L'UUOVO N°24 "Le aspettative: attese e speranze"

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Anno XVI n° 24 - novembre 2009 Associazione Casa di Maternità La Via Lattea Via Morgantini 14 - 20148 - Milano - Tel/fax 02.890.77.589 www.casamaternita.it – E-mail: [email protected] LE ASPETTATIVE: ATTESE E SPERANZE ANDIAMO AVANTI RICERCANDO CONFERME, TRA ILLUSIONI E DELUSIONI IL FOGLIO DELLE MAMME, DEI PAPÀ, DEI BIMBI DELLA

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Andiamo avanti ricercando conferme, tra illusioni e delusioni

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Anno XVI n° 24 - novembre 2009

Associazione Casa di Maternità La Via Lattea Via Morgantini 14 - 20148 - Milano - Tel/fax 02.890.77.589

www.casamaternita.it – E-mail: [email protected]

LE ASPETTATIVE: ATTESE E SPERANZE

ANDIAMO AVANTI RICERCANDO CONFERME, TRA ILLUSIONI

E DELUSIONI

IL FOGLIO DELLE MAMME, DEI PAPÀ, DEI BIMBI

DELLA

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PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE,COM ’È

PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA 2

3 LE VISPE TERESE NON CERCATELE QUI Laura V.

A S P E T T A T I V E R I P R O D U T T I V E

4 MILLE FILM NON BASTANO Andrea D.

6 NON ANCORA ATTESA Laura C.

7 WHENUA Kate S.

8 LETARGO Simonetta B.

9 IL LUTTO DELL’INFERTILITÀ Mercedes M.

A S P E T T A T I V E E L I B E R T À

16 ADOZIONE Mercedes M.

21 LIBERI DI ESSERE Titti B.

22 LA PRIMA MOSSA Laura V.

A U T O C O S C I E N Z A

23 RICONVERSIONE Fabrizia B.

24 AL DIAVOLO LE ASPETTATIVE Cristina B.

25 AAA CERCASI Alice C.

26 QUANDO NON TE L’ASPETTI Eleonora S.

D A O G G I C I S O N O A N C H ’ I O

27 FILASTROCCA DEI NUOVI NATI

S O M M A R I O

A R R I V A N O I N O S T R I

11 NON SONO WONDER WOMAN Leanna F.

12 UNA COLLANA DI ASPETTATIVE Judith M.

14 LE TRE ATTESE Alessandro M.

15 COSA DEVO DIMOSTRARE? Marina V.

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GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM’È, NON CERCATEVI IL

SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE;

Laura V. mamma

Le vispe terese non cercatele qui

“Facciamo un giornale?” “E perché mai?” “Partoriamo fuori dall’ospedale e la cosa è considerata con sospetto: raccontiamo com’è!” “I pregiudizi sulla maternità ammorbano il pensiero corrente: parliamone in presa diretta!” Correva l’anno 1993; nel 1994 l’Uovo fu.

In principio era come camminare sulle uova, adesso è come lanciarsi col parapendio. In principio eravamo tutte preoccupate di salvaguardare la sensibilità delle nuove mamme, adesso lasciamo che si generino risonanze talvolta imprevedibili, senza mascherare i sentimenti negativi. In principio ci chiedevamo cos’era opportuno e cosa no, adesso lasciamo briglie sciolte anche alla trasgressione. In principio censuravamo, adesso no. C’ero, ci sono ancora. In principio ero giovane (quasi), adesso sono vecchia (quasi). L’Uovo è diventato come l’avevamo pensato: rende testimonianza di parto non ospedalizzato e dell’esperienza di genitori. A tutto tondo, lati luminosi e lati oscuri in pari misura.

Poco tempo fa una mamma turbata scriveva alla redazione: sarebbe bello che tutte le fatiche raccontate siano messe in una cornice di bellezza. Ci ho riflettuto, e su questa questione della necessità di una cornice ancora mi interrogo. Dopo così tanti anni di redazione io non ho ancora finito di stupirmi di quanto belli siano i contributi che arrivano. Intendetemi bene: penso alla bellezza e alla potenza comunicativa di una madonna in trono, ma anche a quella di una annunciazione, di una passione e perfino a quella di una deposizione. Mica fiori e farfallette: quelli sono corredo per vispe terese. Un’immagine bella e potente non ha bisogno di guida né di contenimento. Perché dovremmo incorniciare?

L’evoluzione dell’Uovo parte da un iniziale e inconfessabile intento promozionale e arriva a una riflessione complessa e coraggiosa. La sua storia è metafora della maturazione: dall’insicurezza di gioventù ­ Piacerò? Sarò all’altezza? Come dare la migliore impressione? E se poi deludo? ­ alla consapevolezza dei punti di forza e di debolezza propri e altrui, all’esercizio dell’ironia e alla pratica della tolleranza. Chissà che le nostre figlie non imparino da noi, prima di noi!

L’UOVO Periodico semestrale

della Associazione Casa di Maternità “La Via Lattea”

Anno XVI Numero 24 ­ novembre 2009

Direttore Responsabile

Giuliana Licini

Redazione

Cristina Balbiano ­ Simona Erotoli Judith Mangolte ­ Alessandro Montrasio

Cinzia Paris ­ Laura Valugani Marina Vaccaro

Supervisione

Lidia Magistrati Nadia Morello Paola Olivieri

Grafica e impaginazione

Laura Lobetti Bodoni ­ Lidia Rava Laura Valugani

L’Uovo Autorizzazione del Tribunale di Milano

N° 314 del 11/05/1996

Editore/Redazione

Associazione Casa di Maternità “La Via Lattea”

Via Morgantini, 14 20148 MILANO

Tel/fax 02.890.77.589 c.c.p. n° 37347200 www.casamaternita.it

E­mail: [email protected]

Stampato in proprio

Ogni prestazione in merito ad articoli, foto, disegni e varie, si intende offerta

alla rivista L’Uovo completamente a titolo gratuito. Gli autori si assumono la piena responsabilità civile e penale per le affermazioni contenute nei loro testi. È vietata ogni riproduzione,

anche parziale, di testi, foto e disegni senza autorizzazione scritta.

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4 VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ RICONOSCIAMO

PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA

Mille film non bastano

ASPETTATIVE RIPRODUTTIVE

Andrea D. papà

dissimulare e nel giro di qualche giorno i parenti più vicini sanno… delirio. Affetto, gioia e consigli, innumerevoli e contrastanti consigli di ogni tipo. Dopo questa prima ondata capiamo che le informazioni dobbiamo trovarcele da soli. L’unica cosa certa è che non vogliamo che l’esperienza sia un trauma e, se possibile, che il nostro futuro figlio non nasca in un ambiente poco accogliente e impersonale. Nel frattempo, con il passare dei giorni, la nostra cultura si accresce e, dopo un giro in un paio di cliniche private convenzionate con l’assicurazione di Valentina, siamo a dir poco scoraggiati. Sembra impossibile aggirare l’ospedalizzazione e tutti i protocolli ad essa legati. Nella scelta del male minore ci orientiamo verso il farci seguire da un’ostetrica privata sia nel travaglio che poi in sala parto, reputando alla fine non primaria la scelta della struttura. Già da qualche tempo sono in cura da un naturopata erborista al quale decidiamo di rivolgerci per tutta la gravidanza. Parlando con lui delle nostre perplessità, colpo di scena, scopriamo un altro universo, parallelo: la Casa di maternità, la possibilità di non sottostare ai protocolli, addirittura il parto in casa! Ma allora è possibile! Allora non è tutto incanalato sui binari coercitivi della Sanità Italiana! Siamo un pelo frastornati, troppe nuove informazioni, troppo contrastanti con tutto quello in cui ci eravamo imbattuti fino a quel momento. All’inizio ci sembrano tutte cose un po’ da eccentrici estremisti, ma con il passare dei giorni e delle ecografie positive l’idea di non partorire in ospedale diventa sempre più logica, più vicina alla nostra idea di parto.

Resta da trovare la struttura. La figlia del naturopata si era rivolta a “Casa Marta”, sopra Varese, in effetti un po’ fuori mano per noi di Milano. Ma può essere che da noi non ci siano pioniere del parto alternativo? Santo Internet, entra in gioco “La Via Lattea”. Decidiamo subio di visitarla. Primo colloquio, Ilaria. Gentile, decisa, forte. Ci piace, ci dà fiducia. Pochi giorni dopo torniamo e confermiamo la nostra intenzione di farci seguire dalla loro associazione di ostetriche ed insieme a tutte le possibili delucidazioni di carattere organizzativo, burocratico, tecnico e fisiologico, Ilaria ci dà anche un numero dell’Uovo, ed un po’ di titoli di libri da leggere. Altra illuminazione. Dagli scritti degli altri genitori scopriamo il parto dolce, il Lotus Birth, il massaggio neonatale, oltre al conforto dato dalla condivisione di sensazioni ed emozioni che tutt’ora tacevamo ai nostri amici. Passano le settimane e finalmente in occasione di una festa avviene l’annuncio ufficiale a tutti gli amici… altro delirio! Ci rendiamo subito conto però che il comune pensiero non ammette altro che il parto in ospedale, possibilmente con l’epidurale e sicuramente con l’oxitocina, per fare prima. Basiti, non osiamo rivelare le nostre intenzioni per non innescare sterili discussioni, linea che per altro continueremo a seguire fin ben oltre il parto anche con parte dei famigliari. Inutile lottare contro il potere della dis­educazione di massa. Con il corso preparto degli ultimi tre mesi Valentina continua a ricevere consigli ed informazioni da Ilaria e Nadia e dopo aver scartato l’accompagnamento in ospedale, in virtù delle ecografie sempre più emozionanti e rassicuranti, ci orientiamo prima verso il parto in Casa di maternità e poi decisamente verso il far nascere Leonardo a casa nostra. Qui iniziano seriamente le aspettative, crescendo di settimana in settimana insieme a preparativi sempre più

Agosto 2008, Costa Azzurra. Dopo il matrimonio e l’indimenticabile viaggio di nozze, siamo al mare. Strana fatica nel solito trekking dell’Esterel, inspiegabile febbriciattola, occhio lucido. Subito la madre di Valentina: “Sarai mica incinta?”, ­ “Ma va là, cosa dici? Figurati!”. Poi inizia il ritardo, insieme alle aspettative ed ai gioiosi sogni. Dentro di me ironizzo: “Ma non si era parlato di rigido regime di sesso ad oltranza?” ­ ben conscio della fortuna di un immediato concepimento cercato e voluto. Settembre. Durante la prima esperienza con quella cosa incredibile che è l’ecografia, quando le fantasie divengono realtà, il mio cervello inizia a lavorare al doppio della velocità. In preda ad innumerevoli loop ­ sarò padre, sarò padre, sarò padre ­ mi rendo conto che di gravidanza e parto ne so veramente poco. Mi basta la successiva mezz’ora in cui la ginecologa ci elenca le possibili tragedie che possono capitare, per capire che non è quello il tipo di cultura che voglio, non è quel tipo di visione della gravidanza che mi accompagnerà per nove mesi. In effetti potrei evitare di esternarle i miei sentimenti con un sonoro “Guardi, non me ne frega niente, io sono un inguaribile ottimista”, se non altro evitandomi la gomitata di Valentina. Tant’è che tornati a casa, dopo una cenetta di festeggiamento con il primo dei miei numerosi brindisi solitari, (è dura quando la tua compagna smette improvvisamente di bere), iniziamo a pensare a come gestire questa nuova esperienza ed automaticamente a crearci delle aspettative. Da chi farci seguire, dove partorire, che esami fare, che corsi fare, che cosa comprare, che libri leggere… tutte quelle cose che, da bravi principianti, iniziano ad affollarci la mente. Nei giorni successivi inizia la lunga trafila del reperimento delle informazioni, come spesso accade, nell’assoluto segreto: nessuno deve sapere. Ma emozioni così travolgenti difficilmente si riescono a

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5 CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE,COM ’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA

FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN

coinvolgenti: l’acqua da una fonte naturale di un monte francese a noi caro, gli incensi e mantra direttamente dall’India, le candele da Lourdes, la preparazione della colonna sonora giusta, insieme a tanta emozione ed impazienza di poter finalmente vivere dopo tanti mesi l’evento tanto atteso. Finalmente il 4 maggio 2009, ore 8 di sera, dopo un’intensa sessione di coccole, iniziano le prime contrazioni. Valentina: sono loro! Ma me le aspettavo più forti, eppure… eccola, eccola ancora, sì sì, sono loro… chiamo l’Ilaria! “Tranquilli, ci sentiamo più tardi, domattina passo e vediamo…” Sbotto: “Come domattina? Io stavo già scaldando l’acqua, tirando fuori gli asciugamani, accendendo incensi… come domattina?” Prima notte, insonne, contrazioni ritmiche costanti, dolore leggermente crescente, tanto amore e romanticismo ma nulla più. L’indomani durante la visita Ilaria ci chiede: ­ “Cosa vi aspettate che vi dica?” ­ “Naturalmente che è già mezza dilatata e che tra poco inizia la fase espulsiva” Risata di Ilaria. Un “‘zzo ridi? “ compare come un fulmine sgomitando tra i miei pensieri. Riesco a trattenerlo. Ma dopo quindici ore di travaglio iniziano a sorgermi dei dubbi… ­ “E quindi tra quanto succederà?” ­ “Non lo so, per ora va tutto benissimo, il collo è ancora chiuso ma si è assottigliato per bene, quindi va tutto alla grande…” ­ “Siì?” Facendola breve diciamo che tutto il romanticismo delle nostre aspettative inizia a scricchiolare verso sera, cedendo di schianto dopo le dieci, (26 ore di travaglio), quando Valentina con gli occhi ribaltati mi urla: ­ “Chiama l’Ilaria!” Penso: “Non sapevo fosse anche esorcista…” ma lo tengo per me. Dopo una mezz’oretta arriva Ilaria e, sussurrando parole magiche che solo lei e poche altre iniziate conoscono, riesce a calmare Valentina, ma non i dolori che continuano a salire. Visita: dilatazione due cm. Come due cm? Non si vedono già i capelli? Passano ore immerse in un’atmosfera rarefatta, fuori dal tempo, il cui ricordo è sfuocato, come immerso in una nebbiolina epica. Valentina trascende, chiusa nella sofferenza, in compagnia del suo dolore e dei suoi ormoni. Io la massaggio, l’accarezzo, assisto inerme, frustrato, “adesso mi do un morso così

soffro anch’io!”. Ilaria silenziosa, gentile, tranquilla, non smette mai di sorreggerci amorosamente: impagabile. Allo stremo delle forze, consigliata provvidenzialmente, Valentina decide di immergersi nella vasca riducendo ampiamente i dolori. Alle tre di mattina (trentun ore di travaglio) l’acqua calda non basta più, i dolori aumentano e Valentina cambia espressione, toglie la faccia scoraggiata, passivamente esausta per mettersi l’elmetto, “adesso ti tiro fuori io!”, cambia posizione ed inizia a spingere. Ilaria chiama Nadia, l’altra ostetrica, che arriva poco dopo con Eleonora. Valentina prima sta in ginocchio nella vasca, poi si attacca a tutto ciò che trova, tazza del water compresa, tirando con violenza ad ogni spinta, poi alza una gamba contro al muro in posa ginnica, spinge forte, si intravedono i capelli di Leo ma non basta, decide allora di uscire dalla vasca e… in bagno, in piedi, a gambe piegate, con l’espressione trasfigurata degli All Blacks neozelandesi durante la loro danza, aggrappata con tutto il suo peso al mio collo, in due superspinte alle 4,32 del 6 maggio 2009 mette al mondo nostro figlio, Leonardo Francesco.

Non ho il tempo di capire nulla. Ilaria lo prende mentre fa il suo ingresso nel nostro mondo e da sotto le gambe della neomamma me lo passa. Giuro, che mi ero fatto mille film su questo momento, “ho in mano mio figlio”, ma ecco, non proprio che ci si aspettava un travaglio di trentatre ore e mezza, né sinceramente una fase di dolori così forti per così tanto tempo… Fatto sta che le prime cose che ho pensato sono state, poco romanticamente “per dindirindina(*) finalmente, acciderboli(*) come scivoli!”. (*) eufemismi Altro che aspettative, eravamo esausti, e non era per niente finita. Piano piano Valentina si sdraia e io le appoggio il fagottino sul petto; a quel punto l’emozione e la stanchezza prendono il sopravvento. Non abbiamo memoria nitida di come la scena sia di colpo passata in camera, sul lettone, solo rapidi flash di pentole d’acqua, cellophane ed asciugamani insanguinati, urlettini del nuovo arrivato e consigli: “tienilo coperto che soffre il freddo, non toccargli la testa che è dolente, aiutala ad alzarsi, prendi questo, cerca quest’altro…”. Io in trance ubbidisco e mi muovo a comando, tanto efficiente quanto assente. Sono padre, sono

padre, sono padre ­ ricomincia il loop, questa volta sul serio. L’ultima sofferenza, sicuramente la più straziante, è l’espulsione della placenta. Valentina, stravolta, senza più energie né adrenalina a disposizione non riesce più a spingere. I nostri tre angeli custodi la incitano amorevolmente mentre Leonardo, da poco tranquillizzato, ricomincia a piangere in pura empatia con la madre. Finalmente dopo minuti interminabili anche la placenta si decide a nascere e dopo essere stata controllata minuziosamente da Eleonora viene depositata in una ciotola. Verrà poi lavata in un secondo momento e rimessa nella ciotola avvolta in un panno. Decidiamo di non tagliare il cordone ombelicale, aderendo al Lotus Birth, per ridurre al massimo il trauma della nascita. Lasceremo Leonardo unito alla sua placenta muovendoli all’unisono aspettando che il cordone si secchi e si stacchi da solo, cosa che accade normalmente nei primi tre/quattro giorni, come d’altronde succede anche al moncone, quando viene tagliato. Leonardo da subito “avanti” se lo strappa da solo il secondo giorno, iniziando con la “seconda nascita” la sua avventura in questa vita. Ora la placenta riposa sotto le radici di un mandorlo in campagna dove andiamo spesso.

Non vi narrerò della “fiera del principiante” che seguì queste ore intense, né delle reazioni di amici e parenti ai nostri racconti. Ci tengo invece a riportarvi la fierezza che ci pervade ogni volta che pensiamo a come abbiamo vissuto quest’incredibile esperienza, convinti che sia questo l’unico vero parto, con la sua sacralità, naturale nei tempi e rispettoso del nascituro in un momento che lo segnerà per tutta la vita. L’ospedale è necessario ed imprescindibile in tutte le complicanze, una risorsa benedetta che salva la vita, non una via insostituibile, con i suoi protocolli atti a ridurre a zero i possibili rischi, con le sue routine impersonali date dalla legge dei grandi numeri. È socialmente inaccettabile che pur non pesando minimamente sulla Spesa Pubblica, tranne in poche regioni virtuose, non sia riconosciuto un rimborso a chi partorisce in casa, creando di fatto l’impossibilità ai ceti più deboli di accedere a questa possibilità. Per quanto ci riguarda, in futuro, se avremo la fortuna di avere altre gravidanze così fisiologiche, senza ombra di dubbio rifaremo la stessa scelta. Ecco, se poi il travaglio dovesse essere un pelo più breve, non è che ci dispiacerebbe!

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6 NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL PELO. E

PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ

Benvenuta mio piccolo amore. Sei arrivata tra noi ieri mattina, domenica 3 febbraio 2008 alle 8.40 di una giornata piovosa… Non ti aspettavamo ancora, la data presunta per la tua nascita era il 10 aprile e invece hai sorpreso tutti, per primi il tuo papà e me. È iniziato il travaglio alle tre di notte (o dovrei dire mattina) di domenica ma io, che continuavo a rigirarmi nel letto in preda a forti dolori, ho pensato ad una colica intestinale: il mio cervello semplicemente non voleva accettare l’idea che fosse partito il travaglio. Ho comunque iniziato a controllare frequenza e durata di quelle che, di minuto in minuto, mi apparivano con ogni evidenza sempre più come contrazioni. Il tempo è passato in una percezione ormai lontana dai consueti parametri, la mente suggeriva che la colica intestinale aveva “eccitato” la vicina muscolatura uterina innescando un travaglio che presto si sarebbe arrestato, che doveva arrestarsi. E invece no; verso le sei e mezza ho fatto un bagno caldo che ha rilassato e disteso un po’ me mentre tu ti muovevi freneticamente al di sotto della mia pelle tesa, ma una volta uscita dalle vasca ­ a quel punto erano le sette e tuo fratello si era svegliato e mi reclamava ­ i dolori sono ricominciati con maggiore frequenza e intensità di prima. Tuo padre mi proponeva il pronto soccorso da più di un’ora, a quel punto ho deciso che non potevo più aspettare: ho fatto fare colazione a Michele, l’ho vestito, ho telefonato a Nadia che mi ha confermato che avrei dovuto andare al più presto al pronto soccorso, abbiamo portato tuo fratello e il cane dai nonni (è salito papà mentre io aspettavo in macchina paralizzata dal dolore) e poi siamo andati al pronto soccorso ostetrico dell’ospedale Buzzi. Quando sono riuscita a levarmi pantaloni e mutande l’iniziale rassicurazione della dottoressa: ­”Vedrà che si tratta di dolori intestinali”­ si è trasformata nell’evidenza di un parto imminente: c’era già una dilatazione di otto centimetri… Il dolore a quel punto era quasi continuo, tanto da rallentare il seguito: spostarsi in sala travaglio, alzarsi dalla sedia a rotelle, spogliarsi nuovamente e arrancare sulla “poltrona” su cui mi hanno fatta sedere, ormai grumo di paura e sofferenza paralizzato in una incredulità surreale. C’erano cinque persone in quella stanza: una di loro mi ha infilato una cannula di plastica in un braccio e mi ha infuso un antibiotico mentre un ostetrico cercava, inizialmente senza troppo successo, di mettermi le cinghie per monitorare il tuo battito cardiaco; hanno poi controllato tramite ecografia la tua posizione (fortunatamente cefalica). A quel punto il dolore si è condensato in una spinta che ha fatto esplodere un vortice d’acqua e un attimo dopo, nella

marea di male in cui stavo per annegare, sei nata tu. Un istante prima c’era solo senso di irrealtà e di sofferenza, quello dopo eri appoggiata alle mie gambe e alla mia pancia, minuscola come un seme non ancora germogliato, una piccola Pollicina tutta bagnata. Ti hanno portata via quasi subito, al reparto di patologia neonatale, appena il tempo che uscisse la placenta, che tagliassero il cordone ombelicale, che tuo padre accettasse il nome che avevo scelto per te già da tanto tempo…

Nel giro di poco siamo rimasti nella stanza io, tuo padre e Nadia. Soli senza di te. Io sola, vuota e incredula per quanto era appena accaduto, in preda ad un angosciante senso di colpa per averti dato alla luce troppo presto, per averti esposto a tanti rischi, per non averti saputo regalare il giusto tempo della gravidanza e del parto. Ti abbiamo rivista più tardi, il tuo primo tempo da sola, già posizionata in una delle incubatrici del reparto di patologia neonatale, con indosso solo un pannolino minuscolo ma comunque troppo abbondante rispetto al tuo corpicino. Il tuo peso alla nascita (già oggi hai iniziato ad affrontare il calo ponderale) era di 1,535 Kg. Che per la tua età gestazionale (30+2) ci hanno detto essere un ottimo peso. Da quando hai lasciato la mia pancia hai sempre respirato da sola per fortuna, i medici hanno solo aggiunto una piccola percentuale di ossigeno nell’ ambiente che ora ti ospita. Oggi ci hanno dato buone notizie: niente infezioni, ti sei scaricata bene, il tuo cervello si sta adattando bene alle pressioni esterne ma la cosa meravigliosa è che ci hanno permesso di toccarti ed è stato un momento unico. Sei minuscola e perfetta e delicata e remota ed enigmatica e buffa e indifesa e tenera e bellissima e terribile. Sei il nostro cucciolo minimo e assomigli tanto al tuo fratellino quando era appena nato.

Ci hanno detto che dovrai rimanere qui un paio di mesi. Da domani inizieranno a somministrarti piccole quantità del colostro che raccolgo per te con l’aiuto di un tiralatte nell’attesa che arrivi la montata lattea. Domani poi mi farò dimettere e quindi inizierò a fare la spola tra ospedale e casa. Non solo non abitiamo più lo stesso corpo già da un interminabile giornata ma tra qualche ora non passeremo più le notti sotto lo stesso tetto se pure su piani ed in ambienti diversi. Ho bisogno di tenerti fra le braccia, ho bisogno di riaverti con me per stabilire un nuovo contatto che non proceda più dall’interno ma dalla superficie delle pelli dritto ai nostri cuori. Benvenuta figlia mia.

Non ancora attesa Laura C. mamma

ASPETTATIVE RIPRODUTTIVE

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7 GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA

RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE

At the beginning of your world, I was part of you. Made of the same luminous fabric, flesh of your flesh, of our father and mother's being.

As we grew, we were separated but united. I fed you, breathed for you, became a pathway for the flushing currents of our mother's blood.

As you slept, I was your cradle and your guard: when you awoke I was your companion. Together for that last day I leashed you to the very limits of our linking line before releasing you the touch of others - lovers, yes - but surely none will hold you as nearly, as sweetly or as softly as I did.

As our connection was severed you cried aloud then were gone. Carry me deep in your heart as you bury me in the soil of your home, for I am the earth of your making.

Kate S. ostetrica ­ New Zealand

All'inizio del tuo mondo, ero una parte di te. Fatta della medesima stoffa luminosa, carne della tua carne,

la stessa essenza di nostro padre e di nostra madre.

Cresciuti, ci siamo separati, ma restavamo uniti. Io ti ho nutrito, respiravo per te,

ero la via in cui scorreva il sangue di nostra madre.

Quando dormivi, io ero la tua culla e il tuo guardiano: quando ti svegliavi ero la tua compagna.

Insieme fino all'ultimo giorno in cui, legato a me, ti ho accompagnato al limite di quel confine che ci univa

prima di lasciarti andare al tocco di altri ­ amanti, sì ­ ma sicuramente nessuno ti terrà così intimamente, così dolcemente e così teneramente come ho fatto io.

Quando la nostra unione è stato interrotta hai pianto forte poi te ne sei andato.

Portami con te nel profondo del tuo cuore mentre mi seppellisci nella terra di casa nostra,

perché io sono la terra del tuo essere.

Whenua è una parola Maori ha vari significati. Whenua è la terra a cui si appartiene, e che non ci appartiene (i Maori quando si presentano dicono a quale luogo appartengono, generalmente una foresta, una montagna). Whenua è la placenta che ci sostiene fino al passaggio dal mondo dello spirito a quello della terra. Whenua è la madre terra che ci dà il cibo per sopravvivere. Whenua è da onorare, da rispettare, da nutrire. L’onore, il rispetto e il nutrimento dato a Whenua verrà restituito con grande generosità, sempre!

*

WHENUA*

Oggi è il cinque ottobre del 2009, sono quindi passati venti mesi due giorni fa da quando ti ho scritto queste prime parole, mio gatto. Venti mesi anagrafici ma solo diciotto corretti e ne mancano ancora quattro prima che il tempo per te inizi ad essere calcolato come per gli altri bambini; dai due anni in poi quelle settimane che ti hanno portato con così largo anticipo fra noi saranno state assorbite dalle pieghe dei giorni, da quei primi momenti insieme finalmente fuori dall’ospedale quando in un tempo incredibilmente breve hai imparato a ciucciare il mio seno, dai progressi continui di una fortunata normalità, dalla storia segreta che porti scritta nell’anima. L’altro giorno ho conosciuto una mamma, e parlando le ho raccontato della tua prematurità e dei grandi problemi e sensi di colpa che ho vissuto in relazione a questa. Lei mi ha detto che per il suo punto di vista ognuno ha un suo destino e certe sofferenze sono inutili: ­“Che ne sai che Maia arrivando non vi abbia risparmiato qualcosa di brutto che avrebbe potuto invece arrivare se il tempo del parto si fosse concluso?” Mi ha colpito profondamente questo concetto; ho pensato che fosse un gran bel pensiero che tu avessi potuto proteggere te, me o tutte e due, ho pensato che fosse meglio finalmente guardare il bicchiere mezzo pieno, una volta tanto, anche perché la tua crescita procede a meraviglia, hai una forza e un’energia veramente strabilianti e forse, proprio in vista dell’odierna tranquillità, è inutile che io mi soffermi troppo su ricordi di sondini naso­gastrici usati per alimentarti o di altri usati per stimolare l’evacuazione. In fondo adesso so come sono andate le cose e quindi posso concentrare i ricordi di quel primo mese sul contatto col tuo corpicino caldo, con la tua manina infinitesimale, sulla visione estasiata della tua perfezione che si coniugava in lievissimi mutamenti d’espressione, lievi come increspature sull’acqua. In fondo adesso so com’è andata la storia e posso anche chiamarla favola.

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8 FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE

NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE,COM ’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA:

LETARGO Simonetta B. mamma

Ho ancora vivido il ricordo degli ultimi giorni di mare settembrini quando, insieme a mio marito, decidemmo di avere un bambino… tempo due mesi ed ero incinta! La gioia fu forte e profonda come anche il dolore per la sua interruzione avvenuta dopo poche settimane. Ci dicemmo che sicuramente sarebbe iniziata una nuova gravidanza molto presto visti i tempi precedenti e che fosse necessario solo un pochino di riposo e poi ci saremmo messi di nuovo all’opera. Le nostre aspettative erano molto rosee e oserei dire elementari. Non credevo di desiderare molto, ma volevo la vita dentro di me.

Abbiamo attraversato ogni stato emotivo e confusionale possibile nei due anni successivi, rimanendo sempre ancorati a quell’unica aspettativa iniziale: concepire un figlio. Ho un lavoro che complicava ulteriormente la situazione: sono un’ostetrica. Lavoro da sette anni in un ospedale in cui nascevano in media sei bambini al giorno e ognuno di loro “apparteneva” ad una coppia che io ritenevo fortunata; in quei due anni la professione che avevo sempre svolto accompagnando i genitori verso il lieto evento con amore ed empatia, era diventata forzata, avevo la sensazione che “loro” potessero capire o potessero farmi troppe domande a cui io non avrei saputo rispondere serenamente lasciando trasparire i miei veri sentimenti. Dopo il primo anno odiavo la mia regolarità mestruale che prima di allora mi era sembrata segno di salute; il primo giorno mestruale era anche il mio giorno del pianto. Che cosa succede ad una coppia che affronta tutta questa situazione? Attraversa fasi altalenanti tra il sostegno reciproco e l’attribuirsi la colpa l’un l’altra; in momenti veramente bassi pensavo che avrei dovuto trovare un compagno molto giovane quindi idealmente più fertile: tutto è veramente possibile in una situazione del genere; non abbiamo però permesso alla medicina tradizionale di entrare nella nostra fertilità. Entrambi eravamo sicuri nel rivolgerci a qualcuno che ci aiutasse in modo “alternativo” senza attraversare prelievi vari e controlli giornalieri dei nostri corpi. Anche in questo caso le aspettative erano alte e credevamo che con l’aiuto “del naturale” il nostro bambino sarebbe arrivato subito; invece i terapeuti ci ripetevano ogni giorno che bisognava avere pazienza e non cercare il concepimento sino a che le nostre energie non fossero tornate ai livelli ottimali per sostenere una gravidanza. Per ancora un nuovo anno siamo stati in uno stato di letargo aspettando il risveglio. Il nostro bambino è arrivato esattamente due anni dopo l’aborto spontaneo con una forza che ho sentito appartenergli sin da subito per restare con noi. Io e mio marito per molti mesi abbiamo detto che nostro figlio è arrivato grazie all’aiuto dei nostri terapeuti tanto cari; ma ora ripensando alla nostra storia siamo convinti che abbiamo fatto spazio al nostro bambino allontanando tutte le aspettative che abitavano in noi. Il nostro non aspettarci più nulla ha creato il vuoto dentro di noi, ma un vuoto positivo, un vuoto­nido che ha potuto accogliere nostro figlio che ora a due anni di distanza corre per la stanza con i suoi giochi.

Ho deciso di raccontarvi la mia storia in seguito alla lettura del libro di Margaret Mazzantini “Venuto al mondo” che in un modo meravigliosamente complesso come è nel suo stile ha raccontato la storia di una maternità negata con una intensità che mi ha commossa; vorrei riportare un piccolo brano rappresentativo: “Io non soffro più. Ho già sofferto. Forse mi sento addirittura sollevata. Non sarò mai una madre. Resterò per sempre una ragazza. Invecchierò così, asciutta e sola. Il mio corpo non si sformerà, non si moltiplicherà. Non ci sarà Dio. Non ci sarà Natale. Invecchierò così. Morta, ecco come mi sento. Serena, in pace, perché trapassata. Il guado della vita è qui, in questa strada che attraverso con le mie gambe di sempre. C’è un cartello attaccato al mio petto, come al collo dei poveri, come le targhette dei cani. DONNA STERILE.”

ASPETTATIVE RIPRODUTTIVE

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9 RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI

ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA

La mia difficile esperienza di madre adottiva mi ha portato a riflettere sul tema dell’infertilità e soprattutto su quanto questo porta con sé. Ho vissuto personalmente l’ansia che si nasconde dietro all’attesa di un figlio che non arriva (nel mio caso il secondo), quanta paura, quanta angoscia, quante cose... Ho capito che se il Tribunale dei Minori mi avesse rifiutato l’idoneità (cosa che adesso penso avrebbe forse dovuto fare) io avrei mosso mari e monti, avrei lottato come una leonessa, affermando che il tribunale non aveva idea, che erano incompetenti, che io avevo già una figlia biologica e sapevo perfettamente essere madre... E in questi miei atteggiamenti riconosco il processo e l’ossessione di tante coppie (sempre più numerose in occidente) che persone e poche istituzioni aiutano a elaborare il possibile lutto del non poter procreare, a parte il proporre soluzioni sempre più sofisticate e estenuanti per dar risposta a questo desiderio/ necessità, cosa che non affronta il problema ma che lo evita. Sono assolutamente d’accordo con il criterio (nel caso dell’adozione) che pone come fine prioritario quello di dare una famiglia a un bambino e non il contrario: dare un figlio a una coppia. Ma in questo momento vorrei condividere con voi la mia riflessione sulla coppia ferita nella sua fecondità.

DIO, PERCHÈ NON POSSO AVERE UN FIGLIO? “Il Signore mi ha impedito di procreare: dormi con la mia schiava, forse da lei potremo avere figli... ” (Genesi 16,1­3) Una delle crisi più drammatiche della storia della limitazione umana è quella legata al non avere uno specchio nel quale rispecchiarsi: un figlio. Non avere figli è una forma di trasgressione della legge divina “cresci e moltiplicati”. In oriente la donna che non generava figli era considerata un ramo secco perché non poteva dare al marito la continuità del nome, non gli assicurava l’immortalità assegnata alla sequenza dei figli che continuavano la memoria del padre. Sara e Abramo, coscienti e tristi per la loro sterilità di coppia, si dispongono a porre in pratica il primo “tentativo di fecondazione assistita” della storia, senza tener in conto il progetto di Dio. Sono un esempio del dolore e dell’oscurità che vive la coppia infeconda. L’infertilità è un’esperienza difficile e frustrante che porta a volte anche a dubitare della bontà di Dio, che è un padre buono coi suoi figli. Se per Dio nulla è impossibile, si chiedono molti, com’è possibile che lasci in piena sofferenza e oscurità tante coppie che per anni sperano di poter essere feconde, senza che succeda nulla? Se i figli sono la benedizione di Dio, come dicono le distinte religioni, che colpa ha la coppia che non riesce a generarli? E quando la fede non è sufficiente per affrontare questa ferita, aumentano le frustrazioni e il senso di impotenza contro un destino che si considera ingiusto. Si tenta quindi di sfidare il limite ricorrendo alla scienza e alla medicina. Ma il cammino non è facile, in nessun senso, e nella Chiesa non si trova una grande consolazione, né l’appoggio per affrontarlo. “Perché la dottrina della Chiesa ancora oggi riesce a far sentire in grave colpa la donna che ha deciso

coscientemente, sulla sua pelle, di affrontare la scelta più difficile? E perché ci etichetta, a noi aspiranti madri in vitro, come amorali? Forse perché chi si vede spinta dalle circostanze della vita a imboccare altri cammini, è meno degna e meno amata da Dio di chi ha figli in modo naturale?” (Patricia)

LA RISPOSTA MEDICA E L’ADOZIONE La medicina come prospettiva tecnico­scientifica esalta la conoscenza razionale dei sintomi e delle cause, dimenticando continuamente gli aspetti soggettivi e sociali del problema. Nel caso dell’infertilità, come in molte altre situazioni, si ha bisogno di un focus olistico (globale), che comprenda gli aspetti psicologici ed emotivi del paziente: dubbi, paura, frustrazione per gli insuccessi ripetuti, accettazione di uno scopo... Molti medici e centri di procreazione medica assistita riconoscono che il 15% delle cause di infertilità sono psicologiche. Quando un uomo o una donna ricevono una diagnosi di infertilità, o peggio di sterilità, comincia un processo di riconoscimento del limite biologico che li esclude dal progetto “umano” e li fa sentire diversi. Ci si rivolge alla medicina per risolvere un problema, ma durante il processo diagnostico e terapeutico la coppia si rende conto dell’invasione della scienza nella sfera più intima della propria relazione, quella della procreazione. Davanti alle difficoltà oggettive dei trattamenti contro l’infertilità (difficoltà economiche, stress, salute…), molte coppie optano per l’adozione, che è una risposta che li fa sentire persone migliori. L’adozione, in occidente e in questo momento storico, gode di un’immagine idilliaca come atto altruista da parte della famiglia che accoglie. Per fortuna le condizioni per poter adottare sono sempre più serie e permettono ai futuri possibili genitori di farsi un’idea reale di cos’è l’adozione, con tutte le sue difficoltà. Non è facile aiutare la coppia a decifrare le vere motivazioni per le quali vuole adottare: sia l’oblazione totale che l’egoismo sono motivi pericolosi per un’accoglienza corretta, che sia proficua tanto per il figlio che per i genitori.

LA COPPIA GENERA UN FIGLIO O IL FIGLIO GENERA LA COPPIA? “Credo che un figlio faccia sentire più stabile una coppia, le dia solidità... ci manca un figlio... non mi sento totalmente donna.” (Marta) Nei casi di infertilità la frustrazione del desiderio sembra impossessarsi della vita completa dei coniugi, dando vita ad atteggiamenti diversi negli uomini e nelle donne. In genere gli uomini tendono a fissare delle mete lavorative per rivalutare la loro autostima ferita. Le donne, invece, spesso abbandonano gli interessi esterni alla famiglia, incapaci di sostituire il desiderio frustrato di maternità. Il figlio diventa sempre più un componente fondamentale dell’affermazione e realizzazione personale. Gli si chiede di essere frutto ed elemento fondatore della coppia. È come se il figlio

Mercedes M. mamma

Il lutto dell’infertilità ASPETTAT

IVE RIPRODUTTIVE

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10 VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO

GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME

“generasse” la coppia, dal momento che senza l’elemento procreativo questa non sembra ancora incontrare un senso. Capita sempre più spesso, oggi, che non sia sufficiente desiderare un figlio per poterlo avere. Esistono aspetti incoscienti quando la donna o la coppia non riesce ad accettare e vivere la maternità/paternità. Desiderare un figlio significa una rappresentazione emotiva, psicologica e affettiva di sé, in quanto essere generante disposto ad accettare un “altro” se stesso, straniero e familiare allo stesso tempo. Non tutti riescono. Essere madre/padre significa passare dall’altro lato dello “specchio”, essere la persona che porta il bambino concepito prima nella testa e adesso nel corpo. La coppia, in assenza del figlio, può percepire la propria vita come drammatica e insoddisfacente. La colpevolezza del coniuge sterile può essere uno dei motivi di conflitto che a volte deve affrontare la coppia. Il figlio è chiamato a cementare la relazione, indispensabile per sentirsi uniti nella missione procreatrice. Se è garanzia della coesione della coppia, senza di lui la relazione potrebbe disfarsi. Ecco dunque che il bambino, già prima di nascere, ha una missione nel mondo, un ruolo: fondare la coppia e contribuire alla realizzazione personale dei genitori. Quanto è importante avere un figlio per strutturare la vita della coppia e per la propria sopravvivenza? Quanto la sua assenza la rende fragile, bisognosa di stampelle? È la coppia che genera il figlio o il figlio che genera la coppia? L’attesa può essere un’occasione di riflessione e conoscenza, per occuparsi di se stesso e della coppia. Aspettare dà la possibilità di guardarsi in faccia tra coniugi, di darsi la mano per sostenersi reciprocamente, di camminare insieme vivendo il presente. L’attesa può essere il momento di chiedere un aiuto esterno per porsi domande sulle proprie capacità, desideri e progetti… e per accettare quello che si è e i propri limiti personali e di coppia...

LA DIFFICOLTÀ DI ACCETTARE IL LIMITE “Per me la sterilità è l’incapacità di fare qualcosa che moltissime persone fanno normalmente. Ci si sente inutili, falliti… Se manca un bambino è come se mancasse qualcosa dentro. È come un attacco alla mia identità, al mio essere come persona” (Ester) Non è facile accettare la propria sterilità personale o di coppia: si comincia a pensare di non essere degni, di non meritare la maternità/paternità. L’attesa del figlio che non arriva, esperienza che può durare mesi, anni, può essere una storia angosciante e sorprendente, rivelando al contempo aspetti insospettati di se stessi, a volte fecondi. Ci sono donne che si sorprendono dei sentimenti di invidia, gelosia e odio, addirittura verso il bambino che non arriva, verso sorelle, amiche, cognate... che facilmente annunciano gravidanze, curiosamente non cercate! Il timore della sterilità può mettere in crisi la percezione del senso e del valore dell’essere femminile e della famiglia. Può nascondere sofferenze e dolori psicologici perché non si riesce a concepire un orizzonte senza un figlio. Nessuno riesce a riempire questo desiderio­necessità, e niente deve interporsi verso questa meta. A volte ciò scatena un’ossessione e una ricerca ansiosa di varie strategie sempre più rischiose e invasive (soprattutto per la donna). Il dolore per la mancanza di un figlio a volte è anche un dolore del corpo, che è diventato in­capace, in­valido, in­abile... e lo dimostra con disfunzioni fisiche. Cefalee, tachicardie, gastriti, fibromi, cisti ovariche, vaginismo e addirittura la “gravidanza isterica”, possono avere origini psicosomatiche. Secondo la psicologia psicosomatica, l’apparato riproduttivo ha la funzione di vincere l’archetipo della morte. Vincere la morte significa che l’uomo e la donna adulti capaci di generare sollecitano al

figlio la parte di progetto di immortalità che loro non possono realizzare autonomamente. Questo corpo, percepito ora come sterile, cerca di recuperare la sua capacità attraverso strumenti scientifici. Inoltre ci sono fasi nella vita di una donna durante le quali la sofferenza per l’assenza della maternità è più acuta: la frustrazione sul lavoro, nei rapporti, nella coppia... contribuiscono ad amplificare le energie emotive investite nel generare un figlio. Il figlio evoca un lutto annunciato per la mancanza di fecondità sociale e della vita interna.

APPROFITTARE DELL’OCCASIONE PER CRESCERE “Forse l’esperienza dell’assenza di un figlio mi ha fatto passare dall’adolescenza alla maturità nei miei trentaquattro anni. Sì, perché indipendentemente dall’avere un lavoro soddisfacente, un marito stupendo, una bella casa… ho vissuto i primi anni di matrimonio un po’ sulle nuvole, certa del nostro futuro radioso come lo avevo sempre sognato. Ero sicura che la felicità era a un passo, mancava solo un figlio, a coronamento di tante opzioni sensate e responsabili, e motivo ultimo che credevo della mia vita. Questo sogno, questa grande aspettativa spezzata, mi ha convertita in uno di quegli adulti frustrati che da giovane mi dava tantissima rabbia, perché li vedevo ingiustamente insoddisfatti di fronte a tanti doni ricevuti o conquistati, dal punto di vista sociale, professionale e affettivo. Non consideravo gli scherzi del destino, il fatto di non poter controllare tutti i progetti della mia vita...“ (Maria) I conflitti possono essere un’occasione di crescita personale e collettiva. Ma solo se accettiamo di metterci in gioco, se riusciamo a superare la paura. È possibile approfittare dell’occasione come individuo e come coppia per uscirne rinforzati. Forse per decidere di smettere di camminare insieme, in ogni caso per elaborare, senza nasconderci, quello che ci fa male, che temiamo e che ci angoscia.

IMPARARE A CHIEDERE AIUTO, ACCETTARE AIUTO In generale ci riesce più facile offrire aiuto che accettarlo. Ma ci risulta ancora più difficile chiederlo. Nell’infertilità, quando la ricerca diventa ossessiva, si finisce per provare di tutto: ormoni, procreazione assistita, adozione, psicoterapia, agopuntura, shiatzu, yoga, reiki... Di tutto, tranne chiedere aiuto per elaborare il lutto e cercare altri modi di essere fertile. Riuscire a prender coscienza del problema per poterlo riorientare verso una fertilità più ampia (come tutto quello che la donna o la coppia sanno creare, dare alla società), aiuta molti a riconciliarsi con una parte di loro stessi che pensavano di aver perso. Nei corsi prematrimoniali della mia parrocchia insistiamo moltissimo su questo aspetto, su come la fecondità si può esprimere attraverso l’accoglienza, la condivisione, l’apertura, la compassione, il volontariato... L’accoglienza temporanea di bambini, ad esempio, è sempre una soluzione a cui le coppie non danno valore, perché la realtà è che si vuole un figlio “di proprietà”. Chiedere aiuto per fare questo salto costa molto, ma trovarlo aiuta a sbloccare e a dar fertilità a più di una famiglia allo stesso tempo. “Ieri ho chiesto durante l’Eucarestia della mia parrocchia, nel giorno della Vita e della Famiglia: ricordiamoci delle coppie che aspirano ad essere genitori, quelle che aspettano la cicogna della provetta, quelle che aspettano il tribunale dei minori, quelle che rinunciano.” (Isabel)

Alcune citazioni sono tratte dal libro di Cristiana D’Orsi “Sara, Elisabetta e le altre... La femminilità ferita tra desiderio e limite della maternità” Edizioni Psiconline

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11 AD OVULARE,COM ’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO!

L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO

Quando portavo i miei bambini nella pancia la mia testa era piena di pensieri “dorati” del tipo: “Quanto sarà meraviglioso averli in braccio, addosso, allattarli al seno…” e via discorrendo. Ma si sa, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare! E c’è stato un abisso tra i miei pensieri “dorati” e quello che poi mi sono ritrovata a vivere. Il mio primogenito nasce, il 24 novembre 2005, a conclusione di una gravidanza assolutamente fisiologica e direi splendida, con un cesareo d’urgenza dal quale ho impiegato molto tempo a riprendermi, più nell’anima che nel corpo. L’allattamento? Un periodo faticosissimo fatto di lacrime, litigate con mio marito e poco latte. Nonostante l’impegno e la dedizione la relazione “alimentare” tra me e mio figlio non decolla. Lui ha bisogno di molto più latte di quanto io riesca a produrre. In compenso ho di che essere lieta, il bambino cresce bene (pur con il latte artificiale), è sano, simpatico, allegro e io lo amo moltissimo. Nonostante le fatiche e la solitudine (perché non ho parenti vicini disponibili) desidero altri figli. Mio marito non è del mio stesso parere. Lui è fermo allo shock subito in occasione della nascita del nostro bambino e non vuole proprio saperne. Nell’estate del 2007, Edoardo ha venti mesi circa ed io scopro di essere incinta. Ne sono felicissima, mi sento bene, in forma, vitale ed energica. A me la gravidanza fa quest’effetto. Mi sento decisamente meglio rispetto al solito. Questa gravidanza mi offrirebbe la possibilità di riscattare il mio cesareo. Mio marito, invece, è piuttosto furioso. Mi ripete che

non se la sente, che non si sente pronto ad accogliere un altro figlio e il mio entusiasmo lo innervosisce ancora di più. Diventa ostile, passano i mesi ed io mi sento sola durante questa seconda gravidanza. Fisicamente sto bene, non proprio come la prima volta ma me la cavo bene (si capisce, avere un piccolo di quasi due anni da curare, lavorare, e non concedersi di chiedere aiuto è faticoso). Purtroppo alla ventinovesima settimana cominciano i problemi: la piccola minaccia di nascere in anticipo, troppo in anticipo! Sono costretta ad un paio di ricoveri e poi ad osservare un mese di assoluto riposo. È stato un periodo davvero difficile da gestire, tanto difficile! La gelosia del bambino comincia a manifestarsi in quel periodo. Ringrazio tutte le operatrici della Casa di maternità e le mamme dei compagni di nido di mio figlio che mi hanno dato tanto sostegno e tanto coraggio in queste settimane in cui i miei sentimenti oscillano tra la paura per chi ho nella pancia e i sensi di colpa nei confronti di chi non può più ricevere le stesse attenzioni dalla sua mamma. Nonostante tutto arrivo in fondo alla mia gravidanza e partorisco. Che emozione e che felicità provo stringendo la mia bambina appena nata. Questo mi dà una grande carica. Mi sento una donna felice e fortunata, con due figli sani e belli. Le prime settimane post partum sono molto impegnative ma sento di avere le energie per farcela. Nonostante le notti insonni per le lunghe sedute di allattamento e l’altro figlio “incazzato” per questa sorella arrivata senza che lui l’abbia richiesta, riesco a stare bene.

Ma presto la stanchezza prende il sopravvento. Intorno al secondo mese di vita della bambina comincio a sentirmi esausta. A nulla servono il multicentrum materna e vari altri integratori che ingerisco. Un po’ meglio va con le sedute di agopuntura. Ho bisogno di tregua, di riposo, di supporto e comprensione da parte di mio marito che invece ha sempre qualche motivo per essere più stanco di me. La piccola verso sera è ingestibile tra pianti e “tetta”, e il maggiore non vuole più saperne di dormire nel suo letto. Con lui ho bisogno di concentrarmi anche sull’eliminazione definitiva del pannolino (di lì a poco dobbiamo affrontare l’inserimento alla scuola materna) e le sue regressioni in tal senso sono numerose. Nel frattempo si avvicina la data di una prova di concorso per il quale dovrei prepararmi. La piccola comincia a prendere meno peso settimanalmente e così comincio con l’aggiunta di latte artificiale. Per fortuna, nonostante l’aggiunta con il biberon, lei continua a richiedere il seno e così lei è allattata anche da me fino all’ottavo mese. Io non sono un granché come “nutrice”, ma entrambi i miei figli mi hanno dato grandi soddisfazioni con lo svezzamento e me ne danno tuttora perché sono proprio dei buongustai. Quanto diverse possono essere le cose rispetto a come ce le si aspetta, soprattutto quando si chiede tanto, forse troppo a se stessi! Io credo di fare continuamente quest’errore. Vorrei fare mille cose e farle tutte bene, anzi perfettamente! Essere mamma di due bambini piccoli, avere tante cose a cui pensare e provvedere, mi ha insegnato che non

Non sono

wonder woman Leanna F. mamma

ARRIVANO I NOSTRI

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12 PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI

COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ

Ho proposto questo tema alla redazione dell’Uovo. Mentre scrivevo della gelosia di Gabriel, pensavo a come erano state diverse le gravidanze del primo e del secondo figlio. Pensavo che il secondo doveva essere una femmina, nella mia mente era ovvio, e invece si chiama Louis. Prima aspettativa delusa, sebbene poi rapidamente digerita. Pensavo al fatto che Louis sta spazzando via ciò che rimaneva di me, delle miei velleità di condurre ancora un po’, ogni tanto, la vita di prima, di essere quella di prima. “In qualche mese sono tornata come prima”, si pensa innanzitutto alla forma fisica, e quest’aspettativa, come molte altre, viene a rispondere alla paura, paura proprio che questa pancia gigante (e tutto il resto, chi più ne ha più ne metta) non ridiventi mai più come prima. Ma non si tratta soltanto del corpo, ma proprio della propria vita, del proprio senso di sé. Secondo me il corpo (e non solo) non torna mai come prima, perché l’esperienza stessa della gravidanza, del parto, lo trasforma definitivamente, a prescindere dall’aspetto esteriore. Che vuol dire tornare come prima? Come dice Stern, quando nasce un bambino nasce una madre. Il mio primo figlio mi ha fatto diventare madre, e il secondo ha segnato la via di non ritorno: forse in qualche angolo del mio cervello era rimasta ancora viva quest’idea di “tornare come prima”, non fisicamente ma in qualche altro modo non bene specificato, qualcosa che non ti spinga verso il dopo, non essere più l’ultima, ma in mezzo tra i tuoi genitori e i tuoi figli. Ma in realtà nei momenti più difficili, la persona che sono (nel bene e nel male, direi) ricompare, con i suoi atteggiamenti radicati profondamente, per difendersi, difenderli. Questa famiglia mi spiazza, Gabriel l’angelo caduto dal cielo, il bambino meraviglioso, è diventato il diavolo in persona, e, a volte mi è sembrato di non riuscire neanche più a provare amore per lui, ma soltanto rabbia, perché mi strema, mi chiama ad una sfida continua. E penso: “tanti anni di lavoro su me stessa, ed eccomi messa in scacco da un ragazzino di quattro anni, mio figlio per giunta”. Allora, ecco che spunta un’aspettativa, o meglio un timore (ma sembrano camminare a braccetto: “questo ragazzo all’adolescenza me ne farà vedere di tutti colori”. Io mi aspetto che ogni mio errore mi verrà rinfacciato, brutalmente. Non è forse ciò che ho fatto con mia madre, prima di avere figli, considerarla responsabile di ogni mio male? Avrò io la forza di reggere quella bufera se già adesso il mostriciattolo mi mette a terra? Non mi sento adeguata nel proteggere Louis, che spesso e volentieri viene scaraventato sott’acqua mentre io dovrei vigilare al bagno comune, ma la verità è che Gabriel cambia radicalmente carattere se c’è il fratello, tranne se

Una collana

Judith M. mamma

di aspettative sono wonder woman e che devo arrendermi al fatto che anche le mie energie possono toccare il fondo. Il mio stile nell’essere mamma è forse “troppo”, in termini di andare incontro alle loro esigenze. Pretendo di essere sempre pronta e disponibile con loro e continuamente mi dico che dovrei insegnar loro ad attendere, perché anch’io posso avere fame, sonno, essere stanca, annoiata o altro. I miei figli sono impazienti, qualsiasi sia il loro bisogno vorrebbero vederlo soddisfatto immediatamente. Penso sia colpa mia. Se a questo aggiungiamo che esiste un papà che approfitta ben volentieri di una mamma così disposta e disponibile a pensare a tutto, il cocktail si fa esplosivo. Un giorno il mio bambino più grande mi ha chiesto: mamma perché ti piace fare le cose per gli altri? Mi ha colpito la sua domanda. Gli ho risposto che non avrei potuto diventare mamma se non mi fosse piaciuto fare le cose per gli altri e che comunque è bello (intendendo gratificante) imparare a fare le cose da soli, senza attendere che siano gli altri a farle per noi. In questi ultimi mesi ho imparato a chiedere aiuto e a costruirmi intorno un po’ di rete che possa essermi di supporto in caso di imprevisti o di emergenze di qualsiasi genere. Oggi i miei bambini hanno quasi quattro anni il maggiore e sedici mesi la piccina e ormai mi sento fuori dal peggio. Di tanto in tanto trovo anche il coraggio di pensare: e se avessi un terzo figlio prima dei miei quarant’anni? Sono troppe però le condizioni che dovrebbero verificarsi, per cui penso che desisterò da questo desiderio, ora che mi sembra che la nostra famiglia abbia ritrovato un certo equilibrio. Mentre scrivo i miei bambini sono in vacanza con il papà, circostanza non cercata ma obbligata, e questo mi ha permesso di scoprire due cose importanti.

­ Anche mio marito è perfettamente in grado di badare ai suoi figli, certo a modo suo, ma lo sa fare.

­ Posso farcela anche senza di loro; il senso di vuoto è forte e la paura di non essere più così “speciale” per loro, altrettanto, ma per cinque giorni riuscirò a resistere.

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13 POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME

ASPIRIAMO AD OVULARE, COM’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO!

quest’ultimo dorme. Certe volte mi chiedo se potrebbe degenerare… E cerco di vigilare, ma vorrei anche favorire un incontro, e la pazienza mi manca. E poi vedo Louis che guarda il fratello con la felicità negli occhi. Non ci capisco nulla. Lo adora. Louis non fa niente come mi aspettavo, memore del fratello. Ho sempre pensato che questo secondo figlio potesse comportarsi diversamente e pormi problematiche differenti, ma ciò nonostante non ero preparata. Nella memoria procedurale c’era l’esperienza vissuta con Gabriel il divoratore di pappe e Louis non ne vuole sapere, Gabriel curioso di ogni nuovo cibo, mentre Louis chiude la bocca con aria schifata. Louis è un koala, Gabriel a nove mesi si addormentava da solo nel letto. Louis ha adesso un anno, e non solo si addormenta soltanto in braccio o poppando, ma si sveglia immediatamente se intendi riporlo nel suo lettino, soltanto il lettone fa al caso suo. D’altra parte, penso che Louis saggiamente non si senta al sicuro, e abbia capito che la vicinanza con noi sia necessaria alla sua sopravvivenza in questa casa­giungla… Aspettative… Come rimanere aperti alla novità, come non essere condizionati dall’esperienza? D’altra parte è proprio l’esperienza che ci fa crescere. Anche il parto mi ha spiazzata: per Gabriel attesa, uno, due, dieci giorni dopo il termine e poi contrazioni, contrazioni e nulla, nulla avanzava, nessun apertura del corpo ­ e si taglia. Per Louis quindici giorni prima del termine, mentre sto per mettermi a studiare per l’ultimo esame, acqua: si rompe il sacco. Passano tre giorni. Aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo. Agopuntura, manovra osteopatica: nulla, neanche l’ombra della più piccola contrazione… Non me l’aspettavo, mi aspettavo tante cose, e anche che non sarebbe andata come desideravo, ma non mi ero immaginata questo. I miei parti sono dolorosi ricordi, entrambi, di sogni delusi, e della forza della bellezza del dopo. Temevo di non innamorarmi di Louis come mi sono innamorata di Gabriel,

e invece è successo, meravigliosamente. Gabriel l’ho amato con gli occhi, anche perché non l’ho toccato subito ma dopo un po’ di ore, e Louis l’ho amato con il naso, perché me l’hanno spiaccicato in faccia mentre mi ricucivano la pancia, e l’ho potuto annusare ben bene, quel bambino meraviglioso fresco fresco e me lo ricorderò sempre quell’odore. E poi è stato subito lì con me e praticamente non è più uscito dal lettone. Ma torniamo alle aspettative: allora volevo una figlia femmina, perché io sono la seconda dopo un maschio e mio marito è il primo di due e ha una sorella, e insomma la famiglia perfetta un maschio e una femmina, celeste, rosa, ecc. E poi pensavo al meraviglioso rapporto di una madre con sua figlia, alla bellissima relazione che ha avuto con mia nonna, al desiderio di trasmettere l’esperienza femminile. È stato un piccolo terremoto interiore quando l’ecografista ha annunciato la notizia. Ma la cosa sorprendente è che era veramente un’immagine, perché poi mi sono accorta che in fondo non aveva alcuna importanza. Erano immagini finte, acquisite dall’esperienza appunto, ma non reali. Allora mi è sembrato meraviglioso che quel secondo bambino fosse proprio un maschio, che la vita avesse voluto rompere il mio quadretto preconfezionato. Così almeno su questa mia famiglia non ho tante aspettative, perché non ci capisco

nulla, unica donna in una casa di maschi (non oso pensare a quelle che ne hanno tre o quattro di maschi, ne conosco, forse dovrei chiedere loro come fanno). Ma poi quali aspettative hanno i miei figli nei miei confronti? Vorrebbero una mamma sempre disponibile e buona, una madre instancabile e senza bisogni personali? E io vorrei essere questa madre? Mentre mi sento il più delle volte impotente, stanca e arrabbiata perché non sono sempre disponibile e buona. Perché in fondo le aspettative più pesanti sono quelle che nutriamo su noi stessi. Ma poi c’è sempre il bacio della buona notte, e una favola per ricomporci.

ARRIVANO I NOSTRI

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14 L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE

PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ.

silenzioso, uno che di notte si fa sette ore di sonno filate. Quello che arriva ti può stressare, può anche cambiare così tanto la tua vita che lo vorresti mandare indietro. Per fortuna non ho mai raggiunto realmente quel livello: la mia era solo immaginazione a uno stato quasi inconscio. Superato il colpo iniziale, ci siamo rimessi in carreggiata, abbiamo amato Edoardo come non pensavo si potesse mai fare e con gli anni lo abbiamo visto crescere sano e bello.

Poi la seconda notizia: è in arrivo il secondo pupo. Ancora voluto, ancora chiamato e subito arrivato (che potenza!). Ma questa volta era molto diverso. Sapevo bene ora cosa avrebbe comportato, quanta fatica e impegno, quante interruzioni di sonno, quanta pazienza, e non ho lavorato troppo di immaginazione. Mi dicevo: “Può venire come vuole, con qualunque esigenza, qualsiasi bisogno. Può piangere o dormire, può essere calmo o vivace, può essere maschio o femmina; e può anche non esplorare subito il mondo!”. Tra l'altro siamo stati subito d'accordo nella scelta di non sapere il sesso. È poi nato Nicolò, destinato a non essere l'ultimo.

Sull'attesa del terzo, anche questa volta arrivato poco dopo averlo desiderato, non c'è molto da dire. Le aspettative ­ a parte l'ovvia speranza che fosse sano ­ erano praticamente azzerate. Ci si godeva la gioia del momento, il presente fatto di attesa. Si era appagati da ogni giorno in cui la gravidanza continuava ad andare bene, nausee a parte. Il futuro era un grande spazio bianco. Siamo venuti a sapere che era ancora maschio sorridendoci sopra. Tranquilli. Sereni. Senza ansie, senza sogni, senza ideali. Ci dominava la pura consapevolezza di quella gioia speciale che dicevo all'inizio, carica di futuro, ormai con la coscienza di poterlo anche non riempire. Ed era bello. Meno intenso forse della vibrante e ansiosa prima attesa, ma bello. Una novità tuttavia c'era e riguardava il modo e il luogo in cui sarebbe nato il bambino: sarebbe venuto al mondo alla Via Lattea, cosa che per motivi diversi non avevamo potuto realizzare prima. Mi attendevo un evento bellissimo, caldo e accogliente. E così è stato. Abbiamo accolto Pericle tra persone stupende nel miglior luogo possibile (anche se alle persone stupende il nome non piaceva...).

Ora che il futuro di allora, trapassato nel presente, mi è davanti nella forma di tre bei regali, ora che la famiglia è definitiva e vive le sue lente e continue trasformazioni fra gioie e frustrazioni, entusiasmi e tran­tran quotidiano, sorrido pensando al me stesso della prima volta, futuro padre in attesa, ingenuo e ignorante, esaltato e commosso, e le aspettative di quel periodo sono diventate parte di un album di ricordi, accanto agli eventi concretamente avvenuti, quasi fossero anch'esse reali. E reali a loro modo lo sono state, se mi si sono impresse anche più profondamente della realtà che poi le ha sostituite.

Quando mia moglie mi disse che era incinta la prima delle tre volte, mi prese una gioia che è difficile descrivere e che solo chi l'ha provata conosce. È un sentimento strano, senza oggetto preciso; viene da lontano, agisce dal profondo, è gravido di promesse indefinite e ancestrali. Eravamo lì a guardarci negli occhi, sorridendo un po' inebetiti. Io ­ a pensarci ora ­ gioivo per il semplice e nudo fatto che la cosa sarebbe stata meravigliosa e ci avrebbe cambiato per sempre. Era una gioia carica di futuro. La nostra vita insieme era lanciata ormai ineluttabilmente e misteriosamente verso una soglia dopo la quale ci sarebbe stato per sempre un prima e un dopo.

Cominciai a sognare ad occhi aperti sul figlio in arrivo. A meno di trent'anni, con poche eccezioni, non si ha esperienza con i bambini. Di fatto non li si conosce. I bambini si frequentano quando si è bambini a propria volta; difficilmente dopo, a meno che si abbiano fratelli più piccoli, si viva in famiglie allargate (com'era una volta), o dei cari amici abbiano già vissuto l'esperienza condividendola. Ma io non rientravo in nessuno dei tre casi. Scoprivo così che dei bambini piccoli sapevo ben poco. Zero esperienza.

In questi casi si tende ad attingere dal proprio immaginario. Il mio tendeva all'idealizzazione ed era di origine letteraria. Contava soprattutto la familiarità con Il Piccolo Principe. Nel mio ideale il bambino piccolo era un essere puro e candido, virginale, con l'anima ancora giovane: un piccolo ingenuo saggio più vicino degli adulti al mondo delle idee di Platone. Non a caso lo sognavo biondino, con una faccia d'angelo e già grandicello, come nei disegni di Saint­Exupery! Questa immagine cominciò a fare breccia soprattutto dopo la scoperta che si trattava di un maschio, cosa che ci procurò un colpo, perché volevamo una femmina. Anzi, una femminuccia. A pensarci adesso, dopo tre amatissimi maschi, mi do quasi dello stupido e mi suona strano aver desiderato qualcosa di diverso. Per quanto riguarda invece la natura del neonato, la mia distanza dalla realtà era tale che all'incontro con i futuri padri tenuto dall'ostetrica Anna alla Casa di Maternità, alla richiesta di indicare le attività che secondo noi avrebbero impegnato il piccolo nei primi giorni di vita, scrissi: “esplora il mondo”. Esplora il mondo! Le matte risate!

Ricordo bene, a distanza di più di un decennio (un decennio! aiuto!), come cambiarono le mie elucubrazioni dopo il grande emozionante evento: caduto dal mondo delle Idee nella cruda realtà di un infante nato sottopeso che tentava (riuscendoci) di raddoppiare la propria massa nel giro di poche settimane, mi trovavo a pensare che avere un bambino era come ricevere un pacco su ordinazione: tu vuoi con tutte le tue forze che arrivi il pacco, ma poi quando lo apri può esserci dentro qualunque cosa. Non l'hai scelto tu. Altrimenti lo avresti scelto bravo e

Alessandro M. papà

LE TRE ATTESE ARRIVANO I NOSTRI

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15 FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE

PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ

Marina V. mamma

Cosa devo

dimostrare? ARRIVA

NO I NOSTRI

che mi ero imposta ­ chissà poi perché? Il gruppo mi ha aiutata molto a zittire quelle voci che mi chiedevano e che mi giudicavano e che mi avrebbero sgridata se non fossi stata una figlia perfetta, un’amica perfetta, una moglie perfetta e una mamma perfetta. Ai gruppi Lidia guidava i nostri sfoghi, accettandoli per quello che erano: degli sfoghi. senza giudizio, a volte anche senza consiglio: non sarebbe servito, uno sfogo è uno sfogo, spesso semplicemente fine a se stesso! Ai gruppi riuscivo a lasciarmi fuori i ruoli e a sentire finalmente il silenzio e a guardarmi dentro, nel cuore. Così; così come ero, così come sono. Con i miei difetti, le mie paure, le mie rabbie, i miei nodi emozionali. Senza sentirmi di dover dimostrare sempre qualcosa, chissà poi perché. E a mia volta, ascoltando le altre mamme, ho imparato a capire che ognuno ha i suoi limiti e che amare qualcuno non dipende da quanto questo soddisfi le tue aspettative e che io non dovevo soddisfare le aspettative di qualcuno per guadagnarmi il suo amore. L’amore va oltre: oltre le aspettative e i giudizi. Le aspettative e i giudizi sono solo un gioco della mente che, probabilmente influenzata da altre cose al di fuori del cuore, si diverte a metterci alla prova. Magari a mettere alla prova il nostro amore per gli altri.

Anni fa sì, avevo l’impressione che tutti si aspettassero qualcosa da me ed io da loro. Sentivo di poter dare tutta me stessa quando facevo qualcosa e mi aspettavo che gli altri dessero tutti loro stessi quando facevano qualcosa. In questo assurdo meccanismo chiedevo tantissimo a me stessa, a scuola, sul lavoro, come figlia, come moglie e chiedevo tantissimo agli altri, ai miei genitori, a mio marito, addirittura ai miei amici! Il peso di questi ruoli mi ha fatto vivere per moltissimo tempo in un equilibrio sopra la follia. Finché non è nato Riccardo. L’arrivo del nostro primo bambino ha destabilizzato quell’equilibrio sopra la follia. Con lui cominciavo già a sentirmi un peso sulle spalle incredibile! Tutte quelle richieste fatte a me stessa e agli altri mi ronzavano nelle orecchie e nella mente. Sentivo che sostenere anche il ruolo della madre perfetta crepava le mura di quella fortezza che mi ero costruita e che mi proteggeva. Ma ce la potevo ancora fare, con un figlio solo ce la potevo ancora fare. Con Margherita, la seconda, l’equilibrio cominciava a dare segni di profondo cedimento, con Marianna, la terza... be’, ho dovuto imparare a cambiare molte cose! Andare ai gruppi mamma e bimbo della Casa di maternità mi ha aiutata molto a riconsiderare tutte quelle aspettative imposte a me stessa e agli altri. Mi ha aiutata molto la condivisione di canoni

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16 NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE, COM’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON

VUOLE RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI

Mi sono sempre chiesta se eravamo soltanto noi a vivere l'adozione con difficoltà oppure se c'era nelle coppie un certo pudore a condividere le ombre della nostra esperienza di adozione. Ma siamo fatti coraggio e abbiamo pensato di condividere con voi la nostra esperienza, meno "rosea" di altre, nella speranza che altri forse possano rispecchiarsi e confrontarsi con noi.

Correva il 2004 Presto saranno due anni dal nostro viaggio in India (Bangalore) a prendere Bianca, che allora aveva sei anni e mezzo. Noi abbiamo già una figlia biologica di undici anni. Bianca, nonostante una storia tremenda di maltrattamenti e abbandoni, è una bambina affettuosissima, sveglia, allegra, con voglia di imparare... E allora? vi chiederete, qual è il problema? Il problema è che in me, mamma (più che nel resto del sistema familiare) è nato un forte rifiuto, apparentemente in parte inspiegabile, verso nostra figlia. Una parte di me voleva questa seconda maternità con tanta forza da aver superato gli anni di attesa e trafile che tutti noi conosciamo bene. E un altra parte di me rifiutava questa bambina (con tutti i sensi di colpa collegati): il suo essere autocentrata, prepotente, furba, manipolatrice... (come tanti bambini poi) mi mandava in bestia. Mi sono detta che probabilmente lei doveva rifare in se l'immagine distrutta della "mamma", dopo i maltrattamenti, e mi provocava per quello; mi sono anche scoperta molto simile a lei nel carattere, e forse in competizione; mi sono anche detta che con il tempo ci saremmo avvicinate, che mi sarei affezionata piano piano... Mi sono fatta tante domande e il tempo passava senza che ci fossero miglioramenti, anzi, Bianca mi irritava sempre di più e io prendevo le difese della prima figlia. Sono arrivata ad odiarmi per la mia incapacità di amare questa cucciola stupenda che abbiamo avuto la fortuna di ricevere in dono. Ho cominciato a pensare che il problema era veramente mio e non suo. Per qualche motivo mi sentivo minacciata da questa personcina e mi chiudevo in un angolino piena di tristezza. Sono arrivata a ignorarla, quando non a trattarla male, per difendermi da non so cosa. Ho pianto tanto, ma tanto, in questi due anni. E dopo una delle mie "discese agli inferi" (come io chiamo le mie crisi di angoscia) mi sono decisa a chiedere aiuto. Mi è sembrato che ormai non fosse soltanto questione di tempo ed era ora di agire diversamente (in aggiunta

alle visite dell'equipe dell'Asl, che con grande comprensione, ci ha prorogato l'anno preadottivo). Per fortuna ho trovato una bravissima psicoterapeuta, con la quale sto facendo un lavoro impegnativo su di me, che spero incida in positivo su tutto il nostro sistema familiare. Nel frattempo, anche Bianca riceve un sostegno psicologico da parte dello psicologo infantile dell'ASL (anche lei avrà bisogno di anni per elaborare le sue ferite che nasconde così bene). E così durante quest'anno ho imparato alcune cose che voglio raccontarvi. Non tanto per quanto riguarda me (le mie paure, le ragioni per cui mi sento minacciata e altro di in ambito personale) ma soprattutto per quanto riguarda Bianca, bambina abbandonata, adottata e immigrata. Spero che possiate trovare anche voi, come me, ragioni per comprendere quello cha accade a nostri figli.

ABBANDONO E SOPRAVVIVENZA Se molti dei nostri figli adottivi sono arrivati a noi, dopo essere stati abbandonati e maltrattati, è grazie alla loro capacità di difendersi, di districarsi nelle difficoltà, di sopravvivere nelle avversità. Per fare ciò, hanno dovuto sviluppare abilità "da grandi" per manipolare, fuggire, adattarsi a contesti difficili. Ci vuole molto tempo prima che i nostri figli "abbassino la guardia", si fidino completamente, e accettino di non tirare fuori la loro parte "adulta" che è servita per sopravvivere. I nostri figli, anche se non sembra, hanno una grande paura di perdere tutto nuovamente. Di vedere svanire la fiaba. Promuovere la fiducia non è facile, ma sembra la strada giusta. Le ferite dei bambini abbandonati sono come delle crepe in una brocca: li rendono insaziabili rispetto all'affetto che ricevono. Sembra che niente sia sufficiente a calmare quella sete. A questo possiamo riferire il frequente protagonismo esasperato che vediamo in molti dei nostri figli (almeno credo): essere sempre al centro dell'attenzione come richiesta di amore. Bianca vuole più di ogni altra cosa al mondo una mamma, e non si fermerà finché non riuscirà a trovarla. Probabilmente si "calmerà" in parte quando avrà la sicurezza di "avere me". Ancora non si rende conto che la sua pressione mi spaventa, che l'esigenza/ pretesa non è la strada "più efficace" per avere qualcosa. E ancora: nel nostro caso l’immagine della mamma è tutta da rifare, dopo tanti colpi, e sento che Bianca mi mette costantemente alla prova. Io a volte ho paura

Mercedes M. mamma

ADOZIONE ASPETTATIVE E LIBERTÀ

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17 AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL PELO . E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO?

IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE, COM ’È

di non riuscire a passare la prova. È come se mi dicesse: e se anche ti faccio questo, mi vorrai bene? E a me viene da rispondere: No, non mi puoi fare qualsiasi cosa. Ancora no. Non ti amo abbastanza (e mi sento una m…).

PUNIZIONI/LIMITI Molti dei nostri figli adottivi, quando arrivano da noi, sono abituati a riconoscere i limiti attraverso le punizioni e i castighi corporali. A noi occidentali queste pratiche sembrano assurde e facciamo molta fatica a marcare i limiti con le punizioni, e ancora più fatica con i castighi corporali. Eppure per i bambini è tutto uno stravolgimento cambiare di colpo i codici imparati durante anni e passare a codici molto più ragionati, razionali, difficilmente riconoscibili da parte loro. Ad un tratto il no che veniva espresso con una botta adesso viene soltanto spiegato a parole. A loro risulta tanto difficile riconoscerlo, e noi ci innervosiamo di dover ripetere mille volte la stessa cosa.

Devo dire di essere stupita dal fatto che a volte mi è parso chiarissimo che Bianca stesse chiedendomi un castigo. Mi sono sentita in colpa per l'utilizzo di punizioni e sculacciate (non necessarie con la figlia naturale) finché mi è stato fatto capire come per Bianca il fatto di ricevere punizioni potesse essere la possibilità di riconoscere la genitorialità: "qualcuno si occupa di me, del mio bene, qualcuno ci pensa, non sono sola". Ma altre volte non riuscivo a capire come fossimo arrivati nella nostra famiglia (che per nove anni era stata tranquilla) ad un livello così alto di disagio: urla, punizioni, rimproveri… Ad un certo punto ho chiesto a mio marito: dobbiamo smettere di rimproverare e punire, almeno per noi, perché non possiamo vivere in questo clima. Lo psicologo di Bianca ci ha spiegato che probabilmente Bianca ha una grande rabbia dentro di sé, contro il mondo, contro tutti… Ma nella nostra famiglia “non è permesso” tirarla fuori nei modi in cui lei vorrebbe: urlare, picchiare… Per cui lei trova altri canali per “toccare” dentro di noi il tasto giusto perché siamo noi ad urlare, a tirare fuori la sua rabbia. Per questo a volte facciamo fatica a riconoscere in noi questa modalità che finora non ci è appartenuta. A volte sono tanto stanca di essere il canale della sua rabbia.

Infine, la punizione è anche la possibilità di riscattarsi, di pagare un pedaggio e rimanere dentro al nucleo familiare. Per la prima volta, dopo aver combinato un casino, non viene cacciata via. Mi ricordo una volta in cui aveva combinato un macello dopo l’altro. Io ero sfinita e alla scoperta del quarto casino semplicemente non ho più reagito. Mi sono seduta e guardavo al vuoto, triste, impotente, senza

sapere come comportarmi, sentendo che tutto era inutile… E allora arriva Bianca, piangendo, dice: Mammi, dammi una punizione! Tenera, direte… È vero. Tranne quando diventa una specie di gioco e lei mette già “in conto” il pedaggio da pagare per arrivare al suo scopo.

MENZOGNE Molti bambini "mutilati" come Bianca, soffrono di un certo ritardo nel contatto con la realtà. Manifestano sintomi che bambini solitamente esprimono intorno ai tre anni: un senso di onnipotenza che esprime il bisogno di credere che la fantasia è la realtà. Confondono la realtà con l'immaginazione, con i sogni e desideri. Con pazienza verranno riportati verso la realtà. Ma per noi genitori non è facile distinguere fra questo e la "furbizia", o la menzogna per cavarsela comunque, per raggirarci ancora una volta. Poi ci sono le menzogne di “sopravvivenza”. Mentire, nascondere, fingere… è stata una strategia utile durante tanto tempo che adesso si fa molta fatica ad abbandonare. E poi perché dovrebbe? Chi l’ha detto che questo “paradiso” non scomparirà di nuovo, come è già accaduto altre volte? Perché dovrei fidarmi?

TERREMOTO EMIGRAZIONE Alle molte difficoltà che trovano i nostri bimbi nel cambiare persone di riferimento quando vengono adottati da noi, dobbiamo aggiungere le difficoltà di cambiare cultura. Sinceramente credo di aver sottovalutato questo fatto nel pensare all'adozione internazionale. Il problema è più grave quanto più alta è l'età alla quale li adottiamo. Bianca ha vissuto quasi sette anni della sua vita "allenandosi" per sopravvivere in una società/cultura che ad un tratto scompare. E quelle abitudini/abilità nella nostra cultura vanno spesso ad urtare (mangiare con le mani, camminare scalzi, picchiare per punire, i diversi ruoli...) con le regole del luogo. Ad un tratto viene richiesto di imparare altre regole, e in fretta... Possiamo immaginare cosa questo significhi per la sicurezza primaria di un bambino: niente di quello che serviva finora per sopravvivere serve più. Anzi. Bianca, da quando è arrivata, sta cercando di capire cosa significa nel nuovo contesto occidentale e italiano "essere una bambina, di 8 anni, sorella, figlia, nipote, studente...", cosa ci si aspetta da lei adesso. Una grandissima fatica!

Poi ho scoperto ancora una cosa. Bianca ha portato una forte dose di "diversità" nella nostra famiglia. Una diversità culturale e una modalità "rozza" di pretendere, esigere, manipolare, per ottenere. Nella mia superficialità e presunzione preadottiva, credevo di non dover trovare grandi difficoltà nell'adozione di

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18 PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA

GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL

Bianca. Noi, "una coppia solida, colta, socialmente impegnata e politically correct" ce l'avremmo fatta sicuramente. E proprio lì ho scoperto una delle difficoltà nel rapporto. Non avevamo fatto i conti con la nostra rigidità dal punto di vista ideologico, etico e intellettuale. La povera Bianca è capitata nella nostra famiglia, che esercita su di lei un grande controllo e aspettative "esigenti". Probabilmente famiglie più "flessibili" fanno meno fatica ad adottare una persona "diversa", sono più elastiche e meno rigide di noi. Immagino che non fosse facile valutare questo nell'intervista preadottiva, ma considero che sia sicuramente un aspetto da tenere presente. Per noi intanto è significato un bel bagno di umiltà, e per lei una difficoltà aggiuntiva.

L'ETÀ: ADOTTARE BAMBINI GRANDI Spesso ci siamo chiesti se sarebbe stato più facile adottare un bambino piccolo. La risposta è certamente sì, ma non solo. Durante la terapia ho scoperto che io (o noi) non avrei dovuto ricevere l’idoneità per adottare, e men che meno per adottare bambini grandi. E io sono d'accordo. Non tutti siamo capaci di adottare, e l'età è una difficoltà aggiunta. Di fatto tutti proviamo ad adottare bambini piccoli, in seguito l'agenzia di turno ti propone di alzare l'età ("perché nessuno vuole adottare i grandi"), tu accetti perché ti senti in colpa e non osi dire di no. Ma io

dico che, conoscendo le statistiche (il 15% dei bambini adottati in Italia vengono restituiti!) non si deve fare adottare bambini grandi a chiunque. La responsabilità è molto seria: sia per i danni al bambino che per la sofferenza dei genitori. I genitori andrebbero preparati e seguiti molto bene.

Gennaio del 2006, dopo che Bianca ha espresso ad una famiglia amica il desiderio di essere adottata da loro, visto il rapporto faticoso in famiglia: bugie, sottrazioni, punizioni, broncio… Ieri alla fine mi sono decisa a scrivere una lettera a Bianca, vista la mia difficoltà di esprimere a voce queste cose, e la mia capacità di rovinare i messaggi più belli con frecciatine crudeli. Gliel'ho lasciata quando sono andata in consiglio comunale e l'ha letta con Paolo. Ha pianto tanto, era contentissima, diceva cose sconnesse, positive, negative... mi ha scritto una lettera altrettanto sconnessa dicendo che non vuole un'altra famiglia e che vuole mettersi i jeans come Giulia (era in punizione per averli tagliati due volte). Stamattina li aveva già indossati e tutta felice mi ha abbracciata dicendo che la mia lettera è il mio regalo preferito, e che l'ha messa nella scatola dei tesori.

Ecco la lettera che sono riuscita a scrivere. Dopo quattro anni; solo un anno fa non credo sarei stata capace.

Cara piccola Bianca, tu sei la mia piccola, il mio fiore, il mio cioccolatino preferito. Dove potrei andare io senza di te? Cosa sarebbe la mia vita senza il tuo sorriso? Come potremmo vivere se tu te ne andassi via? Morirei di tristezza io. Lo so che non sono la mamma che tu avevi sognato. Forse tu sognavi una mamma affettuosa e dolce, che ti coccolasse e abbracciasse spesso. E invece ti sono capitata io, che sono un po’ un orso e che faccio tanta fatica ad essere affettuosa (neanche mia mamma mi ha coccolato molto per cui non ho imparato a farlo). Lo so che forse sognavi una mamma che non si arrabbiasse quando ti viene voglia di fare la birichina, e invece io mi arrabbio per tante cose piccole e grandi, e sono spesso rigida e antipatica.

Cara Bianca: tu dici che ti dispiace di non assomigliare a nessuno dei tuoi genitori, ma io ti dico che io e te siamo molto più simili di quanto lo siamo Giulia ed io. Anch'io sognavo una figlia che mi volesse bene, che non mi facesse arrabbiare, di cui potermi fidare ed essere fiera. Tutte e due siamo testarde e orgogliose, e vogliamo sempre vincere. Vedi? Il buon Dio ci ha messo sulla stessa strada, insieme, anche se non ci risulta facile vivere insieme. E tutte e due abbiamo il compito di aiutare l'altra ad essere felice. Tu devi aiutarmi ad imparare ad amarti. Io devo aiutarti a non avere paura e a sentirti amata. Perché anche se a volte fai fatica a crederci noi ti amiamo molto, e non permetteremo mai a nessuno di farti del male. Piccolo pulcino di cioccolato, che sei arrivata nella nostra vita a potarci il sole (e anche qualche tempesta). Grazie di esistere e di essere nostra figlia. Prego e spero tanto che un giorno tu sarai felice insieme a noi. Io ce la metterò tutta. E tu?

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19 BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI

PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA

VEDERE LUCE Dopo il secondo anno ci hanno confermato l’adozione, si vede che chi doveva giudicare ha visto comunque dei progressi. Bianca allora ha detto: “Mmm, non so, quasi quasi vorrei provare un’altra famiglia” (l’avrei strangolata!). Anche questo è stato un momento che ci hanno dovuto aiutare a gestire, perché non sapevamo come reagire: “Voi dovete dire no, questa è la tua famiglia. Anch’io a volte avrei voglia di cambiare figlia, nonno, marito… ma tu sei nostra figlia per sempre!” Adesso, dopo quasi quattro anni di “travaglio” (e io che pensavo di risparmiarmi almeno il travaglio e il parto) stiamo un po’ meglio. Bianca ha fatto un grande sforzo, ma anche noi. Dobbiamo ringraziare tanti amici, psicologi, consulenti, familiari, che ci stanno sostenendo (anche nella nostra Asl). Non che siamo arrivati al parto, ancora. Ma possiamo paragonarci un po’ ai pellegrini di Santiago, che quando vedono la punta della cattedrale in fondo, lanciano il berretto in aria per la gioia. Anche se ancora ci sono chilometri, tempeste, giorni e notti da superare. Ma il peggio sembra passato e noi possiamo dire di aver intravisto il nuovo volto di questa famiglia, e di cominciare a godercela, almeno a periodi (e come sono belli!). Nei momenti peggiori io vorrei avere una pillola, un rimedio, un placebo… una magia… un rituale, che mi faccia calmare, plachi il rifiuto. Mi chiedo se dovrò convivere per sempre con questi momenti bui oppure se potrò godermi con pace la mia maternità, la fortuna di avere ricevuto una figlia in dono. È ancora una strada da scoprire.

Novembre 2007 Dopo cinque anni di faticosa convivenza, cercando aiuto in diverse terapie ed altro, e non vedendo migliorare, per quanto mi riguarda, l’atteggiamento insofferente verso nostra figlia Bianca, nell’estate del 2006 mi sono decisa ad andare dallo psichiatra chiedendo esplicitamente un farmaco per poter reggere “le provocazioni di Bianca”. Dopo un mese ha cominciato a fare effetto il tale farmaco, un leggero antidepressivo, e ho cominciato a sentirmi molto meglio. Mi sentivo meno minacciata da Bianca, riuscivo a creare situazioni di complicità, a giocare, a passare del tempo solo con lei, ad abbracciarla, a pettinarla (cosa che non sono riuscita a fare per ben cinque anni se non saltuariamente). Bianca ha detto spesso durante quest’anno: Mami, da quanto che non litighiamo vero? Ho/abbiamo trascorso il nostro primo anno sereno. Dopo un anno ho chiesto di abbassarmi la dose, ma quando ho provato, ho sentito di nuovo la mia fragilità mascherata da aggressività verso Bianca, e sono tornata a prendere la dose iniziale. So che sto meglio perché tutto quello che stiamo vivendo adesso, da settembre del 2007, non lo avrei potuto sopportare prima del farmaco. Eppure...

STATO DI SALUTE DI BIANCA

DAL 2007, DA QUANDO È INIZIATA LA PRIMA MEDIA, BIANCA HA MANIFESTATO UNA MIRIADE DI DISAGI PSICOSOMATICI. RIASSUMENDO, HA AVUTO FORTISSIMI EMICRANIE (CHE DURANO ANCORA ADESSO), PERIODI DI VOMITO GIORNALIERO, ENURESI, DOLORI E RIGIDITÀ DEL COLLO (A VOLTE PORTA IL COLLARE) E LA SCHIENA, MAL DI PANCIA, SVENIMENTI, CONVULSIONI, CISTITI CHE NON PASSAVANO MAI ANCHE DOPO PARECCHI ANTIBIOTICI… IL RISULTATO DI TUTTI GLI ESAMI CHE ABBIAMO FATTO, E DEI PERIODI CHE ABBIAMO TRASCORSO IN OSPEDALE (NEUROPSICHIATRIA INFANTILE, CON DUE RISONANZE MAGNETICHE) HANNO DATO SEMPRE LO STESSO RISULTATO: NESSUNA ORIGINE ORGANICA. MOLTI DI QUESTI SINTOMI SONO SCOMPARSI DA SOLI PER LASCIARE SPAZIO AD ALTRI PIÙ FORTI.

DA DICEMBRE 2008 GLI SVENIMENTI HANNO INIZIATO UNA NUOVA FASE, ALTISSIMA FREQUENZA (4 O 5 VOLTE AL GIORNO) E COLLEGATI A CONVULSIONI (“PSEUDOCONVULSIONI”). DOPO DIVERSE VISITE AL PRONTO SOCCORSO È EMERSA ANCORA EVIDENTE L’ORIGINE PSICOSOMATICA DI TIPO ISTERICO DEGLI SVENIMENTI. POCO PRIMA DI COMINCIARE QUESTA FASE, ALLA PSICHIATRA (CHE COLLABORA CON LO PSICOLOGO CHE SEGUE BIANCA E TUTTA LA FAMIGLIA DAL 2007) SONO STATI CHIESTI DEI FARMACI PER CALMARE L’ANSIA: TAVOR, XANAX. NON SEMBRAVANO FARE MOLTO EFFETTO, PER LA VERITÀ. IL DEPAKIN SEMBRA AVER FATTO UN PO’ PIÙ DI EFFETTO. COMUNQUE GLI SVENIMENTI SONO CONTINUATI FINO AD OGGI ANCHE SE OGNI TANTO SCOMPARIVANO COME PER INCANTO, DI FRONTE AD UNA GRANDE MOTIVAZIONE A FARE QUALCOSA: UNA FESTA, UNA GITA, VEDERE IL FIDANZATO… E RICOMPARIVANO AUTOMATICAMENTE IL GIORNO STESSO DOPO L’EVENTO.

DURANTE DUE MESI LA MAMMA SI È RECATA CON BIANCA A SCUOLA (PERCHÉ L’ALTERNATIVA ERA CHE STESSE TUTTO IL GIORNO A CASA, A LETTO, TRASCINANDOSI…) SI SISTEMAVA FUORI DALL’AULA E QUANDO BIANCA SVENIVA VENIVA CHIAMATA PER PORTARLA FUORI, SVEGLIARLA E, FORSE, RIPORTARLA IN CLASSE O A CASA. NULLA È CAMBIATO, GLI SVENIMENTI SONO CONTINUATI E APPENA LEI ANDAVA VIA UN GIORNO GLI SVENIMENTI DIVENTAVANO TANTO FORTI E DRAMMATICI CHE LA SCUOLA ERA COSTRETTA A CHIAMARE IL 118. AD UN CERTO PUNTO LA SCUOLA HA DETTO A BIANCA: SE STAI BENE VIENI A SCUOLA, ALTRIMENTI RIMANI A CASA. LEI HA COMINCIATO AD ANDARE DALLE 8 ALLE 14 QUASI TUTTI I GIORNI E GLI SVENIMENTI SI SONO RIDOTTI A CIRCA DUE ALLA SETTIMANA. ALLORA CI CHIAMAVANO PER ANDARE A PRENDERLA.

DA QUANDO È FINITA LA SCUOLA NON HA AVUTO PIÙ SVENIMENTI PER DIECI GIORNI, SONO TORNATI

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20 DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE

FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN

DURANTE UN’USCITA SCOUT, QUANDO SI SONO RIPRESENTATI IN MODALITÀ VIOLENTA E RIPETUTA. MA APPENA È TORNATA A CASA PER ALTRI OTTO GIORNI NON È PIÙ ACCADUTO. BIANCA SI ARRABBIA MOLTISSIMO QUANDO QUALCUNO INSINUA CHE LEI POSSA COMANDARE A BACCHETTA I SUOI SVENIMENTI. NON SEMBRA INTERROGARSI SUL FATTO CHE STIA SEMPRE MALE (SI LAMENTA SOLTANTO DELLA SUA SFORTUNA), CHE ABBIA SEMPRE QUALCOSA, O SULLE CURIOSE COINCIDENZE COLLEGATE AD UNA O UN’ALTRA MANIFESTAZIONE. QUANDO QUALCUNO DICE “OGGI TI HO VISTA MEGLIO” LEI SI ARRABBIA E RISPONDE CHE “LEI STA MALISSIMO MA CHE STA FACENDO UN GRANDE SFORZO PER NON FARLO VEDERE, E CHE NOI NON LO APPREZZIAMO”.

TUTTI GLI PSICHIATRI CI HANNO ASSICURATO CHE BIANCA NON RISCHIA DURANTE GLI SVENIMENTI, ANCHE SE

SEMBRANO MOLTO SPETTACOLARI. LEI PRENDE REGOLARMENTE LE MEDICINE, CHE SONO STATE ULTIMAMENTE RIDOTTE.

DI TUTTI I PROBLEMI DI SALUTE DI BIANCA, L’UNICO VERAMENTE ORGANICO È IL CHERATOCONO, UNA DEGENERAZIONE DELLA CORNEA, PROBLEMA PER IL QUALE DOVRÀ PORTARE LENTI A CONTATTO SPECIALI E MOLTO COSTOSE (CHE NON HANNO EFFETTO CURATIVO, MA LE PERMETTONO DI VEDERE MEGLIO). È PROBABILE CHE LE EMICRANIE DI BIANCA SIANO DOVUTE ANCHE ALLA DIFFICOLTÀ NELLA VISIONE. BIANCA NON È MOLTO CAPACE DI PRENDERSI CURA DEGLI OGGETTI DI VALORE, HA PERSO PIÙ VOLTE OCCHIALI, ORECCHINI, CHIAVI, OROLOGI, MP3… E SIAMO PREOCCUPATI PER LA GESTIONE DI QUESTO ASPETTO, VISTO CHE NON C’È ALTERNATIVA.

Gennaio 2009

Cari amici, ieri abbiamo dovuto prendere una delle decisioni più difficili della nostra vita familiare, quella di separarci temporaneamente da nostra figlia Bianca dopo sette difficilissimi anni. Alcuni di voi sanno dei problemi che abbiamo vissuto, in parte dovuti al passato di abbandono e maltrattamenti della storia di nostra figlia. Da un anno e mezzo Bianca non frequenta regolarmente la scuola e manifesta costantemente malattie di origine psicosomatica, una grande rabbia e la difficoltà di vivere il presente senza lasciarsi soffocare dal suo passato. Dopo alcune terapie (ci é passata tutta la famiglia) psicologiche e farmacologiche, la situazione non solo non migliora, ma è addirittura peggiorata. Bianca è sempre più infelice, chiede in continuazione di andare via dalla nostra famiglia (che un giorno ama ed un altro odia), tutto il nostro amore è insufficiente, ha comportamenti autolesionisti... e peggiora ogni giorno. Anche noi soffriamo con lei. Ci sentiamo impotenti e, dopo sette anni, anche sfiniti. Così, in mancanza di altre idee, abbiamo pensato che l'allontanamento temporaneo dalla nostra famiglia potrebbe essere una soluzione per lei e anche per noi, anche se è sofferta (non è immediato, ci metterà alcuni mesi ad andare in qualche comunità).

Ieri, dallo psicologo, abbiamo preso tutti insieme la decisione, e anche se sappiamo che è la cosa migliore, oppure l'unica possibile, anche se sentiamo di aver fatto il possibile e anche se in parte ci dà sollievo, nessuno ci toglie il buco nello stomaco. Un po' ci si sente falliti, ci si rende conto che la montagna era più alta di quanto avevamo calcolato e che non bastava la buona volontà. E guardi la tua famiglia soffrire, nel silenzio di quella stanzetta dello psicologo, e ti chiedi dove ci porterà tutto questo dolore.

E in fondo voglio sperare che questo dolore non sia sterile, che ci porti qualcosa di buono, che ci faccia diventare più dolci, più accoglienti, più misericordiosi e comprensivi con la sofferenza altrui... che dia tanto frutto come il chicco che cade in terra e muore. Questo spero e intanto piango. E con il mio pianto inizio ad innaffiarlo.

Un abbraccio tenero. Merche

Ecco. Queste erano alcune riflessioni che vorremmo tanto che potessero servire a qualcuno. Se avrete piacere di scrivermi, il mio indirizzo è [email protected]

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21 FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE, COM ’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA

PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ

ASPETTATIVE E LIBERTÀ

Torno indietro nel tempo e mi rivedo, seduta tra gli altri genitori della classe di mia figlia grande, ad ascoltare i consigli di un’esperta. Ricordo che mi aveva colpito una domanda che mi ha accompagnato negli anni e ci ha aiutato ad affrontare il mestiere di genitori di quattro figli:“Pensate di aver mai avuto delle aspettative nei confronti dei vostri figli?” Noi, genitori giovani e sicuri ognuno della validità del proprio stile educativo, come prima reazione asserimmo che no, i nostri figli crescevano senza nessuna influenza, che erano liberi, che quelle erano cose d’altri tempi. Con molta calma e pazienza, la nostra interlocutrice ci portò a capire che, in realtà, i genitori spesso iniziano ad avere aspettative fin da quando il figlio è nella pancia: “Speriamo che non abbia quel brutto caratteraccio, speriamo che si appassioni a questo e a quello…” Insomma, senza accorgercene, accade: è facile immaginare il figlio che più ci piace, che è consono ai modelli che ci hanno accompagnati fino ad allora. Da quella serata, spesso mi sono ritrovata a pensare a questo argomento e ho affrontato con occhi diversi tante situazioni educative. Difficile staccarsi da quel bambino immaginato, difficile non comunicare ciò che ci piacerebbe che nostro figlio fosse o diventasse, difficile accogliere caratteri dissimili e che a volte non riusciamo proprio a capire, difficile condividere scelte opposte alle nostre.

Spesso collego la parola aspettative alla parola libertà. Quante volte ci siamo trovati a relazionarci con i figli comunicando ciò che nella nostra mente era già costruito e prestabilito, altrettante volte sono stati proprio loro a farci capire che non li lasciavamo liberi. Non liberi di fare ciò che volevano, ma di essere come sono: di

poter esprimere se stessi con i loro pregi e i loro limiti, con le loro sicurezze e le loro paure, con la spontaneità e la freschezza tipica dei giovani. E quante volte, di fronte a quelli che ritenevamo fossero i loro sbagli, abbiamo dimostrato delusione o ci siamo intromessi per cercare di evitare che li facessero? Parallelamente, mi domando quante volte il loro modo di esprimersi e le loro scelte siano davvero indipendenti dalle aspettative che recepiscono da parte di noi genitori nei loro confronti… È naturale ed umano che le aspettative ci siano. Forse ciò che è importante è che non pesino al punto da costituire per i figli un percorso già segnato e prestabilito che non permetta loro di scegliere la propria strada con libertà, facendo emergere la loro natura.

Tante belle teorie, ma la pratica nella quotidianità è davvero una sfida non da poco. Devo ammettere che i nostri figli, ognuno a proprio modo, ci hanno veramente insegnato tanto. Abbiamo imparato a mettere un po’ da parte ciò in cui non siamo riusciti noi, i nostri desideri insoddisfatti, le frustrazioni e l’orgoglio, per non trasformarli in aspettative su di loro. Abbiamo imparato a dare fiducia là dove non ci siamo sperimentati e andando oltre i nostri schemi di pensiero e di comportamento. Abbiamo imparato che è importante amarli così come sono accogliendo senza giudizi la loro natura.

Ricordo uno dei complimenti più belli che ho ricevuto nella mia vita di mamma: “Stupisce come i vostri figli siano così diversi l’uno dall’altro… non sembrano nemmeno fratelli!”.

Titti B. mamma

LIBERI DI ESSERE

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22 REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO

RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE,COM ’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA,

La prima mossa Laura V. mamma

La spontaneità dei piccoli è una grande risorsa, ma va incanalata. Il mito del buon selvaggio non convince. Per svilupparne socialità e conoscenza, occorre guidare i figli lungo un percorso a tappe successive. Come si fa a non definire gli obiettivi? In altre parole, come non esprimere aspettative? In fondo per un bimbo confrontarsi con le aspettative dei grandi può essere rassicurante. “Mi aspetto questo da te, ce la puoi fare!”: sono espressioni di sprone e incoraggiamento. Tutti vorremmo sentirci dire così dalle persone che amiamo nelle nostre situazioni difficili. Si esprime così chi ha fiducia nelle nostre potenzialità e ce lo fa capire. Ma qualche volta le aspettative diventano pericolose. Magari perché ne derivano spinte contraddittorie, che svelano conflitti di valori. Oppure perché l’adulto non tiene nel giusto conto i limiti, non riconosce lo sforzo necessario, perde il senso delle proporzioni, inseguendo i propri desideri e la propria gratificazione.

Voglio condividere una riflessione che mi pare pertinente, nonostante si riferisca a figli d’una fascia d’età non più infantile. Un’indagine anonima condotta l’anno scorso tra i miei studenti si proponeva di mettere a fuoco ciò che i ragazzi avvertivano come maggiore fattore di rischio per la loro salute, fisica e psichica. Al crescere dell’età, le risposte cambiavano, facendosi via via più intime e sofferte. I piccoli indicavano prevalentemente “le cattive compagnie o le dipendenze”, i più grandi “la solitudine, l’esclusione dal gruppo, le frustrazioni”. Ma, sebbene minoritaria, serpeggiava in tutte le classi d’età, a sfatare i luoghi comuni sul lassismo di famiglia e scuola, un’altra interessante risposta: “le aspettative dei genitori e degli insegnanti”. I figli – anche quelli adolescenti, che paiono già così autonomi – avvertono le nostre aspettative; qualcuno addirittura si sente sotto pressione.

Bisognerebbe capire qual è la quantità e la qualità giusta delle aspettative. Porsi in modo corretto: una parola! Intanto, occorre che l’adulto abbia credito perché le sue aspettative vengano prese in considerazione – e questo vale sia nel caso che esse vengano assunte, sia che vengano osteggiate. Altrimenti esse verrebbero bellamente ignorate. Anche un atteggiamento negativo da parte dei figli è quindi segno di interesse – meglio di niente! Il modo, il modo corretto… tenere le aspettative alte o tenerle basse, manifestarle o soltanto alludervi, attenersi a linee generali o scendere a indicazioni di dettaglio?

Ogni modo è il modo giusto. A un patto: che sia frutto di interazione. Riguardo a questo, come a ogni altro aspetto delle relazioni umane, io la penso così. O c’è da credere a chi dice che i rapporti tra le persone si sviluppano secondo moduli fissi, che si montano e si smontano come i mobili dell’IKEA?

Le relazioni umane sono complicate, insospettisce la moda corrente di ridurle a modelli. Tali e tante le situazioni di partenza, tali e tanti i fattori influenti: non ci si può illudere di tenere in conto tutto, di ricondurre a uno schema prevedibile. Non c’è che una via d’uscita: procedere per tentativi ed errori, come a battaglia navale: mossa azzeccata, avanti; mossa sbagliata, si cambia strada. Empatici, sensibili alle reazioni ­ antenne ritte a captare le risposte: così, qualsiasi sia l’apertura del gioco, si può un po’ alla volta definire il modo giusto di proporre le nostre aspettative ai figli. Scopo del gioco: realizzare con essi relazioni reciprocamente soddisfacenti ­ ricche, profonde, salde ­ che diano a loro e a noi quel senso di stabilità e sicurezza che ci fa sentire più sicuri di fronte al mondo.

Aspettative familiari e modelli sociali: compatibilità o conflitto? Un altro bel problema! Mi viene in mente in proposito la provocazione di Gaber: rilancio e chiudo.

Non insegnate ai bambini non insegnate la vostra morale è così stanca e malata potrebbe far male forse una grave imprudenza è lasciarli in balia di una falsa coscienza

non elogiate il pensiero che è sempre più raro non indicate per loro una via conosciuta ma se proprio volete insegnate soltanto la magia della vita.

(Non insegnate ai bambini, Giorgio Gaber, 2003)

ASPETTATIVE E LIBERTÀ

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23 E COSTA POCO. PERCHÉ’ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È

CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM’È, NON CERCATEVI IL PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO

Ho rivisto Elio, che era stato il mio responsabile al call center di Milano e che è diventato in breve tempo mio marito, dopo un incidente in macchina con cui avevo toccato il fondo. Senza esserne cosciente avevo comunque già lavorato molto su me stessa e le scelte, per la prima volta dopo tanti anni, erano chiare, reali, concrete e non costruite sui giornali femminili. Elio ed io abbiamo messo su casa e ci siamo sposati in pochissimo tempo. Sono stata una bellissima mamma dopo il mio primogenito, ma non perché mi ”tiravo”, ma perché ero così in quel particolare momento. Sono anche stata una madre stanca e sciupata, dopo essere tornata al lavoro full time, e ancora un fiore quando è nata Selina e diversa quando sono nate le ultime nostre due bimbe. Elio, negli anni, ha fatto una carriera notevole, con grandi sacrifici di entrambi, ma in modo molto naturale perché era quello che veramente voleva. Nel frattempo io sono cambiata, invecchiata, ingrassata ma in modo abbastanza sereno, sapendo che comunque le scelte importanti per noi sono altre. Ora, con i miei quattro bambini, non desidero più andare a vivere dove le mamme si occupano molto di quanto siano magre o abbronzate o ben vestite, anche se potremmo permettercelo. Non appartengo a quel mondo, non appartengo a nessun mondo se non al mio mondo interiore, a quello della nostra famiglia, al mondo degli amici che ci circondano sicuramente senza esserci scelti per come ci vestiamo, per la nostra casa o per altre cose che ritengo secondarie. Frequentare la Casa di maternità, è stata un’illuminazione: è un mondo dove si puó entrare, sorridere, piangere o non fare nulla, senza ipocrisia, senza dire automaticamente ”va tutto benissimo”. Viaggiare e vivere all’estero, come abbiamo fatto in questi otto anni, mi ha dato la grande opportunità di accorgermi di quanto siano provinciali e chiusi alcuni luoghi e gruppi. In Casa di maternità ho conosciuto tante mamme belle, magre, grasse, colorate o vestite sempre di nero o tutte queste cose insieme, stanche, felici, esauste, vitali, con incredibili storie da raccontare e con tanto da trasmettere agli altri, al dì là delle apparenze esteriori, del titolo di studio o del lavoro che facevano. I sempre magri, abbronzati e mai stanchi li lascio a qualcun altro. Non compro più alcune delle riviste che leggevo anni fa. So che la realtà é molto diversa, più bella e interessante di un mondo fasullo popolato da rifatti. So per esperienza che dietro alla gestione di una famiglia, anche se non lavori fuori casa, ci sono grande fatica e sforzo che richiedono molta energia, sottratta ad altre cose. Dopo quattro bambini, scatoloni sempre in giro per i traslochi frequenti, sono molto diversa da quella ragazza di venti anni fa, ma ho imparato che è la vita e che l’apparenza non è così determinante se vuoi costruire qualcosa di sincero e concreto intorno a te. Voglio pensare che ciascuno, se si esprime con sincerità e naturalezza, sia sempre bellissimo e che un viso stanco e provato abbia spesso una grande storia da raccontare, ispirando anche grande tenerezza... Che sia solo una proiezione?

RICONVERSIONE Fabrizia B. mamma

Caspita! Come cominciare questo pezzo! È difficile perchè sarà il contrario di quello che, in modo un po’ ipocrita, va per la maggiore oggi; non sarà politically correct, non sarà par condicio, ne sarà imparziale. Sarà assolutamente parziale e anche un pò virulento. Comincia con una storia: la mia. Sono stata una ragazza piuttosto attraente, studiosa, sicura di sè e molto determinata a ”riuscire nella vita”. Sono nata con due nonne lottatrici, magnifiche e intelligenti, con un grandissimo senso della dignità fra le mille difficoltà che hanno avuto, loro sono uno dei miei tesori nascosti. Tra le fortune arrivatemi e le sfortune, una cosa é stata sicuramente negativa: sono stata adolescente nella Milano degli anni ’80. Quelli della ”Milano da bere”, quando molti colleghi che frequentavano Lettere alla Statale erano certi di fare i pubblicitari o le pubbliche relazioni in qualche grande azienda. In quel periodo frequenavo molto la zona di via Mario Pagano a Milano, per motivi di studio. Desideravo già ai tempi moltissimo avere dei bambini, ma indottrinata dai giornali per ragazze dell’epoca, sognavo di diventare una di quelle mamme sempre eleganti che dopo una sfolgorante carriera, pensavo io, andavano a passeggio per corso Vercelli con i loro bambini, magre, abbronzate, colte e raffinate. Ah dimenticavo, avrei partorito in un ospedale tipo clinica americana, distesa, con un magnifico ginecologo che ”avrebbe fatto nascere i miei bambini”, (dev’essere per questo che Battagliarin, la prima volta che m’ha visto a ventun anni, deve aver pensato ”ma chi me l’ha mandata questa”). La vita poi, grazie al cielo, si prende delle rivincite, anche se quegli anni sospesi tra sogni di cartapesta e la realtà di tutti i giorni mi hanno portato a grandi sofferenze per cercare di capire chi ero e che cosa volessi veramente. Tutto si stava ribaltando: anche se mi rifiutavo di vederlo, sapevo che dietro a quelle donne vestite bene, sempre magre e perfette, c’era un’altra persona che si occupava della loro casa e dei loro bambini e che spesso, dietro le loro vite esteriori, non c’erano carriere sfolgoranti e neppure sempre cultura e raffinatezza; spesso c’erano semplicemente mariti o famiglie d´origine benestanti. Eppure l’apparenza era così allettante, così perfetta e immacolata. Io invece mi guadagnavo con grande fatica una laurea, lavorando, e portando avanti una relazione assolutamente sbagliata con un ragazzo vicino a quel mondo. Poco prima di laurearmi avevo trovato lavoro in uno dei primi call center italiani; il mondo del lavoro si rivelò molto duro, ma in quel posto ho conosciuto tantissima gente vera, con i piedi ben piantati per terra e molta voglia di fare (non ultimo mio marito). La ”Milano da bere” si era rivelata appunto da bere, e forse questa bellissima città paga ancora oggi lo scotto di quel periodo. Quegli anni così impegnativi mi avevano molto cambiato e il mio storico fidanzato rivide alcune promesse che ci eravamo fatti rinfacciandomi che non ero la stessa, anche fisicamente, con cui si era messo anni prima. Eppure, a mio parere, più la discesa è veloce e profonda, più con un moto di orgoglio, di dignità, di ricorso alla propria storia personale e alle proprie radici, si riesce a risalire velocemente.

AUTOCOSCIENZA

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DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE UN PO’ DIVERSE DALLE

E COSTA POCO. PERCHÉ L’UOVO? PERCHÉ RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD

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Prologo Aspettative: le proprie, quelle degli altri. Sin da quando, bimbi, iniziamo nostro malgrado a riconoscerci in un’immagine che sono per lo più gli altri a creare, iniziamo anche a conformarci alle aspettative di chi ci sta attorno: le temibili etichette, “bimbo capriccioso”, “bimbo buono”, “bimbo insonne, bimbo inappetente, prepotente, remissivo…” che si appiccicano all’individuo fin dalla più tenera età e che, nel bene e nel male, rafforzano caratteristiche e creano un turbine di aspettative, non per forza ottimistiche e positive. Nel lungo cammino di maturazione verso l’età adulta, ciascuno tende a rispondere a queste aspettative: prima, durante l’infanzia, adeguandosi, in cerca di conferme e sicurezza, con l’alternarsi di sfida e compiacenza: e poi, durante la pubertà (e a volte oltre), spesso ribellandosi, quando per l’affermazione di se stessi diventa importante rompere gli schemi e scardinare le certezze degli adulti i quali, appunto, si aspettano qualcosa da noi. Pur con le mille variabili ed eccezioni, questo è più o meno il percorso che ognuno fa, fino ad arrivare a delineare un’immagine/idea di sé in cui credere e che funga da calibro per misurare il mondo e le esperienze, oltre che da contenitore per i desideri e le pulsioni.

L’aspettativa impressa sulla pelle Così, ecco fatto: ad un certo punto pensi di aver capito abbastanza bene chi sei, da dove vieni, dove vuoi andare e soprattutto come ti vuoi muovere nella vita per raggiungere i tuoi obiettivi, più o meno chiari: sei un tipo fatto così e cosà, di conseguenza conosci le tue caratteristiche e i tuoi strumenti. Senza dubbio continuano ad aggiungersi poi nuove aspettative “specifiche”, proprie o provenienti dall’esterno, inerenti situazioni

particolari che durante la vita si presentano e richiedono reazioni, applicazioni, soluzioni. Ma tutto ciò tende ad adeguarsi allo schema iniziale, a quelle che chiamerei “aspettative originarie”, ossia quelle che hanno definito la persona: se l’etichetta era “persona timida e remissiva” difficilmente il mondo (e la persona in questione) si aspetterà un gesto di sfida o una reazione dura; se al contrario l’etichetta era “persona forte e volitiva” raramente ci si aspetterà un comportamento ritroso e sfuggente. E via dicendo.

Sono proprio fatta così? Ho quarantatre anni, e attorno si dice io appartenga alla categoria delle “donne forti”, quelle toste, che sanno cosa vogliono e non mollano l’osso finché non raggiungono l’obiettivo. In effetti ci sono molte cose che ho concretizzato nella mia vita credendo in questo modello, appoggiandomi ad un’idea di me stessa che ho strutturato negli anni: rielaborando i racconti dei miei genitori sulla mia infanzia e i miei ricordi, rispondendo alle sollecitazioni ­ e alle aspettative ­ delle persone attorno a me (genitori, insegnanti, amici, compagni e via dicendo) e alle mie proprie. Il carattere e l’indole hanno senza dubbio fatto la loro parte, e il sentirmi/ sapermi forte mi ha sostenuta anche nei momenti di difficoltà e dolore; una spinta dal fondo che mi faceva rilanciare più in alto, una sfida a me stessa, uno stringere i pugni dicendo “ora vi faccio vedere io”: sapendo di potercela fare. Ho scelto un percorso che mi soddisfa e mi dà gioia, ho una bella famiglia, un compagno che amo, due adorabili figlie adolescenti (con le quali confrontarmi allo specchio, aspettative e tutto il resto, ma questo è un altro capitolo), un lavoro creato dal nulla giorno dopo giorno, anno dopo anno, con cui ho concretizzato un sogno e che ora mi gratifica, nutre e stimola

quotidianamente: insomma una vita in cui “mi sono realizzata”, come si diceva una volta.

Finché qualcosa è successo Il giro di boa dei quaranta? Può darsi. Più probabilmente una serie di fattori, esperienze e situazioni che si sono affastellati rapidamente negli ultimi anni, iniziando a far tremare a mia insaputa qualcuna delle mie certezze. Nulla di particolarmente palese, evidente, eclatante. Ma qualcosa è successo, e una piccolissima crepa si è aperta da qualche parte, nel profondo, quasi invisibile. E da là il malessere ha iniziato a trasudare, filtrando goccia a goccia, generando a mia insaputa e impercettibilmente un disagio esistenziale che, una volta messo a fuoco, si è rivelato per me senza precedenti. Ogni tanto mi dicevo “piantala, non fare l’immatura, cosa saranno mai queste menate, non hai nulla di cui lamentarti”, e ricacciavo all’indietro quel sentore amaro che evocava un vuoto baratro ai miei piedi, ad un passo da me. Ma il disagio restava: sempre più profondo, sempre più inquietante. E percepivo con un brivido l’evidente rischio di scivolare in quel baratro, senza sapere dove agganciarmi per restare salda a terra.

Perché inghiottivo le lacrime? Perché nascondevo la paura? Perché alla domanda “come va?” rispondevo “Bene!”? Per non deludere le aspettative di chi mi considera vincente, incrollabile, instancabile? A distanza di tempo (poco, ma sufficiente per mettere a fuoco), penso proprio di sì. Ma anche, e soprattutto, per non deludere le mie. Come accettare l’idea dell’ombra scura della depressione a un soffio da me, dell’amarezza dell’irrisolto, della

Cristina B. mamma

AL DIAVOLO LE ASPETTATIVE

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SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ

OVULARE,COM ’È GIUSTAMENTE NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM’È, NON

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AUTOC

OSCIEN

ZA

Una mail giunta in Casa di maternità

Ciao. Mi chiamo Alice, ho quindici anni e mezzo. Stavo guardando nelle cose della mamma e ho trovato sei numeri dell'UOVO il vostro giornalino, degli anni 1996­97 credo. Ho scoperto che anch'io stavo per nascere alla Casa del Parto di Via Goya, ma purtroppo avendo deciso di venire al mondo prima l'ostetrica Nadia accompagnò la mamma e il papà all'Ospedale Buzzi. I miei genitori mi hanno raccontato che comunque è stata una bellissima esperienza, che ho avuto tre "vice mamme", Nadia, Anna e Lidia. Ho frequentato il gioco bimbi per mesi, sono stata allattata al seno per ben ventidue mesi. Poi ci siamo trasferiti da Milano (peccato, perché io mi sento un po' milanese) in un paese della Brianza, i miei erano fissati per la montagna, essendo tutti e due amanti dell'Alto Adige. Ho delle foto, con altri amichetti/e del gioco bimbi. Chissà dove saranno ora, che bello sarebbe potersi di nuovo incontrare.... Mi ha fatto piacere ritrovarvi a presto

ALICE C. nata il 22.01.1994

AAA cercansi

stanchezza, come accettare di chiedere aiuto, io che ero sempre bastata a me stessa? Come fronteggiare l’idea che quell’immagine di me forte, determinata e sempre propositiva ora sembrasse venire messa in scacco dal mio lato oscuro? Come accettare di sentirsi senza più risorse, desideri, energie, come superare quel languore, quel senso di debolezza e inutilità, in una vita che apparentemente scorreva serena e senza scossoni, in cui nessuno poteva sospettare stesse dilagando quell’angoscia?

C’è voluto molto tempo, e c’è voluta la vera volontà di venirne fuori perché il dolore stava diventando insopportabile: solo questo mi ha permesso di aprirmi ed accettare aiuto. E così sono arrivate le persone giuste che hanno detto le parole giuste nel momento giusto, e che mi hanno aiutata a capire dentro che dovevo accettare di essere anche fragile. Capirlo con il cuore, con la pancia, non solo con la testa. Capire che quell’immagine di persona invincibile che un tempo mi aveva fatta sentire potente (onnipotente?) aveva un prezzo troppo alto, che non ero più disposta a pagare. L’essere forte si stava subdolamente trasformando in essere dura, quasi rabbiosa, e mi allontanava dalla vita invece che essere uno strumento per starci dentro in armonia.

Sono in cammino E così eccomi qui, ora, a lavorare su me stessa. Senza più vergognarmi delle mie debolezze e delle mie “menate” (al punto che riesco a scriverne su un giornale! pensa un po’…). Non si tratta di diventare un’altra. Sono castana e con gli occhi scuri: non devo diventare bionda e con gli occhi azzurri, mi ha detto un amico. Si tratta solo di riconquistarsi la libertà da quel guscio, concedersi la possibilità di essere talvolta anche diversa, anche fragile, perché no; prendersi la libertà di fare talvolta qualcosa di completamente differente, stupire me stessa con qualcosa di inaspettato, qualcosa che forse in fondo da tempo desidero ma che quell’aspettativa (mia e altrui) che mi teneva agganciata ad un ruolo, mi ha sempre impedito di fare.

Perché la forza non si trasformi in insensibilità, la determinazione non diventi rigidità; per sentire di nuovo il fluire della vita e dei suoi imprevisti, tornando ad essere flessibile, aperta, disponibile. E se questo significasse stupire anche gli altri per un cambio di rotta, ben venga. Al diavolo le aspettative.

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RICONOSCIAMO CON SIMPATIA NELLE SUE FORME ABBONDANTI QUELLE DELLE NOSTRE PANCE GRAVIDE. PERCHÉ ASPIRIAMO AD OVULARE,COM ’È GIUSTAMENTE

CERCATEVI IL PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ’ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO

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Sono Eleonora, un’ostetrica della Casa di Maternità. Mi posso già definire così? Non me lo aspettavo, non così velocemente! Ostetrica della Casa di maternità: chi, io? Sembrava una meta lontana e faticosa da raggiungere, e invece eccomi già qua. Me lo merito? Sarò all’altezza? Definirmi una di loro è difficile. Mi vedo così piccola, così giovane: la paura di deluderle è sempre in agguato. So che Nadia, Lidia e le altre hanno investito su di me. Quante aspettative!

Ho conosciuto Paola quasi per caso; il desiderio di conoscere le ostetriche della Casa di maternità, di scoprire cosa facevano, era già stra­presente, ma c’era il timore… L’unione fa la forza, si sa: in quell’occasione ero con un’altra mia collega. In due sarebbe stato più facile presentarsi, rompere il ghiaccio. E così è stato. Paola è stata davvero gentile, dietro nostra esplicita richiesta ci ha invitato a fare due chiacchiere in Casa di maternità. Non ci potevo credere, ero davvero entusiasta. Paola ci ha mostrato la Casa e le attività: quante opportunità per le mamme, i papà, i bambini e… per le ostetriche! Ora sapevo con certezza che l’ospedale non faceva per me. Sapevo che sarebbe stata già una grande opportunità seguire un percorso di formazione presso la Casa di Maternità, ma sperare anche di riuscire ad “entrare” al 100% era davvero un sogno… un’aspettativa? Sì,certo! Sono molto ambiziosa, ma allo stesso tempo cercavo di convincermi che ciò non sarebbe stato possibile, proprio per non rimanerne troppo delusa. Sono entrata in punta di piedi, in silenzio, quasi a non voler farmi notare, per non disturbare nessuno: ostetriche, educatrici, psicologhe, mamme, papà e bambini. Con l’aspettativa di osservare, imparare e scoprire quel qualcosa che non riuscivo a trovare in ospedale. Ho trovato molto di più di quanto mi aspettassi. Proprio per questo adesso sento di voler conoscere molto altro. Non so ancora cosa, come, dove e quando: forse il tempo mi aiuterà a capire.

Perché ho deciso di lasciare l’ospedale, un lavoro sicuro, un posto fisso, con una garanzia in caso di maternità, malattia, ferie, con un discreto stipendio? Cosa mi aspetto dalla Casa di maternità? Il lavoro routinario, standardizzato, impersonale, a catena di montaggio non mi faceva sentire un’ostetrica. Mi metteva in crisi anche come donna. Era frustrante dover sottostare a ciò che qualcuno gerarchicamente più alto mi imponeva, senza capirne bene la ragione o ancor peggio rendendomi conto sempre di più che certe mie azioni avrebbero sicuramente accelerato i tempi, i ritmi, ma a scapito di inconsapevoli mamme e bambini: incompresi, non ascoltati, passivi e totalmente inerti. Ciò a cui si mirava era la quantità, troppo spesso a spese della qualità. L’ambiente ospedaliero con tutti i suoi rigidi schemi, protocolli, turni fissi ­ scanditi da orari ben precisi con timbrature di cartellino ­ mi faceva paura. Temevo che con il passar del tempo, quella costante frenesia del fare­ fare­fare, mai fermarsi a guardare ­ anche solo in faccia le mamme, i papà, i bambini ­ mi avrebbe travolto e trasformato. Non riesco ad immaginarmi mamma con il pancione all’interno di quelle mura: non potrei lasciarmi andare, aprirmi a un’estranea, magari davanti a più estranei con il camice, relativamente interessati a ciò che sta per accadere attorno a loro, circondata da strani macchinari, strumenti, che da un momento all’altro qualcuno potrebbe usare su di me, sul mio corpo o sul mio bambino, senza neanche troppe spiegazioni. E allora, come potevo chiederlo ad altre mamme?

Ho capito quindi che dovevo trovare un’altra strada per poter crescere e finalmente capire chi fosse l’ostetrica e quali strumenti avesse per essere di aiuto a una donna o coppia. Dentro di me sapevo di “potermi fidare” di una mamma e del suo bambino durante il travaglio, ma non sapevo fino a che punto. In ospedale non potevo capirlo, non solo non mi era permesso, ma se osavo chiedere o fare (più spesso non fare) qualcosa in più, venivo additata

come la “talebana, la pericolosa, colei da controllare”. In Casa di Maternità mi aspettavo di incontrare delle colleghe che mi avrebbero accolto, potuto mostrare e comprendere la fisiologia della gravidanza, parto e puerperio. Anche perché in ospedale non avevo mai avuto l’occasione di accompagnare una donna durante l’intero percorso e le uniche conoscenze che possedevo erano acquisite sui libri scolastici. Non mi sarei invece aspettata di conoscere così da vicino tanti bimbi, di età differenti e di scoprire il fascino di una nuova professione: l’educatrice professionale. Quanta passione, calma, pazienza, amore e dedizione mi hanno mostrato le educatrici!

È davvero difficile spiegare fino a fondo cosa mi aspetto. Ho in testa mille progetti. Non so ancora se la Casa di maternità rimarrà il luogo dove eserciterò la mia professione a lungo. So di certo che mi sta aiutando a crescere, umanamente e professionalmente. Mi vedo decisamente più matura di un anno fa. Nonostante tutto non è stato proprio indolore questo primo anno. Per prima cosa mi sarei aspettata una continuità nel sostegno che alcune colleghe ­ amiche ostetriche ospedaliere mi avevano dimostrato riguardo alla scelta di abbandonare l’ospedale. Invece mi sono sentita abbandonata da tutte, o quasi… Ovvio, le strade si sono divise, gli impegni sono tanti per tutti, ma non può dipendere solo da questo. Altra difficoltà: anche le piccole e poche certezze teorico­pratiche che credevo di avere, continuano tutt’oggi a sgretolarsi giorno dopo giorno. E se è più facile accettare di non saper nulla di bambini, mentirei se dicessi che vale lo stesso per i temi ostetrici. Insomma, in fondo sono un’ostetrica!

Qualche lacrima è caduta, e cadrà ancora, ma sono sicura che sarà sempre accolta e asciugata da loro, loro che mi hanno permesso di essere qui e di diventare un po’ più ostetrica… A tutte loro, Nadie, Ilaria, Lidia, Paole, Francy, Elettra: grazie.

Quando non te l’aspetti Eleonora S. ostetrica AUTOCOSCIENZA

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Filastrocca festosa e giuliva dimmi chi nasce, dimmi chi arriva con discrezione ascolta e riporta quel che si sente da dietro la porta. Dietro la porta di stanze normali che i parti rendono luoghi speciali in cui, impegnando inesausta pazienza, la vita tesse la nuova esistenza lega l’ordito e intreccia la trama forte è la tela quanto più s’ama.

È il tre d’aprile, è già primavera nasce Keenan, i suoi son d’Angera arrivan per tempo e l’inizio è un po’ lento tre spinte e poi affiora quand’è il suo momento. C’è Sonam Yontem l’otto di aprile: con la placenta è più dolce dormire. La mamma l’ha spinto alla liana avvinta dietro il papà con le braccia l’ha cinta “Sono di troppo” – l’ostetrica pensa tanto l’intesa è magica e intensa

S’avvia il travaglio nella serata. Da papà e figli accompagnata la mamma, pur così presso all’arrivo va fuori a farsi l’aperitivo, poi torna e accoglie Alis serena; ventisei aprile, è notte piena. Leonardo discende con progressi lenti l’acqua lenisce le membra dolenti presso la vasca è la spinta finale il sei di maggio è il suo giorno natale.

L’otto di maggio senza ritardo nasce un bambino di nome Riccardo. La mamma è scesa dai monti in città e un peso massimo riporterà: la sua abbondanza fa tutti contenti è quattro chili e trecentoventi. Il dieci di maggio Arturo si attende parte il travaglio, si arresta, riprende. Ben più veloce era stato il fratello ma a lui non va d’imitarne il modello.

È il dodici maggio e tutto d’un botto inizian le spinte, il sacco s’è rotto. Niente ospedale, ché Luna già affiora, corron le ostetriche all’ultim’ora. Trentun di maggio, luce schermata, arriva Emma, la delicata. Ma la placenta non segue a distanza: tocca chiamare l’autoambulanza. E quel passaggio all’ospedale pure se breve, ancora fa male.

NELLA NOSTRA NATURA, CON UNA CERTA REGOLARITÀ. PER ANNUNCIARVI CON AUTOIRONIA: ABBIAMO FATTO L’UOVO! PRENDETELO COM ’È, NON CERCATEVI IL

DELLA FERTILITÀ. E QUALCHE VOLTA C’È DENTRO UNA SORPRESA. PERCHÉ È UNA BUONA IDEA: SEMPLICE E GENIALE COME L’UOVO DI COLOMBO. PERCHÉ VUOLE RACCONTARE STORIE

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FILASTROCCA DEI NUOVI NATI

Il cinque di giugno invece il lettone fa la sua parte con dedizione

regge la mamma su un fianco distesa riceve Benjamin e chiude l’attesa. La piscinetta all’uopo apprestata

s’è rivelata purtroppo bucata. Altroché tiepide e calde immersioni,

la mamma accoglie Gabriele carponi. Diciannove luglio ­ e assistendo all’evento

tocca asciugare il pavimento.

È il primo parto ­ ha affiancato finora: la nuova ostetrica ha nome Eleonora. È lei, con Ilaria, che parte in trasferta, raggiunge Genova, ma è falsa allerta.

Lì si allestisce un accampamento, ma non è giunto ancora il momento. Tornano allora, ma breve è la pace il secondo viaggio è quello efficace.

Ventisei luglio ed Elias fa il suo ingresso anche le ostetriche sostano, adesso.

Al ventiquattro d’agosto chiamata Nadia, che è al mare, s’è precipitata

ma non fa a tempo a tornare: è al casello quando Violeta nasce – che bello!

In ogni caso lei non rallenta e arriva in tempo per la placenta.

La mamma inglese non si scompone s’è disattesa la previsione:

l’uno settembre Francesca è arrivata, ben oltre il termine è la sua data.

La giovane mamma da Pordenone a partorirlo è giunta in missione: sette settembre, ecco il bambino,

lei è grande grande, Isajah piccolino. Venti settembre, è la festa annuale: Amalia sceglie un giorno speciale.

La mamma chiama nel cuor della notte: nessun segnale, ma le acque son rotte…

ma, sorto il sole, la nascita è lesta, dopo le ostetriche vanno alla festa

Un desiderio che ogni blocco travolge spinge la mamma e il programma stravolge:

Diciassette ottobre, ecco che arriva, Gaia si affaccia e scompare la piva.

Nodo al cordone ombelicale, per qualche attimo respira male, ma presto il ritmo si normalizza:

diciotto ottobre, Lorenzo entra in lizza. Finito il tempo, l’ora rintocca, chiudi per ora la filastrocca.

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PELO. E GUSTATEVELO, ALLORA! È BUONO E COSTA POCO. PERCHÉ’ L’UOVO? PERCHÉ È UNA CELLULA GERMINALE, PIENA DI POTENZIALITÀ. PERCHÉ È IL SIMBOLO

UN PO’ DIVERSE DALLE SOLITE; VUOLE ESSERE L’UOVO FUORI DAL CESTINO. PERCHÉ VORREMMO CHE FOSSE PIENO. PIENO COME UN UOVO: DI VOCI, DI IDEE, DI PROPOSTE. PERCHÉ

Il tema del prossimo numero:

QUESTIONI DI COPPIA Con i figli cambia la relazione:

la ripresa dell’attività sessuale, la ripartizione dei compiti, le divergenze educative (nei primi anni, nell’adolescenza…)

Ruoli diversi e integrati? Ruoli intercambiabili? Parità e diversità, natura e cultura

L’identificazione sessuale dei bambini

Ragioniamoci serenamente in tempi di post-femminismo, a partire dalle esperienze del quotidiano

Contribuisci anche tu alla realizzazione dell’UOVO 25 ­ Sarà in stampa ad aprile 2010

A proposito di aspettative...

GRAZIE A TUTTI QUELLI CHE HANNO DESTINATO ALLA

CASA DI MATERNITÀ IL LORO

5 PER MILLE

È finalmente arrivato il contributo relativo all’anno

2005‐2006

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