L’uomo nuovo in Cristo: V oboedientìa fidei come questione ... · relazione tra Dio e l’uomo...

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Teresianum 62 ( 2011) 125-145 L’uomo nuovo in Cristo: Voboedientìa fidei come questione antropologica F rancesco B rancaccio La forma cristocentrica dell’antropologia è un dato acquisito e ir- rinunciabile della teologia contemporanea1. Se si considera, infatti, il legame tra essere umano e persona di Cristo, si è abbastanza pronti a individuare in Cristo e nel suo mistero il fondamento, la pienezza, il compimento, la rivelazione dell’uomo nuovo. Questi termini sono i più ricorrenti quando si deve dare ragione della “novità antropologica” cristiana, pensata in eterno dal Padre nel Figlio suo e attuata storica- mente nell’opera della redenzione. Ma l’impiego condiviso di una terminologia ormai consolidata è sufficiente da solo a garantire una sostanziale univocità nelle proposte antropologiche23 ? È sempre univoca la definizione del nesso che intrec- cia l’interpretazione teologica dell’uomo al suo riferimento cristologi- co? È proprio dalla comprensione di questo legame che dipendono fondamentali conseguenze circa la natura dell’uomo nuovo e la sua responsabilità di realizzarla nella storia. L’enunciato che fissa l’impianto cristocentrico dell’antropologia deve dunque essere compreso e approfondito nella sua reale pregnanza 1 Proponendo una non facile «ricostruzione della vicenda contemporanea dell’Antropologia Teologica», uno studio condotto sui trattati pubblicati nel post-concilio evidenzia che «la prospet- tiva fondamentale sembra essersi consolidata attorno alla tesi deWarchitettura dell'Antropologia Teologica incentrata su Gesù Cristo, nella forma di un cristocentrismo trinitario. Ciò ha consenti- to di raccogliere la lezione fondamentale del momento conciliare, e cioè l’acquisizione metodolo- gica della rivelazione come “principio” della ragione teologica. Ne è venuta la conseguenza che svolgere l’antropologia secondo la rivelazione equivale a pensarla in riferimento alla cristologia. Di qui l’acquisizione comune che l’antropologia deve essere ricostruita assumendo la cristologia come “principio” e “forma” del discorso cristiano sull’uomo, perché l’Antropologia Teologica è l’antropologia della rivelazione (c non della natura, o della storicità moderna, o della religiosità universale) e la rivelazione propriamente è Cristo Gesù. Quest’acquisizione è andata gradualmente precisandosi nello scorcio di fine secolo, in particolare negli ultimi due decenni» (F.G. BRAMBIL- LA, «Antropologia Teologica», in: G. C anobbio - P. CODA [cdd.], La Teologia del XXsecolo. Un bilancio, voi. II: “Prospettive sistematiche”, Roma, 2003, p. 175-286, qui p. 188-189). 3 E, infatti, lo stesso studio appena citato, pur rilevando l’evidente consenso sull’impianto cri- stocentrico dell’antropologia teologica contemporanea, osserva al contempo che «proprio questa convergenza sembra subito differenziarsi quando si vuol mettere in luce che l’umanità singolare di Gesù comporta una determinazione dell’essere uomo per tutti gli uomini» (F.G. B rambilla , «Antropologia teologica», p. 186).

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Teresianum 62 (2011) 125-145

L’uomo nuovo in Cristo:V oboedientìa fideicome questione antropologica

F r a n c e s c o B r a n c a c c io

La forma cristocentrica dell’antropologia è un dato acquisito e ir­rinunciabile della teologia contemporanea1. Se si considera, infatti, il legame tra essere umano e persona di Cristo, si è abbastanza pronti a individuare in Cristo e nel suo mistero il fondamento, la pienezza, il compimento, la rivelazione dell’uomo nuovo. Questi termini sono i più ricorrenti quando si deve dare ragione della “novità antropologica” cristiana, pensata in eterno dal Padre nel Figlio suo e attuata storica­mente nell’opera della redenzione.

Ma l’impiego condiviso di una terminologia ormai consolidata è sufficiente da solo a garantire una sostanziale univocità nelle proposte antropologiche2 3? È sempre univoca la definizione del nesso che intrec­cia l’interpretazione teologica dell’uomo al suo riferimento cristologi­co? È proprio dalla comprensione di questo legame che dipendono fondamentali conseguenze circa la natura dell’uomo nuovo e la sua responsabilità di realizzarla nella storia.

L’enunciato che fissa l’impianto cristocentrico dell’antropologia deve dunque essere compreso e approfondito nella sua reale pregnanza

1 Proponendo una non facile «ricostruzione della vicenda contemporanea dell’Antropologia Teologica», uno studio condotto sui trattati pubblicati nel post-concilio evidenzia che «la prospet­tiva fondamentale sembra essersi consolidata attorno alla tesi deWarchitettura dell'AntropologiaTeologica incentrata su Gesù Cristo, nella forma di un cristocentrismo trinitario. Ciò ha consenti­to di raccogliere la lezione fondamentale del momento conciliare, e cioè l’acquisizione metodolo­gica della rivelazione come “principio” della ragione teologica. Ne è venuta la conseguenza che svolgere l’antropologia secondo la rivelazione equivale a pensarla in riferimento alla cristologia. Di qui l’acquisizione comune che l’antropologia deve essere ricostruita assumendo la cristologia come “principio” e “forma” del discorso cristiano sull’uomo, perché l’Antropologia Teologica è l’antropologia della rivelazione (c non della natura, o della storicità moderna, o della religiosità universale) e la rivelazione propriamente è Cristo Gesù. Quest’acquisizione è andata gradualmente precisandosi nello scorcio di fine secolo, in particolare negli ultimi due decenni» (F.G. BRAMBIL­LA, «Antropologia Teologica», in: G. C a n o b b io - P. CODA [cdd.], La Teologia del XXsecolo. Un bilancio, voi. II: “Prospettive sistematiche”, Roma, 2003, p. 175-286, qui p. 188-189).

3 E, infatti, lo stesso studio appena citato, pur rilevando l’evidente consenso sull’impianto cri­stocentrico dell’antropologia teologica contemporanea, osserva al contempo che «proprio questa convergenza sembra subito differenziarsi quando si vuol mettere in luce che l’umanità singolare di Gesù comporta una determinazione dell’essere uomo per tutti gli uomini» (F.G. B r a m b il l a , «Antropologia teologica», p. 186).

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di significato e nella sua effettiva rilevanza normativa per la definizione teologica dell’uomo. Se l’antropologia teologica contemporanea è unanime nel definire l’uomo alla luce di Cristo, uomo nuovo, da questo principio comune possono comunque derivare modelli interpretativi diversi, distinguibili dal modo di rispondere ad alcune questioni di fondo. Proviamo a formularne alcune.

In primo luogo: la definizione della natura dell’uomo precede o segue l’evento di Cristo? Esiste cioè un concetto cristiano di “uomo” già desumibile per “natura”, anche se è poi attuato pienamente solo nell’umanità di Cristo? Oppure solo la Rivelazione positiva che si concentra nell’evento di Cristo può consentire la conoscenza e la rea­lizzazione dell’identità ontologica dell’uomo? Con quali conseguenze per l’effettiva responsabilità storicamente e soggettivamente affidata a ciascuna persona umana?

La relazione con Dio definisce e identifica l’uomo, nell’atto della creazione e nel suo compimento cristologico: ma si può forse parlare di relazione tra Dio e l’uomo come di un rapporto simmetrico che inter­viene tra due soggetti già indipendentemente costituiti? La relazione con Dio si limita ad elevare l’uomo o è proprio essa che lo costituisce come tale? E allora questa relazione deve essere intesa come legame posto unilateralmente da Dio nell’essere dell’uomo creato o piuttosto, perché conduca ad un autentico compimento dell’uomo, deve maturare fino alla cosciente e libera risposta che ogni persona umana rende a Dio in Cristo?

Un altro ordine di domande può essere così sintetizzato: Cristo è la verità dell’uomo solo nel senso che la rivela pienamente o anche nel senso che la costituisce e la fonda nella sua persona, e così di conse­guenza la rivela?

Ancora un’altra pista di riflessione: il compimento cristologico dell’essere umano raggiunge ogni singola persona per il solo motivo che essa partecipa della natura umana oggettivamente redenta, o, di fatto, è richiesta anche la maturazione di una pienezza antropologica che sia riconosciuta, accolta o conseguita a dimensione soggettiva?

E infine, una questione spesso poco esplorata ma tutt’altro che marginale: in che modo la missione ecclesiale è resa responsabile dell’attuazione storica della pienezza antropologica già compiuta in Cristo?

Si tratta di questioni che mirano al centro dell’antropologia cri­stiana come disciplina teologica. La questione assume una posizione di primo piano anche nel contesto di una teologia dell’evangelizzazione. In questa sede vogliamo proporre un contributo per una risposta tra­sversale a tali interrogativi, in dialogo con espressioni significative dell’antropologia cristiana postconciliare, nell’intenzione di recuperare il ruolo fondante del Verbo di Dio come principio ermeneutico del rapporto tra Cristo e uomo e come chiave di lettura della trattazione teologica dell’antropologia. Vogliamo far emergere il legame di dipen­denza che sottopone la concreta realizzazione dell’uomo nuovo in

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Cristo alla rivelazione della sua Parola e all’effettivo grado di acco­glienza e compimento che l’uomo a livello personale le riserva nell’obbedienza della fede. A questo proposito, la Verbum Domini definisce Gesù, nuovo Adamo, l’uomo vero, come “colui che compie in ogni istante non la propria volontà ma quella del Padre”3. La definizio­ne dell’uomo nuovo appare qui esplicitamente collegata all’effettiva oboedientia fìdei.

Si tratta, inoltre, di richiamare la responsabilità ecclesiale e sog­gettiva del credente, in ordine alla piena conformazione all’umanità di Cristo, nella quale l’uomo nuovo è già realizzato.

Articoliamo questa proposta in due tappe, per cogliere la deter­minante rilevanza della risposta alla Parola di Dio per la definizione dell’uomo in quanto creato e in quanto compiuto in Cristo. Complete­remo il percorso prospettando alcune possibili implicazioni in chiave ecclesiologica e morale.

1. L’uomo ad immagine e somiglianza del Creatore e la sua costitutiva relazione con la Parola di Dio

Come punto di partenza della nostra argomentazione, ripercor­riamo alcune nozioni e immagini tipiche della visione cristiana dell’uomo creato e redento in Cristo, consolidate nella coscienza teolo­gica, per pome in evidenza come esse stesse già suggeriscano l’ontologico legame di dipendenza che sottopone alla Parola di Dio non solo la conoscenza, ma l’attuazione stessa dell’identità umana. Si potrà successivamente procedere per definire la rilevanza antropologica dell’obbedienza della fede, che risalta proprio nel contesto del rapporto tra Parola di Cristo ed essere dell’uomo, tra la pienezza dell’umanità - creata nella Grazia e nella Verità di Cristo - e la sua concreta attuazione storica, vincolata anche alla responsabilità personale dell’uomo e alla missione della Chiesa.

1.1. L ’uomo, creatura ad immagine e somiglianza di Dio, in sé compiu­ta

Creaturalità, relazionalità e tipico riferimento teologale, sono le coordinate che nel libro della Genesi identificano la posizione dell’uomo nel campo del reale.

3 BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica Verbum Domini, 30.9.2010, 12.

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Come creatura, l’uomo è in se stesso il vertice del mondo terre­no4. Il progetto del Creatore ha disposto che tutte le creature terrene siano state concepite in funzione dell’uomo, “signore di esse” (GS 12), al quale sottoporre come custode e coltivatore l’intero giardino della creazione (cfr. Gen 2,15)5.

Pur se la creazione non trova il suo significato se non finalizzata all’uomo, all’uomo invece non è sufficiente il rapporto con le altre creature terrene per trovare la propria pienezza di senso6. In se stesso egli è comunione, ha bisogno di “un aiuto che gli corrisponda” (Gn 2,18; cfr. Gen 2,20). Nella comunione di maschio e femmina, emerge così la struttura relazionale che contraddistingue la natura sociale umana nell’orizzonte della creazione, e per la quale l’uomo “senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti” (GS 12).

Tra tutte le creature, l’uomo è l’unico ad essere intimamente i- dentificato dall’immagine e somiglianza di Dio, “capace - spiega la Gaudium et Spes - di conoscere e di amare il proprio Creatore” (GS 12).

«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31). Una volta che l’uomo e la donna sono stati posti al suo vertice, la creazione è completa in se stessa, è “molto buona” agli occhi del suo Creatore7. Non la creazione da se stessa si dichiara completa, e neanche l’uomo si comprende da sé come tale. Il senso della creazione e dell’uomo sono stati concepiti dal Creatore, la loro finalità è stata

4 Eccezionalità, superiorità, primato sulle altre creature, sono espressioni tipiche per commen­tare il posto che la Genesi riconosce all’uomo nel piano del Creatore. Cfr. in tal senso: S.J. Ba ÉZ, «L’uomo nel progetto di Dio: Genesi 1-3», in: B. MORICONI (ed.), Antropologia cristiana. Bibbia, teologia, cultura, Roma, 2001, p. 167-205, qui 186; G.J. WENHAM, Genesis 1-15, «World Biblical Commentary, 1», Waco, 1987, p. 61. Particolarmente efficace la sintesi suggerita da L. Ladaria: rimarcando che i due racconti della creazione, in Gen 1 e 2, attribuiscono all’uomo un posto di privilegio rispetto alle altre creature, fondato sulla sua particolare relazione con Dio, l’Autore conclude che «l’uomo non è una creatura in più, ma quella che dà a tutta la creazione il suo senso ultimo» (L.F. La d a r ia , Antropologia teologica, trad, di M. Manservigi - G. Occhipinti - M. Salvini, Casale Monferato - Roma, 1986 [orig. spagnolo: 1983], p. 71).

5 A questo proposito qualcuno parla già di una «vocazione» che l’uomo riceve dal Creatore, in quanto «capace di collaborare all’opera di Dio» (W. BRUEGGEMANN, Genesi, trad, di T. Franzosi, Torino, 2002 [orig. inglese: 1982], p. 67-68).

6 Cfr. W . BRUEGGEMANN, Genesi, p. 68-69.7 «Two features distinguish this last verse of the chapter from the preceding verses. First

“beautiful” now becomes very beautiful. Second, the preceding five days are all referred to indeterminately - a second day, a third day, etc. But this day is called “the sixth day”. Both of this two unique factors help to mark this sixth day as the acme of God’s creation thus far. Note also that the sixth day is treated much more extensively than the earlier days» (V.P. HAMILTON, The Book o f Genesis. Chapters 1-17, Grand Rapids, 1990, p. 141). Cfr. anche AGOSTINO DI IPPONA, De Genesi contra manicheos, 1,21,32: PL 34,203. Alcuni commentatori riferiscono invece la qualifica di “molto buona” direttamente alla creazione dell’uomo e della donna, piuttosto che all’intero creato. Su questa linea si pone Ravasi: «Posto al vertice di tutto il creato e al culmine dell’atto creativo, l’uomo appare come il capolavoro di Dio: non è semplicemente una “cosa buona” come tutte le altre creature, ma una “cosa molto buona”» (G. RAVASI, Il libro della Genesi. 1-11, «Guide spirituali all’Antico Testamento, 1», Roma, 1990, p. 39).

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posta in essere da Lui solo. Solo Lui può dichiarare che quanto voleva creare è stato compiuto*.

Appare dunque che alla natura creata dell’uomo non manchi niente altro affinché egli sia se stesso. Per creazione, l’uomo è posto da Dio come un essere in sé compiuto, ossia già capace di attuare la pro­pria identità, a condizione di comprendersi e determinarsi nella sua costitutiva relazione di comunione e dipendenza col Creatore. Per attuare la sua identità creaturale l’uomo non può rivendicare da parte sua la mancanza di qualcosa in se stesso, o richiedere che il Creatore completi la propria opera o lamentare la carenza di qualche condizione essenziale perché egli sia e viva così come Dio lo ha concepito e lo ha fatto8 9.

Poi, solo nell’orizzonte dell’intera economia della salvezza rea­lizzata in Cristo, si comprenderà che l’uomo, mentre veniva creato ad immagine e somiglianza di Dio, era già pensato per essere elevato alla sua autentica pienezza e al suo unico fine nell’umanità nuova di Cri­sto10. La piena e definitiva verità dell’uomo sarà dunque in Cristo, ma come frutto del libero e amorevole dono di Grazia: in vista di Lui Adamo era stato fatto, senza però che questa predestinazione potesse essere richiesta o prevista daH’immanenza dello statuto creaturale in cui era stato plasmato.

Nell’attualità della sua condizione creaturale, l’uomo in Adamo è già in una condizione essenziale ed esistenziale che lo identifica come tale e lo rende responsabile di se stesso davanti a Dio, agli altri e all’intero creato.

8 «Il v. 31 riporta la formula conclusiva di approvazione di tutta l’opera della creazione. Que­sto “ed ecco, era molto buono” acquista un grande rilievo nel linguaggio così severo, senza commozioni e superlativi, della fonte P. A senso, potrebbe anche essere tradotto con ‘pienamente compiuto’ (Procksch) e, a ragione, lo si riferisce più alla meravigliosa armonia e conformità col fine che non alla bellezza di tutto il cosmo» (G. VON RAD, Genesi. La storia delle origini, trad. di G. Moretto, «Letture bibliche, 3», Brescia, 1993 [orig. tedesco: 1972], p. 68). «La perfezione dell’intera creazione è espressa con una forma superlativa, inconsueta per l’autore solitamente laconico. L’ordine e l’armonia del cosmo, che P [la Tradizione sacerdotale] ha espresso attraverso un assetto preciso, sono in perfetta sintonia con la volontà ordinatrice di Dio» (E.H. MALY, «La Genesi», in R.E. BROWN, J.A. FlTZMYER, R.E. MURPHY [edd.], Grande Commentano Biblico, Brescia, 1973 [orig. inglese: 1968], p. 14).

9 «Guai a chi contende con chi lo ha plasmato, un vaso fra altri vasi d’argilla. Dirà forse la creta al vasaio: “Che cosa fai?” oppure: “La tua opera non ha manici”?» (Is 45,9). Questo versetto - conferma Westermann - «presuppone che l’immagine del vasaio si applichi alla creazione dell’uomo» (C. WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40-66, trad. di E. Gatti, «Antico Testamento, 19», Brescia, 1978 [orig. tedesco: 1966], p. 203). L’antropologia creaturale, ben assestata nella coscienza biblica, contestualizza la verità dell’uomo non in un’esigenza che insorga dalla sua natura creata, ma nella libera e insindacabile disposizione del Creatore. L’uomo è ciò che Dio ha fatto di lui.

10 «Quodcumque enim limus exprimebatur, Christus cogitabatur homo futurus» (TERTULLIANO, De carnis resurrectione, 6: PL 2,802); cfr. GS 22.

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1.2. L ’uomo, creatura dotata di volontà, compie se stesso se vive di fedeltà alla Parola di Dio

La “compiutezza” in cui l’uomo è già stato creato, è dunque affi­data alla sua responsabilità personale. L’uomo, infatti, in quanto ad immagine e somiglianza di Dio, è dotato di volontà, di libertà di scelta, di capacità di conoscere e amare. Per sua natura, egli deve esercitare la volontà per essere se stesso. Per questo motivo, il senso e il fine della natura dell’uomo, già compiuti secondo l’opera creatrice di Dio, sono ora affidati e sottoposti a lui stesso, per essere attuati storicamente in conformità alla disposizione del Creatore.

Affinché ciò sia possibile, il progetto del Creatore prevede il do­no della comunicazione di sé all’uomo tramite la parola. In corrispon­denza alla sua struttura creata, infatti, l’uomo deve realizzare se stesso attraverso l’uso consapevole della libertà di scelta. Egli deve cioè conoscere la verità da realizzare e attuare con libertà di scelta. Ma la verità dell’uomo è in Dio, non nell’uomo; non è agganciata alla libera autodisposizione dell’arbitrio umano, ma rimane legata alla sapienza divina. Per questo Dio liberamente e gratuitamente si comunica all’uomo nella forma della relazione storica, particolarmente esplicitata nella parola, affinché a lui sia possibile conoscere positivamente la verità divina che lo contraddistingue e disporre verso di essa la sua coscienza, là sua volontà e il suo agire.

In questo senso si legge il comando posto da Dio all’uomo nei ri­guardi dell’albero della conoscenza del bene e del male: «Nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire» (Gn 2,17)'

I commentatori avvertono che l’espressione “conoscenza del be­ne e del male” è una tipica costruzione del linguaggio semitico, che, citando due estremi contrapposti, vuole comprendere l’intera realtà tra essi racchiusa: per questo «il binomio bene e male non viene usato solo, né di preferenza, in senso morale. “Scienza del bene e del male” signi­fica l’onniscienza nell’accezione più ampia del termine»11 12.

Nel contesto della narrazione di Gen 2 - che descrive la proibi­zione del v. 17 all’interno della sovrabbondante elargizione di beni messa da Dio à disposizione dell’uomo e della donna - si può dunque interpretare il comando divino in tal senso: tutte le cose che Dio ha creato sono poste fuori di Lui e sono nella disponibilità dell’uomo, e di esse comunque l’uomo può disporre solo rispettando, favorendo, pro­muovendo la loro verità, non spadroneggiando su di esse; ma la fonte della verità e del bene, nettamente distinti dalla falsità e dal male, rimane in Dio, non fuori di Lui. La determinazione del vero e del bene

11 Cfr. L. A l o n s o S c h o k e l , «Motivos sapienciales y de alianza en Gn 2-3», in Biblica 43 (1962) 295-315; A. Fa n u l i, «Gn 2,17: il precetto nel contesto sapienziale di Gn 2-3», in: ASSOCIAZIONE B ib l ic a It a l ia n a , Sapienza e Torah. Atti della XXIX Settimana Biblica, Bologna, 1987, p. 213- 222.

12 G. VON Rad , Genesi, p. 92.

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non appartiene alle cose create, fatte dal nulla e poste fuori di Dio, su cui l’uomo può esercitare la propria creatività. Il vero e il bene appar­tengono all’essenza di Dio e solo lui può determinarli. All’uomo com­pete riconoscerli e attuarli, ma non può farsene signore, non li può stabilire da sé.

NeH’immagine dell’albero della conoscenza del bene e del male, di cui l’uomo non può mangiare, la Scrittura identifica così lo spazio sacro del consiglio divino, nel quale l’uomo non può accedere con diritto deliberativo.

Ma l’albero è comunque posto all’intemo del giardino, come tutti gli altri alberi, cioè nel contesto dell’ambiente creato nel quale l’uomo vive e si muove, perché, di fatto, la conoscenza del bene e del male, della verità e della falsità, è resa accessibile alla condizione creaturale dell’uomo. Alla conoscenza di ciò che è vero e buono l’uomo accede scoprendola e accogliendola dall’opera e dalla parola di Dio, non determinando autonomamente la verità e il bene come se ne fosse lui il signore.

Mangiare di quell’albero significa morire, perché ciò comporte­rebbe la lacerazione dei limiti creaturali entro i quali l’uomo è posto13. Mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, farsi arbitro e signore della verità e della morale, concepirsi contro la Parola di Dio manifestata o indipendentemente da essa, significa per l’uomo abbattere il confine della propria creaturalità e farsi dio14. Significa il rinnega­mento e la distruzione del proprio essere.

In positivo, il comando rivolto da Dio rivela che la fedeltà verso il suo Signore è la vita dell’uomo15. L’atto della creazione non esaurisce il legame vitale che unisce l’uomo a Dio, perché l’uomo, anche una volta creato, non è sussistente in sé. Egli è costitutivamente ad immagi­ne e somiglianza di Dio: come Limmagine nello specchio scom-pare quando perde il contatto con l’oggetto che riflette, così l’immagine di

13 L’interpretazione del divieto contenuto in Gen 2,17 come espressione del limite creaturale dell’uomo risale all’epoca patristica. Ne è testimone Efrem, che vede in quell’albero il limite tra l’armonioso ^tato creaturale in cui l’uomo era posto, e la «regione interna del paradiso» nella quale «non era consentito penetrare» (EFREM IL SlRO, Inni sul Paradiso, 3,3, trad. di I. DE FRANCESCO, «Letture cristiane del primo millennio, 39», Milano, 2006, p. 161).

14 «Il comandamento implica il limite e defmisce/separa il posto dell’uomo di fronte all’illimitatezza di Dio. Non è motivato, ma è dato perché l’uomo si affidi a Dio attraverso quel bene che il comando indica, vietando aH’uomo di superare il suo limite e di esercitarsi come una libertà vorace e illimitata» (F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica. Chi è l'uomo perché te ne curi?, «Nuovo corso di teologia sistematica, 12», Brescia 2005, p. 320).

15 «Il comando di non mangiare il frutto dell’albero posto al centro del giardino, infatti, espri­me molto di più della semplice osservanza di un comandamento. Esso, piuttosto, è indice di una chiamata all’ascolto che suscita la fiducia e la responsabilità personale. L’obbedienza a quel comando significa almeno due realtà: la prima, che si riconosce Dio come origine e fonte dell’esistenza; la seconda, che la realizzazione dell’uomo si compie nel rispetto della propria condizione. L’uomo non è Dio e non è posto neppure al centro del Giardino. Egli sarà sempre “accanto all’albero della vita” (Gn 2,9); non potrà mai, quindi, identificarsi con esso né pretendere di occuparne il posto» (R. FISICHELLA, La via della verità. Il mistero dell 'uomo nel mistero di Cristo, «Saggistica Paoline, 13», Milano, 2003, p. 150-151).

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Dio nell’uomo perde i suoi contorni quando l’uomo si allontana dal suo Signore. E poiché l’uomo è ad immagine, se smette di riflettere l’immagine allora deturpa il proprio essere, non è più se stesso, muore. L ’uomo è, vive, nel mantenere vivo il suo legame di fedeltà al suo Signore, legame che lo definisce nella sua identità più intima. L’uomo vive se conosce e attua il bene e rigetta il male, che sono per lui definiti dalla Parola di Dio, già impressa nell’essere creato e ancor più espressa nella comunicazione dialogica da lui stabilita16.

E infatti lo svolgimento storico della vicenda umana mostra fin dalle origini il peccato quale infedeltà alla Parola di Dio, per la quale l’essere ad immagine e somiglianza di Dio si trova deturpato: «Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l’uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l’ar­monia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione. Così l’uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (GS 13).

In sintesi fin qui possiamo affermare: per creazione, l’essere dell’uomo ha già una sua compiutezza ontologica corrispondente alla verità che Dio ha impresso in lui, ma si tratta di un’identità “affidata” all’uomo perché sia realizzata storicamente; perché questo avvenga, Dio liberamente provvede a comunicarsi, specie nella forma della parola. Ne consegue che nel piano della creazione, l’attuazione dell’ontologia dell’uomo dipende dalla Parola di Dio e dalla fedeltà dell’uomo ad essa. Al contrario, il peccato è «una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienez­za» (GS 13).

2. Il Verbo di Dio, via e verità dell’uomo nuovo

2.1. L ’uomo nuovo: da Adamo a Cristo

L’antropologia della Genesi non è l’antropologia biblica comple­ta e tanto meno può identificarsi con la visione intergale dell’uomo che

16 Rappresentando implicitamente il pensiero già espresso da diversi Padri (cfr. A. ORBE, «E1 mandato de Dios», in ID., Introducción a la teología de los siglos II y III, Roma - Salamanca, 1988, p. 284-297), Sant’Agostino suggerisce che il comando imposto da Dio riguardo l’albero della conoscenza del bene e del male costituisse per Duomo e la donna l’opportunità concreta di esercitare mediante un atto cosciente la virtù dell’obbedienza, nella quale la creatura avrebbe potuto così accogliere in modo libero e consapevole il proprio legame creaturale e vitale con il suo Creatore: «Oportebat autem ut homo sub Domino Deo positus alicunde prohiberetur, ut ei promerendi Dominum suum virtus esset ipsa obcdientia, quam possum verissime dicere solam esse virtutem omni creaturae rationali agenti sub Dei potestate; primumque esse et maximum vitium tumoris ad ruinam sua potestate velie uti, cuius vitii nomen est inobedientia. Non esset ergo unde se homo Dominum habere cogitaret atque sentiret, nisi aliquid ei iuberetur» (AGOSTINO DI IPPONA, De Genesi adLitteram libri duodecim, Vili, 6,12: PL 34,577).

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deriva dalla fede della Chiesa, che accoglie, custodisce, interpreta e trasmette la Rivelazione.

La globalità della fede della Chiesa, normativamente attestata nell’integrità della Sacra Scrittura, non si ferma a rilevare la compiutez­za di Adamo, ma a partire da essa legge la definitività dell’essere dell’uomo secondo la compiuta e completa rivelazione del progetto divino e la sua attuazione che avvengono in Cristo.

Alla luce di Cristo, Adamo è compreso come «figura di colui che doveva venire» (Rm 5,14)17. A partire dal parallelismo Adamo-Cristo definito dalla Lettera ai Romani, l’antropologia cristiana si è sviluppata fin dai primi secoli, rileggendo alla luce di Cristo l’attestazione vetero­testamentaria dell’identità umana e soprattutto identificandosi nel suo specifico impianto cristologico, fino a sancire che non si può conoscere l’uomo se non alla luce del mistero di Cristo, Verbo incarnato (cfr. GS 22). L’antropologia cristiana, che trova voce nella costituzione concilia­re Gaudium et Spes, legge dunque il parallelismo paolino in questa direzione: è primariamente Cristo che permette di capire chi sia Adamo, piuttosto che il contrario. L’identità e il senso di Adamo si mostrano e si realizzano, come radicale e gratuita novità, solo quando Cristo realiz­za e rivela l’Uomo nuovo18.

Ci troviamo dunque al nucleo dell’antropologia cristiana: pro­viamo anche in questo caso a riepilogarne i contenuti fondamentali, per impostare a partire da essi il rapporto tra Parola di Cristo ed essere dell’uomo.

«Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (GS 22). Questa efficace sintesi proposta dal Concilio, manifesta innanzitutto nella cristologia la fonte dell’antropologia, in Cristo la verità dell’uomo. Il testo lascia intendere che ogni verità che l’uomo raggiunge circa la propria condizione onto­logica, naturale e storica, deve essere ricondotta alla sua “sorgente” e al

17 «Facendo di Adamo il “tipo” (typos) del Cristo, Paolo fa qui un uso particolare di questo termine, normalmente applicato aH’interpretazione dei testi scritturali, ritenuti tali da delineare in anticipo e secondo il piano di Dio, delle realtà escatologiche. Paolo è il primo ad attestare questo termine in questa applicazione ermeneutica all’Antico Testamento che prefigurava - era convin­zione - le realtà del Nuovo Testamento» (S. LEGASSE, L 'epistola di Paolo ai Romani, trad. di P. Crespi, «Commenti biblici», Brescia, 2004 [orig. francese: 2002], p. 280).

18 «Il ragionamento paolino attribuisce un primato di valore alla cristologia e al suo impatto sulTuomo» (R. PENNA, Lettera ai Romani. Introduzione, versione, commento, voi. I: «Rm 1-5», «Scritti delle origini cristiane, 6», Bologna, 2004, p. 464). Precisa ulteriormente L. Ladaria: «Si Cristo es la perfección del hombre, la salvación en él es la única plenitud del hombre. Dios nos ha creado pensando en él, y en este sentido a él hay que darle el primato en todo. A partir del homo perfectus podemos llegar a entender lo que somos. El misterio del hombre sólo se eclarece en el misterio del Verbo encamado. Cuando Dios modelaba al primer Adán tenía en su mente el segundo. En este sentido tenemos un movimiento claro de Cristo a Adán. Pero a la vez debemos tomar en consideración la prioridad cronológica del primer Adán y el hecho de que es imposible que desde nuestra condición se llegue al hombre perfecto sin la intervención de su Hijo. Estamos ante una novedad radical» (L. LADARIA, Jesucristo, salvación de todos, «Teología Commilas, 1», Madrid, 2007, p. 31).

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suo “vertice” - la verità di Cristo - , per essere così perfettamente contestualizzata nella sua pienezza di significato e di valore. Cristo è il centro di unità e la fonte della sapienza, che permette di superare la frammentarietà e l’unilateralità delle singole conoscenze che l’uomo può raggiungere su se stesso, per rapportarle alla globale verità sul bene, sul senso e sul fine circa la persona, la collettività e la natura umana19. Dal punto di vista della “conoscenza” del mistero dell’uomo, dunque, Cristo ne è la fonte, la pienezza, il centro di unità, il criterio ermeneutico. In altri termini, Cristo è la verità di ogni singola certezza che l’uomo possa raggiungere, ma è anche la verità da cui ogni singola affermazione vera promana e a cui questa riconduce.

È necessario, a questo punto, considerare le ragioni che permet­tono di riconoscere in Cristo la verità dell’uomo. Nel suo punto di partenza, la sintesi antropologica offerta da GS 22 indica più precisa- mente il mistero del Verbo incarnato come la luce sul mistero dell’uomo. Viene cioè evocato che non dall’esterno dell’umanità, bensì in quanto “novissimus Adam” e “homo perfectus”, egli compie la rive­lazione e l’elevazione dell’uomo20. La verità dell’uomo è quindi l’umanità del Verbo incarnato. Solo in lui, nella sua carne, si trova scritta, rivelata, compiuta la pienezza dell’umanità. Cristo non è solo Colui che dice definitivamente e perfettamente chi è l’uomo: Egli nella sua carne è l’uomo nuovo e, in quanto tale,yb nuovo l’uomo.

Solo comprendendo l’umanità nuova come l’umanità di Cristo, si può cogliere lo specifico del rapporto tra cristologia e antropologia, la radicale e assoluta unicità dell’antropologia eristica. L’uomo è fatto nuovo da Cristo perché è fatto nuovo in Lui; Egli nella sua persona ha portato l’umanità alla sua pienezza, di cui Adamo era figura.

Non basta ricorrere all’incarnazione per motivare la creazione dell’umanità nuova in Cristo. Con l’incarnazione, l’umanità è stata assunta dal Verbo di Dio nell’unità della sua persona divina e per questo motivo da quel momento il Verbo di Dio è autenticamente uomo. Da uomo autentico, il Verbo incarnato ha portato la sua umanità nel filiale rapporto di perfetto amore e comunione che eternamente lo lega al Padre. Il sì eterno rivolto al Padre, ora il Verbo lo rinnova dall’interno della storia, con la perfezione della volontà umana e del cuore umano. La relazione di figliolanza divina, che per natura può legare solo le persone del Figlio e del Padre, ora è portata nella natura umana, assunta dal Verbo incarnato. E l’umanità assunta dal Verbo, quella che è portata nella relazione filiale con il Padre, è la stessa uma­

19 Sul concetto cristologico di Sapienza, come fonte di unità e di senso della verità, cfr. F. BRANCACCIO, «L’identità cristiana della Sapienza nel dialogo tra Fides et Ratio sulla verità», in Fides Quaerens 0 (2009) 111-140.

20 «Il Concilio parla deH’uomo alla luce di Cristo, non semplicemente perché in Cristo tutto viene illuminato ma perché nel Figlio incarnato si scopre in ultima analisi chi è e a che cosa è chiamato l’essere umano; non si tratta di una luce che viene dal di fuori, ma della stessa realtà della vita di Cristo» (L. LADARIA, «L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II», in: R. LATOURELLE [ed.], Vaticano II. Bilancio e prospettive, Assisi, 1988^, 939-951, qui 943).

nità di cui partecipa ogni uomo. In sintesi: per l’incarnazione la nostra umanità è assunta dal Verbo; ma per il sì filiale che Egli pronuncia con il dono di tutto se stesso, la nostra umanità in Lui è ricondotta al Padre come umanità vera. L’uomo nuovo è frutto dell’incarnazione e del sì detto dal Verbo di Dio, perfezionato e sigillato sulla croce. La croce, come dono totale del sì obbediente che Cristo rende al Padre nella carità con il sacrificio di tutto se stesso, è l’albero che vede la nascita dell’Uomo nuovo. Presso l’albero la disobbedienza di Adamo aveva generato l’umanità decaduta; sull’albero della croce il sì perfetto di Cristo è l’inizio dell’umanità nuova ricondotta nel sì al Padre.

Possiamo fin qui concludere: per il no di Adamo alla Parola di Dio l’umanità si distacca dalla comunione col suo Creatore; per il sì eterno del Figlio al Padre, la Parola di Dio si fa carne nell’umanità; per il sì terreno del Figlio dell’Uomo, l’umanità è portata nella Parola del Padre, è portata nella Verità.

Il sì che il Cristo dice al Padre da vero uomo, è concretamente la sua obbedienza filiale alla Parola del Padre. Un sì alla Parola del Padre che impegna tutta la volontà, tutta la mente, tutte le forze, tutto il tempo terreno di Cristo. In Lui ora è compiuto l’Uomo nuovo, che dice il suo sì totale alla Parola del Padre. Solo nel sì rivoltogli dall’Uomo Cristo Gesù, il Padre ritrova davanti a sé quell’uomo che aveva pensato fin dal momento della creazione come compimento di Adamcu e la cui realiz­zazione era stata invece deviata e deturpata dal peccato .

Ma c’è una differenza abissale, infinita, tra l’essenza della rela­zione tra Adamo e Dio e l’essenza della relazione resa possibile in Cristo tra l’Uomo nuovo e il Padre: Adamo poteva rispondere a Dio come creatura fatta a sua immagine e somiglianza; l’Uomo nuovo, invece, che è Cristo, risponde al Padre come Figlio.

L’uomo nuovo è nato, in Cristo. Questo significa forse che ogni uomo è già in sé compiuto e realizzato come uomo nuovo? In Cristo, l’umanità nuova entra nella relazione filiale col Padre. In che modo, per quale via, ogni singola persona umana partecipa di questa umanità nuova e della relazione filiale di Cristo con il Padre? 21

L’UOMO NUOVO IN CRISTO: VOBOEDIENTIA FIDE/ COME QUESTIONE ANTROPOLOGICA 1 3 5

21 II nuovo Adamo, l’Uomo vero, è colui che compie in ogni istante la volontà del Padre. La vera umanità compiuta da Cristo è posta nella relazione filiale di compimento della volontà del Padre: «Seguendo il racconto dei Vangeli, notiamo come la stessa umanità di Gesù si mostri in tutta la sua singolarità proprio in riferimento alla Parola di Dio. Egli, infatti, realizza nella sua perfetta umanità la volontà del Padre istante per istante; Gesù ascolta la sua voce e vi obbedisce con tutto se stesso; egli conosce il Padre e osserva la sua parola (cfr. Gv 8,55); racconta a noi le cose del Padre (cfr. Gvl2,50); “le parole che hai dato a me io le ho date a loro” (Gv 17,8). Pertanto Gesù mostra di essere il Logos divino che si dona a noi, ma anche il nuovo Adamo, l’uomo vero, colui che compie in ogni istante non la propria volontà ma quella del Padre. Egli “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Le 2,52). In modo perfetto, ascolta, realizza in sé e comunica a noi la Parola divina (cfr. Le 5,1)» (BENEDETTO XVI, Verbum Domini, 12).

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2.2. L’uomo in Cristo, rinnovato dalla Grazia, compie se stesso nell’obbedienza alla fede

2.2.1. Partecipare per grazia a ll’umanità nuova di Cristo

Già per creazione (cfr. par. 1.2.), Tuomo è chiamato dalla Parola di Dio alla responsabilità di accogliere il progetto divino sul proprio essere creato e a realizzarlo, a conformarsi ad esso, con l’esercizio della propria volontà e della propria capacità di conoscenza e di scelta. Tuttavia questa capacità, storicamente, viene a trovarsi intrinsecamente debilitata dal peccato e l’uomo si dimostra così inadeguato a corrispon­dere pienamente al progetto di Dio.

Solo il Verbo di Dio, assumendo la natura umana nell’unità della sua persona divina e conformandosi perfettamente da vero uomo alla volontà del Padre, si rende capace di portare l’umanità là dove nessun altro avrebbe mai potuto: non solo al compimento dell’essere di Adamo sfigurato dal peccato, ma infinitamente oltre, nella relazione di figlio­lanza divina.

Se nella persona di Cristo, Verbo incarnato, l’umanità ha rag­giunto la sua pienezza totalmente imprevista e imprevedibile dalla natura creata, cosa fa capire che la stessa realizzazione umana sia resa possibile anche a ogni altra persona terrena? L’umanità assunta dal Verbo è quella di Adamo, la stessa di ogni altro uomo: la pienezza a cui Cristo porta la propria umanità, come può essere offerta, compartecipa­ta a ogni altra persona?

L’interrogativo di per sé è giustificato: se cioè la natura umana di Adamo è stata di fatto elevata nella persona del Verbo, allora la nozione di umanità è già certamente cambiata. Il suo riferimento, il suo archetipo, la sua fonte e la sua verità non sono più Adamo, ma Cristo. Ma da Adamo la natura umana è partecipata ad ogni persona per appar­tenenza carnale; cosa permette ora ad ogni persona di partecipare effettivamente alla natura umana elevata in Cristo? In modo che l’umanità nuova di Cristo non sia solo una nozione, un concetto, ma una reale pienezza disponibile ad ogni uomo.

È la questione a cui risponde san Paolo nella Lettera ai Romani: «Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5,15; cfr. 5,12-20)“ . Consideriamo innanzitutto l’eccedenza, 22

22 «Il confronto tra Adamo e Cristo apre a quello tra la trasgressione e il dono della grazia: alla causalità della trasgressione di Adamo si oppone quella della grazia divina realizzata in Cristo. Da una parte si trova la trasgressione (paraptòma), che possiamo rendere con “caduta”, ripetuta più volte nei vv. 15-21, daH’altra il dono di grazia (charisma) che, nel resto della pericope, è riutilizza­to soltanto al v. 16 [...]. Nella seconda parte del versetto è introdotto il criterio numerale che dimostra lo scarto tra la trasgressione e la grazia: dalla causalità di “uno” (Adamo-Cristo) dipen­dono le conseguenze per “molti”». (A. PITTA, Lettera ai Romani. Nuova versione, introduzione e

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l’asimmetria, tra l’influenza di Adamo e quella di Cristo: l’opera di Cristo non interviene semplicemente come ristabilimento della giustizia richiesto per il fatto stesso del peccato di Adamo, cioè come azione che controbilancia la quantità negativa di ingiustizia commessa, con una uguale e connaturale quantità di segno contrario. L’opera di Cristo non è raffigurabile come la riparazione del danno causato da Adamo me­diante un commisurato atto di ripristino della natura umana corrotta23. In tal caso, l’azione di Cristo, intesa semplicemente come un atto che colmasse il guasto causato da Adamo, sarebbe ridotta a un intervento in sé stesso preventivabile nella natura stessa dell’umanità ferita. Invece, l’opera di Cristo trascende l’opera di Adamo non solo nella sua direzio­ne (obbedienza al posto della disobbedienza), ma anche nella sua natura (la grazia al posto della caduta)24.

In che modo dunque l’uomo caduto in Adamo può accedere alla novità del dono di Cristo? La prima risposta è: non per natura, ma per

commento, «I libri biblici, 6», Milano, 20012, p. 236; cfr. p. 208-242). Cfr. J.A. FlTZMYER, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, trad, di E. Gatti, Casale Monferrato, 1999 (orig. inglese: 1993), p. 469-510; S. LÉGASSE, L'epistola di Paolo ai Romani, p. 255-295; C.E.B. CRANFIELD, La lettera di Paolo ai Romani, voi. I, trad, di D. Tomasetto - B. Corsani, Torino, 1998 (orig. inglese: 1985), p. 140-158; D. ZELLER, La Lettera ai Romani, trad, di G. Pontoglio, «Il Nuovo Testamento commentato», Brescia, 1998 (orig. tedesco: 1995), p. 174-187.

2j Cfr. le testimonianze patristiche delTAmbrosiaster (Commentarius in Epistolam ad Roma­nos, 5,15: PL 17,101) e di Agostino di Ippona (Expositio quarumdam propositionum ex Epistola ad Romanos, 29,2: PL 35,2067-2068). «L’idea è che non c’è equivalenza tra ciò che si è verificato nell’umanità a causa del peccato di Adamo quando ha commesso il peccato e il dono che Dio fa alla medesima umanità per mezzo del Cristo» (S. LÉGASSE, L'epistola di Paolo ai Romani, p. 283; cfr. p. 283-293). Cfr. in tal senso anche C.E.B. CRANFIELD, La lettera di Paolo ai Romani, I, p. 149-150.

24 «Il parallelismo formale [tra Cristo e Adamo] nasconde un contrasto reale. Se infatti Adamo è causa dell’ingresso del Peccato e della Morte nel mondo, Cristo lo è della “giustizia” e della vita eterna. Non solo il loro influsso si volge in direzioni antitetiche, ma anche la loro azione influente è di segno opposto: da una parte la disobbedienza, dall’altra l’obbedienza (v. 19). Inoltre pure l’equazione formale: “Ciò che Adamo è in negativo, Cristo lo è in positivo” non rende con esattezza il loro rapporto. Paolo non accetta senza riserve e condizioni cha Adamo stia all’umanità peccatrice come Cristo all’umanità riscattata. Anzi, a prima vista sembra che egli neghi l’equazione nei vv. 15-16, dove afferma: “No come... così...”. Di fatto, vuole dire che l’efficacia positiva di Cristo supera di molto quella negativa di Adamo. Si veda in proposito il duplice “a maggior ragione” dei w . 15 e 17 che introducono un argomento a fortiori. D’altra parte il principio dell’eccedenza dell’azione di Cristo rispetto a quella di Adamo trova espressa afferma­zione nel v. 20: “Ma dove ha proliferato il Peccato, la grazia ha sovrabbondato”» (G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo. Traduzione e commento, Roma, 1980, p. 301). Cfr. in tal senso una voce espressiva della teologia evangelica: «God’s response to Adam’s trespass sought not merely to make up the round which had been lost but also to bring the completion the destiny of which Adam had fallen short (see also on 3:23). “The act o f grace does not balance the act o f sin; it overbalances it”» (J.D.G. D u n n , Romans 1-8, «World Biblical Commentary, 38», Dallas, 1988, p. 280; cfr. C.K. Ba r r e t t , The Epistle to the Romans, «Black’s New Testament Commentary, 6», London, 19912, 106).

La superiorità sproporzionata della grazia sulla caduta era stata rilevata da S. Agostino: cfr. AGOSTINO DI Ip p o n a , Expositio quarumdam propositionum ex Epistola ad Romanos, 29: PL 35, 2067-2068.

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grazia23 * 25. La parola “grazia”, in quanto esprime il dono divino non preventivabile dalla situazione naturale e storica di Adamo, può decli­nare ogni affermazione paolina circa la novità assoluta che Cristo reca all’uomo: per grazia, “l’opera giusta” e “l’obbedienza” di Cristo river­sano su tutti gli uomini “la giustificazione che dà vita” (cfr. Rm 5,18- 19)26; per grazia, «per mezzo del battesimo... siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4)27; per grazia, «l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato» (Rm 6,6)28.

La grazia riversata dall’obbedienza di Cristo porta l’uomo nella sua vittoria sulla morte (cfr. Rm 6,11; ICor 15,44-50). La schiavitù del peccato che conduce alla morte non è più una condizione ineluttabile per l’uomo, ma egli, in quanto morto al peccato e vivente per Dio in Cristo Gesù, può mettersi a servizio “dell’obbedienza che conduce alla giustizia” (cfr. Rm 6,16)29.

Anche se la condizione dell’uomo è ormai quella del vivente in Cristo, la schiavitù del peccato resta tuttavia una possibilità reale, oggettiva, storica, e con essa la conseguenza di morte (cfr. Rm 6,13.16.23)30. Ma l’uomo ha ora la possibilità e la responsabilità di

23 Sul “dono di grazia” (traduzione preferita di ró x“ puriux) di cui parla Paolo in Rom 5,15,rinvio allo studio proposto in H. SCHUER, La lettera ai Romani, trad. di R. Favero, G. Torti,«Commentario teologico al Nuovo Testamento, 6», Brescia 1982 (orig. tedesco: 1977), p. 287.

26 In una nota esegetica, J.A. Fitzmyer chiarisce: «Lett.: “per la giustificazione di vita” , con un genitivo di apposizione, o forse di direzione o scopo [...]. E la giustificazione che include la vita, che conduce alla vita. 11 gesto di benevolenza che manifesta il dono della giustizia da parte di Dio (5,17) non soltanto assolve gli uomini dalla colpa ma concede anche loro di partecipare alla “vita”. Si ricordi 4,25b, che parla della “giustificazione” e della “vita” destinate a “tutti”, sia ai giudei che ai greci, grazie al gesto della giustizia operato da Cristo Gesù. Paolo ripeterà l’idea in 11,32, parlando della misericordia magnanime e imparziale di Dio» (J.A. FITZMYER, Lettera ai Romani, p. 503).

27 «“Novità” significa si una qualità escatologica, ma il fatto che nel Risorto siamo divenuti un frammento di una nuova creazione non significa che divenga superflua la verifica nella “condotta”, nel consapevole percorso della via della vita. Al contrario, è proprio questo il traguardo della nostra unione alla morte di Cristo nel battesimo» (D. ZELLER, La Lettera ai Romani, p. 191-192).28 « L ’uom o vecchio è la persona um ana dom inata dal potere del peccato che lo rende schiavo: proprio q u est’uom o è stato crocifisso con C risto» (A. PITTA, Lettera ai Romani, p. 250); cfr. S. LÉGASSE, L ’epistola di Paolo ai Romani, p. 296-332; J.A. FITZMYER, Lettera ai Romani, p. 511- 539; C.E.B. CRANFIELD, La lettera di Paolo ai Romani, I, p. 159-183; D. ZELLER, La Lettera ai Romani, p. 187-201.

29 «In questo parallelismo sorprende l’opposizione che Paolo stabilisce tra peccato e obbe­dienza, in quanto anche il peccato esige una obbedienza o una condizione di sottomissione. Come al solito, lo stile paolino è sintetico; forse l’obbedienza alla quale si riferisce, come condizione per la giustizia, è quella della fede (cfr. Rm 1,5): una obbedienza qualificata dalla fede in Cristo che contrasta con quella del dominio del peccato» (A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 256).

30 «Benché il cristiano sia già stato battezzato c liberato dal peccato, Paolo parte dal presuppo­sto che tale liberazione non sia ancora definitiva. Il cristiano può ancora soccombere alla seduzio­ne del peccato [...]. Per Paolo hamartìa è sempre quella forza attiva personificata che entrò nel mondo con Adamo, ha signoreggiato fino all’avvento di Cristo, e cerca ancora di continuare a

L’UOMO NUOVO IN CRISTO: UOBOEDIENTIA FIDE1 COME QUESTIONE ANTROPOLOGICA 1 3 9

determinarsi secondo la natura di “carne” o di “spirito”: «Noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete31. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Rm 8,12-13; cfr. 8,1- 17)32.

Possiamo tradurre la novità cristiana spiegata da San Paolo come “antropologia della grazia e della responsabilità”33. Solo la grazia di Cristo porta l’uomo nella condizione della vita nuova. Ma poiché la volontà personale è elemento intrinsecamente costitutivo dell’uomo, essa deve essere esercitata davanti a ogni dono di grazia, perché possa essere liberamente accolto34. La volontà è la facoltà imprescindibile per la quale l’uomo possiede e determina se stesso; è il luogo in cui, nella misura della propria singola e costitutiva capacità, la persona si auto- identifica come tale. Il dono di grazia può prevenire, sostenere, illumi­nare la volontà dell’uomo, ma non può sostituirsi ad essa, perché un uomo - quale essere personale - privato dell’atto della sua volontà nel momento critico di comprendere e determinare se stesso, non sarebbe autenticamente se stesso. In fondo, ogni speculazione su un’azione della grazia che agisse a prescindere o anche contro la volontà dell’uomo, comporterebbe una comprensione distruttiva dell’integrità costituiva dell’uomo. La volontà - riconosciuta come elemento caratte­ristico e essenziale dell’essere umano - implica responsabilità, reale, non fittizia: davanti al dono della grazia, l’uomo redento da Cristo

regnare» (J.A. FlTZMYER, «La lettera ai romani», in: R.E. BROWN, J.A. FlTZMYER, R.E. MURPHY, Grande Commentario Biblico, 1229).

31 «Questa “uccisione” avviene “in virtù dello Spirito”. Solo in tal modo essa piglia la sua qua­lità e la sua forza e solo in tal modo essa non ricade nel Koctà càpica ^ v alla stregua di un Èpyov vópou. Certo, essa costituisce una libera risoluzione dell’uomo, ma si attua con l’incitamento, sotto la mozione e la richiesta sovrana dello Spirito, il quale affranca l’uomo da se stesso renden­dolo così atto a pronunciare un disinteressato “no” alle “opere del corpo”» (H. SCHLIER, La lettera ai Romani, p. 415).

32 «A causa dell’orizzonte esortativo di quest’ultima parte del paragrafo, la sentenza introdotta dalla preposizione ei (se, v. 13) non ha più una valenza causale (cfr. w . 9a.l0a), ma di condiziona­le semplice e quindi reale. Se nel presente si vive secondo la carne, certamente si morirà, mentre se si mettono a morte le azioni del corpo si vivrà» (A. PITTA, Lettera ai Romani, p. 293-294).

33 «Se noi battezzati non possiamo peccare, il motivo è anche che nel battesimo ci siamo risol­ti all’obbedienza una volta per tutte. Da un lato v’è ciò che il battesimo ha fatto in noi e di noi, dall’altro v’è la nostra decisione di obbedire, presa all’atto del battesimo: queste due realtà concorrono nell’impegnarci a non più peccare. Insistere ora a peccare significherebbe un ritorno personale in quel passato al quale fummo strappati e insieme significherebbe annullare la nostra risoluzione alla fede legata al battesimo e il vincolo nuovo allora contratto [...].

«O si appartiene al peccato che porta con sé la m orte, o si appartiene a ll’obbedienza della fe­de, la quale si apre a lla SiKCtiouauvri» (H. SCHLIER, La lettera ai Romani, p. 346.348).

34 Paolo dunque affida ai suoi destinatari la consapevolezza della Grazia di Cristo che ha por­tato l ’uomo nella vita secondo lo Spirito e la responsabilità umana di sceglierla: «Freed ffom sin, we are not “obliged” (opheiletai) to “live according thè flesh” as in thè old era; we can sin but we do not have to. To choose to “live” in this (sinful) way (v 13) means in fact a destiny to “death” (mellete apothnèskein). Whereas, to opt for “death” in thè sense of “putting to death thè deeds of thè body” opens up thè destiny to (eternai) “life” (zèsesthe)» (B. BYRNE, Romans, «Sacra Pagina Series, 6», Collegeville, 1996, p. 241).

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rimane responsabile di scegliere, di accogliere la sua opera portandosi nell’obbedienza della fede, ovvero di rimanere nella carne a causa della disobbedienza e del peccato che conduce alla morte35.

Ogni valutazione dell’antropologia cristiana, fondata sulla grazia di Cristo e sulla sua obbedienza, non può prescindere dal concetto di responsabilità personale, a sua volta legata alla scelta tra obbedienza e disobbedienza, tra spirito e carne, tra vita e morte, tra uomo nuovo e uomo vecchio. L’essere dell’uomo nuovo è un essere donato per grazia, ma anche quotidianamente scelto e realizzato dall’uomo con la forza della stessa grazia e nell’obbedienza di Cristo.

2.2.2. Realizzare l ’uomo nuovo nell’obbedienza alla fede

A questo livello dell’antropologia paolina si presenta nitida la ri­levanza decisiva della Parola come via per la realizzazione dell’uomo nuovo.

L’uomo nuovo - si è detto - è Cristo, è definito in Lui, ma si po­ne anche la necessità che quest’opera si ponga continuamente davanti al bivio dell’accettazione della singola persona, costitutivamente dotata di volontà. Ovviamente, questa scelta personale ha sempre dei “gradi” di comprensione e di approfondimento, è sempre sottoposta a conferma, perseveranza, crescita in essa da parte dell’uomo ovvero a rifiuto, indifferenza, incostanza, defezione. In ragione del suo essere storico, l’uomo non è capace di auto-possedersi e auto-comprendersi nella sua totalità in un singolo attimo. Per questo anche la responsabilità persona­le in merito alla grazia di Cristo non può essere esercitata in un singolo, definitivo, totalizzante atto di scelta.

E nei confronti di Cristo che l’uomo deve esercitare la sua scelta, perché in Lui, in modo unico, definitivo e universale, è racchiusa la pienezza della rivelazione di Dio e della sua grazia. Scegliendo Cristo, l’uomo accoglie in Lui ogni suo dono.

Per poter essere accolto, scelto, seguito, Cristo si è manifestato nella forma della Parola. La sua Parola coincide totalmente con la sua opera e la sua persona, senza alcuna discrepanza. In tal modo, l’uomo ha nella Parola il criterio, la norma oggettiva per riconoscere Cristo secondo verità e accoglierlo. Non si può scegliere Cristo senza scegliere la sua Parola.

Si nota, a tal proposito, come tutto il mistero di Cristo, nel quale è posta la verità dell’uomo nuovo, sia stato racchiuso da San Paolo nella Lettera ai Romani, come in una grande inclusione, all’intemo

35 L a responsabilità della volontà um ana in ordine a ll’obbed ienza a lla fede è un tem a consoli­dato ne lla coscienza teologica. Possiam o richiam arne a tito lo rappresen tativo due autorevolissim i testim oni: AGOSTINO DI Ip p o n a , Tractatus in Evangelium Ioannis, 26,2-4: PL 35,1607-1608; TOMMASO D’A q u in o , Super Epistoìam ad Romanos lectura, 1 ,1. 4, § 62 (traduzione in Commento alla Lettera ai Romani, Rom a, 1994).

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dell’obbedienza della fede (cfr. Rm 1,5; 16,26) 3fi. Essa è la finalità dell’apostolato, perché è la destinazione diretta del “Vangelo di Dio” (Rm 1,1), che diventa per San Paolo “mio Vangelo, che annunzia Gesù Cristo” (Rm 16,25).

Dal contesto della Lettera ai Romani, l’obbedienza della fede è rinserimento dell’uomo nel mistero di Cristo e nella novità di vita in Lui: «Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia?» (Rm 6,16).

Per la rivelazione del Vangelo di Cristo, l’uomo è dunque messo in grado di prestargli la propria adesione, l’obbedienza della fede36 37. E questa la reale scelta dell’uomo, resa possibile dalla Grazia, che lo introduce nella novità dell’umanità di Cristo.

Se l’uomo dovesse scegliere Cristo senza una reale possibilità di conoscere i contenuti oggettivi della sua scelta, se la scelta fosse incon­sapevole, anonima, o se fosse dettata solo da emozione, sentimento, pressione esterna, necessità o altro motivo non totalmente cosciente e libero, l’uomo non compirebbe questo atto con la partecipazione di tutto se stesso. Senza la coscienza e la libertà, una scelta non è piena­mente “umana”. Ma se in una scelta l’uomo non può mettere tutto se stesso, non può neanche amare; la persona resta fuori della scelta com­piuta, non totalmente coinvolta, “impegnata” in essa.

La Parola del Vangelo dona all’uomo Cristo nella sua verità pie­na, oggettiva, manifestata, espressa. Obbedendo per la fede alla sua Parola, l’uomo può realizzare Cristo nella propria vita ed entrare così nell’obbedienza di lui solo, per la quale “tutti saranno costituiti giusti” (cfr. Rm 5,19).

36 «YncnKOT) itia-tEcoi; (cfr. 16,26) di per sé potrebbe significare l’obbedienza che viene presta­ta alla “fede” intesa come l’annuncio della fede giunto nel mondo con Gesù Cristo (Gal 3,23.25) [...]. Ma probabilmente jua-ceax; va inteso come un genitivo epesegetico o appositivo che qualifica la fede. Y jraK o q senz’altra specificazione si trova spesso in Paolo nel senso di obbedien­za di fede, ad es. nel passo parallelo 15,18 o anche 16,19; 2 Cor 7,15; 10,5.6 (cfr. lThess 1,8). La fede per l’Apostolo è in primo luogo obbedienza e precisamente, come fa intendere 6,17, obbe­dienza all’evangelo in quanto tiiKog SiSccktv;» (H. SCHLIER, La lettera ai Romani, p. 71). Sul raffronto tra l’uso dell’espressione in 1,5 e 16,25, cfr. S. LÉGASSE, L'epistola di Paolo ai Romani, p. 773.

37 «Hypakùein è molto presente nell’Antico Testamento alessandrino dove esso traduce il più delle volte shàma*, “ascoltare”, “obbedire”, ma anche *anàh, “rispondere”. La “fede” (pistis), in Paolo, è quasi sempre l’atto con il quale l’uomo aderisce al messaggio evangelico. E una risposta alla “parola di Dio” (Rom 9,6) trasmessa dagli apostoli. Ma questa risposta al vangelo predicato implica una sottomissione della mente e della vita» (S. LÉGASSE, L ’epistola di Paolo ai Romani, p. 37).

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3. Dal Verbo alla vita dell’uomo nuovo: alcune possibili implicazioni

Abbiamo dunque evidenziato il ruolo dell’obbedienza di fede al Verbo di Dio nell’attuazione soggettiva dell’antropologia eristica. A modo di conclusione, proviamo ora a individuare in modo rappresenta­tivo due piste di implicazioni e successivi approfondimenti che possono snodarsi a partire dai principi fin qui posti. Queste tracce per possibili approfondimenti da sviluppare in modo sistematico non sono che degli abbozzi. Tuttavia esse contribuiscono ad evidenziare la reale portata ontologica e storica dell’antropologia cristologicamente fondata.

3.1. Implicazioni ecclesiologiche

«[Per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore] abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome» (Rm 1,5).

L’obbedienza della fede è il fine della missione apostolica, che identifica la Chiesa nella sua essenza e nella sua attività. Questa caratte­rizzazione costituisce la Chiesa in una missione che non può identifi­carsi semplicemente come “religiosa”, ma a pieno titolo come “antro­pologica”.

Intendiamo in questo contesto come attività “religiosa” la propo­sta rivolta all’uomo di concepire se stesso, la vita, Dio e il mondo, secondo un sistema organico di dottrina, culto e morale incentrato su uno specifico e distintivo approccio al divino o al sacro. La proposta “religiosa”, così estensivamente considerata, è l’offerta di una totaliz­zante interpretazione dell’essere basata su categorie di trascendenza.

Non è semplicemente in questa categoria che la Chiesa compren­de la propria missione. Essa non intende semplicemente offrire al mondo un particolare sistema di interpretazione religiosa dell’essere. In particolare, essa sa di offrire non tanto un 'interpretazione dell’uomo, quanto la via della pienezza dell’uomo. Essa invita ogni uomo a lasciar­si fare nuova creatura in Cristo.

Sapendo di operare per la ricomposizione dell’uomo secondo la novità compiuta da Cristo, la Chiesa non può pensare la sua azione evangelizzatrice come semplice confronto con altri sistemi di compren­sione della realtà, che siano di matrice religiosa o meno. Né può pensa­re che la sua missione sia ininfluente riguardo l’intrinseco cambiamento dell’uomo in conformità ai criteri dell’umanità nuova creata in Cristo.

La missione della Chiesa è dunque “antropologica”, in quanto dalla testimonianza della Verità e dal dono della Grazia che le sono affidati passa l’efficace opera della carità di Cristo, affinché chi lo accoglie nella obbedienza della fede possa vivere da uomo nuovo, diventare nuova creatura.

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Nella sua missione storica, la Chiesa non trova davanti a sé e in se stessa un uomo che di fatto vive da nuova creatura, secondo l’opera già definitivamente compiuta da Cristo. L’opera della creazione dell’uomo nuovo è sì già compiuta una volta per sempre come dono di grazia; ma permettere ad ogni singola persona di realizzarsi secondo l’umanità rinata dalla morte e risurrezione di Cristo per il dono dello Spirito Santo, questo è essenza della missione della Chiesa.

La Chiesa, dunque, non può adagiarsi sulla coscienza che co­munque l’opera della creazione dell’uomo nuovo è già compiuta da Cristo. Quest’opera oggettivamente già realizzata, resta soggettivamen­te incompiuta in ogni uomo che non vive di fatto da risorto con Cristo, che non manifesta in sé l’uomo nuovo: per questo la Chiesa deve pro­seguire con ogni forza di carità e santità a donare la verità e la grazia, affinché l’uomo nuovo possa nascere e maturare fino alla perfezione in ogni singola persona che presta la propria obbedienza della fede al Verbo di Dio.

3.2. Implicazioni morali

Una particolare pista di approfondimento potrebbe riguardare il rapporto tra morale naturale e morale rivelata.

Se, infatti, la verità dell’uomo nuovo scaturisce da Cristo, è opera sua, la pienezza della legge morale si basa sul Vangelo di Cristo, statuto dell’umanità nuova.

Ovviamente, il Vangelo di Cristo non si pone in termini di duali­smo rispetto alla legge morale naturale, così come l’opera della nuova creazione non è una contrapposizione all’umanità nata in Adamo. Al contrario, come la nuova creazione in Cristo - in vista del quale lo stesso Adamo era stato fatto - è il compimento, libero e gratuito, dona­to all’uomo già fatto ad immagine e somiglianza di Dio, così il Vangelo è il compimento di tutta la legge antica e della stessa legge scritta nella natura. Esso è tuttavia un compimento non già iscritto o seminato nelle fibre della natura, in attesa solo di germogliare e fruttificare. La legge evangelica non scaturisce da quanto poteva essere previsto o prevedibi­le nella legge antica o naturale quale loro sviluppo futuro, ma promana da un atto di nuova creazione, che, se non distrugge le cose di prima, tuttavia le fa totalmente nuove.

Ciò significa che la legge evangelica non può essere semplice- mente dedotta come sublimazione della legge naturale, ma richiede l’esplicita e positiva rivelazione della sua fonte insostituibile che è il Verbum Dei e la sua accoglienza nell’obbedienza della fede e nell’amore.

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Conclusione

Ripercorriamo in sintesi la prospettiva antropologica che abbia­mo inteso suggerire. Essa propone di definire l’uomo come l’essere identificato e realizzato per Grazia nel libero e cosciente riferimento obbedienziale alla Parola di Dio, legame che, già costitutivo dell’immagine e somiglianza divina, si attua e si compie pienamente nella nuova creazione in Cristo.

Per creazione, l’identità dell’uomo non è sufficientemente defini­ta solo sulla base della differenza ontologica che lo specifica rispetto alle altre creature, ma la si rinviene nella relazione personale con Dio, cui è benevolmente chiamato dalla libera determinazione del Creatore. La relazione con Dio è resa possibile ed è richiesta dalla capacità stessa dell’uomo di comprendersi come soggetto cosciente e libero di scelta, responsabile di accogliere la manifestazione personale di Dio a lui rivolta come espressione di una Parola, di una Volontà. Nel rispondere consapevolmente all’appello posto dalla Parola divina, l’uomo realizza se stesso come essere ad immagine e somiglianza di Dio. Senza questo appello che liberamente Dio rivolge alla sua creatura, l’uomo non potrebbe attuare autenticamente il suo essere cosciente e responsabile, in quanto la verità del proprio essere resterebbe a lui estranea e su di essa l’uomo non potrebbe esercitare la propria scelta. Solo la possibilità di accogliere liberamente la volontà del Creatore, manifestatagli come parola, rende l’uomo capace di essere se stesso, cioè di assentire re­sponsabilmente alla verità nella quale è stato creato.

Fin qui, per creazione, l’uomo non può rivendicare altra pienezza del proprio essere: la sua identità ad immagine e somiglianza di Dio è colma, realizzata, nella relazione di comunione con la volontà che il Creatore ha posto nel suo essere. Al contempo, il diniego posto alla volontà di Dio produce inevitabilmente il rifiuto da parte dell’uomo della verità del proprio essere, che si trova così lacerato.

Il progetto di Dio, tuttavia, prevede liberamente e per amore che l’essere dell’uomo sia elevato oltre la relazione creaturale ad immagine e somiglianza, già comunque offuscata e respinta dal rifiuto posto dall’uomo alla sua Parola. Nella nuova creazione, la natura umana è una sola, quella fatta nuova da Cristo e in Cristo. Ma anche l’ontologia della nuova creazione non può che essere affidata alla responsabilità dell’uomo, perché si conformi a Cristo. L’uomo non pienamente con­formato a Cristo non è pienamente realizzato come uomo nuovo. Ne­cessita della Grazia e del Vangelo. Necessita dell’obbedienza alla Parola per la fede.

L’offerta della Grazia e la proposta del Vangelo sono così da comprendere nella loro decisiva rilevanza antropologica. La loro moti­vazione salvifica non è separata, infatti, dal loro significato antropolo­gico, in quanto la salvezza dell’uomo consiste nella realizzazione della

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sua verità più piena, quella che solo in Cristo è stata universalmente compiuta e resa gratuitamente possibile.

L’umanità nuova è, infatti, quella di Cristo. In Lui l’umanità è condotta alla sua novità e alla sua pienezza perché portata interamente nella volontà del Padre. L’umanità che nella persona del Verbo è fatta nuova è la stessa natura umana di cui noi siamo partecipi. Ciò non significa che soggettivamente ogni uomo abbia già realizzato la pienez­za della propria umanità redenta in Cristo. La Parola di Cristo è la via per portare la nostra umanità nella Verità, nella Sua umanità. Per incar­nazione Cristo ha preso la nostra umanità; per obbedienza della fede noi prendiamo la sua umanità, entriamo in essa.

Rispondere al Vangelo con l’obbedienza della fede è dunque la via della pienezza antropologica, della realizzazione dell’uomo nuovo in Cristo. Essa è attuata e resa possibile dalla Grazia, ma anche inevita­bilmente sottoposta alla responsabilità umana di scegliere personalmen­te l’assenso o il rifiuto, la perseveranza o la defezione, la crescita o la stasi nell’obbedienza della fede.

Ferma restando la responsabilità soggettiva dell’uomo, la pro­clamazione e la testimonianza visibile del Vangelo costituiscono la missione affidata alla Chiesa di “fare” l’uomo nuovo e offrirgli la possibilità di vivere e realizzarsi secondo lo Spirito e lo statuto della Nuova Alleanza.

Anche la teologia dell’evangelizzazione viene così incoraggiata come riflessione sistematica che non si circoscrive solo alle dinamiche della pastorale o si rivolge ad una prospettiva di interesse tutto intraec- clesiale, ma si focalizza evidentemente sul bene dell’uomo in quanto tale: attraverso la mediazione ecclesiale, nell’umanità vera di Cristo ognuno può trovare la verità del proprio essere e compierla nella carità.

Abstract. - This proposal points out the anthropological significance of the personal response to the Word of God, a relationship that properly defines the human being as both created in the image of God and ac­complished in Christ. In particular, the anthropological fullness univer­sally achieved in Christ - indispensable assumption in the contemporary theological conscience - implies the responsible maintenance of the constitutive dependency bond, that submits the subjective concretization of the new man to his actual obedience of the faith. By concluding, some possible implications in moral and ecclesiological perspective are envisaged.

Key words: anthropology - man - Christ - obedience - faith.