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RIFLESSIONE ECCLESIOLOGICA A Qualcuno che prepari la tavola! Per un Oratorio casa di Vangelo d. Paolo Arienti docente di Ecclesiologia Pastorale Giovanile Diocesana Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda A 1 La chiesa nell’Eucaristia... l’Eucaristia nella Chiesa La metafora del cibo condiviso, consumato tra fratelli, costituisce uno dei capisaldi culturali dell’u- mano. Mangiare infatti non è solo ingurgitare materiale biologico per il funzionamento di una mac- china, ma soprattutto per l’uomo diviene fatto simbolico: rimanda ad altro, ospita paradossalmente in sé ciò che va oltre, lo supera. Anche la comunità cristiana ha al suo centro un pasto, del cibo condiviso: l’Eucaristia, memoriale della cena del Signore. Una con- divisione che diviene Pasqua per i discepoli, incontro con il Risorto. Sin dall’antichità si è creato un parallelismo molto forte tra Chie- sa ed Eucaristia: sono i discepoli che nella storia celebrano la cena del loro Signore; è Cristo che nel- lo spazio e nel tempo rende tan- te persone, diverse per cultura e indole, suoi discepoli, suo popolo. Il “giorno del Signore”, la domeni- ca, ha attraversato i secoli come segno distintivo della comunità cristiana: ne è diventato “cifra”, costituendone tra alterne vicende anche criterio di verifica, indica- tore di qualità, giudizio. L’Euca- ristia genera un impatto che non può essere ignorato: è narrazione normativa della Chiesa, poiché mente la racconta, la convoca, la fa sedere a mensa con Cristo, le dice che cosa debba essere, a chi debba assomigliare, chi debba as- similare. La stessa logica in Oratorio! Questo vale anche per l’Oratorio. La sua proposta parte dalla pros- simità, dall’offerta di un incontro e di una relazione, ma si fa nel tempo indicazione educativa di un cammino: offerta di un’esperienza spirituale possibile anche per i ra- gazzi e i giovani. Questo è il cuore del progetto educativo dell’Orato- rio: la scelta cristiana come tesoro di significato e motivazione di vita. L’Oratorio accompagna così i più giovani nella stagione delle picco- le e grandi scelte, nella crescita della coscienza e dell’esperienza umana. Per questo la qualità spiri- tuale di un Oratorio non può esse- re lasciata al caso: come, quanto e con quali forze educative sa acco- gliere; a quali esperienze chiama i più giovani… insomma quale spac- cato di chiesa sa offrire. È ben evidente che non si tratta solo della bravura di questo o quel prete, magari giovane, attualmen- te quasi in “estinzione”: l’Oratorio racconta una comunità cristiana che si fa prossima ad un territorio umano, con le sue problematiche e le sue potenzialità, perché desi- dera offrire la forza educativa del Vangelo come dono che non può non comunicare. L’Oratorio offre spazi e tempi di condivisione: sa che l’umanità è impastata di que- sta “regola” che per i cristiani de- scrive addirittura il cuore di Dio; propone un pane da condividere e fa della natura di quel pane il pro- prio progetto educativo. Ci si chiede spesso a che cosa educare e in quale direzione in- dicare una strada da percorrere. L’Oratorio, pur nelle sue molte- plici difficoltà, si riscopre così un luogo di chiesa, di educazione, di missione: di chiesa, perché custo- disce la forma di vita del Signore Gesù; di educazione perché questa forma intende proporla, indicarla, renderla sperimentabile nelle di- verse declinazioni delle sue gior- nate, nella sua ferialità come nei momenti di maggior intensità; di missione perché diventare cristia- ni, accorgersi del pane evangelico, sedersi a condividerlo, non è auto- matico per nessuno, ma è frutto di una decisione. E questa decisione suppone chi la favorisce, chi ne narra la bellezza innanzitutto per sé, chi trasmette – per dirla con s. Paolo – quello che a sua volta ha ricevuto. Solo da adulti impegna- ti in un cammino di fede potran- no scaturire attenzioni e percorsi, relazioni e accompagnamenti che sapranno di Cristo. Questo è giu- stamente dichiarato per la fami- glia, primo luogo educativo, per la catechesi ripensata in chiave catecumenale, lo è anche per l’O- ratorio e le sue risorse educative. Occorre continuare a proporre una spiritualità degli educatori capace di dare consistenza ad un volonta- riato che è più di se stesso, perché in Oratorio racconta uno dei tan- ti volti che la Parola assume per i più giovani. E il volto, si sa, non ha bisogno di cosmetici o tecniche di lifting, ma di buon nutrimento, di cibo sano, di una mimica facciale che può venire solo dall’interiore. L’Oratorio, come la Chiesa, è sempre in costruzione; sono indi- spensabili le pietre fondamentali degli adulti educatori, disposti a farsi dono (di tempo, di energie, di speranze) per i più giovani; ed è indispensabile che la catena edu- cativa non si spezzi, nonostante le tensioni e le ruggini.

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RIFLESSIONE ECCLESIOLOGICA AQualcuno cheprepari la tavola!

Per un Oratorio casa di Vangelo

d. Paolo Arientidocente di EcclesiologiaPastorale Giovanile Diocesana

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda A 1

La chiesa nell’Eucaristia... l’Eucaristia nella ChiesaLa metafora del cibo condiviso, consumato tra fratelli, costituisce uno dei capisaldi culturali dell’u-mano. Mangiare infatti non è solo ingurgitare materiale biologico per il funzionamento di una mac-china, ma soprattutto per l’uomo diviene fatto simbolico: rimanda ad altro, ospita paradossalmente in sé ciò che va oltre, lo supera. Anche la comunità cristiana ha al suo centro un pasto, del cibo condiviso: l’Eucaristia, memoriale

della cena del Signore. Una con-divisione che diviene Pasqua per i discepoli, incontro con il Risorto. Sin dall’antichità si è creato un parallelismo molto forte tra Chie-sa ed Eucaristia: sono i discepoli che nella storia celebrano la cena del loro Signore; è Cristo che nel-lo spazio e nel tempo rende tan-te persone, diverse per cultura e indole, suoi discepoli, suo popolo. Il “giorno del Signore”, la domeni-ca, ha attraversato i secoli come

segno distintivo della comunità cristiana: ne è diventato “cifra”, costituendone tra alterne vicende anche criterio di verifica, indica-tore di qualità, giudizio. L’Euca-ristia genera un impatto che non può essere ignorato: è narrazione normativa della Chiesa, poiché mente la racconta, la convoca, la fa sedere a mensa con Cristo, le dice che cosa debba essere, a chi debba assomigliare, chi debba as-similare.

La stessa logica in Oratorio!Questo vale anche per l’Oratorio. La sua proposta parte dalla pros-simità, dall’offerta di un incontro e di una relazione, ma si fa nel tempo indicazione educativa di un cammino: offerta di un’esperienza spirituale possibile anche per i ra-gazzi e i giovani. Questo è il cuore del progetto educativo dell’Orato-rio: la scelta cristiana come tesoro di significato e motivazione di vita. L’Oratorio accompagna così i più giovani nella stagione delle picco-le e grandi scelte, nella crescita della coscienza e dell’esperienza umana. Per questo la qualità spiri-tuale di un Oratorio non può esse-re lasciata al caso: come, quanto e con quali forze educative sa acco-gliere; a quali esperienze chiama i più giovani… insomma quale spac-cato di chiesa sa offrire.

È ben evidente che non si tratta solo della bravura di questo o quel prete, magari giovane, attualmen-te quasi in “estinzione”: l’Oratorio racconta una comunità cristiana che si fa prossima ad un territorio umano, con le sue problematiche e le sue potenzialità, perché desi-dera offrire la forza educativa del Vangelo come dono che non può

non comunicare. L’Oratorio offre spazi e tempi di condivisione: sa che l’umanità è impastata di que-sta “regola” che per i cristiani de-scrive addirittura il cuore di Dio; propone un pane da condividere e fa della natura di quel pane il pro-prio progetto educativo.

Ci si chiede spesso a che cosa educare e in quale direzione in-dicare una strada da percorrere. L’Oratorio, pur nelle sue molte-plici difficoltà, si riscopre così un luogo di chiesa, di educazione, di missione: di chiesa, perché custo-disce la forma di vita del Signore Gesù; di educazione perché questa forma intende proporla, indicarla, renderla sperimentabile nelle di-verse declinazioni delle sue gior-nate, nella sua ferialità come nei momenti di maggior intensità; di missione perché diventare cristia-ni, accorgersi del pane evangelico, sedersi a condividerlo, non è auto-matico per nessuno, ma è frutto di una decisione. E questa decisione suppone chi la favorisce, chi ne narra la bellezza innanzitutto per sé, chi trasmette – per dirla con s. Paolo – quello che a sua volta ha ricevuto. Solo da adulti impegna-

ti in un cammino di fede potran-no scaturire attenzioni e percorsi, relazioni e accompagnamenti che sapranno di Cristo. Questo è giu-stamente dichiarato per la fami-glia, primo luogo educativo, per la catechesi ripensata in chiave catecumenale, lo è anche per l’O-ratorio e le sue risorse educative. Occorre continuare a proporre una spiritualità degli educatori capace di dare consistenza ad un volonta-riato che è più di se stesso, perché in Oratorio racconta uno dei tan-ti volti che la Parola assume per i più giovani. E il volto, si sa, non ha bisogno di cosmetici o tecniche di lifting, ma di buon nutrimento, di cibo sano, di una mimica facciale che può venire solo dall’interiore.

L’Oratorio, come la Chiesa, è sempre in costruzione; sono indi-spensabili le pietre fondamentali degli adulti educatori, disposti a farsi dono (di tempo, di energie, di speranze) per i più giovani; ed è indispensabile che la catena edu-cativa non si spezzi, nonostante le tensioni e le ruggini.

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda A 2

Scelte che educano alla vita buona Società e cultura contemporanee rimandano a legami deboli, liqui-di o peggio atomizzanti. La co-munità cristiana e il suo Oratorio propongono invece di riscoprirsi relazione, catena, condivisione, fraternità. L’Eucaristia diventa di tutto questo sintesi e rilancio; l’Oratorio, nei suoi tempi e modi variegati, esperienza per i più gio-vani, dentro entusiasmi e limiti, ricchezze che rincuorano e pover-tà che chiedono di non abbassare

la guardia e di rimanere fedeli a ciò che è essenziale e vincolante, ad una visione di uomo che non di-pende dalle ideologie della moda o dalle paure sociali. “Casa di Vangelo” in questo senso. Concre-tamente. La “vita buona del Van-gelo” che i Vescovi italiani hanno indicato per il decennio 2010-2020 come obiettivo formativo e pro-posta missionaria, non può esse-re solo uno slogan. La bontà di un messaggio di salvezza, capace di

liberare l’umanità e salvarla, ov-vero aprirla ad un orizzonte in cui il diabolico è sconfitto dalla vera comunione, richiede un contesto di concreta esperienza. E ciò è appello e provocazione allo stile educativo degli adulti e dell’Ora-torio.

Il volto che di sé la comunità sa-prà narrare, sarà un “pezzo” pre-zioso e insostituibile della decisio-ne per Cristo e della sua rilevanza per la vita di un giovane.

Per l’approfondimento nel Documento diocesano“Che cercate? Venite e vederete” su Pastorale giovanile e Oratorio (FOCr 2009)• Introduzione, pp. 7-9• Capitolo 1 “La passione della Chiesa cremonese per il mondo giovanile”, pp. 11-14

Per il cammino personale dell’educatore“Occorre continuare a proporre una spiritualità degli educatori”: quali suggestioni la riflessione di Arienti suscita per il tuo cammino di fede? Esistono dimensioni e attenzioni da far crescere dentro di te, soprattutto in rapporto alla comunità in cui sei inserito?

Per la riflessione nel gruppo educatori• Apriamo un momento di confronto sui contenuti dell’articolo. Quali aspetti ci paiono significativi e degni di sottolineatura? Quali dimensioni critiche per il nostro vissuto comunitario e la nostra mentalità cristiana?• Quali attenzioni e strumenti possiamo individuare in Oratorio e nella sua programmazione per recuperare gli spunti educativi emersi? Ad es. negli investimenti educativi, nell’individuazione di progetti e attenzioni (adolescenti, stranieri, soglia…); in momenti comunitari per famiglie, educatori, collaboratori?

gAPPROFONDIMENTI

RIFLESSIONE ETICA BIl cibo ad ognivivente (Sal 136,25)

Per un’etica del pane spezzato

d. Bruno Bignamidocente di Teologia Morale

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda B 1

Il pane rimanda al quotidiano dell’uomo, che abbiamo imparato a chiedere a Dio con semplicità ogni volta che recitiamo il Padre nostro. È vero che «non di solo pane vive l’uomo», ma è altrettanto vero che senza il pane quotidiano la vita non è possibile. Intorno alla possibilità di accedere al cibo si gioca la partita o della fecondità morale o della siccità morale. Altra via non è data. La fame ha responsabilità precise. Le ingiustizie su scala planetaria stanno colpendo a morte i più deboli. La cooperazione allo sviluppo è fallita. Il diritto al cibo negato è frutto di cecità civile e sordità morale. La verità è che gli spiccioli elargiti dai donatori inter-nazionali alimentano l’assistenzialismo e la dipendenza, mentre la povera gente avrebbe bisogno della rete per pescare e non soltanto del pesce in scatola per lenire i morsi della fame.

PRESE IL PANE, LO SPEZZÒ (Lc 24,30)La condivisione è fedeltà a CristoIntorno ad un pasto, alla cena eu-caristica, il cristianesimo costru-isce la propria identità. La fede cristiana non conosce precetti alimentari: la soluzione paolina al tema della carne immolata agli idoli (il caso degli idolotiti, trat-tato in 1 Cor 8) è emblematica. Il problema, ricorda san Paolo, non è il cibo, ma la carità da salvaguar-dare sopra tutto. Non c’è nessun divieto alimentare, dunque, alla luce del messaggio di Cristo. Ep-pure lo stare a tavola è il gesto che più di ogni altro identifica la comunità cristiana. Il rapporto con il cibo è centrale. L’eucaristia ne rivela il senso.Le pagine bibliche ci tramandano anche una riflessione etica sul sen-so del pane, dello stare a tavola e del banchetto. Già all’epoca dei patriarchi l’ospite era considerato presenza sacra. Con lui si condivi-deva il pasto. È quello che fa Abra-mo con i tre uomini alle querce di Mamre (Gen 18,5-9): li ristora con focacce preparate da Sara e uccide il vitello migliore («tenero e buo-no»). L’evento apre il via all’acco-glienza del dono di Dio: Sara avrà un figlio è l’annuncio insperato e gioioso.Questo testo dell’AT rimanda alla logica ripresentata da Gesù nei numerosi episodi della moltiplica-zione (ma sarebbe meglio dire «di-

visione») dei pani e dei pesci (es: Gv 6,1-13). Si tratta di una vera e propria condivisione. La folla è saziata con abbondanza grazie all’intervento di Gesù, che però chiede la disponibilità di ciò che gli uomini possiedono. Quel pane spezzato è sufficiente per sfamare i presenti. E ne avanza pure. Il cibo condiviso, nelle mani di Cristo, è in grado di saziare tutti. Se è forte il richiamo eucaristico nelle narra-zione evangeliche («prese i pani, alzò gli occhi, recitò la benedizio-ne, li spezzò e li diede ai disce-poli»), è altrettanto importante il significato etico. L’uomo è tenuto a condividere ciò di cui dispone, fosse anche poca cosa di fronte ai bisogni reali del momento. Il pasto cristiano esige di essere consumato in un clima di condivi-sione. Non a caso san Paolo inseri-sce la più antica narrazione delle parole dell’ultima cena all’interno delle contese presenti nella comu-nità di Corinto (1Cor 11,17-34). Non meraviglia che le riunioni dei credenti in Cristo avvenissero in-torno a una mensa. Anche per i giudei, come per i greci, prende-re i pasti in comune era abitudi-ne della vita sociale e religiosa. I pasti comunitari avevano luogo in casa di fedeli benestanti che offri-vano le loro vivande. I farisei ad esempio invitavano persone dello

stesso status sociale. A Corinto, in-vece, le mense comunitarie erano frequentate anche dai poveri, per-ché la cena del Signore costituisce motivo di unità per tutti i creden-ti. Eppure, mangiare la cena nella divisione è incoerente. Il pane eu-caristico necessita di un contesto di convivialità, di fraternità vis-suta . Fede e umanità si sposano. Paolo denuncia il fatto che nella comunità ciascuno pensa a sé, co-mincia a prendere il proprio pasto senza condividere nulla. Così ca-pita che qualcuno rimane con la fame, mentre altri sono ubriachi. Le disparità contraddicono il senso della cena del Signore. Diventano una condanna se non si riconosce il corpo del Signore. E’ possibile mangiarne in modo indegno e ciò avviene quando ognuno evita di vivere la fraternità. Non si può di-menticare infatti che nella prima comunità cristiana «cena del Si-gnore» e «frazione del pane» sono le due espressioni con cui viene indicata la celebrazione eucari-stica. La prima esprime la comu-nione («Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?» [1Cor 10,16]): non si va alla cena del Signore solo per man-giare e calmare la fame. Ci si va per mettersi in contatto col Risor-to. Per questo motivo Paolo mette in bocca a Gesù per ben due volte

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la frase: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,24-25). La secon-da espressione, ossia la frazione del pane, è citata in At 2,42. Era per gli ebrei l’atto che inaugurava il pasto familiare. Un rito domesti-co che spettava al capo famiglia, il quale pronunciava la benedizione sul pane, lo spezzava e lo distri-buiva ai convitati. Questo gesto esprimeva una comunione di vita, una condivisione nell’unità. Nella tradizione cristiana la soli-darietà conviviale comunitaria e la partecipazione al corpo e al san-gue di Cristo si saldano assieme. La conclusione di Paolo di 1 Cor 11 è emblematica: invita a non fare confusione tra un pasto consumato privatamente e la cena del Signore che è vissuta nella comunità riu-nita. Fraternità ed eucaristia sono

due facce della stessa medaglia.Un’ultima considerazione. Dio è colui che dona il pane, è il pane stesso offerto, ma si identifica an-che con chi non ha pane. E’ il dona-tore, il dono e l’indigente che non gode del dono. «Ho avuto fame e (non) mi avete dato da mangiare» (cfr Mt 25,31-46): Gesù è l’affama-to, l’assetato, lo straniero... Chi non ha pane si trova nella condi-zione di essere destinato alla mor-te. Condividere il pane è insieme gesto di solidarietà e di riconosci-mento di Cristo nel povero. E’ lui il prossimo da sfamare. Tra le opere di misericordia, quella di dare da mangiare all’affamato non è affat-to passata di moda. In ogni tempo Gesù è l’affamato: in rapporto alla nostra capacità di solidarietà av-viene il giudizio sulla nostra vita.

L’amore si misura sulla prossimità concreta. Una dimensione etica da non sottovalutare. Non solo ci si china sull’affamato spinti dall’a-more di Cristo, ma soprattutto si riconosce in lui la presenza stessa di Cristo. Condividere i propri beni con chi ha fame è questione di giustizia. Nella prospettiva evan-gelica, il povero Lazzaro «bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» (Lc 16,21) ha un nome, mentre il ricco rima-ne anonimo. Dio fa una scelta di campo. Sta dalla parte dell’affa-mato, perché «libererà il misero che invoca e il povero che non tro-va aiuto» (Sal 72,12). Si può esse-re discepoli del Cristo assumendo posizioni differenti?

VIVERE LA MEMORIA DELL’ULTIMA CENA Mangiare in comunioneA conferma di questa difficoltà sta la crisi della cultura del cibo. Per molti l’alimentazione è diventata ciò che sono i mangimi per gli al-levamenti: un preparato artificia-le dal dubbio sapore e conservato nella plastica. Mangiamo mangi-me. Ingoiamo calorie e grassi più che cibi. Hamburger, hot dog, piz-za, prodotti surgelati hanno invaso il mercato alimentare. Tutto è già pronto, precotto e confezionato, mentre i libri di ricette, il passa-parola sui segreti di un piatto sem-brano cose d’altri tempi.Si impone una riflessione sul rap-porto con il cibo.La fame è un bisogno dell’essere umano. Significa che non possiamo vivere «senza pane». La risposta che l’uomo ha dato a questo biso-gno fisiologico non è stata sempli-cemente quella di trovare il modo

più veloce per soddisfarlo. Ha studiato modi per preparare cibo e ha pensato a luoghi e a modali-tà che esprimessero il bisogno di cibo. Si è così sviluppata un’agri-coltura, l’architettura delle case con cucina, dispensa, cantina e sala da pranzo adatte all’esigenza di nutrirsi, si sono sedimentate ri-cette per preparare i cibi, si sono costruiti rituali per stare a tavola, sono sorti agriturismi, trattorie e ristoranti. L’uomo nel mangiare esprime se stesso. Non a caso il mangiare è gesto comunitario, so-ciale. La tavola è luogo di condi-visione. Ci si ritrova, si stringono alleanze, progetti di lavoro o fami-liari, si crea fraternità, si realizza amicizia e comunione. La famiglia vive questo nella quotidianità. A tavola si condividono non solo gli alimenti, ma anche idee, parole,

sorrisi, speranze, sguardi, gioie e preoccupazioni. Addirittura quan-do si vuol festeggiare qualcuno o qualche ricorrenza si organizza una cena. L’uomo mangia nella re-lazione: per questo il cibo rivela la propria identità culturale. Ogni popolo ad esempio ha un suo modo di fare il pane, cucinare la carne, preparare un pranzo. Polifemo che non mangia per fame, ma per ferocia e crudeltà è l’emblema di un rapporto sbaglia-to con il cibo. Scrive Ovidio nelle sue Metamorfosi:«O se il caso mi riportasse qui Ulis-se o qualcuno dei suoi compagni, per sfogarci sopra la mia rabbia, per mangiarne le budella, per sbranarlo vivo con queste mani, per tracannarne il sangue e sentir-mi trepidare tra i denti le membra a brandelli» .

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda B 3

L’avidità fa perdere il gusto delle cose ed elimina l’altro dal proprio orizzonte di vita. La prepotenza del possedere e trangugiare entra-no in contrasto con l’ultima cena di Cristo. Il pane che Gesù spezza è dono. Si può solo accogliere nel-la fede. È cibo che crea comunio-ne, tanto che «colui che mangia di me, vivrà per me» (Gv 6,57). Nella cena di Gesù credere e man-giare si richiamano a vicenda. La frazione del pane rimanda all’in-tenzionalità di Cristo che offre la sua vita. Egli stesso è pane spez-zato. Mentre dona il cibo, offre se stesso e chiede di condividere la medesima sorte. Bere al calice simbolicamente richiama questo significato profondo. L’eucaristia mette in moto un meccanismo di servizio: «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31). L’evangeli-sta Giovanni lo ricorda inserendo nel racconto dell’ultima cena la lavanda dei piedi. Gesù è il servo dell’umanità, affinché «come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). Il discepolo è così spinto a consegnare la sua vita al prossimo,

a diventare egli stesso eucaristia. Il dono di Gesù si prolunga in infini-te nuove situazioni e di fronte agli innumerevoli volti del fratello.Nel percorso che abbiamo tratteg-giato, si comprende come il rap-porto dell’uomo con la terra e con i suoi frutti sono una grande occa-sione per vivere in fraternità. Ne conseguono alcune esigenze:• un’agricoltura di qualità non tradisce il suo legame con il ter-ritorio. Custodisce le proprie com-petenze e valorizza i prodotti, di-fendendone la genuinità. • il problema della fame segnala logiche di ingiustizia condivise. La conversione ad aprire gli occhi e a compiere gesti di solidarietà è compito di ogni uomo. Adottare nuovi stili di vita, più sobri e so-lidali, maggiormente cooperativi, permette di non lavarsi le mani davanti a milioni di persone denu-trite. Lo spreco e il lusso del con-sumismo odierno costituiscono un oltraggio.• è un dovere nel contesto odier-no educarsi al consumo. Ciò che arriva sulle nostre tavole può raf-forzare logiche perverse di sfrut-tamento del mondo agricolo o può

sostenere logiche di giustizia. La scelta dei prodotti nel carrello della spesa è un gesto etico, oltre che economico. Le esperienze dei gruppi di acquisto solidale (GAS), della filiera corta solidale, delle botteghe equo-solidali tutelano maggiormente l’esigenza di giusti-zia. Sono necessari comportamenti cooperativi da parte degli organi-smi che costituiscono la complessa filiera di produzione del cibo.• si mangia condividendo. In re-lazione. Il senso del pane sta nel poterlo spezzare con qualcuno. Lo stare a tavola richiede convivia-lità. Il grido del bambino che ha fame non è solo ricerca del latte, ma di un seno. Dal primo all’ul-timo istante della vita, mangia-re non è semplicemente nutrirsi. L’uomo non è una macchina che si ferma alla stazione di servizio per fare carburante e continuare a marciare. Fa festa attraverso un banchetto. Mangia per stare insie-me e condividere. Il cibo è un inno alla vita: esprime chi siamo, la no-stra cultura, la qualità della nostra vita sociale.

Per l’approfondimento nel Documento diocesano“Che cercate? Venite e vedrete” su Pastorale giovanile e Oratorio (FOCr 2009)• Capitolo 3.2.2. “L’Oratorio, luogo appropriato per una ricca esperienza cristiana”, pp. 27-28• Capitolo 5.3 “Per sostenere i giovani: spazi di una vocazione”, pp. 39-43

Per il cammino personale dell’educatore“Fede ed umanità si sposano”: quali suggestioni la riflessione di Bignami suscita per il tuo cammino di fede? Esistono dimensioni e attenzioni da far crescere nella fedeltà a Cristo?

Per la riflessione nel gruppo educatori• Apriamo un momento di confronto sui contenuti dell’articolo. Quali aspetti ci paiono significativi e degni di sottolineatura? Quali dimensioni critiche per il nostro vissuto comunitario e la nostra mentalità cristiana?• Quali attenzioni e strumenti possiamo individuare in Oratorio e nella sua programmazione per recuperare gli spunti educativi emersi? Per esempio nella gestione del bar dell’Oratorio… nei momenti conviviali con i ragazzi… in alcune attività di formazione ed esperienza caritativa…

gAPPROFONDIMENTI

RIFLESSIONE LITURGICA CPane e vino datiper la vita del mondo

Dal nutrirsi all’essere riconosciuti

d. Daniele Piazziliturgista

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda C 1

Essere invitatiL’eucaristia è prima di tutto con-vocazione, invito a un pranzo fe-stivo offerto da un Altro. È Dio che sempre chiama e convoca il suo popolo, ancora pellegrinante nei deserti del mondo. Ci offre, prima

di tutto, lo stare insieme, il fare chiesa/assemblea, perché cammi-nare da soli nel deserto porta alla morte; ci offre una nuova manna, un cibo dal cielo, perché la fatica del cammino ritrovi energia. Beati

gli invitati alla mensa del Signore … La gratuità di Dio è significata fin dall’inizio, dal nostro sentirci invitati a condividere pane e vino, un nutrimento non preparato da noi, ma per noi.

RingraziareMangiando e bevendo l’uomo spe-rimenta la dipendenza. Se non tro-va cibo o nessuno gli dà da man-giare e da bere, muore. La vita è tutta dono, non solo la nascita. Per questo organizziamo cene e ban-chetti: per celebrare eventi e per-sone dai quali riceviamo la vita. Per questo i credenti si riuniscono e nel segno del banchetto celebra-no il Dio di Gesù Cristo che ci ha

gratuitamente amati. Mangiare un pane spezzato, bere il vino versato e offerto provoca la nostra grati-tudine, la nostra azione di grazie (eucaristia), perché tutto ci è sta-to dato. Prendete…. È il verbo del-la gratuità di Dio che ci ha dato il creato, la vita, Gesù, la prospetti-va dell’eternità. Quando qualcuno ci offre il necessario, l’unica real-tà umanissima e tutta nostra che

possiamo «restituire/sacrificare» è semplicemente il nostro «gra-zie», altro non abbiamo per pa-reggiare il dono, né lo possiamo. C’è qualcuno che per dire grazie ai suoi genitori può ridare loro la vita? Non resta che il solo il grazie riconoscente quando ci sono e il ri-cordo pieno di gratitudine, quando non ci saranno più.

Fare memoriaOgni ricordo umano porta il passa-to nel presente. Ogni cultura riem-pie con un pasto festoso e festivo i giorni della memoria, i tempi che celebrano il ritorno alle origini che hanno fatto esistere un popolo, una

cultura, una famiglia. Fate questo in memoria di me. L’eucaristia non è fatta di cose: pane e vino. Ma di azioni che facciamo con il pane e il vino: prendere, rendere grazie, spezzare, mangiare e bere. Quello

che Gesù ha fatto nella sua ultima sera, lo continueremo a fare, per avere sempre davanti agli occhi il vertice della storia che Dio ha in-tessuto: la morte, la sepoltura, la resurrezione del Figlio di Dio.

EsserciRingraziando e ricordando l’as-semblea celebra la venuta di Cri-sto. Attraverso il velo delle azio-ni eucaristiche noi intravvediamo alla mensa comune Colui che è la ragione stessa del nostro radunar-ci, del nostro ringraziare, del fare memoria. Egli non viene ‘reso’ pre-sente dalla manipolazione umana, bensì il Risorto stesso adempie la sua promessa e fa dono della sua vicinanza. Come ogni auto comu-

nicazione personale la sua venu-ta è un processo dinamico: Cristo viene in mezzo a coloro che sono radunati nel suo nome, nella pro-clamazione della Parola, nel ricor-do dell’ultima cena, nella frazio-ne del pane, nella distribuzione dei doni. E così è costantemente presente nel suo sacrificio, nel suo essersi dato una volta per tutte e nel costante esserci per donarsi nella mediazione di un pane spez-

zato e di un vino condiviso. Anche se i tuoi genitori sono assenti, quel che trovi sulla tavola di casa a pranzo e a cena te li dice presenti, ma non una presenza qualsiasi: è l’esserci nella tua vita di chi non solo la vita l’ha data, ma di chi ti dà la sua stessa vita, la sacrifica per te per «portare il pane a casa» e quindi mantenerti in vita e darti un futuro.

PartecipareChe festa è, che aperitivo è, che festa di nozze è, se vai e non man-gi? Se non ti lasci coinvolgere dalle relazioni che rendono vere quel mangiare e bere insieme? Mangia-re e bere insieme dice la nostra vo-lontà di esserci nella vita dell’al-

tro, degli altri. Mangiare e bere nel banchetto eucaristico espri-mono il nostro esserci all’esserci di Colui che ha dato se stesso per noi. L’amore si dona con l’ineso-rabilità che solo morte può avere. Poiché la morte stessa può essere

vista come l’estrema conseguen-za di una vita fatta di dedizione. È forte l’Amen che ci è chiesto di dire quando ti avvicini all’altare e ti viene detto: «Il corpo e il sangue di Cristo».

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda C 2

gAPPROFONDIMENTI

TrasformareLa venuta di Cristo trasforma. Il mangiare e il bere non rimangono semplicemente tali, ma diventano la cena del Signore; pane e vino non rimangono semplici alimenti,

ma segni autentici di una sua reale dedizione. Diventano il suo corpo e il suo sangue, affinché anche i radunati in assemblea diventino il suo corpo e partecipino alla sua

dedizione. Vedo pane e vino, ma in realtà c’è una azione reale e pre-sente: è Gesù che si mette in rela-zione con la sua chiesa e la nostra assemblea è trasformata in lui.

InvocareLa venuta di Cristo, la partecipa-zione alla sua dedizione e la tra-sformazione dei doni in vista della trasformazione dei presenti non è un fatto magico. Avviene perché crediamo e speriamo che Dio stes-so agisca. E lo invochiamo. Suppli-

chiamo che lo Spirito venga. Chie-diamo a Dio di agire nella storia di questa assemblea e sappiamo che agisce, perché la storia stessa è storia di salvezza, storia piena di eventi e profezia attraverso i quali Dio si è reso presente all’umanità.

Così l’eucaristia diviene l’oggi in cui Dio irrompe nella mia, nella nostra vita per costruire con noi «una storia», per avere anche noi «una storia d’amore» con lui.

AnticipareCome l’innamoramento anticipa la vita comune, come il mangiare e bere oggi anticipa il poter vivere domani, l’avere energie sufficienti per vedere un nuovo giorno, così il Pane spezzato e il Vino offerto ci tengono in piedi per il domani di

Dio e nello stesso tempo ci fatto pregustare quello che sarà il futu-ro di Dio. Come nei pranzi festosi di famiglia o tra amici sperimen-tiamo quanto la realtà dell’amar-si sia ancora tenue e imperfetta, così nell’eucaristia sperimentiamo

quanto il mondo sia ancora imper-fetto perché siamo divisi gli uni dagli altri, ma per un momento pregustiamo l’armonia dell’amar-ci e possiamo impegnarci perché il mondo futuro possa essere mi-gliore.

CelebrarePrendere pane e vino, rendere gra-zie, spezzare, dare pane e vino. Tutto questo è possibile se non abbiamo paura a ritualizzare e ce-lebrare. I simboli e i gesti rituali dicono l’indescrivibile e l’inaffer-rabile. Per questo il Maestro, prima

di morire, ci ha comandato di fare, non di spiegare: Fate questo…Per questi prendiamo del pane e lo spezziamo, prendiamo un calice di vino o lo condividiamo. È umano farlo. Sempre rivestiamo l’amo-re di gesti, prima che di parole. E

cosa c’è di meglio tra amanti che potersi dire nei segni: Mangiami perché io diventi te e tu divenga me? I simboli dell’amore lo annun-ciano possibile, la vita condivisa lo realizza, il farne memoria lo rinvi-gorisce.

Per l’approfondimento nel Documento diocesano“Che cercate? Venite e vedrete” su Pastorale giovanile e Oratorio (FOCr 2009)• Capitolo 3.2.2.b “Il giorno del Signore”, p. 28• Capitolo 4.2.2.a “La fiducia nell’azione dello Spirito”, p. 33

Per il cammino personale dell’educatore“Che festa è, che aperitivo è, che festa di nozze è, se vai e non mangi?”: quali suggestioni la riflessione di d. Piazzi suscita per il tuo cammino di fede? Esistono dimensioni e attenzioni da far crescere nella tua espe-rienza cristiana e di educatore?

Per la riflessione nel gruppo educatori• Apriamo un momento di confronto sui contenuti dell’articolo. Quali aspetti ci paiono significativi e degni di sottolineatura? Quali dimensioni critiche per il nostro vissuto comunitario e la nostra mentalità cristiana?• Quali attenzioni e strumenti possiamo individuare in Oratorio e nella sua programmazione per recuperare gli spunti educativi emersi? Ad es. nella programmazione della vita oratoriana… nel coinvolgimento animati-vo… Esistono momenti in cui ci facciamo carico di invitare all’Eucaristia? Qual è il clima di accoglienza nelle celebrazioni? Quali bisogni di collaborazione ravvisiamo?

RIFLESSIONE PSICOLOGICA DNel cibola culla del desiderio

Per uno sguardo psicologico al pane

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda D

“Quando preparate l’impasto per fare il pane ricordatevi di modella-re con le mani due piccole pagnot-te di farina: nella prima aggiungete il lievito, nella seconda il sale. Non mettete mai il sale e il lievito insie-me, perché il primo brucia il secondo …”. Le parole del cuoco mi avevano colpito e, pur rimanendo molto lon-tana dai principi chimici che permet-tevano l’incontro tra i due materiali, era chiaro che il sale avrebbe reso inospitale quell’ambiente delicato in cui la pasta avrebbe potuto lievitare durante le lunghe ore successive. La scelta attenta degli ingredienti e del loro peso, il procedimento preciso per ottenere l’impasto, la manipola-zione curata della farina e dell’acqua insieme per creare quella pasta liscia e morbida, profumata all’olfatto e un po’ appiccicaticcia sulle mani, avreb-bero prodotto un cibo profumato, caldo e sostanzioso.

È lento il processo della sua produ-zione, attraverso il suo rigonfiamento nelle tante ore di attesa della lievi-tazione e infine della cottura, così come è lunga l’attesa e la speranza che le mosse e le azioni compiute in sequenza funzionino; molto più breve è invece la risposta al nostro bisogno: la fame.

Desiderare la buona riuscita del prodotto significa predisporsi con accuratezza e calma, pazienza e de-dizione, speranza e trepidazione ad

attendere il risultato, sollevando più volte il canovaccio umido pronuncian-do: “Si sta gonfiando …”, o guardando oltre il vetro del forno con gli occhi sgranati mentre l’impasto assume un colore dorato. Preparare il pane pone nella condizione di attendere, di de-siderare, cioè di sentire una mancan-za ad un bisogno.

Il pane risponde così al bisogno pri-mario ed essenziale del nutrimento, ma diventa anche metafora di nutri-mento per tutto l’uomo, non solo per il suo palato, rispondendo al biso-gno di essere scaldati e accuditi con cura da qualcuno che si occupi di noi, che ci tenga per mano da piccoli e che continui a dimostrare di amarci mentre cresciamo. Così la fame non esprime solo il bisogno fisiologico di sopravvivere, ma anche l’esigenza di essere accolti, apprezzati, amati, cioè la preoccupazione di ogni uomo di trovare un posto, di avere un valo-re e un senso per gli altri, di essere desiderato da chi lo circonda e ospi-tato -come il sale e come il lievito, separatamente- in un ambiente che lo riconosce per le sue caratteristiche e per le sue risorse specifiche.

Se il bisogno fisiologico chiede nell’oggetto di trovare una risposta (il pane per annullare la fame, l’ac-qua per annullare la sete …), il desi-derio si placa e si alimenta attraverso i segni, i simboli, le parole degli altri. Sono gli altri a rispecchiare chi siamo

con le nostre caratteristiche perso-nali, a percepire cosa proviamo, ad ascoltare le nostre parole e i nostri silenzi, a sentire la nostra mancanza. Ri-conoscere allora assume un signi-ficato più ampio e profondo, signifi-ca allargare la nostra immagine che di fronte allo specchio si incontra o scontra con se stessa, per aggiunge-re un’altra prospettiva attraverso lo sguardo dell’altro che ci conosce due volte, che ci individua tra tanti altri per quelle capacità e quei valo-ri che appartengono proprio a noi e che costituiscono la nostra singolare esistenza. Riconoscersi significa ritro-varsi, avere una conferma della no-stro valore, del nostro posto, di esse-re desiderati e amati.

Se l’oggetto-cibo risponde alla fame e al bisogno di trovare nutri-mento nell’urgenza e nell’immedia-tezza, il desiderio trova risposta nella relazione con l’altro, in un rapporto costituito da sguardi, intese, parole e fatti che si dispiega nel tempo e che ci invita ad aspettare, a lasciare che i semi possano germogliare seguendo le stagioni, a seguire la lenta fermen-tazione. A volte scontrandosi anche con la possibilità che sale e lievito in qualche occasione corrano il rischio di avvicinarsi un po’ troppo, e quindi bruciare, per poi provare a modellarsi nuovamente.

dott.sa Paola Pighipsicologaoperatrice consultorio Ucipem - Cr

Per l’approfondimento nel Documento diocesano“Che cercate? Venite e vedrete” su Pastorale giovanile e Oratorio (FOCr 2009)• Scheda n. 8 “Pastorale giovanile, Oratorio e fragilità giovanili”, pp. 85-89 Per il cammino personale dell’educatore“Il desiderio si placa e si alimenta attraverso i segni, i simboli, le parole degli altri”: quali suggestioni la riflessione di Paola Pighi ti suscita? Ricavi attenzioni e consapevolezze su cui vale la pena che tu ti fermi?

Per la riflessione nel gruppo educatori• apriamo un momento di confronto sui contenuti dell’articolo. Quali aspetti ci paiono significativi e degni di sottoli-neatura? Quali dimensioni critiche per il nostro vissuto comunitario e la nostra mentalità cristiana?• quali attenzioni e strumenti possiamo individuare in Oratorio e nella sua programmazione per recuperare gli spunti educativi emersi? Ad es. nella gestione del bar dell’Oratorio… nei momenti conviviali con i ragazzi… se accompagniamo i più giovani, se cogliamo fatiche e bisogni…

gAPPROFONDIMENTI

RIFLESSIONE CULTURALE EQuestioni di cibo...questioni di identità

Uno sguardo culturale tra cifre e significati

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda E 1

Tremilacinquencento miliardi di dol-lari: tanto costa al nostro pianeta, secondo le stime della FAO1, il pro-blema della malnutrizione. Il PIL dell’intera Germania nel 2012? Infe-riore. E non bisogna figurarsi solo la situazione di estrema sottonutrizione in cui versano 868 milioni di individui al mondo: è a repentaglio anche la salute di altri due miliardi, la cui die-ta è gravemente carente di uno o più micronutrienti, ovvero di ulteriori 1,4 miliardi di persone che, di cibo, ne assumono troppo – di obesità vera e propria si parla in un caso su tre. E’ il cosiddetto ‘paradosso del cibo’ – ma anche la degenerazione del diritto ad esso, sancito per la prima volta nel 1948 dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Da allora, la ri-flessione attorno al diritto al cibo e alle implicazioni globali della sua at-tuazione si è fatta, anno dopo anno, sempre più articolata e complessa. Infine, si è giunti alla convinzione che, a rilevare, non sia solo la quanti-tà, ma anche la qualità degli alimenti disponibili e la tutela della salute di chi li consuma. Inoltre, che garantire cibo in quantità adeguata e qualitati-vamente equilibrato sia questione di accordi internazionali, sì, ma anche di scelte di vita personale. La vitto-ria della candidatura di Milano quale città sede dell’esposizione universale del 2015 ha il potenziale per rappre-sentare un’altra tappa molto impor-

tante di questa riflessione, venendo dedicata, come tradisce il suo titolo “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, proprio a questi temi.

Il momento presente della sto-ria del diritto al cibo prevede però anche un’altra scadenza cruciale, quella dei cosiddetti Obiettivi del Millennio2 (2000), patto globale tra Paesi ricchi e in via di sviluppo per la costruzione di un mondo più sicuro, equo e prospero, per tutti. Nel 2015 si farà il punto circa quelli raggiunti e i risultati solo parzialmente attuati, e c’è già chi pensa che la concomitanza dell’evento milanese con la scaden-za degli Obiettivi caricherà il primo di responsabilità ancora maggiori, ri-spetto alla sua capacità di proporre stili di vita e di consumo alternativi, sostenibili per un pianeta abitato da un numero di persone in costante crescita, ovvero di stimolare la scien-za e la tecnologia perché, senza com-promissione del diritto delle genera-zioni future, il bisogno globale di cibo venga soddisfatto.

Esiste infatti anche la storia del bi-sogno di cibo, oltre a quella del rico-noscimento del diritto ad esso.

Affiancate l’una all’altra, le parole “diritto” e “bisogno” – non solo quel-li al nutrimento – sembrano evocare significati di pretesa. Se ci si riflette, tuttavia, quella di bisogno è piuttosto la condizione dell’uomo fragile e che si scopre limitato. Questo è tanto più

vero nel caso dei bisogni elementari e stabili, quale, appunto, quello di sfamarsi. Eppure nel tempo, grazie ai progressi della scienza e della tecni-ca e alla sua curiosità, l’uomo è riu-scito a tramutare il bisogno di nutrirsi in arte culinaria, quello di abbigliar-si in stile e segno di riconoscimen-to, l’esigenza di ripararsi in cultura dell’abitazione e strumento per tra-sformare l’ambiente circostante etc. In breve, l’uomo ha “sublimato” la propria condizione di fragilità facen-done cultura, e questo ha permesso di costruire, nel corso dei secoli, l’i-dentità dei popoli. Ecco dunque, al profondo, qual è la funzione del bi-sogno: dire l’identità dell’uomo, sia nella sua qualità di essere individua-le, affetto da limiti e da fragilità, sia in quanto membro di una comunità, individuo in relazione3. E l’identità, sia personale che collettiva, chiede, per poter esistere, di essere accolta e riconosciuta nell’ambito delle rela-zioni: ne va della dignità dell’essere umano e dei popoli. Accoglienza e ri-conoscimento anticipano per questo, addirittura, la soddisfazione vera e propria del bisogno.

Ora, parlando di accoglienza dell’altrui identità, personale e so-ciale, quello di cibo si dimostra biso-gno esemplare della dinamica appena descritta. A livello individuale, infat-ti, l’immagine del cibo evoca quella della tavola e significati di convivia-

dott.sa Ilaria Macconiricercatrice CERSIUniversità Cattolica Piacenza/Cremona

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948)Art. 25: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere pro-prio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari.”

Patto Internazionale sui Diritti economici, sociali e culturali (1966)Art. 11: “Gli Stati (…), riconoscendo il diritto fondamentale di ogniindividuo alla libertà dalla fame, adotteranno, individualmente e attraverso la cooperazione internaziona-le, tutte le misure, e fra queste anche programmi concreti, che siano necessarie.”

Dichiarazione di Roma sulla Sicurezza alimentare mondiale (1996)“Noi Capi di Stato e di Governo (….) riaffermiamo il diritto per ognuno di avere accesso ad alimenti sani e nutrienti, in accordo con il diritto ad un’alimentazione appropriata e con il diritto fondamentale di tutte le persone di non soffrire la fame.”

Buono come il Pane SCHEDE EDUCATORI scheda E 2

lità ed accoglienza. Ma esiste anche un ordine superiore ed economico delle relazioni, quelle che hanno luo-go nel contesto del libero mercato mondiale, dove si gioca una partita fondamentale per l’edificazione di un mondo più sicuro, equo e prospero, per tutti.

L’evoluzione dei trattati internazio-nali sui problemi alimentari e quella della cultura dell’ospitalità – come pure il progresso delle opere dell’in-gegno umano per ottenere produzioni agrozootecniche superiori per qualità e quantità – fanno parte del passato e del presente della storia del diritto e bisogno di cibo.

Il futuro del problema alimentare appare poi sempre più sfaccettato, comprendendo, non solo la grave sot-tonutrizione e la scorretta alimenta-zione cui si accennava all’inizio, ma anche gli aspetti dello spreco di ali-

menti, della conservazione della bio-diversità e varietà enogastronomica locali, della garanzia di cibo sufficien-te per un pianeta che sarà popolato da nove miliardi di individui entro i prossimi trent’anni etc. La storia di questo diritto e bisogno, la sua attua-le e prospettica multisfaccettatura, l’idea stessa di riconoscimento dell’i-dentità dell’altro cui si accennava, prevengono dal considerare quello del cibo problema esclusivo dei Pae-si in via di sviluppo e più poveri. Da questo assunto origina il modello di sviluppo basato sui diritti che alcune organizzazioni internazionali – come la FAO – da tempo propongono. Entro di esso chi si trova in una posizione di vantaggio sostiene chi è in difficoltà e il beneficiario dell’aiuto si impegna a sua volta in modo attivo per creare le condizioni della sua prosperità futura sostenibile.

E quale ruolo compete a ciascuno di noi, abitanti e consumatori singoli di questo pianeta?

Certo, almeno 500 dollari a testa di costo economico della malnutrizione, che si ottengono dividendo i tremila-cinquecento miliardi totali per il nu-mero degli abitanti. Ma anche questo potrebbe lasciarci indifferenti, dopo-tutto, o disillusi per via dei risultati ancora non definitivi che gli accordi internazionali sul problema del cibo hanno fruttato sinora.

Eppure, l’esistenza quotidiana di ciascuno è puntellata di occasioni e richieste di riconoscimento del biso-gno e dell’identità dell’altro. Si può davvero non prendere posizione, ri-spetto all’esigenza di condividere il pane, non sprecarlo, informarsi per fare scelte di consumo critico?

1 Food and Agricultural Organization (FAO), The State of Food and Agriculture 2013.2 La Dichiarazione del Millennio, sottoscritta da 191 capi di Stato e di governo nel Settembre del 2000, ha individuato 8 Obiettivi prioritari attorno ai seguenti temi: l’estrema sottonutrizione, l’educazione primaria, l’uguaglianza di genere, la mortalità infantile, la salute materna, la lotte alla princi-pali patologie, la sostenibilità ambientale, la partnership per lo sviluppo. Per maggiori informazioni: http://www.un.org/millenniumgoals/. 3 Dalla filosofia alla sociologia, dalla psicologia alla riflessione teologica, sono innumerevoli gli autori che hanno definito l’essere in relazione condi-zione costitutiva dell’uomo. Tra i molti, il filosofo austriaco, naturalizzato israeliano, Martin Buber – sua l’affermazione: “In principio è la relazione”.

gAPPROFONDIMENTI

Per l’approfondimento nel Documento diocesano“Che cercate? Venite e vedrete” su Pastorale giovanile e Oratorio (FOCr 2009)• Capitolo 3.2.2. “L’Oratorio, luogo appropriato per una ricca esperienza cristiana”, pp. 27-28• Capitolo 5.3 “Per sostenere i giovani: spazi di una vocazione”, pp. 39-43

Per il cammino personale dell’educatore“L’esistenza quotidiana di ciascuno è puntellata di occasioni e richieste di riconoscimento del bisogno e dell’i-dentità dell’altro”: quali suggestioni la riflessione di Macconi suscita per il tuo cammino di fede? Esistono dimen-sioni e attenzioni da far crescere in te?

Per la riflessione nel gruppo educatori• Apriamo un momento di confronto sui contenuti dell’articolo. Quali aspetti ci paiono significativi e degni di sottolineatura? Quali dimensioni critiche per il nostro vissuto comunitario e la nostra mentalità cristiana?• Quali attenzioni e strumenti possiamo individuare in Oratorio e nella sua programmazione per recuperare gli spunti educativi emersi? Per esempio nella gestione del bar dell’Oratorio… nei momenti conviviali con i ragazzi… in alcune attività di formazione ed esperienza caritativa… nel recupero di coscienza e materiali utili…?