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Maddalena Monari Io e il tuo corpo Il Metodo Monari Come ripristinare una continuità interrotta dai blocchi muscolari I

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Maddalena Monari Io e il tuo corpo Il Metodo Monari Come ripristinare una continuità interrotta dai blocchi muscolari I

III Maddalena Monari

Io e il tuo corpo Il Metodo Monari Come ripristinare una continuità interrotta dai blocchi muscolari tecniche nuove

Foto in copertina: Eugenio Bersani Foto: Cantarelli Sergio Walter Dal Pesco Disegni: Lorenzo Pallotti Stampa: Polver, Milano Finito di stampare nel mese di settembre 1996 Printed in Italy IV

a Margherita V

Indice Introduzione..............................................................................1 Ringraziamenti..........................................................................7 Capitolo 1................................................................................... 9 Sicurezza e barriera: la tecnica per un fisioterapista...........9 Capitolo 2.................................................................................17 Un incontro importante......................................................... 17 - Françoise Mézières............................................................... 17 - Il corpo e le emozioni...........................................................21 - Quando incominciamo a difenderci..................................23 - La rimozione..........................................................................25 - Educazione e rieducazione..................................................27 - Il mio giardino.......................................................................33 - Bambini in punizione...........................................................38 - I danni del nuoto...................................................................42 Capitolo 3.................................................................................52 Il metodo Monari.................................................................... 52 - Formazione dei gruppi........................................................55 - Lavoro a raggiera - prima fase...............................................61 - seconda fase............................................63 - terza fase.................................................64 - quarta fase..............................................66 - Esempio di una seduta - Lavoro sui glutei........................71 - Recupero della propria morbidezza...................................87 - La forma perfetta...................................................................89 Capitolo 4..................................................................................92 Il fisioterapista - primo anno....................................................92 - secondo anno..................................................93 - terzo anno......................................................94 - La vergogna...........................................................................100 Capitolo 5................................................................................ 116 - La formazione.......................................................................116

- L’importanza della voce......................................................118 - L’importanza del contatto...................................................119 Conclusioni.............................................................................121 Incontro con il metodo Monari..........................................123 (racconti di alcuni allievi) Capitolo 6................................................................................124 - Rividi quella bambina al mare (Lilia Collina)............................................................................124 - Un passato da "piccola ginnasta", poco convinta (SandraBrusa)...............................................................................134 -Il ruggito ritrovato.................................................................134 - Riscoprire i bambini e incontrare il bambino che è in me .......137 - Ho trovato dei compagni di viaggio (Silvia Camin)..............................................................................................141 - La gioiosità della bambina di un tempo (Roberta Gravano)......................................................................................151 - Il piacere dell’esprimersi nella vita come nell’arte (Carlo Mazzoli).........................................................................163 Le cose buttate "dietro le spalle" (Grazia Carboni).......................................................................176 - Lei era li, dalla mia parte (Anna Maria Cerioni)...............................................................179 - Storia del mio incontro con il metodo Monari (Marcella Ruocco).....................................................................190 - Ho iniziato a scegliere e a decidere per me (Filomena D’Ambra).................................................................197 Bibliografia.............................................................................208

Introduzione Il bambino non amato, non rispettato e maltrattato è destinato a diventare un adulto violento. Dimenticare per sopravvivere è l’unica operazione che è costretto a fare. Questa rimozione sarà la cecità che gli permetterà di infliggere ai suoi figli e alle persone più deboli di lui le stesse torture. In nome dell’educazione verrà restituito ai figli tutto il maltrattamento ricevuto. Nel silenzio della famiglia, nel silenzio della società questi crimini si ripetono ogni giorno. Questo è ciò che da anni Alice Miller sostiene con forza e coraggio nei suoi libri mettendo in discussione pilastri storici come l’educazione, le punizioni inflitte ai bambini, il rispetto per i genitori, anche se maltrattano, picchiano e minacciano perché lo fanno per il bene dei figli. Secondo l’autrice solo i genitori che hanno conosciuto l’amore possono amare ed ascoltare i loro figli, chi è stato maltrattato potrà dare solo ciò che ha conosciuto, a meno che non riesca a ricordare e, con fatica, a ritrovare il dolore sepolto subìto da bambino, facendo riaffiorare i propri bisogni per comprendere i bisogni dei propri figli, bisogni che in nome dell’educazione e della pedagogia sono stati soffocati. Ricordando e rompendo la complicità con i genitori e con i loro alibi educativi un figlio maltrattato può diventare un buon genitore. Educazione, regole, ordine, limite, esagerazione. L’infanzia di un bambino è assillata da queste parole, la sua pelle, i confini del suo corpo sono impregnati di tutto ciò che non può fare e di come deve comportarsi. Il bambino appena nato, non solo viene battezzato per togliergli il peccato originale, ma lo si continua a considerare una forza ribelle che deve essere instradata per la società futura. L’educazione madre sovrana fa da padrona su ogni sensazione, emozione, espressione che il bambino tenta di manifestare. Inoltre una serie di sciocche convenzioni vengono spacciate per regole. Le convenzioni sono in realtà estremamente limitanti per la personalità di un bambino. Si parla di limite, di ordine precostituito, di compostezza a un bambino di pochi anni, gli si insegna a non parlare e a stare composto a tavola, a masticare con la bocca chiusa, a non appoggiare i gomiti sul tavolo, a non alzarsi fino a che tutti non hanno finito di mangiare, a non litigare con i compagni, a essere gentili con il prossimo. Spesso tutto questo viene smentito dall’esempio che danno i genitori. Sono pochi gli adulti che a tavola non parlano e sono composti,che non litigano, che sono sempre gentili, che non esagerano, soprattutto quando picchiano i loro figli. Non urlare e non picchiare sono le prime cose che un genitore

smentisce davanti a un figlio, quando urla contro di lui o quando gli dà una sberla per il suo bene affinché impari l’educazione. Altra cosa che il bambino deve capire molto bene sono i limiti. Limiti che vengono dati verbalmente e che contrastano con il comportamento assolutamente senza limiti che il genitore ha sul bambino. Come l’educazione offre l’opportunità di non entrare in contatto con i bisogni del bambino e di sfogare i maltrattamenti subiti, così la rieducazione dà la stessa opportunità. Dal 1973 sono una fisioterapista o meglio una terapista della riabilitazione; il mio lavoro è quindi quello di riabilitare e di ri-educare un corpo che ha interrotto le sue funzioni. Al pari dell’educazione le tecniche ri-educative evitano di ascoltare i bisogni e le sofferenze, evitano soprattutto di ricordarci la nostra sofferenza. Al pari dell’educazione la ri-educazione autorizza a dare consigli, a sgridare, a imporre la propria volontà; al pari dell’educazione la ri-educazione dichiara spesso «tutto questo male è per il tuo bene». Mi sono resa conto che un terapista che è stato un bambino maltrattato, non ascoltato, limitato nelle sue espressioni creative, nel suo movimento, ed ha accettato tutto questo piegandosi all’educazione non può essere che sordo di fronte ai bisogni dei suoi pazienti, non avendo nessuna conoscenza dei propri bisogni e desideri, nessuna conoscenza delle leggi del corpo, il suo e quello degli altri, ma solo di un insieme di tecniche. Come spesso un genitore attento può imparare dai suoi figli, così un fisioterapista a conoscenza delle leggi del corpo, dei bisogni, dei desideri, delle emozioni del corpo, può imparare dalle richieste dei suoi pazienti. Nella persona ammalata si è spezzato un falso equilibrio, c’è una richiesta di aiuto, un antico bisogno non può più essere soffocato, un’antica voce non può più tacere. Ha il diritto di essere ascoltata. Non può essere, con l’alibi della tecnica, di nuovo chetata e ricondotta al silenzio. Per terapisti e medici questo silenzio è prezioso, copre il segreto del loro dolore; la voce, il suono della verità è minaccioso e fa molta paura. Ma questa paura non giustifica l’opera di distruzione che medici e terapisti fanno sui malati. Molto spesso è vergognoso come vengono trattate persone che hanno bisogno di aiuto. Occorre rivedere la propria storia e le sofferenze vissute per evitare, come succede in molte palestre di fisioterapia, di toccare con distacco e indifferenza il corpo già sofferente di un malato, parlando del più e del meno con i colleghi. Io e il tuo corpo. Questa è la domanda che per tanti anni non ha trovato risposta in nessun insegnamento appreso. La risposta l’ho trovata nelle mie sofferenze, nelle carezze ricevute, nel dolore per ciò che è mancato al mio corpo, nei momenti di passione che ha vissuto. In un paesino di montagna ho vissuto un’esperienza di cui ho ancora un ricordo preciso che si è fermato nella mia mente come il momento di passione più profondo della mia vita. Senz’altro ci sono stati altri momenti altrettanto forti e profondi ma questo è stato il primo incontro, la prima conoscenza con il sentimento della passione. Nei primi anni di vita i bambini fanno moltissime scoperte, tante in pochi anni. Le numerosissime esperienze che si fanno da piccoli non si faranno in venti-trent’anni di vita adulta. Scoprire il bisogno, la rabbia, l’amore, la libertà, l’odio, il movimento, il contatto con gli altri, la lettura, la scrittura. Sono anni che se lasciati vivere sono i più carichi di emozioni e sensazioni

di tutta la nostra vita e possono trasformarsi in una sofferenza senza pari se ostacolati nella loro evoluzione. Crimini non puniti perché sono protetti dall’educazione. Mi trovavo a Barigazzo in vacanza, avevo sei anni ed avevo fatto amicizia con un bambino di un anno più grande di me. Giocavamo tutto il giorno e ci rotolavamo nei prati, mi faceva sempre ridere ed ero sempre eccitata. Un pomeriggio mentre i miei erano a dormire litigammo violentemente, fu una lite che ci portò a fare a botte. Stavamo lottando uno addosso all’altra quando guardandolo incominciò a battermi il cuore fortissimo. Sdraiata sul prato e lui sopra di me mi teneva le mani, la lotta era finita ci guardavamo fissi negli occhi, lui era rosso in viso, più lo guardavo e più mi batteva il cuore. Ad un tratto ho sentito un grido e ho visto mia madre che correva verso di noi e per paura che ci facessimo male si avvicinava per separarci. Non ricordo nessun trauma, solo dispiacere. Per fortuna mia madre non arrivò prima; ho avuto così il tempo di sentire quella emozione, forte, violenta, appassionante, che mi veniva da dentro. Prima di allora ignoravo che a un corpo potesse succedere tutto questo, ignoravo che la vicinanza con un altro corpo che avesse una pelle che emozionava la mia potesse scatenare una forza così grande. Senza colpa e con un po’ di nostalgia per essere stata interrotta ho tenuto questo piacere sulla pelle, negli occhi, nel cuore ed anche oggi vive con me e mi supporta in ogni esperienza di passione senza che ne abbia paura. Se mia madre invece di separarmi e mostrare la sua preoccupazione mi avesse sgridato, fatto sentire colpevole, avrebbe interrotto e bloccato probabilmente ogni mia passione futura, o probabilmente l’avrebbe compromessa lasciandomi una relazione fra la passione e la colpa. Questa mia prima bellissima esperienza avrebbe avuto come iter: passione, colpa, dolore. Dal mio comportamento nella vita mi rendo conto che in altre occasioni, e molte le ricordo, sentimenti affiorati per la prima volta sono stati colpevolizzati, soprattutto la rabbia, e questo mi ha portato con grande sofferenza e un profondo lavoro sul mio corpo a rompere, e non sempre mi è facile, l’abbinamento: rabbia-cattiveria. La strada per vivere bene e appassionatamente nel proprio corpo è una strada lunga e fatta di ricordi dolorosi e gioiosi. Per poter entrare in contatto con un altro corpo è importante iniziare questo percorso. Rompendo la complicità con l’educazione e con la ri-educazione un tecnico della riabilitazione può diventare un terapista.

Ringrazio: Laura Galli, Roberto Del Signore, Paolo Flaviani. Antonia, Paola, Bruno, Fosco, Maurizio, Laura B., che sono stati quindici anni fa i miei primi compagni di viaggio in questa avventura. Ognuno di noi oggi ha preso la sua strada, ma restano il ricordo e il piacere dei momenti passati insieme. Un ringraziamento a tutti i miei allievi e in particolare a Luciana Giacometti, la mia prima allieva.

Capitolo 1

Sicurezza e barriera: la tecnica per un fisioterapista

Quando ho iniziato la scuola di fisioterapia non sapevo cosa mi aspettava. Ricordo che la prima sensazione avuta in ospedale, dove aveva sede la scuola, è stata di grande tristezza e paura. Ero molto preoccupata dal contatto con i malati e tentavo di rassicurarmi pensando che le cause erano la mia inesperienza e la mia poca familiarità con l’ambiente. I malati che si aggiravano per l’ospedale mi davano l’opportunità di sentirmi sana e questa differenza calmava la mia paura. In effetti con gli anni di studio la tecnica appresa su come curare i malati, come toccare i loro arti, il loro corpo, mi rassicurava, separava le mie emozioni dalle loro, separava qualsiasi contatto. Più che come strumento di cura serviva come barriera di comunicazione. Io ero quella che sapeva e loro i malati, c’era la mia professionalità e il loro bisogno. Finita la scuola fui assunta dall’amministrazione comunale per operare negli ambulatori di quartiere. Iniziai il mio lavoro di riabilitazione con i bambini cerebrolesi. Le tecniche di recupero per i bambini cerebrolesi erano molte e una diversa dall’altra, ma tutte avevano in comune lo stesso modo di trattare il paziente e una visione settoriale del suo corpo. Il tendine di Achille del bambino era retratto, occorreva operarlo; i piedi erano equini, bisognava mettere un apparecchio; la schiena si curvava, lo si metteva sul tavolo da statica: per ogni problema c’era un rimedio. Qualche esperto consigliava scarpe ortopediche ben rafforzate, qualcun’altro di lasciare il piede completamente libero, altri ancora studiavano vari tipi di carrozzelle, altri erano sempre per intervenire chirurgicamente. Ricordo l’operazione di un bambino al tendine di Achille, ai muscoli flessori ed adduttori, un’operazione molto lunga che richiedeva sei tagli e non poteva essere eseguita da un unico chirurgo. Due medici infatti lavoravano contemporaneamente, uno sulla gamba destra e l’altro sulla sinistra. Questa operazione, che in teoria doveva essere fatta dal primario, il quale entrò in sala operatoria ma uscì dal retro, venne compiuta da due suoi assistenti.

Dopo qualche ora di lavoro non si trovarono d’accordo sul tipo di allungamento da fare ai muscoli adduttori ed ognuno di loro, dopo aver discusso, rimase della propria opinione. Il risultato fu che la gamba destra venne operata in modo diverso dalla sinistra. Ero sconvolta, ma mi sentivo impotente, il bambino era sotto i loro ferri e non potevo rendere la situazione più tesa discutendo a mia volta. Inoltre non sapevo quale dei due avesse ragione; sentivo anche la loro disperazione, ognuno dei due era veramente convinto che l’altro commettesse un grave errore. Ero decisa a denunciare il primario, ma nessuno mi avrebbe ascoltato. I medici non avrebbero tradito il loro professore, avevano tutta una carriera nelle sue mani, e nessuno dall’esito dell’operazione poteva confermare le mie accuse, dato che ogni muscolo può rispondere in modo diverso all’intervento. Quindi anche se le operazioni fossero state fatte nello stesso modo, ugualmente si potevano verificare esiti diversi. La differenza degli arti inferiori non sarebbe stata la prova di un errore, ma una risposta non ottimale del paziente all’intervento. Anche se con sempre maggiori perplessità, cercavo di scegliere, fra le cose che imparavo, la tecnica che mi pareva migliore, ma quando vedevo i bambini che avevo in cura, e per un attimo li sentivo uguali a me con l’unica differenza che io camminavo e loro non avevano sperimentato questa possibilità, sentivo di nuovo la paura e l’impotenza. Tutto il mio impegno era nel cercare di essere sempre più brava, imparare nuove tecniche per migliorare la salute dei miei piccoli pazienti, volevo farli migliorare ad ogni costo ed esigevo da me e da loro un grande sforzo. Fu allora che decisi di seguire un corso di psicomotricità e per la prima volta lavorai sul mio corpo. Il corso era di un week-end al mese per la durata di due anni. Il gruppo era formato da dodici persone. Dopo aver detto il nostro nome ed aver fatto conoscenza reciproca, tra le prime proposte che ci vennero fatte mi colpì maggiormente quella di muoverci ad occhi chiusi esplorando la stanza, gli oggetti, le persone. L’emozione più forte fu conoscere gli altri tramite il tatto. Persone che prima avevo trovato simpatiche o antipatiche, con cui ero disposta a familiarizzare o meno, ora ad occhi chiusi mi comunicavano sensazioni completamente diverse. Ne percepivo la rigidità e la morbidezza, e nella stessa persona sentivo parti più calde, più ricettive e parti più rigide e chiuse. Non avevo mai ascoltato così i miei piccoli pazienti, conoscevo molto bene la loro patologia ma non loro. Sentivo per la prima volta anche il mio corpo, capivo dove mi era più facile essere accogliente e dove mi era impossibile, sentivo il rischio e la paura quando tentavo di spezzare alcune mie rigidità. Ero di fronte alle mie capacità ed alle mie impotenze. Intuivo come alcune simpatie ed antipatie nei confronti degli altri fossero legate alrifiuto o all’accettazione di me. Incominciavo anche a pensare cosa volesse dire fare la fisioterapista senza una barriera professionale, barriera che però non impediva la trasmissione di ogni rifiuto che provavo per il corpo del paziente o per alcune parti di esso, ma semplicemente serviva a colpevolizzarlo accusandolo di non essere ricettivo alla terapia. Durante il corso ci fu un’altra proposta che mi mise di fronte a questo problema. Era un lavoro a coppie, uno doveva tentare di sciogliere le rigidità dell’altro. Ogni giorno, nel mio lavoro, mi trovavo di fronte a questo compito ma in quell’occasione non c’erano tecniche da usare e per ammorbidire il corpo del mio compagno avrei dovuto ammorbidire anche le mie rigidità.

Tentai di seguire il suo ritmo respiratorio ma ben presto mi accorsi che mi irritava la velocità del suo respiro. Come avrebbe potuto rilassarsi se respirava così? Come avrei potuto rilassarlo se respirava così? Mi sentivo impotente, non accettavo di fallire, di non riuscirci. Anche mia madre non aveva mai accettato che io non fossi brava a scuola; mi venne una gran tenerezza per quella bambina ed istintivamente presi la mano del mio compagno e pensai: “respira come vuoi”. Lui non era lì per darmi la possibilità di dimostrarmi che ero brava. Questo ci permise di continuare e di riuscire quasi completamente a concederci la possibilità di scioglierci. Spesso terapisti e medici pretendono dai propri pazienti immediate risposte di recupero e se questo non avviene li accusano di non voler guarire. Forse tutto questo non è dichiarato espressamente ma si rende manifesto quando chi si occupa della cura esprime fin troppo bene la delusione, il rimprovero o i complimenti a seconda delle reazioni del paziente. Dopo queste esperienze incominciai a lavorare in modo diverso cercando con i bambini che avevo in terapia le esperienze che io stessa avevo vissuto e di stabilire un altro tipo di rapporto. Mi sentivo molto sola e senza la possibilità di confrontarmi con altri colleghi; gli unici interessati a questo diverso modo di lavorare erano gli studenti di fisioterapia con cui avevo contatti quando venivano a fare il tirocinio nei poliambulatori di quartiere. Mi venne il desiderio di insegnare alla scuola terapisti, quanto meno per poter comunicare le mie esperienze a coloro che si sarebbero trovati un giorno nelle mie stesse condizioni. L’unica possibilità che avevo era quella di conoscere una tecnica di riabilitazione fra quelle considerate materia di studio. Avevo poca esperienza di lavoro con gli adulti; decisi allora di fare un corso di tre mesi per imparare la tecnica sugli adulti che avevano subito lesioni neurologiche, unica tecnica in quel periodo rimasta scoperta come insegnamento. Per apprendere questo metodo dovevo andare a vivere in ospedale, studiare e seguire per tre mesi sia le lezioni che il lavoro nei reparti. Appena arrivata cominciai a sentire tutte le mie resistenze verso il posto ed il lavoro che avrei dovuto fare. Le regole erano molto rigide e pensai che non avrei resistito a lungo. Quando entrai nel reparto dei degenti vidi tutti i malati con calzoncini verdi di tela rigida. Venni poi a sapere che l’amministrazione aveva disposto così per recuperare tutta la tela delle tende che l’estate prima erano state cambiate. Ne erano uscite così delle deliziose divisine per i malati. Ai degenti veniva dato del tu e ci si rivolgeva a loro con autorità e scarso rispetto. La mattina alle sette e mezzo cominciavano le lezioni; l’insegnante era un bell’uomo molto virile e possente, che insieme al ripasso dell’anatomia e fisiologia ci mostrava con grande interesse e vera passione la tecnica che dovevamo apprendere. La cosa che mi stupiva di lui era il suo corpo, bello ma statico; non riusciva a flettersi in avanti perché la schiena gli doleva ed i suoi muscoli non erano elastici. Un corpo in apparenza bello ma rigido. Incominciavo ad imparare le regole del metodo e le modalità per eseguirlo. A volte mi sembrava che questa tecnica fosse una vera lotta con il paziente, occorreva rafforzare le sue potenzialità muscolari e tutto, compreso il comando che il terapista doveva dargli, era, più che un incontro un vero scontro. Avevo di nuovo la vecchia sensazione che la differenza fra i due lottatori fosse la salute del terapista e la malattia del paziente. Nei reparti si sentivano spesso voci sonore che davano comandi perentori. La modalità del comando è una delle regole fondamentali del metodo. Anche la persona più mite e più dolce, se voleva curare con questo metodo era portata ad esprimere le sue qualità virili con una buona dose di aggressività. Qui tutto il repertorio maschile-terapista aveva la possibilità di dimostrare i suoi muscoli e la sua potenza. Un bravo terapista doveva avere un’ottima

posizione del corpo quando si apprestava a toccare i malati, un tocco sicuro, buono stile ed una discreta forza da esibire. A volte, confesso, che quando sentivo di avere una buona posizione e riuscivo a contrastare le braccia del mio paziente, avevo un leggero senso di potenza che soffocava per qualche istante la mia necessità di comunicare con le persone che pretendevo di curare. In quell’ospedale tutto era all’insegna del potere e le visite fatte dal primario ai malati ne erano la più pesante conferma. In un immenso salone venivano disposte ai lati seggiole per tutti i terapisti, nel centro veniva lasciato libero uno spazio, tipo corridoio. A capo della stanza c’era una specie di seggiolone dove sedeva il primario. I malati uno per volta dovevano attraversare questo corridoio, chi zoppicando, chi in carrozzella e dirigersi verso il seggiolone. Mentre avanzavano lentamente, il terapista che aveva in cura il paziente leggeva al microfono tutti i dettagli della sua malattia senza alcun rispetto per quelli più intimi. Sotto lo sguardo di un centinaio di persone arrivava così davanti al primario; quest’ultimo si riservava la sentenza finale. Ricordo un paziente di circa sessant’anni, alto e distinto, avanzava con dignità e fermezza, stranamente non indossava i pantaloncini verdi. Aveva una emiplegia sinistra, era quindi compromesso l’emisfero cerebrale destro; questo lo portava ad avere una emotività molto labile, facile al pianto ed al riso ed una grossa difficoltà a contenere qualsiasi emozione. Ero stupita come riuscisse a controllarsi di fronte alla prova a cui era sottoposto. Arrivato davanti al primario ero convinta crollasse, invece il suo viso si irrigidì, guardava fisso con occhi neri e profondi la persona che gli stava davanti. Anche l’uomo del seggiolone se ne stupì. Gli disse qualcosa in tono severo, riferendosi al fatto che non si era presentato con la divisa verde; ma sembrava che niente, anche a dispetto della sua malattia potesse far cedere quell’uomo. Disarmato, il primario scese dal suo seggiolone, andò vicino al malato e toccandolo su una spalla gli disse: «lei è un brav’uomo». A quella frase il viso del paziente divenne una maschera contratta, poi cedette, si piegò e pianse singhiozzando. Il professore ci guardò con aria soddisfatta e disse: «questa è la dimostrazione di come una emiplegia sinistra dia una labilità emotiva. Come vedete quest’uomo sta singhiozzando, per lui è difficile trovarsi in presenza della gente, tutto lo emoziona e non riesce a controllarsi». E rivolto a lui disse: «Su!, si tiri su». Questa fu l’ultima visita che quel signore fece con queste modalità; non fui la sola ad uscire dalla stanza e non fui la sola a denunciare questo episodio. Fu un lavoro molto lungo che durò oltre la fine del corso, ma riuscimmo ad impedire quelle visite. Non potevamo però impedire che quel professore continuasse il suo lavoro in ospedale; è quasi impossibile spostare dalla sua carica un primario. Il disgusto e la disperazione per tutto questo fecero diminuire in me le speranze per il mio lavoro. Sentivo che la mia sola presenza in quell’ospedale mi aveva resa testimone impotente e complice. Stavo prendendo la decisione di lasciare la fisioterapia quando per caso nel Natale del 1978 lessi il libro di Therese Bérthèrat, Guarire con l’antiginnastica: le ragioni del corpo, ragioni che avevo intuito lavorando su di me e sugli altri, ragioni che ogni giorno il mio corpo chiedeva. Attraverso la lettura di questo libro ho scoperto le teorie di L. Ehrenfried e soprattutto di Françoise Mézières. L. Ehrenfried, laureata in medicina, lavorava con gruppi di pazienti ed aveva una visione intera del corpo ed un modo globale di osservare il malato.

Quando la incontrai per la prima volta mi apparve una signora già molto anziana, alta, con un viso caldo ed accogliente. Mi propose subito di restare per seguire le sue lezioni non come spettatrice ma come allieva. Sdraiata supina insieme ad altri sette allievi, incominciai a eseguire gli esercizi che proponeva; mi sembrava di ubbidire perfettamente alle sue proposte, e pensavo che mi bastasse capire quello che voleva per compierlo alla perfezione. Ci faceva mettere una pallina sotto la schiena, sotto i glutei, sotto la nuca per ammorbidire i muscoli. Mi impegnavo talmente da contrarre tutto il corpo anche senza accorgermene. Quando finì la seduta ero stanchissima e le domandai come mai tutti si sentivano rilassati, dopo aver tolto la pallina sentivano il corpo morbido, aderire di più a terra ed io non avevo avuto questa sensazione, eppure ero riuscita a fare tutto senza difficoltà. La Ehrenfried mi rispose che dovevo respirare durante gli esercizi e aggiunse: «Lei non si dà respiro». Sapevo cosa volesse dire. Cosa sarebbe successo se invece di controllare il mondo attorno a me mi fossi lasciata andare ? Per due mesi lavorando con lei sentii il piacere dell’abbandono, sentii la difficoltà e la gioia di potermi fidare, di permettere a qualcun altro di aiutarmi ad ammorbidire i miei muscoli. Lasciai che toccasse il mio corpo, ma soprattutto mi lasciai respirare.

Capitolo 2

Un incontro importante Françoise Mézières A Saint Mont in un paesino sperduto con poche case, in un’aula insieme a canadesi, francesi, belgi, attendevo il primo incontro con Françoise Mézières. Entrò una donna non molto alta di circa settant’anni con i capelli bianchi a caschetto, due occhi vivaci e penetranti. Mi colpì nei suoi occhi il contrasto dello sguardo a volte duro e freddo, a volte dolce e materno. La capacità di questa donna di essere sia ferma e impenetrabile che disponibile e comprensiva, con una grossa capacità di darsi e di vivere il piacere della comunicazione, mi lasciava sempre più stupita ed attratta. Incominciò a parlarci della differenza fra la fisioterapia classica ed il suo metodo; più ci parlava delle differenze e più capivo come per quaranta anni avesse dovuto lottare contro tutti per sostenere le sue scoperte. Tutto quello che potevo fare era ascoltarla, mettendo da parte, come lei ci chiedeva, ciò che avevo imparato fino ad allora. Raccontò come, dopo aver insegnato per anni ai terapisti le tecniche tradizionali, rimase stupita nell’osservare come in pazienti che in piedi presentavano un grosso dorso curvo (ipercifosi), da supini la curva si modificava, il dorso appoggiato a terra si appiattiva dando origine a due grosse iperlordosi (cervicale e lombare). Questo dimostrava che i muscoli posteriori erano estremamente corti, tanto da obbligarli ad inarcare sia il collo (iperlordosi cervicale) che la regione lombare (iperlordosi lombare) per potersi sdraiare. Tutto ciò metteva in crisi una delle regole principali nel trattamento classico, quella di rafforzare i muscoli che essendo troppo lassi e lunghi provocavano la cifosi. Osservando bene la paziente si trattava di fare l’opposto, occorreva allungarli. Questo fu l’inizio della scoperta del metodo Mézières. Un metodo estremamente rivoluzionario che sconvolgeva tutti i principi della ginnastica e della fisioterapia. La cosa più dura fu per me ammettere, non tanto che dovevo abbandonare tutto quello che avevo imparato, quanto constatare come è difficile capire l’ovvio. Quante volte mi era capitato di curare una cifosi o una scoliosi e di rafforzare i muscoli dei miei pazienti? Quante volte li avevo osservati senza mai vederli? Con quanta poca curiosità e interesse apprendiamo le cose, troppo preoccupati ad impararle bene? Sentivo con quanto amore e coraggio questa donna viveva non solo il suo lavoro ma la sua vita. Sapevo come era difficile superare la barriera del conosciuto, lasciare libera la mente per vedere i pazienti, non come una scoliosi, una cifosi, un’artrosi all’anca, ma come una donna o

un uomo con il suo corpo, le sue reazioni, il suo linguaggio; e lasciare che i nostri occhi guardino e se quello che vedono è diverso o opposto a ciò che abbiamo imparato, non rifiutarlo, ma con costanza e coraggio verificare per anni ogni scoperta, con cocciutaggine, ed anche contro tutti per non negare le leggi del corpo. Vorrei enunciare i principi del metodo Mézières non tanto per spiegare il metodo, quanto perché ogni principio ha inciso non solo sul mio lavoro ma ha anche rivoluzionato la mia vita. Continuando ad osservare i suoi pazienti Françoise Mézières notò che i muscoli posteriori si comportano come un’unica catena muscolare; ed è necessario allungare la muscolatura posteriore il cui accorciamento è causa di tutti i disturbi dell’uomo. Basta guardare una persona "senza pelle", dice Françoise Mézières, che ci si rende subito conto che nella zona posteriore non c’è nessuna interruzione nella muscolatura dalla testa fino ai piedi e questo forma una catena muscolare. In seguito Mézières scoprì l’esistenza di altre quattro catene muscolari; questa osservazione era ancora più rivoluzionaria che lo scoprire che i muscoli andavano allungati e non rafforzati. Significava sconvolgere ogni studio fatto fino ad allora. Lo studio muscolare nella fisioterapia classica segue un procedimento analitico, e la diagnosi e la cura sono basati sull’osservazione di ogni singolo muscolo. La rivoluzione di questo metodo è di prendere in considerazione cinque sistemi muscolari. Non basta curare, allungare, rendere elastico un muscolo, bisogna lavorare su tutta la catena alla quale appartiene e dal momento che ogni catena è in comunicazione con l’altra, occorre allungare per quanto ci è possibile tutta la muscolatura che è organizzata in catene. Un altro principio radicalmente opposto a quello che avevo appreso fino ad allora è che i muscoli secondo Mézières più che motori delle articolazioni, ne sono i freni, è quindi inutile muovere un’articolazione se non si rendono i muscoli più elastici. Far muovere un’articolazione quando i muscoli sono rigidi sarebbe come pretendere di fare andare una macchina frenata. Occorre quindi modificare la struttura per avere una funzione corretta e non il contrario. Finché si penserà che le distorsioni del nostro corpo siano dovute a problemi ossei si continurà a mettere busti, reggispalle in caso di scoliosi, dorso curvo o qualsiasi altro dismorfismo. Secondo Mézières, contrariamente a quanto comunemente sostenuto, i muscoli quando si contraggono, si ruotano o si lateralizzano spostando la posizione delle ossa. Per comprendere basta immaginare il nostro scheletro con al posto dei muscoli degli elastici; a seconda degli spostamenti degli elastici si avrà uno spostamento delle ossa. Questa donna mi stava dicendo di guardare, osservare, di tenere libere le mie emozioni ed i miei sensi per capire quale era il problema del mio paziente; mi stava dicendo di non forzare il movimento del corpo se non c’è la possibilità di farlo. Il mio pensiero andava ai miei piccoli pazienti e riascoltavo l’eco della mia voce: «stai dritto, non incurvarti, su la testa»; bambini con scoliosi, dorso curvo, ai quali sia io che i genitori avevamo sempre detto di stare dritti colpevolizzandoli per ciò che non potevano fare. Un’altra scoperta essenziale di Françoise Mézières è il riflesso antalgico a priori, riflesso che copre un dolore occulto. Per evitare il dolore il corpo assume a priori una posizione; senza che il dolore vada alla coscienza il corpo si muove in modo da evitarlo. Françoise Mézières racconta di aver curato una bambina con una insufficienza respiratoria e difficoltà a camminare perché aveva le ginocchia ruotate all’interno. La madre diceva che la figlia era continuamente agitata e saltellava sempre nervosamente. Mézières cominciò a lavorare sulla schiena della bambina trovando un punto particolarmente doloroso. Dopo qualche mese l’agitazione della bimba passò, il suo era un modo di sfuggire

al dolore prima di sentirlo. Mézières sosteneva che siamo pieni di riflessi antalgici a priori e che ciò che manifestiamo spesso è il sintomo di ciò che vogliamo dimenticare. Probabilmente il dolore è troppo forte per poterlo ricordare. Ho potuto sperimentarlo lavorando su di me. Dopo qualche ora di lavoro per allungare i miei muscoli in un gruppo tenuto da Therese Bérthèrat cominciai ad avvertire un forte dolore all’anca. Uscii dalla seduta quasi zoppicando. La notte dormii profondamente e la mattina ebbi la sensazione di avere una testa nuova, il collo non mi doleva come tutte le mattine, il mal di testa non era in agguato. Per evitare il dolore l’anca destra era venuta in avanti e si era ruotata a sinistra, il capo per mantenere l’equilibrio si era ruotato a destra. Il mio collo rigidamente sosteneva solidale il segreto della mia anca ma faceva sentire le sue ragioni regalandomi favolose emicranie. Un’altra scoperta importante di Françoise Mézières che fa parte dei principi del suo metodo è l’aver osservato come i muscoli abbiano tre vocazioni: accorciamento - lateralizzazione - rotazione. Questo significa che possono: 1. semplicemente accorciarsi; 2. spostarsi lateralmente portando una parte del corpo (ad esempio il bacino o il capo o il busto) verso destra o verso sinistra; 3. possono addirittura ruotarsi spostando in avanti una parte del corpo facendola ruotare verso il lato opposto (ad esempio: spalla destra più in avanti ruotata verso sinistra). In alcuni casi, come nella scoliosi, queste tendenze sono associate. Il corpo e le emozioni Françoise Mézières non ha in realtà mai parlato della difesa emotiva del corpo, ha solo elaborato un metodo basato sulle osservazioni delle reazioni muscolari, ignorando volutamente la correlazione psichica e facendo un discorso puramente meccanico. Queste osservazioni sono però utilissime perché ci spiegano come un corpo si difende, quali sono le leggi e le modalità che usa. Come ho già detto i muscoli reagiscono in tre modi e a seconda delle modalità che adottano sono diversi i disturbi, i dolori e le deformazioni del nostro corpo; per esempio una rigidità molto forte alla zona cervicale può causare una rotazione delle spalle, o un’anteropulsione (spalle in avanti), o una retropulsione (spalle in dietro). A seconda di quale posizione assume, la persona ci appare molto diversa, il suo sintomo è diverso, il suo dolore sarà diverso ma la causa è la stessa. Fermandosi ad analizzare il sintomo alcuni hanno rischiato di costruire delle tipologie; bioenergetici, vegetoterapisti, Lowen stesso, hanno tentato di affermare che tipo di carattere può avere una persona con le spalle strette o con le spalle larghe, o con le gambe grosse ecc. Seguendo le leggi del corpo, secondo Mézières, queste posizioni sono solo un diverso modo per coprire la vera causa, nel nostro esempio la nuca. Una persona con una nuca rigida può mostrare la sua rigidità oppure nasconderla ruotando o stringendo o alzando le spalle, o spostando il bacino o bloccando il diaframma. Più le rotazioni sono complesse e più la causa è nascosta. La parte rigida è la parte più ferita e spesso, come è chiaro dal riflesso antalgico a priori, la persona tenta di non mostrarla. Molti, fra coloro che si occupano di linguaggio del corpo, individuano in una persona con la nuca rigida superbia ed autoritarismo ed offuscati da ciò che appare non vedono la fragilità di

quella nuca che ha dovuto alzare muri altissimi per difendere la propria dignità, per coprire le proprie umiliazioni. Il corpo più è stato umiliato, picchiato, disprezzato quando eravamo piccoli e più trova modalità occulte per difendersi. Individuare il sintomo non vuol dire comprendere e capire la storia di una persona ed interpretarla; è solo una traccia che con un lavoro capillare sul corpo ci porterà alla vera ferita. Ho potuto notare durante questi anni di lavoro che i muscoli scelgono una tendenza piuttosto che un’altra a seconda della profondità della ferita emotiva. Quando i muscoli si accorciano spesso la ferita è da trauma accidentale (caduta, incidenti ecc.). Quando la ferita tocca profondamente la sfera emotiva ed è necessario per la persona dimenticarla, la reazione muscolare è di lateralizzazione o di rotazione. La rotazione muscolare è probabilmente la modalità che tiene più nascosta la zona ferita per non mostrarla e per rimuoverla. Più si è ruotati e più la rimozione è profonda. Ciò permette di dimenticare con maggior sicurezza il dolore occulto. Questo implica, per esempio, nella cura delle scoliosi (la rotazione muscolare porta ovviamente ad una rotazione ossea) molta cautela, molto rispetto, molta partecipazione. È assolutamente violento intervenire cercando di raddrizzare il corpo, bisogna dare tempo e accogliere senza forzare tutto ciò che lentamente una persona scopre di sé; il lavoro sulle rotazioni è il più delicato perché scopre una totale vulnerabilità. Quando incominciamo a difenderci Tutti i muscoli quando sono contratti denunciano la nostra sofferenza fisica e trattengono la nostra sofferenza emotiva. Trattengono cioè l’informazione di ciò che fin da piccoli abbiamo dovuto subire. I muscoli quindi non possono essere ammorbiditi troppo velocemente perché rischierebbero di non dare la possibilità al paziente di contenere il suo dolore emotivo. Il lavoro lento e capillare è necessario proprio per poter, in modo non traumatico, passare dal trattenimento della sofferenza emotiva, protetta dalla rigidità muscolare, al contenimento, eliminando il dolore fisico spia di una emozione bloccata ed anestetizzata. L’essere umano quando nasce ha come unico desiderio quello di essere amato e di amare. È molto debole e vulnerabile, assolutamente dipendente; passa da una situazione di protezione ad uno spazio, per lui illimitato. Deve quindi sentirsi accolto, sicuro e desiderato. Deve sapere che il suo pianto, unica possibilità di richiamo per esprimere il suo bisogno, non viene ignorato. Il bambino non può provvedere a se stesso, è in balia degli altri e per calmare la sua paura ha bisogno che si risponda ai suoi sguardi, che la sua pelle venga accarezzata, che se ha sete o fame qualcuno gli dia da bere o da mangiare, che lo si assista con amore e che non si sottovaluti mai la sua difficoltà, che si comprenda la sua paura. Quando un bambino non ha tutto questo, quando non è preso sul serio, quando scopre che i suoi urli non hanno risposta, anzi vengono puniti o fermati con calmanti, il bambino ha un’unica possibilità per non morire: la rimozione (Cfr. A. Miller, L’Infanzia Rimossa). La rimozione turba le sue facoltà di sentire, percepire e ricordare ed il bambino non essendo accolto e contenuto trattiene l’emozione attraverso l’irrigidimento dei suoi muscoli che, se immediatamente lo salvano dandogli la possibilità di non morire, lo isolano però contemporaneamente provocandogli disturbi della comunicazione.

I disturbi della comunicazione incominciano nei reparti di maternità dei nostri ospedali. Il neonato fa conoscenza con questo nuovo mondo in modo assolutamente drammatico; negli ultimi anni dopo le nuove scoperte diLeboyer la situazione in qualche ospedale si è modificata. Appena esce dall’utero il bambino si trova in una sala con una luce che lo acceca, lavato a testa in giù, sculacciato per sentire se urla, poi messo insieme ad altri neonati, in piccoli letti lontano dalla madre che deve riposare. L’unico suono che può udire è quello di altre vittime che stanno soffrendo lo stesso dolore; lontano dalla pelle della mamma, dal suo odore che poco tempo prima era tutt’uno col suo corpicino. Urla a più non posso, ma per la sua gola lo sforzo è troppo grande, il disagio è insopportabile, e prima di rincominciare ad urlare il suo corpo si irrigidisce e sente un briciolo di sollievo. Impara presto che più si chiude e minori sono la sofferenza e l’angoscia; gli torna un po’ di forza per ricominciare a chiamare. Ma le cose non sono molto diverse una volta che i genitori se lo portano a casa. Dopo avergli dato da mangiare la mamma lo mette nella sua camerina e socchiude la porta. Il bambino si sente solo nuovamente, le voci che sente non lo rassicurano, ricomincia ad urlare. Un urlo disperato. La mamma è combattuta, vorrebbe entrare (il suo cuore la porterebbe dal piccolo) ma sa che non può permettergli delle brutte abitudini; il bambino è già stato cambiato, ha mangiato, non gli manca niente e prima o poi smetterà di piangere. L’urlo del bambino si affievolisce, il suo corpo si raggomitola, si contrae, è solo e disperato. Sa che il suo urlo non è ascoltato, il suo corpo irrigidendosi tenta di sopravvivere. Il piccolo sperimenterà la possibilità di isolarsi e la madre avrà la conferma che prima o poi i bambini si calmano se li si lascia piangere. E da questo momento inizia il rapporto educativo dei genitori con i figli. In seguito, quando sarà più grande, le cose non cambieranno ma lui avrà già imparato a non sentire ed il suo corpo a ruotarsi ed irrigidirsi (iperlordosi, scoliosi, dorso curvo ecc.). La cultura in cui viviamo apprezza come forma di buona educazione l’atteggiamento di chi non prende sul serio le proprie sofferenze, tende a sminuirle o ne ride addirittura. Il bambino mano a mano che cresce avrà già capito sulla sua pelle che è meglio non sentire e la cultura in cui vive costituirà un rafforzamento della sua esperienza fisica. Da adulto il suo modo di pensare non sarà basato sulle sensazioni ed emozioni vere, non ricorderà le sue ferite ed il suo pensiero si baserà sulla rimozione. Ma il corpo nei suoi dolori, nei suoi crampi, nelle artrosi, nei disturbi che lamenta, ricorda; il corpo parla della sofferenza di quel bambino dimenticato. Da grandi vediamo il mondo dal punto di vista dell’adulto e continuiamo a soffocare il bambino condannato al silenzio, ma il nostro corpo ha registrato la verità. La Rimozione Se da bambini siamo costretti a dimenticare per sopravvivere, a costringere e distruggere il nostro corpo per non sentire, ci rimangono solo due possibilità: quella della violenza verso gli altri o verso noi stessi “la malattia”, o entrambe. Ogni persona a cui siano stati negati i bisogni primari perde la possibilità di una buona autoconservazione, e nella vita si sentirà sempre inadeguato, fragile e non desiderato e ne verrà compromessa enormemente la sua vita relazionale.

Il blocco relazionale aggrava la violenza e/o la malattia. Noi ci relazioniamo agli altri con il nostro corpo, con il movimento, con la voce, con lo sguardo e tutto questo è frutto delle esperienze che abbiamo avuto. Da neonati viviamo le esperienze solo tramite le sensazioni e le emozioni. Se abbiamo fame e nessuno ci nutre uniremo a questa sensazione una emozione di angoscia. Se veniamo nutriti la uniremo ad una sensazione di piacere. Se i nostri bisogni sono esauditi il bisogno non ci spaventa e da adulti sapremo come soddisfarlo, se non viene esaudito ci lascia prostrati, frustrati con una forte angoscia e da adulti faremo di tutto per negare il nostro bisogno, abbinando il bisogno alla disperazione. «Sulle nostre sensazioni ed emozioni si formerà il pensiero. Sensazioni, emozioni e pensiero sono i tre ambiti relazionali» (K. Stettbacker, Perché la sofferenza). Se abbiamo dimenticato le nostre sensazioni ed emozioni per sopravvivere, penseremo secondo luoghi comuni e le comunicazioni con gli altri saranno compromesse dai nostri muri del silenzio che ci rendono impermeabili e soli. Se da piccoli era impossibile non rimuovere perché la realtà era troppo dura, da adulti è impossibile vivere imprigionati dai nostri muscoli e disturbati nelle relazioni con gli altri. Tutto ciò produce collera, il bambino non amato impara ad odiare e per questo una volta adulto sosterrà che i bambini hanno bisogno di essere disciplinati e assoggettati alle norme per seppellire ancora di più il bambino bisognoso che è stato e per vendicarsi del male ricevuto. L’adulto che non ritrova la sua storia e non scopre la verità sulla sua vita, che non ammorbidisce i suoi muscoli rivelatori delle autentiche sensazioni ed emozioni perdute, per quanto dolorose esse possano essere, non è in grado di dare amore ai suoi figli. Inoltre le deformazioni fisiche dovute a irrigidimento muscolare, spalle curve, scoliosi, iperlordosi, artrosi, artriti, dorso curvo, che i medici preferiscono definire ereditari, vengono automaticamente, per la capacità imitativa del bambino, trasferite ai propri figli, trasferendone anche la ferita inconscia. Tutto questo è molto duro e difficile da credere, ma spiega benissimo come mai nel mondo c’è tanta violenza e ci sono tante guerre, come mai l’uomo è riuscito a distruggere la natura ed a procurarsi una vita impossibile che mina la naturale autoconservazione. Per vivere in armonia con gli altri è importante vivere in armonia con il proprio corpo. L’armonia con il nostro corpo ci viene dal rapporto armonico col corpo della persona o delle persone che ci hanno accolto appena nati e dalle posizioni che fin da piccoli il nostro corpo assume. I muscoli che ci avvolgono, se sono contratti e rigidi, se ci impediscono una buona respirazione, se bloccano le nostre articolazioni, frenano ogni gesto, ogni movimento ci procura un maggior dispendio di energia a livello meccanico, e a livello emotivo le contratture muscolari trattengono le nostre emozioni. Fisicamente poco elastici, con sensazioni ed emozioni bloccate insieme ai nostri ricordi, pensiamo di condurre una vita normale dando per scontato che gli anni che passano ci induriscano portando dolori inevitabili in tutto il corpo. Spesso quando un bambino piange si dice: «è stanco» oppure: «è la fase»; negli anni si dice: «è l’età» oppure: «è il tempo». Si può dire tutto, l’importante è non rompere il muro del silenzio. Per vivere in armonia con il nostro corpo, il corpo deve averla conosciuta, deve essere stato scaldato e amato, non punito, non picchiato, non oltraggiato. Rispetto e amore gli danno armonia muscolare, mantengono libere sensazioni e emozioni insieme ad un movimento semplice e naturale, tutto ciò permette una buona comunicazione con gli altri, un corpo caldo e armonioso che non soffre e non si ammala.

Codificare e impostare la crescita dei figli su principi educativi che negano l’ascolto dei bisogni del bambino e del rispetto per il suo corpo ci toglie ogni speranza di allevare figli non sofferenti. Educazione e rieducazione L’educazione e la rieducazione percorrono in effetti gli stessi binari e sempre gli stessi binari li percorre l’educazione allo sviluppo fisico.Le rigidità muscolari non vengono solo per dare la possibilità ai neonati di proteggersi ma anche per posizioni e consigli sbagliati dati dagli esperti. Françoise Mézières sostiene che la muscolatura posteriore è più rigida e più corta di quella anteriore, e che esistono posizioni che aiutano questo accorciamento. Queste sono posizioni da evitare accuratamente proprio nel bimbo appena nato che ha un corpo più malleabile ed è più sensibile sia emotivamente che fisicamente. Nonostante questo tutti i bambini sono tenuti a pancia in giù dando un’ottima possibilità ai muscoli posteriori di inarcarsi e di accorciarsi, soprattutto quelli del collo e della zona lombare. Basta osservare un bambino per vedere quante difficoltà gli pone questa posizione. Quando il bambino inizia a camminare spesso lo si aiuta con un girello. Il girello sposta il peso in avanti incurvando e contraendo le spalle, spostando l’appoggio del piede rispetto all’asse, dando ancora una volta tutto il peso alla muscolatura posteriore. La parte anteriore del corpo, che già di tendenza è meno forte, rimarrà sempre più inattiva. Di conseguenza quando incomincia a camminare autonomamente il piedino spesso scivola leggermente all’interno e quando il bambino avrà due o tre anni l’ortopedico gli imporrà il plantare che, giustamente risolleva il piede, proprio perché l’ortopedico ha osservato molto bene il piede, ma solo il piede. La caduta della volta plantare è la conseguenza di una zona lombare estremamente inarcata e il plantare alzando la volta aggraverà ancora di più la zona lombare. Un bambino che è rimasto per i primi mesi della sua vita a pancia in giù, inevitabilmente quando inizierà a camminare avrà il piede che cade all’interno. Mettendo il plantare aggraverà la sua lordosi lombare e per equilibrarla dovrà portare il collo in avanti. Se dessimo più fiducia alle capacità dell’essere umano potremmo lasciarlo libero di scegliere le sue posizioni e di camminare solo quando può farlo da solo, quando avrà trovato il suo equilibrio e la sua forza (figura n. 1).

Figura n. 1 Nel mio lavoro di fisioterapista ho visto spesso bambini, anche piccoli, con scarpe alte affinché la caviglia possa stare ben ferma e dare più stabilità al corpo. Ho faticato molto per trovare scarpe basse quando mia figlia aveva due anni, solo alcune ditte francesi le producevano; per i piccoli che iniziano a mettersi in piedi vengono fatte scarpe che bloccano semprela caviglia, questo è il consiglio medico e questo è quello che c’è in commercio. Tutto è meravigliosamente collegato. Il bambino va bloccato appena cresce, poco dopo viene inserito il plantare. C’è solo una piccola contraddizione:l’ortopedico consiglia di bloccare la caviglia per sostenere il piede e contemporaneamente di camminare il più possibile scalzi per muovere meglio il piede. La catena muscolare posteriore passa sotto la pianta del piede, fascia il dorso del piede, la parte anteriore della gamba fin sotto al ginocchio. Mettere scarpe alte vuol dire irrigidire il piede, bloccare la caviglia, accorciare la muscolatura e non permettere alle dita di estendersi come dovrebbero. Imporre a un bambino sistemi educativi che vanno contro la sua volontà o rieducativi che bloccano il suo corpo vuol dire spezzare una naturale evoluzione, significa ignorare, combattere, violare le sue grandi capacità innate e la sua naturale socialità; significa fargli perdere la sua continuità. Il bambino non violato con l’educazione e la rieducazione, con attrezzi ortopedici, con supporti, con plantari che rompono la sua continuità, mantiene le capacità innate di imitare, esplorare, camminare, correre, non ferirsi, né ferire, ha un suo ordine, è in buon rapporto col tempo, armonizza il suo corpo e vive un rapporto armonico con l’esterno; manda segnali ad altri piccoli e risponde ai loro, può godere della sua grande socialità innata. Il bambino antisociale è il bambino a cui è stato violato tutto ciò. Oltre a questo grave danno inflittogli lo si fa sentire inadeguato e colpevole della sua rabbia e della sua antisocialità, colpevole di non avere una schiena dritta come gli altri, colpevole delle gambe storte, colpevole di non essere bello. Questa colpa aggrava il suo stato di confusione e spezza totalmente la capacità di ritrovare la propria evoluzione. Fuori da sé si forma come gli altri gli impongono. Il bambino libero ha un corpo libero.

Un corpo libero è un corpo passionale, è un corpo a cui non è stata spezzata la possibilità di continuare armonicamente la crescita; un corpo libero è un corpo che conosce sani confini perché i suoi confini non sono stati invasi; un corpo libero ospita un’anima selvaggia che continua la sua crescita vivendo nella gioia. Un corpo armonico vive in armonia con gli altri, i muscoli che lo avvolgono non sono né contratti né rigidi e non impediscono una buona respirazione, non bloccano le articolazioni, non frenano gesti di passione, non frenano la libertà nel movimento, non creano dispendio di energia e non trattengono le emozioni. Un corpo armonico è un corpo che non è stato violato e umiliato, che non ha dovuto, per sopravvivere, alzare muri del silenzio. Un corpo libero non è un corpo travestito di buone maniere, un corpo libero non blocca la mandibola quando mangia per timore di essere ineducato, un corpo libero ha la pelle lucente; un corpo libero ha un rapporto con la natura selvaggia. Il corpo ha bisogno dell’anima selvaggia, l’anima selvaggia ha bisogno del corpo che l’accolga se no anch’essa viene stritolata, soffocata, impedita in ogni sua manifestazione. L’anima selvaggia possiede una ricca integrità, una forza primitiva che nonostante le violenze subite può, se sente l’antico suono, riaffiorare e combattere per il suo esistere. L’anima selvaggia e il corpo che la contiene formano l’io selvaggio. Da piccola avevo le ginocchia valghe e il piede che cadeva all’interno, segno, secondo Françoise Mézières, di contrattura alla zona lombare. La rigidità e l’accorciamento dei muscoli della zona lombare fa ruotare le anche e le ginocchia all’interno (valgismo) e di conseguenza scivolare il piede all’interno. Ho portato per anni scarpe alte con plantari e degli strani attrezzi alle gambe chiamate “ghette” che venivano messe la notte per tenere le gambe diritte; erano di ferro ricoperte di gommapiuma. Sono state un incubo per molte notti, mi procuravano dolori ovunque, bloccavano le mie gambe e non potevo girarmi nel letto. Questa tortura ha ovviamente peggiorato il mio valgismo. Sarebbe peggiorato ancora di più se mia madre non si fosse arresa e dopo qualche mese avesse smesso di mettermele; avrei dovuto portarle per un anno. Il reale miglioramento al mio valgismo è avvenuto quando abbiamo cambiato casa e siamo andati a vivere in una con un grande giardino, alberi dove potevo arrampicarmi, dove con altri bambini potevo giocare, correre, lottare. In quei momenti di gioia e di felicità il mio diaframma si ammorbidiva, le paure si liberavano lasciando posto alla passione del mio corpo a contatto con la natura. L’immobilità a cui ero costretta la mattina a scuola si trasformava in una corsa sfrenata di piacere e passione il pomeriggio nel mio giardino. Il diaframma si inserisce nella zona lombare e forma un’unica catena muscolare con il muscolo ileo-psoas; se questi muscoli sono bloccati bloccano automaticamente la zona lombare e anche e ginocchia sono costrette a ruotare all’interno; sbloccando il diaframma, anche e ginocchia ritornano in asse e il valgismo diminuisce. Il mio valgismo tornò a peggiorare quando mi misero in collegio per un anno. Ricordo perfettamente tutti i passaggi delle mie gambe e le fotografie mi sono testimoni: l’anno delle ghette, del giardino e del collegio. Sarebbe interessante se le persone attraverso le fotografie potessero riscontrare come episodi belli o brutti hanno cambiato, soprattutto da piccoli, il loro corpo. Oltre all’amore e al rispetto il bambino ha bisogno di esprimersi e di manifestare, senza essere punito, le sue emozioni: rabbia, aggressività, gioia e passione.

Ha bisogno di divertirsi, di esprimere la forza vitale attraverso il movimento, nella corsa, nella lotta. La sua felicità dipende dalla possibilità di manifestare emozioni e dall’esprimere, senza colpa, ciò che si agita dentro di lui. Spesso gli adulti hanno il terrore della disarmonia e non la vogliono vedere nei loro figli; vorrebbero che fossero felici senza liti, senza scontri quando giocano con i coetanei. Tengono a freno le loro rabbie col mondo, tranne che con i figli, ma non possono permettersi di vedere in loro il frutto del proprio dramma. Le liti, le emozioni espresse disturbano la falsa armonia che si sono costruiti. Si sente spesso dire: «sono contenta, è un bambino tranquillo, sereno, ubbidiente», oppure: «non ce la faccio più, non so come tenerlo, è tremendo, non sta fermo». Sarò sempre grata a mia madre di avere avuto oltre me altre due figlie e quindi di essere stata molto impegnata nei lavori di casa e nella gestione familiare perché questo mi ha dato la possibilità di sfuggire al suo controllo e di vivere per alcuni anni più libera di correre, di sporcarmi, di giocare. La vera tranquillità c’è dopo la soddisfazione di un bisogno. Il bambino oltre a soddisfare i bisogni primari ha bisogno di sperimentare per conoscere. Passioni, rabbia, grida: come può conoscere le sue emozioni se vengono frenate dall’educazione e dalle punizioni ? Tutto ciò che si può fare per un bambino è con l’esempio comunicargli un codice relazionale di cui ha, durante la crescita, assoluta esigenza per “aggiustare” i suoi bisogni con i bisogni sociali. Questo processo di “aggiustamento” neurologico ed emotivo sarà armonico e naturale solo se il bambino non avrà negato le sue necessità, solo se avrà conosciuto, scoperto, sperimentato le emozioni che si agitano dentro di lui per poi in seguito integrarle. Non si possono né integrare né armonizzare emozioni che non si conoscono. Le Boulche che si è occupato di psicomotricità, ha ampiamente evidenziato le capacità del sistema nervoso e specificatamente della sostanza reticolare di rimaneggiare attraverso l’esperienza e l’osservazione, automatismi anteriormente acquisiti per raggiungere uno schema di controllo automatico. Quando un bambino inizia a camminare mano mano inserisce elementi, attraverso l’esperienza, che lo portano a camminare, a correre, ad aumentare le sue capacità di movimento in modo del tutto automatico; cadendo, rialzandosi, sperimentando, guardando gli altri aggiunge questi nuovi elementi e aggiusta continuamente il suo equilibrio armonizzandolo all’ambiente. Per lasciargli la possibilità di aggiustamento occorre lasciarlo libero, senza indirizzarlo o controllarlo; è sufficiente stargli vicino. Se verrà disturbato nell’esplorazione di sé e di sé con gli altri, rischia di interrompere questo sviluppo naturale. Non solo nel cammino ma anche quando ancora più piccolo esplora con la bocca, i piedi, le mani, i giochi, se sgridato o interrotto rompe un processo di conoscenza fondamentale per la sua vita. In ugual modo interrompere la conoscenza delle sue emozioni, delle grida, delle rabbie, dei pianti, del movimento libero, del rotolarsi a terra, come spesso succede in nome dell’educazione, impedisce un aggiustamento neurologico ed emotivo destinato a collegare sensazioni, emozioni e pensiero. Imporre a un bambino un sistema educativo sociale e desiderarlo tranquillo è come non tollerare il lento “aggiustamento” di un bambino che inizia a camminare.

Il mio giardino Da alcuni anni sono cosciente che se attraverso il lavoro sul mio corpo non ritrovo le emozioni bloccate non potrò capire e ascoltare né i miei allievi, né mia figlia. Ma ci sono esperienze felici nella mia vita. Porto con me da anni un patrimonio di scoperte appassionanti che i miei genitori un po’ per troppo lavoro, un po’ per convinzione non hanno bloccato: gli anni passati nel mio giardino. Chiamavo il mio giardino “la giungla”. La scuola elementare era terribile ma durava solo quattro ore, i compiti non li facevo o ne facevo pochissimi subendo le urla di mia madre. Ricordo che la maestra si lamentava perché non stavo ferma in classe, a volte era tollerante, a volte mi umiliava mettendomi dietro la lavagna. Il pomeriggio c’era la “giungla”. Mi arrampicavo sugli alberi, correvo, avevo molti amici; litigavamo, ci abbracciavamo, ci rotolavamo in un’aiuola gigantesca al centro del giardino. Le mie ginocchia erano sempre sbucciate. D’estate correvo, sudavo, il sole e il sudore sulla pelle mi davano piacere. Quando il caldo era forte toglievo la maglietta poi mi rotolavo nell’aiuola. Spesso, ricordo, correndo urlavo: «sono felice». La sera al tramonto mi piaceva spogliarmi e salire su un albero a riposare. Tutto questo è sulla mia pelle, non è imprigionato nei miei muscoli, si è salvato; non faccio fatica a vedere la passione in mia figlia e non faccio fatica a riconoscerla nei miei allievi e lasciare loro la possibilità che venga espressa. La conosco e la riconosco, è mia e mi accompagna spesso. Educazione, regole, ordine, limiti, esagerazione. L’infanzia di un bambino è assillata da queste parole, la sua pelle, i confini del suo corpo sono impregnati di tutto ciò che non può fare e di come deve comportarsi. Il bambino appena nato, non solo viene battezzato per togliergli il peccato originale, ma lo si continua a considerare una forza ribelle che deve essere instradata per la società futura. L’educazione madre sovrana fa da padrona su ogni sensazione, emozione, espressione che il bambino tenta di manifestare. Fin dall’inizio, quando il neonato piange, la mamma è combattuta se prenderlo in braccio o lasciarlo nella culla. È in nome dell’educazione che non lo accoglie fra le sue braccia, per non permettergli brutte abitudini e perché impari a stare da solo. Sempre in nome dell’educazione, appena è un po’ più grande, a soli pochi anni, il bambino deve mangiare composto, non parlare mentre mangia, correre ma non sudare, non litigare con altri bambini, essere sempre gentile, ubbidire ai genitori ed ai maestri, accettare le punizioni, e sentirsi colpevole vergognandosi se disubbidisce alle norme educative. Gli viene dato dell’esagerato e del diverso se tenta di esprimere sentimenti non adeguati al momento e non condivisi dai genitori, e se addolorato non trattiene il suo dolore e si mette a piangere spesso gli viene detto: «vergognati, piangere così grande». Il bambino o si adatta o non ha nessuna possibilità, neanche quella della sofferenza. Se si ribella viene considerato un disadattato; se soffre, se è timido viene deriso, se non è felice viene portato dal medico. Incastrato in ogni sua manifestazione fra regole, limiti, educazione, convenzioni può solo uccidere la sua vitalità e dimenticare, chiudere nell’inconscio il suo odio, la sua rabbia, il suo rancore per la sua vita spezzata; dimenticando

riuscirà ad adeguarsi, ma ogni dolore è scritto nel suo corpo, immagine del suo inconscio. La sua vera natura rimane sepolta sotto la corazza muscolare che è costretto a costruirsi. Per educare un bambino ci si serve, come primo strumento, delle cosiddette regole. La regola è vista e mostrata al bambino come qualcosa che non appartiene al piacere o al divertimento, è sempre accompagnata dal “ma”, è sempre dall’altra parte della barricata. Ad esempio: è giusto che i bambini si divertano, ma ci sono delle regole, oppure: nessuno vuole negare la libertà ad un bambino, ma ci sono delle regole. Personalmente penso che la regola sia intrinseca nel piacere, nel gioco, nel divertimento. È un mezzo di comunicazione indispensabile per una buona relazione. Se un bambino vuole fare un gioco è il primo a chiedere come si gioca, quali sono le regole e spesso è lui che ama definirle. Affinché il gioco possa essere piacere e comunicazione è necessario sapere come si gioca e quali sono le sue regole. Fino a che la parola “regola” verrà dopo il “ma” non sarà mai accolta con amore da un bambino, verrà sempre vista come la negazione della libertà. C’è da chiedersi come mai viene posta in questi termini. Se nel nostro inconscio sono bloccate rabbie e rancori per il bambino che non abbiamo potuto essere, la regola, il limite, diventano necessari per non essere distruttivi, e più siamo imprigionati e più infliggiamo regole limitative ai nostri figli separando libertà e piacere dalle regole. Chiamiamo erroneamente regole tutte le torture che ci sono state inflitte, e in perfetta armonia con le istituzioni siamo autorizzati nell’infliggerle a nostra volta. Una serie di sciocche convenzioni vengono spacciate per regole. Le convenzioni sono in realtà estremamente limitanti per la personalità di un bambino. Si parla di limite, di ordine precostituito, di compostezza, a un bambino di pochi anni, gli si insegna a non parlare a tavola, a masticare con la bocca chiusa, a non appoggiare i gomiti sul tavolo, a non alzarsi da tavola fino a che non abbiano finito tutti, a non litigare con i compagni, a essere gentili con il prossimo. Spesso tutto questo viene smentito dall’esempio che danno i genitori. Sono pochi gli adulti che a tavola non parlano e sono composti, che non litigano, che sono sempre gentili, che non esagerano, soprattutto quando picchiano i loro figli. Non urlare e non picchiare sono le prime cose che un genitore smentisce davanti al figlio, quando urla contro di lui o quando gli dà una sberla per il suo bene affinché impari l’educazione. Altra cosa che il bambino deve capire molto bene sono i limiti. Limiti che vengono imposti verbalmente e che contrastano con il comportamento assolutamente senza limiti che il genitore ha sul bambino. Fin da piccolo al bambino viene imposto di essere ordinato, esiste un ordine precostituito che gli viene insegnato al quale deve attenersi, come riporre la sua roba, i suoi giochi, rimettere le cose al suo posto ecc. Se le difese naturali di un bambino non venissero distrutte da genitori e insegnanti, il bambino avrebbe la possibilità intrinseca di trovare un suo ordine, una sua organizzazione che gli permetterebbe l’armonia fra il corpo, il movimento e le cose che lo circondano, l’ordine armonico di cui ha bisogno, che desidera e come e dove vuol mettere le cose che ama. La violenza creata dai genitori imponendo un ordine precostituito rompe questo processo naturale creando un disordine interno con cui il bambino dovrà fare i conti tutta la vita. Assillato continuamente da un ordine precostituito non avrà la possibilità di relazionarsi in modo armonico con le cose e le persone e verrà leso in questo suo naturale istinto. La lesione ci sarà comunque sia che si ribelli all’ordine precostituito sfogando la sua rabbia sugli oggetti e creandosi attorno disordine e disorganizzazione, sia che accetti e si adegui all’ordine imposto perdendo la creatività e provando, ad ogni squilibrio dell’ordine, violenta rabbia contro chi disturba la sua ossessione.

Oltre alle convenzioni, i limiti, le imposizioni ad essere ordinato e all’assoluta frustrazione per ogni sua manifestazione emotiva, il bambino deve anche dare prova di moderazione. Ogni volta che i suoi sentimenti sono espressi e non approvati, non solo non vengono accolti e sottovalutati, ma colpevolizzati dalla parola "esagerato". Da bambina sono stata spesso considerata esagerata ogni volta che manifestavo la mia sofferenza o le mie sensazioni e le mie emozioni; ogni volta che confidavo i miei drammi tutto era esagerato. Circondata da bambini silenziosi, ho cominciato a temere la mia diversità e a colpevolizzarmi io stessa di ciò che sentivo. Il bambino viene definito esagerato perché supera i limiti consentiti, perché infrange la barriera del silenzio. Paga tutto questo con l’accettazione del silenzio o col vuoto che lascia la diversità. Nei nostri muscoli sono bloccate le emozioni che non abbiamo potuto esprimere perché non c’era concesso o perché la risposta emozionale agli eventi non era contenibile e abbiamo solo potuto trattenerla rimuovendola. Sento spesso dire: «i bambini non devono essere troppo protetti, devono arrangiarsi perché nella vita incontreranno molti ostacoli e devono essere pronti ad affrontarli, le esperienze anche brutte forgiano, rafforzano e fanno crescere». Bambini allo sbaraglio, bambini puniti, picchiati, non protetti, non avranno mai la forza di proteggersi, non ne hanno esperienza, godranno invece di una esperienza di violenza e nelle situazioni difficili della vita sarà l’unica cosa che potranno attuare: il dolore nascosto, rinnovato risponderà con la violenza. Quando le difficoltà in cui si trova un bambino sono alla sua portata, diventano patrimonio di esperienza e lo rafforzano, ma quando sono superiori alle sue forze, l’impossibilità di sostenerle non crea solo frustrazione ma spesso rimozione e da grande ogni situazione che possa assomigliare al momento in cui è stata necessaria la rimozione farà scattare ansia, incapacità, paura, rabbia. Non sarà un rafforzamento ma si formerà una rigida corazza che conserverà inesorabile paure e tradimenti non coscienti. Quando il bambino compie sei anni inizia ad andare a scuola. Gli insegnanti continuano e rafforzano l’educazione già inflitta dai genitori. Se il bambino non riesce a stare fermo e attento viene punito. Per un bambino vengono considerate rafforzamento del carattere e rafforzamento della personalità esperienze considerate negative e sminuenti per la personalità dell’adulto. Bambini in punizione Tutti sono d’accordo che durante un seminario o una riunione fra adulti sarebbe assolutamente umiliante se un partecipante venisse sbattuto fuori dalla porta, messo in un cantuccio, o dietro alla lavagna, o subisse una nota di demerito scritta, da portare ai suoi familiari. Sarebbe talmente insolito da far scappar da ridere. Può succedere che, durante una lite, un adulto venga fatto accomodare fuori, ma ha la possibilità di andarsene, non è costretto ad aspettare fino a che non viene richiamato dentro; non ricordo di aver mai sentito di un adulto messo in un cantuccio a guardare il muro fino a che non chiede scusa.

È assolutamente insolito, ma se accadesse sarebbe scandaloso e tutti si ribellerebbero ad un simile trattamento e ad una così grossa umiliazione. Nessuno si ribella se questo succede ad un bambino. Al bambino può accadere quasi tutto, gli si può dare uno sculaccione, lo si può umiliare mettendolo in punizione; maestri e genitori complici possono sgridarlo in nome dell’EDUCAZIONE e per il suo bene. Tale sistema porterebbe, secondo l’adulto, ad una migliore capacità di adeguamento alle norme, ad un miglior rapporto con gli altri bambini e con gli educatori e, soprattutto, ad una maggiore capacità di apprendimento dell’insegnamento scolastico. È difficile credere a tutto questo, ma è luogo comune che i bambini devono imparare a stare in classe, stare attenti e capire cosa viene loro spiegato. La parola "non scolarizzato" è per l’insegnante l’indice più alto dell’inadeguamento e dei problemi sociali e di inserimento che può manifestare un bambino. È sempre luogo comune, anzi buona norma, alla presenza dei figli non contraddire o lamentarsi dei metodi educativi degli insegnanti, anche quando i genitori li trovano un po’ esagerati, per non intaccare la figura dei maestri che deve rimanere integra soprattutto per il bene del bambino. In questa botte di ferro gli insegnanti svolgono il loro programma pedagogico e scolastico dando anche consigli sul sistema educativo familiare affinché sia in linea con la scuola. I più recenti studi neurologici hanno verificato come il quoziente intellettivo aumenti con l’amore e come le connessioni neurologiche funzionino correttamente solo quando le informazioni passano attraverso l’area del campo limbico, area del cervello predisposta per la stimolazione del piacere fisico ed emotivo. Ogni informazione che non passa attraverso un vissuto di piacere, e quindi non accede al campo limbico, non permette alla mente di realizzare libere connessioni neurologiche. Viene così bloccata la creatività e le informazioni non si trasformano in apprendimento ma in addestramento. Apprendimento e piacere fisico sono assolutamente collegati. L’amore che riceviamo rafforza il nostro sistema emotivo rendendolo più forte e più sensibile (ad esempio: se un bambino non è amato e rispettato diminuisce la sua sensibilità nei confronti dell’amore e del rispetto e ha un sistema emotivo più fragile). Il sistema emotivo che si esprime attraverso il neurovegetativo è in stretta correlazione con il sistema neurologico e con il sistema osteomuscolare. Quindi uno stato emotivo fragile non solo impedisce le connessioni neurologiche ma procura una scoordinazione motoria e una rigidità muscolare. Come tutti sanno in una situazione di disagio emotivo i nostri muscoli sono più tesi e le nostre capacità di apprendimento diminuiscono. Negli adulti i muscoli quando sono molto contratti procurano dolori articolari, artriti, artrosi, mal di testa, cervicalgia, mal di schiena; nei bambini rendono più difficile lo sviluppo osseo e di conseguenza la crescita. La rigidità muscolare è anche la causa di deviazioni della colonna vertebrale come la scoliosi, e di altri problemi come il dorso curvo e le scapole alate. Anche quando il bambino si sente inadeguato e colpevole, perché punito, prova vergogna e umiliazione e reagisce irrigidendosi e adeguandosi o irrigidendosi e ribellandosi, dicendo «non me ne frega niente». In entrambi i casi si distacca dal suo dolore, ma il corpo mantiene la rigidità muscolare che gli è stata utile per sopravvivere. Per questo motivo se all’interno di una classe è brutta la situazione di un bambino punito è altrettanto grave quella degli altri bimbi che assistono, che si schierano contro il bimbo

disubbidiente cercando di essere bravi e buoni per non perdere l’accettazione da parte dell’adulto e, non potendosi esprimere di fronte al potere irrigidiscono i loro muscoli. Inoltre ai bambini non si può chiedere di stare seduti per ore nei banchi perché come è più che comprensibile, questo non permette un buon sviluppo dei loro muscoli né della loro intelligenza. Se i bambini non dovessero essere addestrati per accontentare il bisogno degli insegnanti di mostrarsi bravi ed essere confermati nella loro professionalità, si potrebbe soddisfare il loro bisogno di conoscenza stimolando la curiosità e si potrebbe permettere maggiore elasticità nel processo di apprendimento e possibilità di movimento nella classe senza nulla togliere alla conoscenza. Ma se quando i bambini chiacchierano, quando il loro corpo si ribella, e si muove, questo viene considerato un disturbo e non un segnale di stanchezza; se i bambini vengono puniti con l’abolizione della ricreazione e con l’umiliazione di essere allontanati dalla classe o peggio ancora con l’immobilità in un cantuccio, non si può sperare che essi comprendano quello che viene loro spiegato e che i loro muscoli abbiano un buon sviluppo e quindi una crescita armoniosa. Inoltre “l’EDUCAZIONE” che viene data ai bambini attraverso le punizioni impone loro di risolvere i problemi ricorrendo alla violenza. Se un bambino non ha la possibilità di vedere come i genitori e gli insegnanti sanno affrontare e risolvere i problemi in maniera creativa a sua volta non potrà sviluppare tale capacità. L’unico messaggio che riceve è quello che autorizza il potere del più forte sul più debole; messaggio di cui il bambino farà tesoro non appena troverà un bimbo più piccolo e saprà precisamente che da grande in nome dell’EDUCAZIONE e delle regole potrà, se farà il genitore o l’insegnante, punire a sua volta. La repressione, il dolore, le umiliazioni si sfogheranno, a sua insaputa, senza che possa ricordare, sui più deboli, figli e alunni. Gran parte della vita di un bambino si svolge a scuola. I genitori non possono affidare a chiunque la vita dei loro figli, devono proteggerli da situazioni come mancanza di rispetto, punizioni, convenzioni; difenderli da insegnanti che bloccano ogni esperienza motoria ed emotiva del bambino. Spesso i genitori cercano di supplire a questa mancanza di movimento a cui il bambino è costretto per molte ore della giornata con sport, nuoto, danza, pattinaggio, e a volte per il piacere di avere un figlio assolutamente invidiabile lo orientano al pianoforte, al violino o alle lingue straniere. Come l’educazione comportamentale impone convenzioni che bloccano lo sviluppo del bambino, così l’educazione motoria impone movimenti già precostituiti che non permettono un’integrazione con lo schema posturale preesistente. Quando un bambino non ha la possibilità di integrare un movimento perché gli vengono proposti degli schemi prefissati, può solo subire un addestramento che impedisce al suo sistema nervoso di maturare un controllo automatico del movimento. Solo dopo i dodici anni quando lo schema posturale termina la sua maturazione (Cfr. Le Boulche, Verso una scienza del movimento umano) sarà possibile insegnare movimenti prefissati. Inoltre questi sport che richiedono allenamento continuano a rafforzare i muscoli posteriori già rigidi che sono possibili cause di disturbialla colonna vertebrale.

I danni del nuoto Per un bambino muoversi nell’acqua è una cosa senz’altro molto bella e piacevole: può imparare da solo a muoversi, a giocare e galleggiare; ma i vari stili del nuoto danneggiano decisamente tutta la schiena, sia lo stile libero dove ovviamente si inarca tutta la colonna vertebrale, come lo stile a dorso dove il movimento delle braccia trascina verso l’alto il torace costringendo la colonna vertebrale ed il collo ad inarcarsi. Per aggravare la situazione, spesso prima di iniziare il nuoto molti istruttori fanno fare allenamento ginnico per potenziare i muscoli. Per nessun essere umano, ma soprattutto per i bambini, l’allenamento ginnico, il nuoto e altri sport di sviluppo muscolare possono essere fisiologici. La muscolatura posteriore è già troppo forte e rigida perché venga anche potenziata. Quando un bambino è un po’ gracile non sarà con il potenziamento che si allargheranno le sue spalle. Le spalle sono strette e incollate al busto perché i muscoli, che si comportano come degli elastici, sono così corti e rigidi da non lasciare spazio al torace e da diminuirne le capacità respiratorie. Un bambino che abbia un corpo gracile ha bisogno di allentare la muscolatura, di respirare finalmente, di vivere e di trovare il suo spazio nel mondo. Mi è capitato spesso di vedere bambini con scoliosi e dorso curvo, costretti in un busto, in quanto il busto è considerato l’unica terapia per rimettere in asse la schiena. Credo che sia facilmente immaginabile cosa può succedere al corpicino di un bambino e alla sua capacità respiratoria quando, avendo una scoliosi, viene costretto in un busto. Dopo Groddeck, anche Reich e poi Lowen hanno sostenuto che nel corpo è scritta tutta la nostra storia ed è per questo che lavorare sul corpo vuol dire entrare profondamente nella sfera emotiva. Ma quando il corpo non ce la fa più e ci avvisa con il dolore, con rigidità muscolari, con artrosi, artriti e, per i bambini, con dismorfismi (scapole alate, dorso curvo, scoliosi) viene solo considerato una macchina da aggiustare; si va dall’ortopedico, poi dal fisiatra che consiglia una buona terapia di rafforzamento della muscolatura posteriore. Nel caso di un bambino con una scoliosi importante si spiega ai genitori che è fondamentale mettere il busto se non si vuole che il loro figlio rimanga curvo tutta la vita: non viene assicurato il miglioramento ma si evita di peggiorare questo processo che sarebbe in evoluzione, poiché c’è una componente ereditaria su cui è impossibile incidere. ** **N.B.: A volte è vero che un bambino ha la scoliosi come uno dei genitori, ma più che di ereditarietà parlerei di imitazione del bambino che cammina, si muove come il genitore prendendone le stesse movenze e sentendo le stesse oppressioni e le stesse angosce legate all’atteggiamento somatico. Altrimenti non si spiegherebbe come mai queste “ereditarietà” si trovano anche nei bambini adottati. Il bambino metterà il busto tutto il giorno, lo toglierà la notte, e per sottoporsi alla fisioterapia. Il fisioterapista dovrà rafforzare i muscoli, toccando quel corpicino già ferito solo per imporgli dei movimenti. È importante vedere la situazione dal punto di vista meccanico (Meziérès) e dal punto di vista emotivo neurologico e emozionale relazionale. Dal punto di vista meccanico i muscoli del bambino vengono imprigionati in un busto, spesso di gesso, che impedisce i movimenti; il busto è studiato per imporre una rotazione contraria a quella che il corpo del bambino ha preso. Non vengono considerate o non sono ancora conosciute, a cinquant’anni dalle sue scoperte, le teorie di Françoise Meziérès, teorie secondo le quali i muscoli sono fin troppo rigidi e vanno ammorbiditi e non bloccati; non si

prende in considerazione che il busto crea un blocco diaframmatico tanto da impedire al bambino non solo una buona respirazione ma anche un buon movimento del diaframma. Bloccando il diaframma si blocca tutta la catena muscolare ancora di più perché il diaframma ha alcune delle sue inserzioni sulle vertebre lombari dove sono inseriti anche i muscoli posteriori; questo procura una retrazione di tutta la muscolatura posteriore aggravando una iperlordosi lombare e cervicale e di conseguenza anche la rotazione della schiena. Dal punto di vista emotivo-neurologico il bambino viene punito e torturato perché il suo corpo ha dato cenno di malessere, e addestrato a movimenti non fisiologici. Dal punto di vista del rapporto relazionale il bambino non ha certo avuto qualcuno che lo ha aiutato, toccato, testimoniato il dolore delle sue ferite. Se il corpo conosce la nostra sofferenza, quale sarà la sofferenza di un bambino con la scoliosi? Toccando questo corpo nessuno si è posto questo problema; gli hanno solo messo un busto e lo hanno obbligato a fare una serie di esercizi di rafforzamento. Anche di fronte ad atteggiamenti scoliotici o dorsi curvi, scapole alate, la medicina interviene con la cosiddetta “ginnastica correttiva” che niente ha di correttivo. Vengono proposti esercizi alla spalliera o esercizi con un bastone tenuto con le mani e messo dietro le spalle, per portarle indietro, spingendo il petto in fuori. Questi movimenti spostano tutto il corpo lasciando invariata la posizione delle spalle rispetto al busto, aggravando solo la muscolatura posteriore, inarcando la zona lombare e in particolar modo la zona tra le scapole, incassano il collo e avvicinano fra loro sempre di più le vertebre. Questi esercizi vengono sempre accompagnati dal consiglio di iscrivere il bambino a un corso di nuoto che lo rafforzerà, aiutandone la crescita e lo sviluppo globale. «Il nuoto fa sempre bene», «è uno sport completo, globale» e in effetti produce un rafforzamento globale: i gran dorsali si ipersviluppano in proporzione allo sviluppo precedente aumentando in progressione geometrica il dislivello, dato che lavorerà sempre maggiormente il gran dorsale più forte e l’atteggiamento scoliotico diventerà una vera scoliosi. Al controllo medico la risposta sarà: «per fortuna che gli abbiamo almeno fatto fare nuoto». Quando vedo un bambino con una scoliosi o con altri disturbi alla colonna vertebrale prendo in considerazione le cause che, secondo me, lo hanno portato a ruotare il corpo; sicuramente qualcosa ha disturbato la sua sensibilità e si è sentito ferito al punto da doversi difendere con rigidità e rotazioni muscolari. Sicuramente un’altra causa è dovuta a sbagliate posizioni che ha avuto da piccolo: causa emotiva, causa relazione e causa meccanica. Non mi sentirei di aiutare questo bambino se correggessi, sia pure con un metodo meccanico efficacissimo come il Metodo Mézières la sua schiena; scoprirei soltanto queste difese lasciando però vivere il bambino nello stesso ambiente che lo ha tanto ferito. Sarebbe opportuno che il primo intervento fosse sul corpo dei genitori: ammorbidendo prima di tutto le loro contratture, frutto di emozioni bloccate che inevitabilmente si trasferiscono ai figli. Il secondo, un trattamento individuale sul bambino con un approccio caldo e morbido per sciogliere con molta lentezza alcune delle contratture più violente; poi facendolo lavorare in un gruppo insieme ad altri coetanei, stabilendo un clima di fiducia e facendogli fare esercizi realmente correttivi, ma senza "correggerlo", dando a lui il tempo di fare un processo a ritroso, lento, difficile, ma sicuro, solo quando vuole e quando può (figure nn. 2, 3).

Figura 2: muscolo gran dorsale Figura 3: muscolo gran dorsale - quando il muscolo gran dorsale si contrae più da una parte che dall’altra, abbassa la spalla e il busto si piega dal lato della contrattura. «La sofferenza, proiezione di difficoltà e di dolore, l’eco in cui si esprimono le nostre paure e le disperazioni, è la manifestazione di tante angosce accumulate durante l’infanzia che unita ai sensi di colpa sovraccarica la coscienza facendone derivare limiti di comunicazione » (K. Stettbacker). Sofferenza, disperazione, paura, sensi di colpa portano a un’ interruzione della comunicazione. Il dolore del corpo è un grido di aiuto. Con la stessa violenza dell’educazione comportamentale e di quella motoria la rieducazione finge di rispondere a questo aiuto. Sarà impossibile cambiare la rieducazione, avere ascolto per il proprio dolore e quello degli altri se non rifiutiamo norme educative, se non vediamo la violenza degli allenamenti sportivi, se non apriamo gli occhi sull’allucinante vita che un bambino è costretto a vivere, lontano dal rapporto espressivo ed emozionale con gli altri, distaccato dalla relazione con il tempo, occupato tutto il giorno a scuola e nelle attività dopo la scuola. Il sabato e la domenica, per non dimenticare le informazioni avute durante la settimana, occupato nei compiti.

Il bambino è l’unico lavoratore non protetto da nessun sindacato, supera ampiamente le quaranta ore settimanali. Il suo tempo non esiste. E lui esiste? Spesso il bambino si adegua per essere amato, per compiacere genitori e insegnanti affinché abbiano una buona opinione di lui, affinché possa lui stesso avere una buona opinione di sé; affinché possa essere valutato e confermato cerca di essere ciò che gli adulti desiderano. Ma il suo sistema neurologico ed emotivo viene sovraccaricato. Non ha tempo e possibilità di conoscere le sue emozioni, di sperimentarle e di armonizzarle con le regole sociali, non ha possibilità di conoscere i propri movimenti, di sperimentarli e integrarli per avvicinarsi agli sport. Ostacolato nei tempi di aggiustamento si irrita, si sente inadeguato, irrequieto, rischia di diventare suo malgrado o un bambino ubbidiente riunciando ai bisogni o un bambino disubbidiente, confuso, colpevole che considera il suo bisogno come elemento distruttivo per una buona relazione con l’adulto. Con l’educazione sia comportamentale che motoria che gli adulti vantano come buon risultato nella crescita il bambino subisce un danno neurologico ed emotivo, un danno muscolare e un danno emozionale. Nella giornata del bambino spesso non c’è niente che soddisfi il suo bisogno: scuola, sport, regole, adattamento, addestramento. Il suo bisogno non esiste, non è riconoscibile, non esiste la sua vita di bambino, non esiste il suo tempo. Il rapporto con il tempo subisce una dittatura cadenzata da impegni non scelti, il tempo è solo finire di esaurire gli impegni. Alcuni esperti della psiche amano, a volte, spero con autoironia, definire la persona sempre puntuale "ossessiva", quella sempre in ritardo "aggressiva" e quella sempre in anticipo "ansiosa". Ogni sofferenza viene catalogata in patologia da curare. Oltre al danno anche la beffa. Proprio gli esperti continuano però a dare consigli su come instradare i piccoli dell’uomo senza rendersi conto che proprio questa educazione comportamentale e motoria inibisce ogni relazione fra la persona, gli altri, le cose che lo circondano (ordine o disordine) e il tempo. Se il bambino non ha alcuna possibilità di gestire il suo tempo, da grande sarà costretto a prendere il testimone genitoriale e ad imporsi rigide modalità nell’affrontare la giornata o rigide ribellioni in rapporto alle convenzioni che gli sono state imposte. Ci sono persone che sono sempre in anticipo agli appuntamenti, in anticipo nelle cose che devono fare non sapendo poi come gestire il tempo che rimane, in una corsa anticipata nei confronti dei doveri che sono stati loro imposti da piccoli e che da grandi loro stessi si impongono; il testimone che prendono dai genitori è tutto ciò che possono permettersi avendo una situazione emotiva non più in equilibrio, una rigidità muscolare che non permette loro altra scelta avendo emozioni e sensazioni sepolte nei doveri e nella razionalità. Ci sono persone che sono assolutamente puntuali in tutto; hanno arrangiato un equilibrio separato dalle emozioni, ingerito verità assolute, conoscono esattamente domande e risposte, sono in un armonico rapporto con la patologia del mondo. Ci sono persone che sono sempre assolutamente in ritardo, che in apparenza combattono gli schemi genitoriali perdendo tutta la vita a lottare con questa staffetta, ruotandosi fisicamente, agitandosi ma non muovendosi, pronti a demolire tutto per ricostruire con regole ferree e rigide, pronte a combattere per tutto; sanno che hanno bisogno di qualcosa, combattono con il mondo e con il tempo; a denti e diaframma serrati si trovano immersi in cose da fare, si agitano non comprendendo cosa realmentedevono demolire e cosa devono ricostruire. In questi tre comportamenti c’è alla base un’unica sofferenza:

l’impossibilità fin da bambini di relazionarsi con il tempo; la difficoltà di poter a volte cambiare idea rispetto all’impegno preso, di poter con elasticità fermarsi a guardare, a sentire, per armonizzare il desiderio di fare una cosa con la possibilità di farla senza ignorare momento per momento gli eventi della giornata o farsi assorbire da essi. Questa sofferenza denuncia l’interruzione di una continuità innata che l’essere umano ha come patrimonio naturale, come possibilità di rapportarsi al mondo esterno relazionandosi col tempo, con le cose e con gli altri. Questa interruzione crea confusione e costringe ad appellarsi a canoni prestabiliti non solo nei confronti del tempo e delle cose ma, e soprattutto, nei confronti della relazione con gli altri, relazione chenon servirà per entrare in contatto ma solo per avere un minimo orientamento nel noioso quotidiano. Jean Liedloff nel suo libro Il concetto del continuum dimostra come rompere la continuità di un bambino imponendo la propria volontà sia come rompere il suo organo motore; spezzare la sua socialità innata attraverso l’educazione è la miglior garanzia per ottenere un adulto antisociale che si troverà sempre in difficoltà ad adattarsi a leggi e regole di diversi ambienti. Rompere questa nostra innata socialità vuol dire sentirsi persi, essere stranieri nella propria vita, stranieri nel proprio corpo, nella propria casa. Azzittire significa azzittire i nostri guardiani interni (K. Stettbacker), rompere il continuum (J. Liedloff), perdere la strada per il ritorno a casa ed avere il proprio fiume interno incapace di scorrere perché ingombro (Clarissa Pinkola Estés). Azzittire significa deviare la crescita impedendoci di essere adulti e deviare anche la crescita fisica. La scoliosi è un chiaro segno di continuum spezzato, di torsione del corpo, di respiro bloccato, di soffocamento e imprigionamento della nostra vera natura. Quando viene sgretolata la guida interna per seguirne una straniera, alcuni, fra coloro che non riescono a subire questo affronto, manifestano il proprio dolore con la distorsione del corpo. Ho visto un bambino di quattordici anni che portava un busto dall’età di sei anni. Per otto anni giorno e notte era stato rinchiuso in questa gabbia che gli stringeva la vita e tutto il torace; dalla parte superiore del busto usciva un ferro che arrivava sotto al mento e gli spostava il viso verso il lato opposto alla deviazione. Le mani, le braccia, le gambe e tutto il resto del corpo erano cresciuti ma il suo torace aveva ancora sei anni. Quando ho parlato alla madre dei principi del Metodo Mézières e del lavoro che facciamo sul corpo in alternativa al totale blocco del torace che provoca il busto, lei mi ha risposto solo: «perché? Perché queste cose non si sanno? Perché mio figlio già in difficoltà ha dovuto subire ancora?». Ragioni come questa mi hanno spinto a scrivere questo libro. Ci sono forme di distruzione, omicidi puniti e altri convalidati dalla società. Mettere un busto, far tacere l’ultimo grido, non ascoltare il pianto di un corpo, creare buio e silenzio imbustandolo è uno fra gli svariati crimini incoraggiati dalla società. Operazioni alle ginocchia valghe, operazioni agli alluci valghi, operazioni alla colonna vertebrale traumatici e disorientativi distruggono inesorabilmente una continuità già flebile e danno come esito, dopo mesi di riabilitazione, il ritorno alla patologia iniziale. I medici continuano ad ignorare che tutto dopo poco ritorna come prima, continuano ad ignorare la potenza e la forza dei muscoli, capaci di deviare la colonna, le gambe, le dita dei piedi.

Muscoli rigidi carichi di dolore. Coprire questo dolore, tagliare, rincollare dà, come ho già scritto, la possibilità al medico di dimenticare sempre di più la sua personale storia dolorosa ed erroneamente lo spinge a sperare che ferri e sbarre, possano ridare una continuità e seppellire una storia. Il continuum perso come può essere riacquistato? Come trovare un sano modo di sentire la vita, la gioia, la passione, la natura selvaggia senza la quale non possiamo vivere? Col mio Metodo non voglio guarire; ho solo l’intenzione, forse la presunzione, proponendo un lento e rispettoso lavoro sul corpo, di offrire la possibilità di ritrovare la propria continuità, la propria natura, tutto il resto fiorirà naturalmente.

Capitolo 3

Il metodo Monari Nella nostra vita la prima interruzione della comunicazione è corporea. Come ho già detto è per non dare vizi al bambino che lo si abitua a non stare in braccio troppo spesso. Si segue un sistema educativo che va contro quel naturale rapporto fisico fra la mamma e il suo piccolo. Secondo Leidloff il bambino dovrebbe rimanere in braccio fino a che lui stesso non decide di staccarsi perché altri bisogni, come il movimento e la scoperta di ciò che gli sta attorno prendono il posto della primaria necessità di essere ancora un tutt’uno con la madre. Se viene mantenuta una buona comunicazione corporea il bambino si sentirà buono, sentirà di non essere di peso. Questa continuità fra la dipendenza che ha quando nasce e i lenti processi di indipendenza che costituiscono la sua crescita, gli darà basi solide e un patrimonio indispensabile per armonizzare con se stesso e con gli altri. L’interruzione della comunicazione corporea interrompe tutto questo. Il rischio è la fragilità delle comunicazioni future. Durante la vita l’interruzione della comunicazione rinnova il lamento e il dolore passato, e spesso sfocia nella malattia. Il mio lavoro è un lavoro sul corpo, è un lavoro sulla struttura muscolare affinché le rigidità che interrompono la comunicazione si ammorbidiscano; è un lavoro sulla relazione corporea, è il tentativo di ripristinare una continuità interrotta dal freddo dell’isolamento. Negli ultimi vent’anni alcuni psicoterapeuti che già ho citato hanno individuato, separandosi dalla psicanalisi classica, le cause della violenza nel mondo. Jean Liedloff, Alice Miller, Konrad Stettbacker con lucidità hanno analizzato il dramma che i bambini vivono e la violenza soffocata che li porterà a distruggere se stessi e gli altri. Clarissa Pinkola Estés nel suo libro Donne che corrono coi lupi parla della donna selvaggia, ascolta, sente e vive la natura selvaggia che è in ogni donna; io mi associo e estendo questo concetto ad ogni essere umano; una natura di cui tutti siamo stati privati che è selvaggia e sana. Jean Liedloff ne Il concetto del continuum parla di una continuità spezzata che rompe e interrompe la nostra natura. Sono d’accordo con questi psicoterapeuti che insieme ad altri hanno influenzato e rafforzato le basi teoriche del mio metodo.

È il corpo del bambino che ha incominciato a irrigidirsi per non sentire il freddo e la paura di quel distacco, è principalmente in quei muscoli che si è rotta una continuità, è sotto quella corazza che si nasconde una natura selvaggia. Ho potuto verificare in tanti anni di lavoro come mano a mano che i muscoli sono più liberi - e viene loro data la possibilità di muoversi e di entrare in contatto con il corpo degli altri - sentono per la prima volta l’autorizzazione a vivere la propria natura, ad esprimersi e a ricomporre un’innata socialità. Penso che solo attraverso un lavoro sul corpo si possa sentire la libertà del movimento, si possa mostrare l’espressione naturale che i muscoli bloccati rendevano ferma. Penso che solo dopo un ammorbidimento muscolare si possa ritornare ad un caldo abbraccio e si possa sentire quel calore che era stato interrotto. È con la magia del calore che la nostra natura prende vita e forza per disubbidire a rigide convenzioni che la soffocano. Il mio lavoro viene svolto principalmente in gruppo. Da quindici anni ho aperto un centro a Bologna dove lavoro e dove grazie ai miei allievi ho ampliato le mie conoscenze e la mia esperienza. Ho privilegiato fin dall’inizio il lavoro di gruppo; forse quando ho iniziato non avevo una vera e propria ragione per non praticare trattamenti individuali; ho semplicemente seguito il mio istinto e il mio desiderio; gli anni di lavoro mi hanno poi fatto capire il perché della mia scelta. Ho trovato illuminanti, come già detto, le scoperte ed i principi di Françoise Mézières ma onestamente ho sempre temuto l’applicazione di questo metodo. Il metodo Mézières è una tecnica che si propone di allungare le cinque catene muscolari lavorando molto sulla respirazione. Se è vero che i muscoli trattengono le emozioni, trovo che possa esserci il rischio di non rispettare i tempi del paziente imponendo un allungamento muscolare totale. Inoltre penso che se una persona non ha una patologia che le impedisce di camminare o una cerebropatia grave, valga la pena che faccia un lavoro di gruppo, evitando di delegare il suo corpo al terapista, per poterlo gestire autonomamente conoscendo i propri blocchi, percependo le proprie rigidità. Saprà poi da solo cosa fare per ammorbidirsi avendo nei gruppi sperimentato esercizi per lui importanti, essendo in contatto con i limiti del proprio corpo. Nessun terapista può sostituirsi a questo; più il lavoro è autogestito più la persona impara a conoscere i propri blocchi e a rispettare i propri limiti. Inoltre in un lavoro individuale non può esserci l’incontro con gli altri e questo è senza dubbio il limite più grosso del trattamento individuale; come ho già detto, il dolore fisico ed emotivo è dato da un’interruzione della comunicazione e non si può fare, a mio parere, nessun tipo di terapia prescindendo da ciò. Nonostante questo, il mio Metodo prevede anche trattamenti individuali. Si tratta di massaggi profondi o di trattamenti fisioterapici. Pur rischiando di contraddire ciò che ho appena scritto sono cosciente che esistono persone che hanno problemi ad entrare immediatamente a far parte di un gruppo; in questi casi vengono fatte alcune sedute preliminari di massaggio profondo per ammorbidire i muscoli e far rinascere il bisogno di socialità. I trattamenti fisioterapici sono indicati per persone con disturbi neurologici e cerebropatie, persone che non sono in grado di camminare e che non possono partecipare al lavoro di gruppo; oppure per persone che in seguito ad incidenti hanno bisogno di una terapia individuale di reintegrazione per ristabilire una continuità meccanica ed emotiva nel proprio corpo. Il metodo usato per i trattamenti fisioterapici non è il metodo Mézières ma ne vengono fedelmente mantenuti i principi. Ho elaborato un Metodo che a mio parere lascia più libero il paziente di usare i compensi che gli sono indispensabili in quel momento.

Il tentativo è comunque, con i tempi personali di ciascun paziente, di completare il suo lavoro all’interno di un gruppo. Formazione dei gruppi Il gruppo è preceduto da un colloquio individuale con ogni partecipante al corso. Il colloquio ha lo scopo di: - stabilire una reciproca conoscenza; - informarmi sui disturbi fisici o emotivi della persona; - informarmi sulle motivazioni che l’hanno spinta a voler iniziare questo lavoro; - dare tutte le informazioni e rispondere alle eventuali domande. La composizione del gruppo è assolutamente casuale. Non è infatti importante determinarla, in quanto la sensazione trasmessa da ognuno singolarmente si trasforma all’interno del gruppo. Quando si ha un colloquio, la persona che abbiamo di fronte ci propone un’immagine di sé e noi possiamo solo presumere quali siano i suoi bisogni. Solo il suo corpo durante il lavoro parlerà delle reali mutilazioni e sofferenze subite. Inoltre il gruppo durante il lavoro crescerà su basi comuni esprimendo di volta in volta bisogni, sensazioni ed emozioni che lo porteranno ad avere un linguaggio comune, ed è con questo che bisognerà rapportarsi. Il lavoro di gruppo verte su tre punti fondamentali: a) lavoro sulla struttura muscolare; b) lavoro di relazione corporea fra i componenti del gruppo; c) impostazione di un lavoro di gruppo che tende a rompere le dinamiche che avvengono spontaneamente in gruppi di persone vissute in una società occidentale basata sulla competizione. a) lavoro sulla struttura muscolare Sia nel lavoro individuale che nel lavoro di gruppo vengono mantenuti i principi di Françoise Mézières; l’allungamento della muscolatura tiene conto che esistono cinque catene muscolari ma soprattutto è presa in considerazione la forma perfetta del corpo umano di cui ha parlato Mézières. L’importanza della conoscenza della forma perfetta è, per un terapista, fondamentale: quando un allievo ha una spalla più alta e una più bassa se non si conosce come dovrebbe essere naturalmente il corpo umano non si può sapere quale delle due spalle è nella posizione fisiologica. Fare dell’allungamento o dello stretching senza rispettare la simmetria e senza questa conoscenza, diventa un lavoro assolutamente azzardato. b) lavoro di relazione corporea fra i componenti del gruppo Ogni essere umano ha la necessità assoluta di comunicare sempre con gli altri e con il mondo che lo circonda e sicuramente ha la necessità di comunicare con il corpo, di poter entrare in contatto col corpo di altre persone, di sentirne il calore e le vibrazioni. Il corpo pieno di rigidità e di contratture muscolari non è assolutamente disponibile a un incontro con un altro corpo, è quindi assolutamente necessario ammorbidire prima la muscolatura. Quando i nostri muscoli sono ammorbiditi abbiamo di nuovo la possibilità di

avere i nostri cinque sensi attivi che ci mettono in comunicazione con l’esterno; ma questi sensi bloccati per anni, una volta risvegliati possono spaventarci se non trovano accoglienza. Ad esempio se una persona è stata picchiata da piccola, la sua pelle e i suoi muscoli si sono irrigiditi per proteggersi; tolta questa protezione, rischia di spaventarsi a meno che questa pelle e questi muscoli non sperimentino per la prima volta, in una situazione di apertura, che possono ricevere carezze anziché percosse. In alcuni momenti del mio lavoro, quando, dopo aver proposto alcuni esercizi per ammorbidire la struttura muscolare, propongo un massaggio a coppie, comprendo perfettamente che quelle carezze sono accettate profondamente perché è la prima volta che vengono ricevute e date senza muri di difesa. Solo così una persona può mano a mano abbandonare le proprie contratture scoprendo il piacere di vivere senza di esse e questo diminuisce la paura. c) impostazione di un lavoro di gruppo che tende a rompere le dinamiche che avvengono spontaneamente in gruppi di persone vissuti in una società occidentale basata sulla competizione Questa impostazione avviene in quattro fasi che vanno dal lavoro a raggera al lavoro circolare. Se nel rapporto individuale fisioterapista-paziente è necessario, per la buona riuscita del lavoro, che ci sia un rapporto di fiducia reciproca (è importante infatti che il paziente abbia fiducia nel terapista ma è altrettanto importante che il terapista abbia fiducia nella possibilità di recupero del paziente), nel lavoro di gruppo è fondamentale anche creare un clima di fiducia tra tutti i componenti del gruppo. I primi lavori di allungamento muscolare e di relazione sono volti a questo obiettivo. Per creare un clima di fiducia, la scelta dei lavori non può essere già precostituita ma va fatta tenendo presenti i componenti del gruppo e le loro rigidità; evitando lavori troppo difficili che possano produrre emozioni di frustrazione e inadeguatezza, cercando invece di dare la possibilità alle persone di prendere confidenza con il proprio corpo e scoprirne le potenzialità. Questo ultimo punto di solito crea un clima di tranquillità all’interno del gruppo. Naturalmente senza andare a toccare le contratture più profonde, si dà però ad ogni persona la possibilità di comprendere il lavoro, di potersi ammorbidire, di capire che il proprio corpo è malleabile. Allungando infatti una parte si può verificare la differenza di appoggio tra la parte "lavorata" e l’altra, scoprire, ed è ben evidente, come la parte allungata può fare movimenti fino ad allora sconosciuti. Mano a mano che le persone acquistano fiducia in sé e nel gruppo, il lavoro di allungamento può diventare più profondo. A questo punto una persona può ritrovare la vecchia solitudine nel sentire le emozioni e le sensazioni vere riaffiorare; quando questo succede bisogna avere già creato un clima di accoglienza, perché se ciò accadesse prima, una persona si troverebbe assolutamente scoperta, di nuovo sola e di nuovo nelle stesse difficoltà in cui si è trovata quando queste contratture sono avvenute. Ammorbidendo le rigidità muscolari sarà più facile fare un lavoro di relazione affinché ci sia un incontro anziché uno scontro, come potrebbe succedere se le rigidità di ognuno prevalessero sul bisogno di relazione. Il lavoro di relazione ha come scopo anche quello di accogliere i bisogni che sono riaffiorati allungando i muscoli e sbloccando le sensazioni e le emozioni che vi erano trattenute. Dopo il lavoro muscolare gli allievi si adagiano su un fianco, schiena a schiena o "uno dentro l’altro" per ritrovare l’accoglienza e il calore, per risentire con i muscoli morbidi la continuità di un contatto che a suo tempo si era spezzato. In questi momenti si ripristina una continuità interrotta e si intravvede la possibilità di trovare un nuovo modo di relazionarsi con gli altri.

Nella seduta i lavori di allungamento della muscolatura posteriore sono alternati a quelli di relazione. I primi lavori di relazione sono basati sul gioco e sul movimento: intanto per sperimentare i nuovi movimenti che il corpo ora è in grado di compiere e contemporaneamente aumentare la solidarietà, la complicità e il contatto all’interno del gruppo. Tutto il lavoro si basa sull’alternanza e l’armonia di questi due momenti che andranno sempre più in profondità, essendo di sostegno l’uno all’altro: più la muscolatura si sblocca e più ci sarà bisogno di contatto e quindi di lavoro di relazione, più ci sarà contatto e relazione e più si avrà fiducia e coraggio nel cercare tramite lo sblocco muscolare le sensazioni e le emozioni imprigionate. Lo scopo del mio lavoro non è quello di guarire le persone ma di creare un clima nel gruppo che faciliti la conoscenza della verità scritta nel corpo di ognuno di noi. Tutti i miei lavori hanno lo scopo di agevolare l’allievo a scoprire i propri blocchi; le persone conoscono la salute, solo non sanno come ritrovarla. Gli esercizi vengono proposti ma non vengono né mostrati né corretti: non è tanto importante eseguirli quanto scoprire cosa impedisce il movimento; e solo in un clima di non giudizio e di non correzione le persone hanno la possibilità di ascoltarsi. Spesso, dopo il lavoro chiedo agli allievi come si sentono e che sensazione hanno avuto. Non dico mai ciò che ho visto ma ascolto solo quello che hanno provato. Dare il mio parere a un allievo e parlare del significato dei suoi blocchi prima che lui stesso ne sia cosciente significherebbe renderlo dipendente intellettualmente da una mia interpretazione, che peraltro può non essere esatta; ma qualora lo fosse, significherebbe staccarlo dalle sue percezioni e farlo dipendere dalle mie conoscenze. Personalmente ho notato come l’interpretazione dei miei sintomi da parte di alcuni dei miei maestri mi creasse dipendenza e insicurezza. Fin da quando si è piccoli, dalla scuola materna in avanti, gli insegnanti interpretano e determinano l’atteggiamento degli alunni. È premiato chi è più degli altri, più bravo, più buono, più bello, più intelligente. In terapia e nella cura è premiato chi, con la guarigione, conferma il lavoro del terapista o del medico, a scuola il bravo scolaro conferma l’insegnante. Nella scuola elementare il giudizio, che adesso ha preso il posto del voto, mette i bambini in continua competizione fra di loro lasciando incontestata la posizione della maestra; ogni bambino fa riferimento alla maestra, ne teme il giudizio, fa di tutto per essere più bravo perché sarà più amato e più accettato. Cercare di essere più bravo non vuol dire riuscirci; il bambino molto sensibile sarà più preoccupato di essere escluso che di ascoltare la maestra. In ogni gruppo che si prefigga uno scopo, anche un qualsiasi corso di lingua straniera composto da adulti, prima che i membri si avvicinino allo scopo, dovranno riattraversare tutte le volte conflitti di inadeguatezza e di esclusione. Sottoposto allo stress dell’essere il migliore, chi è riuscito ad ignorare i propri conflitti, la paura dell’esclusione e dell’inadeguatezza, riuscendo ad essere il più bravo, si troverà sempre in ogni nuovo gruppo, ad ignorare se stesso per piacere; chi immerso nei conflitti ha ignorato l’insegnante, si sentirà in ogni gruppo inadeguato all’apprendimento. Il lavoro muscolare comporta la proposta di esercizi di allungamento che ammorbidiscono le contratture muscolari e allentano la corazza muscolare, quindi ancora di più e a maggior ragione si è vulnerabili; che il gruppo sia amico è indispensabile. Ma non sarà mai un gruppo amico se il riferimento per ogni membro è sempre costantemente il conduttore.

Se il lavoro è costantemente a raggiera non vi è alcuna speranza di evitare la competizione. Ancora più dolorosamente, perché se una persona lavora sul corpo è costretta a competere e in più a fingere di occuparsi di sé. In questo caso il lavoro a raggiera e quindi la competizione, portano alla contraddizione che il più bravo è quello che più si occupa di sé. Tutto ciò è assolutamente incompatibile. Ogni gruppo, ma in particolar modo un gruppo che lavora sul corpo, non può in assoluto permettersi che ogni membro faccia riferimento al conduttore.

Lavoro a raggiera Prima fase In una prima fase è però inevitabile che il lavoro sia a raggiera. Quando un allievo inizia un lavoro di gruppo oltre alla paura del giudizio e al timore del gruppo, ha comunque molte aspettative sul conduttore; pensa che comprenda la verità sulla sua vita, che sappia tutto di lui appena lo guarda, che attraverso le sue rotazioni possa conoscere la profondità del suo dolore; la sua richiesta è quella di massima attenzione, ignorarla sarebbe come lasciarlo solo. Come un bambino piccolo pensa che la mamma sappia tutto ed esige da lei la più totale attenzione, così l’allievo abituato da sempre a dover farsi notare ha la necessità di essere guardato e accettato, ha bisogno che vengano accettate le modalità seduttive che propone. Ci sono allievi che amano intervenire sempre, altri che devono contestare, altri ancora che convalidano quello che viene proposto ecc.; hanno imparato a farsi amare così. Ogni allievo in un gruppo propone un rapporto individuale (da sempre è abituato a fare così). Per questo motivo “l’alleanza terapeutica” può avvenire all’inizio solo attraverso un lavoro a raggiera. Persistere, mantenendo questa modalità nel corso del lavoro, porterebbe a dinamiche di gruppo conosciute e subite non solo fin dalle scuole elementari ma anche in famiglia nei confronti dei fratelli. Ho sempre pensato che i fratelli avrebbero minor gelosia e competizione fra di loro nel contendersi l’oggetto d’amore mamma o babbo, se non fossero i genitori a rapportarsi singolarmente con il figlio, se attraverso i paragoni non li dividessero dando e togliendo continuamente la speranza ai figli di essere l’oggetto d’amore preferito. Se non ci fosse questo comportamento i figli avrebbero maggior possibilità di solidarizzare fra di loro e di godere di una reciproca complicità; questo rafforzerebbe la loro sicurezza nel rapporto coi genitori e forse permetterebbe ai figli di avere più coraggio nel ribellarsi alle profonde ingiustizie che spesso subiscono. Come i genitori, i conduttori che tengono gruppi di qualsiasi tipo, dalla scuola alle palestre, ai gruppi di terapia fisica o psichica, hanno buon gioco mantenendo un riferimento costante su di sé. Il lavoro è più semplice e ogni loro sbaglio relazionale di intolleranza o comunque di poca partecipazione emotiva, raramente viene rimarcato dal momento che, l’impegno più grosso per figli, alunni, allievi, pazienti è quello di apparire e di farsi vedere piuttosto che guardarsi.

L’eventuale esclusione all’interno di un gruppo non viene considerata responsabilità di maestri, conduttori o terapisti, ma più semplicemente viene riferita a problemi personali e di relazione del bambino, del paziente o dell’allievo. Nessuno mette in dubbio che probabilmente da anni questa è stata la modalità di difesa a cui una persona ha fatto più spesso riferimento, ma sicuramente, è stata richiamata e rafforzata dall’atteggiamento del conduttore del gruppo (classe, terapia, palestra ecc.).

Figura 4 Seconda fase Il passaggio dalla prima alla seconda fase avviene attraverso il lavoro muscolare e la scelta dei lavori di relazione. Il lavoro di relazione permette di spostare il punto di riferimento dal conduttore al gruppo e questo vuol dire diminuire la dipendenza dell’allievo nei confronti del conduttore, quindi metaforicamente nei confronti dei genitori, e trovare accoglienza e conferma nel gruppo aumentando la propria sicurezza (come per i bambini il gruppo dei coetanei è la forza per diminuire la dipendenza dai genitori). Personalmente ho notato che i lavori di relazione, dopo aver fatto un lavoro sulla struttura muscolare, sono così autentici da fortificare in modo molto profondo il “gruppo contenitore”. Non avviene la stessa cosa quando il lavoro relazionale non è preceduto da un lavoro muscolare, proprio perché spesso si tratta di uno scontro tra barriere muscolari più che di un incontro e il caldo rifugio rimane sempre il conduttore. In questa seconda fase il conduttore è ancora un riferimento abbastanza importante ma occorre impostare lavori di relazione che

mettano sempre più in rilievo i compagni del gruppo, lavori che aumentino sempre più la fiducia nel gruppo e il desiderio di relazione con le persone appartenenti al gruppo. Questa seconda fase, di passaggio per arrivare ad un vero lavoro circolare, trova terapista e allievi uniti, e l’allievo si sente protetto sia dal terapista che dal gruppo. A questo punto possono essere proposti lavori che coinvolgono muscoli profondi come gli scaleni, il diaframma e muscoli che anche se più superficiali trattengono maggiormente le emozioni come i muscoli di tutta la parte superiore del corpo, muscoli del viso, del torace e del collo. Spesso questi muscoli si sono irrigiditi addirittura nei primi giorni di vita e spesso trattengono dolori profondi; solo quando il gruppo è accogliente e la relazione tra le persone è forte, è possibile contenere e proporre questo tipo di lavoro. Il lavoro di relazione sarà di contatto per accogliere le emozioni e unire ancora di più il gruppo.

Figura 5 Terza fase Nella terza fase la figura del terapista tende ad essere sempre meno importante; è presente in caso di necessità ma è fuori dal gruppo; il riferimento sono più i compagni che il terapista e l’allievo lentamente incomincia a fidarsi delle proprie capacità. La terza fase da una parte rafforza la seconda e dall’altra prepara all’ultima fase che è quella del lavoro circolare. I lavori muscolari tendono a dare sempre più stabilità per cui il lavoro sul dorso, sul bacino, sulla coscia (quadricipite), sulle gambe. Il limite per un bambino non è un concetto, l’unico limite che conosce è percettivo ed è dato dai limiti del suo corpo, limiti nel senso del contorno del corpo. Se i suoi contorni sono stati maltrattati, se il suo corpo è stato strattonato e percosso, se è stato umiliato e i suoi limiti sono stati invasi, lui percepirà che sia i suoi limiti che quelli degli altri potranno essere non rispettati perché questa è la sua esperienza. Nella sua vita ci sarà confusione sulle parole rispetto, contorno, limite, e non potrà contenersi ma solo trattenersi. Ogni sofferenza della vita senza un contenitore si trasforma in ansia e va a rafforzare le contratture e le rigidità dell’infanzia.

Trattenere vuol dire sopportare con rabbia e ansia un dolore nascosto, contenere significa convivere col dolore. Il dolore può convivere con la gioia, con l’amore, con il piacere; l’ansia e la rabbia vivono soli. Se il gruppo è un buon contenitore una persona può conoscere per la prima volta l’esperienza di essere contenuta e può comprendere come contenere se stessa e gli altri. Ogni volta che il gruppo contiene la sofferenza del singolo lo aiuta nel faticoso passaggio dal trattenimento delle emozioni al suo contenimento. L’esperienza per la prima volta di un “gruppo contenitore” buono e accogliente gli sarà di aiuto nella lenta ricostruzione del proprio contenitore, del proprio limite, del proprio confine e di quello degli altri; percependo accoglienza e amore avrà la possibilità di scoprire il rispetto. I limiti e i contorni del corpo accarezzati ridanno dignità e forza a un corpo che si sente apprezzato, muscoli più snelli e più forti hanno la possibilità e l’energia di accogliere ed accettare queste carezze. In questa terza fase c’è la preparazione ad un proprio contenitore, alla possibilità di comunicare proteggendosi e non difendendosi. Questa terza fase, dove il gruppo è molto unito, è la più naturale per gli allievi e la più difficile per il terapista perché si sente isolato e, se non ha un suo contenitore o è in un momento difficile della sua vita, rischia con azioni inconsce di riportare il lavoro a raggiera: aiutando troppo qualche allievo in difficoltà oppure gratificando alcuni membri del gruppo, o proponendo lavori che richiedano il suo aiuto e la sua presenza. Conosco questa solitudine e a volte ho sbagliato; riconoscerla permette al terapista di rifare un passo indietro e di riproporre lavori che ridiano autonomia al gruppo.

Figura 6 Quarta fase

La quarta fase è quella che permette agli allievi di sentirsi contenuti e protetti anche senza un forte legame con il gruppo. Si lascia lentamente il contenitore-gruppo per il proprio contenitore; si lascia la casa di tutti per la propria casa. Riconoscerla significa dichiarare di aver sbagliato il lavoro togliendo la responsabilità agli allievi di sentirsi inadeguati. Come quando un bambino si diverte e non ha bisogno della mamma, può succedere che la mamma tenti di ricondurlo a sé, o preoccupandosi per lui o gratificandolo o riempiendolo di attenzioni negative, ad esempio: stai sudando, smetti di correre, fra un po’ è ora di tornare a casa, attento a non farti male. Come quando un adolescente inizia la sua strada sembra difficile dargli fiducia, ci si preoccupa della sua vita, ci si preoccupa degli errori che potrebbe fare ma in realtà ci si sta occupando solo della propria solitudine. Quando i muscoli sono più morbidi e il dolore che trattenevano è stato accolto, l’ansia, la rabbia, il senso di colpa per la vergogna della ferita diminuiscono e il corpo ritrova la sua continuità. Il “continuum” ritrovato fa uscire la nostra natura selvaggia e il bisogno di libertà. Ci si sente protetti e contenuti dai difensori naturali: i nostri muscoli, che vivi, forti ed elastici avvolgono i nostri organi. Organi non più stritolati ma liberi di funzionare, organi ossigenati che alimentano l’energia e la forza invece di trattenerla. Il lavoro è finalmente circolare, non c’è più la necessità di identificarsi con il gruppo. Questo offre la possibilità di una comunicazione autentica, di stare sulle proprie gambe perché sono forti, di avere un buon appoggio del piede, di poter abbandonare spalle, diaframma, mandibola perché sono le gambe a sostenere, perché i piedi hanno un buon appoggio; ciò lascia liberi di muoversi, di ballare, di correre, lascia liberi di avere un buon contatto corporeo con gli altri senza appoggiarsi all’altro. Appoggiandosi sui propri piedi nel contatto e nel movimento l’altro è finalmente l’altro; dare e ricevere diventa solo uno scambio che dà piacere e ricchezza.

Figura 7 In questa ultima fase si lavorano molto le gambe e i piedi; i lavori di relazione sono soprattutto di movimento e quando viene proposto un contatto corporeo questo contatto non accoglie più le ferite ma soddisfa il piacere.

Il conduttore torna a far parte del gruppo, il gruppo non è più un’unica struttura contenente ma l’insieme di persone con una propria autonomia. Il conduttore rientra nel gruppo non come riferimento tecnico ed emotivo ma come consigliere tecnico in un rapporto più paritario e di maggior scambio. Queste fasi non sono mai rigide e ben definite come sono state descritte, non sempre infatti le fasi si completano e a volte, per necessità o per errore si torna indietro e poi si riprende. La cosa importante è che nessun terapista del Metodo Monari intende guarire, rieducare o educare, nessuno tenta di fare della pedagogia, nessuno vuole interpretare. Le quattro fasi sono una linea ipotetica, ideale che la magia spesso rende vere ma che non sono un fine, uno scopo, un dato di fatto. Queste quattro fasi sarebbero naturali in un gruppo se le persone non fossero state orientate da sempre verso la competizione, il giudizio, la minaccia dell’abbandono. Sono le stesse fasi che naturalmente attraverserebbe un bambino nella sua crescita se questa non fosse spezzata dall’educazione, dalla mancanza di fiducia nell’innata bontà e socialità del bambino. Se tra la mamma e il bambino ci fosse un naturale distacco deciso dal bambino, il contenitore unico madre-bambino, senza traumi, si evolverebbe nell’identificazione del bambino prima con la famiglia poi col gruppo dei coetanei. Questi passaggi naturali porterebbero l’essere umano a diventare un adulto maturo che se in futuro dovesse riformare una famiglia lo farebbe per il piacere di dividere l’intimità e la vita sociale con un partner e per offrire a sua volta ai figli l’accoglienza ricevuta dai genitori. Questo non avviene nella vita e non avviene naturalmente in un gruppo, e non sempre avviene con il mio Metodo. Il mio Metodo è solo un tentativo ma è importante spezzare le dinamiche di gruppo frutto di una società competitiva, fredda e violenta. Anche all’interno di un’unica seduta il lavoro ha una crescita che attraversa le quattro fasi; nel momento finale del lavoro di relazione, anche solo per un attimo gli allievi sperimentano la possibilità di contenersi da soli e di sentire la gioia dell’autonomia. Perché questo patrimonio possa essere stabile e continuativo, perché la vita delle persone possa cambiare e diventare più naturale, perché la natura selvaggia possa essere sempre presente e perché i veri bisogni possano essere individuati occorrono molti anni di lavoro e non sempre questa possibilità diventa effettiva. Konrad Stettbacker sostiene che nessuno può far guarire una persona senza che questa lo desideri profondamente. Questa tesi a volte può essere un modo per scaricare la responsabilità del terapista, ma è decisamente vero che ci sono persone che proprio non possono modificare il loro sistema di vita, non possono permettersi di ammorbidire i loro muscoli e non possono consolare le proprie ferite né farsele consolare. Fra coloro che non possono ci sono persone chenon proseguono il lavoro, altre che continuano nella libertà di prendere solo quello che possono: non cambieranno la loro vita ma vivono alcuni momenti di tranquillità quando sono in gruppo. Ognuno prende e dà quello che può. Non ho la pretesa, tramite i risultati che ottengono i miei allievi, di confermare il mio lavoro e il mio Metodo.

Alcuni fra i miei allievi hanno modificato completamente la loro vita perché credo che questo lavoro sia stato per loro una vera chiave di accesso al loro passato e una possibilità per ritrovare la loro vera natura. Altri un po’ incerti stanno avviandosi verso questo cammino doloroso e gioioso, altri non hanno potuto farlo. Spesso mi sono chiesta cosa mi ha condotto a fare questo lavoro, cosa mi ha spinto a costruire un Metodo diverso da quello dei miei maestri pur prendendo da ognuno qualcosa che mi apparteneva. Mi sono sempre data come risposta: «tento di ricostruire ciò che mi è mancato». Quest’anno non mi sono data una risposta ma spontaneamente ho scritto qualcosa per me e per i miei allievi. Comprendo l’arroganza della mia e della tua solitudine il ritmo veloce della mia e della tua paura conosco il tuono del mio e del tuo cuore e contemporaneamente la sua timidezza e la sua tenerezza Sento il racconto della mia e della tua vita tutte le volte che ti tocco tutte le volte che ti guardo con calma. Conosco la voce flebile che narra la verità nascosta conosco la forza dei miei e dei tuoi muscoli il mio e il tuo passato faticosamente sepolti. Mai rinuncerei a tutto questo provo il piacere di una cascata la forza di un fiume tumultuoso la calma di un lago. Guardo l’acqua scorrere infrangere gli argini fare piroette infuriarsi calmarsi sicura che non ne saremo travolti non temo la vita.

Dedicato a me e ai miei allievi

Esempio di una seduta Come ho già detto, nelle prime sedute vengono ammorbiditi i muscoli più superficiali come i glutei, i trapezi, i gran dorsali. Man mano che questi sono più liberi si lavora sui muscoli più profondi dove sono trattenute le emozioni più forti. Il lavoro di relazione è ovviamente in armonia col lavoro strutturale. Lavoro sui glutei I glutei fanno parte della catena muscolare posteriore e la loro rigidità non solo irrigidisce tutta la catena posteriore, ma spesso è in relazione con la rigidità di un’altra catena muscolare interna, formata da due grandi muscoli: l’ileo-psoas e il diaframma. Lo sblocco muscolare dei glutei ammorbidisce le gambe, la zona lombare e quella cervicale (catena posteriore), ma dà anche la possibilità di una migliore respirazione perché, coinvolgendo la catena muscolare interna, permette al diaframma un miglior funzionamento. Questo lavoro sui glutei, che sperimentai per la prima volta nel 1979 con Madame Ehrenfried, ha sicuramente un effetto benefico e rassicurante e permette inoltre un buon appoggio dei piedi e quindi molta più stabilità. Per far comprendere il mio lavoro descriverò la prima seduta, l’unica programmata a priori; tutte le altre mi sono suggerite di volta in volta dalle esigenze degli allievi. La scelta di lavorare i glutei nella prima seduta non avviene solo perché è importante rilassare prima i muscoli superficiali ma anche perché il lavoro dei glutei porta subito un allungamento facilmente percepibile; le persone che lavorano per la prima volta possono quindi rendersi conto delle possibilità del loro corpo. Sdraiati a terra con la schiena appoggiata al pavimento, le gambe piegate, i miei allievi sono in cerchio, posso vederli tutti, e guardare i loro visi, le loro spalle, le difficoltà che incontrano il primo giorno: il primo incontro con il loro corpo. Chiedo che sentano l’appoggio a terra, come appoggiano la nuca, il bacino, la zona lombare, dove è l’appoggio più profondo e dove quello più superficiale, come sono appoggiate le braccia e il dorso della mano, senza modificare l’appoggio ma solo percependolo. E così continuo: «piegate le gambe mettendo i piedi sotto le ginocchia, contraete il gluteo destro e poi rilassatelo, e ancora contraetelo e rilassatelo, continuate questo movimento seguendo il vostro personale ritmo. Mettete una pallina da tennis al centro del gluteo e continuate per un po’ a contrarre e a rilassare; abbandonatevi completamente sulla pallina cercando di non inarcare la zona lombare; rimanete in questa posizione per qualche minuto. Togliete ora la pallina e sentite il vostro appoggio; sentite la differenza tra la parte destra e la parte sinistra». Faccio quindi mettere di nuovo la pallina da tennis sotto il gluteo destro ma un po’ più in alto, cercando sempre di non far inarcare la zona lombare e chiedo di portare il ginocchio della gamba destra verso il torace, mettendo la mano destra sul ginocchio destro e facendo fare all’anca ampi movimenti circolari. Non è la gamba che dirige il movimento, ma è la mano sul ginocchio che fa muovere l’anca, prima in un senso e poi nell’altro. Poi dico di mettere le mani dietro al ginocchio provando ad alzare la gamba e con le mani di sentire i muscoli che si trovano dietro al ginocchio, massaggiandoli lungamente per ammorbidirli, poi dico di portare, alzando la gamba, il tallone verso il soffitto allungando tutti i muscoli della gamba.

E continuo: «provate adesso a muovere il piede portando le dita verso il soffitto, poi lentamente continuate a fare la flessione dorsale e plantare della caviglia, portando una volta il tallone verso il soffitto e una volta le dita, continuate così per un po’. Abbassate lentamente la gamba, togliete la pallina e ascoltate. Distendete entrambe le gambe e sentite la differenza di appoggio tra la parte destra e la parte sinistra, sentite se la gamba destra vi sembra più lunga, sentite come appoggia il bacino, sentite se la spalla destra vi sembra più appoggiata, se il dorso della mano appoggia di più, poi passando su un fianco mettetevi seduti; le gambe sono distese, guardatele, non spaventatevi, la destra è più lunga, sentite anche se il ginocchio destro appoggia di più a terra. Ora alzatevi e sentite se anche stando in piedi il braccio destro è più lungo, se la mano è più aperta, se l’anca è più distesa. Prestate attenzione al vostro viso, sentite se l’occhio destro è più grande e, aprendo e chiudendo la bocca, provate a sentire se l’apertura è diversa a destra e a sinistra e se l’occlusione dei denti si è modificata. Poi muovetevi nella stanza e sentite come camminate». Quindi faccio mettere gli allievi di nuovo sdraiati a terra, per risentire l’appoggio, poi si può incominciare a lavorare la parte sinistra. (figure nn. 8, 9, 10, 11,12,13).

Figura 8: massaggio ai muscoli flessori della gamba durante l’esercizio per ammorbidire i glutei.

Figure 9, 10: una sequenza del lavoro sui glutei. Movimento circolare dell’anca con la pallina sotto i glutei.

Figure 11, 12: massaggio dei muscoli flessori della gamba durante l’esercizio per ammorbidire i glutei. Figura 13: dopoaver lavorato il gluteo destro anche la spalla destra è più bassa, il braccio destro più aderente al fianco, la parte destra del viso più rilassata.

Questo lavoro di modificazione della struttura ci permette, lavorando prima la parte destra, di sentire la differenza tra le due parti e percepire come potremmo essere se fossimo morbidi e quali maggiori possibilità avrebbe il nostro corpo nel muoversi. È importante che le modificazioni ottenute, una volta ritornati alla vita quotidiana, non lascino il posto alle vecchie contratture (figura n. 13). Perché ciò non avvenga è fondamentale che si modifichi lo schema corporeo cioè la percezione che abbiamo del nostro corpo; spesso proprio le parti più rigide sono quelle meno percepite e non basta ammorbidirle, è necessario che tornino a vivere tramite il piacere del movimento e del contatto, armonizzando con il resto del corpo. Il nostro corpo avrà maggiore possibilità di percepirsi e di trattenere questa percezione se vivrà il piacere che la sua schiena morbida può ricevere tramite il contatto con un’altra persona. Solo il piacere può modificare la percezione, può calmare, addolcire il dolore subìto che aveva indurito i nostri muscoli; ed è per questo che in questa prima seduta il lavoro di contatto sarà su tutta la schiena. A questo punto della seduta chiedo agli allievi di mettersi sdraiati su un fianco a coppie schiena con schiena (figure nn. 14, 15). I muscoli della schiena ora sono più morbidi, la respirazione più profonda; in posizione fetale schiena con schiena può iniziare una comunicazione fatta di piccoli movimenti del torace: di un torace non più silenzioso, di un torace che non blocca più il respiro. Sono momenti di grande calore e tranquillità; a questo punto una musica fa da sottofondo e aiuta ad abbandonarsi. Lascio passare una decina di minuti, chiedo poi agli allievi di alzarsi lentamente e sempre a coppie di mettersi seduti schiena contro schiena (figura n. 16); poi in piedi, in cerchio, un cerchio abbastanza stretto, chiedo di dire con una parola la sensazione che ognuno ha provato. Nella prima seduta il contatto è schiena a schiena, non solo perché è stata la parte lavorata ma anche perché è la zona del nostro corpo più coriacea, più protetta e meno coinvolgente. Ora in piedi, con una musica più vivace, propongo loro di mettersi di nuovo schiena a schiena, di dondolarsi e di sfregare la propria

Figura 14: schiena contro schiena sdraiati.

Figura 15: schiena contro schiena sdraiati.

Figura 16: il lavoro di relazione che viene sempre dopo il lavoro sulla struttura. Un altro modo per scaldare la propria schiena con quella del compagno; da seduti con le gambe allungate, abbandonarsi comunicando con la schiena e con il respiro.

schiena con quella del compagno. La musica adesso è più vivace, il contatto è più simpatico e sotto forma di gioco; la schiena prima ammorbidita, poi scaldata, ora può saltellare e giocare (figura n. 17). Anche se nel nostro schema la schiena occupa un posto ridottissimo e la nostra percezione ne è limitata, dopo questa seduta è facile andare a casa sentendo che abbiamo una schiena. Come dicevo, tranne la prima, nessuna seduta è programmata. Nel corso di uno stage o nelle sedute settimanali, il lavoro è via via più profondo: come per esempio il lavoro sui muscoli scaleni che si inseriscono nelle ultime sei vertebre cervicali e nella prima e nella seconda costa. Gli scaleni appartengono alla catena muscolare posteriore; la loro contrattura provoca un inarcamento della zona cervicale e di tutta la muscolatura posteriore e inoltre un blocco respiratorio nella zona alta del torace. Allungando questi muscoli si libera il respiro e spesso riaffiorano emozioni profonde; inoltre la zona cervicale si appiattisce, le braccia sono più libere e c’è una grossa modificazione della posizione della testa e della muscolatura del viso. Il viso cambia espressione e si può verificare la diversa posizione del corpo prima del lavoro e dopo. Respirare di nuovo profondamente, aprire la parte alta del torace, modificare la posizione della nuca, può rinnovare un bisogno di protezione e desiderio di calore, può far nascere un bisogno di protezione e desiderio di calore molto forti ed è per questo che di solito - ma non è sempre così, poiché il lavoro di relazione dipende dal bisogno del gruppo - propongo prima di mettersi su un fianco da sdraiati uno vicino all’altro (figure nn. 18, 19) poi, in piedi, un incontro a coppie dove a turno le mani di uno scaldano le parti appena lavorate dell’altro (figure nn. 20, 21, 22, 23). Ricordo il cambiamento di L. dopo una giornata di lavoro, ma soprattutto dopo aver lavorato i muscoli scaleni e essersi massaggiati vicendevolmente a coppia. Quando ho conosciuto L. ho subito notato la forte asimmetria del suo viso, l’occhio sinistro più chiuso, ma soprattutto il labbro superiore più alto a sinistra e la bocca chiusa in una smorfia. Sembrava avesse avuto una paralisi facciale, lei

Figura 17: il lavoro consiste nell’entrare in contatto con più componenti del gruppo per sentire come ogni persona attraverso la sua schiena esprima il proprio modo di essere e come le schiene siano assolutamente diverse una dall’altra.

Figura 18: respirare di nuovo profondamente, aprire la parte alta del torace, modificare la posizione della nuca può lasciare un bisogno di protezione e di calore molto forti ed è per questo che di solito - ma non sempre, perché il lavoro di relazione dipende dal bisogno del gruppo - propongo prima di mettersi su un fianco uno vicino all’altro, poi, in piedi, un incontro a coppie dove a turno le mani di uno scaldano le parti appena lavorate dell’altro.

Figura 19: sdraiati uno vicino all’altro.

Figura 20: massaggio a coppie.

Figura 21: massaggio a coppie. Figura 22: massaggio a coppie.

Figura 23: massaggio alle mani.

Figure 24, 25: contatto delle mani con la musica.

Figure 26: contatto di gruppo.

Figure 27: contatto di gruppo.

Figura 28: contatto di gruppo.

non mi disse niente e io non indagai. Dopo qualche mese di lavoro in un gruppo settimanale, le consigliai di fare uno stage. Durante lo stage feci fare un esercizio che ammorbidiva i muscoli scaleni e poi proposi di lavorare le braccia. Notai che il viso di L. si contraeva sempre di più e mostrava terrore; mi avvicinai per non lasciarla sola e dopo un po’ le dissi, piano, che se voleva poteva fermarsi, ma mi rispose che preferiva continuare. Rimasi vicino a lei. Alla fine del lavoro, a dispetto della sua determinazione, il lato sinistro del suo viso era ancora più contratto. Proposi di scegliere un compagno per un massaggio a coppie, al viso, alle mani e soprattutto al torace; più che massaggiare dissi di dare calore, con le proprie mani, al corpo del compagno, soprattutto nelle parti appena lavorate. Mentre la compagna di L. le toccava il viso, L. cominciò a piangere, un pianto silenzioso e profondo, e abbracciò la sua compagna. Subito dopo il suo viso era più morbido; ma finito il lavoro di tutta la giornata, nel momento in cui solitamente si parla delle sensazioni avute, lei non disse niente. Quando la rividi la mattina dopo, il suo viso era assolutamente simmetrico. In tutta la mia vita lavorativa non avevo mai assistito a una modificazione così forte; quella che sembrava una paralisi facciale era completamente sparita. Il viso era rilassato e morbido, la smorfia della sua bocca non esisteva più. L. volle parlare all’inizio della seduta, e raccontò che, dopo il lavoro degli scaleni, le sue braccia avevano incominciato a tremare e nel lavoro successivo mentre alzava le braccia verso il soffitto si era rivista piccola, nella culla, mentre chiamava la mamma, e l’immagine seguente era stata di un viso che l’aveva spaventata, un viso arrabbiato e, nel suo ricordo, deforme. Il lavoro di contatto l’aveva scaldata e aveva calmato il suo terrore; poi, la notte, ripensando all’accaduto, aveva realizzato che sua madre aveva, ed ha tutt’ora, una paralisi facciale contratta prima che lei nascesse. Con molta tranquillità e consapevolezza raccontò al gruppo che durante la notte aveva avuto il coraggio di abbandonare le sofferenze che non le appartenevano: separandosi dal dolore della madre aveva ritrovato il suo viso. Non sempre le modificazioni sono così veloci, il più delle volte i tempi sono relativamente lunghi. Come ho già detto, il corpo ha bisogno di non essere aggredito, ha la necessità di non dover dare prova di sé, non può lavorare per i risultati ma per se stesso così come un bambino non può crescere per essere bravo ma per il piacere di crescere. Recupero della propria morbidezza Ciò che più mi ha colpito di F. una giovane donna di 34 anni, furono la staticità e la rigidità del suo viso; era molto gentile, con una vocina flebile e sottile. Il suo passo sfiorava appena il terreno. Il primo giorno, dopo un breve colloquio, iniziammo con un trattamento individuale. Non aveva grosse asimmetrie e nemmeno forti rotazioni, era però estremamente contratta e la catena dei muscoli posteriori era molto rigida: quando le proposi di flettersi, raggiunse a fatica le ginocchia con la punta delle dita. Le chiesi di fare lunghe espirazioni da supina, cercando di

abbassare le coste, ma per lei era completamente impossibile; anche il suo respiro era sottile e flebile. Tutto ciò contrastava enormemente con la forma e la durezza dei suoi muscoli posteriori. La sua delicata figura era in effetti difesa da un’incredibile corazza di cemento che la voleva proteggere dal mondo esterno, dando alla sua pelle liscia e serrata un’impermeabilità che non le permetteva di ricevere e far uscire emozioni. La sua gentilezza e il suo sorriso erano l’unica maschera che poteva presentare. Dopo il primo trattamento individuale le proposi di lavorare in un gruppo. Qualsiasi esercizio venisse suggerito, F. sembrava essere confusa e ogni movimento le provocava un forte dolore. Quando, da supina, alzava una gamba, anche l’altra tendeva a salire, il collo e la regione lombo-sacrale si inarcavano e tutto il suo corpo in blocco seguiva il movimento delle gambe. Quando, sempre da supina, cercava di far aderire il collo a terra, tutto il corpo si inarcava. Avvertivo la sua difficoltà e la sua irritazione, anche se il suo viso non si alterava. Quando le proposi di alzarsi e di muoversi insieme agli altri seguendo il ritmo della musica, F. si fermò in un angolo della stanza e restò immobile. Per circa due mesi di lavoro rifiutò di fare qualsiasi movimento libero e di rapportare il suo corpo a quello degli altri. Quando però le proposi di fare uno stage di due giorni accettò con entusiasmo. Furono due giorni molto pesanti per lei, con lievi risultati, ma mi accorsi nella seduta settimanale successiva allo stage che quasi improvvisamente qualcosa era cambiato: i suoi muscoli erano più rilassati e i suoi movimenti più liberi, anche se il diaframma era ancora fortemente contratto. In quella seduta, mentre massaggiavo i suoi trapezi, sentendoli più morbidi, cercai di andare più in profondità. F. cominciò a piangere; era un pianto di dolore, sentivo i suoi trapezi allentarsi, il diaframma sciogliersi, il suo viso scomporsi. Credo che con questa seduta sia iniziato il vero lavoro di F. È passato un anno. Non posso raccontare ogni momento del suo cammino ma c’è stato un altro episodio estremamente significativo di cui vorrei parlare. Durante i primi sei mesi di lavoro, F. aveva sempre rifiutato di fare qualsiasi esercizio di coppia o di gruppo; quando proponevo un massaggio a coppie, le sue mani erano affrettate, sfioravano con la punta delle dita il corpo del compagno evitando qualsiasi contatto. Non è accaduto in una particolare seduta, ma lentamente, mentre il corpo di F. cambiava, cambiava il suo modo di muoversi e di rapportarsi agli altri. Nell’ultimo stage, le proposi di immaginare di avere delle radici al suolo e ad occhi chiusi di cercare, muovendo tutto il corpo, le altre persone del gruppo. Dopo i primi attimi iniziali di imbarazzo, in cui ognuno era alle prese con le proprie radici come se fossero dei legami poco agevoli col suolo, ho visto F. muovere con estrema lentezza e con grande attenzione e cura le mani per toccarsi le gambe, quasi per assicurarsi che il proprio legame vitale con la terra non si interrompesse. Mi ha sorpreso l’assenza di quella fretta che vedevo quasi connaturata in lei; e mi ha in fondo sorpreso il suo nuovo protendersi nello spazio alla ricerca di un possibile contatto, che solo qualche tempo prima lei avrebbe rifiutato. La spigolosità dei suoi movimenti cedeva ora il posto a una maggiore morbidezza di gesti e le sue mani indurite dalla paura del contatto erano adesso curiose di ciò che avrebbe potuto incontrare. Il corpo delle altre persone era per lei diventato qualcosa da conoscere e da amare e non era da temere e da allontanare. Forse per la prima volta anche le sue mani erano così calde da rendere piacevole e morbido ogni contatto. Lei stessa ha detto alla fine della seduta: «Ho sentito e amato il corpo degli altri, e per la prima volta ho sentito e amato il mio».

La forma perfetta Françoise Mézières ha parlato delle leggi del corpo, ha saputo riconoscerle e ha insegnato ai suoi allievi come guardare il corpo umano. Ha messo a punto un esame obiettivo facendo riferimento alla forma perfetta derivata dalle statue greche. Il rapporto fra i segmenti contigui del corpo deve essere armonico, rapporto ideale che c’era nelle sculture classiche definito dal numero aureo: segmento maggiore diviso per segmento minore uguale a 1,6183 periodico (figure nn. 29, 30).

Figura 29: forma perfetta - parte anteriore. Figura 30: forma perfetta - parte posteriore.

L’esame obiettivo comincia l’osservazione sempre dal basso. In piedi con i piedi uniti - parte posteriore. I calcagni: appoggiano al suolo in modo simmetrico. Le gambe: si toccano al livello dei polpacci, delle ginocchia, delle cosce. I profili laterali del torace: sono rettilinei e simmetrici. Le scapole: sono allo stesso livello e aderiscono alla schiena. I profili delle scapole sono simmetrici. La testa: è in asse. In piedi con i piedi uniti - parte anteriore. I piedi: si toccano dall’alluce al calcagno, le dita sono distese e aperte. L’asse anteriore delle gambe: passa a metà delle rotule, a metà della gamba, al secondo dito. Ali iliache: sono simmetriche. I profili del torace: sono rettilinei. I capezzoli: sono allo stesso livello. La linea alba: è rettilinea. I profili delle spalle: sono simmetrici. Le clavicole: sono simmetriche. La testa: è in asse. In piedi con i piedi uniti - prima lato destro poi lato sinistro. Tendine dei muscoli peronei: passa dietro al malleolo esterno. Posizione delle braccia: due terzi anteriore e un terzo posteriore rispetto all’asse del corpo. Profilo anteriore rettilineo (leggermente obliquo dall’inizio dello sterno ai capezzoli; verticale dai capezzoli al pube). La testa: è in asse. Occipite, scapole e sacro: sono sullo stesso piano.

Capitolo 4

Il fisioterapista La preparazione nelle scuole di fisioterapia è indirizzata allo studio del corpo, alle tecniche usate per meglio riabilitare i pazienti, ma non prevede un lavoro sul proprio corpo. Nel 1980 mi sono laureata in pedagogia, la mia tesi di laurea era sul ruolo del fisioterapista. La tesi comprendeva un questionario che era stato distribuito a sessanta fisioterapisti operanti sia nell’ospedale che sul territorio e a dieci allievi della scuola di fisioterapia dell’ospedale S. Orsola di Bologna. Fra le risposte una in particolare destava la mia curiosità. La domanda era: “è importante aver fatto un lavoro sul proprio corpo prima di lavorare come fisioterapista, quindi sul corpo degli altri?” Tutte le risposte tranne una furono: no. Solo la risposta di un’allieva della scuola fu : “credo di sì”. Era il 1980 e le cose in quindici anni sono cambiate; i fisioterapisti hanno cominciato a porsi delle domande anche se a tutt’oggi negli ospedali il fisioterapista è un tecnico che dà istruzioni al paziente sui movimenti funzionali che devono essere recuperati. Il modo in cui lavora il fisioterapista non lascia spazio all’idea che dietro ad una ferita fisica ci sia una ferita emotiva e ancora oggi per più del 70% dei fisioterapisti non è chiara la relazione fra il lavoro della rieducazione funzionale e le rigidità fisiche del rieducatore. Personalmente non credo che il fisioterapista debba fare lo psicologo, ma credo che non si possa toccare un corpo senza tener presente le emozioni contenute in esso, soprattutto in un corpo ferito; i fisioterapisti devono mettere le mani proprio su quelle ferite, ferite fisiche ed emotive. In nessuna Scuola di fisioterapia si parla di questo; vengono insegnate tecniche, quelle sì, l’anatomia, la fisiologia e tutte quelle altre materie di cui i paramedici devono essere a conoscenza. Nessuno si chiede com’è il corpo del fisioterapista, quali sofferenze abbia subìto e soprattutto se ne è cosciente; nessuno vuol sapere se le sue mani sono rigide e dure, se toccheranno il corpo del paziente come è stato toccato il suo. Il paziente, peraltro, è addolorato, cerca aiuto e non ha voce in capitolo, le sue esigenze, le sue sensazioni sono assolutamente subordinate alla tecnica, subordinate alla rieducazione.

A volte i pazienti si lamentano ma poi comprendono, come comprendevano da piccoli quando le loro sensazioni e emozioni erano subordinate alle regole educative. Uno psicoterapeuta che lavora sul corpo deve prima aver fatto un lavoro sul proprio corpo. Nelle scuole per fisioterapisti non è contemplato nessun lavoro su di sé, nessun lavoro che sblocchi le rigidità muscolari; non si ritiene necessario quindi che egli abbia alcuna conoscenza delle sofferenze e emozioni trattenute. Si pensa che ciò non abbia alcuna relazione con il lavoro che dovrà fare e che quindi possa benissimo lavorare sul corpo addolorato dei pazienti, al dilà delle sue personali rigidità. Ho raccontato tutta la storia della mia vita professionale anche per far comprendere come un fisioterapista, se si accorge delle difficoltà del suo mestiere, e si pone degli interrogativi, è costretto a errare per anni per cercare qualche risposta. Ho avuto spesso nei miei gruppi dei fisioterapisti e ho potuto constatare la loro rigidità muscolare e la loro difficoltà e paura nel toccare gli altri. C’è da chiedersi, come mai proprio loro che hanno scelto come mestiere quello di toccare? Se non fossi una fisioterapista questa domanda me la farei anch’io. Quando i fisioterapisti incominciano a lavorare sul loro corpo, iniziano lentamente a comprendere qual è stata la motivazione che li ha spinti a scegliere questo mestiere. Diventa sempre più comprensibile il bisogno di curare, di ricostruire; come le bambine maltrattate si consolano con le bambole, facendo loro da mamma, curandole come avrebbero voluto essere curate. Ma purtroppo oltre al danno anche la beffa, chi non è stato curato, amato, non può far altro che rifare ciò che ha ricevuto. Infatti le bambine iniziano amorevolmente con le loro bambole ma spesso rifanno e ripetono quello che i genitori hanno detto e fatto con loro. Quando un fisioterapista o un medico o chiunque si occupi della cura, ha fatto un lavoro sul suo corpo, e ha compreso la realtà delle sue ferite, finalmente avrà la possibilità di entrare in comunicazione in maniera corretta, rispettosa e amorosa con chi deve “curare”, potrà aiutare e aiutarsi mettendo al servizio del paziente la propria esperienza, per abbandonare la strada della distruzione (malattia), per ritrovare quella dell’autoconservazione (salute). Ho personalmente sempre sentito la necessità di amare e di essere amata e ho scelto questo lavoro perché mi metteva in contatto molto stretto con le persone. Ma il mio corpo era troppo ruotato, i miei occhi troppo fermi, il mio respiro troppo bloccato perché l’intenzione, il desiderio non si perdessero per strada, anzi più che per strada nel mio corpo; ogni mio intento d’amore si trasformava in una regola, in una tecnica, pretendendo da me e dal paziente un lavoro soddisfacente. Finché non ho sciolto le durezze del mio corpo, conosciuto le mie sofferenze non è stato possibile avere un rapporto di rispetto e piacere reciproco con i miei allievi. Noi possiamo essere “testimoni consapevoli” dei nostri pazienti. Alice Miller, nel suo libro L’infanzia rimossa, sostiene che è possibile sentire come un bambino e pensare come un adulto. Più siamo testimoni della nostra infanzia, più sentiamo il nostro corpo come da bambini, più pensiamo come adulti e più siamo dalla parte dei bambini, dei pazienti, del loro corpo; e sarà più facile e meno distruttivo fare i genitori, i fisioterapisti, i loro testimoni e non essere gli esecutori di regole educative o rieducative. Prima di diventare io stessa testimone della mia vita ho avuto la fortuna di avere molti testimoni consapevoli anche fra gli esseri umani più deboli e più piccoli, proprio mentre lavoravo. Ricordo gli occhi di una bambina cerebrolesa: testimoni del suo, e del mio dolore, della mia impotenza davanti alla sua malattia, cercavano la mia complicità e avevano solo voglia di giocare.

Durante gli anni del mio lavoro come fisioterapista presso la USL ho vissuto molto la dualità fra quello che sentivo e quello che dovevo fare. Spesso ho smesso di rieducare cercando di ascoltare il dolore che mi provocava la confusione motoria dei miei piccoli pazienti; il dolore veniva dal ricordo del mio corpo adolescente sgraziato e poco agile, dalla voce di mia madre quando mi diceva che sembravo un sacco di patate; veniva dalla vergogna che provavo per la mia poca elasticità e "scoordinatezza". Il dolore veniva da un corpo che aveva seppellito la vivacità dell’infanzia, da una passione che dopo il collegio era solo un ricordo, dall’impaccio motorio che questa reclusione mi aveva lasciato. Non correvo più e trascinavo le mie giornate. Il mondo degli efficienti bravi e aggraziati era disgustato dal mio atteggiamento, ed io insieme a loro; mi sono rieducata con la volontà e con le regole, mi sono posta nei miei confronti come gli altri volevano. Facendo la fisioterapista sapevo bene quali erano le regole da imporre e le tecniche da usare con i miei piccoli bambini affetti da cerebropatia, e non mancavano i momenti di rabbia repressi quando loro non avevano voglia di fare la terapia, ma non mancavano i momenti di tenerezza che mi avvicinavano a loro. Come reintegrare i loro movimenti se non avevo mai reintegrato i miei ? Ignoravo come riprendere una continuità spezzata e conoscevo solo la durezza con cui avevo agganciato, da ragazzina, nel mio corpo, nuovi rigidi fili senza ripristinare i miei naturali. La vergogna di me e delle mie ferite, il disgusto e la rabbia per la mia inadeguatezza erano un macigno enorme da sollevare, seppellivano un danno di cui mi attribuivo la colpa e di cui mi vergognavo. Penso che ogni bambino cerebroleso si vergogni di esserlo, penso che ogni persona brutta e sgraziata provi vergogna, penso che tutto ciò che non appartiene ad un’immagine sociale non porti dolore per il danno in sé ma per la beffa, la vergogna del danno. Solo la tenerezza per i miei piccoli pazienti, l’antica passione che il mio corpo aveva provato da piccola in giardino, il dolore per l’identificazione di qualcosa che si era spezzato hanno messo in dubbio le istruzioni rieducative che ogni giorno impartivo. Ma solo il lavoro sul mio corpo ha sciolto la vergogna del danno subìto. Lentamente ho cominciato a diventare una fisioterapista. La vergogna Spesso le umiliazioni vissute sono segretamente conservate nel corpo, molte, le più dolorose, le abbiamo dimenticate, quelle che ricordiamo le conserviamo tra le cose che non devono essere dette. Ci vergogniamo di ciò che abbiamo subìto. La vergogna è data dalla colpa di essere vittima. Questa colpa non ci permette di parlare, questa colpa mantiene le ferite sempre sepolte vive. Se non si è stati desiderati e amati dai genitori ci si sente inadeguati e colpevoli di non essere stati abbastanza buoni, bravi e intelligenti da farsi amare. Difficilmente un bambino picchiato, battuto anche brutalmente, pensa che i genitori abbiano sbagliato; al contrario è lui a sentirsi colpevole e la colpa, la terribile beffa, aggrava il danno. Anche quando riconosciamo di essere stati picchiati da piccoli difficilmente ricordiamo l’umiliazione. Nei nostri racconti non ce n’è traccia.

Spesso si dice: “da piccolo ho preso tante botte perché ero tremendo, i miei genitori poveretti erano disperati”. Sono rimaste nel ricordo le botte ma nel racconto la vittima preferisce definirsi complice, colpevole di aver reso difficile la vita del genitore. Questa trappola blocca il dolore, non fa riconoscere la violenza e l’umiliazione, lascia la ferita coperta e non curata, ferita che si infetta, provocando reazioni inaspettate e atti di violenza spropositati ogni volta che anche pur lontanamente percepiamo l’umiliazione. Oppure ci mettiamo sempre nelle condizioni di essere umiliati ripetendo e rivivendo il copione già subìto, continuando ad essere vittime e cercando nella vita persone che, per il meccanismo opposto, rinnovano le proprie umiliazioni umiliando. In entrambi i casi si cancella sempre di più il ricordo del passato e spesso tale rimozione ci porta a cercare partners e compagni di viaggio non per amore ma per complicità nell’insabbiare il passato. Che il bambino umiliato, da adulto, si comporti da vittima o da carnefice lo fa solo per mettere più sabbia sulla ferita, per nascondere sempre di più il proprio dolore. Vittime o carnefici saremo comunque spietati nei confronti dei più deboli, con le modalità che abbiamo scelto, ripetendo la violenza subita in modo attivo o passivo, azionando il bambino rabbioso o docile che abbiamo dovuto essere. Il comportamento passivo anche se meno evidente è altrettando violento poiché scatena nell’altro rabbia e sensi di colpa, come alcune madri buone e docili, vittime della famiglia, che sacrificano la propria vita per i figli regalando loro il peso e la colpa di essere nati. Soprattutto ai figli, vere vittime, sarà inflitta la stessa colpa che ci accompagna fin da piccoli, la stessa beffa che copre la dolorosa ferita. La nostra società è basata sulla violenza nei confronti della vittima. La donna violentata sessualmente prova vergogna perché è stata umiliata e fa fatica a parlare di questa sua esperienza. Chi ha subito un incidente stradale, anche gravissimo, non ha problemi a parlare di tutti i dolori che ha subìto perché non c’è stata umiliazione. La persona umiliata tace per vergogna e per colpa, la persona umiliata rifiuta la sua ferita sentendo che il mondo non la comprende. Queste sono le ferite più difficili sempre pulsanti perché prive di testimoni consapevoli. La nostra società rimuove le umiliazioni, esalta il potere, l’immagine e la forza. I bambini imparano presto a non piangere se ricevono un pugno e a vantarsi se lo hanno dato. La violenza sociale ci impone di essere belli, forti e vincitori. L’azione politica e sociale nella difesa dei deboli non ha basi se non ricordiamo le umiliazioni subite, se continuiamo a vergognarci di essere stati vittime. Se quando subiamo proviamo vergogna, come facciamo a difendere chi subisce ? Se al subire abbiniamo la vergogna, per noi chi subisce deve vergognarsi. Con queste basi difenderemo i deboli solo a parole, nel profondo attribuiremo loro la colpa e penseremo che se ne debbano vergognare. È in questa situazione che frasi come: “ma lei era troppo provocante” finiscono per diventare attenuanti nei confronti dello stupratore all’occhio della legge e della morale comune. Un genitore, un insegnante se rifiuta le proprie debolezze, come potrà comprendere le paure e le difficoltà dei bambini? Un terapista che si vergogna delle proprie ferite come può curare le ferite dei suoi pazienti? Un medico che ha seppellito le proprie debolezze e le proprie umiliazioni con la sabbia della professionalità ha assoluta necessità, per continuare a rimuovere, di avere del potere e di scaricare le umiliazioni sui pazienti. Il potere gli viene dato dal riconoscimento del bravo paziente, quello che guarisce, e la possibilità di ridare l’umiliazione ricevuta gli viene data dal paziente ribelle. Come la posizione dell’insegnante, la posizione del medico e del terapista è ben congegnata, è in una botte di ferro; sostenute dalla

società queste ed altre professioni danno la possibilità di mantenere sempre solida la rimozione e di rinforzare ogni giorno il muro del silenzio. Ma la professione più potente, quella che tutti possono fare e che dà ancora maggiori possibilità, è quella del genitore. Il bambino bravo, buono, che gratifica, che riempie di orgoglio dà potere, quello ribelle dà la possibilità di ridare l’umiliazione ricevuta. Lo strumento usato è l’educazione e per le professionalità che si occupano della cura la rieducazione (educazione - interruzione del continuum / rieducazione quando il continuum fisico ed emotivo si è spezzato invece di ripristinarlo se ne consolida l’interruzione). Ogni conoscenza tecnica delle persone che si occupano della cura per nascondere il loro dolore viene offuscata dal bisogno di dimenticare. La conoscenza è subordinata al bisogno di rimozione, più il paziente dimostra il suo dolore e più sarà necessario prendere le distanze o guarendolo immediatamente o allontanandolo. Guarirlo immediatamente spesso significa occuparsi del sintomo, metterlo a tacere. La malattia è l’interruzione della comunicazione con se stessi e con gli altri, è qualcosa che interrompe un falso equilibrio per dare la possibilità alla persona di ristabilirlo. È necessario ascoltarla senza che le nostre paure si interpongano, altrimenti è utopistico pensare di poter mettere le conoscenze tecniche al servizio del paziente. La paura riesce a manipolare, a modificare a fare un cattivo uso delle conoscenze che sarebbero utili al paziente. Non credo alla validità della frase: “è un tipo scostante, molto brusco ma un bravissimo medico”. Questo strano rapporto di superiorità e di riverenza che il paziente deve avere nei confronti del medico è il più alto indice di rimozione del dramma del medico, quindi indice della sua impossibilità di fare buon uso delle conoscenze tecniche. Per il terapista la conoscenza tecnica cresce negli anni con l’esperienza, ma la possibilità di usarla cresce solo lavorando su di sé. Solo lavorando su di sé il terapista è in grado di non avere paura della verità e delle emozioni del paziente. Scoprendo le umiliazioni ricevute e togliendosi la colpa di essersele meritate può accogliere le ferite del paziente senza giudizio. Può accogliere la verità senza colpa e senza vergogna. Negli anni di studio e di lavoro per la preparazione e l’elaborazione del mio Metodo ho avuto tanti maestri e penso di aver colto in ognuno di loro insegnamenti importanti, ma è stato molto interessante anche scoprire cosa non avrei mai dovuto fare. Una delle mie maestre durante un incontro di terapisti ci raccontò un’esperienza vissuta con una sua allieva. Si era presentata da lei una donna molto elegante e raffinata, niente del suo abbigliamento era fuori posto, ogni dettaglio era studiato dall’armonia dei colori alla scelta degli accessori. Soffriva di un dolore al nervo sciatico che da molti giorni la tormentava ed era andata da lei per farsi curare. Dopo un’ora di trattamento la paziente si sentiva molto meglio, la schiena sembrava non darle più dolore e neppure la gamba destra. Quando si alzò la mia maestra rimase sconcertata. La paziente era tutta scarmigliata, la bocca sembrava più grande, gli occhi eccitati, il trucco macchiava il suo viso, non c’era più traccia della donna elegante, il viso mostrava, come sosteneva la mia maestra, un’espressione simile a una donna di strada. Era cambiata anche la voce. Con disgusto e incertezza la maestra ci metteva in guardia sugli inconvenienti del nostro lavoro, su quali mostri, che se ne stavano tranquilli e sopiti, possiamo far riaffiorare.

Era meglio una sciatica dello spettacolo che le si presentava davanti. La mia maestra non disse nulla alla paziente, ma presumo che sul suo viso e nella sua voce non ci sia stata una grande accoglienza per ciò che questa persona, fidandosi, aveva osato mostrare. Probabilmente per tutta la vita il suo aspetto più passionale e la sua sessualità erano stati inibiti e quel giorno la violenza subita per tutta una vita si era ripetuta di fronte all’espressione disgustata e imbarazzata della mia maestra. Questa persona avrebbe avuto bisogno di essere accolta, tranquillizzata per poter integrare lentamente anche questo suo aspetto sepolto da anni. Posso immaginare con quanta vergogna questa terapista vivesse ancora le sue ferite. Nonostante questo non posso giustificare il suo comportamento ma soprattutto non ho visto in questa mia presunta insegnante neanche un attimo di dubbio nel giudicare la sua paziente. Al pari delle regole educative le tecniche rieducative evitano di ascoltare i bisogni e le sofferenze, evitano soprattutto di ricordarci la nostra sofferenza; al pari dell’educazione la rieducazione autorizza a dare consigli, a imporre la propria volontà; al pari dell’educazione la rieducazione dichiara spesso “tutto questo male è per il tuo bene”. Mi rendo sempre più conto del fatto che se un terapista è stato un bambino maltrattato, non ascoltato, limitato nelle sue espressioni creative, nel movimento, ed ha accettato tutto questo piegandosi all’educazione, non può essere che sordo di fronte ai bisogni dei suoi pazienti non avendo nessuna conoscenza dei propri bisogni e desideri, nessuna conoscenza delle leggi del corpo, il suo e quello degli altri, ma solo di un insieme di tecniche e di regole. Come spesso un genitore attento può imparare dai suoi figli, così un fisioterapista a conoscenza delle leggi del corpo può imparare dalle richieste dei suoi pazienti, dai loro bisogni. Nella persona ammalata si è spezzato un falso equilibrio, c’è una richiesta di aiuto, un antico bisogno che non può più essere soffocato; un’antica voce non può più tacere. Ha il diritto di essere ascoltata. Non può essere, con l’alibi della tecnica, di nuovo chetata e ricondotta al silenzio. Per terapisti e medici questo silenzio è prezioso; copre il silenzio del loro dolore; la voce, il suono della verità è minaccioso e fa molta paura. Ma questa paura non giustifica l’opera di distruzione che medici e terapisti fanno sul malato. Molto spesso è vergognoso come vengono trattate le persone che hanno bisogno di aiuto. Occorre rivedere la propria storia e le sofferenze vissute per evitare, come succede in molte palestre di fisioterapia, di toccare con distacco e indifferenza il corpo già sofferente di un malato, parlando del più e del meno con i colleghi. Io e il tuo corpo. Cosa vuol dire lavorare sul corpo degli altri? Questa è la domanda che i fisioterapisti dovrebbero farsi spesso. Come si può lavorare sul corpo di un altro senza aver mai lavorato sul proprio? Come si può temere il contatto con gli altri e fare un lavoro dove è richiesto toccare? Come si può toccare un malato se si ha paura del corpo di una persona sana? Quale potere, quale sicurezza se non la tecnica, se non la superiorità di un professionista di fronte a un malato dà l’arroganza di fare i fisioterapisti? Finché i fisioterapisti non daranno risposta a queste domande e non scopriranno, lavorando sulle loro rigidità muscolari, i segreti racchiusi nei loro muscoli, fino a che non ritroveranno il loro dolore e la loro gioia, saranno solo distruttivi nei confronti del dolore degli altri; con la rieducazione soffocheranno sempre di più la natura selvaggia dei loro pazienti deviandola come è stata deviata la loro.

Io e il tuo corpo. Questo è ciò che per tanti anni non ha trovato risposta in nessun insegnamento appreso. La risposta l’ho trovata nelle mie sofferenze. Come madre ho provato a non servirmi dell’educazione, come terapista ho rifiutato le barriere della tecnica e ho scoperto sofferenze e dolori che desideravo ignorare, gioie e passioni che pensavo non mi appartenessero più. Senza questi alibi ho potuto ascoltare la voce di mia figlia e dei miei allievi che hanno risvegliato la bambina che è in me e che per anni ha gridato senza essere udita. Senz’altro non sempre e forse non completamente riesco ad ascoltarla ancora, ma so che questa è la mia strada. Avrei potuto non ripercorrere il passato ma non avrei mai più risentito la passione che pulsava nel mio corpo quando ero bambina. Se non avessi sentito la passione umiliata nel corpo dei miei pazienti di fronte alla rieducazione, se non avessi visto negli occhi di mia figlia uno stupore che conoscevo, quando tentavo di educarla, non avrei mai messo in dubbio la mia vita. Credo che l’angoscia più profonda per un genitore sia quella di non essere adeguato a questo compito. Tutti dicono che è il mestiere più difficile. Tanti hanno scritto libri su come allevare i bambini e l’ansia soprattutto delle neo mamme si può notare dalla quantità di libri che comprano e dalle informazioni e consigli che cercano di raccogliere. Spesso si sente dire: “non so come fare”, “non me ne intendo”, “non ho mai avuto bambini”. Ricordo che quando mia figlia aveva solo qualche giorno una mia amica, anche lei con un figlio di pochi mesi, mi disse: «devi fare come ti viene, devi dare retta al tuo istinto». Ci sono mamme con figli già grandi che danno consigli alle neo mamme su come muoversi, come impostare il rapporto con il bambino, se prenderlo in braccio e quando, se rispondere ai suoi richiami o no; ci sono mamme che con sicurezza dicono: «vai con il tuo istinto». Quando nacque mia figlia tutti questi consigli mi mettevano ancora più in ansia; il mio istinto non sapevo dov’era, ero terrorizzata di sbagliare. Il secondo bambino dà meno problemi, dicono, sai già come fare. Il grande buio. Non ci sono libri, non c’è istinto, spesso c’è il grande buio. La grande separazione. L’unico bambino con cui abbiamo avuto a che fare, che in fondo conosciamo benissimo, che può consigliarci, parlarci dei bisogni di nostro figlio e suggerirci come possiamo accoglierli, non lo consultiamo mai. Non possiamo. Questo bambino è azzittito, messo a tacere perché è pericoloso; se lo ascoltassimo ci farebbe scontrare con il mondo intero, saremmo criticati da tutti, ci farebbe scoprire quanto rancore e rabbia abbiamo nei confronti dei nostri genitori, se lo ascoltassimo inizierebbe una lotta contro il mondo, contro l’educazione. Una lotta per la vita. Questo bambino tenero, impaurito, rinchiuso, è per noi pericoloso e deve tacere. Ma il bambino che abbiamo davanti, nostro figlio, spesso ce lo ricorda. Possiamo soffocare questo ricordo con regole educative, con schemi prefissati, copiando quello che i nostri genitori hanno fatto con noi, oppure possiamo avere il coraggio di non cercare di essere brave madri, di non pensare se siamo all’altezza del nostro compito, possiamo avere il coraggio di togliere i riflettori su di noi, pensare al bimbo che abbiamo davanti, ascoltarlo. Facendo questo finiremo per ascoltare anche il bimbo chiuso dentro di noi, con coraggio possiamo scoprire che non è così pericoloso, ma che è stato più pericoloso e violento vivere per tanti anni separate da lui.

I principi di F. Mézières hanno modificato profondamente il modo di vedere e sentire il corpo. Tutti i principi del suo metodo messi in pratica portano a una fisioterapia completamente diversa da quella classica. Uno dei principi, forse il più rivoluzionario, è il sostenere che la struttura modifica la funzione e non il contrario, volendo dire che è inutile proporre un movimento se la struttura muscolare è rigida e che solo modificando la struttura viene modificato il movimento. Molti fisioterapisti si sono formati al Metodo Mézières considerandolo uno dei vari metodi degli ultimi anni e uniscono al Metodo Mézières altre tecniche riabilitative. Molti medici vogliono sapere quali sono le indicazioni e le applicazioni di questo metodo. A costo di ripetermi continuo a dire che il Metodo Mézières è rivoluzionario, diametralmente opposto ad altri metodi attuati fino ad ora ed è assolutamente impossibile applicarli contemporaneamente sul paziente. Prima di tutto i muscoli vanno allungati e non potenziati, e non solo allungati, ma in simmetria e in rapporto alle varie rotazioni del corpo. I muscoli, peraltro, come ho già scritto, sono organizzati in catene muscolari e questo comporta il fatto che ammorbidendo ad esempio i trapezi si ammorbidiscono anche i muscoli delle gambe. Se la struttura modifica la funzione e non viceversa, come può essere possibile che per recuperare il movimento di un’articolazione che è stata ingessata si continui a chiedere al paziente di sforzarla, di muoverla, per recuperare il movimento? Di fronte ad un’articolazione bloccata sono pochi i terapisti che rinunciano a sottoporre il paziente all’allenamento e al movimento forzato. Se una parte del corpo è stata traumatizzata, ha subìto una rottura, e dopo un gesso o un’operazione non riesce a muoversi è perché i muscoli sottoposti a ripetuti traumi si sono contratti e irrigiditi. Non è assolutamente possibile chiedere al paziente di muovere l’articolazione se prima, lentamente, tutti i muscoli che attraversano quell’articolazione non sono stati ammorbiditi. Il fisioterapista classico sostiene che è il movimento (funzione) che modifica la struttura muscolare e, coerente con se stesso e con la sua tecnica, dice al paziente di muovere l’arto bloccato, perché è l’unico modo che conosce per sbloccarlo. Altri terapisti più all’avanguardia, che conoscono i principi del Metodo Mézières, prima ammorbidiscono un po’ i muscoli e poi richiedono al paziente di muovere l’articolazione, non solo fin dove il muscolo più libero può consentire, ma continuano a richiedere uno sforzo al paziente per aumentare il movimento. È difficile desistere dal richiedere uno sforzo, una fatica, dall’imporre una rieducazione. Educazione e rieducazione hanno le stesse radici, per molti fisioterapisti Mézières ha rivoluzionato troppo, è andata oltre. Credere nei principi di F. Mézières significa essere convinti che ammorbidendo i muscoli della schiena si può ampliare il movimento di un ginocchio che prima era bloccato, significa credere che scollando e allungando i muscoli di un ginocchio il movimento verrà naturale, senza forzarlo, significa credere che i bambini abbiano una socialità innata e che sarà la loro morbidezza a proteggerli e a farli vivere bene nel mondo. Reintegrare una continuità muscolare significa non rieducare, cioè non dare istruzioni sul movimento. Fare un movimento con il mio Metodo non significa fare un esercizio ma sentire dov’è il blocco, ammorbidirlo e ritrovare un movimento naturale. Nella terapia di un bambino cerebroleso (dove la fisioterapia classica proibisce il massaggio, anche quello profondo) non ha alcun senso proporre al bambino di mettersi nella posizione a gatto e tentare di riproporre schemi che sono andati perduti.

Insieme alla perdita di questi schemi si è persa la morbidezza muscolare. I muscoli rigidi bloccano il movimento e impediscono la scioltezza delle articolazioni. Non si può chiedere ad un bambino con una cerebropatia di mettersi in posizioni come quella a gatto o in ginocchio, non si può chiedere alcuna funzione se prima i suoi muscoli non vengono ammorbiditi. Pretendere da lui sforzi inauditi non fa che rafforzare la perdita dello schema. È impossibile ritrovare uno schema di movimento nella fatica e nella sofferenza. Ammorbidendo le catene muscolari molte posizioni verrebbero reintegrate naturalmente. Con i trattamenti classici un fisioterapista non sarà mai in grado di sapere se una funzione manca per la perdita dello schema neurologico o per la rigidità delle contratture muscolari. Da piccoli, per evitare il dolore emotivo, rimuoviamo, il ricordo sparisce dalla nostra mente e questo è il meccanismo di difesa che ci fa sopravvivere; ma anche un trauma fisico muscolare o neurologico mette in atto lo stesso meccanismo di difesa. Una mia allieva in seguito alla rottura del piatto della tibia ha subìto un’operazione; il trauma dell’incidente e in seguito quello dell’operazione le hanno fatto dimenticare, per alcuni giorni, come si muoveva il ginocchio. Pur non avendo nessuna lesione neurologica, il suo schema di movimento, anche se momentaneamente, è andato perduto. La reazione dei suoi muscoli dopo i vari traumi è stata quella di irrigidirsi al punto di non percepire più il comando neurologico e questo ha portato a dimenticare il movimento. Quanta rimozione e quanto dolore c’è in un bambino cerebroleso? Quanta sofferenza e quante ferite trattengono i suoi muscoli? Come è possibile ripristinare uno schema di movimento attraverso una serie di posizioni se non si scioglie il dolore bloccato nel muscolo? Come si fa a comprendere qual è la vera lesione neurologica se si fa della rieducazione invece di ascoltare il suo dolore col contatto delle nostre mani sul suo corpo? Movimenti, movimenti, rieducazione, istruzioni, tutto questo avrebbe la pretesa di ripristinare una continuità interrotta. Esiste un metodo di rieducazione motoria che viene effettuato sui neonati e che più di altri si occupa della funzione e non delle ferite. Il neonato di cui si sospetta una cerebropatia (quindi che abbia subito lesioni neurologiche che lo costringono a schemi di movimenti patologici e non fisiologici) completamente nudo viene appoggiato su un tavolo, viene messo tutto rannicchiato e il terapista si appoggia sopra di lui, spinge su alcune zone del suo corpo dette zone grilletto. Il corpo del neonato viene bloccato, l’impedimento al movimento e il dolore per la pressione su queste zone lo mettono in condizione di fare alcuni movimenti per la disperazione, questi, secondo l’inventore di questo metodo, sono movimenti che correggono gli schemi patologici del bambino. Più l’urlo del bambino è forte e più evoca una buona risposta. Ho conosciuto una persona paralizzata da trent’anni le cui gambe non erano mai state toccate, ammorbidite, perché non erano più funzionali al movimento, perché le aveva dimenticate, perché pur non avendo una diagnosi che accertasse una lesione neurologica lei non camminava. Ha subìto ogni tipo di trattamento fisioterapico, ma nessuno le ha mai toccato le gambe, le gambe venivano mosse solo per tentare di metterla in piedi. Nessuno in trent’anni ha mai provato ad entrare in quel dolore, ha tentato con amore, affetto e calore di accarezzarle, di ammorbidirle, di fargliele ricordare. Le gambe non hanno più la funzione prevista ma sono ancora attaccate al suo corpo, fanno parte di lei, i muscoli sono presenti, il sangue scorre e sono calde.

Una parte del corpo che non risponde più a una funzione viene penalizzata con la trascuratezza come se non appartenesse più a quel corpo. Ciò che non è utile non può essere amato. In un piccolo ospedale un uomo anziano stava morendo, il figlio gli era accanto; notò il naso arrossato del padre e lo massaggiò con una crema di bellezza. Senza la pretesa di farlo vivere ad ogni costo si era occupato di lui con amore. Non c’era un fine, il padre non doveva presentarsi in nessun posto, doveva solo morire. Visse altri cinque anni.

Nelle figure che seguono (da 31 a 37): una ragazzina con una displegia spastica ha modificato la sua struttura dopo soli cinque mesi di trattamenti individuali una volta alla settimana. Le foto a sinistra delle pagine che seguono, sono state scattate nel febbraio 1995, quelle a destra nell’agosto 1995. Figura 31 Figura 32

Figura 33 Figura 34

Figura 35 Figura 36

Figura 37 Figura 38

Capitolo 5

La formazione Da qualche anno ho deciso di formare degli allievi al mio Metodo. La formazione richiede un grosso impegno, non tanto per imparare la tecnica quanto per mettere le proprie conoscenze al servizio degli allievi. Mi sembra chiaro da ciò che ho detto fino ad ora che tutto questo sarà tanto più semplice quanto più profondo è il lavoro che ogni tirocinante farà su di sé. Per questa ragione e per rendere meno lungo il tempo della formazione accetto solo persone che abbiano già iniziato un lavoro sul loro corpo con il mio Metodo. La formazione dura tre anni. Il primo anno prevede un mese di parte teorica e il secondo ed il terzo anno una settimana. Durante tutti e tre gli anni è fondamentale il tirocinio, il lavoro su di sé e iniziare a lavorare come conduttori di un gruppo con la supervisione di un terapista che abbia già ultimato la formazione e che lavori da parecchi anni. È importante comprendere, per un allievo terapista, le quattro fasi del mio metodo e averle sperimentate su di sé, aver sperimentato il rapporto con il terapista, la relazione con il gruppo, la propria autonomia. La cosa più difficile per coloro che seguono la formazione, è comprendere le leggi del corpo, le leggi del gruppo, la naturale evoluzione che avviene sia individualmente che all’interno di un gruppo; è comprendere che tutto avviene naturalmente solo se non è ostacolato, come avviene naturalmente la crescita di un bambino se vengono lasciate libere le sue potenzialità; è soprattutto difficile comprendere come l’educazione li ha allontanati dal sentire se stessi e gli altri. Soprattutto per un fisioterapista è ancora più difficile comprendere che le tecniche rieducative apprese fino a quel momento non solo non rispettano la fisiologia del corpo ma hanno distorto un naturale rapporto con il paziente, hanno coperto paure e timori del fisioterapista lasciandolo tranquillo nel dare istruzioni. Il rapporto fra terapista-paziente, fra maestro-allievo, fra medicopaziente, spesso subisce questa distorsione:

Interpretazione, affermazione e tecnica (opportunità di imporre ciò che si è subìto) fanno l’onnipotenza del terapista, dell’insegnante, del medico. La persona che ha bisogno di aiuto deve dipendere, essere riconoscente, subire questa impostazione. Mi è capitato spesso di dover scegliere le parole giuste, in poco tempo, per poter parlare con un medico, scusandomi di fargli perdere tempo prezioso. Il mio Metodo prevede un’impostazione più naturale, prevede cioè la possibilità di comunicare con le persone che hanno bisogno di un aiuto per riattivare le proprie energie.

Il terapista con la comunicazione, la conoscenza dell’allievo (testimone consapevole delle sue sofferenze) e l’esperienza messa al suo servizio rende possibile l’autonomia e l’affermazione dell’allievo dandogli la possibilità di reintegrare la propria continuità e di ritrovare la sua vera natura. Lavorare su se stessi porta lentamente alla comprensione delle proprie insicurezze e inadeguatezze che, se vengono ignorate, fanno nascere il desiderio dell’onnipotenza, desiderio che per essere accontentato esige una costante affermazione di se e del proprio lavoro. Mano a mano che scopriamo e curiamo le nostre ferite diventa più semplice avere una relazione corretta con le persone con cui lavoriamo ed è più naturale: proporre un lavoro, lasciare la libertà agli allievi di scoprire il proprio corpo, essere testimoni consapevoli delle loro verità e mettere a disposizione le nostre esperienze. L’importanza della voce Ognuno di noi quando è nato è stato spaventato o rassicurato dai rumori o dalle voci che lo circondavano.

Quando un allievo è sdraiato in cerchio assieme ad altri compagni si trova in una posizione indifesa e mano a mano che i suoi muscoli si ammorbidiscono è ancora più ricettivo e sensibile. È fondamentale che la voce del terapista lo tranquillizzi, che sia una voce calda e accogliente. Questa tranquillità lo aiuterà nella sua ricerca. Una voce dura può riportarlo a sgradevolezze o addirittura a paure avute da piccolo, mettendolo in una situazione di allerta e di difesa provocando in lui rabbia e impedendogli di continuare a lavorare su di sé. Tutto deve contribuire a creare un buon clima. La voce non deve essere neanche seducente, meno i riferimenti vengono “condotti a sé” e più l’allievo può guardarsi senza essere impegnato a farsi guardare. L’importanza del contatto Anche il contatto delle mani del fisioterapista col corpo dell’allievo è fondamentale. Avvicinarsi al corpo di un’altra persona non può essere fatto velocemente. Quando io lavoro con un gruppo propongo alcuni movimenti e passo da ogni allievo per massaggiarlo e aiutarlo. A seconda di come una persona è stata toccata nella vita può accettare o meno una mano che l’aiuti e quindi è importante toccare con rispetto e aspettare sempre il permesso prima di fare qualsiasi movimento con le nostre mani sul corpo dell’allievo. Aspettare il permesso non vuol dire aspettarlo verbalmente: se la nostra pelle è sensibile e se il lavoro non è guidato dalla tecnica per il risultato ma dall’intenzione di far rivivere al paziente un’esperienza diversa, la nostra pelle e le nostre mani capteranno questo permesso dalla pelle dell’allievo che con i suoi tempi ci regalerà tutti gli attimi di fiducia che può consentirsi. Di solito i fisioterapisti o i medici pretendono la fiducia del paziente; ho sentito spesso: “per forza, non si fida”. Per quale ragione si dovrebbe fidare? Con quale arbitrio e presunzione noi la dovremmo pretendere? Se la sua fiducia non fosse stata tradita milioni di volte lui non sarebbe stato nelle condizioni di chiederci aiuto. Incominciando a conoscere il piacere, a riconoscere ciò che gli fa male e ciò che gli fa bene, aumentando la fiducia in se stesso, lentamente ci regalerà la sua fiducia. Affinché un fisioterapista possa fare un buon lavoro deve tenere tutti i suoi sensi aperti e metterli al servizio del paziente; è importante fidarsi più dell’intuito che della tecnica, usare la voce e le mani per entrare in contatto e per aiutare gli allievi. La voce del terapista è morbida se è morbido il suo collo, le sue mani sono morbide e ricettive, se le spalle non sono bloccate, sanno toccare se sanno ricevere carezze. È importante che un fisioterapista senta come un bambino e pensi come un adulto. La mia formazione è diretta a chi è già su questa strada o vuole intraprenderla. Solo chi ha ritrovato i propri guardiani che hanno la competenza sulla propria vita, solo chi ha ritrovato la propria natura selvaggia potrà essere partecipe e in grado di aiutare chi si rivolge a lui in cerca di aiuto.

Conclusioni Vorrei salvare le parole “medico”, “fisioterapista”, “mamma”, “genitori” perché sono ruoli indispensabili nella nostra vita; ma nella mia esperienza ho incontrato poche mamme, pochi medici, pochi fisioterapisti, ma solo persone che si sono coperte dietro questi ruoli. Mestieri semplici, naturali che richiedono conoscenza e attenzione ma che diventano molto difficili perché la nostra crescita è stata deviata, perché la nostra vera natura è stata sotterrata (l’ingegnere, l’architetto, il costruttore sono altrettanti mestieri che richiedono attenzione e impegno ma hanno minore necessità, per esprimersi, di ritrovare la propria personale continuità). Ogni persona, qualsiasi lavoro faccia, ha senz’altro la necessità di ritrovare la propria continuità, ma coloro che fanno un lavoro che prevede di aiutare gli altri a curarsi o a crescere sono più sovraesposti e hanno più di altri la necessità di curare prima le proprie ferite o di barricarsi dietro l’onnipotenza. Io e il tuo corpo. Il primo giorno che ho toccato il corpo di un bambino cerebroleso per fargli un trattamento riabilitativo senz’altro la mia paura veniva da lontano, riguardava più la mia fragilità che quella del bambino, riguardava più la mia fatica di vivere appena nata che il bambino che avevo davanti; mi identificavo con la sua difficoltà a vivere. Neonata avevo reagito con rabbia, avevo succhiato anche il latte che non c’era, ero sopravvissuta e vissuta, cresciuta forte grazie a una rabbia che copriva il dolore e la paura di morire. Con la reazione che mi ha salvato ho vissuto molto della mia vita; rabbia, energia, forza, sono sentimenti che nascondono la mia paura. Il primo bambino cerebroleso che ho toccato certamente ha risvegliato tutto questo, e a mia insaputa. È con quel bambino che ho incominciato a sfoderare con forza ed energia tutte le mie tecniche, le mie ore di terapia erano intense, il lavoro era duro. È con quel bambino che a ventitré anni ho incominciato senza saperlo a cercare la piccola bambina dentro di me. Io e il tuo corpo: ogni giorno è un’esperienza che riproponiamo con un figlio, con un partner, con un paziente; la riproponiamo e incorriamo nelle stesse difficoltà e riviviamo la stessa sofferenza che ha caratterizzato il nostro primo incontro. Dopo anni di questo lavoro, percorrendo una strada difficile, e facendomi domande che mi hanno portato a risposte che desideravo ignorare, dopo un lavoro sul mio corpo e la conoscenza delle mie sofferenze, dopo aver lavorato su di me in gruppi che sono stati testimoni accoglienti e consapevoli della mia verità, ho potuto ricostruire il mio corpo e ridarmi la possibilità che mi era mancata. Ho rivisto la mia vita dalla mia parte, ho risentito attraverso il mio corpo le sofferenze e le umiliazioni patite. Rompendo la complicità con i miei genitori ho potuto prendere per mano

quella bambina che anch’io avevo disprezzato, ritenendola colpevole di aver disubbidito e di aver fatto soffrire i genitori.

Incontro con il metodo Monari (racconti di alcuni allievi)

Capitolo 6 1. Rividi quella bambina al mare... Non credo che la mia vita sarebbe quella che è oggi se non avessi potuto lenire le profonde ferite provocate da una biografia familiare sfortunata. I miei genitori erano troppo distratti dai loro problemi per darmi l’affetto minimo necessario a costruire una personalità serena. Mia madre soffre di depressioni da prima che io nascessi. Le sue crisi ricorrenti segnavano, e segnano tuttora, lunghi periodi di assenza domestica: tali periodi spesso coincidevano coi ricoveri psichiatrici, in passato ampiamente utilizzati dalla medicina, e talora invece significavano tempi di rabbia, di liti e di pianti, insieme a lunghe degenze nel letto di mia madre in casa. Mio padre faceva il frigorista e in più si occupava di politica; per questo era alquanto rispettato, ma come genitore e marito era meno onorabile. Noi figlie, mia sorella ed io, ci siamo fatte compagnia salvandoci dal disastro: abbiamo condiviso giochi e lavoro domestico, ceffoni, guai e momenti di apparente normalità, riportando tuttavia tracce indelebili di quel passato comune. A me venne la scoliosi. In una delle rare foto della mia infanzia, ripresa un po’ dall’alto rispetto alla sua statura, è ritratta una bimbetta di cinque anni dallo sguardo imbronciato, col costume da bagno, in piedi su un moscone. Ha il capo grande rispetto al corpo magro, le ginocchia sono valghe, i piedi piatti. Sua madre a volte la porta alla mutua a fare delle visite. La bambina ricorda il grigiore degli ambulatori, con gli arredi di alluminio e il pavimento di linoleum verde, sempre uguali. In mutandine e canottiera deve mostrare come cammina. Che male ci sarà poi a camminare? - si chiede la bambina - sentendo su di sé gli occhi di sconosciuti giudici dal camice bianco, che le prescrivono prima cicli di raggi ultravioletti per il rachitismo, poi la ginnastica correttiva per la schiena storta. All’Ambulatorio Salus gli arredi erano quantomeno diversi: se li ricorda chiaramente per le interminabili attese nella sala d’aspetto, dove negli anni ‘60 si avvicendarono grandi masse di bolognesi. La sola cosa piacevole era che l’accompagnava l’adorabile nonno, l’unica persona tranquilla della famiglia: quei gesti pacati, quel tono di voce dolce glielo facevano preferire a chiunque altro.

Ma con l’entrata in palestra si smetteva di essere bambini: bisognava diventare un po’ soldati, e i soldati, si sa, devono marciare. Al posto del fucile i bastoni di legno, su, giù, dietro le spalle, davanti. Numeri da raggiungere, dieci volte di questo, venti di quello. Era tutto molto faticoso, comprese le esercitazioni alla spalliera e le flessioni. Nonostante tanti sforzi, la bambina deve mettere il reggispalle, che fa male, e per di più sicuramente si vede sotto il grembiule di scuola. Il senso di inadeguatezza si acuisce, e allora, come si può piacere, così conciata, a quel bambino seduto nel banco dietro di lei? Come se non bastasse, le mettono gli scarponi ortopedici grazie ai quali “corregge” rapidamente il difetto ai piedi: prima li ruotava verso l’esterno, nel giro di pochi mesi li porta immancabilmente all’interno. Dopo l’apparecchio ai denti e il nuoto “che fa bene” arriva, con lo sviluppo, una tregua. La ragazzina si guarda allo specchio e nota di avere le costole di destra più alte di quelle di sinistra, ma pensa che con gli abiti alla moda nessuno se ne accorgerà. In casa continuano le crisi, meglio uscire il più possibile... Passano alcuni anni, densi di eventi, con la contestazione, i viaggi, gli amori, l’uscita di casa. Verso i venticinque anni la schiena comincia a dolere in modo fastidioso, persistente; il collo spesso si inchioda, l’umore gli va dietro. Ma dopo il nuoto, l’aerobica e lo yoga il dolore continua. Dietro consiglio di un amico decide infine di iscriversi ad un corso settimanale di “Psicomotricità-Antiginnastica” tenuto da Maddalena Monari. Interrrogandomi sul significato di quelle parole, impresse sulla targa del vecchio “centro”, ne varcai la soglia , per la prima volta, dieci anni fa. L’incontro con il metodo delle possibilità, l’invito emesso da una voce soave a fare degli esercizi “antimilitareschi” mi provocarono, sulle prime, un certo disorientamento: si trattava di un lavoro fisico totalmente diverso da quelli precedenti, al termine del quale, stranamente, stavo molto bene. Togliendo le palline da tennis da sotto i glutei, dopo aver svolto diligentemente l’esercizio richiesto, provai una sensazione indimenticabile di liberazione e di espansione, un piacere inaspettato che scaturiva dai muscoli stessi al liberarsi, distendendosi, dalla tensione. D’altra parte però il mio approccio era quello di sempre: come da bambina affrontavo un duro lavoro, svolto in solitudine e fondato sullo sforzo e l’obbedienza, il che significava associare il dolore al piacere, il controllo all’abbandono, il carcere alla libertà. Seguii per qualche anno un gruppo settimanale, all’interno del quale iniziai un lavoro graduale sulla struttura corporea: dopo qualche tempo cominciai così a percepire lievi modificazioni nei miei gesti e nelle piccole cose della vita quotidiana. In effetti da qui cominciò il mio lavoro. Una signora nel gruppo aveva fatto notare come la massaia contribuisca, pur in modo involontario, all’oppressione storicamente esercitata su di lei quando, per esempio, porta un’unica grande pesante borsa della spesa anziché due, più equilibrate nel peso, e come questa fatica risulti in ogni caso ancor più gravosa per l’ansia e la fretta che troppo spesso vi si aggiungono. Sperimentai allora che ansia e fretta si fanno sentire quando puoi ascoltare come si portano quei pesi: contraendo i muscoli più del necessario già, da dentro le spalle, le braccia rigide funzionano come una leva che aumenta il carico anziché essere semplici vettori di una forza muscolare meglio distribuita a partire dalla schiena. Quella fu l’epoca in cui cominciai a risparmiarmi nel lavoro domestico. Mi resi conto che i miei movimenti nella quotidianità somigliavano enormemente a quelli di mia madre e questo, oltre a contraddire le mie idee femministe, non mi piaceva. I gesti rapidi e scattanti che avevano contraddistinto mia madre nei momenti di ripresa dalle crisi, cessarono così di essere l’unico schema di movimento (domestico) possibile, pur restando il

principale. L’immersione nel contatto con gli altri membri del gruppo mi portava lontano, verso dimensioni diverse dal dover fare, che rimanevano impresse per qualche tempo nel mio immaginario arrecandovi nuovo materiale. Ricordo un autunno durante il quale, quando salivo in automobile all’uscita dal gruppo settimanale, sentivo la spalla sinistra dolorante e accartocciata e tale percezione, spesso associata ad un senso di oppressione, mi accompagnava anche nei giorni successivi. Il mal di schiena però era ormai un ricordo, mentre il mio corpo aveva iniziato a scrivere il suo libro raccontandomi, nei primi capitoli, la sua storia più recente. Io potevo leggerne qualche pagina, ma poi chiudevo quel libro richiamata al presente dalla realtà. Il gruppo settimanale è stato come tante piccole gocce che hanno pian piano diluito una vernice molto densa, un lavoro lento ma continuo che ogni volta mi rammentava il bisogno, altrimenti dimenticato, di rilassarmi e che mi dava inoltre la possibilità di uscire dall’isolamento antico della ginnastica correttiva. Con me c’erano altre persone, non più anonime, con le quali mi potevo confrontare, possibili compagni di gioco o di lavoro che conoscevo nelle versioni autentiche, quelle del tocco di una mano o di un abbraccio o di un ballo scatenato. Con gli stages la lettura del mio libro è entrata nel vivo: lentamente ma con coraggio, ho cominciato a sfogliarne le pagine più dolorose. Spesso, durante il lavoro, affioravano nella mia mente dei ricordi, flash del passato, oppure delle immagini nuove, a cui associavo la sensazione emotiva che stavo provando: rividi quella bambina al mare, e per lei piansi più volte. La sua deformità mi faceva male, mi sarebbe piaciuto essere stata bella, allegra e pasciuta, mi vedevo proprio bruttina; d’altronde mi ricordai anche che qualcuno, un professorone di odontoiatria, me l’aveva detto che ero un mostro. Ho sofferto molto per poter guardare quella bambina con altri occhi, ma quando ci sono riuscita ho capito quanto avevo introiettato quel giudizio che mi aveva reso, tra l’altro, un soggetto difficilmente fotografabile per tutta la vita. Sentivo che non avrei potuto essere diversa, avevo ancora lo stesso corpo tutto contratto che aveva quella bambina, come tanti elastici che si attorcigliano e si sovrappongono tra loro creando nodi e parti dure, e che si tendono ulteriormente negli arti superiori ed inferiori. A poco a poco trovai le ragioni di tanta tensione perché, man mano che la mollavo, durante il lavoro, rivivevo dolori antichi, a volte dimenticati, e tuttavia trascritti nel libro del mio corpo. Una volta mi rividi nella culla, in una stanza di una casa che non esiste più, mentre sgambettavo, poi un’ombra, qualcuno che si stava avvicinando e all’improvviso, fortissima, una sensazione di soffocamento. Non so se mia madre abbia tentato di soffocarmi davvero, oggi non importa, l’importante è stato aver bisogno di respirare: l’informazione trasmessa dal corpo durante il lavoro muscolare mi ha permesso di comprendere, nel tempo e da dentro, perché la mia bambina era così magra e aveva le costole sollevate. Il mio diaframma era completamente bloccato, questo mi faceva sentire sospesa, ansiosa e bisognosa dell’approvazione altrui, mentre prendere respiro significava stare dentro di me, osservare ciò che mi circondava partendo dalla certezza che io c’ero, per porre fine allo “stile acciuga” che mi aveva sempre caratterizzato. A tutto questo si associava l’emergere di un grande bisogno di affetto e di tenerezza, mai ricevuti da piccola, che potevo soddisfare con i miei pari, coi membri del gruppo dopo, nel lavoro di relazione. Ho vissuto incontri bellissimi, degni di un film: vicinanze nel dramma che ci hanno reso solidali, nutrimento affettivo che è andato a colmare dei vuoti, fino allo scambio e al poter dare spontaneo, quando il dover dimostrare di essere “in un certo modo” ha cominciato a non interessarmi più. Ho vissuto momenti di grande felicità, di immersione totale nell’oblio, di abbandono al fluire del tempo, dei colori e delle sensazioni. Il libro del corpo, quando si svela, è ricco di storie che ributtano inaspettatamente all’indietro, al momento in cui le emozioni si imprimono su un essere in via di sviluppo, che non potendo

ancora distinguere se stesso dagli altri, riporta a sé tutta la realtà. Mi ritenevo l’unica responsabile di quello che succedeva, non potevo delegare a nessun altro, di cui potessi fidarmi, possibilità diverse, dovevo essere brava e tesa per far andare bene il mondo. Questi meccanismi avevano coperto ciò che di più vero mi andava rivelando il corpo: la solitudine, la rabbia e il disagio che provavo durante il lavoro di allungamento dei muscoli e che avevano contrassegnato la mia infanzia. Una volta, dopo un lavoro sulla bocca, sentii che il mio viso si contorceva come quando, da giovane ragazza, vidi la “paralisi isterica” di mia madre: fu una delle sue tante crisi che in quel caso le provocò il blocco dei muscoli della parte sinistra, evidente, a livello facciale, soprattutto nella bocca. Il “ghigno” che avevo anch’io, e che tanto deturpava il mio sorriso, esprimeva allora, oltre al dolore per quella sofferenza, la beffa di un destino di cui, oltretutto, mi sentivo inconsciamente colpevole, trasferendo sul mio viso e dentro di me il dramma di mia madre. Non importa se sei già adulto, quando ciò che succede ti tocca nel profondo come quando eri bambina. Quel giorno rivissi anche, attraverso la memoria del corpo, i due interventi chirurgici che avevo subìto, entrambi nella parte sinistra della bocca: uno alla mandibola inferiore, l’altro nella mascella superiore; si trattava di episodi che facevano parte, in questo caso, della mia anamnesi personale, senza essere per questo meno dolorosi. Precipitai in un cupo silenzio e quella notte feci sogni strani che non rammento, ma il mattino dopo, con la faccia “caduta”, la bocca finalmente chiusa in maniera naturale, mi ripresentai al gruppo e pacatamente raccontai cosa mi era successo. I ricordi del corpo non si possono mistificare, perché emergono, intensissimi, come quando gli eventi lasciano la loro impronta; la mente può giocare per adattarsi a soddisfare in maniera deviata i bisogni inappagati, mentre il corpo grida tutto il suo disagio, senza mezzi termini. La mia bocca era la mia storia: mostrandomi i suoi dolori, cominciava ad assumere una sua dignità. Avrebbe voluto un cibo che non le era stato dato, avrebbe desiderato sorridere, ma non le era stato permesso, ma ora poteva ”trovare una casa” in un viso lavorato, godere di questa scoperta così riposante, e poi andare in giro per il mondo, guardare, ridere, cantare. Molte parti del mio corpo, e non solo la bocca, mi hanno svelato via via i loro ricordi, attraverso le sensazioni e le emozioni che ho rivissuto durante il lavoro. Per parecchio tempo ho avuto bisogno di piangere lacrime disperate, per le quali pareva non esserci sollievo come quando ero bambina, ma dopo, negli esercizi di contatto, mi placavo. Spesso trovavo braccia accoglienti che mi consolavano, occhi comprensivi che legittimavano il mio dolore, dolci carezze che mi scaldavano. La parte lavorata, dopo la catarsi affettiva, entrava, carica di energie, nella relazione con gli altri, attraverso le “verifiche di movimento”. Muovere e percepire parti del corpo, prima bloccate, nel momento dell’incontro con le persone è fonte di emozioni intense legate alla scoperta di nuove possibilità di partecipazione. Un pezzetto in più, un tassello ulteriore si andava così ad inserire nel mosaico del corpo, portandosi dietro il suo giovane bagaglio di esperienze relazionali. Dopo tale momento, le nuove parti lavorate possono inserirsi nello schema corporeo in maniera più significativa. Mano a mano che il lavoro scendeva sempre più nel profondo, mi accorgevo di poter disporre di tutte le mie facoltà nella loro massima potenza. L’attenzione che rivolgevo al gruppo, ad esempio, si intensificò enormemente: come sotto l’effetto di una pozione miracolosa, tutto e tutti cominciarono ad appassionarmi, ognuno di loro aveva qualcosa da insegnarmi e potevo ascoltarli come mai prima d’allora. L’essere così dentro me stessa non escludeva affatto il poter essere con gli altri. Se nei primi stages ero andata alla ricerca del mio simile e del familiare, delle coetanee del tipo mentale e

nevrotico come me per costruire alleanze e rivalità, dopo, col tempo, ho avuto la fortuna di incontrare anche il diverso. Da timida e insicura, tesa e controllata, come se mi sentissi sempre osservata e giudicata, sono diventata, poco a poco, tranquilla e aperta. Questo è ciò che succede quando non hai più bisogno di sentirti guardata per esistere. Non ho più avuto paura di esprimermi a livello affettivo, non ho più sussultato quando mi si avvicinava il conduttore del gruppo e non ho più calcolato quando e quanto lo faceva con me in confronto agli altri. Mia madre, poveretta, si dannava a vestire me e mia sorella in modo uguale, a picchiarci altrettanto per non fare differenze, ma quando ho sentito che non è un reato avere delle preferenze e che ognuno ha per questo i suoi perché, ed ho pensato inoltre che era lei, mia madre, la terza di tre sorelle, ad avere proiettato le sue paure di esclusione su di me, ho potuto smettere di spendere energie a controllare cosa mi veniva riservato. Soprattutto ho iniziato a chiedere aiuto se ne avevo bisogno. Il lavoro di gruppo, condotto con metodo non direttivo da Maddalena, è stato il mezzo della mia crescita: nella relazione con gli altri, uguali e diversi, nella comunanza dei momenti felici così come di quelli drammatici, nelle storie di vita che ognuno di noi ha regalato ai vari componenti, nelle dinamiche che abbiamo potuto osservare mentre le vivevamo, si è costruita la complessità sociale. Ho trovato spesso questi termini quando studiavo per l’esame di “Sociologia dei gruppi” all’Università. “L’individuo nel gruppo è qualcosa di più di un semplice atomo, eppure conserva la sua identità senza disperdersi come nella società. È un livello intermedio di relazione”, capace di fornire una grande ricchezza di stimoli, probabilmente maggiore di quella della relazione terapeuta-paziente. La forza e l’energia che si sviluppano all’interno del gruppo non sono la pura sommatoria di quelle individuali, ma qualcosa di diverso. Ecco che se il gruppo “gira bene”, se esso stesso cresce come gruppo, questo potrà andare a costruire un pezzetto significativo di realtà che sostiene i singoli anche fuori da quel laboratorio. Ho fatto parte di un gruppo chiamato “il combinato” per diversi anni: in alcuni momenti si è trattato di una combinazione veramente molto felice di elementi umani, insieme ai quali ho elaborato e condiviso temi e tesi che nascevano dal lavoro sul corpo e non a tavolino. A partire da questo, il livello di profondità e di potenza della trasformazione di cui io, ma non solo, ho potuto usufruire, è stato tale da poter dare una vera svolta ad un processo che, lentissimo, era iniziato dieci anni prima. Dallo stages residenziale di Ischia del ‘93 in avanti, ho iniziato a godere di uno stato di grazia, di allegria e di serenità davvero insperati. Contemporaneamente si è drizzato il busto, è aumentato il seno, si è rilassato il viso e la bocca, si è riempito lo scarno. Lo sguardo si è addolcito, l’approccio si è fatto più spontaneo, il movimento armonioso. La mia apertura dal punto di vista fisico ha coinciso con quella mentale, la quale mi ha permesso di lasciare indietro alcuni fantasmi, senza voltarmi più. Ho visto la mia verità di bambina che aveva un immenso bisogno di amore, e non ho scusato i grandi, pur vedendo le loro verità. Da quando ho accordato il diritto di cittadinanza al mio dolore, posso riascoltare quella bimbetta che è rimasta dentro con tenera comprensione verso me stessa ma anche verso gli altri e, nonostante le evidenti ferite, godere dell’immenso piacere di vivere la mia vita.

Lilia Collina

2. Un passato da ‘piccola ginnasta’, poco convinta Ho pochi e sfumati ricordi della mia infanzia e quando riguardo l’album delle mie vecchie foto, mi soffermo su di una in particolare, una bambina con due grandi occhi neri che mi rivolge uno sguardo intenso, carico di domande e aspettative. Frugando nella memoria, affiorano i ricordi del mio primo giorno di scuola e del volto della mia compagna di banco. Ad uno ad uno rivivo alcuni momenti di allora. Tutti in fila, nell’atrio della scuola elementare, ci viene somministrato il vaccino orale antipoliomielite. Radunati nel cortile della scuola, con grandi occhiali scuri, attendiamo l’eclissi di sole. E ancora, vengo messa in punizione per aver copiato un tema, preparato a casa il giorno precedente. Ricordo molto bene mia nonna, con cui io e mio fratello siamo cresciuti e ricordo i suoi racconti di quando, pollivendola, andava in bicicletta a vendere polli e conigli al mercato di Lugo. È sempre stata una presenza rassicurante, per noi bambini, la nonna, tacita complice dei nostri piccoli misfatti e sempre pronta a difenderci con i nostri genitori. I miei genitori erano tutto il giorno al lavoro e la sera tornavano a casa stanchi e spesso nervosi. Erano molto severi e quando si arrabbiavano non c’era da scherzare, per cui preferisco ricordarli nei momenti più dolci, quando mio padre ci incantava con favole fantastiche per farci mangiare o mia madre ci assisteva nei compiti, insegnandoci tabelline e preposizioni. Sono la primogenita di due figli, ho un fratello più giovane di quattro anni e ho sentito molto il peso di essere stata la prima e per di più femmina. Inoltre l’adolescenza è stata per me, come per la maggior parte dei ragazzi, molto difficile: avevo un corpo che non accettavo e mi mortificava l’essere presa in giro dai compagni perché grassottella. Ero pigra e molto golosa e mia nonna, reduce dagli anni della guerra, anni di sacrifici, risparmi e digiuni, era orgogliosa di poter crescere i suoi nipoti a tagliatelle al ragù, carne e formaggio, latte e uova. Non riuscivo a trattenermi davanti ai piatti di pasta ben condita che la nonna mi preparava. Era una festa quando a merenda trovavo la crema gialla calda, ma poi la crisi sopraggiungeva, di fronte ad un vestito da comprare o un costume da indossare, in un’epoca della vita in cui ci si vorrebbe sentire in perfetta forma, essendo il tempo delle prime feste e delle "prime cotte". Non amavo lo sport e non sono mai stata competitiva, a differenza di mio padre che ha dedicato ad esso tutta la vita ed ha sempre gareggiato per vincere, non per partecipare. Un po’ per compiacerlo, un po’ per migliorare il mio aspetto fisico, cominciai a praticare sport, dalla pallavolo all’atletica, dal tennis all’equitazione, e poi ancora lo sci e la palestra, con tanta fatica e poche soddisfazioni. Mi consolava pensare che questi sacrifici sarebbero comunque valsi a preservarmi dagli acciacchi dell’età adulta, soprattutto dai dolori alle ossa. E così per anni ho allenato il mio corpo con esercizi faticosi che obbligavano i miei muscoli a contrazioni violente, spesso dolorose. Ricordo in particolare la ginnastica in palestra, gli esercizi alla spalliera, i pesi, l’aerobica. Nessuna di queste attività mi divertiva e nessuna riusciva a rilassarmi. Di divertimento e di rilassamento avrei avuto invece davvero bisogno, in quanto avevo intrapreso una carriera di studi e di lavoro molto pesante, cioè quella di medico.

A ventiquattro anni mi ero laureata in medicina, poi mi ero specializzata in pediatria ed avevo trovato lavoro come pediatra in ospedale, la mia massima aspirazione. Il ruggito ritrovato È stata per me una spiacevole sorpresa, cinque anni fa, all’età di trentasei anni, trovarmi alle prese con un fastidiosissimo mal di schiena, un forte dolore sotto la scapola destra, che mi impediva persino il riposo notturno. Ero reduce da una settimana di intenso allenamento sportivo durante una vacanza con amici in Francia, dove finalmente mi ero sentita con "un fisico bestiale" ed ero riuscita a fare di tutto, dallo sci estivo all’equitazione, dalla mountain bike al tennis, riuscendo anche a divertirmi. Quel dolore non ci voleva, ed ancor più amara fu la sorpresa quando le lastre rivelarono una colonna con curvature scoliotiche e segni di artrosi incipiente (così giovane!). Iniziai così la "via crucis" degli specialisti e delle terapie: il neurologo ipotizzò una nevralgia, il fisiatra una mialgia, l’ortopedico, infine, prospettò la possibilità di un osteoma di una vertebra dorsale, sulla base di una immagine sospetta delle lastre. Si trattava di un tumore benigno delle ossa, più frequente nell’infanzia e che in quella sede avrebbe potuto essere pericoloso per il rischio di danneggiare il midollo osseo, qualora avesse dovuto essere asportato. E l’asportazione si sarebbe resa indispensabile, se il dolore si fosse rivelato, a lungo andare, non più sopportabile. Così, paralizzata dalla sentenza, decisi di fare qualsiasi cosa pur di eliminare il sintomo. Feci un primo tentativo con i comuni farmaci antinfiammatori, che poco effetto ebbero sul dolore, ma mi causarono un tremendo mal di stomaco. Poi mi affidai alle mani di un muscoloso fisioterapista che si accanì sulla mia schiena, massaggiandola con vigore, con nessun risultato se non quello di farmi odiare le sue pesanti manone. Affrontai anche la prova del manipolatore, ma quando questi prese a "manipolarmi" la colonna con tale energia che pareva volesse spezzarmela, decisi di sospendere dopo la prima seduta. Ero disperata. Su consiglio di una collega, mi rivolsi ad una fisioterapista di nome Maddalena, che lavorava in un centro privato, vicino a casa mia a Bologna, dove svolgeva un lavoro a gruppi di "antiginnastica e psicomotricità". Il termine antiginnastica mi ispirò subito simpatia, mentre il secondo, psicomotricità, mi lasciò perplessa e forse anche un po’ spaventata, ma ero fermamente decisa a tentare quella strada. Ricordo il primo incontro con Maddalena: con le lastre sottobraccio le dissi che ero medico, che avevo un terribile mal di schiena e che volevo lavorare con lei. Non sembrò molto interessata a me e al mio problema. I corsi erano iniziati e con lei non c’era più posto. Ero decisa a non cedere e così le dissi che mi era stato diagnosticato un tumore vertebrale. Se il dolore non passava dovevo essere operata e l’intervento aveva un rischio di complicazioni elevatissimo. Fui inserita in un gruppo che aveva già iniziato a lavorare, rivelatosi però molto disponibile ad accogliermi. Ricordo le prime sedute, in cui avvertivo un grande imbarazzo, soprattutto quando mi veniva chiesto di riferire al gruppo come mi sentivo, abituata com’ero a chiedere io agli altri come si sentono. Anche alla fine della seduta, durante i lavori di contatto, mi sentivo goffa e inadeguata, abituata come ero ad un mondo in cui nessuno ti guarda, nessuno ti tocca e quasi ci si impaurisce se qualcuno ti abbraccia con calore. Non era necessario fare bene l’esercizio ma era sufficiente cercare di eseguirlo. Nella respirazione non era importante inspirare con vigore, come mi avevano insegnato nel mio

passato di "piccola ginnasta", ma bisognava soprattutto buttare fuori tutta l’aria e cioè espirare completamente per rilassare il diaframma. Alla fine di ogni seduta non ero stanca, ma anzi mi sentivo rilassata e piena di energia. In pochi mesi mi passò completamente il dolore. Decisi allora di fare una lastra di controllo, che dimostrò che quella immagine sospetta era in realtà solo un “artefatto”, o falsa immagine radiologica. Fui così consapevole che il mio dolore era il risultato di contratture muscolari che avevano radici antiche. La sofferenza che mi aveva procurato mi aveva impedito di rimuoverlo e anzi mi aveva costretto a fermarmi ad ascoltarlo e a cercare di interpretarlo. Continuai così con entusiasmo a frequentare il Centro Monari, con indubbi benefici sul mio corpo che acquistava sempre più morbidezza ed armonia nei movimenti, grazie al lavoro di gruppo che svolgevo settimanalmente. E via via che i miei muscoli si ammorbidivano ed il mio corpo trovava un nuovo equilibrio, con la colonna più dritta, il collo meno contratto, le spalle più basse, la mandibola meno serrata e gli occhi più aperti, piccoli ma progressivi cambiamenti investivano tutta la mia sfera emotiva e relazionale. Non avevo più bisogno di quell’esagerato autocontrollo che mi era stato imposto fin da bambina e che mi impediva di esteriorizzare le emozioni, non trovavo più imbarazzante piangere se ne sentivo il bisogno, così come non sentivo più l’obbligo di trattenermi, se volevo sfogare la mia rabbia, magari urlando. Col tempo ho imparato a non soffocare le emozioni, come in passato, ho capito quanto può giovare esprimerle, mentre il trattenerle fa ammalare il corpo e soffrire il cuore. Così finalmente anch’io, che ho sempre ritenuto indecoroso ed inopportuno alzare la voce, in occasione dell’ultimo stage a cui ho partecipato, ho tirato fuori un potente ruggito da leone ferito e profondamente offeso, ho gridato a tutti la mia rabbia, e alla Maddalena, che a fine seduta chiedeva di riferire al gruppo cosa ci "portavamo a casa" ho risposto: «il ruggito del leone, che avevo dimenticato nella culla». Riscoprire i bambini e incontrare il bambino che è in me Col tempo, anche il mio lavoro di pediatra ha preso nuovi significati. Fin dai banchi della scuola elementare scrivevo nei temi che avrei voluto fare la pediatra. Mi affascinava l’idea di prendermi cura dei bambini malati. Quando però il mio sogno si è avverato ed ho iniziato a lavorare in ospedale, il mio rapporto con i bambini è diventato sempre più professionale, da medico a paziente, scegliendo sempre come interlocutore il genitore e trascurando i bisogni e le paure del bambino, presa come ero dal desiderio di curare bene ed in fretta la sua malattia. Negli ultimi anni questo rapporto è cambiato ed io sono molto più attenta a ridurre al minimo i traumi, che in ospedale per un bambino sono tanti, il distacco dall’ambiente domestico, la visita medica, i prelievi, le punture. Spesso anche le procedure diagnostiche vengono eseguite tenendo conto più delle esigenze del medico che del rispetto del paziente, che nel mio caso è un bambino. Emblematico è il caso della biopsia intestinale, che si esegue in pediatria soprattutto quando si sospetta una malattia celiaca, una intolleranza ad alcuni cereali, quali il grano. Si esegue con una capsula metallica che va introdotta dalla bocca e durante l’esame il bambino deve stare fermo, per cui i testi medici consigliano di avvolgerlo stretto con un lenzuolo, a mo’ di mummia, in modo da impedirgli qualsiasi movimento.

Il bambino si trova così legato e solo, perché i genitori vengono tenuti fuori, per non essere di intralcio agli operatori. Questo è sicuramente un modo di procedere più sbrigativo e comodo per il medico, ma estremamente coercitivo e violento per il bambino. Lasciare il bambino nella sua cameretta accanto ai genitori, spiegare bene ed in modo semplice la tecnica, chiedere la collaborazione del bambino stesso se grandicello, o dei genitori se più piccolino, comporta certamente un dispendio maggiore di tempo e di energia, ma chi si occupa di persone malate, soprattutto se bambini, non deve avere fretta, e non deve perdere di vista l’obiettivo principale, che è il rispetto del malato e della sua malattia. E così se il bambino si fida, se si sente abbastanza tranquillo, se anche i genitori collaborano e l’ambiente è rassicurante, sarà ridotto al minimo il trauma dell’esame ed il bambino non serberà di esso un ricordo tanto brutto. Sono cambiate anche le mie convinzioni riguardo allo sport, soprattutto quello agonistico, svolto il più delle volte dai bambini più per compiacere i genitori che per loro reale divertimento. Ogni sport comporta contrazioni muscolari che tendono, col tempo, ad accorciare i muscoli, soprattutto quelli posteriori ed a ruotare l’asse del corpo, causando i vari dismorfismi che sono alla base dei dolori ossei dell’età adulta. Il movimento è importante, ma bisogna muoversi nel modo più naturale possibile, senza costringere i nostri poveri muscoli ai lavori forzati, per cui ai genitori che mi chiedono consiglio su quale sport far fare ai loro figli, rispondo: «fateli divertire». Ho imparato a guardare il corpo del bambino nel suo insieme e ad interpretare meglio i suoi sintomi, e così ora so che i piedi piatti non devono essere chiusi in scarpe ortopediche per essere sostenuti. Non sono infatti altro che la conseguenza di una schiena contratta e rigida. Anche per altri dismorfismi, quali le ginocchia valghe, la scoliosi, le scapole alate, so che sono il risultato delle dolorose rotazioni di un corpo che prima va attentamente osservato e poi riportato in asse, senza bloccare il movimento con busti, tutori, gessi o altro. Ho imparato ad interpretare il sintomo non più solo come spia di malattia organica, ma spesso anche come segnale di disagio che il bambino prova nell’ambiente famigliare, scolastico e sociale. Il lavoro fatto su di me in questi anni mi ha insegnato ad ascoltare i segnali del corpo e questo è stato di grande aiuto a me ed al mio lavoro di medico. Sono convinta che la salute di una persona, fisica e psichica, derivi dalla fiducia in se stessi, che si apprende solo attraverso il processo della vera comunicazione. E così anche nel mio lavoro posso contribuire a mantenere la fiducia del bambino, cercando di comunicare con lui o riallacciando comunicazioni interrotte. Il bambino impara più attraverso il piacere che attraverso la sofferenza e più grazie ai suggerimenti e alle spiegazioni che agli ordini e tutti coloro che si occupano di bambini, pediatri compresi, devono esserne consapevoli. Durante questi anni, quando ho incontrato i miei blocchi muscolari ed emotivi, ho attraversato momenti faticosi e dolorosi, ed ho avvertito una grande stanchezza, a volte mista a sfiducia, ma è sempre stata più forte la spinta ad andare avanti, nella convinzione che solo il lavoro su di sé può migliorare il rapporto con se stessi e con gli altri. Negli ultimi anni Maddalena ha definito meglio il suo Metodo ed ha avviato una “Scuola di formazione”, affinché altre persone, oltre a lei, lo possano applicare. Insegno anatomia agli allievi della Formazione ed anche questa è stata per me un’esperienza importante. Ho cancellato dalla mia testa la vecchia visione del corpo umano, spezzettato in un numero infinito di ossa e muscoli ed ho riscoperto un corpo nuovo, una macchina meravigliosa in cui i muscoli si muovono tutti insieme in catene ed esprimono in modo tangibile bisogni e disagi. L’attenzione ai bisogni del corpo è stata la molla per avvicinarmi in modo nuovo anche ai problemi dell’alimentazione. Da anni mi occupo di problemi nutrizionali nei bambini, ma solo di recente ho allargato i miei interessi con lo studio e la pratica del metodo Kousmine, messo

a punto dalla pediatra russa Catherine Kousmine, secondo la quale tutte le malattie della nostra epoca, soprattutto quelle degenerative quali i tumori, dipendono da una cattiva alimentazione. Prendersi cura di sé comporta anche mangiare in un modo più sano, per mantenersi più a lungo in salute e "dare vita agli anni, non solo anni alla vita", come dice la Kousmine. Ho ritenuto importante estendere queste mie conoscenze agli allievi del Centro con alcuni incontri, che sono stati un’esperienza molto stimolante, per l’interesse che gli argomenti hanno suscitato. Ho trovato tanti amici, facendo questo lavoro, persone su cui so che posso contare e che di me accettano pregi e difetti, come io di loro, perché questo lavoro mi ha insegnato ad essere più vera e a mostrarmi per quella che sono, nel bene e nel male, nella felicità e nella tristezza. Ed è così che ora, quando osservo la mia immagine riflessa allo specchio, riconosco il volto e lo sguardo di quella bambina che mi guarda dalle pagine dell’album di fotografie, una bambina che ho imparato a proteggere ed amare ogni giorno di più.

Sandra Brusa

3. Ho trovato dei compagni di viaggio Ero a Bologna da due giorni. Avevo appena cominciato a seguire le lezioni del secondo anno della Scuola per Terapisti della Riabilitazione dell’Ospedale S. Orsola. Erano ormai sei mesi che quel numero della rivista Riza Psicosomatica giaceva vicino al mio telefono; era aperto alla pagina dove avevo cerchiato in rosso la pubblicità del Centro Monari. C’era scritto: “Centro Monari - Psicomotricità Antiginnastica”; poi alcune frasi spiegavano come con un lavoro di gruppo si potesse non solo ammorbidire ed armonizzare la struttura fisica, ma anche permettere al corpo, alla persona, di ritrovare energia e voglia di vivere, migliorando così anche le possibilità di comunicazione con gli altri. Quelle poche righe mi avevano proprio colpita, quel Metodo mi interessava dal punto di vista professionale ma soprattutto perché, come futura terapista, mi sembrava fondamentale fare un lavoro del genere su di me per poter poi lavorare con gli altri. In quei sei mesi, però, non avevo mai trovato il tempo per telefonare. Quel giorno invece appena tornata da lezione chiamai! Fu Maddalena a rispondermi. Mi presentai e le dissi che ero un’allieva della Scuola per Terapisti della Riabilitazione e che mi sarebbe piaciuto provare il suo Metodo. Prima ancora di iniziare a studiare a Bologna avevo letto alcuni libri sulle cosiddette “ginnastiche dolci” e tra questi c’era anche Guarire con l’antiginnastica: le ragioni del corpo di Thérèse Bertherat. Da allora mi era rimasta la curiosità di provare su di me questo metodo. Per strada a Bologna, quel primo anno di Scuola Terapisti, ero spesso incappata in locandine che pubblicizzavano “Centri di Antiginnastica”. C’erano sempre il numero di telefono e l’indirizzo ma non ne lessi mai nessuna con calma. Il giorno in cui andai a quell’incontro il cielo era grigio, era una di quelle giornate uggiose che spesso riuscivano a scatenarmi i miei famosi attacchi di emicrania. Mentre camminavo mi sorpresi dello strano senso di eccitazione che cresceva dentro di me, avevo voglia di conoscere la persona a cui apparteneva quella voce calda e calma che mi aveva parlato al telefono e di vedere il suo Centro. Ero come sempre in anticipo. Entrai e pensai di essermi per l’ennesima volta estraniata dalla realtà; c’era un salotto al posto della più comune sala d’attesa, era un ambiente confortevole, personale e non freddo, o asettico e anonimo. Tante volte passando per la palestra delle terapie fisiche in ospedale avevo sognato ad occhi aperti un posto più tranquillo, accogliente, rispettoso; solo in un posto con queste caratteristiche io avrei voluto essere curata e solo lì io avrei voluto lavorare. Per una volta dover aspettare non mi metteva a disagio anzi continuai a guardarmi intorno e a fantasticare. L’incontro con Maddalena chissà quanto durò. Eravamo sedute una di fronte all’altra. Dietro a lei c’era una libreria di legno: c’erano molti libri, alcuni noti ed altri no; mi piacque vedere che insieme ai libri di anatomia e fisiologia ce n’erano alcuni di psicologia, altri sul massaggio, altri (già visti tra quelli di mia madre) sui rimedi naturali e sull’alimentazione, altri ancora sembravano romanzi. Vicino alla libreria c’era un piccolo frigo e sopra regnava una grande cesta piena di frutta; su una delle due scrivanie c’era un coloratissimo mazzo di fiori; qua e là c’erano fotografie di persone sorridenti (quasi sempre bambini).

Insomma, la prima piacevole sensazione fu di non essere capitata in un posto rigido. Non ho mai sopportato le persone che prendendo “un qualcosa” come fede, lasciano che questo diventi la loro unica ragione di vita e che tutto il resto perda di significato. Mi hanno sempre infastidita le persone rigide negli atteggiamenti e nelle idee e non avrei sopportato né di incontrare una dottoressa classica convinta dell’onnipotenza della medicina occidentale, né una vestita da indiana, a piedi nudi con lo sguardo perso nel vuoto che mi dicesse di aver trovato la via della gioia. Quell’ufficio era armonico. Era una stanza che conteneva vari elementi fondamentali per nutrire una persona. Questa pluralità di fonti mi rassicurava. Anche Maddalena mi piacque subito. Aveva un vestito con una gonna lunga, i capelli sciolti cadevano morbidi sulle spalle, il suo sguardo era lucido, attento e un po’ misterioso, aveva qualcosa di familiare. Mentre parlavamo avevo comunque le mani gelide (mi succede sempre quando affronto qualcosa di nuovo). Ci davamo del lei e io ogni tanto non potevo fare a meno di pensare: “chissà cosa leggerà dalla mia postura, dal mio modo di muovermi e di parlare”. Non mi ricordo esattamente cosa ci dicemmo, so solo che, quando le dissi che ero convinta che una terapista dovesse in primo luogo lavorare su di sé, lei mi disse: «forse i tempi stanno finalmente cambiando ». Mi iscrissi subito ad uno stage. Tornando verso casa mi sentivo più leggera, allegra, quasi felice. Tornai al Centro qualche settimana dopo per il colloquio con Anna Maria: lei avrebbe tenuto il mio primo stage. Con lei mi sentii subito a mio agio, chiacchierammo di me e della mia famiglia. Mi lasciò solo un po’ interdetta quando mi chiese il mio segno zodiacale (per un attimo pensai: “ecco un’altra quarantenne un po’ strega !”). Mi piaceva comunque questo tipo di approccio. L’idea di un incontro prima di iniziare il lavoro in palestra mi sembrava umana! Eravamo due persone, due individui che iniziavano a fare conoscenza. Lei non era LA Terapista. Io non ero UNA paziente. Il primo giorno dello stage non conoscevo nessuno. Ero piena di quell’entusiasmo che caratterizza spesso le mie prime volte. Era piacevole essere in un posto in cui non c’era nessuno che si aspettasse qualcosa da me, nessuno a cui rendere conto, nessuno con la penna in mano e un registro di fronte per giudicarmi! Mi sentivo anche un po’ tutelata dal fatto che non era proprio la prima volta che iniziavo un lavoro su di me. Infatti quando frequentavo il liceo classico a Bolzano, i miei genitori mi convinsero ad andare da una terapista della riabilitazione. Io arrivai da lei scettica e diffidente, il mio problema era che soffrivo di terribili emicranie, di mestruazioni molto dolorose e di influenze ricorrenti: non riuscivo proprio a capire che cosa c’entrasse una fisioterapista con i miei mali. Mi sembrava che mia madre e i suoi amici “medici alternativi” sperimentassero su di me strane pozioni, intrugli miracolosi e stregonerie varie. Ero stufa, avrei voluto una pillola che mi facesse guarire, diventare come gli altri, sognavo un medico classico, onnipotente, che mi curasse ! Questi erano i presupposti di due anni di lavoro con quella fisioterapista. Lei faceva lavorare con il rilassamento, l’ascolto e il riequilibrio delle energie corporee. Dopo gli esami di maturità partecipai anche ad uno stage di una settimana tenuto da lei: durante il lavoro si alternavano momenti di rilassamento e visualizzazioni, momenti di lavoro a coppie, momenti di lavoro corporeo più vivace. Durante quella settimana vidi persone scoppiare in pianti disperati; sentii emozioni diverse impadronirsi di me; sentii quale incredibile situazione

di gruppo si potesse creare e come le sensazioni, le azioni di uno potessero condizionare, influenzare quelle degli altri. Quel tipo di lavoro mosse sicuramente tante cose e soprattutto non mi tolse completamente i miei sintomi, ma mi insegnò ad ascoltarli e a viverli come campanelli di allarme. Quel lavoro aprì una fessura sufficiente per iniziare ad ascoltarmi di più, a mettere il fuoco dell’attenzione più su di me che su chi mi stava intorno. Non ero però per niente in grado di riconoscere quali fossero realmente i miei bisogni: ero più in crisi che mai, iniziavo a vedere un qualcosa che mi era impossibile accettare ed affrontare. Alcune frasi che mi furono dette allora suonarono alle mie orecchie o come sentenze, o come semplicemente incomprensibili: solo ora possono avere un significato. In quel periodo passavo da momenti in cui sentivo la gioia di vivere che mi esplodeva dentro, a momenti in cui scoppiavo a piangere senza apparente motivo. Devo, comunque, sicuramente anche a quella crisi, a quella prima rivoluzione interna se trovai la forza di mollare, dopo il primo anno, la facoltà di giurisprudenza, sconvolgendo tutti e tutto e di prendere la decisione di andare un anno in Germania come ragazza alla pari dove imparare il tedesco e soprattutto trovare il tempo e il modo per capire cosa mi sarebbe piaciuto fare come professione. Al mio rientro in Italia iniziai una psicoterapia. Durante i mesi trascorsi in Germania i miei mal di testa non erano passati e a questi si erano associati disturbi ormonali e preoccupanti disturbi alimentari. Trovarmi poi di nuovo a Bolzano ed essere per la prima volta in vita mia senza niente da fare (non studiavo e non lavoravo) mi faceva sentire vuota, sola: non ero niente. La mia razionalità mi imponeva di analizzare la situazione e di ripetermi spesso frasi del tipo: “una persona è quel che è e non ciò che fa”, oppure “ciascuno ha i propri tempi e ritmi”, “tutti hanno diritto a delle pause di riflessione”. Erano concetti che andavano contro a ciò che è comunemente accettato, a tutto ciò che la nostra società, la scuola, i mass-media esigono dal singolo individuo. Nella nostra realtà l’efficientismo, la velocità, la bravura, l’essere attivi, instancabili, vincenti (meglio ancora se sorridenti, belli e ricchi) sembrano caratteristiche fondamentali per essere accettati socialmente. Fin da bambini veniamo bombardati di richieste e aspettative che ci fanno fare sforzi disumani per adeguarci a modelli assoluti e standardizzati ignorando, rimuovendo, i nostri specifici bisogni. Per paura di essere esclusi, ignorati, non amati ci conformiamo a queste regole socio-culturali. E se per caso il nostro corpo inizia a lanciare qualche segnale di protesta ci sentiamo in colpa e deboli, perché «la cultura in cui viviamo apprezza come forma di buona educazione l’atteggiamento di chi non prende sul serio le proprie sofferenze, tende a sminuirne o ne ride addirittura» (Alice Miller). Decidendo di mollare l’Università mi ero violentemente spogliata del mio ruolo di brava, ubbidiente, disponibile, responsabile e improvvisamente mi ero trovata nuda. Mi sentivo inadeguata e brutta. In quel periodo di malessere generale decisi che avrei provato ad entrare in una Scuola per Terapisti della Riabilitazione. Mi interessavano tutte quelle tecniche volte a ristabilire l’armonia psicofisica e a migliorare il rapporto delle persone col proprio corpo: più in generale volte al ben-essere (mio e degli altri!). Non sapevo esattamente che cosa facesse un fisioterapista, non avevo mai desiderato lavorare in ospedale, ma quasi sicuramente questa scelta era dettata dal fatto che “il prendermi cura di” era stampata nel mio codice di comportamento e di relazione con gli altri. Quando nel 1992 fui accettata alla Scuola per Terapisti del S. Orsola, mi sembrò di riprendere in mano la situazione: mi avevano scelta, insieme ad altri diciannove, tra duecento candidati.

Allora ero di nuovo brava? Questi eventi esterni, ebbero l’effetto positivo di darmi quel minimo di tranquillità per permettermi di ascoltare di più quella parte di “corpo sensibile” che qualche anno prima aveva iniziato a farsi sentire. La psicoterapia, abitare a Bologna con un’altra studentessa, riuscire di nuovo a studiare, mi faceva stare meglio, mi faceva sentire spesso quasi felice e iniziavo anche a sentire di non essere io la causa dei miei mali. Questo era un po’ del bagaglio con cui entrai quel giorno in palestra per unirmi al resto del gruppo con cui avrei fatto il mio primo stage. Pensavo di essere lì per conoscere un metodo riabilitativo più vicino al mio modo di essere; la sorpresa è stata che quel giorno ho iniziato a capire qual è il mio modo di essere. Il primo grande cambiamento ci fu dopo un lavoro per ammorbidire la muscolatura dei piedi. I miei piedi piccoli e sottili, con l’alluce che tendeva al valgismo, quel giorno si aprirono! La pianta del piede divenne più ampia, gli alluci si toccavano. Li sentivo per la prima volta appoggiati per terra. Questa sensazione mi dava una sicurezza del tutto nuova. Non riuscivo a smettere di guardarli, ammirarli, mi sembravano belli e stabili. Quelli erano i miei piedi, così sarebbero dovuti essere da sempre. Non sono più tornati come prima. Quel giorno ripensai ad alcune frasi della fisioterapista di Bolzano, che fino a quel momento non avevano avuto nessun senso. Lei un giorno mi disse di usare meno la testa e di stare più con i piedi per terra perché solo così mi sarebbero passate le emicranie. Finché non era stata data ai miei piedi la possibilità di appoggiarsi per terra, con il lavoro di struttura, “usare la testa” era stata la mia unica salvezza. Stage dopo stage ho scoperto quali sono i miei punti di maggiore rigidità, quali quelli più liberi, quali sono i miei atteggiamenti di difesa, quali quelli di attacco, ho accettato alcuni dei miei limiti; ho insomma trovato una strada per comprendermi e stare meglio. Mentre si sciolgono le rigidità muscolari, si liberano delle emozioni. Emozioni diverse: emozioni fino a quel momento intrappolate sotto un’armatura di muscoli induriti. A volte l’emozione fa nascere un ricordo. Quest’emozione, questo ricordo, questo tipo di memoria rende il passato presente, cioè dà la possibilità di rivivere un pezzo di passato, quasi sempre dimenticato, fondamentale per riappropriarsi del presente. Su di me tutto questo è stato fondamentale per poter iniziare a capire chi, cosa, come, quando, ha fatto sì che io diventassi chi e come sono. Penso che sia generalmente accettato che lo studio del passato sia fondamentale per poter comprendere il presente; se ciò è valido per la società dovrebbe esserlo altrettanto per la singola persona sociale. «Di ciò che è stato è sicuramente importante mantenere la memoria e vi sono figure professionali delegate a farlo, ma è certo, che è solo quando la memoria diventa collettiva, che ciò che è stato potrà servire per ciò che sarà. ... Ma si può davvero mostrare il passato? Io credo sia solo possibile mostrarne il ricordo, quella memoria che lo rende presente. E i ricordi sono fatti di immagini confuse, di parole, di momenti brevi e definiti che poi scompaiono nel buio, di sferzate improvvise, di silenzi, di pensieri sull’oggi. Perché c’è un passato di cui è impossibile avere nostalgia ed è quello che ci ricorda chi siamo» (Sergio Camin, L’Ombra del buio - LAGER A BOLZANO 1945-1995, Comune di Bolzano - Assessorato alla Cultura Archivio Storico). Va inoltre considerato il fatto che se un bambino nasce e cresce in un ambiente freddo e poco rispettoso, non può far altro che credere che questo sia l’unico mondo possibile. Lo accetta e si adegua: irrigidendosi.

Queste prime esperienze condizionano il suo modo di pensare, sentire, relazionarsi con gli altri. Tutto questo, come dice Alice Miller nel libro L’infanzia rimossa, oltre a segnare la vita del singolo individuo costituisce un grave pericolo per la società. Solo un bambino amato, rispettato, ascoltato può creare un mondo diverso. Potrei elencare ora tanti episodi, momenti, ricordi ed emozioni che hanno segnato le varie tappe in questi due anni di lavoro su di me con il Metodo Monari, ma penso che la maggior ricchezza di ciascuno sia la propria individualità, cioè essere un soggetto unico ed irripetibile, con la propria storia, con le proprie potenzialità, e che stia ad ognuno, ricevuti i mezzi scoprire questo patrimonio. Credo che il Metodo Monari unendo il lavoro muscolare ad un lavoro relazionale di gruppo fornisca alla persona i mezzi per affrontare questa scoperta e poterla utilizzare poi per cambiare/migliorare anche la propria vita quotidiana. Trovare il rispetto, trovare un clima di comprensione e accettazione permette di ammorbidire la corazza muscolare; trovare calore e contenimento rende sopportabile la scoperta di emozioni quali la rabbia e il dolore, provate da bambini quando per essere amati e apprezzati abbiamo dovuto nascondere irrigidendo la nostra muscolatura i nostri bisogni anche a noi stessi. Lavorando in Germania mi era capitato di portare un bambino di due anni in una palestra in cui una fisioterapista teneva un gruppo di “attività motorie per mamme e bambini”. L’attività proposta non era altro che offrire ai bambini e agli adulti che li accompagnavano lo spazio di una palestra, in cui era stato creato una sorta di percorso (tappettoni, palle di diverse dimensioni, peso e colori, panche, cuscini ecc.). Lì ho osservato come i bambini inizialmente si guardassero intorno, esplorassero, come ciascuno a modo suo prendesse confidenza con l’ambiente e poi iniziasse (se lasciato libero di provare, sperimentare) a muoversi, a rapportarsi con gli oggetti e le persone presenti. Era sorprendente ciò che riuscivano a fare. Lì ho visto le madri guardare affascinate quello che i bambini liberi e morbidi riuscivano a fare. Lì mi sono sentita imprigionata in un corpo rigido, non armonico e libero. Però negli occhi di quelle mamme e dentro di me si intravedeva comunque un ricordo del piacere di muoversi in modo così naturale, il ricordo di potenzialità avute e troppo presto inibite. Negli occhi di quelle donne ho visto in quei momenti quello sguardo aperto, curioso, selvaggio che solo i bambini hanno. Credo che ogni adulto abbia la possibilità di ritrovare quella parte viva, sensibile, curiosa di sapere e provare, flessibile, fiera e coraggiosa ... quella parte bambina. Sciogliendo alcune delle rigidità del mio corpo ho liberato anche la mia voglia di giocare, di ridere, di comunicare, ho ritrovato il piacere di muovermi; all’interno del gruppo, grazie al lavoro relazionale, sono stata libera di essere come mi sentivo, libera di esprimere ciò che provavo: mi sono sentita libera. Libera anche di chiedere e di riconoscere di avere dei bisogni e grande è stata la mia gioia nello scoprire che questi bisogni possono essere soddisfatti. Sono convinta che se gli adulti di oggi fossero cresciuti nel rispetto e nell’amore il mondo di oggi sarebbe diverso. Purtroppo però i bambini che ieri sono stati maltrattati, picchiati, inascoltati, beffeggiati, puniti, oggi sono genitori, insegnanti, terapisti, medici, psicologi, politici ecc. e si rapportano con gli altri nell’unico modo appreso, freddo e violento. Il nostro mondo esige dai bambini coerenza, sacrificio, comprensione. I bambini devono accettare i ritmi e i modi scelti per loro da un mondo “a tutta velocità”; devono capire che “i grandi hanno cose più importanti da fare”; devono essere ragionevoli e sbrigarsi se il genitore ha fretta o fare con calma se il genitore è stanco; devono stare fermi anche se avrebbero voglia di correre; devono stare zitti anche se avrebbero voglia di cantare

o raccontare; devono fare i compiti anche il sabato e la domenica quando invece “i grandi sono in vacanza”. La scuola potrebbe essere un momento socialmente arricchente, uno stimolo per la creatività e le potenzialità personali. Nel mio caso è stato un luogo di tortura; il posto dove di più in assoluto per essere accettata ho dovuto soffocare i miei bisogni, murare la mia voglia di azione, di movimento e di vita. La scuola invece di alimentare il mio desiderio di sapere, di apprendere era riuscita a farmi sentire “strana e diversa”, ha fatto crescere in me il malessere e mi ha irrigidita. Per sopravvivere ho dovuto trovare un senso, dare una giustificazione a ciò che ho subito, ciò non è stato più possibile quando ho scoperto che ci sarebbe stata un’altra possibilità. Ammorbidendomi è cambiato il modo di relazionarmi agli altri, si sono liberate e sono cresciute le capacità di provare “il piacere e la gioia della comunicazione”. Ho cercato persone capaci di accogliere ed apprezzare questa parte emergente, capaci di sostenermi ed accompagnarmi in questo percorso. Con il lavoro al Centro Monari ho visto come si possono risvegliare in ciascuno le potenzialità bloccate, imbrigliate dalle catene muscolari, dall’educazione, dagli usi e dai costumi sociali (eccesso di addomesticamento) e soprattutto ho trovato dei compagni di viaggio.

Silvia Camin

4. La gioiosità della bambina di un tempo La mia schiena ha cominciato a piegarsi da quando avevo otto anni. Ma è nell’età dello sviluppo, quella in cui avviene la metamorfosi da bambina a donna, che la mia figura ha assunto un aspetto informe, senza armonia, senza “senso” e senza la sensualità delle forme femminili che avrebbe potuto sviluppare. La colonna vertebrale era diventata una S che, ovviamente, aveva spostato l’asse del corpo deformandolo quasi tutto: il viso, il tronco, i piedi, le gambe. Inoltre, aveva così compresso i polmoni che di uno avevo perso quasi completamente l’uso. Come ovvie conseguenze di tutto questo ho avuto per anni blocchi della mobilità, difficoltà respiratorie e dolori fortissimi, che mi hanno costretta a stare per lunghi periodi immobile nel letto. A corollario di quello che era diventato un vivere nel dolore perenne, venne aggiunto l’interminabile pellegrinaggio dai tanti luminari della ortopedia nazionale. Le cure prescrittemi erano quelle classiche di tutte le scoliosi ad esse italica, e cioè la ginnastica correttiva, che doveva “potenziare e irrobustire” la muscolatura posteriore, e busti di ogni sorta: impalcature di ferro e plastica che mi bloccavano completamente il corpo e che, spesso, ho dovuto portare anche durante la notte per “evitare movimenti troppo liberi” che avrebbero “danneggiato la schiena” (parole testuali di uno dei tanti professori). Alla prescrizione della fisioterapia si univa, sempre, il refrain sulla indispensabilità di eseguire un intervento che, su stessa ammissione dei medici, avrebbe avuto come conseguenze certe l’immobilità totale della schiena, l’insorgere di dolori nuovi e la necessità di seguire terapie riabilitative per tutta la vita. La conseguenza probabile al 50- 60%, era la paralisi totale delle gambe e delle braccia. Questa situazione si protrasse per circa diciott’anni e mi portò ad uno sfinimento tale che, a 32 anni, avevo ormai deciso di giocarmi il tutto per tutto e stavo per farmi operare. Ma, proprio pochi giorni prima di andare a prenotare il ricovero in ospedale, un’amica di mia sorella che era già allieva di Maddalena Monari, mi parlò del suo Centro e di quanto fosse stato importante per lei averlo incontrato. Un po’ spinta dall’idea che ne avevo provate tante e che avrei potuto fare anche quell’ultimo tentativo, un po’ affascinata dal racconto di quel modo diverso di “curare” il corpo, mi iscrissi al primo stage. E, come si dice, fu subito amore: percepii immediatamente che lì mi avrebbero aiutata a ritrovare quelle potenzialità che erano ancora intatte e che mi servivano per uscire dal tunnel del vivere da malata. La prima cosa che sentii fu il rispetto che c’è nel “trattare” il corpo seguendo il Metodo Monari: non più qualcosa di estraneo da correggere ma una parte fondamentale di me stessa da aiutare. Il corpo cominciò da subito a lanciare segnali precisi che mi fecero capire come quella era (ed è) la via giusta e, da allora, è cominciato quel risveglio fisico che ha cambiato tutta la mia vita. È stato proprio il prendere in considerazione il corpo come entità viva che mi ha fatto fare tante scoperte. La prima, e più grande, è stata quella che non mi portavo dietro un ammasso indistinto di ossa e muscoli, ma che il corpo è un insieme che si sviluppa e vive secondo “leggi naturali” e che è parte di quel sistema più grande, complesso e completo che è tutta la persona; sistema che, a sua volta, è regolato da una “legge generale”, propria e unica di ogni

individuo, che indirizza e governa tutta la “macchina” umana, dalla fisicità, alle capacità intellettuali, alle emozioni. Lavorare il corpo in modo diverso da quello che avevo conosciuto da bambina, mi ha portato a prendere coscienza del fatto che la mia scoliosi non era dovuta ad un qualche strano virus o, come qualcuno asseriva, ad un vizio congenito, ma che la mia schiena si era piegata, indebolita e schiacciata perché la bambina che ero stata, aveva dovuto subire e accettare, oltretutto come prove d’amore, le altrui continue violazioni di quelle leggi naturali e generali che ne regolavano l’equilibrio. Il lavoro su di me con il Metodo Monari è stato il tramite attivo per cui ho (ri)conosciuto queste idee e ho capito quanto mi appartengono e che l’averle dovute negare e rimuovere, è stata la causa unica e vera del mio essere, sentirmi e dover vivere come se fossi stata spezzata in due: mi ha fatto acquisire quella conoscenza dell’unicità del mio essere che mi era del tutto ignota, aiutandomi a (ri)trovare il senso che unisce il corpo all’emotività e alla razionalità. Da subito, sono stata ammaliata dal fascino dei legami che esistono tra cuore (= emozioni) e corpo, tra ricordo e creazione di possibilità future e tra tutti questi “elementi” assieme. Il mistero dei robusti fili che legano emotività-fisicità-razionalità si è svelato proprio andando a lavorare sul corpo: quando la “pelle” ha cominciato a sentire il piacere di essere amata, quando i muscoli hanno cominciato ad ammorbidirsi e a tornare alla loro forma naturale. Da lì è cominciata la mia gioiosa rinascita, dentro una tribù che mi accoglieva per quello che ero, che mi era vicina senza chiedermi niente in cambio, che mi aiutava a riconquistare quell’aria e quello spazio negati, che mi faceva assaporare il piacere del vivere in branco e del (ri)costruire le tante storie dei propri componenti, ognuno per proprio conto ma, contemporaneamente, essendo ciascuno importante per gli altri. Faccio un esempio, anche se credo che le parole non riescano a rendere fino in fondo tutto quello che avviene “dentro”. Con una seriedi esercizi che hanno ammorbidito e riallungato la muscolatura posteriore, ho percepito e si sono sbloccate le anche e i fianchi, tanto contratti per cui ne conoscevo l’esistenza solo per il dolore che mi provocavano, ma di cui mi era sconosciuta la vera utilità. Sbloccando quelle parti, dolorosamente ma, assieme, con un gran senso di liberazione, ho percepito che qualcun’altro aveva provocato quel blocco in un passato apparentemente lontano ma, emozionalmente, ancora vicinissimo. Ho sentito che quei muscoli erano rimasti paralizzati sotto una massa di sottile violenza, riversatami addosso sotto le mentite spoglie di amore. Contemporaneamente il bacino si è “messo in moto”, cioè ho potuto finalmente fare tutti quei movimenti che non conoscevo perché non avevo mai potuto neanche “sperimentarli”. Poi, nel lavoro di contatto che è seguito, nell’abbraccio caldo e consolatorio di un’amica, ho rivissuto tutto il dolore provato dalla bambina di allora: qualcosa di profondamente mio mi era stata tolto, anzi strappato con una brutalità tanto grande che avevo preferito non ricordare più. Oggi, con il bacino libero da “legacci” e con tutta l’emozione che viene da un movimento (ri)trovato, ho voglia e, soprattutto ne ho la possibilità di saltare, correre, ballare, ancheggiare senza sentire dolore né fisico né emotivo. È stato proprio attraverso la ricerca del “cosa” aveva deformato il mio corpo, che ho potuto scoprire la grande mistificazione che ha stravolto me e il mio senso della vita, ossia, la vera natura di quei sentimenti che mi sono stati spacciati per amore. È stata questa ricerca che mi ha portato a scoprire come il corpo si è contorto per la lotta che la bambina di un tempo doveva combattere contro se stessa per doversi adattare, a tutti i costi, ad essere plasmata, ammaestrata, educata secondo canoni, necessità e prospettive di vita che altri si erano prefissi, avendo, al contempo, la costante certezza che sarebbe comunque risultata poco conforme alle aspettative riposte su di lei. Alla bambina allegra,

vivace, curiosa, pronta a socializzare non erano riconosciute né le sue capacità, né le sue esigenze, né lo spazio necessario ad esprimersi. Le si disconosceva il diritto ad esistere, forzandola ad essere altro, ad immedesimarsi in un gioco delle parti che le era estraneo. Le peculiarità venivano svilite. Le veniva lentamente inculcata la paura di essere comunque “al di sotto” e, quindi, diversa dagli altri per “patologia” e non perché ognuno è uguale solo a se stesso. La semplice e naturale necessità di crescere accompagnata nel mistero della vita finché non ne avesse trovato la sua chiave di volta, la voglia di “muoversi” per il mondo, di trovare e prendersi lo spazio che pensava le spettasse, tutte queste “ovvie” necessità legate alla fragilità ma, anche, alla magia dell’infanzia, si sono schiantate prima contro e, poi, dentro, la gabbia di dolori, frustrazioni, paure, rabbie, insofferenze e indifferenze altrui, che le furono caricate sulle spalle per umiliare e soffocare l’essere che preludeva alla donna. E il suo corpo non ha potuto far altro, appunto, che piegarsi sotto questo peso, cercando di adattarsi come poteva a quella “sovrastruttura” che, violando in continuazione tutti i confini, fisici e non, si insinuava fin nell’intimo più profondo, togliendole l’aria e lo spazio. In sostanza, il messaggio che mi veniva lanciato e, soprattutto, quello che io percepivo era che la mia (supposta ma mai apertamente dichiarata) scarsa capacità intellettuale, l’incapacità di essere autosufficiente, la cupezza del carattere, la timidezza, così come la scoliosi, erano vizi di fabbricazione, qualcosa di congenito. Cosicché, con l’andare degli anni, avevo raggiunto un’unica certezza: quella di essere storta nel corpo e nella mente, di essere stata io ad inceppare qualche pezzo del meccanismo. E non potevo che giungere a quella conclusione visto che, diversamente, avrei dovuto riconoscere che chi avrebbe dovuto amarmi era stato, in realtà, la causa prima dei danni che avevo subito e delle beffe che a questi si erano aggiunti. Ma, il prendere coscienza di questa mia non colpevolezza, era molto più difficile e doloroso che non fare ammissione di colpa. Se, con tutti i mezzi, hanno cercato di convincerci che siamo inguaribilmente “sbagliati”, ingrati, ottusi, che viviamo male solo per colpa nostra, perché non abbiamo saputo apprezzare ed utilizzare l’amore che ci sarebbe stato dato, era più facile, più ovvio pensare ad una mia naturale colpevolezza, piuttosto che ad una naturale innocenza. Oggi, però ho la sensazione che le mie, onnipresenti, insofferenza e insoddisfazione siano state il segno più evidente del fatto che, seppure nell’inconscio più profondo, ho sempre percepito la vitalità, la gioiosità, la forza della bambina di un tempo, che, in definitiva, la bambina stessa, non era morta ma era rimasta in una sorta di doloroso limbo, intorpidita e impedita a nascere veramente. Klarissa Pinkola Estés sostiene che «... Da qualunque cultura sia influenzata, la donna comprende intuitivamente le parole donna e selvaggia. Quando le donne odono queste parole, un’antica, antichissima memoria si rimescola e torna in vita. La memoria è della nostra assoluta, innegabile e irrevocabile affinità con il femminino selvaggio, sepolta dall’addomesticamento eccessivo, messa fuori legge dalla cultura circostante, o non più compresa per niente. Possiamo aver dimenticato i suoi nomi, possiamo non rispondere quando chiama i nostri, ma nelle ossa la conosciamo, ci struggiamo tendendo a lei; sappiamo che lei ci appartiene e che noi apparteniamo a lei». Credo che, per quanto mi riguarda, mai richiamo sia stato tanto forte come quello della mia “selvaticità”, cioè del legame giocoso, gioioso e naturale, che mi unisce alla vita. Ma la sofferenza, la frustrazione, la disperazione della bambina avevano bloccato, per forza di cose, l’avvicendarsi della Donna Selvaggia: non avevo potuto riconoscere questa perché ero impegnata nel costante tentativo di far definitivamente “venire al mondo” la bambina. Mi erano stati inibiti a priori, fin da quando ero una “cucciola”, l’udito per ascoltare il richiamo

della Donna Selvaggia, la voce per risponderle e la forza fisica necessaria a seguirla. Dunque, la mia “natura primordiale”, la capacità di intuire e percepire la vita e gli altri esseri, la possibilità di capire quali erano i miei confini naturali sono state offuscate. Si è annebbiata la capacità di sentire e vivere le emozioni e, visto che è lo specchio di quello che ha vissuto e subìto lo “spirito” (o come lo si voglia chiamare), si è ammalato il corpo e la sua capacità di percezione dei limiti fisici che gli dovevano essere propri, quei limiti che ne costituiscono la forma e che permettono di poterlo sentire come proprio. Il mio corpo era diventato la sola e unica valvola di sfogo rimastami per segnalare la rabbia, il dolore, la frustrazione che non riuscivo ad esprimere: mi erano stati bendati gli occhi, otturate le orecchie, messa la museruola e legate le zampe per cui non potevo vedere cosa fare della mia vita, non potevo sentirne il richiamo, non potevo cantare la gioia di vivere e non potevo camminare né, tantomeno, correre verso quello che, seppur inconsciamente, avrei desiderato fosse un futuro positivo. Speranze e sogni erano avvolti nella più profonda nebbia dell’insicurezza, perché mi era stato insinuato il dubbio di essere sempre inadeguata, poco adatta, naturalmente incapace a capire, troppo debole per poter andare da sola. Ero certa che avrei avuto costantemente bisogno di qualcuno che mi indirizzasse, che decidesse per me, tanto che l’idea di dover procedere nella vita senza l’appoggio, o meglio, l’indicazione della direzione da prendere e, poi, l’approvazione di qualcuno “più capace ed esperto”, mi dava il panico. Non mi rimaneva che chiudermi sempre più in me stessa, visto che, oltretutto, la mia socialità era stata annientata; mi avevano sempre parlato degli “altri” come estranei invadenti, pericolosi, rapaci, ambigui, di cui temere la naturale propensione alla violenza e, allo stesso tempo, mi era stata inculcata nella mente l’idea che l’unica unità di misura valida per valutare le persone era la capacità e la conoscenza intellettuale: il cervello è l’unica bussola valida per orientarsi nella vita, il resto è tutto un sovrappiù. La prima cosa da fare, mi dicevano, è razionalizzare le emozioni, ragionarci sopra e non lasciarsi “trascinare” da esse. Ed io, sempre considerata come un tipo “troppo emotivo” (e, l’eccesso di emotività, veniva inteso come debolezza e dabbenaggine), sono stata pian, piano presa dal terrore di confrontarmi con le altre persone; ero totalmente impedita, incapace di costruire quel mondo di rapporti umani che, sotto sotto, avrei desiderato: la timidezza era diventata il paravento dietro cui nascondere la paura di essere sempre più stupida e inetta. La paura del contatto, non solo fisico, mi paralizzava e, anche se ero in un gruppo di amici, ero comunque e sempre sola, isolata, incapace di difendere la mia unicità, incapace di accettarmi e, quindi, di propormi per quello che ero (e sono). Ecco, la paura mi è stata per tanto tempo costante, scomodissima e paralizzante compagna di viaggio. Spesso, anche per cose apparentemente banali, era la paura che sconfinava nel panico o nel terrore. Era una sensazione fisica molto forte: mi rendeva inerme, mi immobilizzava il corpo, e si attaccava alla bocca dello stomaco (tanto che, già verso i sette anni, parallelamente alle prime avvisaglie della scoliosi, venne fuori la gastrite). Mi faceva sentire vigliacca e, perciò, ancor più stupida di quanto non mi sentissi già. Mi accompagnava nelle “piccolezze” della vita quotidiana come nelle grandi cose. E non riuscivo a vincerla perché mi pensavo troppo debole per affrontarla. Oggi so che quella paura, seppure tanto scomoda e intralciante, è stata in qualche modo un mezzo di salvezza, una inconscia manifestazione di forza: mi segnalava che i miei confini erano stati violati e che, quindi, non avendo sviluppato un buon sistema di difesa, dovevo essere vigile perché potevo essere facilmente attaccata e non avevo le armi per rispondere.

La paura, o meglio, le tante paure, hanno cominciato a scemare quando ho capito che ad una “ferita” del cuore ne corrisponde una del corpo, che tutte e due hanno lasciato una cicatrice, che il dolore può tornare quando rivivo situazioni simili a quelle che hanno provocato il danno e che, tuttavia, il dolore può convivere con la gioia di vivere, con la costruzione di aspettative per il futuro. Da questo punto in poi il mio corpo ha cominciato a riprendere la sua forma naturale; man mano che esso è tornato alla sua normalità, io ho cominciato a riprendere in mano anche tutto il resto della mia vita. Dare un nuovo senso alla mia vita è anche un ulteriore modo per ricostruire tutta la mia storia, un modo per arrivare meglio alle radici del mio stare male. Per esempio, curare il corpo in modo amorevole, mi ha premesso di vedere con un occhio diverso il percorso terapeutico che ha preceduto il mio incontro con il Metodo Monari, e mi ha fatto capire come i vari busti e ginnastiche più o meno correttive, per me, sono stati una ulteriore punizione, un aggravio di pena dato ad una persona che segnalava il proprio disagio verso l’ammaestramento, il soffocamento della propria “indole selvaggia”, un aggravio di pena per chi continuava a “dire la sua”, seppure esprimendosi in modo così doloroso. Questo è potuto accadere soprattutto perché viviamo in una società complessivamente e profondamente malata, instabile, insicura delle proprie basi, che, perciò, a qualsiasi idea (politica o religiosa) si faccia riferimento, non ammette la non conformità ai propri canoni morali e materiali. Esiste comunque un conformismo a cui si deve sottostare, pena l’esclusione, l’essere posti “fuori dal gruppo” e,quindi, considerati come elemento di disturbo da “risocializzare”, “rieducare” per essere ricondotti entro l’ambito di quei canoni. È una società che “fa ammalare” chi non risponde a quegli schemi rigidi che la regolano, facendo diventare comunque un “mostro” chi non si sottomette, costringendolo a enfatizzare tanto la sua diversità fino a farla diventare una abnorme anormalità e fino a farlo dibattere nel dolore di non riuscire ad adeguarsi a quei canoni. Ed è stato proprio leggendo in questo modo la piccola società in cui aveva vissuto la bambina di un tempo, che ho scoperto la “positività” e la funzione del dolore, quel dolore che un tempo rifuggivo o, peggio ancora, negavo. Oggi lo vivo fino in fondo perché, risentire un dolore antico, mi serve a riconoscere, capire e, quindi, alleviare un dolore di oggi, a trasformarlo in una “azione positiva” verso me stessa. Ho lo strumento che mi permette di vedere e valutare l’ostacolo. So che la schiena può farmi male quando mi sento piegata sotto il peso dell’umiliazione, dell’offesa, del non veder riconosciuta la mia capacità o la mia intelligenza. Ma la conoscenza del legame fra questo dolore fisico e questo dolore emotivo l’ho conquistata solo dopo che mi sono calata in quello della Bambina che ha visto umiliata, offesa, negata la propria intelligenza, le proprie capacità, le proprie emozioni. Affrontare e vivere il dolore mi ha dato, soprattutto, la possibilità di riprendermi la mia corporeità, il mio esistere tutta intera, fatta (come tutti) anche di materia palpabile, che può trasmettere sensazioni e dialogare con gli altri allo stesso modo, anzi, per me, alzando il livello della comunicazione, più di quanto non si possa fare con le più belle parole. Molto spesso, le emozioni più grandi sono solo filtrate dalle parole, perché se non sono accompagnate da uno sguardo, da un gesto, difficilmente si può renderne il senso vero. Ho cominciato a sentire con piacere che il corpo è vivo e può parlare, che non è più uno sgraziato ed ingombrante scatolone, utile solo a portare in giro un cervello neanche tanto sviluppato, ma che, finalmente, è diventato fisicità; intelletto e sfera emotiva sono diventati un tutt’uno; si è aperto quel dialogo fra loro che mi permette di non sentirmi più spezzata. Riprendermi il mio dolore mi ha fatto anche (ri)scoprire il piacere. Capire il dolore che c’era

dietro al non trovare o di non riuscire a “gustarmi” fino in fondo un qualsiasi piacere, mi ha portata a capire che non sta scritto in nessuna legge della natura che il provare piacere è un male, una perversione, che non deve affatto essere accompagnato dal dolore per aver ricevuto qualcosa di immeritato. Anzi, credo proprio che l’aspirazione al piacere è un diritto sacro e inviolabile, una giusta e sana aspirazione insita nell’animo umano. Ho scoperto le tante facce del piacere, molte per me del tutto sconosciute: il piacere fisico, fatto di tanti piccoli e grandi piaceri, come quello del contatto “di pelle” con persone anche sconosciute, ma con cui si può creare un “feeling” solo perché, magari, mi prende l’odore o lo sguardo; il trovare consolazione, affetto, solidarietà nell’abbraccio di qualcuno che vedo per la prima volta ma che sa trasmettermi calore, passione, emozione e il piacere di potermi abbandonare a questa sensazione; il piacere di scoprire che il corpo può seguire un desiderio del cuore senza dolore ma, anzi, essendo stimolato a guarire; il piacere di azzardare, di rischiare, di mettermi in gioco; il piacere grande di sapere che posso stare bene con me stessa e di avere la consapevolezza che posso reggermi da sola, sulle mie gambe e con la mia testa, pur avendo la necessità di avere vicino il “resto del mondo”, che è di importanza vitale per la Donna Selvaggia, grande “animale sociale” che ama la sua solitudine tanto quanto il vivere in branco. Lasciarmi andare al piacere di gustare il piacere. Sembra un gioco di parole, ma è la conquista della consapevolezza di essere nel pieno diritto di seguire l’onda delle mie emozioni, dei miei desideri, dei miei bisogni, senza sentirmi in colpa e senza avere la sensazione di tradire qualcuno. È la certezza che niente e nessuno può più arrogarsi il diritto di far seguire una punizione ad un piacere provato, ad un desiderio realizzato, ad un bisogno appagato. È la ritrovata forza del non dover sempre, come si dice, razionalizzare ogni sensazione, ma il riuscire, finalmente, a vivere le emozioni come vengono e per quello che sono. È la certezza che il corpo, se amato come parte integrante di se stessi, non ha bisogno di correzioni, ma vuole semplicemente essere assecondato nel suo evolversi.

La mia schiena

È guardarmi allo specchio e vedere un corpo femminile, seppure ancora con dei problemi. È stato lo scoprire di avere peculiarità che neanche sospettavo e che mi danno grande soddisfazione, come il saper parlare e il saper trasmettere questo piacere agli altri; il saper ricevere quello che gli altri mi offrono di sé; l’essere divertente, allegra, scanzonata; l’essere considerata da persone che stimo, e il sentirmi io stessa, come una “forza della natura”, parte integrante di quella natura che non si lascia sopraffare con tanta facilità ma che sa come conservare almeno parte della sua integrità. È avere la certezza che ho delle capacità e delle possibilità, volutamente e sicuramente diverse e non più confondibili con quelle aspettative che qualcun’altro aveva riposto su di me, è la necessità, ovvia per una Donna Selvaggia, di non poter stare chiusa e ferma in piccoli spazi (siano essi fisici o mentali), ma di avere insito in sé il bisogno primario di muoversi, di poter viaggiare col corpo, con la mente e con il cuore. Ma è un piacere anche la coscienza dei miei “limiti”, perché so che questi mi danno la misura dei miei confini ritrovati; non sarà facile farli rispettare, ma è già molto averli individuati e sapere che a me stessa debbo il dovere e il piacere di difenderli da sola, che non ho bisogno di cavalieri senza macchia e senza paura che stabiliscano quali sono e come vanno difesi. Il Metodo Monari mi è servito, dunque, da “guida” per arrivare alla (ri)scoperta e all’amore verso la “mia” bambina e, contemporaneamente, alla acquisizione della coscienza che la Donna Selvaggia è ancora viva in me, che io sono una Donna Selvaggia. Per dirla meglio, riprendendomi la mia corporeità, ho capito che tutto il mio squilibrio era la conseguenza del non aver potuto percepire la connessione che pure esiste tra la mia bambina e la Donna Selvaggia, cioè del non aver potuto dar corso alla naturale evoluzione della prima verso la seconda. Il Metodo Monari è stato il “luogo” fisico, mentale ed emotivo per cui ho potuto (ri)stabilire il contatto fra la mia Bambina e la Donna Selvaggia, che si sono finalmente trovate, e vivono a loro agio, nella loro casa rinnovata che è il mio corpo. Molti fili li ho già riannodati e il passaggio di consegne è già avvenuto.

Roberta Gravano

5. Il piacere di esprimersi nella vita come nell’arte Il giorno in cui mi iscrissi al mio primo stage con Maddalena Monari, cinque anni fa, difficilmente avrei potuto immaginare quanto questa esperienza avrebbe influito nella mia vita, nel rapporto con gli altri e nella mia professione. Soffrivo di frequenti blocchi alla zona lombare, e certamente la posizione che il lavoro mi imponeva per diverse ore al giorno - sono pianista, insegno Pianoforte al Conservatorio di Bologna e svolgo attività come concertista - non poteva giovare alla mia schiena. Le cure a cui mi ero sottoposto fino ad allora non sembravano aver portato alcun miglioramento significativo, e mi fu proposto dai medici l’intervento di “nucleoaspirazione” di uno dei dischi intervertebrali: fu una vera fortuna venire a conoscenza proprio allora del Metodo Monari, così potei evitare questa operazione che avrebbe ulteriormente ridotto l’elasticità già compromessa della mia colonna vertebrale. Non ricordo di aver mai sofferto di dolori alla schiena fino al giorno del primo improvviso blocco, vero fulmine a ciel sereno, ma poi il succedersi degli episodi pareva diventato incontrollabile, e non riuscivo a trovare spiegazioni a quell’improvvisa sofferenza. Oggi invece mi sembra di poterla interpretare facilmente: i muscoli della mia schiena erano così irrigiditi e la loro sensibilità si era tanto affievolita che quasi non era possibile provare dolore, e solo col cedimento del disco questi segnali erano diventati troppo forti per essere ignorati. Il problema della rigidezza mi aveva sempre assillato anche nel corso dei miei studi pianistici, ed era l’evidente limite contro cui mi ero sempre scontrato negli sport che praticavo da ragazzo; consapevole di ciò, pur non immaginando cosa può nascondere in realtà ogni nostra rigidezza muscolare, ero sempre stato attento a cogliere ogni cosa che pensavo potesse essermi d’aiuto. Speravo quindi di poter avere dal Metodo Monari anche qualche beneficio per la mia professione, ma ancor più fui colpito da un’affermazione di Maddalena durante il nostro primo colloquio: «Abbiamo riscontrato che sciogliere le rigidezze muscolari facilita la comunicazione tra le persone». Mi sembrò che avesse colto nel segno: mi ero sempre considerato introverso e tendenzialmente solitario, e non mi sarebbe affatto dispiaciuto liberarmi, almeno in parte, di quelle sensazioni di insicurezza che accompagnavano quasi ogni incontro con persone sconosciute, oppure del timore che spesso mi impediva di parlare a qualcuno con libertà e franchezza, quando ne sentivo l’esigenza, o di altre mie croniche difficoltà. Ma poteva succedere davvero che lavorando i muscoli per curare un mal di schiena si verificasse tutto ciò? Non avevo mai sentito dire nulla di simile, però se avesse funzionato... Mi presentai quindi al mio primo stage, emozionato e un po’ timoroso, ma in fondo fiducioso. E fu davvero sorprendente la rapidità con cui il mio corpo reagì in maniera positiva: ricordo ancora l’emozione ed il grande senso di libertà che ho provato al termine della prima giornata di stage, scoprendo di poter flettere la schiena più di quanto ricordavo di fare durante le lezioni di ginnastica ai tempi del liceo. Era bastato poco, in fondo, per ridare elasticità alla mia schiena, e sentii che doveva essere proprio quello il modo giusto di trattare i muscoli secondo il loro bisogno. Dopo alcuni anni di lavoro con il Metodo Monari l’assetto del mio corpo si è sensibilmente modificato: la lordosi lombare si è ridotta ed il bacino è molto più mobile, le spalle si sono

abbassate, liberate dalle tensioni che le sollevavano, ed il collo è più lungo e diritto; i piedi hanno ritrovato elasticità ed aderenza al terreno ed ho eliminato i plantari che portavo, come consigliato dell’ortopedico avendo il piede “cavo”, recuperando così un contatto naturale col suolo che mi ha portato stabilità e sicurezza. Il rapporto col mio corpo è sostanzialmente mutato ed è notevolmente aumentata la mia capacità di sentirmi, di percepire l’insorgere o il diminuire delle tensioni; gli episodi di lombalgia sono diventati rari e di intensità assai minore, e non ho più fatto ricorso a farmaci perché ho a disposizione mezzi molto più efficaci per curarmi. Mi sono reso conto inoltre che questi miei problemi sono segnali, inviati dal corpo, di qualche disagio più profondo, e che quindi sarebbe tanto importante cercare di coglierne i significati, di trarne delle indicazioni; non basta affrontarli cercando semplicemente di evitare il dolore, che è l’approccio, purtroppo, proposto spesso dalla odierna medicina: scegliere di eliminare il sintomo a qualunque costo, magari ricorrendo a potenti antidolorifici o ad operazioni chirurgiche, senza indagare per comprendere la causa che ha originato quel dolore. È un po’ come viaggiare in auto ignorando la spia della riserva della benzina: non è certo prudente, eppure noi tutti ignoriamo ogni giorno, forse senza volerlo, molte spie del nostro corpo che è la macchina più preziosa. Proseguendo il lavoro sul mio corpo, la scioltezza nei movimenti migliorava e contemporaneamente vedevo effettivamente aumentare la mia capacità di esprimermi e la facilità nel comunicare; le correlazioni tra rigidezze muscolari e possibilità di rapportarsi con gli altri si rivelavano via via in tutta la loro logica ed evidenza, aprendomi prospettive che non avrei mai potuto immaginare. Nel corso del lavoro non sono mancate scoperte dolorose legate al mio passato: sono riaffiorate antiche emozioni e paure, seppellite da molti anni nelle contratture del mio corpo; ogni volta però prevaleva il piacere della scoperta, o riscoperta, di una parte di me e della mia vita che pensavo inesistente o persa, ed invece poteva essere ancora vissuta con gioia. Il rapporto con gli altri è diventato più immediato e ricco - quanta ricchezza perdiamo in noi stessi e negli altri, quante energie sprechiamo perché non riusciamo a vedere fino in fondo la nostra realtà - grazie ad un lavoro che era sempre graduale e mai indirizzato direttamente ad uno specifico problema. I mutamenti avvenivano in un certo modo da soli, non cercati esplicitamente, ma come rispondendo ad un segreto richiamo di ordine ed armonia della persona; e ben presto confluirono anche nel mio esprimermi nella musica. Proprio la necessità di comunicare per mezzo del linguaggio dei suoni mi portò diversi anni fa a scegliere la professione musicale: mi stavo avviando ormai verso la conclusione dello studio del pianoforte - lo consideravo il mio secondo studio, frequentando anche l’università - e mi resi conto che raggiunto il diploma non avrei più avuto la possibilità di dedicarmi a questa forma di espressione. Capii che non potevo rinunciarvi e feci quindi la mia scelta, dando alla mia vita una direzione molto diversa da quella che pareva programmata ormai da diversi anni. Naturalmente questa scelta mi imponeva di raggiungere un livello pianistico e di approfondimento musicale superiori, e decisi di concentrarmi su questo studio – la volontà di impegnarmi, che è un tratto essenziale di ogni pianista, non mi è mai mancata - e di colmare le mie lacune, soprattutto quelle tecniche legate spesso alla rigidezza di cui ero consapevole. Sentivo quanto esse limitassero le mie possibilità di espressione, e non credo sia stato un caso che fossi finito proprio al pianoforte, uno strumento al quale si sta seduti ed in un certo senso immobili. In passato avevo giocato a pallacanestro e pallavolo; invece il movimento senza regole in uno spazio ampio e libero mi faceva sentire spesso impacciato, bloccato, come mi succedeva per esempio nel ballo. Conoscevo ben poco la possibilità di esprimermi

attraverso il corpo nella sua globalità, e in fondo ne ero imbarazzato, preferivo usare soltanto una serie limitata di gesti e movimenti, come si può fare suonando il pianoforte. In questi anni di lavoro sul mio corpo, ho riflettuto su una certa “immobilità” caratteristica di diversi pianisti - io ora conosco bene la mia - che è comunque necessaria nelle lunghe ore di studio quotidiano; nel tempo, essa è certamente destinata ad accrescersi se il mancato esercizio dei movimenti estranei al suonare porta ad un progressivo irrigidimento. Ogni strumento si suona prevalentemente con alcune parti del corpo mentre altre assistono quasi immobili, e credo che ogni musicista abbia scelto inconsciamente di suonare con le parti che nella storia dei suoi primi anni di vita hanno subito minori traumi e limitazioni; così queste hanno potuto mantenere al massimo la sensibilità e l’elasticità dei muscoli, e quindi la possibilità di esprimere e comunicare. Certamente però, il divario tra parti “vive” e parti “immobili” è di ostacolo ad una completa libertà di espressione, a quella “naturalezza” della tecnica che consente di trasmettere emozioni mediante il linguaggio dei suoni. Questo concetto di “naturalezza” è ben chiaro nell’insegnamento di molti grandi pianisti, nei cui scritti e trattati ho trovato preziosi spunti per portare avanti la mia personale ricerca nello studio del pianoforte; deve esserci la massima armonia tra tutte le parti del corpo che partecipano più o meno direttamente al suonare, perché si suona con tutto il corpo: «Il corpo deve essere rilassato, e bisogna utilizzare il peso di tutta la parte superiore del busto» (J. Horowitz Conversazioni con Arrau, 1982). Alcuni intuirono addirittura l’influenza che potevano avere parti apparentemente irrilevanti: «Qualunque contrazione nei muscoli della testa, non esclusi quelli della lingua, può turbare l’indipendenza nei movimenti del braccio e, quindi, in quelli delle dita» (A. Brugnoli Dinamica pianistica, cap. VI, 1915). Tutti poi sottolineano la necessità di equilibrio tra tecnica, emozione ed intelletto: solo dall’armonia tra la fisicità dell’interprete e la sua sfera psico-emotiva può nascere la migliore interpretazione. Claudio Arrau, come altri, estende addirittura al pianoforte questo senso di unitarietà dell’interprete: «Il concetto è di sentirsi una sola cosa con lo strumento». Ho sempre riflettuto a lungo su questi argomenti, alla ricerca della mia armonia con il mio corpo ed il pianoforte, e le testimonianze dei grandi che parevano aver raggiunto questa armonia in modo perfetto erano per me un riferimento importante. L’esperienza fatta col Metodo Monari ha dato un senso differente alla mia ricerca, dandomi la possibilità di sentire maggiormente cose su cui mi limitavo prevalentemente a ragionare. Credo che se questi grandi interpreti avessero conosciuto i principi nati dalle scoperte di Françoise Mézières, e avessero potuto sperimentarne su se stessi la validità, vi avrebbero trovato una perfetta concordanza con molte loro affermazioni sulla tecnica pianistica. Tra le fonti d’informazione più preziose che ho trovato nel corso dei miei studi, oltre all’insegnamento ricevuto da alcuni maestri, c’è la Dinamica pianistica di Attilio Brugnoli, un trattato compilato intorno al 1915 che analizza con sorprendente meticolosità la meccanica dei gesti del pianista. Rimasi colpito dalla sua impostazione davvero scientifica (ben due capitoli dedicati all’anatomia e fisiologia, corredati da chiare tavole anatomiche!) e trovo che la concezione pianistica esposta in seguito sia tra le più complete e geniali, in pieno accordo con i principi della fisica, e ancora oggi attualissima. Brugnoli dedica particolare attenzione ai problemi del rilassamento e della dissociazione (cioè indipendenza) muscolare, che favoriscono la libertà del movimento e l’utilizzo del peso del braccio per ottenere una tecnica ed un suono “naturali”; giunge a considerazioni veramente acute, come quella già citata sui muscoli del capo. Ora però sappiamo che è la rigidezza della catena muscolare posteriore ad agire come freno su tutti i nostri movimenti, e che è quindi necessario sbloccare ed allungare i muscoli della schiena per dare al delicato e complesso sistema motorio delle dita la massima

dissociazione, sensibilità e libertà nel movimento. Se Brugnoli avesse potuto sperimentare la validità di questi principi, allora ancora sconosciuti, sarebbe andato ben oltre al consigliare semplicemente ai pianisti un “razionale ed intelligente allenamento... dove si rivelano le qualità intellettuali e fisiologiche dell’individuo”, come raccomanda nel capitolo VI. Lavorando col Metodo Monari, ad esempio, ho potuto ridurre notevolmente le contratture facciali che non ero in grado di controllare mentre affrontavo certe difficoltà pianistiche, migliorando così la fluidità dei movimenti delle dita; proprio recentemente una mia allieva mi ha detto di aver notato come fosse diversa la mia mandibola, durante un concerto, rispetto a ciò che ricordava alcuni anni fa. Questo cambiamento è avvenuto in modo naturale, senza forzature, e soprattutto lavorando senza il pianoforte; ricordo invece la mia penosa sensazione di imbarazzo quando, durante una lezione, un maestro tentò di risolvere questo mio problema imponendomi un autocontrollo che ebbe come unico effetto un ulteriore contrarsi di ogni muscolo. Un’altra importante scoperta riguarda l’uso delle contrazioni “isometriche”, in cui il movimento viene bloccato da un aiuto esterno, e si aumenta progressivamente il tono muscolare cercando di vincere la resistenza, ma senza mutare posizione; questo tipo di contrazione rinforza i muscoli allungandoli e aumentandone elasticità e contrattilità su tutta la lunghezza. Poiché i flessori delle dita fanno parte anch’essi, come i muscoli posteriori, di una catena (che si estende dalla spalla all’estremità delle dita stesse) essi non devono mai essere “rinforzati”, ma soltanto allungati per poter sviluppare naturalmente la loro forza. Viceversa quasi tutti i più noti esercizi di tecnica pianistica sono costituiti da contrazioni allo scopo di rinforzare i muscoli, causando inevitabilmente un loro accorciamento ed irrigidimento (Brugnoli arriva addirittura a consigliare l’uso di piccoli pesi per irrobustire i flessori delle dita). Si capisce allora che da questi principi deriva un modo completamente diverso di esercitarsi al pianoforte, e di affrontarne lo studio tecnico: poiché è soprattutto l’allungamento muscolare a garantire maggiore velocità e scioltezza nei movimenti, il miglioramento delle prestazioni non sarà più rigidamente legato all’allenamento, cioè proporzionale al numero di volte che viene ripetuto ogni passaggio musicale. La necessità di ripetere sarà quindi ridotta al minimo per apprendere i passaggi, e per verificarne la resa allo strumento: è chiaro che muovendosi in questa direzione lo studio diventa meno rigido e meccanico, ed inoltre assai più “economico”; lo stesso apprendimento è facilitato dalla maggiore duttilità e sensibilità dei muscoli più lunghi e morbidi. I risultati che si possono ottenere lavorando secondo questi criteri sono talvolta sorprendenti, e inoltre è stato osservato che gli effetti dell’allungamento sono più duraturi di quelli di un esercizio convenzionale. Mi rendo conto però che questi concetti sono talmente rivoluzionari da non poter essere accettati facilmente; anche nell’allenamento di ogni sport le fasi di potenziamento ed allungamento muscolare avvengono separatamente ed entrambi secondo criteri completamente diversi. Lo stesso concetto di forza che è ben radicato in tutta la nostra società è sempre associato ad altre idee, come aggressività, durezza, fatica, piuttosto che all’elasticità, ed è ben difficile per noi credere che i muscoli possano diventare più forti semplicemente allungandoli. Eppure il pianoforte è uno dei campi in cui l’associazione forza-elasticità ha sempre rappresentato l’ideale: «nell’esecuzione, tendere verso il raggiungimento di quella perfezione suprema che è la forza leggera ed elastica, il muscolo dell’atleta riunito alla grazia dell’efebo» (Alfredo Casella Il pianoforte, cap. VI, 1936). Ricordo ancora chiaramente l’impressione di armonia che mi venne, durante il mio primo stage, da un semplice gesto del braccio di Maddalena per esemplificare un lavoro di

movimento; in un solo attimo pensai alle migliaia di ore che avevo passato alla tastiera curando i movimenti di braccia e mani, eppure quell’armonia mi era sembrata nuova: ogni parte si muoveva in perfetta sintonia con le altre, esprimendo libertà e naturalezza. Mi tornò alla mente anche un’altra frase di Arrau che mi aveva tanto colpito per la sua efficacia: «bisogna considerare il braccio nella sua unità, non diviso in mano, polso, avambraccio, gomito: dovrebbe diventare come un serpente ». Molte affermazioni di questo grande artista, che ho sempre ammirato in modo particolare, si erano impresse nella mia memoria, ed ho poi scoperto che erano in perfetta sintonia con il Metodo Monari. Parlando di una sua ideale scuola di musica, Arrau dice che avrebbe riservato «un posto importante, nel programma generale, alla psicoanalisi ed alla danza»; mi sembrano ben chiare le sue finalità, ed io credo che il Metodo Monari sia ancora più adatto ad aiutare un musicista in queste direzioni. Come ho già detto, devo alla pratica di questo metodo molte scoperte sulla mia vita interiore, sulle difficoltà e sulle barriere che porto in me (come ognuno di noi) e che costituiscono un ostacolo alla comunicazione con gli altri, compresa quella attraverso la musica; inoltre queste scoperte sono state raggiunte senza una stretta dipendenza da un terapeuta, ascoltando sempre i suggerimenti che giungevano dal mio corpo, a volte con tanta chiarezza da non lasciare alcun dubbio. Anche i lavori proposti allo scopo di ricercare l’armonia nel movimento possono essere ancora più adatti della danza agli scopi di un musicista, perché sono completamente svincolati da schemi prefissati, e quindi meno condizionanti; inoltre vengono sempre eseguiti dopo il lavoro di allungamento muscolare, consentendo al corpo di liberare spontaneamente le sue innate possibilità motorie, ed esprimere sensazioni attraverso il movimento. Proprio liberando queste possibilità anche la tecnica pianistica può diventare davvero “naturale”, non solo quindi come risultato di severi studi ed allenamento costante, ma soprattutto come spontanea espressione del corpo al fine di comunicare. Ricordo infine la curiosità che aveva suscitato in me Ralph Kirkpatrick quando lessi: «si può trovare un gesto interiore che controlli l’assoluta unità dei movimenti. Il gesto più facile da eseguire è forse il cerchio, perché è completamente continuo ... io chiedo spesso ai miei allievi di descrivere dei cerchi continui per acquisire il senso di una assoluta continuità. Nell’uomo, ogni senso di continuità del gesto o del movimento deriva dal plesso solare, dal diaframma» cioè dal respiro (R. Kirkpatrick L’interpretazione del Clavicembalo ben temperato, Par. 6.3). Ho poi scoperto che in diversi esercizi del Metodo Monari si descrivono cerchi, e che molto spesso il diaframma è direttamente coinvolto. L’esperienza fatta personalmente mi ha portato dunque a rivedere molte cose riguardo i miei metodi di studio e quindi d’insegnamento. Pur avendo frequentato scuole pianistiche scientificamente impostate sul concetto del suonare rilassati sfruttando il peso del braccio, mi sono accorto di qualche evidente contraddizione tra questa finalità ed alcuni metodi di studio che praticavo, ed ho cominciato ad eliminare tutto ciò che poteva produrre accorciamento e rigidezza; ho continuato invece a lavorare per allungare i muscoli di schiena, spalle e braccia (oltre che di tutto il corpo, naturalmente) provando poi ad eseguire allo strumento con più naturalezza, e con minore ripetitività, i movimenti corretti. I risultati ottenuti mi hanno incoraggiato su questa strada, perché ho constatato un sensibile aumento della scioltezza e del coordinamento dei movimenti, e la possibilità, grazie a schiena e spalle più rilassate, di scaricare meglio il peso delle braccia sui tasti producendo così un suono più potente con minor sforzo. Mi sono convinto sempre di più della enorme utilità, se non della necessità, che può avere per ogni

pianista un lavoro di preparazione sul corpo eseguito senza pianoforte, in una semplice sala dotata per questo scopo di pavimento in moquette. Quale allievo pianista non si è sentito raccomandare dall’insegnante di “tenere le spalle rilassate”? Eppure tutti ignorano che proprio quelle spalle hanno memorizzato, fin dai primi giorni di vita, innumerevoli contrazioni ormai non più controllabili, ed hanno perso quella possibilità di stare completamente sciolte e rilassate che solo un lavoro di questo genere può restituire. A quarant’anni normalmente è molto difficile poter migliorare sensibilmente la propria tecnica strumentale, eppure posso affermare che il lavoro con il Metodo Monari ha portato un significativo aumento della mia efficienza pianistica, ottenuto paradossalmente studiando meno che in precedenza; ho sentito quindi con urgenza di voler mettere a disposizione dei miei allievi un metodo così efficace. Dapprima inviai alcuni allievi presso il Centro Monari; una ragazza in particolare soffriva di una forte tendinite ad entrambi i polsi che non aveva risposto a cure di tipo tradizionale, costringendola ad una lunga interruzione degli studi. Il problema si risolse completamente con alcuni stages, ed il lavoro sul corpo entrò sempre di più nel suo metodo di studio, consentendole progressi notevolissimi fino a conseguire il diploma con il massimo dei voti e la lode. Sentii allora che per dare organicità a questo lavoro era necessario che fossi proprio io a guidarlo integrandolo nello studio allo strumento, e decisi di partecipare al corso triennale di formazione tenuto da Maddalena Monari, che ora sto per concludere. Due anni fa ho potuto avviare a Vicenza, dove ho insegnato per diversi anni presso il Conservatorio, un primo gruppo di lavoro con giovani musicisti; quest’anno se ne è aggiunto un secondo a Bologna, dove insegno attualmente. Già dopo pochi incontri non sono mancati risultati significativi da un punto di vista strumentale: alcuni allievi che hanno avuto modo di confrontare videoregistrazioni effettuate prima e dopo tre sole giornate di lavoro, hanno notato quanto si fossero modificate le spalle, più basse e sciolte, e come i movimenti delle braccia fossero più liberi. In certi casi, poi, lo sblocco delle tensioni delle spalle ha consentito di ottenere, con solo tre giornate, quello che non si era raggiunto nell’arco di mesi di normale studio. Un’allieva è stata in grado di eseguire alcuni faticosi studi di Clementi basati su un continuo movimento di rotazione del braccio, che non era riuscita a risolvere neppure con un allenamento molto graduale e metodico; il perdurare del movimento causava inevitabilmente dolore ed irrigidimento delle braccia. Evidentemente le eccessive tensioni frenavano quel movimento rendendolo difficoltoso, ed è stato sufficiente allungare i muscoli della catena posteriore perché esso potesse invece effettuarsi agevolmente. Oggi quindi propongo questo lavoro ad ogni mio allievo (che non sia ancora troppo giovane): ho già potuto verificare su un campione significativo di pianisti che, oltre ad una maggiore scioltezza nei movimenti ed una qualità del suono più piena e bella, si ha spesso un miglioramento ed una maggiore intensità nell’espressione musicale, certamente legata alla accresciuta capacità di sentire ed esprimersi. Anche se siamo soltanto all’inizio di una più ampia sperimentazione, ho già constatato che l’applicazione del Metodo Monari all’insegnamento della musica dà ottimi risultati, e sarebbe di grande interesse poterlo provare anche su musicisti dotati di particolare talento, che credo ne ricaverebbero ugualmente preziosi vantaggi. Quasi sempre le attività di studio sono regolate dalle ferree norme della disciplina, e i pianisti sono in questo dei veri campioni; troppo spesso il loro lavoro è affidato molto più a razionalità e a metodo che non al proprio sentire, anche se in fondo sappiamo tutti che i risultati migliori si ottengono quando intuizione e naturalezza non trovano ostacoli. È inevitabile che lo studio, soprattutto affrontato in questo modo, comporti meccanicità e stress. Il lavoro con il Metodo

Monari viceversa si porta avanti in un clima e con modalità che riducono questo stress: favorisce il rilassamento e la circolazione dell’energia, si svolge talvolta come un semplice gioco e tuttavia ci consente di sviluppare le nostre potenzialità ed accrescere sensibilità ed armonia, per poter anche migliorare le nostre prestazioni alla tastiera. Tutto questo offre motivi per profonde riflessioni su come potremmo affrontare nel modo migliore lo studio e gli impegni. Gerhart Oppitz è uno di quei pianisti (ben rari, a dire il vero...) che dichiarano poche ore di studio per mantenere un vastissimo repertorio ad un livello esecutivo di primissimo ordine; afferma di studiare, da sempre, una o due ore al giorno, di non aver mai fatto esercizi (che nella didattica si raccomanda di eseguire quotidianamente!) e di poter stare anche tre settimane senza suonare non risentendone affatto muscolarmente: «ho avuto un’infanzia e una gioventù molto normali, studiavo un’ora al giorno il pianoforte e un’ora per la scuola e avevo tempo per altre cose...» (da un’intervista per Piano Time). Purtroppo invece è molto più diffusa, anche tra i grandi, la figura del pianista che studia otto ore al giorno o più, e che non può interrompere il suo allenamento per non perdere in precisione esecutiva. Personalmente credo che la “soluzione” che Oppitz può permettersi garantisca una vita migliore: chi non sarebbe felice di possedere nel suo lavoro un simile rendimento? E credo anche che questo si rifletta nelle sue interpretazioni al pianoforte. Il talento artistico e musicale è un fenomeno troppo complesso per poter essere analizzato e ridotto in formulazioni qualsiasi, ma sono convinto che lavorare nella direzione del Metodo Monari dia a ciascuno la possibilità di sviluppare appieno le sue potenzialità di autopercezione, di movimento e di comunicazione, in una parola la propria armonia, per poter cancellare il più possibile quei confini tra tecnica ed espressione che sono indefiniti quanto quelli tra corpo ed emozioni. Un armonioso sviluppo delle capacità di sentire e di muoversi consentono di far convergere sempre di più l’impegno nel realizzare con il piacere dell’esprimersi, nella vita come nell’arte. Credo che in una normale aula di Conservatorio non si possa sviluppare tra insegnante ed allievi un rapporto come quello che si crea lavorando con il Metodo Monari, e sono grato ai ragazzi che hanno accettato questo mio insolito invito a riunirsi per lavorare sul corpo prima di trovarci insieme davanti al pianoforte. Suonare meglio non è certo l’unico scopo: si raggiunge una migliore conoscenza, e si riducono gli schermi tra insegnante e allievo, legati ai rispettivi ruoli, che tante volte hanno solo l’effetto di trasformare in noia, o peggio in sofferenza, la gioia dell’apprendere, del pieno sviluppo della propria creatività e personalità. Quanto più insegnante e allievo sono uno a fianco dell’altro nel lavoro, più facilmente può nascere ed accrescersi quel piacere di comunicare che favorisce l’espressione artistica; l’insegnante stesso ne trae molti stimoli positivi ed un notevole arricchimento. Questa esperienza da poco iniziata ha certamente portato a me un rinnovato interesse ed entusiasmo per l’insegnamento, e credo abbia aperto ai miei allievi una nuova prospettiva per poter vivere più pienamente e felicemente lo studio della musica, come ricerca della propria armonia.

Carlo Mazzoli

6. Le cose buttate "dietro le spalle"

«...lo puoi sentire mentre fai l’amore, o d’inverno in un giorno di sole

quando non riesci a spiegarti con le parole se nessuno capisce il tuo dolore

lo puoi sentire tutto in un momento quando nessuno ti viene incontro

che non c’è vita senza calore che non c’è solo con le parole

ma se nessuno ti abbraccia forte è sempre e solo dolore dolore...»

Sono le parole di un noto cantautore, a me molto caro, che ha vissuto pur nell’unicità e irripetibilità di ogni vita la mia stessa storia famigliare. L’incontro col Metodo Monari è l’incontro con Maddalena Monari, con la sua costante ricerca di comunicazione attraverso il lavoro sul corpo, attraverso il movimento, attraverso il contatto. È iniziato 11 anni fa; ero terapista della riabilitazione da circa 7 anni, professione a mio parere bella, utile agli altri e che esercitavo con quell’entusiasmo che molto spesso era intriso di onnipotenza e di desiderio di far stare tutti bene. Desiderio che ha radici lontane nel mio bisogno di rendere gli altri sempre contenti di me, desiderio che nasconde ben altri bisogni. Fisicamente sono sempre stata robusta, con allargamenti e restringimenti tipici di chi oltre a fare diete e poi smettere, non ha forse trovato il proprio spazio fra numerosi, in cui vivere, creare, sentirsi bene; con un aspetto di solidità a detta degli altri che mi ha fatto sentire tante volte indispensabile per l’altrui tranquillità. Insieme ad una collega presi contatto con il Centro Monari e mi iscrissi ad un corso settimanale, con la consapevolezza che mi avrebbe fatto bene, perché il lavoro quotidiano era pesante e volevo fare qualcosa per me. Fu subito chiaro che portata avesse questo tipo di lavoro in me, sentii i limiti dei miei muscoli, la rigidità della mia schiena e la mia generale immobilità, anche se non sentivo nessun dolore; solo molto dopo arrivando ad ammorbidirmi ho cominciato a sentire non solo la possibilità di muovermi, ma anche il dolore che affiorava, ciò che di antico era cementato in questa grande, solida schiena; tutte le cose buttate “dietro le spalle” l’avevano resa insensibile. Ricordo ancora con quale stupore, dopo poco l’inizio del mio primo corso, nel costruire ad occhi chiusi una figura umana, vidi che avevo fatto “un angelo” senza forma con al posto del corpo e delle gambe un unico, grande camicione! Sentii comunque che quello era il luogo, non solo fisico, in cui avrei potuto scoprire cosa era rimasto della bambina chiusa in un’armatura che non faceva trapelare nulla. Intuii il dolore e la fatica di conoscersi meglio, le paure e le resistenze mi fecero rifiutare per lungo tempo la partecipazione a stages, mi accontentai, riconosco oggi, delle consapevolezze

che stavano emergendo ugualmente negli incontri settimanali. Intuii anche la fedeltà a questi momenti solo miei, in cui con calma ascoltare il mio corpo, cominciare a “sentire” dove erano le mie contratture e allungare lentamente i miei muscoli era cosa grossa per me, così portata a fare, anzi a strafare, per farmi accettare. La maggior parte delle cose che ho scritto le posso dire grazie a questo incontro col Metodo Monari; fino al momento in cui non ho potuto sbloccare e sentire il bacino, non ho avuto la consapevolezza di quanto fosse imprigionato e di quale emozione fosse carico questo incontro. Mettere una palla da tennis sotto i glutei, fare rotazioni del bacino sempre più velocemente, entrare nel blocco che c’è, nella difficoltà che il corpo fa a lasciarsi andare al movimento, senza voler controllare, senza volersi sforzare, ma solamente ascoltare, entrare in contatto. Ecco come ho potuto lentamente ricucire alcune ferite che il mio corpo porta difese dietro le contratture. Ciò è stato possibile grazie al lavoro di gruppo, al calore e all’energia che circola fra le diverse persone che sono alla ricerca di questo contatto, ad una conduzione di gruppo che non vuole creare dipendenze, né guarire per forza, ma che vuole essere testimone consapevole di questa rinascita. Così, piano piano che l’incontro col mio corpo avveniva, anche il rapporto con il corpo dei bambini con cui quotidianamente lavoro, si è modificato e sono ora meno tesa a volerlo guarire per forza, a tutti i costi, quasi con accanimento. Cerco di rispettarlo con i suoi limiti e i suoi tempi, consapevole dell’importanza di essere vicino a loro nella dolorosa strada di accettazione di un corpo che non sempre risponde come desidererebbero, ma che è vivo, pronto per incontrare... per comunicare...

Grazia Carboni

7. Lei era lì, dalla mia parte Se ripenso a quel giorno di sette anni fa in cui varcai per la prima volta la soglia del Centro Monari, mi vengono i brividi dall’emozione, tanto nel profondo è mutata la mia vita: un nuovo corpo, nuove possibilità, un nuovo lavoro. Avevo letto una pubblicità e interessata giunsi a Bologna per il colloquio preliminare sapendo qualcosa di ginnastiche dolci e di antiginnastica ma ignorando completamente cosa significasse nella pratica il termine psicomotricità, affiancato allora al nome del Centro. Ero comunque piena di fiducia e speranzosa di poter risolvere il problema che in quel periodo mi affliggeva, o almeno questo era quello che mi suggeriva il mio intuito. Negli ultimi tempi provavo sempre più spesso un dolore profondo in tutta la parte superiore sinistra del corpo, un invisibile cordolo legava insieme il collo, la spalla, il seno fino al capezzolo e il braccio sinistro perdeva spesso forza e sensibilità. Dentro di me, in silenzio, avevo pensato anche al peggio ma non dicevo niente a nessuno, come se qualcosa di ineluttabile dovesse accadere, ma era un segreto. Fin dall’età di dieci-undici anni soffrivo di una scoliosi dorsale a cui si era presto aggiunta una cifosi e dieci anni dopo un’artrosi localizzata in più punti. Col passare degli anni credevo che il mio andare avanti nonostante tutto, anche con qualche leggera crisi depressiva, la felice vita di coppia - che tanto aveva contribuito al raggiungimento del mio equilibrio - il successo negli studi, avessero sepolto il passato. E invece il mio corpo aveva accumulato una serie di malesseri che non tardarono a farsi sentire: le spalle curve mi procuravano dolori, mi sentivo goffa, sentivo fitte lacinanti tra le scapole ogni qual volta provavo a portare in avanti le braccia, soffrivo di vertigini e nelle braccia e nelle gambe la muscolatura non aveva tono; il professore di educazione fisica al liceo diceva che era come se io non li avessi proprio i muscoli. Durante il colloquio Maddalena mi propose di fare uno stage residenziale di una settimana e io accettai di slancio con molto entusiasmo. Avevo parlato delle mie cose, anche le più intime, a una estranea come non avevo mai fatto, ma mi ero sentita subito a mio agio, capita, accettata, rassicurata mentre raccontavo la mia storia, i miei dolori, lei era lì dalla mia parte. Il mio dolore non era stato giudicato una malattia da dover curare. Non mi era stato promesso nulla, immediate e sicure guarigioni, ma avrei potuto iniziare un lavoro su di me del quale io stessa avrei potuto decidere le tappe. Ed è stato proprio così. Quando ripenso a questi anni di lavoro, che non è ancora finito, mi viene in mente la sensazione provata durante le camminate in montagna. Il sentiero, che a guardarlo dal punto di partenza si perde subito alla vista inerpicandosi ripidamente, si apre piano piano sotto i nostri passi e ci appare tutt’affatto diverso mentre lo si affronta con la giusta andatura e con le pause necessarie che ci fanno assaporare appieno il piacere di farcela. Mi buttai nella prima settimana di lavoro con lo spirito di sempre, anche un po’ superficialmente, pensando di conoscere tutto del mio passato e fidando nella mia “naturale” estroversione. In fondo si trattava di un piccolo gruppo di persone in confronto a quelli abituata a sostenere in quel momento per il mio lavoro. Parlare davanti a persone estranene non mi creava problemi né tantomeno toccare gli altri, almeno così pensavo. Ho compreso

poi che il mio era sempre stato un modo di incoraggiarmi per non sentire la mia agitazione nell’affrontare l’altro. Già in quei primi giorni, mentre cercavo di seguire le indicazioni di quella voce così calda e profonda, sentii tutto il disagio di essere nel mio corpo, così rigido, compatto, stretto in una corazza che non lo lasciava respirare. Sentii quanto fosse sospesa in aria la mia cassa toracica, che l’aria non era libera di circolare nel mio torace e nel mio ventre divisi da un legaccio che stringendo teneva così in alto, irraggiungibili le coste e il diaframma. Il respiro mi si strozzava in gola. Da piccola avevo in effetti rischiato di rimanere soffocata, mi avevano salvata, ma la gola era sempre stato il mio punto debole. Era un bel dire «contraete il gluteo destro e poi rilassatelo» il mio restava fermo, immobile, sentivo la voglia di muoverlo ma era impossibile farlo. Allora la voce calda veniva in mio soccorso «Non è importante quanto e come lo muovete, è importante inviare il comando». È avvenuto nei tempi necessari ai miei muscoli: il gluteo si è mosso e con esso il pube, il bacino, regalandomi col tempo la gioia di ballare. Io che non lo avevo mai fatto nell’adolescenza, che alle poche feste cui partecipavo restavo seduta e da socievole e ridanciana diventavo triste e silenziosa sentendomi goffa, inadatta e brutta. Tornai a casa trasformata; le costole si erano abbassate grazie all’intenso lavoro, ma soprattutto grazie al clima di serenità e fiducia instaurato nel gruppo, al piacere del riposo comune stretti l’uno accanto all’altro dopo aver sentito il dolore “benefico” dei muscoli che si sciolgono. Per la prima volta non mi ero sentita giudicata, e non avevo dovuto darmi da fare per essere accettata da un gruppo e soprattutto dalla “maestra”. In questi anni ho frequentato tanti stages sia con gruppi nuovi che con il “mio gruppo”, che è stato sostanzialmente lo stesso per alcune stagioni, provando sempre il piacere dell’incontro. Ho lavorato molto intensamente favorita anche dal fatto che ogni stage a Bologna era per me un “residenziale” in quanto lasciavo a casa preoccupazioni e impegni e in quei giorni facevo solo una cosa per me. Attraverso il lavoro sul corpo e il lavoro di relazione ho preso confidenza con il mio corpo e con quello degli altri. È indescrivibile la gioia provata nel sentire che alcune parti del corpo di cui non avevo alcuna percezione si potevano muovere e provare così la loro esistenza, la loro vitalità. Ho sentito cosa vuol dire provare piacere nel toccare un corpo senza invaderlo, senza fretta, nel rispetto delle proprie emozioni e di quelle altrui. Ho sentito con profondo dolore quanto mi era costato essere una persona estroversa, che apparentemente non aveva difficoltà a rapportarsi con gli altri, quando mi ero dovuta sbattere nell’intento, che per me era di vitale importartanza, che qualcuno si accorgesse di me e mi dimostrasse un po’ di affetto, quell’affetto e quell’amore che mi erano stati negati nei momenti in cui ne avevo più bisogno; mi ero svenduta fino ad allora senza salvaguardare e rispettare il mio patrimonio di emozioni che finalmente stava riaffiorando. Tutto ciò insieme all’aver sentito nel più profondo dell’essere che il mio storcermi era avvenuto sotto il peso di responsabilità che erano di altri e di una fanciullezza non vissuta, e che altro non era stato se non la difesa che il mio fragile corpo aveva dovuto e saputo opporre per poter sopravvivere, mi hanno reso molto meno esigente con me stessa. Ho finalmente accettato l’idea di dare un po’ di tregua alla mia esistenza che aveva fino ad allora sempre dovuto dimostrare di farcela da sola, di non avere bisogno di nessuno, perché di nessuno si poteva fidare.

Ho finalmente sentito quali erano i miei tempi scoprendo che la cognizione del tempo appartiene alla sfera emotiva e non a quella razionale, che è servita solo a suddividerlo poiché sessanta secondi sono diversi per ognuno di noi. Mia madre una volta, parlando degli inizi del suo matrimonio, mi ha confessato che non mi ha mai visto piccola, che aveva solo me e a me si era aggrappata per sopravvivere in un mondo che sentiva estraneo; subito dopo il matrimonio si era trasferita in un’altra città ed era così diversa da mio padre. Poi nacqui io, la sua àncora, la primogenita, quella che poteva mettere tutto a posto, buona, brava, intelligente, generosa. Poi vennero altri figli... Ma ormai ero io che mi preoccupavo per i miei fratelli perché sentivo di dover loro risparmiare quello che di brutto era capitato a me, che avevo mille occhi, mille orecchie, sempre pronta a intervenire rapida in difesa, in appoggio. Nonostante tutto il mio darmi da fare, il vigilare, non sono stati risparmiati neanche a loro e per me è stato duro sopportare anche questo. Insieme a ciò l’invasione e la privazione di essere la prima: i bisogni degli altri che DEVONO venire prima dei tuoi “tu puoi capire”, “dallo a lei che tu sei grande e lo sai che lei piange”. Daglielo, faglielo, mostraglielo, regalaglielo... A me che restava? La fuga nel sonno e nelle letture, il piacere nella trasgressione del disordine e delle discolate concesse a chi in fondo è sempre così buona e brava. Il peso di una grande solitudine, il grande freddo, dei bisogni congelati per non sentirli e la rabbia si lenivano di notte, quando nessuno vedeva, in un lungo pianto nel silenzio del mio letto e mi sentivo estranea in quella famiglia dai cui membri ero così diversa e pensavo di esserle stata affidata per necessità dalla mia vera famiglia. Preferivo sentirmi abbandonata piuttosto che non amata. È indescrivibile a parole, la cappa di oppressione nella paura di fare qualcosa di sbagliato che c’era nei nostri occhi di bambini, assente la gioia di vivere. Sempre imbronciati, magrissimi pur mangiando molto. Mia madre portò me e mia sorella - in quello che ricordo come un lungo viaggio in treno - a fare delle radiografie per vedere se eravamo malate, se c’era qualcosa che non andava. Oggi so, perché l’ho sentito trattenuto nei miei muscoli, che mi mancava un nutrimento più importante del cibo, quel calore affettivo fatto di abbracci, baci, carezze e soprattutto del piacere di stare insieme in allegria e leggerezza. Finché quel corpo, tirato tra il dovere e il volere, costretto dalla vergogna e dalla paura, ha ceduto e per sopravvivere si è storto. Con lo sviluppo immancabilmente è sopraggiunta la scoliosi: magrissima, alta e storta. Lo strazio emotivo della scoperta. Estate al mare, gli occhi di mio padre si appuntano sulla mia schiena, la chiamata a raccolta di mia madre con un tono che non lascia presagire nulla di buono, ma non so cosa, lo sconcerto di trovare un difetto, una macchia, l’agitazione, la sabbia mi si apre sotto i piedi, lo stomaco ha un tuffo e immediato sopraggiunge il senso di colpa di non essere perfetta. Perché proprio a me che sono tanto brava? Qualsiasi evento che non scorreva nei binari di una normalità decisa dai grandi e molto discontinua era vissuto con estrema, intensa agitazione emotiva; quella in cui sprofondava mia madre sotto la pressione e l’incalzare delle parole e degli sguardi di mio padre. Mi sono fatta carico anche di questo nell’intento di alleviare questa pena. Con la scoperta della scoliosi è iniziata la solita trafila: visite, ginnastiche, busto. Ricordo di aver fatto impazzire il costruttore di cotanta aberrazione perché non mi andava mai bene, sentivo dolori ovunque, ovunque mi premeva troppo. Non lo volevo. Imposi di portarlo solo a casa, mi vergognavo troppo, mi faceva male. Ben presto non lo misi più: troppa insofferenza, rabbia e disagio.

La ginnastica correttiva invece bisognava farla, mi è stato risparmiato il nuoto solo per impedimenti pratici. Mi tornano ancora in mente i ricorrenti attacchi di mal di testa e la nausea all’ingresso di palestre e centri fisioterapici. Smisi anche quella. Preferivo tenermi quella che in casa veniva chiamata “la gobba” e avere un corpo che non mi piaceva. Quando, dopo aver tenuto il bastone sotto la colonna vertebrale, per un tempo divenuto ben presto insopportabile, nel momento di toglierlo sentii una fitta lancinante tra le scapole, la mia ferita riaperta mi fece sprofondare nel dolore provato e accumulato in quegli anni. Un pianto dirotto mi scosse tra le braccia amorevoli di Maddalena. Provai sollievo nel sentire la schiena del compagno che respirava unita alla mia. Trovai accoglienza, per poter lenire il dolore, nella mano che ha toccato con rispetto e amore la mia ferita nel lavoro di relazione che seguì. E la mia schiena cessò di essere un ammasso informe; la parte sinistra incominciò a uscire dalla “gobba” di tanti anni, le scapole si mossero separatamente. Mi ero sempre occupata di tutti quelli che mi stavano intorno (fratelli, genitori, compagni di scuola, amici, insegnanti) finalmente potevo prendermi cura di me, chiedere aiuto senza sentirmi in colpa. Riscoprendo e unificando i pezzi del mio corpo iniziavo a trovare il mio posto nel mondo. Non permetto più a nessuno di vivere la mia vita, sto ritrovando il piacere di fare cose che il senso del dovere mi aveva distrutto. Il piacere di aver ritrovato la chiave per l’ascolto delle mie emozioni, delle mie sensazioni è la cosa più straordinaria che mi sia successa durante il lavoro, dandomi la possibilità di riconoscere immediatamente e con certezza chi desidera il mio bene senza altri scopi. Accanto a tutto ciò ci sono naturalmente dei grossi cambiamenti fisici. Non soffro più di vertigini, la cifosi è scomparsa, non devo più tenere dritta la schiena perché ormai si sostiene da sola, la muscolatura delle gambe è più tonica - i quadricipidi finalmente si vedono -il capo è ben dritto con giovamento per tutto il viso che naturalmente ha assunto lineamenti più rilassati, sono aumentata di 2-3 centimetri, in quanto si è ridotta la scoliosi. In sostanza mi sento meglio fisicamente e per la prima volta a quarant’anni mi piaccio e il più delle volte guardandomi allo specchio mi vedo bella come mi sento: ho “rimesso a posto” qualcosa, lenito qualche ferita, reintegrato parti di me senza compromessi. Il mio corpo non è più per me uno sconosciuto e, liberandosi in parte dalla sua corazza, mi lancia dei segnali che io riesco ora a riconoscere, rendendo finalmente possibile il dialogo continuo tra le mie sensazioni e le mie emozioni. Quando Maddalena mi ha proposto di frequentare il Corso di Formazione per diventare terapista del suo Metodo, senza pensarci un attimo e seguendo solo il mio istinto ho detto sì. Sentivo che finalmente potevo occuparmi degli altri nel modo in cui avevo sempre desiderato: con passione e piacere. Non mi preoccupò affatto di non essere una fisioterapista, né che avevo un altro lavoro in un’altra città e ho fatto bene, perché oggi, grazie al mio essere terapista ho reso migliore anche il mio essere storica dell’arte. Il mese di corso è stato fantastico. Finalmente libera da condizionamenti, nel clima adatto, ho appreso spontaneamente senza l’obbligo di dover imparare per gratificare l’insegnante. Ho appreso per me e solo per il piacere di farlo. Tutti i miei insegnanti hanno sempre investito su di me. Volevano che io facessi e fossi quello che loro non erano stati capaci e non avevano potuto fare o essere. Questo molte volte mi ha creato ulteriori sensi di colpa, perché non si può vivere la vita di un altro e quindi alcune volte non sono stata “all’altezza” delle aspettative. Tutto quello che ho appreso è entrato a far parte del mio corpo e della mia vita con naturalezza. Certo senza il lavoro su di me, che continuo con la costanza di prima nella

certezza che un terapista per accogliere il dolore degli allievi deve aver scoperto e accolto il proprio, non avrei mai potuto farcela. Nell’apprendere i principi del Metodo Monari i miei occhi hanno iniziato a vedere lucidamente e le mie mani a sentire, ascoltare, vedere. Al termine dei tre anni di corso il momento più emozionante, condiviso con Maddalena e le mie compagne di corso ormai amiche: la consegna del diploma. È l’unico tra quelli conseguiti che ho deciso di appendere al muro non solo perché, pezzo unico diverso per ognuna di noi e colorato con i nostri colori, ma perché è l’unico conquistato dalla mia passione. Oggi è guidata dal mio intuito, da tutti i miei sensi, dalle mie emozioni che ogni volta entro in palestra ed entro in contato con i miei allievi. Ritrovo così il mio ritmo, i miei tempi, la mia voce, la mia serenità, la lucidità. Il piacere di essere lì in quel momento ed essere testimone delle loro scoperte. I miei occhi allora si illuminano insieme a loro. Attualmente sto vivendo un periodo molto particolare e delicato della mia vita. In seguito a un incidente automobilistico si è rotto, sfondandosi, il piatto tibiale esterno della mia gamba destra e si è incrinato l’astragalo del piede corrispondente. Al trauma di un incidente da brividi sull’autostrada è seguito il trauma dell’operazione al ginocchio per sistemare la frattura articolare. Alla degenza ospedaliera sta seguendo il periodo di recupero del movimento in previsione della seconda operazione per la rimozione dei tre chiodi inseriti nella tibia, a cui farà seguito un altro periodo di recupero. Quattro-cinque mesi di fermo, forse sei, in cui tutta la mia attenzione è stata e sarà dedicata a ritrovare il movimento perduto. Non ho seguito e non sto seguendo una terapia rieducativa di tipo tradizionale, che avrebbe previsto subito dopo l’operazione, poiché non sono stata ingessata, il piegamento passivo del ginocchio con l’ausilio di macchine (Kinetec) e quindi l’intervento di un fisioterapista che in un modo o nell’altro flettesse il ginocchio. Poco importa se la macchina procura un dolore insopportabile e fa venire la febbre: «È naturale, con quel ginocchio ancora gonfio e infiammato!». Poco importa se i muscoli rimangono senza ascolto e le contratture causate dai traumi subiti senza considerazione: «Bisogna muoverlo, che vuole che sia un po’ di dolore!». D’altronde se l’operazione è riuscita e meccanicamente il ginocchio si può articolare, allora si DEVE articolare. La risposta DEVE essere immediata, se no come si vede il risultato? come si possono sentire gratificati gli artefici? Se può forse iniziare a passare l’idea che nelle contrazioni e nelle rotazioni di un corpo si nascondono ferite profonde, quanto è ancora rivoluzionario pensare che un incidente, in cui in fondo c’è stata solo una frattura di un osso, lasci nei muscoli ferite altrettanto profonde! Mi sono così affidata alle cure di Maddalena per sciogliere le rigidità senza sfibrare i muscoli, per dare ascolto al profondo dolore e alla sgomenta paura che si sono insediati nella mia gamba, nel mio ginocchio, nella mia caviglia, nel mio piede terrorizzati. Non potrò mai dimenticare il tremore che ha sconvolto per ore le mie gambe, anche quella non ferita, subito dopo l’incidente. Un tremore interno, profondo che non si sarebbe placato con tutte le coperte del mondo, ma con delle mani calde che le avvessero toccate, scaldate, accolte, fatte sentire sicure di potersi fidare. Non solo questo è mancato! Giunta al Pronto Soccorso in sala radiologia ho dovuto io, traumatizzata, piena di lividi e impaurita, fare uso di tutte le mie capacità perché qualcuno finalmente capisse che il tremore si sarebbe placato, almeno in parte, e le lastre sarebbero venute non mosse se almeno mi fosse stato collocato un appoggio sotto il ginocchio, rimasto flesso dal momento dell’incidente.

Non ero mai stata in ospedale, stavo imparando in fretta e a mie spese quanto è raro essere visti, ascoltati, considerati e rispettati da chi non dovrebbe fare che questo. Dovevo considerarmi una paziente non tanto e non solo perché soffrivo, ma soprattutto perché dovevo avere molta pazienza. Ma perché dovevo avere pazienza, perché spettava ancora a me, che non avevo altro desiderio che di potermi fidare e riposare, il compito di mettere gli altri a proprio agio e consentire loro così di non trattarmi male? Dovevo per forza tornare ad essere brava e buona, allegra e simpatica per non essere maltrattata? Si è molto disarmati quando si soffre, indifesi quando si dipende completamente dagli altri perché non autosufficienti anche nelle cose più semplici, come un bambino. E come un bambino ho sentito spesso rabbia contro chi, con sguardi o parole, ha inibito un mio movimento per paura che mi facessi male. Ma non era ancora finita! Ho dovuto subire l’angheria di un primario che invece di dirmi con calma che la mia frattura era particolare e necessitava, per essere sicuri del recupero, dell’intervento di un esperto, mi ha vomitato contro tutta la sua paura e la sua incapacità, senza preocupparsi di me in alcun modo, senza rispettarmi, facendomi sentire in colpa per essermi io procurata “una frattura così brutta!”, lasciandomi senza parole e nel più profondo sconforto. Come da piccola, quando i miei fratelli e io se ci facevamo male dovevamo nasconderlo a nostro padre, se no erano guai. Al danno seguiva inesorabile la beffa. Ho potuto reagire con l’aiuto delle persone a me care che hanno trovato l’esperto e mi hanno fatto cambiare velocemente ospedale. Quando poi, dopo l’operazione, si è trattato di togliere il drenaggio inserito nell’articolazione e per il dolore devastante ho pianto e urlato, mi sono sentita dire dalla dottoressa «Esagerata!!!, si vede che non ha mai avuto figli lei!». Al danno ancora la beffa. L’insorgere delle mie compagne di stanza, a quella che era un’evidente cattiveria, un’offesa del tutto gratuita, la loro complicità, il loro affetto mi sono stati di grande aiuto. Da quel momento non ho più permesso a nessuno di avvicinarsi al mio ginocchio. Ero sempre pronta a fermare mani che intuivo pericolose. Ero in allerta, nuovamente sfiduciata. Ho provato la stessa dolorosa emozione di agitato sconforto provata da bambina verso i “grandi” di cui purtroppo non mi potevo fidare. In tanti mi hanno descritto l’impotenza provata al risveglio dall’anestesia, quel voler parlare e non poterlo fare, la paura provata nel non poter comunicare. Un urlo strozzato. Ho sentito l’impotenza e provato paura quando dopo l’operazione, ho impartito il comando al ginocchio e non si è piegato. Era lì immobile, come separato dal resto del corpo, e non mi apparteneva. I traumi subiti avevano interrotto lo schema motorio. Per giorni l’ho sentito come una parte estranea, la riunificazione è avvenuta lentamente tramite il contatto. Ho sentito la gioia quando, nelle prime sedute di terapia, finalmente toccato con amore e passione, il ginocchio ha iniziato a flettersi e l’articolazione, senza dolore, si è aperta come i petali di un fiore. Nel corso della terapia, mentre le mani penetrano i muscoli per scioglierli e ridargli la perduta elasticità sto vivendo emozioni intense, che mi aiutano a reintegrare la mia gamba nel mio corpo. Ho sentito quanta rabbia, impotenza, dolore si erano asserragliati in alcuni muscoli, duri come sassi, nel momento in cui mi sono resa conto che stava per succedere qualcosa di tragico, che io non potevo scappare, che era ineluttabile e io non potevo mettere tutto a posto. Ricordo di essermi rassegnata; ma a che costo? So, per il lavoro fatto in tutti questi anni, quanto coraggio ci voglia a entrare in contatto con le proprie ferite dolorose, ma ho compreso solo ora fino in fondo e sulla mia pelle di quanto coraggio abbia bisogno un terapista per permettere al ”paziente” di sentire il suo dolore. Ci

vogliono mani calde, non timorose di entrare in contato con il dolore trattenuto nella rigidità e accoglierlo. È importante sentire che il terapista è li accanto a te non tanto con la sua testa e la sua tecnica, quanto con le sue mani e il suo cuore. Solo così il muscolo, nella fiducia ritrovata, si è lasciato andare.

Anna Maria Cerioni

8. Storia del mio incontro con il Metodo Monari Passato remoto Sono già passati molti anni dal giorno nel quale ho cominciato a frequentare questo Centro che ora fa talmente parte della mia vita che mi sembra quasi impossibile che sia esistito un prima tanto lungo. Avevo infatti 48 anni quando, anche su sollecitazione di un’amica, mi sono decisa a varcare la porta di questa insolita palestra. Da anni leggevo i manifesti affissi per Bologna e devo dire che la parola che più mi incuriosiva in essi era “antiginnastica”, anzi per la precisione era proprio il prefisso “anti” ad attrarmi. Non ero niente affatto interessata dall’idea di fare ginnastica come avevo fatto a scuola o come aveva invano cercato di farmi fare mio padre, portandomi durante l’infanzia assieme ai miei fratelli in un centro sportivo. In queste situazioni mi ero sempre sentita del tutto inadeguata, grassottella e impacciata nei movimenti com’ero. La competizione non mi interessava e probabilmente rifiutavo tutti gli aspetti di necessaria disciplina e ripetitività che la pratica ginnica comportava. Ma questo posso dirlo ora, e ne sorrido, fino a qualche anno fa ero talmente preoccupata di mostrarmi adeguata che non avrei mai ammesso la mia insofferenza verso la disciplina. Non che in questi anni io abbia perso ogni controllo, ma allora ero terribilmente perbene. Signora di mezza età, madre onnipresente di due figli, laureata in pedagogia, al mio primo colloquio con Maddalena ricordo di essermi presentata con le mie scarpine col mezzo tacco (che allora mi era indispensabile per potere camminare) e il tono sicuro di chi sa di avere gli strumenti culturali per affrontare qualunque situazione nuova. Se avessi avuto il coraggio (o l’umiltà) di ammetterlo, avrei dovuto presentarmi strisciando, piangendo, gridando il mio bisogno di essere aiutata. Stavo attraversando in quei mesi un’esperienza terribile e in realtà ero a pezzi. Avevo da mesi il mio secondogenito ricoverato in ospedale dopo un gravissimo incidente stradale nel quale si era fratturato tutti gli arti fuorché il braccio sinistro. Le sofferenze fisiche erano tutte sue, ma in me c’era gravosissima la fatica di essergli vicina per giornate intere. Il peso delle sue lunghe gambe ingessate che era necessario spostare dal letto alla carrozzella era ben poca cosa se paragonato all’incombere del dolore e della preoccupazione per la sua paura, la sua depressione. Aveva dovuto affrontare più volte la sala operatoria e avrebbe dovuto ricominciare ad imparare a camminare. E i sensi di colpa, i fantasmi di inadeguatezza e di rimorsi che assillano un genitore, specialmente se è solo a crescere e cercare di educare i figli. Insomma, ero in uno dei momenti più complicati di una vita che non era stata generalmente semplice. Eppure, abituata com’ero ad essere la prima della classe, pensavo di dovere dimostrare a tutto il mondo che comunque ero in grado di affrontare anche questa situazione, stavo addosso a mio figlio come una gatta selvatica, probabilmente soffocandolo con un eccesso di cure e di presenza, mi sembrava che nessuno potesse occuparsi di lui meglio di me. La fatica e lo stress erano a tal punto che il mio corpo si era definitivamente irrigidito. Avevo paura di piegarmi, perché spesso per il dolore non riuscivo più a rialzarmi. Era la fase finale di un processo di irrigidimento e ripiegamento cominciato fin dall’adolescenza. Dopo essere stata una bambina vivacissima, direi quasi scatenata, ero

diventata una ragazzina e poi una donna ingabbiata in forme di severo controllo, imposte dall’educazione e dalle circostanze di vita. Il mio corpo magro e scattante nella prima infanzia era diventato goffo e impacciato, l’impegno ad essere brava in tutto quello che facevo si era stampato in una decisa scoliosi. Non sapevo mai dove mettere le mani, non ero riuscita ad imparare a pattinare o a sciare (quel movimento accelerato verso lo spazio libero mi terrorizzava), soffrivo di vertigini al punto di non riuscire ad affrontare un sentiero di montagna. Il matrimonio e la maternità avevano dato il colpo di grazia alla mia mobilità. Ero sempre stata molto brava a scuola, il pensiero almeno si muoveva, e cercavo di fare con serietà la mia professione. Ma moglie e madre volevano dire ancora di più: e allora la corsa frenetica per organizzarmi fra studio e ciambelle per la colazione, fra presenza culturale e organizzazione efficace della casa. Attenta a tenere tutto sotto controllo, dimenticavo di avere un corpo e a soli ventisette anni soffrivo di dolorosissime forme di artrosi discale, naturalmente poco curate anzi quasi del tutto sottovalutate. Era per me vietato piangere, lamentarsi, mostrarsi debole, perdere il controllo. L’unico spiraglio di libertà che mi concedevo era di tipo mentale e qui torno a parlare delle mia irrefrenabile attrazione per l’anti. Ogni movimento politico o culturale che fosse di rottura mi incuriosiva e trovavo del tutto naturale rendermi disponibile ad esso. Ero un curioso miscuglio di severa adeguatezza ad un modello tradizionale di moglie e madre e un disinvolto partecipare ad esperienze insolite per una signora borghese di quei tempi. Come facessi a conciliare dentro di me le due cose non so, probabilmente si trattava più che altro di un conflitto che si rispecchiava sempre di più nel mio corpo, diventato una specie di corazza. Quando ho cominciato a frequentare il Centro Monari mi vedevo, ed è già strano che mi vedessi, come una gallina: un gran torace gonfio su due gambine rinsecchite. La scoliosi mi aveva infastidita durante le gravidanze, l’artrosi aveva inchiodato la colonna vertebrale, i miei piedi soffrivano di una borsite cronica e i miei muscoli posteriori erano tanto accorciati che camminare con i tacchi bassi mi era impossibile. Eppure marciavo eroicamente, sola nei miei deliri di onnipotenza. Se penso che al colloquio iniziale con Maddalena ho parlato del più e del meno, del male di schiena e di piedi e non ho nemmeno accennato al ricovero di mio figlio, alla sua necessaria riabilitazione, vengo ancora sommersa dallo sgomento. Dovevo veramente essere disperatamente convinta che al mondo non ci fosse nessuno disposto e capace di aiutarmi, che dovevo comunque cavarmela da sola, visto che ad ogni modo era colpa mia... tutto (quanto dovrà sacrificarsi ancora questo brutto anatroccolo per diventare degno di essere amato?). Passato prossimo Prima esperienza al centro Monari con la frequenza di un corso a incontri settimanali. Sempre sorridente, accondiscendente e preoccupata di piacere, navigavo in realtà in un profondo disagio. Il momento iniziale é di ogni incontro durante il quale in cerchio ognuno parlava di sé, dei propri dolori fisici e delle proprie emozioni, era quasi un tormento. Fin dall’infanzia mi era stato insegnato che parlare in pubblico della propria sofferenza non è dignitoso e oltretutto è inutile perché nessuno può aiutarti come puoi fare da sola. Quindi non comunicavo niente di reale, poche parole possibilmente spiritose. Oltretutto mi domandavo come ci si potesse fidare di messaggi, allora veramente incomprensibili per me, come “tu non respiri” o “quando camminerai con le gambe” pronunciati da Maddalena e dal suo allievo che l’aiutava, sempre con molta dolcezza però, senza nessuno spirito critico. Nel compiere i "preliminari" che

venivano suggeriti scoprivo nel mio corpo contrazioni dolorose che mi spaventavano e qualche volta mi irrigidivo ancora di più nello sforzo di fare l’esercizio bene. A dire la verità l’esigenza di fare tutto bene era solo mia, perché mai nessuno si accaniva nel correggere le mie posizioni sbagliate o mi rivolgeva parole di disapprovazione. Fortunatamente, il gruppo di quell’anno era particolarmente affettuoso e nei momenti di contatto, di riposo abbracciati, trovavo molto calore e la consolazione alle mie sofferenze che non richiedevo ma della quale avevo tanto bisogno. Forse se il metodo non prevedesse questi momenti di contatto non sarei mai riuscita a concedermi al dolore fisico prima e allo sblocco emotivo poi, probabilmente avrei abbandonato la palestra che mi sarebbe sembrata solo inutilmente faticosa. È stato proprio durante un lavoro sulle mani di una giovane donna, rigida e contenuta come me, che ho riconosciuto la mia angosciosa solitudine. Ho cominciato a piangere senza potere più fermarmi, come non facevo da quando ero bambina piccola. Non sapevo più cosa fare, perché mi sentivo in dovere di finire il lavoro sulle mani della mia compagna, ma appena ho potuto sono scappata nello spogliatoio. Evidentemente allora non mi sembrava dignitoso allagare la palestra con le mie lacrime, mostrarmi a tutti debole e disperata. In quello spogliatoio ho cominciato a parlare, quando il gruppo è venuto a cambiarsi e solo la settimana dopo ho raccontato a Maddalena di mio figlio. Il suo problema è stato accolto immediatamente con un calore ed una generosità pari solo alla delicatezza e al rispetto che sempre si trovano qui. Ancora in stampelle, ha cominciato a frequentare il centro per dei trattamenti individuali che poco alla volta lo hanno riabituato a rendersi conto che dal suo corpo potevano emergere anche piacere e fiducia e non solo dolore e paura. Poi anche lui è entrato in un gruppo del quale ancora fa parte, compiendo un suo cammino. E così anch’io, per la prima volta nella mia vita, mi sono fidata ed affidata. Ci sono voluti però due anni perché mi decidessi a partecipare ad uno stage, durante il quale è possibile compiere un lavoro più approfondito sul corpo e sulle emozioni. Ora abitualmente frequento il gruppo settimanale e uno o due stages all’anno. Nello stare assieme al gruppo per giornate intere, condividendo anche i pasti e i momenti di riposo, si sono approfondite amicizie e ho del tutto dimenticato la preoccupazione per gli aspetti formali dei rapporti. Ora se mi sento stanca so che posso appoggiare la testa sulle gambe di chi mi sta vicino, se ho voglia di piangere lo faccio dovunque mi trovo. Ma non è tutto qui: ho scoperto che mi piace ballare, scherzare, giocare. Ogni tanto sorprendo tutti ammutinandomi con leggerezza. Il cammino è stato lungo, è difficile raccontare tutte le tappe. L’aspetto che mi è sempre piaciuto di più riguarda la possibilità che questo metodo lascia ad ognuno di fare il suo percorso, senza forzature con i relativi possibili traumi fisici (avevo visto con i miei occhi lo scempio che la fisioterapia tradizionale era capace di compiere quando ‘curavano’ mio figlio in ospedale) e con i possibili traumi emotivi che portano a ricadere, semmai in forme ancora più accentuate, nelle rotazioni, nelle lordosi difensive che tutti usiamo per proteggerci. E così è venuto fuori, senza che debba vergognarmene, anche il mio desiderio di autonomia: che mi senta fragile o che mi senta forte mi piace decidere da me cosa fare, aderire autonomamente, per fiducia e non per dovere, a quanto mi viene proposto. Ricordo con emozione la scoperta delle zone più rigide del mio corpo. Ammorbidendo i muscoli di esse ho spesso messo a nudo abissi di dolori pregressi, di negazione dei miei bisogni. Sono stati momenti di grande paura che però si è sempre stemperata nel clima di accoglienza creato dal gruppo e dai fisioterapisti.

Il corpo più morbido mi ha permesso di mettere a nudo i sentimenti, prima a me stessa poi, un poco alla volta - e qui ho ancora strada da percorrere - agli altri. Alcune parti si sono del tutto ammorbidite, altre presentano ancora lordosi ed irrigidimenti, ma ho imparato ad amare e a rispettare anche i miei limiti, a non accanirmi per mostrarmi migliore di quello che sono. Insomma, da questo lavoro è scaturita un’accettazione serena della vita che mi ha permesso in questi ultimi anni di affrontare anche lutti molto dolorosi senza fare pagare al mio corpo la fatica di elaborarli. Ho imparato ad aspettarmi aiuto dagli altri, in fondo viene anche senza essere troppo richiesto. Chi di noi frequenta il centro da più anni ha vissuto, con l’entusiasmo che deriva da una condivisione autentica, le trasformazioni dell’attività e dell’ambiente fisico. L’aprirsi della scuola di formazione sul metodo Monari ha determinato l’approfondimento e la precisazione delle metodologie da usare nei gruppi, che naturalmente risentono positivamente della ricerca comune che viene compiuta da qualche anno. E poi da un anno il nuovo Centro, le nuove palestre, gli ambienti per i trattamenti individuali e in più il giardino e il soggiorno, accoglienti ed allegri, sempre disponibili per chi ha voglia di rilassarsi, incontrare i suoi amici, socializzare attraverso il piacere di mangiare insieme. Forse una sorta di isola felice, che però non spinge ad isolarsi, ma anzi fornisce gli strumenti per navigare con disinvoltura e sicurezza nel mare, tempestoso o paludoso, che sta fuori della porta. Presente - futuro Mercoledì 7 dicembre 1995. All’inizio della riunione settimanale ho trovato il coraggio di proporre di lavorare la nuca e la mascella, luoghi del mio corpo dove ancora la rigidità esprime le umiliazioni che ho dovuto coprire, il dolore per non essere stata nutrita dall’amore. Tieni la testa alta, stringi i denti, altrimenti rischi di cadere a pezzi! Il lavoro sui piccoli muscoli dietro alle orecchie e attorno alla mascella si rivela molto doloroso, una morsa d’ansia mi crea una leggera nausea e molta paura. Quando provo ad alzarmi in piedi, scopro che il diaframma si è contratto al punto di impedirmi quasi di respirare. Mi fermo dove sono, ma sono tranquilla perché so che nel gruppo nessuno farà caso al fatto che resto a gattoni e che Maddalena saprà come aiutarmi. E infatti vengo immediatamente soccorsa da un piccolo trattamento individuale sulla zona dorso-lombare e subito dopo tutto il gruppo viene scaldato da un lavoro sulla schiena che ci aiuta a ritrovare la fiducia in noi stessi, nonostante le prove che la vita ci ha inferto. I saluti fra noi, prima di andare a casa, sono questa sera particolarmente pieni di tenerezza. Morale della favola Il buffo di tutta questa storia sta nel fatto che quando ero giovane (e le fotografie mi dicono che ero bella) non mi piacevo, invidiavo le ragazze che sapevano muovere seduttivamente i lunghi capelli e indossare con disinvoltura sottane sportive. Ora che ho i capelli bianchi e qualche ruga di troppo comincio ad apprezzarmi. La mia ammirazione va soprattutto alle mie gambe, che non sembrano più quelle di una gallina, ma sono dritte come sono sempre state e in più morbide e piene ai punti giusti e senza un filo di

cellulite. Indosso con piacere mocassini senza tacco e forse quando compirò sessant’anni mi comprerò la minigonna che non ho mai portato.

Marcella Ruocco

9. Ho iniziato a scegliere e a decidere per me È difficile raccontare in poche pagine la storia di una vita, ma ci proverò perché sono fermamente convinta che ognuno può ricostruire il proprio passato ascoltando e riconoscendo ciò che il corpo costantemente ci comunica, per permetterci progressivamente di usufruire e godere di quelle potenzialità che nel corso degli anni ci sono state sottratte, ma che naturalmente ci appartengono. Mi chiamo Filomena e sono nata in un paese del Molise. Fin da piccola la sensazione di inadeguatezza, di fragilità, di solitudine era accompagnata dalla vitalità, dalla gioia, dalla bellezza che sentivo sprigionarsi ogni giorno di più dal più profondo del mio essere, dalle mie viscere. Ricordo con amore e tenerezza i giochi dove era bello sporcarsi: gli amici, le urla, le corse, le lotte nella strada; i concerti, i balli, gli spettacoli dove io organizzavo ed ero leader, bella, splendente, ed ammirata, ma non dai miei genitori. Per loro io ero incontenibile e sempre più spesso venivo a volte rimproverata, a volte picchiata e tacciata di cattiveria. Io non capivo. La mia vitalità mi spingeva avanti ed il piacere dell’indipendenza mi spinse a 5 anni ad organizzare una gita in campagna. Il gruppo era capeggiato da me, nonostante fossi tra le più piccole. Mio padre, dopo averci cercate, ci raggiunse lungo la strada. Quando lo vidi, lo accolsi con urla di gioia e di vittoria per quello che ero stata capace di fare. Lui spense tutti i miei entusiasmi con uno sguardo silenzioso; non capivo cosa avessi fatto di male ma, dopo aver riaccompagnato tutti a casa, mi picchiò e mi chiuse in una stanza buia. Neanche mia madre riuscì a proteggermi. Ascoltavo i rimproveri di mio padre senza riuscire a decodificare i suoni delle parole, non capivo nulla, se non la paura, il dolore dentro e fuori, l’impotenza tali da sfiorare la pazzia; poi il silenzio e la rimozione: resta il disagio e la colpa di esistere. In seguito, per andare avanti e per giustificare il fatto che loro non mi ascoltavano, è stato più semplice darmi la colpa di non essere la brava bambina che loro volevano, di non essere perfetta e di meritarmi le punizioni. Almeno in quei momenti sentivo di esistere! I miei lavoravano, non si occupavano ma si preoccupavano per me. Quando stavamo insieme pochissime espressioni d’amore, perché “i figli si baciano quando dormono”, ma soprattutto muri silenziosi che non ci permettevano di comunicare e quando dal più profondo trovavo la forza di chiedere la loro vicinanza, di urlare i miei bisogni e la mia rabbia, pretendevano che capissi le loro motivazioni, mi rimproveravano e mi impartivano ordini e comandi per domare la mia passione ormai ribelle, per insegnarmi ad essere più docile e a non dare fastidio. Ricordo che mio padre diceva sempre “le canne si piegano quando sono piccole”. Io non mi sono mai piegata, ma per restare dritta ho immobilizzato la mia schiena ed intraruotato le mie gambe. Siccome nessuno ascoltava le mie motivazioni e i miei bisogni, la mia gola e la mia bocca si sono chiuse sempre più. La solitudine fisica-emotiva e l’impotenza erano tali da non essere contenute ed allora, a salvarmi, ancora una volta la rimozione: restava il ricordo di essere troppo esagerata, troppo emotiva, troppo vitale, troppo tutto e perciò piuttosto strana e difficile. Amaramente appresi che per farmi amare e per avere l’illusione di non restare sola dovevo “dare”, senza pensare alle mie esigenze riducendo sempre più il mio desiderio di movimento e di libertà. Nella speranza di farmi amare, non mi esprimevo.

In seguito, quando avevo sei anni, nacque mio fratello e, se all’inizio tutto andò bene, dopo circa quaranta giorni lui fu sul punto di morire per una febbre molto alta. La confusione che ne seguì di medici, di adulti che parlavano tra di loro, aumentava dentro di me (che venivo sempre allontanata perché non potevo capire) un senso di angoscia e di incomprensione; ma mi ricordo che, quando nessuno mi vedeva, andavo da lui e guardavo la bellezza-l’armonia-la dolcezza del suo viso e del suo corpo, gli prendevo la mano paffutella e gli dicevo “insieme ce la faremo, vedrai, io sono forte!” Capii veramente come stavano le cose e cosa volesse dire “paraparesi spastica” solo un po’ più tardi, quando lui cominciò ad avere difficoltà a scendere e salire le scale e a camminare e correre diversamente dagli altri bambini. Ma io amavo mio fratello ed ero felice di stare insieme a lui, di giocare, di lottare, di ridere. Poi cominciarono le visite dai “baroni” dai grandi della medicina nelle varie città d’Italia: il freddo degli ambulatori, i suoi pianti, le nostre umili azioni ed il nostro dolore, la sconfitta. Al ritorno in casa regnava la tristezza, la sofferenza ed il silenzio, ma anche la forza della ribellione e della lotta per la gioia e la vita, nonostante tutto. In un paese in cui gli handicappati venivano tenuti chiusi in casa, noi uscivamo e giocavamo per le strade. A volte mi vergognavo, quando gli occhi della gente insistentemente guardavano e giudicavano condannando la “diversità”, allora irrigidivo la mia schiena cercando di proteggere me e lui. Insieme ce l’avremmo fatta! Riuscivamo a ritrovare la nostra sensazione di armonia quando andavamo in campagna dai nonni dove potevamo “semplicemente e maestosamente” esistere. Nessuno ci giudicava o ci costringeva a rimanere immobili perché non ci facessimo male. Ricordo mio nonno che faceva il contadino e ci guardava con amore rotolarci con i cuccioli intorno, ridere, sporcarci, così come guardava la sua terra e i suoi alberi. E la sera, sotto il cielo aperto, nella fermezza e nella nobiltà del suo corpo, ci raccontava delle storie e noi gustavamo il ritmo, il suono della sua voce, delle parole che ci scaldavano, cullandoci. Iniziarono le visite, le operazioni, le terapie a Roma. A casa, la sua lontananza e poi i suoi gessi, la sua rabbia, la sua sofferenza. E ancora una volta nessuno si occupava di me e della mie emozioni. Le attenzioni erano solo per lui e per la sua malattia. Anch’io dovevo occuparmi di lui, ma non più quando lo desideravo: avevano rovinato anche il rapporto con mio fratello! Cercavo di non dare fastidio e speravo così che qualcuno mi avrebbe prestato attenzione, si sarebbe occupato di me pensando che non potevo farcela da sola. Invece aumentarono le richieste di tutti ed i miei doveri nei loro confronti. Per non deludere mi sono impegnata al di sopra delle mie possibilità creandomi una forte onnipotenza che mi allontanava dolorosamente dalla mia realtà, dalla mia tristezza e dalla colpa dell’impotenza. Cercavo di fare la “brava”, ma c’erano sempre altri problemi che allontanavano i miei genitori da me. Il mio impegno non bastava mai. Continuavo a non sentirmi rispettata, amata, ma sempre scaricata. Contemporaneamente la scuola non mi aiutava, anzi aumentava il mio senso di disagio, di difficoltà ad esprimermi tanto che iniziai a studiare forsennatamente ritrovandomi ad essere tra le prime della classe: finalmente mi vedevano! In più la mia vitalità e la mia allegria mi assicuravano la compagnia dei miei amici. Ma quanto bisogno, quanta rabbia, quanta colpa, quanta voglia di libertà dietro ad ogni canzone, ad ogni ballo, ad ogni ribellione. Quanta paura per nuove sensazioni, per i desideri, per i cambiamenti che il mio corpo sperimentava. Quanta voglia di avere approvazione e rassicurazione, di comunicare e di chiarire quel maremoto di emozioni. Ed allora per arginare, per difendermi ingrassai. Non mi accettavo, non mi stimavo, la mia immagine non mi piaceva e mi stupiva constatare come, nonostante tutto, gli altri mi cercassero e mi volessero bene.

Ma non riuscivo a nutrirmene perché non oltrepassavano i cancelli del mio corpo, perché era difficile per me credere a questo bene visto che questa esperienza non era dentro di me. Era molto triste non avere mai la certezza di essere amata per quella che ero e non per quello che riuscivo a imporre, a produrre, a conquistare, a determinare. La mia ribellione, la mia passione mi portavano a riuscire in tutto e a cogliere il meglio per me per quanto me lo consentissero. Ma non venivo mai valorizzata in casa e tutto ciò che facevo era scontato, “era solo il mio dovere” oppure aveva sempre qualcosa di sbagliato. Il controllo era continuo, mi mancava l’aria, continuavo a non poter scegliere ciò che era meglio per la mia vita perché c’era il potere dei miei genitori a decidere sempre e comunque quale fosse il mio bene. La mia libertà, il rispetto della mia dignità e del mio valore (anche di donna) erano state calpestate, invase, giudicate, umiliate ed annullate. Ma io ne sentivo l’enorme valore e nel silenzio le custodivo dentro di me per proteggerle. Però la confusione, la solitudine, la ricchezza delle emozioni che albergavano in me, mi facevano sentire un mare in tempesta che se non trattenuto poteva travolgere tutto e tutti portandomi alla pazzia. Non conoscendo la strada per incanalare questa marea di emozioni e di sensazioni cercavo di ignorarle ed intanto usavo la mia intelligenza e la mia forza per muovermi nel mondo. Mi ritrovai così a 18 anni ad iscrivermi a Bari alla scuola per terapisti della riabilitazione. Durante gli anni della mia formazione, le tecniche che apprendevo mi davano una sensazione di sicurezza e di potenza che si scontrò fin dall’inizio con l’identificazione, che spesso provavo, con l’impotenza e con il bisogno dei miei pazienti. Era come se io e loro fossimo due facce di una stessa medaglia senza possibilità di interazione, quando il mio e il loro bisogno era quello di interagire. Questa sensazione crebbe sempre più nei primi anni del mio lavoro con i bambini cerebrolesi. Toccando i loro corpi imprigionati da spasmi e da ipertonie sentivo la loro incapacità ad esprimere ciò che avevano dentro: la loro sofferenza e la loro tristezza, il loro bisogno di accoglienza, di calore, di gioia, di vita. Sentivo che prima di tutto dovevo trovare la chiave di accesso a questo loro mondo per poter permettere a loro di esprimersi. Tutto questo mi spaventava, mi sembrava inverosimile, ma soprattutto non trovava riscontro nelle tecniche apprese. Tutti i miei maestri mi avevano insegnato cosa fare per il bene del paziente e come la debolezza da parte del terapista potesse compromettere la possibilità di recupero del malato. Quando parlavo con i miei colleghi e con alcuni medici di queste mie sensazioni la risposta era che io ero “strana” e che bisognava attenersi ai fatti scientifici e tecnici. Nel corso degli anni (nel frattempo mi ero trasferita a Roma) continuavo ad iscrivermi ai vari corsi di aggiornamento un po’ nella speranza di trovare qualcuno che desse voce e credito alle mie sensazioni, un po’ o almeno per rafforzare in me il credo nel potere delle tecniche. Ma questa dicotomia perseverava. Avevo raggiunto il compromesso con me stessa di instaurare un rapporto con i bambini in terapia e di creare un ambiente allegro e giocoso, ma arrivava sempre il momento in cui io “dovevo fare per il loro bene”. Perciò combattevo la mia “debolezza” non sentendo e diventando determinata per poter offrire loro più possibilità di recupero. Il conflitto fra ciò che dovevo e ciò che sentivo continuava ed incominciavo seriamente a pensare di non essere in grado di fare questo lavoro, di essere troppo emotiva. Nel frattempo mi sposai e nel 1983 interruppi il mio lavoro per circa due anni per occuparmi della nascita e della crescita della mia bambina. Lasciammo Roma e ci trasferimmo nel mio paese di origine. Fu un periodo di grande tranquillità e nonostante riprovassi a volte le

difficoltà ed il disagio che spesso mi facevano sentire “straniera” nella mia terra, riscoprivo il piacere delle mie radici. Inoltre mi appagava il calore e la serenità della mia casa. La presenza di mia figlia riempiva tutto il mio cuore e tutto il mio tempo. Il mio istinto era libero di fluire: l’esistere della mia bimba attraverso di me mi portò a non dubitare, quasi mai, del linguaggio dei nostri corpi iniziato quando lei era dentro di me. Mi emozionavo nel contemplare la bellezza, la morbidezza, l’armonia del suo corpo e l’intensità dei suoi occhi; la nutrivo con dolcezza ed amore, consolavo e rassicuravo con il mio calore le sue lacrime-le sue paure-le sue insicurezze, godevo delle sue risa-della sua mimica-della sua curiosità e della sua libertà di espressione. Progressivamente l’accompagnavo con il mio amore che insieme al suo movimento e alla sua indipendenza le davano la tranquillità e la forza di interagire con il mondo e con le persone, di compiere le sue scoperte, di stupirsi, di esprimersi, di vivere. Tutto questo, da lì a un anno, venne sconquassato dalla morte di mio nonno: l’unica persona che, in armonia con i ritmi della campagna, lontano dagli squallori e dai valori della gente comune, mi aveva ascoltata e rispettata, che non mi aveva mai fatto sentire “diversa”. Ripiombai nel dolore, nella solitudine di chi si sente inutile-vuota come un’anima a cui tolgono l’anima, nell’incomprensione e nell’impossibilità di avere qualcuno con cui comunicare senza sentirmi dire che ero “esagerata” e che “dovevo darmi una mossa”. Riuscivo solo ad occuparmi di mia figlia che era l’unico anello di congiunzione col residuo della mia forza vitale. Ripresi anche a lavorare con la consapevolezza che dovevo fare qualcosa, anche se non sapevo cosa, per aiutarmi. Venni così nel 1984 a conoscenza dell’esistenza del Centro Monari di Bologna dove si faceva un lavoro sia sulla struttura corporea che sulla relazione. Mentre mi recavo all’appuntamento, durante le ore di treno, mi auguravo di trovare una persona con cui confrontare le mie incertezze, le mie esperienze, le mie modalità. Speravo vivamente di conoscere un metodo che si avvicinasse al mio modo di essere. Incontrai Maddalena e per la prima volta sentii parlare di rispetto della persona e della sua sofferenza, di come il dolore fisico ed emotivo sono dati da una interruzione della comunicazione. La semplicità e la naturalezza delle sue parole, i suoi occhi luminosi e profondi mi fecero capire che avevo trovato ciò che cercavo. Lei mi stava proponendo un lavoro sul mio corpo per conoscere le ferite, le emozioni, le possibilità che i miei muscoli trattenevano. Mentre parlava mi vennero in mente la mia sublussazione alla mandibolache i medici volevano operare, le spalle un po’ curve e dolenti, il valgismo alle gambe. Sentii finalmente, dopo ventisette lunghi anni, che c’era qualcuno con cui poter comunicare senza sentirmi “strana”, “esagerata”. Mi iscrissi ad uno stage e fin dal primo giorno il movente dell’interesse professionale fu sostituito dall’interesse per me stessa. Finalmente avrei fatto qualcosa solo per me, io, con lei, mi sarei occupata di me. Cominciai a percepire le sensazioni e le emozioni che il mio corpo mi regalava durante il lavoro di allungamento dei muscoli. Scoprii come potenza ed impotenza fossero la storia della mia vita; capii chiaramente come mai avevo scelto di fare la terapista: fu evidente e doloroso il ricordo di tutte le “manovre” che, fin dall’età di dodici anni, avevo dovuto far fare a mio fratello: “fargli male per il suo bene”. Iniziai un lungo lavoro di stage, un lungo cammino su una strada spesso accidentata. Non senza difficoltà ho iniziato a sentire e a riconoscere le paure, i bisogni e le potenzialità del mio corpo. La presenza tranquilla di Maddalena nel gruppo mi rassicurava; la sua voce, le sue mani, il suo corpo morbidi ed accoglienti mi diedero man mano la possibilità di fidarmi di lei-

del gruppo-di me; favorirono l’incontro con i miei blocchi e con le mie rigidità; la sua forza e la sua passione mi fecero sentire che non aveva paura di me, che non ero incontenibile. Lei ed il gruppo “naturalmente” c’erano. Non hanno preteso dei risultati per volermi bene; non dovevo preoccuparmi dei loro sentimenti e della loro soddisfazione per esistere. Mi hanno rispettata e non giudicata, mi hanno ascoltata e non detto cosa dovevo fare per il mio bene. Il lavoro di relazione mi ha dato la possibilità, man mano che sbloccavo le mie tensioni e che percepivo come ogni contrattura custodiva e proteggeva una ferita, di essere accolta-scaldata-rassicuratavalorizzata. Mi ha dato la possibilità di esprimermi: di accettarmi e di essere accettata, di amarmi e di essere amata per quella sono. Ma quante volte i miei muscoli sfuggivano a ciò che potevano trovare convinti di non avere la forza di sostenerlo! Fiduciosamente però, con difficoltà, sono emersi i miei ricordi: i miei pianti ed il mio dolore, la mia solitudine, ma anche la mia gioia e la mia passione come quando, da bimba, correvo ed urlavo felice in mezzo ai campi di grano, come quando mi sdraiavo sulla terra e costruivo storie fantastiche con le nuvole che si muovevano nella vastità del cielo sentendomi parte dell’immenso. Ma questa volta non mi sentivo né stupida, né pazza. Lentamente la mia corazza si è dischiusa e poi aperta ritrovando il piacere di muovere parti del corpo immobilizzate da anni, di scoprirne altre e poi ancora altre che potevano interagire tra loro. Ho pazientemente scoperto che il mio corpo non era una bomba ad orologeria, né un maremoto che poteva distruggere tutto e tutti; ma un contenitore ricco di dolcezza-tenerezza, calore, rabbia-tristezza, passione, curiosità, libertà. Ho trovato e sperimentato non più il dovere, ma il piacere di toccare, di avvolgere, di occuparmi di me e degli altri; di dare-prendere il calore, l’aiuto di una mano che “semplicemente” c’è senza chiedere ´perché?’; il piacere di stare con me stessa e di stare a guardare gli altri (sapendo di esserci), di esprimere anche verbalmente ciò che provo; di camminare, correre, saltare; il piacere di discernere, quasi sempre, ciò che voglio da ciò che non voglio. Ho iniziato a scegliere e a decidere per me. Ovviamente c’è stata una lenta ricostruzione della mia vita e molti sono stati i cambiamenti avvenuti: alcuni difficili-faticosi-dolorosi, altri felici. Ho ripreso in mano la mia vita personale e professionale con le capacità che avevo sempre avuto, bloccate dalla paura e dalla morale che l’educazione mi aveva imposto. Il contatto con gli altri, con le persone che amo è sempre meno inquinato dal dovere “per il loro bene”; le due parti di una stessa medaglia si sono avvicinate. Ho ritrovato ed incontrato, forse per la prima volta, mio fratello. Ho continuato ad avere la forza di comunicare nel corso degli anni con mia figlia: ad abbracciarla e consolarla, ad essere dalla sua parte e proteggerla, a dimostrarle e dirle che l’amo, a gioire apertamente del suo essere, a sostenere le sue incertezze e la sua vitalità, a trovare la capacità di lasciarla libera, ad apprendere l’umiltà di ascoltarla e di decidere insieme ciò che è giusto. Professionalmente, tra le molte esperienze di formazione, quelle che più hanno inciso sulla mia crescita sono stati i corsi con F. Mézières e T. Bertherat in Francia, con C. Morosini a Milano. Questi metodi, che ho verificato su di me, hanno ampliato le mie conoscenze anatomofisiologiche, chinesiologiche e psicomotorie.

La mia formazione si è completata, dando senso alla mia ricerca, con il metodo Monari dove il lavoro di struttura corporea va di “pari passo” con il lavoro di relazione ripristinando naturalmente ciò che era il “nostro essere” nella sua unità. Durante le mie prime esperienze di conduzione di gruppi sentivo crescere in me e negli allievi una magica energia che sprigionava il senso della vita e della libertà. Ciò mi ha permesso di dar voce al desiderio di portare questo lavoro nel contesto in cui vivo. Ho aperto così a Termoli, nel Molise, nel 1989 il Centro D’Ambra. Durante il lavoro, insieme ai miei allievi, ripercorro il mio cammino: l’immobilità generata dalla paura del giudizio della gente che condanna la semplicità di un abbraccio, la sconvenienza dell’espressione della vitalità, il condizionamento della propria vita decisa dalle “ciandelle” (pettegolezzi) di piazza. Sento e proteggo la solitudine, il dolore, il bisogno che emerge; accetto, rassicuro, tocco con mano la paura, la rabbia, la resistenza che c’è nei loro muscoli perché so quanto non sia semplice sentire il piacere di essere vivi; avverto il lento passaggio dal trattenimento al contenimento; comunico la fiducia che ho nei loro corpi feriti. La continua meraviglia ed il piacere di vedere e sentire i miei allievi scoprirsi, crescere, riappropriarsi della loro armonia, della loro autonomia, della loro vita, conferma ogni giorno la mia scelta.

Filomena D’Ambra

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