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Maccaturo: un fazzoletto per la vita… È lui, il fazzoletto, ad avere un ruolo importante durante la seconda guerra mondiale, quando, Giuseppe Tomasetta (in copertina), prigioniero nazista insieme a Mike Bongiorno, Indro Montanelli, Ferruccio Parri e l’australiano Johnny Peck, scrive con un cerino imbevuto del suo sangue, un biglietto di addio. Tutto ha origine nel 1492, scoperta dell’America e picco dell’Inquisizione spagnola, dove i fratelli Martinez si convertono dall’ebraismo al cristianesimo in cambio della salvezza e sono tra gli sponsor della missione di Cristoforo Colombo. 500 anni dopo la Storia si ripete. Dall’Italia, negli anni ’20, Francesco Saverio Togo, discendente dei Martinez, cognome trasformato in de Martino, torna in America, a New York City. Storie che si incrociano e si intrecciano. Attraverso amori, avventure e conquiste si svilupperà una storia lunga secoli...

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Proprietà letteraria riservata © 2010 Sogno Edizioni, Genova (GE)

Sede legale: Via Borgoratti, 41/9 – Genova Prima edizione Maggio 2010

© Collana “Fast Read” ISBN: 978-88-96746-05-9

Grafica copertina: Lucia Scarpa Immagine: proprietà dell’autrice

Stampato da Atena S.r.l.

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MACCATURO Un fazzoletto per la vita

di

Mariaceleste de Martino

dai racconti e i ricordi di Anna Maria Vittoria Tomasetta de Martino

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”Non scrivo per passare alla Storia, ma per scrivere la mia di storia!” Andrea Mucciolo

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“L’Oceano smussa tutte le parti taglienti. Gli dai un

pezzo di vetro e lui ti restituisce una pietra levigata.” Mariaceleste de Martino

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Prefazione

Anche la mia è una storia di navi e di fazzoletti, di viaggi di sola andata e di ritorni inaspettati, di terre dal sapore dolce e amaro, ma comunque forte, di voglia di scoprire, osare e credere nelle proprie possibilità. Sono sicura che sono mille e più, le storie che meriterebbero di essere raccontate. Storie che si ripetono al di qua e al di là dell’oceano. Tutte uguali e forse tutte diverse. Ma Mariaceleste mi conquista fin dal primo episodio per la semplicità del suo racconto, perché mi fa assaporare i profumi della terra di origine e a me pare di tornare sulle ginocchia di mio nonno Frank, mentre mi racconta del suo piccolo paese di Terravecchia in Calabria. Era anche lui Francesco, almeno fino a Staten Island e poi da lì Frank, come per dire che da lì inizia una vita nuova in un mondo nuovo. Ho imparato tanto dal mio nonno Frank e tanto s’impara leggendo di Francesco: Frank de Martino.

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Il piacere per il sacrificio, innanzitutto. Quello che ha spinto anche me, ad uscire di casa a soli 13 anni per seguire istinto e passione. E poi il coraggio di mettere da parte l’anonimato, perché ciascuno di noi ha talento da esibire, ma spesso ha timore a mostrarlo. Il racconto di Mariaceleste è pacato, tanto quanto esuberante è il suo carattere. Un po’ come capita a me, estroversa in pubblico e riservata e subdued nel privato. Grido anch’io ad alta voce e con il pugno chiuso “GRAZIE” …. GRAZIE a tutti i Francesco, che sono diventati Frank ….

Heather Elizabeth Parisi

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… Con il cuore

Dedico questo libro a mio zio Giuseppe, affettuosamente zio Pino, che sul letto di morte mi raccontò le sue

avventure di vita. ******

“Sono stato un ragazzo fortunato!” mi dice mentre parla della sua gioventù. Sarebbe morto tre volte, prima in Russia, poi nelle campagne lombarde e in carcere a San Vittore. Invece, è il mese di agosto 1998 ed è ancora vivo, a 76 anni portati benissimo, ne dimostra venti di meno, e mi parla, anche se ancora per poco tempo. Ha il cancro. Si è ammalato nel giro di due mesi, dopo un anno di depressione per la morte di sua moglie dalla quale era inseparabile. Soffre immensamente, i dolori sono lancinanti. Non mangia più, ha sete, tanta sete, ma se beve, vomita. Sono riuscita a farlo bere con una siringa senza ago come si fa con gli uccellini appena nati. I dolori aumentano ogni giorno di più. La notte si lamenta, urla. Chiedo se è possibile iniettargli una quantità massiccia di morfina per far sì che si abbandoni ai sogni dell’incoscienza, in modo da non fargli sentire più nulla, e farlo uscire dalla vita con dignità. Ne ha il

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diritto. Ma all’ospedale i medici si rifiutano di rincarare la dose di morfina perché dicono “Potrebbe entrare in overdose.” Leggi più che severe, assurde. Lo tengono in vita con le flebo, una dopo l’altra. “Sono zuccheri per tenerlo su”, dicono gli infermieri. “Per tenere su un cadavere!?” chiedo io, visto che gli stessi medici mi avevano detto che mio zio avrebbe avuto ancora pochi giorni da vivere, quindi, questa volta la sua morte sarebbe davvero arrivata. “Dobbiamo fare tutto il possibile per tenerlo in vita”, spiegano gli infermieri. Certo, altrimenti? Li arrestano? Io e mia madre, invece, speriamo di non vederlo più soffrire. Aspettiamo il giorno della sua morte con ansia. Sarebbe comunque arrivato, e non c’è alcuna speranza ormai, quindi, prima arriva, prima finiscono i dolori, per lui. Io e mia madre ci alterniamo, notte e giorno accanto a lui. Quando mi vede il suo sguardo si illumina, è felice, non vede l’ora di vedermi. Gli do voglia di vivere anche se è quasi morto. Non lo vorremmo lasciare, neanche un secondo se non fosse per le maledette regole ospedaliere che non permettono ai parenti di

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essere presenti al momento delle visite mediche. Ma per noi le visite durano pochi attimi. Per mio zio Pino non c’è più bisogno del medico, non c’è una terapia per farlo guarire. Lui stesso se ne rende conto, forse, e vuole noi, solo noi accanto a sé. Però, anche se ha capito che sarebbe morto, c’è ancora in lui una speranza. E non nascondo che c’è anche in noi. È l’istinto di aggrapparsi alla vita materiale, la voglia di non abbandonare il corpo. “Se mi dessero degli antibiotici, io mi riprenderei un po’!” dice mio zio. “E poi, oggi mi sento meglio perché mi è venuta voglia di fumare.” Allora, mi procuro una sigaretta in caso me la chiedesse, almeno un tiro, l’ultimo prima di morire. Zio Pino continua a dare segni di vita e desiderio di non lasciarci, anche se il suo corpo è ridotto a pelle e ossa. “Fatemi mangiare qualcosa, ho fame”, ma non fa in tempo a dirlo che già gli è passato il gusto di assaggiare qualsiasi tipo di cibo. Anche la vista si è abbassata. Prova gli occhiali, ma li rimette sul comodino perché si accorge che non servono più a nulla. La piccola protesi dentaria mobile l’aveva riposta in un cassetto del comodino perché non gli entrava più in bocca, la mascella si è ristretta, tutto il suo viso è scavato, il suo bel naso aquilino è diventato sottile e piccolo, le sue labbra rosse e carnose sono

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sbiadite, e il suo sorriso non riesce più a sbocciare. Con un filo di voce mi dice: “Mi fai uno dei massaggi che sai fare tu?” Comincio a toccarlo delicatamente con i palmi delle mani incremate, ma mi chiede di fare più piano, con meno pressione. Sto massaggiando pelle, nient’altro che pelle. Riesce a sopportare solo delle carezze delicatissime. In ospedale solitamente si va per curarsi e per guarire. Lui, invece, ogni giorno che passa peggiora. E da questo ospedale non uscirà mai vivo. È un cadavere, ma prova ancora emozione, soffre e piange e si contorce nel letto dai dolori. Si gira e si rigira. Non trova pace. Non riesce a trovare una posizione che lo faccia stare comodo, almeno per un attimo, gli ultimi attimi della sua vita. Una vita fatta di amori, amicizie, lavoro e sogni come tutti noi, anche se la vita di mio zio Pino è stata davvero speciale che conduce alla vita di altri personaggi che forse hanno trovato ancora più fortuna. Mio zio è sempre stato buono, onesto, leale e molto umile, troppo umile, tant’è che quando io e mia madre eravamo andate a casa sua, avevamo trovato buttato nel suo armadio dei certificati importanti con sigilli e timbri di valore, che invece di essere incorniciati erano ripiegati più volte come un foglietto qualsiasi, come se a lui queste onorificenze non volessero

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dire granché. Non lo aveva detto neanche a noi di essere stato premiato. Per non parlare di quando l’Inghilterra, subito dopo il secondo conflitto mondiale, gli aveva conferito un diploma di eroe di guerra e tutti i benefici che ne sarebbero conseguiti, ma lui rifiutò. Non amava essere al centro dell’attenzione. Preferiva restare dietro le quinte e alla fanfara sceglieva la riservatezza. Oggi respira a fatica, a bocca aperta. Annaspa. Ormai non apre neanche più gli occhi. Non parla. Non riesce a parlare. Il cancro gli è arrivato in gola, dappertutto. Ma riesce ancora a sentirmi. Gli bagno la fronte con un fazzoletto inumidito, fa caldo, un caldo afoso, è agosto, il mese in cui è nato, io grondo di sudore, ma dalla pelle di mio zio Pino ormai non trasuda neanche una goccia. È asciutto, prosciugato. Non beve da giorni. Gli tengo le mani. Non lo mollo neanche se dovesse cadere il mondo. Vorrei accorciare la mia vita di dieci anni per regalarli a lui. Io parlo, parlo in continuazione, non smetto di parlare per fargli sentire che sono lì con lui, che non lo abbandono, che sarò con lui fino alla fine, fin dove potrò accompagnarlo ed essergli accanto. Il suo respiro accelera. Si avvicina un’infermiera per mettergli la mascherina di ossigeno. È pelle, ossa e anima. E basta. L’unica cosa che è rimasta

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viva è il cuore, un cuore che batte con tutta la sua potenza e che non vuole smettere. “È forte suo zio”, dice il medico. “Ha il cuore di un atleta e dimostra 50 anni”. Da ragazzino zio Pino giocava a calcio, in serie C, nella squadra del Civitavecchia. Era appassionato della Juventus e conosceva molti calciatori di varie squadre ed era amico di alcuni di loro, quei bei calciatori-atleti di un tempo. Sono sempre lì accanto a lui e gli racconto di tutto. Di me. Di come andrà tutto bene. Sembro pazza. Mi sento pazza. Sto parlando da sola? No, so che lui mi sente, sono convinta che lui mi stia sentendo. Tengo le sue mani strette nelle mie. Lui è sdraiato su un fianco rivolto verso di me, agonizzante, ma ancora vivo. Ed è ancora, purtroppo, cosciente. Le sue mani nelle mie. Le mie mani nelle sue. Le teniamo strette tutti e due con tutto il nostro amore. Ora è lui che me le stringe, me le stringe talmente forte quasi da farmi male. “Ehi, che succede zio?!”, gli dico sperando in una risposta. E all’improvviso non sento più le sue mani nelle mie. Che succede? La presa si è allentata. Mi ha lasciato, ma non prima di avermi detto “Ti voglio bene. Grazie per tutto quello che hai fatto e mi raccomando fai la brava.”

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Lo ha detto, con un filo di voce, ne sono certa. L’ho sentito quando mi ha stretto forte le mani e poi si è lasciato andare. Mi ha voluto dire che stava andando via. È stato come udire qualcuno cadere nel vuoto, un tipo di vuoto pieno di vita. Mio zio Pino ha capito tutto fino all’ultimo istante della sua presenza terrena. E poi, le sue gambe sono diventate blu, il corpo si è irrigidito, la pressione non c’era più. Il sangue si era fermato, ma il cuore batteva ancora. Quando è arrivato il prete per la benedizione, sono sicura che lui abbia sentito, forse non il suo corpo, non le sue orecchie, ma la sua anima sì. Ha sentito tutto. E continua a sentire, ci credo. Mio zio è morto. Ma è davvero morto? È morto quello che rimaneva del mio zio Pino, atletico e muscoloso. Ma è proprio mio zio Pino quello che vedo sdraiato nel letto? Dov’è quel giovanotto con il Borsalino e il cappotto di cammello? Dov’è quel docile galantuomo che trattava con garbo anche i delinquenti? Dove sono le sue braccia, le gambe, dov’è la sua risata? Dov’è quell’uomo affascinante che in molti quando ci vedevano assieme lo prendevano per il mio fidanzato? “La vedo tranquilla, serena”, disse mio zio Pino parlando di me a mia madre, sua unica sorella minore. Mi chiese se avessi un ragazzo e mi diede ragione quando gli dissi che il mio obiettivo nella vita era quello di stare bene e che non

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era importante o necessario per essere felici avere un uomo o una famiglia. Mio zio Pino non aveva figli e io per lui ero speciale. È riuscito a essere premuroso e sensibile anche nei giorni di acuta sofferenza. Questo è il ricordo che voglio conservare di mio zio Pino, un uomo riservato, ma allegro e con uno spiccato senso dell’umorismo. Lui era steso nel letto, non riusciva neanche ad alzarsi, gli girava la testa, non aveva la forza per fare nulla, era diventato gracile e fragile come una foglia secca. Ma anche in quei momenti di calvario mi ha fatto ridere. In preda al nervosismo parlavo e parlavo in continuazione per riempire i vuoti e i silenzi in cui sarebbe sopraggiunta la lucidità che offriva l’occasione per riflettere e rendersi conto di cosa stesse accadendo in tutta la sua realtà maligna. Parlavo per tenermi indaffarata, per far capire a mio zio Pino che ero lì, che ero con lui e mi stavo occupando di lui. Ma mio zio mi freddò con una frase e mi fece scoppiare in una risata, piuttosto che in un pianto isterico. Mi disse: “Sei una brava ragazza, sei la migliore di tutte, in questi giorni non mi hai fatto mancare niente….ma sei petulante!” Due giorni dopo morì.

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