate esistenti attraverso l'interpretazione di quel documento: in una parola bisogna ammettere che le norme, come ci ricorda Hart, ma non si una struttura aperta, ma hanno pure il nucleo essenziale di significazione comune che costituisce la base stessa della possibilità di concepire il mondo normativo come costruito quotidianamente dall'azione dei consociati. L'ordinamento può essere definiti in senso stretto un insieme di norme solo se si fa riferimento a quelle norme in un certo qual modo quotidianamente esistenti in una continua, incessante prassi sociale. Ogni comunità retto dal diritto non può fare a meno certamente di queste norme quotidianamente si sente nella prassi che possiamo chiamare "qualificazioni normative fondamentali". Attenzione, fondamentale non per il valore che racchiudono (perché anzi spesso è sui valori fondamentali che si hanno le più difficili di studi interpretativi). La fondamentali da consiste semplicemente nell'ascrizione da parte dei consociati di un significato univoco a un determinato fatto sociale. L'azione normativa del diritto sta nell'assunzione di una pretesa di stabilizzazione, di un consolidamento conservativo dell'essere, anche il suo pensabile in termini di dover essere, per chi relativa possibile di sensi e perché rinforza con la doverosità e la vincola abilità le scelte abituali, chiaramente ripetentisi, senza particolare esegesi ermeneutica da parte dei consociati. Pensare a queste norme, però, non significa postulare un insieme cartaceo su cui esperire esercizi logici probabilmente sterili, ma significa già guardare alle insieme come un qualcosa in più che rinvia necessariamente all'azione dei consociati. Può sembrare strano che una norma sia a un tempo considerato un prodotto ermeneutico e un modello,1 schema per interpretare certi fatti, in specie certi comportamenti. In realtà la norma è sempre la qualificazione, interpretazione di certi documenti, ovviamente in diverse misure seconda dei casi e l'interpretazione può avere un certo grado di provvisorietà, che invece non è una caratteristica dei Le qualificazioni normative fondamentali. Queste ultime rivelano la loro fondamentali tra nell'ideologia comune, nella prassi concorde, sempre entro certi limiti, comportamentale, sia in riferimento è consociati che in qualche modo svolgono un ruolo essenziale nell'ambito dell'organizzazione giuridica, sia ai privati cittadini. Che esistano queste norme, nel senso di qualificazioni fondamentali, in ogni tipo di comunità retto dal diritto, noi non par dubbio; come è altrettanto indubbio che una comunità non potrebbe a lungo sopravvivere senza tale stabilizzazione normativa, rivelata da queste qualificazioni normative fondamentali. Queste ultime che, ripetiamo, si evidenziano proprio nella prassi, nell'uso, sono

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le uniche che si prestano a caratterizzazione del tipo "norme come fatti sociali", sempre tenendo presente che caricano di doverosità ha quel determinato fatto sociale. Le altre, meno che non acquistino questo stato di fondamentali da essi si dimentichino nella prassi comune, costituiscono un più complesso prodotto ermeneutico, costruito sul testo e di tutto, eventualmente, dal testo legislativa che si esprime attraverso enunciati.

4.struttura ermeneutica e decisione. Le antinomie

È proprio all'interno della rappresentazione di questo tipo di interpretazione, misura tutti relazione all'ordinamento visto nella sua costruzione gradualistica, che si coglie il nesso inscindibile tra il concetto di norme concetto di decisione. Tradizionalmente questo nesso fondamentale (ancora una volta ripropone il nesso normatività-fattualità) viene rappresentato solo attraverso il rapporto tra alla legge l'attività del giudice che produce poi, in base alla legge interpretata, sentenza. Ma in realtà è, dal mio punto di vista, s'è più significativo notare che tutto l'ordinamento giuridico si presenta come strutturato intorno al nesso norma-decisione, richiede relazione a questo nesso un'interpretazione che decide. È proprio del diritto riconoscere che in certe circostanze la decisione sia vincolante nonostante il fatto che sorbiti, sia il riducibile, malgrado gli sforzi interpretativi, allo schema fondante della legge superiore. Per il diritto, in genere, la sentenza del giudice passata in giudicato obbliga le parti anche quando la sentenza appare alla scienza giuridica come prodotta "fuori" da ogni contesto normativo

5.ermeneutica nel diritto

L'apporto più significativo del ermeneutica è da individuarsi nella critica a una metodica che vede il sistema normativo chiuse ben definito logicamente, per poi trovarsi di fronte al compito di applicarlo alla reale specifico. Questa pre-comprensione è innegabile che sia carica di valori, e norma e le fattispecie si è specifica si illuminano vicendevolmente all'interno di questo mondo di valori che viene definito dal contesto, quindi dal solco delle tradizioni etiche: sembra che la razionalità giurisprudenziale tanto invocata debba ricondursi all'autorevolezza di una tradizione accreditata e ideologicamente sedimentata.

6.il ruolo dell’effettività nell’ ermeneutica giuridica e nel modello di teoria generale.

La funzione del diritto appare connessa alla certezza dell'imposizione delle direttive comportamentali Stato unite legalmente. Contemporaneamente le affettività di questo complesso direttive risiede dell'attività ermeneutica degli operatori giuridici, ma soprattutto di tutti i consociati che individuano il diritto, lo riconoscono come valido perché posto secondo le regole della formazione del diritte decidono, se decidono di conformarsi ad esso. Proprio perché, mi avviso, fertile integrazione dell'approccio normativo è data dall'attenzione al momento ermeneutico, occorre, nel guardare alle affettività, non limitarsi a quella giudiziaria dei funzionari, ma guardare alle affettività generale relativa al comportamento di tutti i consociati. Solo, infatti, da questa base il modello giuridico che saranno andati a descrivere sarà disponibile per l'ulteriore riflessione filosofico-giuridica e politica. Solo quest'ultima potrà interrogarsi sul se e sul come il diritto compia davvero la funzione storica di mediazione dell'integrazione sociale, solo in questa sede riflessiva la prassi giudiziale potrà essere interrogata per argomentare le sue decisioni che dovrebbero essere a un tempo correttamente deducibili e prevedibile legittimati da un punto di vista razionale; solo in questa sede che possiamo chiedere quali siano le migliori procedure, più giuste per razionali, per garantire una creazione normativa e un'applicazione giudiziaria che rispondano alle aspettative di giustizia che non cessano di percorrere il tessuto sociale.

Appunti schematici del libro metamorfosi del diritto che ripercorrono le principali domande d'esame.

La crisi dell'ordinamento e della neutralizzazione giuridica

Lo svuotamento giuridico riflette se non l'indebolimento del ruolo dello Stato almeno la sua risistemazione relazione alle altre sfere sociale (politica, economica, culturale) è muove dalla crisi che negli anni 80 ha investito, nelle società occidentali, il controllo politico-statale, crisi determinata dall'espansione su scala planetaria dell'economia e dal conseguente rovesciamento del predominio della cultura giuridico-politica favore del mercato della sua logica. Si affiancano questi motivi endogeni della crisi, le potenti spinte della globalizzazione politica che, a loro volta, mettono gli ordinamenti giuridici statale territoriale a confronto con agenzie e organizzazioni, economiche e non, la cui base non è riferibile agli strumenti di lettura del diritto nazionale e internazionale. Interlocutore dello Stato diventano potenti agenzie commerciali o finanziarie, con base territoriale inesistente, le quali sono in grado di contrattare accordi arbitrati è extragiudiziali che sicuramente influenzano la vita di intere popolazioni, di persone del proprio come di altri paesi, senza che i principi legislativi di quegli stessi accordi possano essere ricondotti al sistema giuridico nazionale. Tuttavia ciò che viene stipulato risulta efficace e ha forma giuridica, quanto era privato diventa significativo per il pubblico senza passare per il riconoscimento dello Stato. l'impotenza dello Stato a controllare eventi che interferiscono pesantemente nella vita dei suoi cittadini, il suo essere costretto a tener conto, se non a trattare, di agenzie politiche

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prive di riconoscimento giuridico eppure ininfluenti (si pensi a ad al Qaeda), lo spinge sempre con maggiore frequenza sull'orlo dell'emergenza. L'altro aspetto del paradosso è invece la potente retorica sui diritti universali, sui diritti umani rilanciati con più forza ogni qualvolta che la violenza delle relazioni internazionali dunque la guerra, ha messo in forse l'esistenza stessa delle popolazioni e forse del per intero, diritti umani sono la faccia rassicurante del diritto di oggi. Catania ritiene però, che l'enunciazione di sempre più numerosi e di tanti diritti, non è la strada che ci chiarisce come funziona oggi il diritto e come non funziona più. È importante piuttosto interrogarsi sulle parole del diritto per capire come sia, oggi, la realtà a chi si riferiscono per indagare se per caso sia possibile individuare il senso anche nell'attuale situazione tra svuotamento ed è infatti, tra svalutazione e per valutazione. Catania ritiene che il fenomeno giuridico debba essere eletto attraverso le categorie di norme decisione, perché con esse del fenomeno giuridico viene restituito al ruolo attivo dei consociati. Esigere norma sono qui considerate come elementi metodologici. Proprio per il loro carattere non contenutistico è altamente generico, proprio per la loro contaminazione con il mondo morale, con quelle politiche con quello religioso, sembrano adeguate ad una realtà giuridica che vede dissolversi la sua differenziazione tradizionale moderna dalle sfere contigue. La scelta di queste due categorie permette di recuperare affiancare alla visione ordinamentale classica del diritto alla prospettiva organizzazionale. L'obiettivo di Catania non nella descrizione sociologica dei mutamenti in atto ma piuttosto la messa in evidenza del mutamento della logica giuridica in modo che sia ancora possibile individuare i poteri, le responsabilità, le forme del nuovo diritto. Le attuali modificazione del fenomeno giuridico vanno misurate a partire dal modello del monopolio della creazione del diritto e della relativa monopolizzazione dell'uso della forza legittima, che hanno caratterizzato la storia dello Stato moderno. Questa forma del pensiero giuridico moderne strutturata nella forma dell'ordinamento giuridico, dotato di sovranità, che rende unitario e coerente da articolarsi di livelli di responsabilità il potere, facendosi che ciascuno decisione sia normativamente dunque validamente fondata. La storia dello Stato delle sue istituzioni mostra come questa forma così, compatte coerente sia nella realtà densa di aporie e di conflitti. La neutralizzazione dei conflitti che il diritto moderno promette,ha fondamento infatti nella pretesa dell'uguaglianza formale dei soggetti di fronte alla legge: uguaglianza che nella dimensione concreta, è sempre da far se mai compiuta.

Il metodo

Il senso della parola "metodo" è sempre più problematico, in quanto sembra ricondurci all'incauta pretesa che il metodo renda corrette scientifico, razionale logico l'oggetto dell'indagine. Quando invece le parliamo di approccio metodologico positivista, vogliamo sottolineare la scelta di fedeltà a quell'insieme di fatti, atti, documenti, aspettative, decisioni che nella comune coscienza vengono identificati come diritto esistente, diritto positivo. Nella profonda crisi che ha coinvolto la pretesa di purezza della scienza non è pensabile che esista una modalità neutrale, sempre valida, di studiare un oggetto insensibile ai suoi mutamenti e magari immodificabile, qualunque sia il soggetto che l' adopera per indagare la realtà giuridica. È divenuta pressante la consapevolezza di quanto sia impossibile ridurre la galassia del fenomeno giuridico in un modello unitario. Cosa può significare allora utilizzare un metodo positivista? semplicemente che l'indagine vuole rispettare la concretezza della prassi giuridica così come è attuata, posta,interpretata, senza proporre o sovrapporre entità presumere significati ultimativi e complessi: significa utilizzare i concetti le parole come grimaldelli per capire quanto accade rispettandone la duttilità, la parziale incoerenza, la produttività al di là del rigore formale. Le azioni designate da parole concetti, non possono che essere lasciate alla loro incoerente ambiguità. Per Catania è indispensabile poter isolare le istanze conoscitive da quelle pratiche. È altrettanto necessario riconoscere che la tesi che il diritto rimanda ad una razionalità pratica di tipo ermeneutico non solo ha una tradizione importante alle spalle e può essere pensata come originata dalla stessa prassi tradizionale dei giuristi, mai pensabile che sia particolarmente adeguata cogliere lo spirito di un diritto, come quella attuale, così fluido, indefinito, continuamente espansivo, vivente nel senso di vitale. Al contrario, la tesi kelseniana che ha afferma la possibilità di una interpretazione autentica totalmente svincolata dal contesto normativa, mette a nudo in modo assai evidente il ruolo che tipo è dunque politico del giudice l'interprete del diritto. Risalta con maggiore evidenza l'interposizione autoritativa (politica) che in tutti i gradi dell'ordinamento di non potere decisionale attivo. Hart, parla dell'apertura del sistema l'interpretazione. Ma il presupposto di un'operazione interpretativa, creativa e autoritaria, sta esattamente nella possibilità di tenere distinte il momento della pura e semplice identificazione conoscenza del diritto da quello dell'appartenenza consensuale al suo mondo normativo. Catania, invece, tende a sollevare il problema delle implicazioni che una visione poco nitida del momento conoscitivo anche un' abdicazione a conoscere e identificare il diritto in modo separabile dal momento della sua attuazione e implementazione, comporta: il problema del prezzo in termini di politica della decisione stessa, perché non è affatto vero che nella visione pragmatica la politica non ci sia. Ci sono proposte nelle diatribe tra razionalità pratica di ermeneutica e quello logico-conoscitiva. Si tratta di posizione di positivismo debole o di apertura debole al neo-istituzionalismo, della coerenza del sistema viene individuata allora livello di principi morali né a livello della meccanica delle norme, ma ad un livello istituzionale: istituzioni, realtà di fatto capace di aggregare stabilizzare l'estrema flessibilità ideologica e valoriale del diritto.

La prospettiva positivistica

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Il senso del termine positivo, nél sintagma (diritto positivo) è assunto dal punto di vista della conoscenza, e perciò assolutamente fuori dalla grandiosa disputa che contrappone giustizia legge. Non è neanche più irriducibile al senso lega distico moderno del diritto posto in essere secondo le procedure che lo rendono valido con il senso dell'uso del termine positivo è piuttosto vicino all'approccio metodologico che in esso individuava Bobbio. Tale termine è relativo alla datità concrete reale delle prassi, ai documenti, ai dispositivi, le legislazione precedenti che si stratificano in modo sempre più caotico e vitale, nelle diverse aree di intervento è costituiscono il riferimento fondamentale tanto degli operatori giuridici canonici (funzionari, corti) quanto di tutti i consociati. Positività è concretezza e realtà: in questo senso è fertile l'uso del termine dispositivo (tanto normativo che decisionale), che indica quel insieme di disposizioni normative, regolamenti, e sa anche di argomentazioni giustificative affermazioni tecniche, scientifico statistiche, di prassi e di negazioni pluralilaterali. Ciò che sorprende la presenza di concetti argomenti che, senza essere direttamente norme, aprono in modo pluridimensionale i dispositivi stessi a istanza, discorsi, verità che coesistono con il classico lessico giuridico. E impossibile purificare metodo logicamente selezionando ciò che è giuridico da ciò che non lo è: tutto invece si mescola i livelli di argomentazioni non confrontabile spesso tecnici moralmente disponibili coesistono con procedure tecniche amministrative o privatistiche-commerciale oppure ibride tra pubblico e privato. Si determina anche il rovesciamento della tradizionale contrapposizione critica dei positivisti moderni verso la morale, la religione, scienza. Il diritto positivo rappresenta la sfera dove quei contenuti venivano filtrati in modo possibilmente coerente e positivi dati per essere implementati.

La morale

Paradossalmente ci troviamo di fronte, sempre più spesso, ad un'efficacia delle norme morali non mediata giuridicamente, alla capacità cioè di norme morali, regole religiose, prescrizioni scientifiche di portata pubblica erga omnes. Quanto maggiore è è questo sbilanciamento dell'attività normativa dell'operare di amministratori, consulenti, avvocati, giudici, legislatori, in direzione di questi vettori che orientano le scelte dei consociati, tanto più debole appare la possibilità di chiarezza, conoscitiva circa la dimensione giuridica. Sono numerosi casi di norme che legittimano ex post le prese di posizioni politiche o morali, senza raccordarsi con il corpo della cultura già giuridificata. Le scelte assunte all'interno di aree non giuridiche, soprattutto morali e religiose, premono verso la diretta effettualità giuridica. Ovviamente è sempre successo che il diritto di si è riempito di contenuti etici, religiose, morali e questo lo sconvolge affatto la prospettiva positivisti e che qui si vuole adottare. Oggi il problema della posizione residuale e secondaria che assume la forma giuridica difronte a sistemi di legittimazione assai forti autoreferenziali che chiamano il momento giuridico a fare un semplice gioco di rimessa rispetto ad altre sfere normative. C'è da domandarsi se l'indebolimento di questo ruolo sia da attribuirsi alla specifica storia del diritto moderno e al suo legame strutturale colossale con la sovranità. Nelle teorie dei neo-costituzionalisti troviamo che la crisi della sovranità statuale viene fronteggiata aprendo il diritto alla densità dei valori morali e politici, in modo da articolare questa presenza su un doppio livello: quello dei diritti che trovano esistenza positiva nella costituzione e quello delle leggi che, rispetto ad essi, o no un ruolo residuale..

La critica di Catania al neo costituzionalismo

Il neo-costituzionalismo non si limita a proporre contenuti etici e politici a capo dell'ordinamento giuridico ma caldeggia una propria ermeneutico pratico a questi contenuti, facendoli dunque funzionare come orientamento complessivo nell'incertezza nella fluidità del diritto legislativo, ovunque si presentano casi non classificabili. Quel gruppo di enunciati che espongono i valori dei diritti è chiamato così ad operare direttamente. La realtà sociale e politica della comunità in esame viene rappresentata come istituzionalmente omogenea nel suo progetto politico si manifesta come interna alla realtà sociale stessa non come costrutto artificiale che le è proposto: rispetto ad esse non si deve che svolgere un'attività ermeneutico-pratica di conformità. La razionalità ermeneutica è i l'attività giurisprudenziale, con le sue regole di ragionevolezza, saggezza, prudenza, memoria di precedenti, propria della tradizione anglosassone, ricevono forte impulso da queste tesi che offrono alla morale una via privilegiata verso l'effettività. Naturalmente si tratta di diritti e principi essere generali, stemperati, tali che il lavoro ermeneutico possa orientarli in un modo o consono alle esigenze del sociale dell'opinione pubblica. Il discorso di rivalutazione della razionalità pratica, come discorso che valorizza la normatività del fattuale offre risposte percorribili è condivisibile ad una situazione esplosiva, centrifuga della galassia giuridica: ma solo pagando un prezzo alla possibilità di una posizione critica e restano percorribili se e fino a quando il pluralismo dei valori degli interessi riesce politicamente a trovare un punto di sintesi sia pur provvisoria. Diventano invece risposte sempre più problematiche e perciò più cariche di volontarismo ideologico se la società nazionale globale, appare sottoposta attrazioni a spinte centrifughe assolutamente intollerabili, allora la pretesa di accedere direttamente alla morale comune si rileva un'operazione di intensa carica politica. Quando si ricorre ai principi e si fa appello ai diritti da parte di amministrazioni che strategicamente usano questi appelli per coprire scelte molto schierate di parte, non è il caso di evocare la razionalità pratica, la saggezza la ragionevolezza come se le decisioni prese emergessero dalla forza dei fatti.La critica, non significato pregnante del termine è frattura della compattezza esibite dalla scienza giuridica sul fenomeno giuridico. È dunque scomposizioni disvelamento, puntualizzazione del movimento volontaristico di potere, che sottende alla scelta giuridica. Critica è apertura del fenomeno giuridico per rendere visibili poteri, le passioni, le possibilità sempre nella ferma convinzione

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della necessità ed ineludibilità di queste correnti di potere di queste passioni. La scienza giuridica, fortemente tecnica, cogliere la strumentalità del diritto, nel momento stesso in cui non rinuncia ad affermare valori universali sempre in nome della presunta razionalità intrinseca della legge. "La legge è la legge", usa dire questa scienza del diritto, la cui ideologia è la tecnica del diritto, piuttosto che il diritto come tecnica. Sia che ci si riferisca alle norme particolari che agli enunciati costituzionali la legge non è niente se non un atto umano le molteplici significati da cui poter scegliere responsabilmente, nel senso di assumere una precisa responsabilità individuale,1 volere e un decidere.

I principi costituzionali

La costituzione non è principi e valori, nonché l'organizzazione strutturale di una comunità politica. Zagrebelsky afferma che è più facile paradossalmente fare una costituzione che cambiarla. Ed è così. In realtà la costituzione non nasce per regolamentare direttamente potere doveri, ma nasce in genere legata ad un evento in qualche modo grandioso, iniziale, di uno Stato, dopo la crisi bellica,1 rivoluzione: nasce come momento identificativo della comunità stessa che, simbolicamente, raccoglie le proprie parti disperse e si riconosce nella solenne dichiarazione. La costituzione sottratto il più possibile alla contrattazione al cambiamento quando infatti questa indisponibilità si ripropone nel modello nella forma delle dichiarazioni deliberate dall'assemblea costituente, l'enfasi della retorica servono ad occultare o a compensare la consapevolezza che nel testo intoccabile sacro, è stato comunque deciso dalla comunità politica costituente. Quest'ultima, spesso non è che la parte vincente del conflitto fonda tipo: solo con il tempo l'operazione di identificazione di appartenenza giunge a pieno compimento quando lentamente sfuma il risentimento per le lotte civili e le violenze che accompagnano quella vittoria si indebolisce il ricordo delle transazioni compromissorie alle spalle dell'accordo raggiunto nel testo costituzionale. Quando Zagrebelsky afferma che "in presenza dei principi la realtà esprime valori del diritto vale come se vigesse un diritto naturale", evidenziando la fattualità storica di un ethos condiviso che regola la coscienza giuridica di una comunità che diventa diritto ha ragione. Negli anni precedenti l'esplosione della globalizzazione della crisi dello Stato, i governi consociativi evitavano di parlare di costituzione tendevano a dare una interpretazione non conflittuale. Ma quando il ricorso al discorso costituzionale si è fatto pressante, sotto la spinta della necessità di rendere l'ordinamento adeguato alle nuove questioni, ed è diventata evidente che questo ricorso al dettato costituzionale dovrebbe dar luogo, come sempre si invoca, ad una puntuale legislazione che chiarisca, in modo concordato, come comportarsi normativamente, riducendo l'alea in argomenti che stanno profondamente a cuore cittadini, in verità la redazione di Lady su questi temi è diventata difficilissima punta ad ogni cambiamento di governo se una legislazione diversa. È proprio l'appello di Zagrebelsky , all'ancoraggio alla realtà che esige un'attenta valutazione del ruolo, non aggirabile, che principio di svolgono un diritto in precipitosa trasformazione.

Il riconoscimento

Ad una norma intesa come schema di identificazione comprensione non può che corrispondere la centralità dell'atto che la individuo come tale, il riconoscimento che non a caso occupa nelle teorie positiviste un ruolo chiave. La modalità con cui l'opera di riconoscimento di ciò che, socialmente è opportuno fare, è relativamente semplice, anche se le motivazioni possono essere plurime, sociologicamente e psicologicamente indagabile talvolta molto problematiche. Quando invece ci poniamo la nostra domanda a proposito della norma giuridiche dunque ci riferiamo a ad un materiale empirico tutt'altro che immediatamente leggibile chiunque risponderebbe che l'estrema laboriosità dell'operazione di rinvenimento della norma è indispensabile, perché è opportuno sapere tanto le procedure obbligatorie mediante le quali compiere le nostre azioni che abbiano rilievo giuridico (norme-potere), quando alle norme di condotta da cui trasgressione comporterebbe danno (norme-dovere). Collegare la norma alla dove recitava, almeno procedurale, e l'esigenza di conoscerla si inquadra nel riconoscimento dell'ordinamento valido perché efficace, capace di implementare le norme e in esso incardinate e dotate di coercibilità. Al riconoscimento si attribuisce quel significato di un atto di ricognizione, di conoscenza e di identificazione e i consociati compiono nella misura in cui a vario titolo partecipano ad azioni a valenza relazionale in una società che egli quelle relazioni organizza giuridicamente. Fermarsi a questo profilo conoscitivo dell'atto di riconoscimento non è esattamente la stessa cosa di quando diciamo che consociati riconoscono come obbligatori comportamenti e le decisioni che rinvengono delle norme di un ordinamento. Il riconoscimento, se è possibile, diventa un atto ancora più centrale per affermare il funzionamento del fenomeno giuridico. Il riconoscimento, inteso nel senso che risulta oggi più feconde più duttile, è l'operazione di carattere conoscitivo che individua la normatività di testi e documenti. L'atto di riconoscimento sottolinea l'accesso ad un codice comunicativo linguistico, quello del diritto, che fornisce a ciò che viene riconosciuto uno speciale rimando a qualche potere che si presumono si attende che potrà implementarlo. Sotto il profilo conoscitivo-comunicativo il riconoscimento fa da filtro, dunque l'accesso dei consociati ad un sistema giuridico, che non è necessariamente quel istituzionale statuale, anche se quest'ultimo resta comunque il più importante.

La decisione

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Catania nonostante abbia la consapevolezza della potente ripresa del ruolo della costituzione dei diritti quali portatori materiali di razionalità e valore e quali riferimento sostanziale e identificativo del diritto, è allo stesso modo consapevole che una norma intesa, invece come medium di comunicazione della do velocità di decisioni è interpretabile in modo radicalmente nichilistico. La assoldò della natura tecnica del diritto può infatti significare che "il diritto può avere qualsiasi contenuto",secondo un'espressione di kelseniana memoria, nel caso il perno centrale della sua strumentalità si sposta dagli eventuali contenuti materiale alla contingenza volontaristica della decisione che lo pone in essere alla mediazione normativa costituisce un potente a agente di razionalizzazione dell'importantissimo momento decisionisti. Che è come dire che le decisioni hanno bisogno di sottostare alla forma normativa per comunicarsi ed essere riconosciute. Non è possibile svalutare, svuotare completamente il medium della norma, come sarebbe assolutamente implausibile una valorizzazione del mondo normativo che rimuova la scomoda visione delle azioni umane. Catania propone una lettura che va dalla decisione alla norme di nuovo da essa la decisione. Una teoria che sottolinei la dimensione sociale della decisione, dimensione immediata dalla norma, promette tanto di essere rispettosa della realtà contingente è in volontaristica, quanto di rimanere ciò nonostante ancorata alla realtà sociale e pubblica, attraverso linguaggio dinamica delle riconoscimento, oggettivamente presenti in quanto riconoscendo la decisione come normatività giuridica, decidono di renderla diritto pienamente effettivo nel momento che ne esigono la prescrizione. Catania crede che si debba salvaguardare sia possibilità di soggetti che abbiano una distanza sufficiente dai condizionamenti per poter decidere, sia la natura comunicativa sociale che funge da limite alla contingente anarchia della decisione, sottoponendola.appunto alla relazionalità intersoggettiva. La decisione è un atto che discrimina tra alternative possibili e impegnandosi in una serie di esse. Non essendo possibile dedurre la scelta da principi trascendentali certi e fondarla sulla verità religiosa, etico scientifica, la decisione ricade completamente sull'atto umano, che se ne assume la paternità e la responsabilità.La decisione pur conservando il suo carattere di atto personale individuale, quando è pensata anche come comportamento, innanzitutto diventa possibile ipotizzare retroterra psico-esistenziali, probabilmente presenti ma troppo eterogenei per essere considerati motivazioni pregnanti ma soprattutto assume una natura sociale relazionale. Una decisione-comportamento diventa inoltre riferibile non più solo al gesto sovrano del potere ma anche più modestamente alle decisione di riconoscere e di aderire alle prescrizione di utilizzare potere strumenti da parte di tutti i consociati. Il modello anglosassone conferisce un ruolo assolutamente centrale alle decisioni delle corti e all'attività giurisprudenziale. Non a caso nella tradizione americana abbiamo teorie che hanno proposto l'identifica abilità del diritto attraverso la previsione del comportamento delle corte dei tribunali.

Il sovrano

La massima "auctoritas non veritas faci legem ", che apre nella modernità l'abisso in fondo dato della sovranità, disegno un uomo che, senza la guida di giudizi di valore, agisce sceglie degli obiettivi, vuole degli effetti. La decisione si insella nel cuore del diritto con la sua contingenza. Carl Schmitt enfatizza la contingenza assoluta della decisione, confrontandola polemicamente con il tecnicismo formalistico del diritto il quale adempie il compito di neutralizzazione della politica dunque la negazione del portato esistenziale conflittuale della decisione. "Sovrano e chi decide dello stato di eccezione". Con quest'espressione, Schimitt illumina l'origine fattuale del diritto e la annoda strettamente alla definizione del caos, della violenza eccezionale cui la decisione sovrana, sulla volta frammento del caos, pone fine. La decisione sovrana di Schimitt è in grado di raccogliere in sé una miriade di elementi che caratterizzano il fenomeno giuridico, non una sintesi chiarificatrice oscura ad un tempo. Il carattere ambiguo della decisione sovrana sta nel suo essere dentro in fuori del diritto. Si delinea sempre di più in Schimitt , l'attenzione all'ordine che nasce dalla scelta decisiva,1 ordine che corrisponde alla fine della lotta politica. La versione schmittiana dell'atto generativo del diritto gioca su dicotomie incompatibili: caos-ordine, normalità-eccezionalità, disordine-decisione, niente-totalità, infine anarchia-monopolio sovrano. Catania sottolinea il nesso profondo e costitutivo dei concetti di decisione di norma, perché la decisione del sovrano, per quanto possa essere unica e irripetibile, in quanto viene posta, assume la forma di modello di comportamento e dunque di norma: quella decisioni infatti, nell'atto stesso di porsi, esprime l'esigenza intrinseca di vedersi riconosciuto come decisione sovrana. Presume la possibilità di essere verificate, effettuata, in una serie infinita di atti di riconoscimento.

La governance

La governance si esplica oggi come intervento mirato ed operato da più attori, sia governativi che non governativi. Essa è parte della programmazione negoziata tipica di paesi democratici ed industrializzati nei quali la cooperazione coattiva fra i diversi soggetti ha portato ad importanti risultati al livello regionale ed insieme nazionale. La governance infatti contempla un alto grado di democraticità ed è vista come il paradigma di organizzazione strutturale della politica odierna da parte di numerosi capi di stato sia europei che extraeuropei. In Italia, particolarmente la governance ha trovato spazio nei vari strumenti di nuova programmazione negoziata economica regionale (ma anche nazionale) come il patto territoriale (più spesso abbreviato in p.tr.) o il contratto di programma soprattutto negli ultimi anni. Quello della Governance è un concetto maturato nell'alveo della cultura Inglese e Statunitense, il quale ha successivamente trovato applicazione nelle politiche pubbliche ed economiche di numerosi stati a regime di economia di mercato. Il termine Governance è l'evoluzione del concetto di "Government", termine che richiama un tipo di azione

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intrapresa dallo stato centrale con poca possibilità di mediazione delle scelte gestionali politico-economiche da parte di terzi. Storicamente, lo stile del "government" è stato adottato da quei paesi dove lo stato operava in maniera centralizzata e più in generale tale modello ha rispecchiato, soprattutto in epoca contemporanea, lo stile delle politiche statali dei paesi in cui veniva dato poco spessore ai soggetti economici privati Le politiche di governance nascono soprattutto dalla constatazione dei limiti che uno stato incontra quando il potere pubblico è nelle mani di un solo soggetto, che in piena solitudine realizza scelte "immediate" e spesso poco efficaci a lunga scadenza. Si può perciò affermare che lo stile del government è stato adottato soprattutto in quei paesi a regime di economia pianificata o socializzata come l'ex U.R.S.S. Il modello del government infatti ricalca pienamente le modalità d'azione del soggetto pubblico tipiche del marxismo ortodosso. La governance invece potrebbe essere rapportata (con un po' di cautela) alle teorie dell' homo economicus le quali aprirono la strada all'economia di mercato tipica dei paesi a regime capitalistico. La Governance, da questo punto di vista, intende superare l'ottica del government, dal momento che la prospettiva del potere pubblico è demandata a più soggetti

La lex mercatoria

La rivoluzione capitalista dettata dalla globalizzazione,ridefinendo i rapporti tra la politica e l'economia,ha favorito il sorgere di un fenomeno giuridico oggettivo non statale ma sovranazionale,riconosciuto ed applicato dai privati,quale la LEX MERCATORIA. La lex mercatoria è un sistema di norme e regole di tipo consuetidinario,nate in forma spontanea tra gli appartenenti a determinati settori commerciali ed avente per scopo la fissazione di regole certe al fine di evitare controversie legali. La lex mercatoria,quale "diritto transazionale delle transnazioni economiche",è il più riuscito esempio di diritto globale senza Stato. La lex mercatoria nasce nel medioevo per regolare i rapporti commerciali dei mercanti con la finalità di derogare al diritto civile e,quindi,al diritto romano che non era più in grado di far fronte alle nuove istanze internazionalistiche del mondo mercantile. Tuttavia,sebbene la nascita della lex mercatoria sia fatta risalire al periodo medievale,la stessa ha origini più antiche posto che la società(gli uomini)ed il commercio sono elementi permanenti e necessari allo svolgimento della vita sociale. Il caso della lex mercatoria è significativo infatti essa pur ribadendo la stretta connessione storica di mercato e diritto moderno,propone un modello giuridico flessibile che cerca sì la certezza giuridica,ma guarda con profonda diffidenza alla sovranità e al codice dell'obbedienza,attratto piuttosto dall'auto-obbligazione per convenienza e dalla norma potere.

La norma

Il nostro ragionamento muove da quel fenomeno giuridico è potremmo chiamare dispositivo, riferendosi soprattutto ad una costellazione di elementi più o meno coordinati che convergono per ottenere un certo effetto, per essere efficace nel determinare stabilizzare modificare la realtà. Muovere dalla costellazione del dispositivo piuttosto che da elementi più formalizzati, più giuridici dello stesso, si permette di ricomprendere tutta la nuova gamma di forme giuridiche che arricchisce il diritto oggi, mettendone in crisi la considerazione tradizionale. Solo a partire dalla complessità del dispositivo è possibile fare emergere le categorie che possono guidarsi a comprendere meglio la mutazione attuale del fenomeno giuridico: la norme la decisione. Nel tentativo di afferrare la trasformazione del diritto contemporanei in modo da rimanere fedele alla sua concretezza, autore ritiene che alcune di queste distinzioni possono essere poste in modo sfumato e apparire come dimensioni diverse di un'unica azione di identificazione del giuridico, la quale non può essere ridotta al momento descrittivo come se si trattasse esclusivamente di presentare la massa dei dati giuridici rilevante al fine di renderla utilizzabile funzionari, gli avvocati, ai giudici o da parte di chi essendo soggetto al diritto vigente deve riconoscerlo per manipolarlo per motivi professionali o personali. Non si tratta solo di descrivere ma di utilizzare una logica del interpretazione. Operare su quel materiale facendone emergere le norme significa interpretare. La scelta della logica ermeneutica dell'interpretazione del materiale giuridico è spinte esattamente dalla prassi giuridica attuale, sempre meno distintamente articolata tra momento conoscitivo e momento pratico, dalla commistione di fatto tra diritte dei etica, dall'ingresso prepotente delle etichette valori, soprattutto come effetto della globalizzazione, nel disciplinamento politico-giuridico delle azioni umane. La prassi giuridica contemporanea si apre sempre più spesso al ricorso a norme extra giuridica di natura morale, facendone derivare conseguenze giuridiche. È chiaro che l'attività ermeneutica sui principi che si presume siano sottesi al sistema nel suo complesso, appare preponderante decisivo. L'analisi dell'autore, della logica ermeneutica della razionalità pratica, che evince dal contesto culturale le coordinate per fare emergere enorme è intenzionata sottolineare il carattere non induttivo dell'operazione che gli interpreti-ermeneuti compiono alla ricerca delle norme. Se è vero che l'operazione non è riconducibile alla logicismo deduttivo, essa però non si limita ad indurre dal contesto culturale ed etico principi generali che vi sarebbero emersi, contiene invece potenti iniezioni di volontà creative creatività significa apoliticità. Per la logica deduttiva è possibile dedurre ha sistematicamente da un insieme finito di enunciati assiomatici di base, la totalità delle conseguenze. Una serie di

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considerazioni realistiche inducono a pensare che oggi questo processo di assiomatizzazione e di deduzione sia incapace di afferrare la complessità del diritto attuale. Basti pensare alla caduta del presupposto che viene annunciato come condizione primaria di questo genere: la finitezza del sistema, che oggi viene smentita dall'indeterminatezza è apertura indefinita del giuridico. L'autore ritiene che la logica deduttiva ha, ma importante vantaggio di riconsiderare normativi per gli enunciati che connettono un caso ad una soluzione, cioè quelli enunciati che connettono ad una norma una decisione una conseguenza normativa. Non va fatto l'errore di considerare questo ragionamento deduttivo come predeterminate meccanico nei risultati. La deduttività non significa meccanicità, perché sarebbe tale solo se esistessero procedimenti che determinano il modo univoco passaggi conoscitivi assoluzioni decisionale. Nel processo di individuazione di una norma partire dagli enunciati dai testi ci sono momenti di ragionamento deduttivo è certamente va mantenuta un'implicazione logica quando si mettono in relazione le premesse con la conclusione, ma l'attività interpretativa che mette in evidenza principi generali impliciti, è tutt'altro che meccaniche, densa di creatività e immaginazione. Questo non significa che ciascun operatore del diritto, nel compierla, crea nuovi enunciati normativi gratuiti significa piuttosto della conoscenza stessa, l'approccio logico non è puramente descrittivo mai denso della dimensione innovative politica.

La razionalità

Per Catania è indispensabile poter isolare le istanze conoscitive da quelle pratiche. È altrettanto necessario riconoscere che la tesi che il diritto rimanda ad una razionalità pratica di tipo ermeneutico non solo ha una tradizione importante alle spalle e può essere pensata come originata dalla stessa prassi tradizionale dei giuristi, mai pensabile che sia particolarmente adeguata cogliere lo spirito di un diritto, come quella attuale, così fluido, indefinito, continuamente espansivo, vivente nel senso di vitale. Al contrario, la tesi kelseniana che ha afferma la possibilità di una interpretazione autentica totalmente svincolata dal contesto normativa, mette a nudo in modo assai evidente il ruolo che tipo è dunque politico del giudice l'interprete del diritto. Risalta con maggiore evidenza l'interposizione autoritativa (politica) che in tutti i gradi dell'ordinamento di non potere decisionale attivo. Hart, parla dell'apertura del sistema l'interpretazione. Ma il presupposto di un'operazione interpretativa, creativa e autoritaria, sta esattamente nella possibilità di tenere distinte il momento della pura e semplice identificazione conoscenza del diritto da quello dell'appartenenza consensuale al suo mondo normativo. Catania, invece, tende a sollevare il problema delle implicazioni che una visione poco nitida del momento conoscitivo anche un' abdicazione a conoscere e identificare il diritto in modo separabile dal momento della sua attuazione e implementazione, comporta: il problema del prezzo in termini di politica della decisione stessa, perché non è affatto vero che nella visione pragmatica la politica non ci sia. Ci sono proposte nelle diatribe tra razionalità pratica di ermeneutica e quello logico-conoscitiva. Si tratta di posizione di positivismo debole o di apertura debole al neo-istituzionalismo, della coerenza del sistema viene individuata allora livello di principi morali né a livello della meccanica delle norme, ma ad un livello istituzionale: istituzioni, realtà di fatto capace di aggregare stabilizzare l'estrema flessibilità ideologica e valoriale del diritto.

Norme di sapere

Il carattere della normatività sta nella pretesa attribuita all'enunciato normativo di essere seguito da una conseguenza, pretesa cui corrisponde l'aspetta, credenze di cui si aspetta quella conseguenza. La verifica fattuale sfugge alla considerazione logica e dentro nell'indagine fenomenica e pratico-empirica. Kelsen un'importante distinzione tra la norma intesa come proposizione normativa (enunciato), la norma intesa in senso stretto. Mentre norme giuridiche sono prodotte applicate dagli organi giuridici e devono essere rispettati dai soggetti giuridici, le proposizioni sono giudizi ipotetici quali affermano che devono aver luogo certe conseguenze previste dall'ordinamento giuridico in questione. In questo modo si articoli si distingue momento conoscitivo-riflessivo da quello funzionale e deontico. L'approccio conoscitivo molto alla proposizione o enunciato normativo è presente in modo simile sia pure con gradi diversi di conoscenza anche nell'attività di ciascun consociato circa il diritto. Ciò significa che non è possibile attribuire al discorso della questione scienza giuridica una natura differente dal discorso di qualunque consociato che si ponga la questione di cosa sia il diritto. Naturalmente questa estensione dell'attività di identificazione del diritto attraverso le norme dunque l'interpretazione degli enunciati normativi in modo da evincerne norme, non toglie nulla del riconoscimento della specifica funzione dei giuristi. Il diritto è opera dei giuristi che, avendo un formidabile ruolo di supporto tecnico dell'esercizio del potere, hanno operato per conferire al potere stesso la sua forma razionale, la quale non può che essere forma razionalizzata, che cioè conferisce comprensibilità è prevedibilità a contenuti che solo talvolta hanno uno spessore di piena giustificazione alla cultura di un popolo. La norma nasce per trasformare decisioni più o meno volontaristiche del potere il modello comportamentale. In una situazione molto diversa come quella attuale, storicamente mista di fronte alla contingenza di eventi imprevisti di eccedenze contigue rispetto alla normalità del diritto, assistiamo ad una superficialità azione di accordi negoziale di un'effervescenza autoreferenziale del diritto. Il mercato globalizzato e l'affermazione della sua deregulation, ha dato vita all'attivismo negoziale contrattuale più ampio, sotto il segno del privatismo e dell'autoregolazione. Ci si riferisce inoltre anche all'effervescenza di strumenti regolative che si intrecciano nelle esperienze di governo, tra strutture regionali e sopra nazionali.. Dunque agire significa conoscere e io utilizzare il mondo di queste norme numerosissime, settoriali, spesso contraddittorie delle quali quasi

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sempre, alcune si aggirano per conseguire le altre. Deve accompagnarsi alla prese di atto della spinte di socializzazione forse di democratizzazione che un modello come quello cui si riferisce l'autore potrebbe aprire, si fa problematica proprio quando si considera il crescente potere di questa mediazione effettuale.

Norme-dovere

La norma è sempre da collegarsi al comportamento umano: la natura dell'enunciato normativo sta nel suo riferirsi a conseguenze fattuali, per modificare l'esistenza o per mantenerlo. Dunque la norma si correla ai comportamenti, al mondo delle azioni con la pretesa di influenzarli. Lo stesso termine norma ha in sé una ambivalenza su tutti processi che vogliono evidenziarla. Norma, normale, normalità indicano una regola immanente alle cose. La parola di uso assolutamente banale e non problematico, viene adoperata per designare ciò che viene considerato conforme alla media e normale il comportamento conforme. Ma norma e normatività sono anche, contemporaneamente la dimensione del dover essere, il criterio di giudizio di valutazione che, rispetto all'essere, comportamenti o fatti, indica la loro maggiore o minore distanza dal giusto, dalla legale, dal comportamento moralmente o giuridicamente stabilito come corretto dalla legge. Una doppia valenza dunque, immanente trascendente, interna all'andamento della realtà sociale e sempre già in atto, è esterna in ma è realizzata pienamente. Ovviamente non si tratta di due significati veramente estranei l'uno all'altro. Come ci insegna Aristotele, il socialmente giusto è la media delle norme comportamentali diffuse in un gruppo sociale, oppure giusto è quanto il più ritengono essere sociale si fanno norma, influenza ne condizionano comportamenti futuri, sanzionano socialmente le condotte devianti. La tradizione trascendentalista kantiana, invece, affida la norma uno status totalmente altro da quello delle regolarità comportamentali rilevabili nelle condotta delle persone che appartengono ad un gruppo sociale. Due gli elementi significativi: l'impossibilità di trasgredire la legge (che è sottratta alla violazione al mutamento) implica che il suo i dettami comportamentali siano le norme di comportamento di fatto adottate in modo irriflesso e tradizionale dai membri del gruppo. La sacralità indiscussa indiscutibile, della legge stessa, la sacralità che viene mediata dai sacerdoti, dagli sciamani, dal pontifex-rex, che la conoscono e la agiscono loro con un'autorità che non proviene da se stessi. Questo tratto autoritario, sacrale e indisponibile della lite, si lega strettamente al identificazione politica del gruppo e non metta al sicuro da spinte autodistruttive.

Ordinamento ed organizzazione

L’ordinamento si installa concettualmente nella dicotomia sovranità/anarchia così come pensata, da Hobbes e non possiamo non osservare la trasformazione e l'erosione interna di questa dicotomia. Nello Stato moderno, il modello era costruito sul comando del sovrano e l'obbedienza del suddito: ancora nell'800, nel mondo anglosassone, la teoria più famose seguite nel mondo giudiziario era quella di John Austin, il quale definisce il diritto come complesso di ordini sostenuto da minaccia, emanate dal sovrano abitualmente obbedite. Oggi l'organizzazione diviene elemento centrale del fenomeno giuridico. Già nel 900 l'organizzazione ha rappresentato prime il cuore dello stato totalitario, poi l'essenza del walfare state . Ovviamente con accenti finalità profondamente diversi. E però, mentre l'anima organizzativa del walfare e dello stato totalitario è compatibile e anzi fortemente commessa con la riaffermazione della capacità di indirizzo politico e quindi con la prevalenza delle norme di condotta, oggi, nell'attuale crisi dello Stato, che assiste alla recessione delle categorie direzionali e orientative della condotta, compatibili con un'organizzazione verticistica e meccaniche e attualmente ridotta leggi quadro di semplice coordinamento dei poteri. Crescono invece le categorie immanente al sistema organizzativo, soprattutto di carattere procedurale che significa riconoscimento di potere attivi e sociali. L'organizzazione guarda dall'esterno, osservato sociologicamente nella sua complessità, apparirà sempre con un sistema autoreferenziale che ha eliminato il conflitto. Ma se si assume le prospettive interna l'organizzazione, sarà evidente che le parti possono essere state condotte alla cooperazione in modo da avvertire il profilo della normatività, vale a dire la richiesta di conformarsi a modelli di comportamento sui quali eventualmente non erano d'accordo. In secondo luogo, le redazioni hanno caratteri di auto-obbligazione dei partecipanti; questo rende plausibile la forma di autoregolazione dei fatti economici.

Le norme-potere

La tradizione che potremmo chiamare norme-potere fa perno su una società di individui interessati all'esercitare poteri. Si tratta di soggetti assai recalcitranti a identificarsi modelli di condotta comune, giustamente decise far valere valori differenziale quindi spesso conflittuali, e dunque, quando ne sono tecnicamente capaci, decisi ad usare il diritto direttamente. Risulta fertile l'avere preso le mosse dalla coppia norma-decisione piuttosto che dall'ordinamento. Anche quest'ultimo, oltre ad essere una forma principale del diritto moderna, rimane la condizione di efficacia delle norme che gli appartengono, è sempre più necessario dare rilievo all'esistenza di norme-ordinamentali e di forme di relazioni giuridiche che il diritto moderna avrebbe difficoltà a riconoscere

Norme che conferiscono potere

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Verso le norme organizzazionali il solo con Hart si comincia a manifestare un vero interesse, dal momento che si coglie, nella direzione usata dal filosofo inglese, norme che conferiscono poteri, la irriducibilità ad elementi sostanzialmente funzionali alla costruzione del sistema di deleghe autorizzazioni in un ordinamento sovrano. Anche Kelsen lucidamente vedeva nel passaggio da 1° successivo della piramide strutturale la possibilità che, da un punto di vista contenutistico, mi fossero interpretazioni creative, dunque, anche totalmente sganciate dalla norma di grado superiore, ciò nonostante la sua rappresentazione strutturale rimaneva formalmente meccanica, perché queste innovazioni-invenzioni contenuti in stile non venivano ad intaccare la stabilità della struttura di deleghe di poteri decrescente. Alle spalle di Kelsen c'era una logica di un modello di scienza che coincideva con le scienze naturali.

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