Paure e speranze PSICOLOGIA dell’uomo contemporaneo · Paure e speranze accompagnano, in una...

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FrancoAngeli PSICOLOGIA Paure e speranze dell’uomo contemporaneo A cura di Domenico Nano Saggi e studi

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Paure e speranze accompagnano, in una continua tensione dialettica, l’uomonel corso dei secoli.

Alcune profondamente radicate dominano da sempre l’immaginario collettivoanche se sono mutate oggi le circostanze che le alimentano. Altre paure ed altresperanze si presentano invece con volti nuovi e figure diverse, legati ai radicalicambiamenti epocali che segnano la società contemporanea.

Il libro si propone come momento di confronto interdisciplinare (dalla scienzaall’arte, dalla religione all’antropologia, dalla letteratura alla psicoanalisi),affrontando tali temi da vertici e da prospettive diverse, tessere di un mosaico dicui è fatta la complessità e la contraddittorietà del mondo moderno. Un invito acontinuare a pensare, riflettendo sulle paure dell’uomo contemporaneo, comepossibilità anche di intravedere speranze, orizzonti che potrebbero consentirci didisegnare ancora una volta un futuro possibile e desiderabile.

Domenico Nano, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, è primario diPsichiatria e direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Novara. Ha insegnatoPsicologia dinamica alla Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università delPiemonte Orientale. Ha curato i volumi Nel segno della memoria. Un percorso tra arte edisagio psichico (Torino 2008) e Onnipotenza e limiti (Milano, 2012), e collaborato allaideazione dei film Voci (2009), Missaest (2010) e DiversaMente. Storie di confine (2011)di Vanni Vallino.

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FrancoAngeliLa passione per le conoscenze

1240.388 30-04-2013 17:01 Pagina 1

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FrancoAngeli PSICOLOGIA

Paure e speranzedell’uomo contemporaneo

A cura diDomenico Nano

Progetto grafico di copertina di Elena Pellegrini

Copyright © 2013 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy.

L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel momento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso dell’opera previste e

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Indice

Autori pag. 7

Nota del curatore » 9

Produttori e co-produttori per il nostro futuro,non soltanto del cibodi Carlo Petrini » 13

Un altro sentiredi Francesca Alfano Miglietti » 19

Le cellule staminali e il cervello: tra fantasia e realtàdi Letizia Mazzini » 36

Nella terra dell’Altro.I percorsi del desiderio tra paura e speranzadi Nicolò Terminio » 51

L’artista, ieri e oggi, è una mostruosità?Uno scritto giovanile di Gustave Flaubertdi Chiara Pasetti » 62

Dopo la fine del mondodi Roberto Viglino » 83

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Il folle e lo straniero. Psicodinamica dell’esclusionedi Domenico Nano pag. 95

Acconsentire alla perdita, aprirsi al futuro.Lettura della legatura di Isaccodi André Wénin » 110

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Autori

Francesca Alfano Miglietti (FAM), Teorico e critico d’arte. Docente diTeorie e Metodologie del Contemporaneo all’Accademia di Belle Arti diBrera.

Letizia Mazzini, Responsabile Centro SLA Clinica Neurologica dell’Uni-versità “Amedeo Avogadro” del Piemonte Orientale – Azienda OspedalieraUniversitaria “Maggiore della Carità” di Novara.

Domenico Nano, Psicoanalista SPI. Direttore del Dipartimento di SaluteMentale Azienda Sanitaria Locale – Azienda Ospedaliera Universitaria“Maggiore della Carità” di Novara.

Chiara Pasetti, Filosofa. Università di Rouen – Università Roma 3.

Carlo Petrini, Presidente di Slow Food Internazionale.

Nicolò Terminio, Psicologo-Psicoterapeuta. Dottore di ricerca in “Ricerchee metodologie avanzate in psicoterapia”.

Roberto Viglino, Psichiatra Responsabile CSM Novara. Analista CIPA.

André Wénin, Professore ordinario di Antico Testamento alla Facoltà diTeologia dell’Università Cattolica di Lovanio a Louvain-la-Neuve. Profes-sore invitato alla Facoltà di Teologia dell’Università Gregoriana di Roma.

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Nota del curatore

“C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova unangelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguar-do. Ha gli occhi spalancati e la bocca aperta, le ali distese. L’angelo dellastoria deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appa-re una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senzatregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben tratte-nersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma la tempesta spira dal Pa-radiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può piùchiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui vol-ge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciòche chiamiamo il progresso è questa tempesta”. Così scrive Walter Benja-min in Angelus Novus a metà del Novecento.

Ma se oggi l’angelo di Klee, dal passato colmo di rovine, volgesse losguardo in direzione del futuro verso cui lo spinge la “tempesta-progresso”come apparirebbero i suoi occhi? Altrettanto spalancati? E la sua bocca?Altrettanto aperta? Non scorgerebbe forse l’angelo, anche nel futuro, “unasola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia aisuoi piedi”?

Domande senza risposta che rimandano ad altre domande, non menoinquietanti.

Si stanno vivendo oggi, infatti, cambiamenti epocali che segnerannoprofondamente il futuro, creando assetti nel mondo interno e nel sociale deltutto nuovi e ancora di difficile decodificazione, riguardanti la nostra vitaquotidiana dove, tra l’altro, sempre più difficile appare la distinzione tranatura e artificio, tra reale e virtuale, in una cultura caratterizzata da unanuova e diversa visione del rapporto dell’uomo con la macchina e, più ingenerale, del rapporto dell’uomo con una tecnica ormai onnipresente.

Sono cambiamenti epocali radicali riguardanti l’idea stessa di vita e dimorte, determinati in gran parte dall’impatto con una tecnologia imperante, e

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con la biotecnologia in particolare, che aprono anche complessi problemi dibioetica. Gli inarrestabili progressi delle scienze e in special modo della me-dicina, profondamente modificata da nuove e affascinanti ricerche in campogenetico, se da una parte suscitano speranze, dall’altra, a loro volta, determi-nano nuove paure perché nulla ci assicura che la scienza sarà utilizzata abuon fine. E nulla ci assicura che, nonostante tali scoperte, una parte del-l’umanità non possa essere, domani, distrutta da qualche virus misterioso esconosciuto, trasmesso forse dai sempre più frequenti flussi migratori. O di-strutta dalla guerra o cancellata da una catastrofe climatica o magari da unincidente nucleare, provocati dalla distrazione e dalla noncuranza dell’uomo.

La paura della miseria, delle epidemie, della violenza, dello straniero equella, ancestrale, della morte, dell’apocalisse, continuano così a essereprofondamente radicate e a dominare l’immaginario collettivo come nei se-coli scorsi, anche se sono, certo, cambiate le circostanze che alimentanooggi queste paure: la crisi economica, l’esplosione demografica, l’inquina-mento, l’immigrazione di massa, il rischio reale di possibili catastrofi comela guerra atomica e la devastazione ecologica.

Paure da cui nascono inevitabili domande: le scienze riusciranno in fu-turo a modificare radicalmente la vita dell’uomo e in particolare il rapportocon la sofferenza e con la morte? Quali guerre e quali catastrofi ecologicheci minacceranno? Si potranno finalmente sconfiggere povertà, fame e di-soccupazione? Si potrà accogliere l’altro? Vivere insieme? Vi sarà un futu-ro migliore? E soprattutto: vi sarà ancora futuro? Domande forse senza ri-posta che nascono dalle paure e dalle speranze dell’uomo contemporaneo,in continua tensione dialettica le une con le altre. Confrontarsi con tali temi,condividendo esperienze e pre-visioni, può forse evitare che la paura crescaa dismisura, diventando paralizzante e cancellando così ogni speranza. Epuò permettere anche di non attendere passivamente gli eventi, ma di cerca-re di suscitare gli avvenimenti voluti, facendo sì che in tal modo il futuro ciappartenga. Il domani infatti dipende anche da come, nel presente, inten-diamo non solo usare le innovazioni tecnologiche a disposizione, ma anchecondividere le nostre capacità, soprattutto quelle creative ed emotive, sco-prendo un senso che permetta di cogliere, nelle nebbie di un tempo segnatoda apocalissi culturali e antropologiche, bagliori di nuove speranze.

Continuare a pensare dunque, riflettendo sulle angosce e sulle pauredell’uomo contemporaneo, come possibilità anche di scorgere orizzonti chepotrebbero consentirci di disegnare un futuro possibile e desiderabile, unfuturo verso cui irresistibilmente siamo spinti dalla “tempesta-progresso”come l’Angelus Novus di Klee.

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Un particolare ringraziamento a Donata Colombo per la traduzione deltesto di André Wénin e un pensiero riconoscente a Lella Scotti per il gene-roso aiuto e l’attenta condivisione del progetto.

Domenico Nano

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Produttori e co-produttori per il nostro futuro,non soltanto del cibo

di Carlo Petrini

Ci eravamo dimenticati dei contadini, dei pescatori, dei piccoli grandiuomini e donne che producono e procurano il nostro cibo. Si era pensatodi poter sfamare il mondo potendo fare a meno di loro. Tecnica, industria,velocità e denaro avrebbero risolto tutto. Avrebbero sostituito migliaia dianni di saperi particolari, opere quotidiane, individuali e comunitarie, mi-liardi di mani forti e incallite, menti semplici e dotate di grande buon sen-so, territori e mari diversi su cui vivere e trarre sostentamento. Tutti questielementi, come in una sinfonia eseguita da un’orchestra, avevano pla-smato lentamente il mondo per darci il cibo necessario, quello che più cipiaceva, nel quale ci riconoscevamo. Avevano disegnato un pianeta in cuiseppur tra tante difficoltà era bello vivere, si guardava al domani animatida speranza sincera.

In circa un secolo è cambiato tutto: il cibo, anche se prodotto in abbon-danza, non sembra sufficiente, costa sempre più caro, è sempre meno buo-no, l’agricoltura è in crisi ovunque, tanto nel Nord quanto nel Sud del mon-do. I paesaggi che ci addolcivano l’esistenza spariscono, siamo circondatidal brutto, i mari sono inquinati e poco pescosi, sempre più persone vivonola vita come una lotta di sopravvivenza, in cui il sentimento dominante èspesso la disperazione, o una costante ansia per l’avvenire.

L’illusione di poter fare a meno dei contadini e dei pescatori in unprimo momento sembrò funzionare a chi l’aveva progettata. Aumenti diproduzione, alimenti sempre più omologati e facili da controllare. Ma unmondo senza contadini, senza pescatori, senza piccoli artigiani, senza lecomunità del cibo locali, non ha futuro. È come un corpo senza cuore,un cervello privo di quei sensi che lo interfacciano con la realtà che glista attorno.

Sono sempre di più oggi quelli che condividono questa idea di fondo: icontadini, i pescatori, le comunità del cibo, sono imprescindibili. Il mondorurale, la sua rinascita, la sua riorganizzazione, sono una chiave di volta per

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un futuro migliore. Perché gli sconquassi che ha creato il sistema agro-alimentare industrializzato e globalizzato sono ormai sotto gli occhi di tutti.Chi non li riconosce lo fa perché o è cieco oppure perché è attaccato ai suoiinteressi e si ostina a negare l’evidenza.

Io guardo al popolo di Terra Madre, la rete che Slow Food ha iniziato acostruire dal 2004, con le migliaia di rappresentanti di comunità del ciboconvenuti a Torino per il grande meeting che si tiene ogni due anni: essirappresentano in qualche modo un’avanguardia, o meglio una retroguardiache è poi, suo malgrado, stata catapultata molto avanti dal sistema del ciboglobale e dalle crisi che esso ha innescato. Sono una rete stabile e perma-nente, presente quasi in ogni Paese del mondo: queste persone praticanoun’agricoltura corretta, una pesca sostenibile, trasformano il cibo secondoregole antiche, buone, pulite e giuste; lavorano in intima collaborazione conla natura e hanno volontà di conservare la bellezza che li circonda, nel-l’arduo compito e con il sincero desiderio di nutrire anche quella metà dimondo che il cibo non se lo sa produrre da sé e deve acquistarlo, i“consumatori”. Sono in tanti e vivono sparsi in tutto il mondo: alcuni sonosempre sotto i riflettori perché conducono vite esemplari e difficili in postidove in realtà sarebbe molto più facile omologarsi al frenetico resto delmondo, come i Paesi industrializzati; altri invece sono dimenticati da tuttiperché lavorano in condizioni estreme, in angoli quasi nascosti della Terra.Ma sono tutti ugualmente consapevoli del proprio contesto, interagisconocon rispetto e intelligenza con la cultura, la società, il terreno e gli organi-smi viventi che popolano i loro campi. Sanno fare cose buone da mangiaresenza far danno a nessuno, con il solo desiderio di poterlo fare sempre me-glio e sempre di più, con la consapevolezza di non essere soli nel mondo econ la voglia di restare in qualche modo uniti, seppur a distanza, per nonperdersi, per non scomparire, per potersi aiutare e aiutare la Terra Madreattraverso la loro rete.

Questi uomini e donne hanno un rapporto con la terra, con l’acqua,con tutta la natura che è difficile da insegnare a chi l’ha dimenticato, a chinon lo può vivere tutti i giorni sulla propria pelle perché è circondato dalcemento o dal traffico: a chi deve comprare il proprio cibo in un negozio,a chi vede il proprio cibo uscire da una scatola e non crescere sugli alberi,camminare nella propria aia e nei propri pascoli o nuotare nel mare chesta di fronte a casa sua. Queste persone purtroppo, a causa di un sistemaagricolo industriale globale che coinvolge tutto il pianeta, che è control-lato da poche persone e che ha estromesso milioni di contadini dalle cam-pagne per mandarli a vivere in città, hanno cancellato dalle loro menti ilvalore del lavoro contadino, hanno finito per svilire il valore del cibo fino

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a renderlo pari esclusivamente a quello del denaro. Ma il cibo vale moltodi più del solo denaro.

In Kentucky c’è un contadino, Wendell Berry, che è anche un grandepoeta. Lo ringrazio sempre per aver scritto in un suo libro che “mangiare èun atto agricolo”. Questa semplice frase è diventata presto uno dei nostrislogan preferiti, perché in poche parole dice tantissimo di ciò che cerchia-mo di fare con Terra Madre. Ci dice che ogni volta che scegliamo di man-giare qualche cosa, in realtà scegliamo anche il lavoro di chi quel cibo l’haprodotto. Scegliamo dei luoghi che ci sono più o meno vicini, un tipo diagricoltura o di pesca, un modo di trasformare i prodotti, delle persone chelavorano. Uno stile di produzione che può essere buono per la terra e perchi ci lavora oppure no. Chi produce da sé il proprio cibo lo sa che“mangiare è un atto agricolo”, perché sa che cosa c’è dietro a quello chemangia, sa il lavoro che ha comportato, sa il tipo di patto che ha dovutostringere con la terra e con il mare. Lo stesso vale per chi quel cibo lo com-pra direttamente dai contadini o dai pescatori, perché li conosce, sa doveabitano, sa cosa fanno tutti i giorni.

Ma c’è anche chi quel cibo lo compra in un supermercato, in un nego-zio in città – i “consumatori” – e non ha mai visto un campo di grano o unabarca di pescatori attraccare al molo la mattina presto dopo una notte di la-voro. Queste persone si sono così abituate a trovare il cibo già inscatolato,già trasformato da qualche fabbrica, già pronto e surgelato magari, che nonne conoscono più la storia. Non sanno il lavoro che c’è dietro, non sanno sequel lavoro è un lavoro ben pagato, se è un lavoro che rispetta gli equilibridella madre terra, se è un lavoro frutto di tradizioni antiche che possono es-sere messe in pericolo. Non sanno nemmeno più gustarlo e trarne piacere,scegliere il meglio per il proprio palato e per la propria cultura. A questepersone bisogna ricordare tutti i giorni che “mangiare è un atto agricolo” eche scegliendo i prodotti di un’agricoltura sana, che inorgoglisce chi la fa,che fa guadagnare a sufficienza i contadini, che è sostenibile, bella e armo-nica con la natura, esse scelgono e supportano il futuro della nostra Terra.

Da molti anni, più di venti, Slow Food ha messo a punto una formulaper degustazioni guidate che si chiama “laboratorio del gusto”. Sono unmodo originale, estremamente innovativo ancora oggi – tant’è vero che an-che molti altri soggetti lo hanno adottato – per riavvicinarsi al cibo e impa-rare a conoscerlo. È di questo che oggi hanno bisogno i “consumatori” pertrasformarsi in qualcosa di più responsabile, attivo e complesso, in veri al-leati dei produttori: in “co-produttori”. Durante i laboratori del gusto,esperti o gli stessi produttori presentano, tramite l’assaggio, viaggi in terri-tori, panoramiche su categorie merceologiche, comparazioni tra alimenti

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simili: spiegano la qualità, insegnano a riconoscerla al palato e la motivanoper via delle tecniche produttive differenti, gli ecosistemi di provenienza,l’abilità degli artigiani, l’importanza delle materie prime e quindi della bio-diversità, degli stili di allevamento e molto altro. Sono degustazioni, è vero,ma in realtà sono molto di più: si parla di storia, si narrano vicende umane,c’entrano la geografia, la cultura materiale, un po’ di sociologia ed etnogra-fia, a volte botanica, altre zootecnia oppure enologia. Un approccio com-plesso che diventa semplice in bocca: perché è cibo.

I laboratori del gusto però non possono prescindere da una cosa fonda-mentale: l’allenamento sensoriale. Si tratta di ri-educare i propri sensi a ri-conoscere i sapori, a vedere le differenze di aspetto o a distinguere profumie odori. La cosa interessante è che dopo più di vent’anni, attraverso questapratica, abbiamo pienamente compreso che l’allenamento dei sensi nonserve soltanto a riconoscere le qualità dei cibi, a sceglierli e a goderne con-sapevolmente. Insieme alle narrazioni sui prodotti ci apre a una nuova vi-sione del mondo: i sensi allenati permettono di leggere meglio la realtà, siaquella in cui viviamo sia quella “globale”. Ecologia, giustizia sociale, spo-polazione delle aree rurali, cementificazione, nucleare o privatizzazionedell’acqua sono argomenti che entrano a pieno titolo nel discorso, perchénon si può scindere la considerazione del cibo da quella del luogo in cui èprodotto, come non si può non tenere in conto chi l’ha fatto e la vita di chilo consuma. Non soltanto “siamo quel che mangiamo”, ma siccome man-giamo siamo, ci rapportiamo al mondo e ne prendiamo coscienza, e miglio-riamo o peggioriamo le nostre vite di conseguenza. Ecco allora un buonmotivo, non soltanto edonistico, per parlare di “diritto al piacere”.

L’uomo è il suo cibo e il cibo è l’uomo: natura che diventa cultura.Forti di questo punto di vista allora potremmo iniziare a fare alcune con-statazioni che non dipingono un quadro molto felice per la nostra specie di“consumatori”. Sappiamo sempre che cosa stiamo mangiando, da doveproviene, chi l’ha fatto, che cosa contiene? Oggi questa consapevolezza èuna cosa rara, che a volte va conquistata con impegno, magari cambiandole proprie abitudini, soprattutto se si vive in città. Se poi la si ottiene, damolti viene vista come un lusso, come se non fosse un diritto elementare ditutti. Perché oggi il più delle volte il cibo lo subiamo, più o meno passiva-mente, più o meno direttamente. E ci siamo abituati.

Non è soltanto una questione personale, legata alla possibilità di saperee di conoscere. È una questione più articolata, perché il cibo lo subisconotanto i “consumatori” quanto gli agricoltori che non hanno mai vissuto unacrisi di settore grave e indiscriminata come quella attuale, in cui i prezzi dilatte, carne e vegetali spesso non pagano neanche i costi di produzione. I

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contadini di tutto il mondo sono schiacciati da politiche commerciali chenon danno valore al cibo e lo trattano come un bene di consumo qualsiasi,come fosse un’auto, un bullone o un paio di scarpe. Sono vittime – insiemea intere popolazioni di Paesi poveri – di speculazioni finanziarie su grandescala e sono rimasti in pochi, con poco peso politico in termini di voti chepossono garantire.

E c’è l’ambiente: terreni stressati, impoveriti e resi sterili nel lungoperiodo da pratiche agricole di stampo industriale non rispettose dei ritminaturali. Inoltre vengono cancellati da una cementificazione che sembranon avere più limiti, nemmeno di decenza, a partire da quelli legislativi.La terra per chi vuole fare il contadino sta diventando un problema. Comel’acqua: le falde acquifere sono inquinate dai tanti prodotti chimici copio-samente sparsi nei campi e da allevamenti intensivi insostenibili. Sonosovra-sfruttate da un’agricoltura industriale sempre più assetata (il 70%delle risorse idriche è usato in agricoltura) e vengono anche controllate afini di profitto, quando invece l’acqua è un bene comune e come tale an-drebbe distribuito liberamente. La biodiversità inoltre si riduce drammati-camente per privilegiare le monocolture, le razze animali o le varietà ve-getali più produttive.

Non soltanto ci siamo dimenticati che “mangiare è un atto agricolo”:non siamo più noi che mangiamo il cibo, è il cibo che ci sta letteralmentemangiando insieme agli agricoltori, alla biodiversità, alla terra, all’acqua eagli altri beni comuni, non ultima la conoscenza. In tempo di crisi epocali,che riguardano tutti i settori della nostra vita, crisi che sembrano strutturalie non cicliche, urge un cambio di paradigma che può cominciare dal nostrorapporto con il cibo, come atto di civiltà e di umanità. In realtà la prima ri-sposta a questi problemi molto complessi è piuttosto semplice e, se voglia-mo, anche piacevole: riprendiamoci il cibo re-imparandolo, rendiamo ilmangiare un atto che non sia più passivo. Un atto agricolo, ecologico e po-litico (nel senso più nobile di questa parola).

Alleniamo i sensi per capire, conoscere, scegliere. Riprendiamo confi-denza con i ritmi della natura, con i saperi del cibo. Allora ricercare ali-menti stagionali e locali, comprarli direttamente dai contadini e da chi litratta bene, dal punto di vista economico non sarà un problema, una perditadi tempo, ma sarà un piacere che alla fine avrà anche vantaggi per il nostroportafogli. Da qui può davvero partire un nuovo umanesimo, in cui qualità,ecologia e giustizia sociale tornano a essere cardini insostituibili, da cuimolto benessere consegue. Se mangiare è un atto agricolo, allora diventia-mo tutti contadini, “co-produttori”, nell’animo e a partire dalle nostre cono-scenze, anche se abitiamo in centro a Milano. Se non coltiviamo ortaggi

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coltiviamo almeno la civiltà che li produce, perché è la nostra civiltà. Di-ventare contadini, dentro o fuori, non significa tornare al passato o bloccareil progresso, non è qualcosa di utopistico, irrealizzabile o sconveniente dalpunto di vista economico. Oggi le regole del gioco sono cambiate e non èun caso che, come dice Edgar Morin, “se tutto deve ricominciare, alloratutto è già ricominciato”. Guardate quanti mercati contadini, quante formedi distribuzione alternativa, quanti orti urbani, quanti nuovi modi di coltiva-re e allevare in maniera sostenibile si stanno diffondendo. Sono già nellavostra città o nel vostro territorio, sono in tutto il mondo. La rete delle co-munità del cibo di Terra Madre ce lo sta dimostrando insieme a un numerosempre maggiore di cittadini e contadini che sta lentamente, quasi in sordi-na, ridisegnando le nostre possibilità in fatto di cibo. Avviene nel Nord co-me nel Sud del mondo, tra ricchi e tra poveri. Allenare i sensi porta unanuova sensibilità: una cosa che non si compra o si vende, né si cancella.

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Un altro sentire

di Francesca Alfano Miglietti

“… nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dua-lismi […]. Primeggiano tra questi quelli di sé/altro, men-te/corpo, cultura/natura, maschio/femmina, civilizza-to/primitivo, realtà/apparenza, intero/parte, agente/espe-diente, artefice/prodotto, attivo/passivo, giusto/sbagliato, ve-rità/illusione, totale/potenziale, Dio/uomo”.

Donna Haraway

La tecnologia, prodotto umano per eccellenza, ha da sempre moltipli-cato ed esteso quelle che sono le facoltà umane. Oggi, però, questo cammi-no parallelo è divenuto così intimo che il tecnologico e il biologico, comecategorie, si stanno unendo e completando vicendevolmente. Le macchinepre/cibernetiche potevano essere infestate, ma, in fondo, le macchine non simuovevano, né si progettavano da sole. Non erano autonome, non potevanoraggiungere l’ideale umano ma solo schernirlo. Le macchine di questa finesecolo hanno reso totalmente ambigua la differenza tra naturale e artificiale,tra mente e corpo; le nostre macchine sono fastidiosamente vivaci e noispaventosamente inerti.

Il tecnocriticismo degli anni Sessanta e Settanta aveva indirizzato inmodo esclusivo le sue forze verso una trattazione radicata nelle tecnologiedella comunicazione: ricordiamo, per esempio, le esperienze sulle estensio-ni corporee nella tecnologia di Marshall McLuhan e gli studi sulla ciberne-tica di Norbert Wiener. Parallelamente allo studio sulle tecnologie dellacomunicazione si iniziavano a gettare le basi per l’analisi delle bio-tecnologie che, tenute in un primo momento in secondo piano, sarebberodivenute, dopo qualche decennio, il nucleo fondante delle trattazioni tecno-scientifiche contemporanee. La rivoluzione più importante e di più vastoraggio che oggi si delinea all’orizzonte è rappresentata dalla possibilità diintervenire, replicare, alterare e soprattutto ricreare il processo organico delcorpo bio-tecnologicamente. L’ingegneria genetica e la tecnologia della ri-produzione sono tra gli esempi più significativi in questo senso; si assiste auna sorta di riscrittura degli elementi corporei, e in quest’ottica gravitanoanche le nanotecnologie, la prostetica, la robotica, le realtà virtuali. Questaconvergenza di intenti, di visioni e di sperimentazioni propone un corpocome “una superficie di incrocio di molteplici e mutevoli codici d’informa-zione, dal codice genetico fino a quelli dell’informatica”.

Dalla sorveglianza nella rete di bio-potere di Foucault, agli interventi