Lucarini, PER LA STORIA DEL TESTO DI PLAUTO NELL’ ANTICHITA’ (E ANCORA SUI DUE SISENNA)

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Ioanni Blasio Conte septuagenario Carlo Martino Lucarini PER LA STORIA DEL TESTO DI PLAUTO NELL’ ANTICHITA’ (E ANCORA SUI DUE SISENNA) La storia del testo di Plauto nell’antichità è stata scritta recentemente da Marcus Deufert 1 . Il quadro che lo studioso tedesco ha tracciato è per lo più convincente. Il Deufert si è altresì potuto avvalere dei contributi di insigni latinisti, i quali già avevano intuito alcune linee fondamentali; penso soprattutto al Ritschl 2 , al Leo 3 , al Lindsay 4 , al Pasquali 5 , e, più recentemente, al Questa 6 e allo Zwierlein 7 . Riassumiamo brevemente i risultati del Deufert. I poeti latini arcaici di teatro non erano proprietari dei drammi da loro stessi scritti. Prima della rappresentazione, li vendevano a uno Schauspieldirektor, il quale ne dive- niva unico proprietario. Alla morte di Plauto dunque (184 a. C.), tutti i testi plautini erano nelle mani di alcuni direttori di teatro. Per alcuni lustri, questi testi rimasero proprietà esclusiva di tali direttori, senza che nessuno li leggesse né li rappresentasse (sicché lo stesso Terenzio non fu mai un lettore di Plauto 8 ). Dopo la morte di Cecilio Stazio e Terenzio (159 a. C.), iniziò una fase nuova, quella delle Wiederaufführungen: data la penuria di nuovi poeti comici, che incontrassero i gusti del pubblico, venivano riproposte le commedie plautine (cf. il prologo della Casina). A questa fase vanno probabilmente ricondotte le numerose interpolazioni presenti nel nostro testo; sull’ esistenza di tali interpolazioni non sono leciti dubbi, mentre la loro origine e la loro estensione non sono chiare. Deufert accetta la tesi di Zwierlein, secondo cui si tratta di interpolazioni non molto estese e tutte riconducibili alla stessa mano. Pare invece vada esclusa la tesi di Ritschl, secondo cui in questa fase il testo plautino avrebbe subito una modernizzazione linguistica; tale tesi, che ebbe molta fortuna in passato, è ora abban- donata per ragioni che anche a me (come al Deufert) sembrano convincenti. L’unica traccia, che la fase delle Wiederaufführungen pare aver dunque lasciato nella nostra 1 Deufert (2002). 2 Ritschl (1845). 3 Leo ( 2 1912). 4 Lindsay (1904). 5 Pasquali ( 2 1952). 6 In svariati contributi, dei quali i più significativi, per i problemi che ci interessano, sono raccolti in: Questa (1984). 7 Zwierlein (1990–1992). 8 Lo si deduce con sicurezza da Ter. Eun. 25–34, cf. Deufert (2002) 27. Philologus 156 2012 2 260–291

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Lucarini, PER LA STORIA DEL TESTO DI PLAUTO NELL’ ANTICHITA’ (E ANCORA SUI DUE SISENNA)

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Ioanni Blasio Conteseptuagenario

Carlo Martino Lucarini

PER LA STORIA DEL TESTO DI PLAUTO NELL’ ANTICHITA’ (E ANCORA SUI DUE SISENNA)

La storia del testo di Plauto nell’antichità è stata scritta recentemente da MarcusDeufert1. Il quadro che lo studioso tedesco ha tracciato è per lo più convincente. IlDeufert si è altresì potuto avvalere dei contributi di insigni latinisti, i quali già avevanointuito alcune linee fondamentali; penso soprattutto al Ritschl2, al Leo3, al Lindsay4, alPasquali5, e, più recentemente, al Questa6 e allo Zwierlein7. Riassumiamo brevementei risultati del Deufert.

I poeti latini arcaici di teatro non erano proprietari dei drammi da loro stessi scritti.Prima della rappresentazione, li vendevano a uno Schauspieldirektor, il quale ne dive-niva unico proprietario. Alla morte di Plauto dunque (184 a. C.), tutti i testi plautinierano nelle mani di alcuni direttori di teatro. Per alcuni lustri, questi testi rimaseroproprietà esclusiva di tali direttori, senza che nessuno li leggesse né li rappresentasse(sicché lo stesso Terenzio non fu mai un lettore di Plauto8). Dopo la morte di CecilioStazio e Terenzio (159 a. C.), iniziò una fase nuova, quella delle Wiederaufführungen:data la penuria di nuovi poeti comici, che incontrassero i gusti del pubblico, venivanoriproposte le commedie plautine (cf. il prologo della Casina). A questa fase vannoprobabilmente ricondotte le numerose interpolazioni presenti nel nostro testo; sull’esistenza di tali interpolazioni non sono leciti dubbi, mentre la loro origine e la loroestensione non sono chiare. Deufert accetta la tesi di Zwierlein, secondo cui si tratta diinterpolazioni non molto estese e tutte riconducibili alla stessa mano. Pare invece vadaesclusa la tesi di Ritschl, secondo cui in questa fase il testo plautino avrebbe subito unamodernizzazione linguistica; tale tesi, che ebbe molta fortuna in passato, è ora abban-donata per ragioni che anche a me (come al Deufert) sembrano convincenti. L’unicatraccia, che la fase delle Wiederaufführungen pare aver dunque lasciato nella nostra

1 Deufert (2002).2 Ritschl (1845).3 Leo (21912).4 Lindsay (1904).5 Pasquali (21952).6 In svariati contributi, dei quali i più significativi, per i problemi che ci interessano, sono raccolti in:

Questa (1984).7 Zwierlein (1990–1992).8 Lo si deduce con sicurezza da Ter. Eun. 25–34, cf. Deufert (2002) 27.

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tradizione, è quella delle interpolazioni. Tale fase si chiuse verso il 130–120 a. C9. Lanuova fase inizia coi primi lettori (dunque non spettatori, o, per lo meno, non solospettatori) di Plauto, cioè con Lucilio, Accio e i loro contemporanei, e in questa fasevenne pubblicata la prima edizione di Plauto. L’esistenza di tale edizione tardo-repubblicana fu dimostrata, in un memorabile contributo, dal Leo (1897, 5–8), i cuiargomenti sono stati corroborati e precisati dal Questa (1984, 23–129). Tale edizionefu condotta con criteri alessandrini, dunque con l’uso di segni diacritici e con divi-sione colometrica delle parti polimetre; ai versi sospettati di interpolazione venneapposto un segno diacritico, ma non furono omessi, bensì giustapposti a quelliritenuti autentici. In questa fase vi fu anche un’accesa discussione sull’autenticità dellecommedie plautine, poiché, all’interno di un corpus che includeva oltre 100 comme-die, molte di esse erano sospettate essere opera di altri poeti; l’edizione comprendeva,comunque, l’intero corpus. Questa edizione dominò, in maniera incontrastata, finoagli anni 130–140 d. C., quindi per oltre due secoli. Il movimento arcaista fu all’ori-gine della nuova edizione plautina, che Deufert chiama „varronische Auswahlaus-gabe“. Varrone aveva catalogato le 21 commedie, sulla cui autenticità tutti gli studiosiconsentivano (sono le stesse 21 commedie che la tradizione ci ha conservato; Varronestesso non ne fece però un’edizione); fino all’età adrianèo-antonina non era tuttaviaesistita un’edizione che contenesse solo queste 21 commedie. Questa edizione adria-nèo-antonina segnò un passaggio fondamentale, sia perché determinò la perdita defi-nitiva delle commedie non Varronianae10, sia perché è all’origine dell’edizione a noipervenuta attraverso i manoscritti tardo-antichi e medioevali. La divisione in scene,presente nella nostra tradizione, così come gli argumenta non acrostici e le didascalie,discendono da questa edizione. Su tale edizione si basava anche il primo commen-tatore plautino, di cui noi conosciamo con certezza il nome, Sisenna (che scrisse versoil 200 d. C.). E su tale edizione si basava anche l’archetipo da cui discendono i due ramidi tradizione tardo-antica e medioevale giunti a noi, l’Ambrosiano e il Palatino. Talearchetipo era scritto su un codice, non su un rotolo, come mostra la „bipartizione“ deiversi lunghi (lo hanno dimostrato le fondamentali ricerche del Questa).

Una costante della tradizione del testo plautino dell’antichità è quella che Deufertsintetizza nel concetto di Stabilität: mentre, in passato, molti studiosi (soprattuttoLeo) avevano supposto che nel periodo fra l’età repubblicana e l’arcaismo del II secoloil testo plautino avesse subito un grave peggioramento, Deufert è convinto che talepeggioramento non ci sia stato e che la qualità del testo della prima edizione tardo-repubblicana non fosse molto diversa da quella del testo circolante in età antonina. Un grave peggioramento si ebbe, secondo Deufert (che qui si segue e approfondisce

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9 Le Wiederaufführungen certo continuarono anche successivamente (cf. Deufert, 2002, 63), ma esse nonebbero più effetti sul testo, il quale era ormai fissato.

10 L’unico studioso di età imperiale a conoscere direttamente una commedia non Varroniana è, a quantopare, (la fonte di) Giulio Romano, che conosceva il Caecus, commedia altrimenti ignota (cf. la nota 47).

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le posizioni di Pasquali) solo in età tardo-antica, all’epoca dell’archetipo della nostratradizione.

Questo, in estrema sintesi, il quadro dipinto dal Deufert. Molto di quello che il Deufert sostiene è, secondo me, condivisibile e tutto è ben ar-

gomentato e documentato, sicché una qualsiasi futura discussione della Textgeschichteplautina nell’antichità dovrà partire dall’analisi del Deufert. A me pare che esistanotuttavia alcuni fatti, che vanno interpretati in maniera diversa o, più semplicemente,chiariti meglio. Inizierò dalla discussione della testimonianza di Gellio (Noctes Atti-cae 3. 3. 1–14), la quale è la più importante che l’antichità ci abbia lasciato sulla filo-logia plautina antica. Trascrivo il passo, da cui partiranno le discussioni successive (ed. Marshall): Verum esse comperior, quod quosdam bene litteratos homines dicereaudivi, qui plerasque Plauti comoedias curiose atque contente lectitarit11, non indici-bus Aelii (L. Aelius Stilo, fr. 4 Funaioli) nec Sedigiti (Volcacius Sedigitus, test. 4 F.)nec Claudii (Servius Clodius, test. 7 F.) nec Aurelii (deest apud F.) nec Accii (L. Accius,test. 18 F.) nec Manilii (L. Manilius, fr. 4 F.) super his fabulis, quae dicuntur „am-biguae“, crediturum, sed ipsi Plauto moribusque ingenii atque linguae eius. (2) Hacenim iudicii norma Varronem quoque usum videmus. (3) Nam praeter illas unam etviginti, quae „Varronianae“ vocantur, quas idcirco a ceteris segregavit, quoniamdubiosae non erant, set consensu omnium Plauti esse censebantur, quasdam item aliasprobavit adductus filo atque facetia sermonis Plauto congruentis easque iam nomini-bus aliorum occupatas Plauto vindicavit, sicuti istam, quam nuperrime legebamus, cuiest nomen „Boeotia“. Nam cum in illis una et viginti non sit et esse Aquili dicatur, nihiltamen Varro dubitavit, quin Plauti foret, neque alius quisquam non infrequens Plautilector dubitaverit, si vel hos solos ex ea fabula versus cognoverit, qui quoniam sunt, utde illius Plauti more dicam, Plautinissimi, propterea et meminimus eos et ascripsimus.[…] (6) Favorinus quoque noster, cum „Nervulariam“ Plauti legerem, quae inter in-certas habita est, et audisset ex ea comoedia versum hunc:

scrattae, scrupedae, strittivillae sordidae,delectatus faceta verborum antiquitate meretricum vitia atque deformitates signifi-cantium: „vel unus hercle -inquit- hic versus Plauti esse hanc fabulam satis potest fideifecisse“. (7) Nos quoque ipsi nuperrime, cum legeremus „Fretum“ – nomen id estcomoediae, quam Plauti esse quidam non putant –, haut quicquam dubitavimus, quinea Plauti foret, et omnium quidem maxime genuina. […] (9) M. tamen Varro in libro„De comoediis Plautinis“ primo Accii verba (Pragmatica fr. XV Dangel) haec ponit:„Nam nec ‘Geminei lenones’ nec ‘Condalium’ nec ‘Anus’ Plauti nec ‘Bis compressa’nec ‘Boeotia’ unquam fuit neque adeo ‘Agroecus’ neque ‘Commorientes’ Macci Titi.(10) In eodem libro Varronis id quoque scriptum et Plautium fuisse quempiam poetam

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

11 Accetto lectitarit (I. F. Gronovius), per il tràdito lectitarunt. Marshall non segnala nemmeno la con-gettura in apparato, ma io non capisco come il testo possa essere inteso senza tale emendamento.

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comoediarum. Quoniam fabulae <illae>12 „Plauti“ inscriptae forent, acceptas esse quasiPlautinas, cum essent non a Plauto Plautinae, sed a Plautio Plautianae. (11) Ferunturautem sub Plauti nomine comoediae circiter centum atque triginta; (12) sed homo eru-ditissimus L. Aelius (L. Aelius Stilo, fr. 4 F.) quinque et viginti eius esse solas existi-mavit. (13) Neque tamen dubium est, quin istaec, quae scriptae a Plauto non videnturet nomini eius addicuntur, veterum poetarum fuerint et ab eo retractatae <et>13 ex-politae sint ac propterea resipiant stilum Plautinum. (14) Sed ‘Saturionem’ et ‘Addic-tum’ et tertiam quandam, cuius nunc mihi nomen non subpetit, in pistrino eum scrip-sisse Varro et plerique alii memoriae tradiderunt, cum pecunia omni, quam in operisartificum scaenicorum pepererat, in mercatibus perdita, inops Romam redisset et obquaerendum victum ad circumagendas molas, quae „trusatiles“ apppellantur, operampistori locasset. Nessun passo di autore antico è così prodigo di informazioni, per laTextgeschichte plautina, come questo. Se ne accorse il Ritschl, il quale fu il primo acercare di capirlo a fondo (1845, 73–245). Che gran parte di questo passo derivi daVarrone, con ogni verisimiglianza dall’opera De comoediis Plautinis, è cosa nota eaccettata, né io credo vi siano ragioni per porla in dubbio14. Varrone ebbe dunquedavanti a sé i cataloghi di commedie plautine composti da sei studiosi a lui precedenti(Elio Stilone, Volcacio Sedigito, Servio Clodio, Aurelio Opillo, Accio15 e Manilio):confrontandoli, Varrone osservò che questi sei studiosi concordavano sull’autenticitàdi 21 commedie, mentre, per quel che riguardava tutte le altre, uno almeno di loroaveva sollevato obiezioni circa l’autenticità. Le 21 commedie, che già nell’antichitàvenivano chiamate Varronianae e che la tradizione manoscritta ci ha conservate16, non

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12 Questo è un supplemento di Hertz, accolto da Marshall; forse sarebbe più elegnate <eius> ovvero <illius>.

13 Accetto, a differenza di Marshall, questa integrazione dei recentiores.14 Cf. Deufert (2002) 104–107; Kretzschmer (1860) 53–54; Hertz-Hosius (1903) XXIX. Fra i sei studiosi

prevarroniani citati al § 1, Gellio potrebbe aver avuto conoscenza di prima mano di alcune opere di ServioClodio, cf. Mercklin (1857–1860) 643–644.

15 Dal § 9 del capitolo di Gellio, si deduce che Accio non riteneva plautine le 7 commedie citate. Più diquesto non mi pare si possa dedurre. Non è nemmeno sicuro se il passo di Accio sia in prosa o in versi (cf. Courtney, 1993, 60). Non credo si possa affermare, come fanno Leo, Pasquali (19522, 351) e Deufert (2002, 45–47), che nei prologhi di Geminei lenones, Condalium, Anus si leggesse il genitivo Plauti né che inquelli di Agroecus e Commorientes si leggesse il genitivo Macci Titi. La traduzione corretta del passo credo (a differenza di Deufert) sia quella che si legge in Leo (1913) 388: „denn weder ‘Gemini lenones’ noch ‘Con-dalium’ noch ‘Anus’ noch ‘Bis compress’ noch ‘Boeotia’ sind je von Plautus gewesen, und sogar ‘Agroecus’und ‘Commorientes’ nicht von Maccus Titus“. Se questa traduzione è corretta, rimanendo all’interno dell’ipo-tesi di Leo-Deufert, dovremmo supporre che anche Boeotia avesse la Genitivform Plauti. Eppure, essa eracomunemente attribuita ad Aquilio (cf. infra). In ogni modo, questo punto non è importante per la nostra dis-cussione; ma, ripeto, non è affatto sicuro che nei prologhi delle commedie citate fosse presente la Genitivform,quale la leggiamo nel frammento di Accio. Il testo è scritto in modo artificioso e può darsi che Accio volessesemplicemente dire che tali commedie non erano di Plauto.

16 Con l’eccezione dell’ultima, la Vidularia, giuntaci in frammenti. Non è mancato chi ha sollevato dubbisull’identificazione delle 21 commedie Varronianae con le 21 commedie a noi giunte: è chiaro che tali dubbinon hanno nessuna ragione di sussistere, come ben vide il Ritschl (1845, 73–80).

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erano dunque le commedie che Varrone stesso aveva giudicato autentiche, bensìquelle che i suoi predecessori avevano concordemente giudicato tali. Questo datoemerge con estrema chiarezza dal testo di Gellio e non vale la pena di insisterviulteriormente. Per quel che riguarda la Grundtendenz di Varrone, io credo che abbiaragione il Deufert (2002, 106–107) a parlare di una konservative Grundtendenz:questo risulta chiaro delle parole del § 3 nam praeter illas unam et viginti … quasdamitem alias probavit, dalle quali si evince che lo studioso reatino non sollevò dubbi sunessuna delle 21 Varronianae e che, anzi, ne attribuì altre al comico di Sarsina. Var-rone pare dunque sia stato propenso a includere nuove commedie, oltre alle 21 già datutti riconosciute come plautine, piuttosto che a sollevare nuovi dubbi e sospetti.

Su quanto ho detto fin qui, gli studiosi concordano. Ben più difficile è capire neldettaglio le opinioni espresse da Varrone e i criteri da lui utilizzati. Il testo di Gelliopresenta, a questo proposito, una grave difficoltà, della quale gli studiosi hanno giàpiù volte discusso. Il § 3 e il § 13 sembrano infatti contraddirsi. Se nel § 3 si affermache il criterio stilistico servì a Varrone per rivendicare a Plauto commedie su cui sus-sistevano dubbi (adductus filo atque facetia sermonis Plauto congruentis), nel § 13 siafferma che anche commedie non plautine avevano uno stile plautino (ab eo retracta-tae <et> expolitae sint ac propterea resipiant stilum Plautinum). Il Ritschl, convintoche sia il § 3 sia il § 13 risalissero in ultima analisi a Varrone, si chiedeva come fossepossibile che lo studioso reatino, da un lato ritenesse il criterio stilistico capace dichiarire quali commedie fossero di Plauto e quali no, dall’altro affermasse che tutte lecommedie dubbie avessero tratti stilistici propri di Plauto. Secondo il Ritschl, il res-ponsabile di questa contraddizione non è Varrone stesso, ma Gellio, il quale avrebbeesteso le diasκeuaí plautine di drammi precedenti (di cui si parla al § 13) a tutte lefabulae dubiae, mentre Varrone aveva ipotizzato tali diasκeuaí solo per un numerolimitato di drammi17. Successivamente, in un lavoro, a quanto pare, sfuggito al Deu-fert, è tornato sull’argomento il D’Anna (1956, 72–76), il quale, accogliendo total-mente la contraddizione osservata dal Ritschl, ha cercato di spiegarla però in altramaniera. Nel § 13, infatti, secondo lo studioso italiano, Gellio non attingerebbe daVarrone la notizia delle diasκeuaí plautine di materiali precedenti, né da Varronederiverebbe l’osservazione circa la presenza dello stile plautino in tutte le fabulaedubiae: tale notizia e tale osservazione deriverebbero infatti da Elio Stilone. Il ragio-namento del D’Anna si articola in tre punti: l’osservazione del § 13 è inconciliabilecon quella del § 3 e non può dunque risalire a Varrone (1); d’altronde essa non puònemmeno essere una freie Erfindung di Gellio, poiché il dato erudito delle diasκeuaínon può averlo inventato Gellio (2); poiché l’unico altro studioso sul quale Gellio,

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

17 Ritschl (1845) 112–113: „In Varro’s Buche fand Gellius […] so auch über Plautinische Diaskeuasenälterer Komödien […]; aber Gellius trug, was bedingt gesagt war und in Varro’s Sinne gewiss nur von einermässigen Anzahl von Beispielen gelten sollte, unkritisch auf alle zweifelhaften „fabulae Plautinae“ über. […]Hätte er z.B. „multae“ statt „istae“ gesetzt, oder „quaedam“ so wäre er gewiss der Wahrheit und auch derMeinung des Varro viel näher gekommen.“

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all’interno di 3.3, mostra di sapere qualcosa è Elio Stilone e poiché immediatamenteprima del § 13, al § 12, cita proprio Stilone, ecco che anche il § 13, è probabile chederivi da Elio Stilone (3). Io condivido il punto 2 del ragionamento del D’Anna, non ipunti 1 e 3. Partiamo da quest’ultimo: è vero che al § 12 Gellio cita un’opinione di ElioStilone, ma è altresì vero che che il § 13 si apre con la frase neque tamen dubium est, laquale sembra implicare una netta contrapposizione a quanto detto precedentemente.L’opinione del D’Anna non ha trovato, che io sappia, seguaci e Holford-Strevens18

e Deufert sembrano non conoscerla. Successivamente è tornato sul problema, sebbene assai succintamente, lo Holford-

Strevens, il quale segue il Ritschl e imputa a Gellio una grave contraddizione. In parti-colare, osserva lo studioso britannico, è illogico affermare, come fa Gellio ai §§ 3–4,che lo stile di un solo verso è sufficiente a testimoniare la plautinità di una commedia epoi dire che molte commedie furono retractatae et expolitae da Plauto: come non os-servare che era possibile imbattersi in un verso plautino all’interno di una commedianon plautina?

Il Deufert (2002, 105–106), pur ammettendo che nel capitolo gelliano si mescolanonotizie e osservazioni desunte da Varrone con considerazioni proprie di Gellio, riti-ene che l’invenzione del poeta Plautius (§ 10: su questo vedi infra) e la notizia del § 13rispondano a una stessa esigenza: grazie infatti a tali Ausflüchte, si poteva sostenereche commedie, nei cui prologhi si diceva che erano state composte da Plauto (e si tro-vava dunque la forma Plauti)19, fossero invece opera o del poeta Plauzio, ovvero operadi un poeta precedente, successivamente ritoccate e riadattate (retractatae <et> expoli-tae) da Plauto. Il Deufert pare dunque ritenere l’intero § 13 di origine varroniana, néegli cita le opinioni del Ritschl, del D’Anna, dello Holford-Strevens. Tuttavia, a mepare che l’ipotesi del Deufert sull’origine di Plautius e delle diasκeuaí plautine, forsedi per sé non errata, non risolva in alcun modo il problema sollevato dal Ritschl: se in-fatti Varrone supponeva che tutte le fabulae dubiae attribuite a Plauto avessero unostile plautino, come faceva a usare il criterio stilistico (ciò che appunto si deduce dal § 3) per distinguere le autentiche e le spurie? Almenoché egli non le ritenesse tutte autentiche. Ma come si concilia questo con l’altra cosa che ci dice Gellio, che cioè Var-rone credeva all’esistenza di Plautius? Se infatti circolavano commedie di Plautius, nelcui prologo si leggeva la forma Plauti, è ovvio che non bastava incontrare tale formaper essere sicuri che Plautus aveva fatto la diasκeuä di tale commedia (poiché talicommedie potevano essere opera di Plautius e, quindi, nulla avere a che fare con Plau-tus). In altre parole, la Ausflucht di Plautius poteva neutralizzare quella delle dia-sκeuaí plautine (posto che, come suppone il Deufert, lo stesso critico, Varrone, cre-desse sia all’esistenza di Plautius sia alle diasκeuaí plautine).

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18 Holford-Strevens (22003) 193–194.19 Anche in alcune (non molte) delle commedie plautine giunte a noi, nel prologo si dichiara il nome dell’

autore con la forma genitivale Plauti (vel similia).

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Io credo che la questione vada rianalizzata daccapo. Un dato che a me pare fonda-mentale e che, invece, mi pare sia fin qui sfuggito, riguarda la differenza fra le comme-die di cui Gellio parla al § 3 e quelle di cui parla al § 13. Il Ritschl, infatti, il D’Anna elo Holford-Strevens si esprimono come se, in entrambi i paragrafi, Gellio stesse par-lando delle stesse commedie, ma questo non mi pare corretto. Al § 3 infatti Gellio,dopo aver parlato delle 21 Varronianae, parla di commedie iam nominibus aliorumoccupatae: un numero, non particolarmente alto, di tali commedie (quasdam alias)sarebbe stato, secondo Gellio, attribuito a Plauto da Varrone. Al § 13, invece, Gellioparla di commedie che scriptae a Plauto non videntur et nomini eius addicuntur e a talicommedie riferisce l’aneddoto delle diasκeuaí plautine. Le diasκeuaí sono, dunque,riferite da Gellio solo alle commedie che scriptae a Plauto non videntur et nominiPlauti addicuntur. Al § 3 Gellio ha invece parlato di altre commedie, le quali eranoiam nominibus aliorum occupatae. Solo dunque per quelle commedie, che erano es-pressamente attribuite a Plauto, ma che per altre ragioni non potevano essergli attri-buite20, Gellio suppone la diasκeuä plautina. Se noi teniamo presente tale distinzione,forse il ragionamento di Gellio risulterà più chiaro e non contraddittorio. Gellio dicecioè (ai §§ 3–4) che Varrone attribuì a Plauto alcune commedie (quasdam), le qualierano ritenute comunemente opera di altri poeti e che fu persuaso a tale attribuzione(che era diversa da quella corrente e diffusa) dallo stile di queste commedie, il quale stile si avvicinava a quello plautino. L’esempio che segue conferma quanto stodicendo, poiché Gellio cita il caso della Boeotia, la quale era ritenuta (cf. dicatur)21

opera del poeta Aquilio, mentre Varrone sostenne che era di Plauto. Dunque il crite-rio stilistico servì a Varrone per attribuire al poeta di Sarsina alcune commedie, le qualierano comunemente ritenute opere di altri poeti.

Da queste commedie Gellio distingue, io credo, quelle che feruntur sub Plautinomine (§ 11). Tali commedie, che Gellio ritiene essere 130, si dividono in commediesicuramente autentiche e commedie, che scriptae a Plauto non videntur et nomini eiusaddicuntur22. Solo per queste ultime, per quelle cioè che circolavano sotto il nome diPlauto, ma che la critica non riconosceva come plautine, Gellio crede alla diasκeuäplautina. Se è così, Gellio non si contraddice, poiché , mentre nel § 3 afferma che il

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

20 Cosa vuole dire Gellio, dicendo nomini eius addicuntur? Deufert sembra ritenere che nel prologo di talicommedie si dicesse che il loro autore era Plauto (si leggesse cioè la forma Plauti), ma è probabile che Gelliointendesse, più in generale, tutte le commedie che venivano attribuite al Sarsinate. Non mi pare che nominieius addicuntur possa significare che nel prologo si faceva il nome di Plauto: il significato di alicui addici non èquesto, bensì quello di „essere credute opere di qualcuno“.

21 Una conferma del fatto che, al tempo di Varrone, la Boeotia era ritenuta opera di Aquilio viene dallostesso Varrone, D. l. L. 6. 89, se è corretta l’integrazione A<qui>lii (Turnebus). A prescindere dalla correttezzadell’integrazione (che a me pare sicura), è comunque certo che al tempo di Varrone la Boeotia non era comune-mente attribuita a Plauto.

22 Una tale divisione fra commedie autentiche e quae scriptae a Plauto non videntur non è dichiarata espli-citamente da Gellio, ma la si deduce facilmente, almenoché non si supponga che Gellio ritenesse tutte le com-medie, che feruntur sub Plauti nomine, fossero retractatae et expolitae. Ma tale ipotesi nessuno vorrà pren-derla in considerazione.

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criterio stilistico può servire a rivendicare a Plauto commedie che, normalmente, nongli vengono attribuite, al § 13 afferma che tutte le commedie attribuite a Plauto, mamesse in dubbio dalla critica, hanno caratteristiche dello stile plautino.

Gellio immaginava lo stile plautino come un qualcosa di unico e inconfondibile; unsolo verso poteva bastare per far capire che Plauto ne era l’autore. Se dunque si fossetrovato, all’interno di una commedia comunemente attribuita a un altro poeta, unverso di stile plautino, ecco che quella commedia andava attribuita Plauto. All’internopoi del corpus plautino, tutte le commedie avevano caratteristiche tali da presupporre,almeno, una diasκeuä da parte di Plauto. Non esiste dunque, all’interno del pensierodi Gellio, una contraddizione.

Un altro aspetto del pensiero di Gellio credo possa essere chiarito meglio, seteniamo presente un’osservazione di Holford-Strevens: lo studioso britannico sichiede come Gellio non abbia capito che, ipotizzando le diasκeuaí plautine e rite-nendo un solo verso sufficiente a testimoniare la plautinità di una commedia, rischiavacosì di attribuire a Plauto commedie che a Plauto dovevano solo la diasκeuä. La ris-posta a tale osservazione è molto semplice: per Gellio una commedia, di cui Plautofosse solo il diasκeuastäv, valeva come una commedia interamente plautina. Questorisulta, io credo, chiarissimo a chiunque legga con attenzione tutto il capitolo 3. 13, inparticolare i §§ 6–8; qui infatti Gellio cita due brevissimi frammenti di Nervolaria eFretum23. A me pare abbastanza probabile che tali commedie appartenessero proprioa quelle che scriptae a Plauto non videntur et nomini eius addicuntur; ne fa fede ilmodo come Gellio le introduce (cum ‘Nervolariam’ Plauti legerem, quae inter incer-tas habita est; cum legeremus ‘Fretum’, nomen id est comoediae, quam Plauti esse qui-dam non putant), dal quale si deduce che esse né potevano appartenere a quelle iamnominibus aliorum occupatae, né a quelle sicuramente autentiche; dovevano dunqueappartenere alla categoria delle commedie quae scriptae a Plauto non videntur et no-mini eius addicuntur, cioè proprio a quella categoria che Gellio stesso riteneva natadalle diasκeuaí plautine. Eppure Gellio non solo dice esplicitamente che un soloverso è sufficiente a testimoniare la loro Plautinitas, ma le porta come esempio dicommedie plautine tout court. A me pare dunque evidente che Gellio pensasse cheuna commedia, nata dalla diasκeuä plautina, andasse considerata plautina tout court.Dunque, anche da questo punto di vista, non c’è nessuna contraddizione nel pensierodi Gellio.

Fin qui abbiamo cercato di chiarire il pensiero di Gellio, il quale ci è parso esserepiù coerente di quanto non si sia generalmente opinato. Tuttavia, l’avere spiegato inmaniera coerente il pensiero gelliano non risolve certo tutti i problemi che il nostrocapitolo pone. Come osserva Deufert (2002, 105) è spesso difficile, all’interno delnostro capitolo, „varronische und gellianische Bestandteile zu sondern“. Che tutto il

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23 Io sospetto che le citazioni di Nervolaria e Fretum non derivino da Varrone, ma da letture originali diGellio; così già Froehde (1900) 531–532. Tuttavia, su questo punto, non si può essere sicuri. Sulla conoscenzadiretta di Plauto da parte di Gellio esprime scetticismo Jocelyn (1988) 57–72.

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materiale erudito presente nel capitolo derivi da Varrone è, come già accennavo, cosageneralmente ammessa e che anche a me sembra abbastanza probabile: i capitoli gel-liani derivano in generale da una sola fonte24 e, anche nel nostro caso, non ci son ra-gioni serie per dubitarne (solo i §§ 6–8 sono, forse, un’aggiunta originale di Gellio).Alcuni aspetti del pensiero e dell’attività varroniana su Plauto emergono dal nostrocapitolo con assoluta chiarezza: che cioè Varrone selezionò le 21 commedie Varronia-nae e che oltre a queste ne attribuì altre a Plauto, per ragioni stilistiche, fra cui laBoeotia. Questi dati li ricaviamo dai §§ 1–5. I §§ 6–8 potrebbero non derivare, comedicevamo, da Varrone; certo, una dimostrazione in un senso o nell’altro, a me pareimpossibile. Dei §§ 9–14, invece, è indubitabile l’origine varroniana. Il più proble-matico è senza dubbio il § 13, del quale già abbiamo discusso; e se, forse, siamo riuscitia dimostrare che esso non è in contraddizione con quanto Gellio dice nei §§ pre-cedenti, resta ancora il problema di cosa Varrone pensasse riguardo alle diasκeuaí.Che la notizia delle diasκeuaí fosse presente nell’opera di Varrone, e che di lì Gellio laabbia presa non è lecito dubitare25: ma cosa pensava Varrone al riguardo? Il Deufert,come abbiam veduto, crede che Varrone supponesse una diasκeuä plautina per tuttele commedie „dem Plautus zwar von der Kritik abgesprochene, aber doch durch sei-nen Namen verbürgte“. Il Deufert parla qui delle commedie nel cui prologo si leggevala forma Plauti; Varrone, secondo lui, riteneva che tutte le commedie nel cui prologosi leggeva tale forma fossero o opera di Plauto o, almeno, fossero state retractatae et expolitae da Plauto. Io non credo questa intepretazione possibile, per due ragioni.Innanzitutto (come già osservavo alla nota 20), l’espressione nomini Plauti addicunturnon credo possa significare che tali commedie presentavano la Genitivform nel pro-logo; questa espressione indica tutte le commedie del corpus plautino contro la cuiautenticità esistevano obiezioni forti, non solo quelle nel cui prologo si leggeva Plauti(le quali saranno state, a giudicare anche dalle 20 a noi susperstiti, una netta mino-ranza!). Inoltre, al § 10 Gellio ci informa che Varrone credeva all’esistenza di un poetacomico di nome Plautius e pensava che esistessero alcune sue commedie che recavanol’inscriptio ‘Plauti’ 26. Chi credeva all’esistenza del poeta comico Plautius non poteva,mi pare, credere che ogni commedia che recasse la Genitivform Plauti fosse opera diMaccio Plauto o, almeno, della sua diasκeuä; è infatti evidente che dovevano esisterecommedie di Plautius (nel cui prologo si poteva leggere Plauti), le quali nulla avevanoa che fare con Plautus.

Io credo che Varrone ritenesse, come Gellio, che tutte le commedie quae nominiPlauti addicuntur fossero o opera di Plauto o fossero state retractatae et expolitae daPlauto (queste ultime erano quelle quae scriptae a Plauto non videntur). Credo dun-que che il § 13 derivi direttamente da Varrone e che il pensiero di Gellio e quello di

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24 Cf. Aistermann (1910) 115; Ruske (1883).25 Lo ribadisce, giustamente, con argomenti anche stilistici, il Deufert (2002, 106, nota 288).26 Dal testo di Gellio si deduce che Varrone era sicuro dell’esistenza di tale poeta (scriptum .. fuisse quem-

piam) e delle sue commedie, non certo che egli si riferiva a un’opinione altrui.

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Varrone coincidano (cioè che Gellio riporti fedelmente il pensiero del Reatino). Nonci sono ragioni per pensare il contrario; che Gellio avesse il coraggio di fare un’affer-mazione così importante e che riguardava tutto il corpus plautino, come quella cheleggiamo al § 13, senza avere il sostegno di Varrone, non mi pare probabile. Inoltre i§§ 10–12 derivano senza dubbio da Varrone e così il il § 14: perché il § 13 dovrebbecontenere un’affermazione di Gellio, diversa dal pensiero di Varrone? L’unica ra-gione, per ipotizzare che Gellio avesse sovrapposto il proprio pensiero a quello diVarrone (oscurando quello di quest’ultimo), era la contraddizione fra il § 3 e il § 13;ma noi abbiamo dimostrato che tale contraddizione non esiste. Non c’è nessuna ra-gione di supporre che Varrone non abbia pensato che tutte le commedie quae scriptaea Plauto non videntur et nomini eius addicuntur fossero state retractatae et expolitaeda Plauto stesso.

In conclusione, credo che Gellio abbia riprodotto fedelmente il pensiero di Var-rone, senza aggiungere nulla; il Reatino aveva usato il criterio stilistico per rivendicarea Plauto alcune commedie che erano comunemente attribuite ad altri poeti, mentre,per le commedie comprese nel corpus era convinto che esse fossero o di Plauto o da luirectractatae et expolitae.

È opinione generalmente accolta, che Varrone abbia fatto un index di commedieplautine da lui ritenute autentiche; questa opinione risale al Ritschl ed è stata ribaditarecentemente dal Deufert (2002, 104 nota 276) e dall’Aragosti27. Il Ritschl cita aquesto proposito un passo di Servio28, in cui leggiamo: Plautum alii dicunt scripsissefabulas XXI, alii XL, alii C. Ora, mentre il numero 21 è evidentemente quello delleVarronianae, più difficile è stabilire a cosa facciano riferimento i numeri 40 e 100.Quest’ultimo si ritiene generalmente vada riferito all’intero corpus plautino, cosìcome il numero 130 presso Gellio. Per il numero 40, si è pensato che esso corrispondaalle commedie che Varrone credeva autentiche. La proposta, che, come dicevo, haavuto notevole fortuna, è del Ritschl (1845, 126–154), il quale, non solo ha ipotizzatoche il numero 40 si riferisse alle commedie plautine ritenute autentiche da Varrone, maha anche cercato di determinarne i titoli (traendoli, ovviamente, dalla tradizione in-diretta plautina). Questi sarebbero, oltre ai 21 delle Varronianae, i seguenti: Saturio,Addictus, Boeotia, Nervolaria, Fretum, Trigemini, Astraba, Parasitus piger, Parasitusmedicus, Commorientes, Condalium, Gemini lenones, Faeneratrix, Frivolaria, Sitelli-tergus, Fugitivi, Cacistio, Hortulus, Artemo. Donde ha ricavato il Ritschl questi titoli,dal momento che nessuna fonte ci dice, se non per pochissimi di essi, che Varrone li ri-teneva titoli di commedie autentiche di Plauto? I primi tre titoli (Saturio, Addictus,Boeotia) sono dedotti da Gellio 3. 3. 4 e 3. 3.14 e su di essi non si può dubitare, dalmomento che Gellio afferma esplicitamente, che tali commedie erano ritenute auten-

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27 Aragosti (2009) 43. Anche Stockert (2005) 498 nota 1, la accetta. È strano come Lehmann (2002) 51–52,attribuisca questa ricostruzione al D’Anna! Tutto il lavoro della Lehmann non mostra interesse per la filo-logia.

28 Praef. in Aen., ll. 88–89 (ed. Harvardiana).

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tiche da Varrone29. Su Nervolaria e Fretum manca invece una prova sicura; Ritschl èconvinto che i §§ 6–8 del capitolo gelliano derivino da Varrone e che Gellio attribuiscaa Favorino e a se stesso giudizi che aveva letto in Varrone. Questo è indimostrabile.Trigemini è dedotto da Gellio 6. 9. 7; in questo passo Gellio sta parlando dei perfettiraddoppiati e introduce una citazione da Trigemini, commedia che egli ritiene plau-tina. Nulla lascia intendere né che Gellio tragga questa citazione da Varrone30 né,tanto meno, che Varrone ritenesse autentica questa commedia. Astraba è citata da Var-rone stesso in De lingua Latina 7. 66 in mezzo ad altre commedie plautine e dunquel’inserimento nella lista può apparire legittimo, ma non mi pare altrettanto legittimodedurre da Gellio 11. 7. 5 che Varrone aveva giudicato Astraba plautina31. Anche altrecommedie presenti nella lista del Ritschl sono citate da Varrone, nel D. l. L., fra altrecommedie plautine (esse sono, oltre ad Astraba: Boeotia32, Nervolaria, Parasitus piger,Condalium, Faeneratrix, Frivolaria, Sitellitergus, Fugitivi, Cacistio), mentre altre,citate ugualmente da Varrone fra altre commedie plautine (Colax, Cornicula, Pago),non sono state incluse dal Ritschl33. Qualcuno potrà meravigliarsi di un tale compor-tamento del filologo tedesco. La ragione è che il Ritschl (1845, 79) era convinto cheuna citazione nel De lingua Latina non fosse sufficiente a dimostrare che Varroneriteneva la commedia effettivamente plautina; dati gli interessi puramente linguisticidel De lingua Latina, a Varrone interessava in tali libri solo dimostrare l’uso di questao quella parola, mentre non era per lui di alcun interesse stabilire chi fosse il realeautore del brano citato. In questo io credo che il Ritschl avesse pienamente ragione. Si pensi al caso di Boeotia: Gellio (3. 3. 4) ci assicura che Varrone (evidentemente nelDe comoediis Plautinis) non aveva dubbi sulla plautinità di Boeotia, quantunque altristudiosi la attribuissero ad Aquilio; eppure in D. l. L. essa viene citata come di Aquilioe nulla si dice della possibile paternità plautina! Un’ulteriore conferma all’idea delRitschl credo la possano dare anche gli studi sulle fonti di Varrone condotti in anni

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29 Si osservi tuttavia che Gellio (§ 14), accanto a Saturio e Addictus, parla anche di una terza commedia,cuius nunc mihi nomen non subpetit, che Varrone riteneva con certezza autentica. Evidentemente il Ritschl laritiene identica a una di quelle che egli inserisce nella lista. Ma la cosa è assai dubbia.

30 Hosius (1903, XXXV) ritiene che il passo derivi da Probo (cf. anche Kretzschmer, 1860, 84–85; Aister-mann, 1910, XXXIII).

31 Non condivido dunque quanto Ritschl dice a proposito di Gellio 11. 7. 5. Un tale, narra Gellio, volevaesibire conoscenza di termini obsoleti e rari e usò quindi, cum apud praefectum urbi verba faceret, il rarissimotermine apluda (legerat autem ille ‘apludam’ veteres rusticos frumenti furfurem dixisse idque a Plauto incomoedia, si ea Plauti est, quae ‘Astraba’ inscripta est, positum esse). Ritschl (1845, 131) è convinto che, se Var-rone non avesse creduto all’autenticità di Astraba, Gellio non avrebbe mai scritto si ea Plauti est. Eppure anchequi, mi pare, il Ritschl procede in modo arbitrario: nulla lega Gellio 11. 7 a Varrone, né esistono ragioni peripotizzare che, scrivendo 11. 7, Gellio si sia ricordato di giudizi che espressi da Varrone sull’autenticità diquesta o quella commedia attribuita a Plauto. Inoltre, data la tendenza ‘inclusiva’ di Gellio, se anche Varroneavesse rigettato l’autenticità di Astraba, egli poteva esprimersi in modo più dubitativo e dire si ea Plauti est.

32 Della quale tuttavia Varrone dice (d. l. L. 6. 89): ‘Boeotia’ ostendit, quam comoediam A<qui>lii essedicunt, cf. la nota 21.

33 Gli elenchi delle commedie plautine (autentiche e dubbie) citate da Varrone sono sia negli indici dell’edi-zione del De lingua Latina di Goetz-Schoell sia in Deufert (2002) 139.

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successivi: si è arrivati infatti a determinare che in alcuni casi egli ha dedotto interesequenze di citazione plautine o pseudo-plautine da opere di filologi a lui prece-denti34; è evidente che egli citava dunque le opere che altri avevano citato e dunquenon applicava la sua Echtheitskritik. Inoltre Gellio ci garantisce che Varrone ritenevaautentici Saturio e Addictus; eppure queste commedie non son mai citate in D. l. L.!D’altra parte, se le commedie non Varronianae citate in D. l. L. fossero un numeroparticolarmente alto, si potrebbe supporre che, nella grande quantità, qualcosa siastato omesso per caso; ma le commedie non Varronianae citate in D. l. L. sono solo 13.Tutto lascia dunque supporre che l’Echtheitskritik varroniana non abbia lasciatotracce nel D. L. L35. Si capisce dunque perché il Ritschl cercasse sempre altri indizi, aldi fuori del D. l. L., i quali facessero supporre che Varrone aveva ritenuto autenticauna commedia; eppure egli ha proceduto con eccessivo eclettismo, talvolta avvalen-dosi della testimonianza di D. l. L., talvolta non tenendola in nessuna considerazione.

Torniamo alla sua lista; egli include Parasitus piger, quasi esclusivamente sulla basedi D. l. L. 7. 77; d’altra parte, essendo stato inserito nel titolo l’aggettivo piger, ipo-tizza Ritschl, per differenziare questa commedia da un’altra che portava nel titolo ilsostantivo Parasitus, ecco che anche Parasitus medicus viene incluso nella lista. Com-morientes, Condalium, Gemini lenones vengono accolti da Ritschl, poiché egli èconvinto che Varrone citasse Accio, il quale riteneva queste commedie non plautine(cf. Gellio, 3.3. 9), con fini polemici (ma questo è indimostrabile). Ma perché Ritschl,delle 7 commedie citate da Accio, pensa che Varrone ne ritenesse autentiche solo 3?Dei Commorientes Varrone, secondo Ritschl, non poteva dubitare, poiché Teren-zio (Ad. 7) li riteneva autentici, mentre per Condalium garantisce la citazione in D. l. L. 7. 77; per Gemini lenones garantisce addirittura la combinazione di duetestimonianze di Verrio Flacco e Prisciano! Le altre commedie citate da Accio nonvengono invece inserite nella lista dal Ritschl, poiché per esse mancherebbero indiziche Varrone le riteneva autentiche. A questo punto dell’indagine, il Ritschl (1845,147–148) riconosce che determinare i titoli delle 7 commedie, che ancora mancano perarrivare al numero di 40, è davvero arduo. Lo studioso tedesco ricorre qui a VerrioFlacco, il quale, egli è convinto, ha usato Varrone e ne ha seguito l’autorità (cosa in-dimostrabile). Con tale criterio vengono incluse Faeneratrix, Frivolaria e Sitellitergus,citate sia da Varrone che da Verrio. Le restanti 4 commedie (Fugitivi, Cacistio, Hor-tulus, Artemo) necessarie per raggiungere quota 40 vengono di nuovo prese da D. l. L.

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34 Quasi sicuramente Varrone ha tratto citazioni da un’opera di Servio Clodio, ove era citato AurelioOpillo, come ipotizzò l’ Usener (1868) 681–682 e come conferma il Deufert (2002, 111–115).

35 Il Leo (21912, 58, nota 1) pare invece credere che una citazione in D. l. L. garantisca che Varrone rite-nesse una commedia plautina e anche il Deufert pare della stessa opinione (2002, 139). Tuttavia, essi nonportano nessun argomento a favore della loro tesi e quanto abbiamo detto mi pare sia sufficiente a dimostrareil contrario. Nel caso del Deufert, accettare una tale opinione significa anche cadere in contraddizione, poichéegli accetta anche il catalogo delle commedie varroniane fatto dal Ritschl, il quale è partito dall’idea (opposta)per cui una citazione in D. l. L. nulla dice sul pensiero di Varrone circa l’autenticità.

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Chiunque abbia seguito questo mio riassunto delle argomentazioni del Ritschl,non credo che possa trovarle convincenti. Da un lato si vuole determinare un numeropreciso (40), dall’altro, per arrivarvi, si usano arbitri di ogni genere. Io non solo noncredo all’elenco del Ritschl, ma non credo affatto che Varrone abbia davvero fatto unindex delle commedie plautine da lui ritenute autentiche. Tutto il capitolo di Gellio(3. 3), che, lo abbiamo detto più volte, è la nostra fonte principale per la storia del testodi Plauto nell’antichità, non solo nulla dice di tale index, ma contiene indizi che pos-sono essere interpretati in senso contrario all’esistenza di tale index. È davvero sor-prendente, se tale index fosse esistito, che Gellio non lo dica esplicitamente. L’Echt-heitskritik varroniana è al centro dell’interesse di Gellio per tutto il capitolo e Gelliotestimonia esplicitamente l’esistenza di indices di commedie plautine autentiche daparte di altri studiosi, diversi da Varrone; di uno addirittura di tali indices, quello diElio Stilone, ci dice il numero di commedie che conteneva. D’altra parte Gellio mostraassoluto scetticismo e avversione per tali indices e dice che una persona davveroistruita non presterà loro alcuna fiducia (non indicibus ... crediturum). Subito dopoegli cita Varrone e, mentre verso i filologi autori di indices aveva espresso scetticismo esfuducia, verso il Reatino esprime subito simpatia. Io credo che, se Varrone avessecomposto un index, Gellio avrebbe evitato di contrapporlo agli autori di indices36.Esiste anche un altro, forse ancora più forte indizio. Gellio ci testimonia che il nomedi Varronianae veniva dato alle commedie che Varrone aveva osservato essere ritenuteautentiche dagli altri filologi; possibile che, se davvero fosse esistito un index varroni-ano, il nome di Varronianae non andasse alle commedie selezionate da Varronestesso? Anche qui, io credo che Gellio sia fedele testimone del pensiero di Varrone: ilReatino era avverso alla tradizione degli indices e non ne ha fatto uno suo proprio; taleavversione è seguita da Gellio.

L’esegesi del passo di Gellio e l’analisi del catalogo varroniano ipotizzato dalRitschl mi pare inducano a pensare che Varrone ha fatto un solo index di commedieplautine, quello delle 21 credute autentiche dai filologi a lui precedenti. Un index dicommedie da lui stesso ritenute autentiche, Varrone non lo ha mai fatto. Egli credevasia alle diasκeuaí plautine sia all’esistenza di un comico di nome Plautius sia all’esi-stenza di commedie plautine, che circolavano sotto il nome di altri poeti: il materialedoveva apparirgli troppo problematico e confuso per consentire la compilazione di unindex. Un’ altra ragione, che può aver spinto Varrone a non comporre un index, laipotizzaremo tra poco.

Non credo dunque che sia esistito un index varroniano e non credo quindi che latestimonianza di Servio possa riferirvisi. A cosa si riferirà dunque il numero 40, di cuiparla Servio? Prima di tutto, si riferirà a un index o a una edizione? Una risposta uni-voca a tale domanda il solo testo serviano non può darla, poiché dalle parole di Servio

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36 In questo senso cf. già Nadio (2002) 375–384, il quale osserva giustamente che „La méthode de Varron[…] rompt avec une mode, celles des catalogues“. Dove sarebbe dunque la rottura, se Varrone stesso avessefatto un index?

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si dedurrebbe che egli si riferisca piuttosto a un indice (alii dicunt … alii … alii), manel caso del numero di 21 egli si riferisce, secondo ogni verisimiglianza, all’edizioneplautina che circolava al suo tempo, mentre col numero di 100 egli sembra riferirsi alnumero complessivo di fabulae che circolavano, nell’antichità (non più al tempo diServio, cf. infra) sotto il nome di Plauto (quelle che Gellio dice invece 130). Io noncredo sia possibile determinare con certezza quale Sammlung avesse in mente Servioscrivendo 40; tuttavia un’ipotesi, forse più verisimile di quella di Ritschl, si può fare.Generalmente si ritiene che la famosa edizione plautina tardo-repubblicana, fattaverso la fine del II secolo a. C. con criteri alessandrini, contenesse tutto il corpus plau-tino, quindi 100 o più commedie37. In realtà, di questa antichissima edizione è certa,dopo le brillanti dimostrazioni di Leo e Questa, l’esistenza, mentre ne è del tuttosconosciuto l’Umfang. Nessun autore antico dice nulla in proposito. Fra gli autoriantichi a noi pervenuti, gli unici che la hanno usata in abbondanza sono Varrone eVerrio Flacco38. Ora, se noi consideriamo le commedie citate da Varrone e da VerrioFlacco, osserviamo subito alcune coincidenze. Fra le 21 Varronianae, sia Varrone siaFesto non citano Captivi; dubbia è la situazione di Vidularia, non citata da Varrone,ma forse citata da Verrio39; le restanti Varronianae sono presenti (e abbondantemente)sia in Varrone che in Verrio. Delle non Varronianae Varrone cita, come già ho detto,13 titoli, mentre Festo ne cita 15. Vediamo i due elenchi (che traggo da Deufert, 2002,139; 160–161). Elenco varroniano: Astraba, Boeotia, Cesistio, Colax, Condalium, Cor-nicula, Faeneratrix, Frivolaria, Fugitivi, Nervolaria, Pago, Parasitus piger, Sitellitergus.Elenco verriano: Agroecus, Artemo, Astraba, Carbonaria, Cornicula, Cosin[…]40,Dyscolus, Faeneratrix, Frivolaria, Gemini lenones, Hortulus, Nervolaria, Parasituspiger, Saturio, Sitellitergus. Come si vede, oltre la metà dei titoli è comune (Astraba,Cornicula, Faeneratrix, Frivolaria, Nervolaria, Parasitus piger, Sitellitergus). Suppo-niamo, come credono tutti gli studiosi sulle orme del Leo (cf. da ultimo Deufert), chefino all’età di Verrio Flacco e oltre esistesse un’unica edizione di Plauto, quella dellafine del II secolo a. C. comprendente l’intero corpus (quindi circa 130 fabulae). Nel D. l. L. ho contato oltre 60 citazioni plautine, in Verrio circa 150. A me sembra dav-vero strano che, attingendo da un numero così alto di commedie, Varrone e Verrio (o le loro fonti41) abbiano, casualmente, scelto quasi sempre le stesse commedie. Sup-poniamo anche che la scelta delle Varronianae non fosse casuale, ma frutto della scelta

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37 È questa l’ipotesi che tutti accolgono, cf. Deufert (2002) 54.38 Sulle citazioni di Pseudolus in Verrio, cf. Jocelyn (1991) 569–580.39 Nel Festo da noi posseduto tale commedia non è mai citata, ma cf. Bischoff (1932) 114–117 e Aragosti

(2006) 253–288. In realtà, anche sui Captivi qualche dubbio, nel caso di Festo, può forse essere sollevato (cf. p. 571 L.); ma è probabilmente un dubbio infondato.

40 Per questo titolo cf. Aragosti (2009) 141–142.41 È ben noto che Varrone e Verrio hanno usato anche materiale di filologi a loro precedenti, anche nel caso

delle citazioni plautine: per Varrone cf. la nota 34, per Verrio cf. Jocelyn (1991) 579–580.

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consapevole di Varrone, scelta poi seguita da Verrio Flacco42. Se anche così fosse (manon lo credo), resterebbe che, delle rimanenti commedie, Varrone e Verrio ne citano(sommati insieme) appena una ventina e, anche qui, scegliendo, per metà, le stessecommedie. Tutto questo non è di per sé impossibile, ma mi sembra davvero improba-bile. È ben più semplice supporre che (le fonti di) Varrone e Verrio usassero la stessaedizione, la quale conteneva un numero di commedie ben inferiore a 130. Quantecommedie conteneva questa edizione? Se facciamo la somma dei titoli di Varrone e diVerrio, otteniamo la cifra di 41 (oltre alle 20 Varronianae43, Astraba, Boeotia, Cesistio,Colax, Condalium, Cornicula, Faeneratrix, Frivolaria, Fugitivi, Nervolaria, Pago, Para-situs piger, Sitellitergus, Agroecus, Artemo, Carbonaria, Cosin[…], Dyscolus, Geminilenones, Hortulus, Saturio). Se riconsideriamo ora il passo di Servio, forse siamo ingrado di intendere a quale Sammlung egli faceva riferimento col numero di 4044: Servio faceva riferimento all’antichissima edizione di età tardo-repubblicana, la qualeera stata per tanto tempo l’edizione comune in cui si leggeva Plauto.

Questa ipotesi mi pare più economica di quella di Ritschl, sia perché essa fa riferi-mento a un’edizione, la cui esistenza è stata dimostrata per altra via (mentre l’esistenzadell’index varroniano è stata dedotta proprio dal passo di Servio e non pare accordarsicon gli altri dati della tradizione) e la cui influenza sulla filologia romana è tangibile,sia perché propone una soluzione abbastanza semplice del problema numerico (men-tre il Ritschl, per raggiungere il numero di 40, era costretto ad arbitri d’ogni genere).Naturalmente, il numero di 40 non deve essere inteso in maniera assoluta: anche l’altraindicazione numerica fornita da Servio (100) è stata giustamente ritenuta approssima-tiva. Può darsi che il numero di commedie contenute nell’edizione tardo-repubbli-cana fosse leggermente diverso.

Dicevo prima, che forse si può fare un’ulteriore ipotesi sulle ragioni che hanno dis-suaso Varrone dal fare un index: se Varrone sapeva (come si deduce da Gellio) chel’Umfang originario del corpus plautino era di 130 fabulae, mentre la sua edizione neconteneva 40 (e le altre non erano probabilmente facili da trovare, certo egli non leutilizzò nel D. l. L.), credette forse imprudente fare un index basato su un materialecosì ristretto. Egli era convinto che tutte le commedie del corpus a lui disponibilefossero o di Plauto o da Plauto retractatae et expolitae; ma, probabilmente, un buonnumero delle 130 fabulae del corpus originario, Varrone non le lesse mai.

Se è così, si può ragionevolmente supporre che la famosa edizione plautina tardo-repubblicana comprendesse 40 commedie. Fino a quando continuò a essere utilizzata

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

42 In realtà, in conseguenza di quanto ho detto prima, non credo che Varrone citasse commedie da luisottoposte alla propria Echtheitskritik, né vi è alcune prova o indizio che Verrio dovesse seguire le opinioni diVarrone su questo argomento.

43 Tutte, cioè, tranne i Captivi.44 La cifra da me calcolata eccede di uno quella di Servio. Questo può essere dovuto al caso, ovvero a im-

precisione del grammatico antico. Anche la cifra di 100, si è sospettato che sia un’approssimazione per 130(Ritschl, 1845, 126; Aragosti, 2009, 7 nota 2). Inoltre, io ho dato per scontato che Vidularia fosse presente inVerrio; la cosa non è tuttavia del tutto sicura e, se togliamo dal computo Vidularia, la somma dà proprio 40.

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questa edizione? Leo e Deufert, sebbene siano d’accordo a negare che sia stato Var-rone a fare una nuova edizione di Plauto45, hanno dato una risposta diversa a questadomanda. Per Leo fu l’edizione di Valerio Probo di Berito46, che sostituì l’edizionerepubblicana (quindi verso la fine del I sec. d. C.), mentre il Deufert (2002, 200–216), il quale non è disposto a concedere a Probo un ruolo così importante, suppone che lanuova edizione, comprendente solo le Varronianae, sia nata in età adrianèo-antonina.Anche per questa fase della tradizione plautina i dati sono estremamente scarsi e pocopuò essere affermato con certezza47. I dati da cui partire sono i seguenti. Per tutta l’epoca successiva a Verrio Flacco, fino all’epoca antonina, nessuno scrittore mostrainteresse per Plauto. Questo fa sì che la tradizione indiretta, spesso unico strumentoper sapere qualcosa circa la Textgeschichte nell’antichità, sia pressoché muta. Il quadrocambia in età antonina, allorché Gellio e Frontone citano più volte Plauto e mostranodi averlo letto e apprezzato. Ciò che più ha colpito gli studiosi, è che Gellio e Fron-tone (soprattutto quest’ultimo) mostrano di conoscere di prima mano quasi esclusiva-mente le Varronianae. Questo dato è indubbiamente vero, e ha ragione Deufert a spiegarlo con l’esistenza di una nuova edizione di Plauto, la quale comprendeva solole 21 Varronianae; le ragione culturali di tale nuova edizione sono, evidentemente, daricollegare al rinnovato interesse per la letteratura arcaica che caratterizza il II secolod.C. Tutto questo è pressoché sicuro; ma il ruolo di Valerio Probo resta poco chiaro.È infatti ben noto che egli fu uno dei promotori del movimento arcaista a Roma ed è altresì ben noto che egli fu ‘editore’ di molti testi latini. Sembrerebbe dunque naturale collegare i due fatti e ipotizzare che Probo, grammatico ed editore, iniziandoil movimento arcaista a Roma, abbia voluto dare il proprio contributo anche pre-parando una nuova edizione di Plauto. Il Leo ebbe sempre una grande simpatia perProbo, e l’autorevolezza di questo studioso ha contribuito ad aumentare la fama e il

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45 Si è soliti escludere che Varrone abbia fatto un’edizione di Plauto in base a D. l. L. 9. 106, ove Varronescrive, quod Plauti aut librarii mendum est: difficile che si esprimesse così chi aveva fatto un’edizione di Plauto(cf. Leo 21912, 36).

46 Su di lui cf. soprattutto Aistermann (1910).47 Una trattazione a parte meriterebbe la conoscenza delle commedie non Varronianae presso i grammatici

di età imperiale. Il più ricco di citazione è, ovviamente, Nonio Marcello, il quale pare usasse tre fonti, di cuidue comprendenti solo Varronianae; la terza fonte pare fosse il famoso Gloss I (cf. Lindsay, 1901). Daquest’ultimo egli trae 11 titoli di non Varronianae. Rispetto ai titoli citati da Varrone e Verrio, 7 sono comuni,4 no (Acharistio, Parasitus medicus, Plocinus, Schematicus). Diomede (I, 383. 15 K.; ib. 401. 5 K.) cita solo Cor-nicula e Faeneratrix (entrambe presenti nell’elenco varroniano-festiano), mentre Prisciano cita 2 commediecomuni all’elenco varroniano-festiano (Carbonaria e Gemini Lenones) e 3 non comuni (Commorientes,Lipargus, Parasitus Medicus). Tutto questo materiale arrivò a questi grammatici per via indiretta, non certograzie alla loro lettura di non Varronianae (fra l’altro il numero di citazioni è sempre ridottissimo). Un caso asé (unico) è il Caecus vel Praedones: si tratta di una commedia citata solo da Giulio Romano-Carisio e citataaddiruttura 10 volte: è evidente che Giulio Romano, ovvero la sua fonte, ha avuto a disposizione un’edizionedi questa commedia, la quale è ignota a tutto il resto della tradizione (cf. Deufert, 2002, 240–241; Aragosti,2009, 60–62). In generale, anche nei grammatici imperiali, si osserva una prevalenza delle commedie presentiin Varrone e Verrio.

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prestigio del filologo di Berito, soprattutto nella prima metà del secolo XX. Suc-cessivamente, gli studiosi si sono mostrati più prudenti nell’attribuire a Probo unruolo decisivo nella Textüberlieferung degli scrittori latini. Mentre in passato sonostate attribuite a Probo edizioni di Plauto, Terenzio, Sallustio, Lucrezio, Virgilio,Orazio e sinanco Persio48, negli ultimi decenni non c’è nessuna di queste edizioni chenon sia stata messa in dubbio. Io ho cercato recentemente di dimostrare che Probofece un’edizione di Virglio e che essa è all’origine della nostra tradizione manoscritta;ho anche cercato di dimostrare che il filologo di Berito esercitò su Virgilio una in-fluente Echtheitskritik, alla quale forse si deve la scomparsa del Culex dal corpus delleopere normalmente attribuite a Virgilio49. Io credo dunque che l’attività filologica diProbo sia stata importante e di vaste dimensioni. Eppure, nel caso di Plauto, credoanch’io che si debba escludere che Probo ne abbia fatto un’edizione50. Anche il Deu-fert (2002, 183–192) è giunto a questa conclusione, ma, per intendere gli argomenti delDeufert, che io in parte condivido, in parte no, bisogna avere presente la ricostruzionedel Leo, la quale ha influenzato molto gli studi, soprattutto, come dicevo, nella primametà del XX secolo. Le nostre fonti sull’attività filologica di Valerio Probo sonoessenzialmente due, la biografia che a questo grammaticus dedica Svetonio nel De grammaticis et rhetoribus (24) e l’Anecdoton Parisinum51. La ricostruzione del Leosi basava essenzialmente sul testo di Svetonio, di cui trascrivo l’essenziale (ed. Bru-gnoli): M. Valerius Probus Berytius […] legerat in provincia quosdam veteres libellosapud grammatistam, durante adhuc ibi antiquorum memoria necdum omnino abolitasicut Romae. hos cum diligentius repetere atque alios deinceps cognoscere cuperet,quamvis omnes contemni magisque obprobio legentibus quam gloriae et fructui esseanimadverteret, nihilo minus in proposito mansit multaque exemplaria contractaemendare ac distinguere et adnotare curavit, soli huic nec ulli praetera grammaticaeparti deditus […]. Nimis pauca et exigua de quibusdam minutis quaestionibus edidit.Reliquit autem non mediocrem silvam observationum sermonis antiqui. Non sonopurtroppo note con certezza le date della vita di Probo. Tutto comunqe lascia sup-porre che egli sia vissuto fra la prma metà del I sec. d.C. e la fine di quel secolo o l’ini-

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48 Cf. Hanslik (1955) 195–212. Contro l’attribuzione a Probo della Vita Persi, cf., da ultimo, Lucarini(2011) 225 (essa è opera di Svetonio, cf. Schmidt 1997, 36–37). Emblematico è, a questo proposito, come Pas-quali, che nel 1934, pubblicando la prima edizione di ‘Storia della tradizione e critica del testo’, aveva concessoampio spazio all’influenza di Probo, successivamente, nel 1947, si mostrasse molto più scettico sull’argomento(cf. la Premessa di Pieraccioni all’edizione di Storia della tradizione e critica del testo pubblicata a Firenze nel1988, I nota 1).

49 Cf. Lucarini (2006) 293–305.50 In realtà, come ha osservato giustamente Reeve (1983, 412 nota 7), a proposito dell’edizione probiana di

Terenzio (ma le parole che trascrivo valgono anche per Plauto): „Whether his work counts as an edition ispurely a matter of terms; the real questions are how and in what form it became public, and how much itaffected later copies“.

51 Questo testo, trasmessoci dal Parisinus Latinus 7530, scritto tra il 779 e il 797 (cf. Bibliografia, 2004,182–183), fu pubblicato per la prima volta da Th. Bergk; lo si legge in Keil GL 7, 533–536 e alle pp. 54–56 dellaraccolta di Funaioli.

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zio del seguente. Combinando questi dati, il Leo suppose, anche in considerazione deldisinteresse verso la letteratura arcaica che caratterizzò il I sec. d. C. e dei due incendiche devastarono Roma in quel periodo52, che, quando Probo giunse da Berito a Roma,qui non vi fossero più esemplari di Plauto e che per questo egli cercò di raccogliere(contracta) degli esemplari su cui preparare le sue edizioni. In realtà, tale interpreta-zione contiene una forzatura, poiché la frase durante adhuc ibi antiquorum memorianecdum omnino abolita sicut Romae non significa che a Berito vi fossero esemplaridegli arcaici, mentre a Roma non ce ne erano più, bensì che a Berito si continuava ainsegnare, nelle scuole dei grammatici, la letteratura arcaica, mentre a Roma non la siinsegnava più53. Tutto il capitolo svetoniano (e in generale il De grammaticis et rhe-toribus) è concentrato sull’aspetto didattico dell’attività dei vari grammatici e rhetorese le considerazioni di Svetonio (cf. quamvis omnes contemni magisque obprobiolegentibus quam gloriae et fructui esse animadverteret) vanno tutte lette in questachiave; a Svetonio non interessava quali autori fossero reperibili nelle biblioteche, masolo quali autori dovessero leggere i giovani alle scuole dei grammatici, perché ungiorno potessero divenire buoni rhetores54. Come osserva il Deufert (2002, 185):„Doch darf man den gewiss übertreibenden, um seines abfälligen Tones willengewählten Ausdruck „memoria … abolita“ nicht als eine generelle Aussage über denErhaltungszustand der archaischen Literatur in Rom und den Provinzen werten, son-dern muss ihn auf den Vordersatz „legerat in provincia quosdam veteres libellos apudgrammatistam“ beziehen, den er begründet: Sueton muss seinem Leser die erstaun-liche Tatsache erklären, dass Probus als „Grundschüler“ in den vierziger Jahren inseiner Heimat anhand der alten Autoren Lesen und Schreiben lernte“. Questo è senzadubbio vero. Tuttavia, se questo è sufficiente a escludere la tesi del Leo, secondo laquale Probo non avrebbe più trovato a Roma esemplari di Plauto, non è invece suffi-ciente a escludere che Probo abbia curato un’edizione di Plauto; poteva benissimocurarla, anche se manoscritti di Plauto si trovavano comunemente nelle biblioteche diRoma! Non dimostra dunque nulla l’affermazione del Deufert (2002, 189): „Die Not-wendigkeit, für einen der frühlateinischen Autoren eine Gesamtausgabe anzufertigen,bestand nicht, da sie in den Bibliotheken, denen Probus sein Material verdankte, vor-handen waren“. L’altro argomento addotto dal Deufert contro l’edizione probiana miconvince ancora meno. Lo studioso tedesco crede infatti „dass sich die Schüler Ab-schriften der von Probus erstellten Textausgaben besorgten, ist denkbar, auf einesystematisch betriebene Publikation haben wir hingegen nicht den geringsten Hin-weis“. Questa affermazione, che riguarda l’attività di Probo nel suo complesso, non

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52 Quello del tempo di Nerone e quello del tempo di Tito (cf. Leo, 21912 28 nota 3).53 Questa è l’esegesi oggi generalmente accolta ed essa è senz’altro giusta (cf. Deufert, 2002, 185; Kaster,

1995, ad loc.).54 Cf. Lucarini (2006) 293–295; l’esegesi che qui propongo del passo svetoniano era già chiara all’Aister-

mann, ed era già implicita in alcune affermazioni del Vahlen (1907, 46–47). Kaster e altri studiosi recenti hannoinvece frainteso il significato generale del capitolo svetoniano.

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credo sia vera. Altrove (2006, 293–305) ho cercato di dimostrare che la nostra tradi-zione virgiliana risale in ultima analisi a Probo e dunque „eine systematisch betriebenePublikation“ da parte di Probo, o dei suoi scolari, io credo sia esistita. Nella stessasede ho anche cercato di dimostrare che l’Anecdoton Parisinum non è opera di Sveto-nio55. Questo punto è di capitale importanza, poiché, come già accennavo, l’Anecdo-ton è l’altra fonte antica, accanto a Svetonio, che più ci insegna su Probo. Chi nega chel’autore dell’Anecdoton sia Svetonio, si basa su un argomento, che io credo esserefondamentale nella nostra discussione. Infatti, mentre dal passo svetoniano si deduceche l’attività ecdotica di Probo riguardò i veteres, l’Anecdoton Parisinum dice chel’attività ecdotica di Probo riguardò Lucrezio, Virgilio, Orazio e pare escludere cheessa abbia riguardato i veteres56. Dunque il quadro dell’attività di Probo offertodall’Anecdoton diverge su questo punto da quello di Svetonio ed è in errore il Deuferta dire: „die Angaben des „Anecdoton“ und der Vita (scil.: Svetoni), die vermutlichbeide auf Sueton zurückgehen, ergänzen sich somit, ohne dass ein Widerspruch be-stehen bleibt“. No, la contraddizione c’è. Io ho cercato di dimostrare (2006, 301–302)che l’Anecdoton è stato scritto da una persona a Probo vicina, la quale ne conoscevabene (meglio di Svetonio!) l’attività filologia e la apprezzava molto. Se questo è vero, ènaturale attendersi che l’Anecdoton offra notizie più veritiere che Svetonio. L’Anecdo-ton ci insegna che Probo fece edizioni di Lucrezio, Virgilio, Orazio. La tradizione diVirgilio pare confermare che Probo ha fatto un’importante edizione di questo scrit-tore; per Orazio e Lucrezio, purtroppo, non sono possibili verifiche, data la scarsitàdella tradizione indiretta. Ma Plauto? Ne ha fatto Probo un’edizione? Leo lo hasupposto e gli argomenti addotti da Deufert per dimostrare che tale edizione non èesistita non sono parsi convincenti. Eppure io credo che, anche in questo caso, la testi-monianza dell’Anecdoton sia fededegna e che quindi Probo non abbia fatto un’edi-zione di Plauto57. Purtroppo, mentre nel caso di Virgilio c’è una copiosa tradizioneindiretta, la quale dimostra che, proprio nel periodo in cui Probo insegnò a Roma, iltesto di Virgilio fu sottoposto a una profonda (e benefica) revisione, nel caso di Plautonon abbiamo tale tradizione indiretta. Dopo Verrio Flacco, nessun autore cita ampi

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

55 Non sono del resto il primo a sostenere questa tesi, cf. Brugnoli (1955) 14–16; D’Anna (1989) 155–161.Ritiene invece che l’Anecdoton sia un frammento svetoniano Schmidt (1997) 39–40 (con la letteratura prece-dente). Schmidt (1997, 16–20) discute anche il fondamentale problema di cosa fosse l’opera svetoniana intito-lata Pratum.

56 Anecd. Par., 534, 4–6: His solis adnotationibus Ennii Lucilii et historicorum usi sunt varrus hennius hae-lius aequae † et postremo Probus, qui illas [in : del. Deufert] Virgilio et Horatio et Lucretio apposuit, ut HomeroAristarchus. Chi ha scritto queste parole, non credeva che Probo avesse dedicato la propria attività ecdoticaagli arcaici (cf. la nota successiva). Si è dubitato di historicorum: L. Müller propose scaenicorum, congetturabrillante e che confermerebbe ulteriormente le ricostruzioni del Leo sull’edizione plautina di età tardo-repubblicana. Tuttavia, io credo che il testo del Parisinus vada difeso, anche perché da Frontone (15, ll. 11–17van den Hout) mi pare si deduca che la filologia repubblicana si esercitò anche su testi in prosa.

57 L’Anecdoton non dice esplicitamente che Probo non ha fatto un’edizione di Plauto; lo lascia però sup-porre, dal momento che contrappone l’attività dei filologi di età repubblicana (che riguardò gli arcaici) a quelladi Probo (che riguardò i poeti del I sec. a. C. e di età augustea).

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passi di Plauto fino all’età antonina. Non sono dunque possibili verifiche sulla qualitàdel testo plautino prima di Probo e dopo Probo, come invece è possibile nel caso deltesto virgiliano.

È invece, secondo me, possibile fare osservazioni circa l’Umfang delle edizioniplautine che circolavano prima e dopo Probo. È opinione generalmente accolta che,fino all’edizione di età antonina (Deufert) o probiana (Leo), l’edizione che comune-mente circolava fosse quella tardo-repubblicana. Precedentemente, ho cercato di dimostrare che tale edizione doveva in realtà contenere circa 40 commedie, non 100 o 130. Tuttavia, che questa fosse l’edizione comunemente in uso fra il I sec. a.C. e il I sec. d. C., a me pare lecito dubitare. Essa era usata da studiosi quali Varrone, Verrio e le loro fonti, ma i lettori comuni usavano, credo, edizioni più ristrette e selettive. Se noi osserviamo le citazioni plautine dall’età tardo-repubblicana all’età di Probo,emergono alcuni dati interessanti. Iniziamo dai testi più antichi, la Rhetorica ad C.Herennium (scritta, a quanto pare, negli anni 86–83 a. C.) e il De inventione ciceroni-ano (scritto verso l’80 a. C.). Come è noto, questi due testi dipendono in gran parte dauna fonte greca comune, probabilmente Ermagora di Temno; oltre però a tale fontecomune, i due scritti sembrano aver condiviso anche un’altra fonte comune, la qualeconteneva un certo numero di citazioni da poeti latini. L’unica citazione plautina che idue testi presentino è da Trinummus, 23–26; non è chiaro se essa risalga alla fontecomune, da cui entrambi i testi attingono le citazioni di poeti latini, ovvero la cita-zione in De inv. sia stata interpolata da qualcuno che leggeva Rhet. ad Her.58, né, ainostri fini, la cosa è importante. In tutto il corpus ciceroniano, si incontrano quattrocitazioni da Plauto (Deufert 2002, 155–158). La citazione da Aul. 78 (in De div. 1. 65)è probabile risalga a fonte grammaticale, mentre le citazioni da Trin. 319 (in Ep. adBrutum 8. 2), da Trin. 419 (in In Pisonem 61) e da Trin. 705 (in De oratore 2. 39) deri-vano senza dubbio da lettura diretta. Nel De senectute (14. 50) leggiamo: Quam gau-debat „Bello“ suo „Punico“ Naevius! quam „Truculento“ Plautus, quam „Psaeudo-lo“! Come si vede, le Varronianae godevano già di una posizione particolare.

Anche per quel che riguarda le Wiederaufführungen di questo periodo, le unichedelle quali abbiamo notizia riguardano lo Pseudolus e il Trinummus59.

Dopo Cicerone, per trovare un’altra testimonianza sulla lettura di Plauto, se siesclude Verrio Flacco, bisogna arrivare fino ad Anneo Cornuto, il maestro di Persio edi Lucano60. Da un passo dell’Ars grammatica di Carisio (261, 17–26 B.), si deduce cheAnneo Cornuto leggeva, assieme al figlio Tito, il verso 499 di Pseudolus e cercava dispiegarlo con confronti da altri poeti arcaici.

Cornuto è, a quanto pare, l’unico autore che, fra il tempo di Cicerone e quello diProbo testimonia una lettura diretta di Plauto (con l’eccezione di Verrio Flacco e,

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58 È quest’ultima un’ipotesi del Deufert (2002, 151–154).59 Cf. Questa – Raffaelli (1990) 162–174.60 Ben noto è il disinteresse per la letteratura repubblicana nella prima età imperiale; cf. Jocelyn (1988)

57–60.

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forse, di Plinio il Vecchio61). Per quel che concerne Probo, in quello che è ancora oggilo studio più approfondito e acuto su questo filologo, lo Aistermann (1910, LXIX)elenca fra i passi degli Scriptores qui in reliquiis Probi afferuntur, 15 luoghi plautini, dicui due soltanto derivano da commedie non Varronianae e il Pasquali ne deduceassennatamente (21952, 348) che „questa predominanza non può esser capriccio dellatradizione“.

Da questa rassegna sui lettori di Plauto, dalla Rhet. ad Her. a Probo, ho fin qui es-cluso Varrone e Verrio Flacco, sia perché essi citano molto materiale di seconda mano,sia perché le loro opere hanno finalità erudite e antiquarie, che gli altri scrittori citati (a parte Plinio) non hanno. Tuttavia, Varrone può forse fornire qualche indizio anchesu materiali esegetici plautini destinati a un pubblico più vasto che quello degli eruditi. R. Schröter ha cercato di dimostrare62 che Varrone (D. l. L. 7. 81), citando Pseud. 955,si è servito, per l’esegesi, di un commento, nel quale venivano spiegati i movimentiscenici. In realtà, Schröter ha supposto l’uso di un commento del genere anche peraltri passi plautini citati da Varrone63, ma, come osserva Deufert (2002, 115–117), l’unico caso davvero persuasivo è quello di Pseudolus 955. È probabile che un com-mento di questo genere non fosse destinato agli eruditi, ma a un pubblico più vasto.

Tutti questi dati a me sembra che inducano a pensare che, ben prima della pubblica-zione della „varronische Auswahlausgabe“ di età adrianèo-antonina, le 21 commedieVarronianae circolassero ben più diffusamente delle altre. Questo non significa di persé che sia stata fatta un’altra edizione, contenente le sole 21 Varronianae. Più proba-bilmente, le altre commedie hanno cessato di circolare, mentre le 21 Varronianae,anche nei periodi in cui Plauto meno era letto e apprezzato (come appunto al tempo diAnneo Cornuto), continuavano a essere lette, per lo meno da qualcuno. Sui cataloghiprevarroniani citati da Gellio sappiamo, purtroppo, solo ciò che ci dice Gellio; l’unicodi cui sappiamo con esattezza il numero di commedie che accettava come plautine èquello di Elio Stilone, che ne accoglieva 25. Ovviamente, fra queste 25 erano con-tenute anche le 21 Varronianae. Elio Stilone fu filologo e studioso di altissima fama; la sua autorità, unita a quella del catalogo varroniano (quello delle 21, non quello delle40, che non è mai esistito!), avrà contribuito a che nelle generazioni successive si leg-gessero solo quelle 20–25 commedie, le quali uniche sono scampate al naufragio. Dun-

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

61 Non rimpiangeremo mai abbastanza la perdita dell’opera De dubio sermone di Plinio il Vecchio; tutta-via, negli indici di Della Casa (1969, 341–343), Plauto non compare mai e Jocelyn (1987, 63–64) crede chePlinio abbia completamente ignorato Plauto. Qualche traccia di commedie non Varronianae si trova nellaNaturalis historia, ma sembra derivare da fonte anteriore, non da lettura diretta (cf. Jocelyn 1987). È sconcer-tante quanto dice lo stesso Plinio in Naturalis historia 18. 107: è evidente che chi ha scritto queste cose nonaveva idea cosa fosse l’ Aulularia, sia perché qui artopta non ha il significato di pistor, sia perché, trattandosi diuna palliata, è ovvio che il poeta faceva riferimento a cosa avvenute ad Atene, non a Roma (cf. Deufert 2002,97–100). Siamo davanti, evidentemente, a eruditi che leggevano solo la glossa artopta e ragionavano e scrive-vano basandosi solo su quella, senza leggere il testo. In questo caso, si può dire che chi ha fatto queste osser-vazioni non solo non conosceva il contesto di Aul. 400, ma non conosceva la Palliata in generale.

62 Schröter (1959) 845–846.63 Sulla stessa linea anche Aragosti (2009) 21–26.

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que un lettore colto dell’età tardo repubblicana e imperiale, il quale non avesse fortiinteressi antiquari e grammaticali e non fosse disposto a faticare per reperire testi rari(intendo quindi anche scrittori quali Orazio), aveva probabilmente una conoscenzadel teatro plautino quale la abbiamo noi. Le non Varronianae, già al tempo di Cice-rone, erano probabilmente una rarità.

Torniamo ora alla domanda da cui siamo partiti: quale influenza ha esercitatoProbo sulla tradizione plautina? Prima di Probo, Plauto (come tutti i veteres) venivaletto poco e le uniche commedie che venivano lette erano le 21 Varronianae. DopoProbo, Plauto veniva letto molto e le uniche commedie che venivano lette eranoancora le 21 Varronianae (come dimostrano i casi di Frontone e Gellio). CredevaProbo che le uniche commedie autentiche fossero le 21 Varronianae? Probabilmenteno. Probo cita infatti (fr. 56 Aistermann = Gellius 4. 7) come plautino un termine, chenel nostro corpus non è attestato; certo, in questo caso non possiamo esprimerci concertezza, dal momento che il termine avrebbe potuto essere adoperato nella Vidularia,della quale noi abbiamo solo pochi frammenti. D’altra parte, Gellio e Favorino, comeabbiamo veduto, erano convinti che esistessero molte commedie plautine non com-prese fra le 21 Varronianae. Inoltre, Gellio e Favorino ritenevano Probo una sommaautorità nel campo della grammatica e della conoscenza della letteratura latina arcaica(cf. Gellius, 3. 1. 6; 15. 30. 5), sicché par difficile che essi si allontanassero completa-mente da lui su una questione così importante. Tutti questi dati, nel loro insieme, mi pare dimostrino poco probabile che Probo abbia curato un’edizione delle 21 Var-ronianae. D’altra parte, l’edizione che ha trionfato è proprio quella delle 21 Varro-nianae. Inoltre, io ho cercato di dimostrare (2006, 304–305) che, nel caso di Virgilio,Probo esercitò anche un’influente Echtheitskritik; possibile che, se davvero egli hacurato un’edizione di Plauto, abbia seguito pedissequamente una lista compilata daVarrone, peraltro non di commedie che Varrone stesso riteneva plautine, ma che altriavevano credute tali?

Tutto questo mi pare induca a pensare che Probo non ha curato nessuna edizioneplautina; o, a voler formulare la risposta nei termini, storicamente più corretti, che haproposto il Reeve (cf. la nota 50), che tale edizione, se anche è esistita, non si è diffusao non ha avuto influenza sulla tradizione successiva.

Quello che mi pare sia comune, per quel che concerne l’attività di Probo, ai casi diPlauto e di Virgilio, è il valore dell’Anecdoton Parisinum: in entrambi i casi, le notizieche l’Anecdoton ci fornisce risultano veritiere. Senza dubbio, dunque, l’autore dell’Anecdoton aveva ottime informazioni sull’attività filologica di Probo, assai migliori di quelle di cui disponeva Svetonio.

* * * * *

A questo punto, credo possiamo affrontare di nuovo un problema del quale si èmolto discusso anche in anni recenti, ma sul quale forse c’è ancora qualcosa da dire,cioè l’identità del commentatore di Plauto di nome Sisenna. Come è noto, il gramma-tico Rufino di Antiochia, vissuto nei secoli IV–VI d. C., nei suoi Commentaria in

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metra Terentiana 64, cita 8 frammenti da un commentarius di Sisenna a Plauto. Altri 4frammenti di tale opera son citati da Carisio, il quale dipende, in tutti e 4 i casi, da Giu-lio Romano65. Né Rufino né Carisio dicono alcunché su questo Sisenna, né alcunaaltra fonte antica ci viene in soccorso. Per molto tempo si pensò che si trattasse delcelebre Sisenna storico di età sillana, il quale, all’attività storiografica e di novelliere66,avrebbe affiancato quella di grammatico e di commentatore di Plauto. Theodor Bergk(1870, 328) mise in dubbio questa identificazione ed essa è stata successivamentenegata dal Leo (21912, 257–258), dal Funaioli (128) dal Peter (21914, CCCXLIX.),dalla Carilli (1979, 38), dal Jocelyn (1987, 58–62), dal Questa (1984, 65–66), dal Deu-fert (2002, 245–250), dal Blänsdorf (2002, 223). Sostennero invece l’identità di Sisennastorico e Sisenna grammatico il Ritschl (1845, 376–378), il Peter (1883, CCCXXXVI),R. Klotz (1890, 562) e più recentemente, il Perutelli (2004, 55–62) e l’Aragosti (2009,26–36)67. I passi che gli studiosi hanno ritenuto decisivi, nell’un senso o nell’altro,sono due, uno di Rufino (15, 2–5 D’A.), l’altro di Carisio (285, 24–26 B.). Partiamo dalprimo, che è parso decisivo al Deufert e che potrebbe porre il terminus post quem perSisenna grammatico all’età adrianèa. Rufino, dopo aver citato un frammento delcommento di Sisenna allo Pseudolus, dice: Scaurus in eadem fabula sic […]. Sisenna inRudente sic... Dunque, una citazione di uno Scaurus si trova tra due citazioni diSisenna, le quali sono disposte secondo l’ordine che dovevano avere nell’opera diSisenna stesso68: da questo si è voluto dedurre che la citazione di Scaurus fosse già pre-sente nell’opera di Sisenna e che da lì Rufino la abbia tratta (Carili, Jocelyn, Deufert).Poiché Scaurus è senza dubbio Terenzio Scauro, il grammatico d’età adrianèa69, eccoche Sisenna grammatico non può esser vissuto prima di tale data. Io ritengo questofatto probabile e tuttavia indimostrabile70. È vero che Rufino non cita altrove Scauro,ma è anche vero che i due trattati di Rufino sono brevissimi (riempiono in tuttoappena una trentina di pagine delle moderne edizioni) e non è lecito trarre conclusionitroppo perentorie su fonti e metodi di citazione. Ancor più incerto mi pare il passo di Carisio (285, 24–26 B.): „Tractim“ Plautus in Amphitryone (313); ubi Sisenna „prolente“ inquit. „Non, ut Maro Georgicon IIII ‘tractimque susurrant’“ inquit. Hoscritto secondo la punteggiatura del Barwick ed è subito evidente che, se tale punteg-giatura fosse corretta, Sisenna storico e Sisenna grammatico sarebbero due persone

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

64 Di questa operetta abbiamo un’ottima e recentissima edizione: D’Alessandro (2004).65 Tutta la sezione De adverbio dell’Ars grammatica di Carisio (253–289 B.) dipende senza dubbio da Giu-

lio Romano, cf. nota 75.66 Non credo vi siano dubbi sul fatto che i famosi Milesiarum libri vadano attribuiti all’autore delle Histo-

riae; cf. Aragosti (2000).67 Nulla sul problema in Della Corte (1937).68 Rudens seguiva evidentemente Pseudolus, come nella nostra tradizione.69 Fu un grammatico insigne, coevo di Traiano e Adriano; cf. ora l’importante edizione di Biddau (2008)

XXVII–XXXII.70 Cf. anche D’Alessandro (2004) XXIII nota 26, il quale, prudentemente e correttamente, definisce l’ipo-

tesi che stiamo discutendo „non verificabile“.

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diverse, poiché il secondo citerebbe Virgilio. Tuttavia, la punteggiatura di questopasso è assai problematica ed è possibile che la pericope non, ut … susurrant“ inquitsia un’aggiunta di Carisio, o, come vedremo, della sua fonte. Che invece anche la cita-zione virgiliana sia da attribuire a Sisenna parve sicuro al Peter (nell’edizione del 1914)e, dopo di lui, a molti altri (per gli studiosi che hanno accettato tale esegesi cf. Perutelli2004, 55–56). Recentissimamente, a questa esegesi si è opposto il Perutelli (2004,61–62), seguito dall’Aragosti (2009, 28). Osserva giustamente Perutelli che „il mede-simo Carisio, quando ha introdotto il parere di qualche altro grammatico, può benaggiungere una notazione sua propria“ e, a dimostrazione, cita opportunamenteCharis. 285, 20–21 B.: „Tuatim“ Plautus in Amphitryone (554): ubi Sisenna „ut nostra-tim“. Significat autem tuo more. Non v’è dubbio che significat autem tuo more non siaun’osservazione di Sisenna, ma di Carisio, o della sua fonte immediata. Perutelli pro-pone dunque di attribuire la pericope non, ut Maro … susurrant a Carisio e di espun-gere inquit finale71. Nel complesso, credo che Perutelli (su questo punto) abbia vedutogiusto, quantunque alcune cose vadano precisate.

Che vi siano numerosi passi in cui (la fonte di) Carisio corregge o precisa un’osser-vazione di un grammatico appena citato, mi pare sicuro (e sicuro è parso talvoltaanche al Barwick, come lascia intendere la sua punteggiatura); oltre all’esempio citatodal Perutelli, si vedano72 253, 9–14 B.73; 257, 3–8 B. (caso più incerto); 258, 10–14 B.74;272, 13–16 B. (ove la fonte di Carisio aggiunge una citazione da Virgilio, come nelpasso che stiamo discutendo); 277, 12–17 B. (caso analogo al precedente); 280, 24–26B. Dunque, (la fonte di) Carisio aggiunge anche altrove una citazione (talvolta vir-giliana) a conferma o a rettifica di quanto affermato da un grammatico appena citato.Esiste un altro passo di Carisio, il quale, mi pare, si avvicina ancora di più al nostro(271, 10–20 B.): „Obiter“ divus Hadrianus sermonum libro I quaerit an Latinum sit:„quamquam – inquit – apud Laberium haec vox esse dicatur“, et cum Scaurus Lati-num esse neget, addit quia veteres „eadem“ soliti sint dicere, non addentes „via“, ut sitκatà e ¢lleiyin, ut Plautus (Bacch. 49) inquit: „eadem biberis, eadem dedero tibi, ubibiberis, savium“. Quanquam divus Augustus reprehendens Ti. Claudium ita loquitur:„scribis enim perviam a¬ntì toû obiter“. Sed divus Hadrianus „tametsi – inquit – Augustus non pereruditus homo fuerit, ut id adverbium ex usu potius quam lectioneprotulerit“. La discussione (che deriva, come si dice esplicitamente nelle righe succes-

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71 Tale espunzione pare risalga al Ritschl, ma la questione è complicata, cf. Perutelli (2004) 62 nota 17.72 Cito solo dalla sezione De adverbio, la quale dipende completamente da Giulio Romano e va quindi

considerata come una unità (cf. nota 75).73 „Alias“ pro aliter Terentius in Andria (529): „quid alias malim quam hodie istas fieri nuptias?“ ubi

Fl. Caper de Latinitate: „non ausim adfirmare alias pro aliter dici. nam neque pronomen est neque adverbiumtemporis“. Sed proximum vero est ut pro aliter dictum esse fateamur. È evidente che la pericope Sed proximum… fateamur è un’aggiunta de Carisio (o, meglio, della sua fonte immediata), che corregge Flavio Capro.

74 „Examussim“ Plautus in Amphitryone (843): „examussim est optima“; ubi Sisenna „pro examinato“inquit. Amussis autem est tabula rubricata, quae dimittitur examinandi operis gratia an rectum opus surgat.

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sive, dal Perì a¬formøn di Giulio Romano75) inizia da obiter nel significato di „nellostesso tempo“; l’imperatore Adriano era in dubbio sul fatto che tale avverbio fosse„latino“, mentre Terenzio Scauro lo negava ed affermava che, per esprimere tale con-cetto, gli antichi usavano la forma eadem. A questo punto inizia un’aggiunta di GiulioRomano-Carisio, il quale cita il passo di Bacchides. Che tale citazione non derivi da Scauro, ma sia un’aggiunta di Giulio Romano-Carisio è sicuro: tutto il capitolo De adverbio è pieno di citazioni dalle Bacchides e tutti concedono che esse sianoun’inserzione di Giulio Romano-Carisio. Si osservi la somiglianza col passo chestiamo discutendo: Giulio Romano-Carisio cita un’osservazione di un altro gram-matico, poi la conferma o la modifica con la citazione di un altro passo (non presentenel grammatico appena citato), accompagnata dalla formula ut inquit, il cui soggettonome dell’ autore citato76. Non credo dunque, a differenza di Ritschl e di Perutelli,che inquit di 285, 26 B. vada espunto.

Se quanto abbiamo detto è giusto, l’idea di Perutelli, secondo cui la citazione virgiliana di Charis. 285, 25–26 B. non deriva da Sisenna, risulta confermata. A ulte-riore conferma si osservi che anche altre citazioni dalle Georgiche sono di sicuroun’aggiunta di Giulio Romano-Carisio (cf. 281, 14–17 B.; 283, 22–23 B.). Rispetto allaricostruzione di Perutelli, due sole cose mi pare vadan modificate: inquit non vaespunto; inoltre non c’è ragione di supporre che l’autore dell’inserzione virgiliana siaCarisio stesso; senza dubbio la citazione è stata inserita dalla fonte di Carisio (GiulioRomano), esattamente come quella di Bacchides a 271, 13–16 B.

Dunque, i passi di Rufino e di Carisio, che parevano fornire sicuri termini postquos, i quali avrebbero garantito che l’identificazione di Sisenna commentatore diPlauto con Sisenna storico era impossibile, non sono utilizzabili. Tuttavia, io credoche esistano ragioni validissime, pressoché sicure, per escludere l’identificazione deidue personaggi77.

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

75 Sul Perì a¬formøn di Giulio Romano quale fonte dell’intera sezione De adverbio di Carisio, cf. Tol-kiehn (1917) 788–789; Schmidt (1997) 236–237.

76 Si potrebbe obiettare che nel nostro passo inquit occorre due volte; ma anche in 271, 10–20 B. inquitricorre già alla linea 11 (e poi alle linee 15 e 19). ; cf. inoltre 253, 20 B.; 257, 6 B.; 258, 12 B.; 261, 7 B.; 263, 12 B.;268, 21 B.; 269, 16 B.; 272, 9 B.

77 Il Perutelli (2004, 55–61), a favore dell’identificazione dei due Sisenna, ha citato alcune osservazioni dicarattere linguistico e grammaticale, le quali vanno attribuite senza dubbio a Sisenna storico. Tali osservazioni,secondo il Perutelli, dovevano essere comprese in un’opera grammaticale. Dunque Sisenna storico scrisseanche un’opera grammaticale; se d’altra parte scrisse un’opera grammaticale, osserva Perutelli, è ben probabileche abbia scritto anche un commento a Plauto. Il passo più interessante è Charis. 137, 1–13 B.: „Pater familias“et „mater familias“ antiqui magis usurpaverunt […]. Sed emendatius […] „familiae“ dicimus. Quod ne cele-braretur Sisenna effecit. Ait enim eum qui diceret „pater familiae“ etiam pluraliter dicere debere „patres fami-liarum“ et „matres familiarum“. Quod quoniam erat durum et longe iucundius „patrum familias“ sonabat,etiam „pater familias“ ut diceretur consuetudo comprobavit. Et tamen ratio Sisennae non est valida. DunqueSisenna si era espresso contro pater familiae e aveva cercato di spiegare perché si fosse imposto l’uso di paterfamilias. Questo, almeno, si deduce da Carisio. Varrone (D. l. L. 8. 73) dice: item plures „patres familias“ dicerenon debuerunt, sed ut Sisenna scribit, „patres familiarum“. Da altre testimonianze (Quint. 1. 5.13; Gell. 2. 25. 9;cf. anche Barwick 1922, 261–262) si deduce che Sisenna fosse un analogista di stretta osservanza e questo

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Una delle più importanti è, secondo me, il silenzio di Varrone. È infatti evidenteche, se Sisenna fosse stato uno studioso di Plauto, le sue opere sarebbero state com-poste ben prima di quelle varroniane; il De l. L. è stato scritto negli anni 47–45 a.C.,mentre Sisenna era morto nel 67 a.C.; dunque, se opere esegetiche plautine di Sisennafossero esistite, Varrone le avrebbe avute senza dubbio presenti. Eppure, nelle partisuperstiti del D. l. L., Sisenna non è mai citato78. Inoltre, verrebbe spontaneo supporreche uno studioso, che scriva un commento a Plauto nell’età di maggior fervoredell’Echtheitskritik plautina, prenda posizione anche sul problema dell’autenticità e,nel caso di Sisenna, che redigesse un index, come quelli che Varrone-Gellio attesta peri sei studiosi prevarroniani: eppure fra i sei studiosi Sisenna non compare. Si osserviinoltre che i sei studiosi plautini prevarroniani sono tutti ben presenti nel D. l. L.79;l’unica eccezione è Volcacio Sedigito, ma la sua attività erudita è ben attestata da altrefonti (cf. Volcacius Sedigitus, 82–84 F.80). Si potrà obiettare che Varrone non ha conos-ciuto l’opera di Sisenna o la ha considerata trascurabile; questo non mi pare probabile,anche perché Sisenna era scrittore molto famoso e lo stesso Varrone gli ha dedicatouno dei suoi Logistorici, quello Sisenna de historia (di cui, purtroppo, nulla sap-piamo).

Altri argomenti contro l’identificazione dei due Sisenna mi pare li offrano i fram-menti del commento plautino. Al Deufert sembra molto importante, a questo propo-

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punto è fondamentale per giudicare le testimonianze di Varrone e Carisio. Esse infatti, mi pare, non sono inaccordo. Varrone dice che Sisenna usava la forma patres familiarum, Carisio dice invece che Sisenna era afavore della forma patres familias. Chi ha ragione? Varrone, dal momento che Sisenna era un analogista orto-dosso. Dunque la testimonianza di Carisio va di per sé guardata con sospetto ed è difficile crederle. Io credoche Sisenna abbia usato la forma patres familiarum nelle Historiae (così crede pure il Peter) e magari anchenelle sue orazioni. Che egli, anche parlando in pubblico, usasse forme strane e che ciò desse luogo a disputelinguistiche durante la discussione, attesta esplicitamente Cicerone (Brutus 260) e la cosa non doveva essereinfrequente (cf., per altri casi, Porcius Cato, frr. 10–12 F.; alcune osservazioni linguistiche si trovavano forsenelle orazioni di Asinio Pollione, cf. i frr. incertae sedis in F.; per Pomponio Marcello, cf. Suet. D. g. et rh. 22.1;altri due casi in Gellius, 11. 7). Anche se qualcuno vorrà pensare che il passo di Carisio riproduce un ragio-namento di Sisenna, non potrà più escludere, una volta letti i passi appena citati, che Sisenna abbia potuto faretale ragionamento in tribunale. Forse i passi, che Perutelli vorrebbe attribuire a un’opera grammaticale, an-drebbero aggiunti ai frammenti oratori (gli altri frammenti di Sisenna storico in Malcovati 41976, 305–307). Unaltro argomento per l’identificazione, già addotto dal Ritschl, e ora ripreso dal Perutelli (2004, 60–61) è cheSisenna storico amava, a quanto pare, gli avverbi in -im e il Sisenna commentatore di Plauto, nei quattro fram-menti citati da Carisio, discute tre volte avverbi plautini in -im. Non credo che questo significhi molto: l’unicasezione in cui Carisio cita frammenti di Sisenna è quella sugli avverbi ed è quindi naturale che egli tratti di ungenere d’avverbio tipico del latino arcaico.

78 Contro la proposta di Perutelli di vedere in D. l. L. 8. 73 una citazione di un’opera grammaticale di Si-senna, cf. la nota precedente. Per i filologi romani prevarroniani e per il rapporto fra essi e Varrone cf. Collart(1954) 1–16; 303–307.

79 Cf. gli indici di Goetz-Schoell s.v. Accius, Aelius, Aurelius, Claudius, Manilius, Opillus. Particolar-mente significativa è la presenza di Aurelio Opillo e Servio Clodio; essi non solo furono autori di indices, maanche di esegesi di singoli passi e termini plautini; cf. Piras (1998) 163–164.

80 Pare probabilissimo che lo stesso Varrone abbia citato il De poetis di Volcacio nella sua opera omonima,cf. Varro fr. 301 F.

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sito, che tutti i frammenti si riferiscano a commedie Varronianae; uno studioso vis-suto al tempo di Sisenna storico, osserva Deufert, difficilmente avrebbe fatto unascelta del genere. Questa osservazione è forse giusta, ma dopo quanto abbiamo dettoprima, che cioè le 21 Varronianae erano già in una posizione privilegiata nel I sec.a.C., credo che questo argomento perda un po’ del suo peso. Maggiore forza dimo-strativa mi pare abbiano le osservazioni che Sisenna fa circa la prosodia. Si leggaquesto frammento (Rufinus, Comm. 15. 12 D’A.): In Captivis sic: „Hic ‘ornatu’ ‘s’ litteram metri causa amisit“. Rufino trascrive qui un’osservazione di Sisenna a unverso dei Captivi, nel quale, secondo Sisenna, il termine ornatus perde la s finale. Or-natus ricorre nei Captivi due volte, al v. 447 e al v. 997. In nessuno dei due casi la ‘s’cade veramente. Bisogna dunque supporre un errore di Sisenna e cercare di capire inquale dei due passi può essere avvenuto. Io credo che Leo (21912, 257–258) e Deufert(2002, 247–248) abbiano senza dubbio ragione a credere che il verso in questione sia997. Infatti, il verso 447 non pone alcun problema81, mentre il v. 997 può porre alcunipoblemi; esso suona sed eccum incedit huc ornatus haud ex suis virtutibus. Le ma-gistrali analisi di Leo e Deufert hanno già detto quello che era necessario dire e milimiterei a rinviare alle loro trattazioni, se non ritenessi opportuno aggiungere un paiodi particolari. I due studiosi tedeschi hanno infatti dimostrato che Sisenna ipotizzòuna sinalefe fra ornatus e haud, e per questo motivo ritenne che la ‘s’ dovesse cadere.Questa interpretazione metrico-prosodica è senz’altro errata e dimostra che Sisennascandì suis come un giambo, anziché come un pirrichio; questa errata scansione giam-bica deriva dal non aver capito che -is è abbreviato per correptio iambica. Tutto questoè già stato chiarito dal Leo e dal Deufert. Io mi chiedo se sia possibile che un Romanodella generazione di Sisenna (morto nel 67 a. C.) non fosse in grado di riconoscere unacorreptio iambica. Credo di no; si suole affermare che i poeti scenici romani sentironol’influsso della correptio fin verso il 90 a.C. (Questa 2007, 136): è dunque pensabileche un letterato loro contemporaneo, del livello culturale di Sisenna, non fosse ingrado di riconoscerla? Io non credo. Un’obiezione a quanto sostenuto dal Leo e dalDeufert, e da me qui ripreso, potrebbe sollevare chi osservasse che nel verso è presenteun’altra correptio iambica, nel primo elemento (sed ec-)82. Per sostenere che Sisennaabbia scandito il verso come supposto dal Leo e dal Deufert, bisogna supporre cheSisenna abbia, all’interno dello stesso verso, la prima volta riconosciuto una correptioiambica, la seconda no. È possibile? Io credo di sì e mi pare ce ne sia una ragione ancheabbastanza chiara. Già il Bentley aveva osservato che la correptio iambica è più fre-quente all’inizio del verso che altrove (cf. Questa 2007, 147), e questo può essere ilmotivo per cui un grammatico non particolarmente esperto la ha riconosciuta solonella sede in cui era più abituato a trovarla.

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

81 Esso suona et tua et tua huc ornatus reveniam ex sententia. È un verso semplicissimo, con solo una solu-zione nel nono elemento. Come osserva giustamente il Leo, se Sisenna si riferisse al v. 447, la sua osservazioneriguarderebbe solo un problema grafico, non metrico-prosodico; ma Rufino cita solo osservazioni, che riguar-dino problemi metrico-prosodici.

82 Su questo tipo di correptio cf. Aragosti (2004) 270 nota 341, con bibliografia precedente.

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Un’altra interessante osservazione di Sisenna è la seguente, che Rufino (Comment.15. 10–11 D’A.) riferisce derivare commento all’Amphitruo: His quattuor generibusquintum accedit de genere versuum qui non sunt unius modi. Non è chiaro a qualeparte dell’Amphitruo qui Sisenna si riferisca. Il Ritschl (1845, 382–383) pensava ai vv. 153 sgg., ove cum quattuor generibus simplicibus h. e. iambico, bacchiaco, cretico,trochaico, ii versus coniuncti sunt, quos a Sisenna ut videtur non intellectos Herman-nus demum, Elem. doctr. metr. p. 359. 459 partim anapaesticis partim Sotadeis numerisdisposuit. Tuttavia, una tale interpretazione non ha trovato consenso83 (cf. Deufert2002, 248–249) e anch’io non ne sono convinto. Osservando il testo e guardando loschema metrico del Questa (1995, 61), si deduce i vv. 153–158 sono ottonari giambici,il 159 un ottonario trocaico, mentre la sequenza 161–164 è di difficilissima inter-pretazione (Prisciano la interpretava come giambica); 165 è interpratato come colonreiz. + colon reiz., 166–167 come quaternari anapestici, 168–172 come quaternariionici a maiore catalettici, 173–176 come quaternari bacchiaci, 177 come quaternarioanapestico catalettico, 178–179 come bacchiaci; da 180 inizia una lunga sequenza reci-tativa in ottonari giambici (fino a 219). In una situazione di questo genere, pur ammet-tendo che l’interpretazione di Sisenna divergesse profondamente da quella del Questaqui ripresa, è difficile isolare quattro tipi di versus i quali potessero sembrare a Sisennaunius modi e in quanto tali contrapporsi a un altro tipo di versus, il quale non fosseunius modi. Dopo Ritschl, a quanto ne so, nessuno ha più cercato di individuare aquali versi dell’Amphitruo Sisenna si riferisca. Una strada fruttuosa può forse indi-carcela un passo di Aftonio-Vittorino (GL VI 78, 19–79, 6 K.)84, il quale è peraltrocitato anche da Rufino (10, 7–11, 2 D’A.). Aftonio, parlando dei comici romani di etàrepubblicana, afferma: prologos itaque et primarum scaenarum actus trimetris com-prehenderunt, deinde longissimos, id est tetrametros, subdiderunt, qui appellanturquadrati. Postea in consequentibus variaverunt: modo enim trimetros, modo additoquadrante vel semisse posuerunt, id est semipede adiecto vel integro pede iambo velsesquipede. Haec per medios actus varie; rursus in exitu fabularum quadratos, qualesdiximus in secunda scaena, locarunt. [...] Quod vero ad clausulas, id est minuscula cola,quot genera versuum sunt, totidem eorum membra pro clausulis poni possunt et solentin canticis magis quam diverbiis, quae ex trimetro magis subsistunt, collocari, et praeci-pue apud Plautum, Naevium et Afranium. Nam hi maxime ex omnibus membrisversuum <velut> colis ab his separatis licenter usi reperiuntur in clausulis. Se noi calco-liamo il numero di versus dato da Aftonio, senza includere nel calcolo i versus compo-sti con le clausulae, otteniamo il numero di quattro (trimetri, quadrati, trimetri additoquadrante, trimetri addito semisse). A questi quattro tipi di versus si aggiungono iminuscula cola, ovvero clausulae, le quali, caratterisitche dei cantica, si formano da un

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83 Già G. Hermann era scettico, cf. Ritschl (1845) 383 nota.84 Non ci sono dubbi sul fatto che l’autore di queste righe sia Aftonio; sul problema Aftonio-Vittorino,

cf. da ultimo D’Alessandro (2004) XXII nota 21.

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pezzo degli altri versi85. Se dunque Aftonio riteneva le clausulae tipiche dei cantica,esse erano caratterizzate dalla polimetria. Pare quindi che Aftonio ritenesse tipici deideverbia quattro tipi di metri (stichici), mentre riteneva le clausulae (polimetre) carat-teristiche dei cantica86. Può darsi che il frammento di Sisenna, che stiamo discutendo,presupponga una classificazione di questo genere. Sisenna potrebbe cioè voler direche ai quattro tipi di versi stichici (unius modi), se ne aggiunge un quinto polimetro(non unius modi). Se così fosse, dovremmo pensare che il passo di Sisenna non si rife-risca all’interpretazione di una singola scena, bensì alla descrizione generale della me-trica plautina. Questo a me pare probabile, se consideriamo la posizione di Amphitruonel nostro corpus: essendo la prima commedia, le problematiche generali sarannostate trattate lì. Se ne può dedurre qualcosa sulla cronologia di Sisenna? A me pareimpossibile che una classificazione dei metri plautini così approssimativa e imprecisa,quale quella di Aftonio, potesse circolare nello stesso periodo in cui si preparava lafamosa edizione alessandrina, caratterizzata da ottime e raffinate conoscenza metriche. Se dunque Sisenna presupponeva la stessa classificazione di Aftonio, nonpuò trattarsi di Sisenna storico.

Un altro passo interessante per la datazione di Sisenna mi pare sia Charis. 258.10–14 B., da noi già citato (cf. nota 74). Credo che il termine examinato usato daSisenna possa dirci qualcosa sulla cronologia di questo commentatore: in Th. l. L. s.v.„examino“ 1170, 23–33, vengono citate alcune occorrenze degli avverbi tratti dalparticipio passato di examinare (examinate, examinato): la più antica è in Tertulliano.

Quando è vissuto dunque Sisenna? Il terminus ante quem è Giulio Romano, la cuicronologia non è sicura e oscilla fra la fine del II sec. d. C. e la metà del IV, sicché,anche per Sisenna, il terminus ante quem è la metà del IV sec. d. C. Inaccettabili cisono invece parsi i termini post quem fin qui proposti (Virgilio e Terenzio Scauro).Deufert (2002, 255) propone la data del 200 circa d. C. Non credo sia molto lontanadal vero87.*

Carlo Martino Lucarini, Per la storia del testo di Plauto

85 Sul concetto di clausula nella tradizione grammaticale riguardante Plauto, cf. Questa (1984) 131–159.86 Pare di capire che per Aftonio gli interi cantica erano composti di clausulae. Osserva giustamente il

Questa (1984, 133): „Clausulae possono dirsi, ed in effetti si dicono presso Aftonio, non solo i versetti chechiudono un canticum o parte di esso, oppure per converso lo iniziano, ma, andando oltre quanto Varroneafferma nella citazione rufiniana, tutti i minuscula cola presenti in un canticum“.

87 Anche l’onomastica sconsiglia di scendere oltre il 200 d. C., essendo il cognome Sisenna ancora attestatonel II sec. d. C. (cf. PIR2 VII, 2, 2006, nr. 758), non più tardi (cf. Prosopography, 1971–1992). Cf. anche An. Ép. (1980) 312. Per il riuso di nomi illustri del passato in età imperiale (in ambiente per lo più italiano), cf. Solin (2001) 411–427.

* Ringrazio A. Aragosti, G. Gregori, G. Piras, M. Rosellini e H. Solin per osservazioni e suggerimenti.Questo articolo è nato da un corso da me tenuto agli studenti de „La Sapienza“: a tutti i partecipanti la miagratitudine.

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Università „La Sapienza“, Dipart. di Scienze dell’Antichità Roma

Abstract

The aim of this paper is to show that the Plautine Textgeschichte as reconstructed by M. Deufert may beregarded as convincing, although some aspects need to be corrected. A new examination of Gellius 3. 3 (com-bined with other passages by Festus and Servius, enables us to understand that the famous Republican editiondid not contain 130 plays, but 40. In addition, we attempt to demonstrate that Varro did not provide an index

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of plays that he himself regarded as authentic. The only index provided by Varro was the index containing the 21 plays considered authentic by his predecessors.

A new analysis of Probus’ Plautine philology demonstrates that Probus did not prepare a new edition afPlautus: while it is extremely likely that he published a new influential edition of Vergil (which, by the way,caused the disappearance of the Appendix from our corpus), there is no reason to think that he devoted hiseditorial activity to Plautus.

In the last part of the paper we discuss the famous problem of the identity of Sisenna. Although some re-cent scholars (particularly Perutelli and Aragosti) have tried to demonstrate that the Sisenna, who composed a Plautine commentary, was the famous historian (died 67 BC), I prefer to maintain Deufert’s opinion, viz.that Sisenna the commentator of Plautus lived in the second or third century AD. A new analysis of some of Sisenna’s grammatical fragments is also provided.

Keywords: ancient editions, Varro, Plautus, Sisenna, ancient grammarians

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