Lotta Biologica in Agricoltura
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CAPITOLO 1
1.1. - Introduzione La popolazione umana ha superato, nel 1999 i sei miliardi di individui e
considerando il tasso odierno di crescita annuale, si prevede il suo
raddoppiamento nei prossimi cinquant’anni (Weber, 1993). L’aumento
incontrollato del numero mondiale di abitanti ha avuto delle ripercussioni molto
serie sul problema dell’alimentazione e sulla necessità di aumentare le rese
produttive delle colture agrarie al fine di garantire a tutti il fabbisogno minimo
giornaliero di calorie. Stimolata da tale esigenza, l’agricoltura si è modificata
abbandonando progressivamente le antiche tecniche di coltivazione per
abbracciare un insieme di mezzi più moderni in grado di ottimizzare le
produzioni agricole. Le nuove tecniche colturali, i fertilizzanti chimici, i
fitofarmaci rappresentarono per i coltivatori strumenti agricoli fondamentali. Ma
l’abuso di tali innovazioni creò non pochi problemi. L’eccessivo impiego di
fertilizzanti per aumentare le rese (Palti, 1981), la somministrazione dei
fitofarmaci sistemici, finalizzato all’eradicazione dei patogeni (Risch, 1987),
l’omogeneità delle cultivar utilizzate (Altieri e Letourneau, 1982), e una non
controllata gestione dell’irrigazione (Matta et al., 1996) portarono, ben presto, a
nuovi e più gravi problemi di tipo fitopatologico e ad un aumento
dell’inquinamento ambientale. Per combattere le malattie fu pressoché scontato
il ricorso massivo a fitofarmaci.
Per esempio l’uso ripetuto di fungicidi a meccanismo d’azione specifico, in
particolare benzimidazoli, portò negli anni ’60 alla comparsa di popolazioni di
patogeni resistenti (Gullino, 1987). Ciò spinse, in generale, i coltivatori ad
aumentare le dosi di trattamento con evidenti effetti sull’ambiente: inquinamento
delle falde acquifere per lisciviazione dei composti, effetti sulla salute legati alla
tossicità dei principi attivi presenti come residui negli alimenti e lo squilibrio della
microfauna utile del terreno. Le organizzazioni mondiali, l’opinione pubblica, le
unioni di consumatori “aiutati” da dati sempre più sconfortanti riguardanti la
situazione del pianeta terra, hanno avuto in passato e continuano ad avere,
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oggi, un ruolo cruciale nel denunciare tali pericoli. Non senza passaggi
intermedi, si è passati, da un modello di agricoltura che mirava all’eradicazione
del patogeno con una lotta tout court, ad un modello dinamico globale basato
sulla conoscenza, il più possibile completa, della coltivazione L’agricoltura
contemporanea si è cosi evoluta verso un modello di tipo gestionale integrato
(Fry, 1982). Gli agricoltori hanno a disposizione oggi programmi di gestione
integrata complessi. Nei disciplinari di difesa sono affiancati ai mezzi chimici, i
mezzi agronomici, genetici e biologici (Van Lenteren et al., 1992). La lotta
biologica si inserisce nell’ottica di un’agricoltura che salvaguardi maggiormente
l’ambiente.
1.2. - Lotta biologica
In passato la definizione di lotta biologica (biological control) era riferita al
contenimento biologico delle malattie; cioè limitata al solo organismo utilizzato
per combattere un patogeno. La definizione corrente è più complessa e si
estende a tutte le misure biologiche attuabili per limitare lo sviluppo di parassiti
animali e vegetali (Weber, 1993). Riguarda, escludendo l’uomo, l’impiego di
qualsiasi organismo, compresi i suoi prodotti: geni, enzimi, metaboliti,
componenti cellulari (Chet, 1987).
In questo capitolo tratterò la lotta biologica sottolineando maggiormente gli
aspetti legati alla difesa dalle malattie delle piante e alla lotta biologica condotta
con antagonisti microbici, ma è opportuno considerare che essa ha
caratteristiche più generali, che esplorano molteplici settori. Quindi
occorrerebbe, per chiarezza espositiva, riferirla e descriverla, di volta in volta, in
relazione ai differenti campi di interesse.
In patologia vegetale la lotta biologica è, più specificamente, rivolta al
contenimento dell’azione parassitaria di agenti batterici e fungini delle piante.
La malattia si può formalizzare come risultato interattivo tra pianta o suscetto
(S), patogeno (P) e ambiente (A) (Matta et al., 1996). Ma è più opportuno
includere nell’interazione anche il concetto di tempo, che rende il modello
dinamico. Gli antagonisti possono essere considerati come parte dell’ambiente
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e quindi capaci di influenzare la pianta e il parassita. Per sviluppare validi agenti
di lotta biologica è dunque importante, conoscere in modo completo il sistema
in cui si sviluppa la malattia. Occorre per cui conoscere non solo la biologia del
patogeno e della pianta, ma anche i meccanismi di azione dei microrganismi
antagonisti.
Storicamente, sono stati evidenziati tre meccanismi di interazione che sono
basilari per la comprensione della lotta biologica: l’antagonismo diretto,
l'antagonismo indiretto e l’ipovirulenza (Gullino, 1995).
Nell’antagonismo diretto un microrganismo si rapporta direttamente con un
altro. Sono tipiche di tale modello le interazioni di antibiosi, competizione, predazione e iperparassitismo. Un microrganismo può utilizzare una o più
modalità di antagonismo a seconda del sistema in cui si trova (Chet, 1987).
L’antibiosi, fenomeno che si può osservare spesso in natura, è la produzione
di metaboliti di origine microbica, capace di influenzare negativamente lo
sviluppo di un altro microrganismo. Tali metaboliti possono essere molecole
solubili in acqua, enzimi secreti, composti volatili (Fravel, 1988; Weller, 1988).
Possono essere selettivamente tossici o avere uno spettro di tossicità molto
ampio ed i siti di azione, di norma, possono essere molto eterogenei. E’ noto
che molti filtrati colturali di origine microbica, siano in grado, quando addirittura
non li prevengano, di attenuare i sintomi di una malattia. Pythium ultimum e
Rhizoctonia solani sono contenuti da P. fluorescens e da Gliocladium virens
(Howie e Suslov, 1986). L’antibiotico gliovirina sembra avere un ruolo
preminente in tale fenomeno. Infatti, mutanti gliovirina negativi perdono la loro
capacita antagonistica (Howell e Stipanovic, 1983).
Sono stati individuati molti antibiotici in Pseudomonas spp. aventi un ruolo attivo
nel contenimento di agenti patogeni (Fravel, 1988). Ceppi di P. fluorescens
isolati da terreni repressivi verso Gaeumannomyces graminis f. sp. tritici
riescono a contenere quest’ultimo grazie alla produzione di fenazina (PCA)
(Thomashow e Weller, 1988; Thomashow et al., 1990). Altri antibiotici giocano
un ruolo cruciale e sinergico, come l’oomycin A (Gutterson et al., 1986 e Howie
e Suslov, 1986), la pyoluteorina e il 2,4-diacetil fluoroglucinolo (Haas et al.,
1991 e Keel et al., 1992). B. subtilis utilizzato nel contenimento di Monilinia
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fructicola produce le iturine, peptidi ad attività antifungina, attivi contro il
“marciume bruno” delle pesche (Gueldner et al., 1988). P. cepacia produce
fenilpirroli, nel contenimento della “muffa grigia” delle mele (Roitman et al.,
1990). L’antibiosi è un meccanismo di contenimento molto interessante e
capace di conferire un elevato grado di contenimento nei confronti di
determinati patogeni, ma la capacità di produrre antibiotici è, per motivi
legislativi, una caratteristica negativa, discriminante in fase di autorizzazione al
rilascio nell’ambiente.
Il secondo meccanismo di antagonismo, osservabile in natura, è la
competizione. Essa può riguardare lo spazio, i siti di ingresso della pianta
(ferite), e le sostanze nutritive nel senso più ampio possibile. Un microrganismo
patogeno per svilupparsi deve poter occupare i siti di infezione e prendere
dall’esterno le molecole di cui necessita. Durante le prime fasi di infezione, se è
presente un microrganismo che occupa tali siti e compete con il parassita per
accaparrarsi le sostanze utili, lo sviluppo del patogeno e quindi il progredire
della malattia rallentano. Normalmente i microrganismi antagonisti si adattano
meglio dei patogeni alle variate condizioni ambientali. Si sviluppano più
rapidamente e in condizioni ambientali più critiche (temperatura, umidità, pH)
occupando più rapidamente i siti dove avviene la malattia. Ceppi di Fusarium
saprofiti isolati da terreni repressivi presenti nella piana di Albenga sono
altamente competitivi nel terreno con diverse forme speciali di Fusaria patogeni,
grazie alla grande capacità di colonizzare la rizosfera (Garibaldi et al., 1990)
In terreni americani sono stati isolati delle pseudomonadi che agirebbero contro
alcune forme speciali di F. oxysporum in virtù della capacità di chelare il ferro
grazie alla produzione di siderofori; in questo modo la germinazione delle
clamidospore dei patogeni è rallentata (Scher e Baker, 1982 ; Rovira et al.,
1992)
Nella lotta contro specie diverse di Penicillium, negli agrumi, Candida oleophila
sembra agire competendo per le sostanze nutritive (Droby e Chalutz, 1994). Il
ceppo US-7 di Pichia guilliermondii è attivo contro Penicillium digitatum grazie
allo stesso tipo di competizione. Nelle ferite sulle mele, Trichoderma compete
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per i substrati nutritivi con B. cinerea (Dubos, 1997), mentre Metschnikowa
pulcherrima compete specificamente per i nitrati (Piano et al., 1997).
Tra i fenomeni di antagonismo diretto, non meno diffusi, ma a cui si guarda, per
il futuro, con minore interesse c’è la predazione. Si tratta di un contenimento
biologico operato da organismi animali, quali insetti, nematodi, protozoi e
amebe. Nel pabulum alimentare di tali organismi rientrano a volte i parassiti
delle piante. Pythium spp, agente di marciumi radicali è limitato naturalmente
dal nematode Aphelenchus avenae (Rhoades e Linford, 1959). L’ameba
Arachnula impatiens si ciba del micelio di molti funghi fitopatogeni mentre
esistono funghi, quali Arthrobotrys, Dactylaria e Dactylella, che predano di
nematodi grazie alla capacità di intrappolare con il micelio o di formare cappi
costrittivi (Baker e Cook, 1974). In generale si può, tuttavia, affermare che i
fenomeni di predazione sono risultati poco sfruttabili dal punto di vista
commerciale e che difficilmente troveranno un efficiente applicazione pratica.
Una forma sui generis di predazione è il micoparassitismo, detto anche
iperparassitismo. Esistono micoparassiti biotrofi e necrotrofi: i primi instaurano
rapporti trofici tramite strutture austoriali senza uccidere la vittima, altri uccidono
la vittima e penetrano le ife del fungo fitopatogeno per cibarsi dei succhi
cellulari. Tra i primi sono conosciuti alcuni funghi appartenenti agli Zygomycota
(Piptocephalis, Dispira e Dimargalis spp.). Tra i micoparassiti necrotrofi sono
noti Trichoderma spp. e G. virens (Papavizas, 1992), Sporidesmium
sclerotivorum (Adams, 1990), Coniothyrium minitans (Whipps e Gerlagh, 1992),
Pythium spp. (Deacon e Berry, 1992) e Ampelomyces quisqualis (Sztejnberg et
al., 1989).
Gliocladium roseum che però sembra agire sia per contatto sia per antibiosi.
Talaromyces flavus invade gli sclerozi melanizzati di Verticillium dahliae
presenti nelle radici malate e poi sporula sulla superficie di queste strutture. T.
flavus produce l’antibiotico talarone ma la sua azione parassita sembra essere
promossa dall’enzima secreto glucoso-ossidasi, che genera perossido di
idrogeno (Kim et al., 1988). La maggior parte delle prove sperimentali, sul
meccanismo di parassitismo riguardano però Trichoderma spp.. Il
micoparassitismo può essere suddiviso in fasi successive: individuazione,
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riconoscimento, contatto, penetrazione, parassitismo e degenerazione della
vittima. All’inizio le ife del fungo si sviluppano orientandosi verso la vittima,
prendono contatto e formano degli appressori e si avvolgono all’ifa. In un
secondo momento vengono prodotte chitinasi e β(1,3)-glucanasi che
permettono la penetrazione attiva nell’ifa.
2. - STRATEGIE DI LOTTA BIOLOGICA
Una volta osservati i fenomeni naturali di contenimento biologico si possono
applicare diverse strategie perché questi risultino utili per la difesa delle colture.
E’ possibile, per interferire minimamente sull’ambiente, attuare strategie di
gestione dei fenomeni naturali di contenimento delle malattie all’interno
dell’agroecosistema. Si può sfruttare il fenomeno della resistenza indotta.
Laddove ci sia una malattia si può introdurre una componente microbica
antagonistica e aiutarne l’insediamento.
2.1. - Gestione dell’agroecosistema
La gestione degli equilibri presenti tra patogeni e microflora antagonistica
consente di limitare i danni seppure presenti di una malattia. I fenomeni naturali,
più studiati, di contenimento delle malattie sono: i terreni repressivi e
l’ipovirulenza.
I terreni repressivi sono terreni inospitali nei confronti di uno o alcuni patogeni
nonostante la coltivazione di ospiti suscettibili, le condizioni pedologiche e
ambientali siano favorevoli allo sviluppo della malattia (Garibaldi e Gullino,
1989). Il concetto di repressività è opposto a quello di conduttività: i terreni
conduttivi non presentano fenomeni naturali di contenimento biologico. Già dal
1892, negli USA era noto che la fusariosi del cotone portata da F. oxysporum
f.sp. vasinfectum si manifestava con gravità maggiore negli stati con terreni
sabbiosi piuttosto che in quelli con terreni argillosi.
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Il fenomeno della repressività venne inizialmente trascurato e solo all’inizio del
secolo successivo si incomiciò a intravedere un possibile sfruttamento. I primi
studi furono fatti su terreni resistenti alla fusariosi del banano, presenti in
America centrale, mettendo in correlazione la tessitura del terreno, la
popolazione del patogeno e la repressività. Il fenomeno del “take-all decline” la
diminuzione della gravità degli attacchi di G. graminis f. sp. tritici sul grano,
dopo alcuni anni di monocoltura fu messo in relazione con le componenti
microbiologiche presenti nel terreno (Cook, 1981). Il primo approccio verso lo
sfruttamento del fenomeno della repressività è rappresentato dalla possibilità di
rendere repressivo un terreno condutttivo.
Solo negli ultimi anni del secolo sono stati fatti studi mirati per identificare le
cause specifiche che danno luogo alla repressività. Le tipologie di terreni
repressivi sono molteplici ma, di base essa può essere legata a fenomeni biotici
o abiotici. Riferendosi all’azione dei microrganismi presenti nel terreno si può
definire una repressività di tipo generale, operata dall’azione della biomassa
presente nel terreno e una repressività di tipo specifico legata ad una
componente microbica specifica presente nel terreno. La repressività indotta da
fattori abiotici può essere legata dai valori di pH: in terreni della brughiera
francese vicino a Paimpout l’acidità del terreno correla con la riduzione dei
danni da Phytophthora infestans. La repressività di tipo biotico può essere
causata dall’alta concentrazione dell’antagonista: nella savana di Bogotà l’alto
titolo di propaguli di Trichoderma spp. (108/g) è responsabile della repressività
verso la rizottoniosi del garofano (Chet e Baker, 1981).
Le iniziali applicazioni pratiche dei terreni repressivi erano basate sulla aggiunta
di quote di terreno repressivo a terreni conduttivi. Tale pratica non si rivelò di
fatto perseguibile per la presenza relativamente limitata di terreni repressivi. E’
più attuabile l’isolamento dal terreno dei microrganismi responsabili della
repressività ed il loro inserimento in preparati commerciali allo scopo di
arricchire i terreni conduttivi di popolazioni microbiche utili.
L’ipovirulenza è un fenomeno naturale osservato in ambito forestale. Essa è la
ridotta capacità di parassitizzare la pianta ospite da parte di alcuni funghi
fitopatogeni.
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Cryphonectria parasitica è l’agente del cancro del castagno che colpisce in
Italia, Francia e Usa. Ad una esplosione endemica della malattia che aveva
decimato le popolazioni di castagno in Italia seguì una drastica diminuzione
della malattia. Il fenomeno fu in seguito spiegato grazie alla presenza di un
ipovirus (CHV1) a RNA a doppio filamento. L’azione del virus potrebbe agire
sulla subunità α delle G-protein eterotrimeriche dal momento che in seguito
all’infezione dell’ipovirus CHV1-EP713 si ha una diminuzione dei livelli di CPG-
1, una subunità α G-protein cruciale per il ruolo della cellula e in seguito a
mutazioni nel locus BDM-1 (beta disruption mimic factor-1),si ha la riduzione
postrascrizionale di CPG-1 (Kasahara, et al. 2000).
Ma la presenza di ipovirus non è il solo fattore coinvolto nell’ipovirulenza.
Recenti studi fatti su ceppi di C. parasitica esenti da virus hanno evidenziato il
trasferimento orizzontale sia tramite contatto ifale sia conidico tra ceppi
compatibili e incompatibili, seppure in maniera minore, di un DNA mitocondriale
plasmidico pCRY1, capace di dare sintomi di senescenza, diminuzione di
crescita, diminuzione della produzione conidica e alti livelli di respirazione
tramite la via ossidativa cianuro-resistente (Baidyaroy et al., 2000)
L’ipovirus si trasmette tra ceppi di C. parasitica infetti ai sani tramite contatto. Le
applicazioni tradizionali prevedevano l’inoculo nelle ferite di ceppi di ipovirus
purificati. Tale strategia ha avuto effetto solo quando l’ipovirus utilizzato
proveniente da gruppi di compatibilità europei veniva usato su funghi
compatibili: esso non aveva alcuna utilità su ceppi americani appartenenti a
diverso VCG. Le future applicazioni prevedono l’uso di ceppi chimerici che
abbiano un più ampio spettro d’azione anche laddove intervenga il fenomeno
dell’incompatibilità vegetativa tra funghi (Chen e Nuss, 1999).
3. - STRUMENTI PER LA PRODUZIONE
Quando un produttore possiede un microrganismo utile per la lotta biologica ha
due possibilità concrete per trarne profitto: la brevettazione e la registrazione.
Affinchè possa vendere il microrganismo come prodotto fitosanitario è obbligato
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a registrarlo. Mentre si può avvalere dell’istituto brevettuale quando voglia
proteggere il microrganismo come proprietà intellettuale. Le due vie non sono
alternative e la registrazione è una conditio sine qua non la vendita del prodotto
non sarebbe legalmente possibile.
4. - BREVETTAZIONE
Il brevetto è un documento tecnico-legale che descrive il contenuto di
un'invenzione della quale si intende proteggere l'utilizzazione finale. Tramite il
brevetto si concede un diritto esclusivo di utilizzo dell'invenzione e si assegna
all’inventore il privilegio di usufruire del profitto che ne deriva.
Chi voglia utilizzare tali diritti privativi brevettando un microrganismo può
seguire due strade: il Brevetto Nazionale (italiano, francese, tedesco, etc.) o il
Brevetto Europeo. I due brevetti sono molto simili, rifacendosi alle stesse
normative ma presentano differenze per quanto riguarda l’estensione territoriale
della protezione e i costi.
4.1. - Cenni storici sui brevetti riguardanti microrganismi L’Istituto brevettuale classico riguarda la “tutela giuridica della proprietà
intellettuali e delle invenzioni”. Occorre precisare la differenza tra invenzione e
scoperta. L’invenzione è “qualcosa di nuovo alla cui identificazione partecipa
l’attività inventiva dell’uomo”, mentre la scoperta si riferisce “al rinvenimento di
qualcosa di nuovo che già esiste in natura”.
Allo stato dell’arte giuridico per brevettare un microrganismo si deve fare
riferimento alla Convenzione di Monaco sul Brevetto Europeo (CBE) sancita il 5
ottobre 1973.
La concessione del brevetto può riguardare prodotti e procedimenti. La
convenzione di Monaco stabilisce, dall’articolo 52 al 57 l’oggetto del brevetto.
Esso riguarda ogni nuovo prodotto o procedimento in qualsiasi settore della
tecnica, esclusi procedimenti terapeutici sul corpo umano o animale e nuove
varietà animali e vegetali ottenute con metodi essenzialmente biologici.
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L'invenzione deve avere i caratteri di novità, attività inventiva, industrialità e
riproducibilità:
-NOVITA’: Essa deve essere assoluta, poichè ogni divulgazione anteriore alla
data di deposito della domanda di brevetto o alla data di priorità può rendere
nullo il brevetto
-ORIGINALITA’: è il requisito che considera l’attività inventiva; essa deve
sussistere al momento del deposito della domanda di brevetto a giudizio di un
esperto del ramo che è a conoscenza dello stato dell’arte.
-INDUSTRIALITA’: il risultato dell'invenzione deve poter essere oggetto di
applicazione industriale, cioè utilizzabile nell'industria, inclusi i settori dei servizi
e dell'agricoltura
-RIPRODUCIBILITA’ e DESCRIZIONE SUFFICIENTE: un qualsiasi tecnico
medio deve essere in grado di riprodurre il trovato, partendo dalla sua
descrizione.
Le invenzioni vengono suddivise in due categorie: invenzioni microbiologiche ed
invenzioni macrobiologiche. Prendendo spunto dalla Convenzione di
Strasburgo (24 marzo 1971) vengono dichiarati brevettabili i prodotti e i
procedimenti microbiologici (art.53). L’interpretazione di tale articolo è cambiata
col tempo, grazie anche all’influenza di decisioni brevettuali assunte negli USA,
aprendo la strada al brevetto su tecniche biotecnologiche, microrganismi isolati
in natura e microrganismi modificati geneticamente. Il trattato di Budapest del
28 aprile 1977, stabilisce in modo non equivoco il riconoscimento internazionale
del deposito dei microrganismi, presso enti di deposito internazionali.
4.2. - Modalità per la costituzione di un brevetto Ogni persona fisica o giuridica italiana o straniera, inventore o suo cessionario,
ha diritto a richiedere un brevetto europeo, presentando la domanda per la
concessione, indipendentemente dall'esistenza di un precedente brevetto
nazionale. La domanda va depositata presso una delle sedi dell'Ufficio Brevetti
Europeo di Monaco (RFT) o presso l'Ufficio Brevetti nazionale di uno Stato
aderente alla Convenzione Europea. Le lingue ufficiali, da utilizzare nella
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procedura di fronte all'Ufficio Brevetti Europeo sono il francese, l'inglese e il
tedesco.
L'Ufficio Europeo effettua una ricerca di novità sull'invenzione che viene messa
a disposizione del titolare e che serve di base per la successiva fase di esame,
attivata dallo stesso titolare. L'Ufficio Europeo può concedere o rifiutare la
concessione del brevetto e la sua decisione ha effetto in ciascuno Stato
membro. Contro il rifiuto di concessione si può fare ricorso ad una
Commissione di Appello interna all'Ufficio Europeo.
Il Brevetto Europeo è valido per vent’anni e ha validità territoriale negli Stati
membri a cui si vuole estendere la domanda. Il titolare della domanda dopo la
pubblicazione della domanda europea, cioè dopo 18 mesi dalla data di deposito
o di priorità, può conseguire la protezione provvisoria, negli Stati membri
designati, attivando la relativa procedura. Conseguentemente il titolare della
domanda può agire nei confronti di terzi secondo le leggi dei rispettivi paesi e
ha comunque diritto ad un equo compenso per l'attività di tali terzi che, nel
periodo tra la pubblicazione e la concessione del brevetto, comporti la
violazione dei diritti di brevetto.
Contro la concessione può essere presentata un'opposizione da parte di terzi
che viene discussa di fronte alle divisioni di opposizione dello stesso Ufficio
Europeo. Alla fine della procedura, l'Ufficio può confermare integralmente il
brevetto concesso, modificarne la portata, annullare il brevetto. Contro tale
decisione può essere proposto appello ad una Commissione di Appello interna
all'Ufficio Europeo.
Dopo la concessione del brevetto, il titolare deve procedere alla sua convalida
nazionale nei singoli Stati designati. Tale operazione in generale richiede una
traduzione nella lingua di tale stato. Dopo la convalida il brevetto europeo è
regolato in ciascuno stato dalla legge nazionale.
I documenti da presentare riguardano il testo della domanda di brevetto
nazionale di cui si rivendica la priorità e la notifica dei paesi che si vogliono
designare nella domanda di brevetto. Nel caso si tratti di un primo deposito si
devono presentare la bozza di descrizione dell'invenzione preparata
dall'inventore, l’indicazione dello stato della tecnica a partire dal quale
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l'invenzione è stata realizzata, la bozza dei disegni, se previsti, il nome e dati
anagrafici e fiscali del richiedente il brevetto e l’identità dell'inventore.
4.3. - Considerazioni
Il limite del Brevetto Europeo è quello di essere fondamentalmente un insieme
di brevetti valevoli nei 19 stati membri firmatari della Convenzione di Monaco.
Infatti tale istituto giuridico non offre una protezione omogenea in tutti gli stati. Il
brevetto, adottato nei singoli paesi, rientra nei diversi quadri normativi e genera
sperequazioni sulla protezione finale. Ad esempio, può essere diverso il
trattamento giuridico di chi trasgredisca alle norme di protezione, qualora alcuni
Stati membri abbiano, in materia, norme penali diverse. In più il procedimento è
molto costoso perché richiede la traduzione di tutto il fascicolo nelle lingue dei
paesi in cui si vuole estendere la validità del brevetto. Già da 1975 si è sentita
l’esigenza di creare uno strumento nuovo, più completo e più efficiente, per
disciplinare i brevetti a livello europeo. La Convenzione sul Brevetto Comunitario o Convenzione di Lussemburgo del 15 dicembre 1975, prevede
la concessione di un brevetto unico avente identica efficacia sul territorio di tutti
gli Stati membri dell'Unione Europea. Questa Convenzione nacque
dall'esigenza di creare un unico brevetto comunitario e per aiutare la
costituzione del mercato unico europeo, il quale, attraverso l'abbattimento di
qualsiasi barriera doganale, potesse aumentare il livello di concorrenza e
rendesse necessario tutelare le invenzioni al di là delle frontiere nazionali. Oggi
l’unione economica dell’Europa è una realtà ma la Convenzione di
Lussemburgo non è ancora entrata in vigore, nè si possono fare previsioni
attendibili circa i tempi necessari per la sua costituzione. In sua mancanza le
procedure previste dalle Convenzioni di Monaco e dal PCT acquistano quindi
una rilevanza ancor più significativa. Ciò soprattutto alla luce del sempre più
intenso processo di globalizzazione dell'economia che ormai coinvolge in modo
rilevante anche le piccole e medie imprese.
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5. - REGISTRAZIONE
Uno dei maggiori problemi da superare per commercializzare un prodotto
biologico è la fase di registrazione. Alla base della registrazione è la necessità
di identificare in modo univoco il prodotto così da differenziarlo da altri e per
poterne seguire il destino nell’ambiente una volta rilasciato. Le tecniche
utilizzabili sono molteplici e normalmente i criteri d’elezione sono la
economicità, rapidità di esecuzione e la complessità intrinseca della tecnica. Ad
oggi sono disponibili metodiche basate sull’analisi del DNA, delle proteine, degli
acidi grassi della membrana e di tutte quelle caratteristiche fisiologiche e
morfologiche che possano aiutare nella distinzione di un individuo microbico.
Ma per la registrazione devono esser tenute in conto requisiti di tipo
tossicologico.
La registrazione di un microrganismo deputato a svolgere il ruolo di antagonista
microbico segue differenti legislazioni a seconda che il prodotto venga
certificato in Europa o negli USA.
5.1.- Registrazione negli USA
Negli Stati Uniti, si attua una politica “case by case”, in cui cioè le analisi
richieste per la registrazione variano in base al microrganismo da immettere
nell’ambiente e allo scopo con cui viene rilasciato. Il primo requisito da stabilire,
per un prodotto fitosanitario la cui sostanza attiva sia un microrganismo, è la
unicità del ceppo utilizzato al fine di poter seguire il suo destino nello spazio e
nel tempo una volta rilasciato nell’ambiente. La “carta di identità” del
microrganismo può essere creata con strumenti eterogenei e che forniscono, in
ordine decrescente, un numero di informazioni inferiore:
-l’analisi del DNA -l’analisi proteica -la tipizzazione degli acidi grassi della membrana
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-lo studio dei metaboliti secondari (antibiotici, terpeni, fenoli, alcaloidi) -la caratterizzazione fisiologica e morfologica
Verranno trattate successivamente le diverse metodologie accennate per
tipizzare un microrganismo.
L’iter del prodotto durante la registrazione è scandito da diverse fasi la cui
importanza è valutata in base a criteri tossicologici. Ogni prodotto che manifesti
caratteristiche negative in fase 1 viene bloccato. I dati tossicologici, prodotti da
laboratori indipendente dal gruppo richiedente la registrazione, vengono inviati
all’EPA (U.S. Enviromental Protection Agency) per una valutazione
complessiva.
Per quanto riguarda la valutazione dei potenziali effetti dannosi sull’ambiente
l’EPA sottopone il prodotto a 4 fasi di studio. Tali prove comprendono gli effetti
tossici aspecifici e gli effetti patogenetici sulle piante e sull’uomo. E’ importante
sottolineare che in base al microrganismo da registrare il numero e il tipo di
analisi cambia. Tale procedura, particolarmente snella, ha portato ad un grande
divario tra il numero di microrganismi registrati negli USA e quelli registrati in
Europa.
5.2. - Registrazione nell’UE Per la registrazione di un prodotto fitosanitario contenente microrganismi con
capacità antagonistiche, ci si deve riferire alla Direttiva Comunitaria 91/414/CEE, applicata in Italia con il Decreto Legislativo numero 194 del 17/5/95. Tale decreto disciplina:
a) l'autorizzazione, l'immissione in commercio, l'utilizzazione ed il controllo dei
prodotti fitosanitari presentati nella loro forma commerciale;
b) l'immissione in commercio ed il controllo delle sostanze attive per l’uso cui
sono destinate
c) l'autorizzazione all'immissione in commercio di prodotti fitosanitari contenenti
o costituiti da organismi geneticamente modificati, per i quali l'emissione
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deliberata nell'ambiente sia già stata approvata in base al decreto legislativo 3
marzo 1993, n. 92.
Il decreto precisa la definizione del termine generale prodotto fitosanitario in
cui vengono comprese: “le sostanze attive ed i preparati contenenti una o piu'
sostanze attive, presentati nella forma in cui sono forniti all'utilizzatore e
destinati a: proteggere i vegetali o i prodotti vegetali da tutti gli organismi nocivi
o a prevenirne gli effetti, favorire o regolare i processi vitali dei vegetali, con
esclusione dei fertilizzanti, conservare i prodotti vegetali, con esclusione dei
conservanti disciplinati da particolari disposizioni, eliminare le piante
indesiderate, eliminare parti di vegetali, frenare o evitare un loro indesiderato
accrescimento” (art 2).
Vengono definite sostanze attive: le sostanze o i microrganismi, compresi i
virus, aventi un'azione generale o specifica sugli organismi nocivi o su vegetali,
su parti di vegetali o su prodotti vegetali.
Così pure il decreto precisa che per preparati si intendono: le miscele o le
soluzioni composte da due o piu' sostanze, delle quali almeno una sostanza
attiva, destinate ad essere utilizzate come prodotti fitosanitari.
Vengono elevati al ruolo di prodotto fitosanitario anche i microrganismi,
permettendo il loro l’utilizzo e disciplinando la loro registrazione e il controllo
dopo la loro immissione.
5.3. - Autorizzazione alla sperimentazione
La richiesta di autorizzazione alla sperimentazione deve essere inoltrata al
Ministero della sanità, almeno 90 giorni prima dell’inizio delle prove. Tale
richiesta è necessaria nel caso in cui le prove, comportino l’immissione di un
prodotto fitosanitario non ancora autorizzato o allo scopo di estendere
l’autorizzazione a nuovi impieghi di prodotti già autorizzati.
L’autorizzazione viene concessa, sentito il parere del Servizio Fitosanitario
Centrale e dell’Agenzia Nazionale per la protezione dell’ambiente, che devono
dare il loro parere entro 45 giorni. Dopo tale periodo il Ministero della sanità puo
procedere autonomamente. Il Ministero determina tutte le condizioni necessarie
15
I
per la prevenzione dei rischi per l’uomo, gli animali e l’ambiente, fissando i
quantitativi massimi per l’applicazione sperimentale. Le derrate derivate dalle
sperimentazioni devono essere mantenute separate dalle altre, smaltite
secondo le normative vigenti o nel caso in cui si sia ottenuta l’autorizzazione
all’immissione al commercio, potenzialmente destinate all’alimentazione umana.
Tale decreto non si applica direttamente agli organismi geneticamente
modificati se quelli che abbiano ottenuto un provvedimento formale di assenso
per la sperimentazione e per l’autorizzazione all’immissione in commercio
(parte B e C della Direttiva 90/220 recepita con il D.Leg n.92 del 3/3/1993).
5.4. - Autorizzazione all’immissione in commercio
Il decreto presenta nella sua parte finale sei allegati a cui il testo rimanda per la
specifica dei singoli articoli della legge.
I prodotti devono sottostare a determinate condizioni per l’autorizzazione. Un
prodotto fitosanitario può essere autorizzato solo “se: (A) le sostanze attive in
esso contenute sono iscritte nell’allegato I e se soddisfa i principi uniformi di cui
all’allegato VI; (B) se è sufficientemente efficace; non produce effetti
inaccettabili sui vegetali o sui prodotti vegetali; non provoca sofferenze e dolori
inaccettabili ai vertebrati da combattere; non produce effetti nocivi in maniera
diretta o indiretta, sulla salute dell'uomo o degli animali o sulle acque
sotterranee; non produce effetti inaccettabili sull'ambiente, in particolare per
quanto riguarda il suo destino e la sua distribuzione ambientale, con riferimento
particolare alla contaminazione delle acque, comprese quelle potabili e
sotterranee, nonche' l'impatto sulle specie non bersaglio; (C) se e' possibile
determinare la natura e la quantita' delle sostanze attive in esso contenute e,
ove occorra, delle sue impurezze e degli altri componenti significativi dal punto
di vista tossicologico ed ecotossicologico, con adeguati metodi stabiliti in sede
comunitaria o, in mancanza, riconosciuti dal Ministero della sanita'; (D) se
possibile, con adeguati metodi di uso corrente, determinarne i residui di
rilevanza tossicologica ed ambientale derivanti da un impiego autorizzato; (E)
se le sue proprieta' fisico-chimiche sono state determinate e giudicate
16
I
accettabili per garantire un'utilizzazione ed un magazzinaggio adeguati; (F) se
per i prodotti agricoli previsti dall'autorizzazione, i suoi residui non superano i
limiti massimi stabiliti ai sensi dell'articolo 19 (art. 4).
Il decreto disciplina il riconoscimento degli enti preposti allo svolgimento delle
prove necessarie. Le condizioni viste sono accertate dai centri di saggio secondo l’applicazione dei principi di “buona prassi di laboratorio”(GLP) descritti
dal decreto legislativo n°120 del 27 gennaio 1992. Le prove ed analisi compiute
dai centri di saggio devono ottemperare all norme previste nell’allegato III del
decreto.
L’autorizzazione viene rilasciata dal Ministero della sanità ed ha una durata di
dieci anni. Essa prescrive i requisiti di commercializzazione, di utilizzazione e di
quelli necessari per ottemperare alle condizioni previste dall’articolo 4.
Per richiedere l’A.I.C. per un prodotto fitosanitario un produttore deve
presentare la domanda di autorizzazione al Ministero della Sanità, un dossier che soddisfi i requisiti richiesti dall’allegato III e un dossier per ogni sostanza
attiva presente nel preparato, redatto secondo le modalità precisate
nell’allegato II. La domanda e i fascicoli allegati devono essere redatti in lingua
italiana.
La commissione consultiva (art. 20), è lo strumento che il Ministero utilizza per
verificare la conformità del prodotto con le condizioni stabilite dall’articolo 4.
Tale commissione valuta avvalendosi della cooperazione dei richiedenti la
domanda e procede al rilascio dell’autorizzazione entro e non oltre un periodo
di12 mesi dal momento in cui è disponibile un dossier completo dal punto di
vista tecnico.
L’A.I.C. viene notificata al titolare con il relativo numero di registrazione e
vengono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana le etichette
dei prodotti fitosanitari autorizzati. Presso il Ministero della Sanità viene
conservata tutta la documentazione consegnata così da renderla disponibile
agli Stati membri e alla Commissione Europea.
L’A.I.C. può essere rinnovata al termine della sua durata se la domanda di
rinnovo viene presentata almeno un anno prima della sua scadenza, purchè il
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I
Ministero della Sanità accerti che non siano venute a mancare le condizioni
imposte dall’articolo 4 del decreto.
L’A.I.C. non è un’autorizzazione ”statica” ma può essere modificata, con o
senza il parere della commissione e sulla base della importanza delle
modificazioni richieste (art.5 comma 13, 14, 15, 16). Essa può essere
riesaminata e ritirata, anche su richiesta del titolare quando vengano a mancare
le condizioni viste all’articolo 4. L’informazione riguardante la riesamina e il ritiro
sono di competenza del Ministero che si deve occupare di darne ampia
pubblicità la titolare, agli organi di vigilanza e alle principali organizzazioni
professionali di rivenditori e agricoltori affinchè tutti gli operatori ne vengano a
conoscenza.
Dopo l’accettazione della domanda di autorizzazione all’immissione in
commercio, il prodotto fitosanitario autorizzato viene iscritto nell’allegato I (art.
6, comma1) per un periodo di dieci anni e ogni modifica viene stabilita dal
Ministero della Sanità.
L’iscrizione a tale allegato rimane vincolata “a: (A) assenza di effetti nocivi
sull’uomo, sugli animali, sull’ambiente e sulle acque sotteranee, (B) rispetto
della dose giornaliera per l’uomo, (C) livello ammissibile d’esposizione
dell’operatore, (D) stima del destino e della distribuzione nell’ambiente nonché
dell’impatto sulle specie non bersaglio
Ottenuta l’AIC è possibile per il titolare vendere il prodotto che prevedibilmente
verrà immesso nell’ambiente. Durante le fasi di registrazione la legislazione si
occupa di regolamentare le modalità di accertamento dei rischi.
5.5. - Valutazione dell’impatto ambientale
Il rilascio deliberato o accidentale nell’ambiente di un microrganismo ha delle
implicazioni ambientali molto importanti. Dal punto di vista giuridico il decreto
legislativo n.194 del 17/5/1995 definisce, all’articolo 4, le caratteristiche generali
che un microrganismo deve possedere per salvaguardare l’ambiente, mentre
nell’allegato II, con riferimento all’organismo e nell’allegato III, con riferimento al
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I
prodotto fitosanitario, precisa le prove da effettuare prima che l’AIC venga
concessa.
La legge si occupa di definire quali siano il “destino e il comportamento
nell’ambiente” del prodotto, ponendo l’attenzione sulla sua diffusione, mobilità,
moltiplicazione e sulla persistenza nell’aria, nell’acqua e nel suolo. Dal punto
ecotossicologico si occupa delle possibili interazioni tossiche con pesci, uccelli,
lombrichi e insetti, così come i possibili effetti negativi sulle api da miele sulle
alghe, gli effetti su organismi utili, su altri organismi non bersaglio e sulla
microflora del suolo.
Tuttavia, il decreto legge non definisce, in modo preciso, un microrganismo
mentre il precedente decreto legislativo n.91 del 3 marzo 1993, dava questa
definizione di microrganismo: ogni entità microbiologica cellulare o non cellulare
capace di replicarsi e di trasferire materiale genetico; se da una parte tale legge
ammette che ci possa essere uno scambio di materiale genetico la legislazione
sulla registrazione di microrganismi come prodotti fitosanitari non ne fa
menzione, nel caso di microrganismi non modificati geneticamente, prevedendo
tale eventualità solo per i MOGM.
Dal punto di vista della stabilità genetica e del trasferimento orizzontale di geni
non viene precisato nulla, considerando il fatto che ci sia un rischio effettivo per
l'ambiente solo quando del materiale esogeno venga introdotto in un ospite o
quando siano applicate tecniche che creino nuove combinazioni di materiale
genetico ereditabile
Nel caso della registrazione, le prove di valutazione del rischio sono quindi
inferiori di numero e molto meno onerose perchè ricadono sotto una legge, da
questo punto di vista, più permissiva. Ciò ha una ricaduta pratica sulle strategie
di ricerca che le aziende mettono a punto per sviluppare un microrganismo
utile. Il produttore che si trovi di fronte la possibilità di migliorare un ceppo
antagonista, modificandolo geneticamente, deve quindi sottostare ad una prima
legge per l’impiego in ambiente confinato e quindi ad una seconda che si
occupa della sua immissione sul mercato. Le procedure tecniche diventano
onerose e il prodotto perde in economicità e di competitività. Esistono tuttavia
delle scappatoie legislative per migliorare l’attività antagonistica senza ricadere
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I
nella normativa sul rilascio in ambiente confinato di MOGM (Decr.leg. n.91 del
3/3/93). Si possono creare varianti genetiche tramite coniugazione, trasduzione,
trasformazione o qualsiasi altro processo naturale; e’ permessa induzione della
poliploidia, la mutagenesi per creare mutanti con caratteristiche nuove e la
fusione cellulare (compresa la fusione dei protoplasti) di cellule di piante che
possono essere ottenute mediante metodi tradizionali di riproduzione.
5.6. - Etichettature e controlli
Il problema dell’etichettatura ha assunto oggi una rilevanza cruciale. Il decreto
legislativo 194/95 regolamenta tale materia per i prodotti fitosanitari. Esso
prevede che siano apposte delle etichette, in lingua italiana, su tutti gli
imballaggi e contenitori. In generale l’etichetta deve portare notazioni
riguardanti il prodotto e il produttore. In modo specifico le etichette devono
contenere la denominazione commerciale del prodotto fitosanitario, con il nome
e l'indirizzo del titolare dell'autorizzazione, il numero e la data di registrazione,
nonche' i dati anagrafici del responsabile dell'imballaggio dell'etichettatura e
della distribuzione, qualora sia diverso dal titolare dell'autorizzazione, nonche'
l'indicazione del nome e della sede dello stabilimento di produzione. L’etichetta
deve inoltre contenere notazioni molto precise riguardanti il nome e la
concentrazione di ciascuna sostanza attiva presente nel prodotto fitosanitario,
(come da decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 223); i
nomi delle sostanze attive devono essere indicate secondo la nomenclatura di
cui alla legge 29 maggio 1974, n. 256, (e successive modifiche), oppure, se la
sostanza non vi figura, essa può essere indicata con il suo nome comune ISO
o, in assenza, con la sua denominazione chimica IUPAC.
L’etichetta deve essere corredata anche dai dati sul tipo di azione del prodotto
fitosanitario, il tipo di preparazione, la quantita' netta del prodotto fitosanitario,
espressa in unita' di misure legali, il numero di partita del preparato o una
indicazione che ne permetta l'identificazione.
Con Decreto del Ministro della Sanità vanno indicate le frasi di rischio (R) riferite
all'uomo, gli animali o l'ambiente (allegato IV) e le complementari frasi di
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I
sicurezza (S) per la tutela dell'uomo, degli animali o dell'ambiente (allegato V) e
le indicazioni riguardanti i primi soccorsi da prestare.
Il comune utilizzatore del prodotto deve poter comprendere dall’etichetta le
possibilità di uso del “fitofarmaco”. A tale scopo devono essere indicati “gli usi
autorizzati le condizioni agricole, fitosanitarie ed ambientali specifiche nelle
quali il prodotto fitosanitario puo' essere utilizzato o, al contrario, deve essere
escluso” (art.16, comma 1, lettera k). Sono fondamentali le istruzioni per l'uso e
la dose, espressa in unita' metriche, per ogni diverso impiego autorizzato.
I prodotti fitosanitari, seppure autorizzati, possono presentare effetti fitotossici o
effetti tossici verso l’uomo; per tal motivo va indicato in etichetta, nel caso sia
necessario, l'intervallo di sicurezza, da rispettare, tra l'applicazione e la
semina, tra l'impianto della coltura da proteggere o di quelle successive, tra
l'applicazione e l'accesso dell'uomo o degli animali, tra l'applicazione ed il
raccolto e tra l'applicazione e l'uso o il consumo dei vegetali trattati.
L’etichetta appare molto simile a quella di un farmaco ad uso umano ed in fatti
contiene la dicitura "Prima dell'uso leggere le istruzioni sul foglio illustrativo"
qualora sia allegato un foglio illustrativo, la data di scadenza in normali
condizioni di conservazione del preparato, se la durata dello stesso e' inferiore
a due anni.
Non si possono apporre sull’etichetta notazioni quali innocuo o non tossico, in
riferimento, ad esempio, all’effetto verso insetti pronubi. Nel caso di trattamento
previsto in concomitanza di periodi critici per la presenza di api e permesso
indicare sull’etichetta frasi del tipo “utilizzabile in presenza di specie non
bersaglio".
I titolari hanno il compito di adeguare gli imballaggi, le etichette fatto salvo per le
scorte di prodotti etichettati ed imballati prima dell’entrata in vigore di tale
decreto.
I controlli effettuati dal legislatore prevedono misure a breve e media scadenza.
Il controllo ufficiale dei prodotti fitosanitari viene attuato con l’adozione di piani nazionali annuali per verificare la rispondenza ai requisiti per cui i diversi
prodotti sono stati messi in commercio e la loro utilizzazione conforme alle
indicazioni annotate sull’etichetta nel rispettto delle dei principi di buone
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I
pratiche fitosanitarie e di lotta integrata. E’ compito delle regioni e delle
provincie autonome trasmettere, annualmente, i risultati ispettivi al Ministero
della sanità che deve presentare successivamente agli Stati membri e alla
Commissione europea una relazione in materia.
Il Ministero della sanità deve approntare, in accordo con il Ministero
dell’ambiente e sentito il parere della Conferenza permanente Stato-Regioni dei
piani nazionali triennali (art.17, comma 4)
In analogia con la Farmacopea Ufficiale dei farmaci destinati all’uso è stata
creata la Fitofarmacopea ufficiale. Il Ministero della sanità tramite il Servizio
Informativo Sanitario ne cura la pubblicazione. Essa comprende le monografie
delle sostanze attive autorizzati, il prontuario dei prodotti fitosanitari autorizzati e
i metodi di analisi per la verifica dei requisiti sanciti dall’articolo 4.
Il decreto stabilisce di adottare, riferendosi anche alla legge n.283 del
30/4/1962, i limiti massimi residuali definiti in sede comunitaria e qualora essi
non esistano di stabilirli, in via provvisoria con il parere della Commissione
consultiva.
5.7. - Considerazioni sulle differenti legislazioni
E’ evidente la grande differenza normativa che esiste tra Unione Europea e
USA in materia di registrazione di prodotti fitosanitari. In Europa l’obbligatorietà
di molte analisi anche quando il microrganismo sia palesemente innocuo, fa si
che le richieste di autorizzazione di prodotti fitosanitari presentate siano inferiori
di numero a quelle presentate negli USA. La laboriosità delle prove necessarie
nonché la difficoltà economica della registrazione, che in se non avrebbe tempi
di accettazione eccessivamente lunghi ha come effetto non solo la depressione
del mercato ma la comparsa di fenomeni di frode. E’ nota agli operatori
l’esistenza in commercio di prodotti non registrati come prodotti fitosanitari,
bensì come ammendanti, aventi come denominazione: "Additivi per terreni e
substrati di radicazione a base di sostanze naturali e attivanti biologici”
E’ quasi inevitabile che accada ciò, vista la grande massa critica, talora non
essenziale, che un produttore deve presentare per la registrazione. Sarebbe
22
I
quindi auspicabile una riforma della legge che presti più attenzione al singolo
prodotto, intendendo ogni prodotto fitosanitario come “unico” così da esigere un
insieme di prove ed analisi adeguate e non standardizzate come numero. Lo
stesso si potrebbe dire per gli OGM e gli MOGM, campo in cui il divario con gli
USA è ancora più ampio.
6. - PRODUZIONE e COMMERCIALIZZAZIONE
Dopo la fase di isolamento di un microrganismo e lo studio delle sue
caratteristiche utili come agente di contenimento biologico, la tappa
fondamentale per il successo di un prodotto biologico è la cosiddetta “fase
industriale”. Essa studia la formulazione del prodotto e la sua produzione su
vasta scala. Spesso si ritrovano in fase di ricerca microrganismi utili e
promettenti, ma il passaggio alla produzione e alla commercializzazione non è
sempre facile e comunque di esito non scontato. La carenza sul mercato di
prodotti microbiologici è frequentemente da ascrivere ai costi di produzione
elevati e dai margini di profitto inadeguati, se riferiti all’investimento iniziale. Per
capire le ragioni di tale fenomeno occorre analizzare gli elementi caratterizzanti
la produzione di biomasse microbiche.
6.1. - Produzione su vasta scala
In una biofabbrica i costi che più incidono sono l’acquisto dei substrati e
l’energia elettrica richiesta per far funzionare gli impianti; a questi due fattori
primari si collegano l’efficienza del processo fermentativo, collegato alle diverse
esigenze di sviluppo dei microganismi e dal punto di vista del marketing, la
ridotta economia di scala che tali prodotti per la difesa riescono a raggiungere
sul mercato.
L’approvvigionamento di substrati economici per le fermentazioni è un fattore
cruciale. Le melasse di scarto, derivate dalla lavorazione della barbabietola da
zucchero e della canna da zucchero, gli scarti derivati dalla trasformazione
industriale del mais rappresentano un materiale di partenza assai economico
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I
ma qualitativamente eterogeneo nel tempo. In questo ambito si deve ricercare il
compromesso tra economicità dei fattori produttivi e qualità costante del
prodotto finale.
La produzione in grandi fermentatori è, di solito, il mezzo più comune per la
produzione di biomasse ingenti. Si utilizzano due tipi di colture: la coltura su
mezzo liquido e quella su mezzo solido. Sono molte di più le conoscenze sulla
fermentazione in liquido che non in solido, dal momento che essa è stata il
mezzo di produzione d’elezione di attinomiceti produttori di antibiotici. Tuttavia
occorre considerare ogni microrganismo come a se' stante e con caratteristiche
di sviluppo e ed esigenze nutrizionali differenti. Non sembra corretto privilegiare
un tipo di coltura rispetto ad un altro in modo aprioristico. La coltura in liquido
necessita alla del fine processo due fasi fondamentali: la separazione
dell’inoculo dal mezzo di coltura mediante filtrazione e la fase di concentrazione
dell’inoculo tramite processi di centrifugazione e di disidratazione. Quest’ultima
può alterare la capacita funzionale del microrganismo, specie se condotta
rapidamente tramite riscaldamento. Al contrario una coltura solida non richiede
separazione dell’inoculo né la disidratazione del prodotto; il micoparassita
Sporidesmium sclerotivorum viene prodotto, di routine, con una fermentazione
solida (Ayers e Adams, 1983) e anche per Trichoderma spp. è stata messa a
punto una strategia per la coltura solida su vasta scala (Roussos et al., 1991)
Per produrre una grande quantità di biomassa si devono ricercare i valori
adeguati non solo per il microrganismo di interesse ma per lo stadio vitale
desiderato (conidio, ascospora, clamidospora, spora). La temperatura,
l’ossigenazione, il pH, l’umidità, la fonte di carbonio nel substrato, i micro-
meso- e macro-elementi del substrato devono essere considerati per
raggiungere due obiettivi tra loro contrastanti: massimizzare le rese e contenere i costi. La temperatura influenza direttamente lo sviluppo dei microrganismi,
influenzando la cinetica delle reazioni enzimatiche. Avere a disposizione un
ceppo microbico che cresca a temperature relativamente basse rappresenta un
vantaggio economico poiché fa risparmiare energia. Il pH e la fonte di carbonio
influenzano la qualità dei metaboliti secondari prodotti nel mezzo: la produzione
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I
di fenazina in P. fluorescens è altamente influenzata dalla composizione del
mezzo (Slininger e Shea-Wilbur, 1995). La necessità di ossigenare il mezzo di
coltura richiede energia per aumentare la velocità delle pale del fermentatore.
Talvolta la scarsa aerazione può' incrementare la formazione di clamidospore in
ceppi micoerbicidi di F. oxysporum (Hebbar et al., 1997).
Variare le condizioni di coltura per promuovere la formazione di strutture di
resistenza porta ad indubbi vantaggi di tipo commerciale. Un prodotto
microbiologico, infatti, richiede, oltre alle caratteristiche finali di elevato titolo,
una buona efficacia ed un’elevata stabilità commerciale (shelf life).
La vita commerciale del prodotto è tanto più elevata quanto più si
commercializzano le forme di resistenza del microrganismo. Ceppi di Fusarium
saprofiti vengono prodotti in forma di clamidospore (Hebbar et al., 1997); le
spore di Bacillus subtilis rappresentano la forma di resistenza più efficace per la
conservazione del prodotto. Talaromyces flavus presenta ascospore molto
resistenti preferibili ai conidi per la commercializzazione (Fravel et al., 1985);
alcuni batteri, come Agrobacterium radiobacter K84, sono facilmente
disidratabili (Kerr, 1980), altri, tra i batteri gram negativi, sono più difficili da
conservare, mancando di forme fisiologiche di resistenza.
6.2. - Formulazione
La formulazione di un prodotto fitosanitario è l’equivalente della forma
farmaceutica dei farmaci destinati all’uso umano che rende la sostanza attiva,
utilizzabile per le applicazioni. Spesso una corretta formulazione è il fattore
discriminante tra il successo e l’insuccesso di un prodotto. E’ pressoché inutile
avere a disposizione un microrganismo utile ed efficace se non si sono compiuti
studi adeguati sulla formulazione da adottare: il microrganismo rimane uno
strumento utile in potenza. Gli obiettivi della formulazione di prodotti fitosanitari
contenenti microganismi riguardano il mantenimento dell’efficacia, la durata
commerciale e la facilità d’uso, distribuzione completa sul sito da raggiungere,
la compatibilità con le normali pratiche agricole e i bassi costi di produzione. Un
fitofarmaco tradizionale rispetto ad un fitofarmaco microbiologico presenta
25
I
problemi peculiari che riguardano la stabilizzazione e la durata del prodotto;
spesso i produttori di formulati tendono a trascurare queste componenti rispetto
ai problemi, di più facile soluzione tecnica, di distribuzione, di assorbimento e di
sicurezza per l’operatore. Queste non devono mancare, ma dal momento che il
prodotto fitosanitario contiene microrganismi che devono svolgere una funzione
in campo diventa primario ed essenziale che essi arrivino vivi al sito di
applicazione.
Un’adeguata formulazione deve rendere stabile la sostanza attiva, sia durante
la conservazione, sia nell’esposizione agli agenti abiotici, una volta applicata
alla coltura: anche in questo caso esistono formulati specifici e più idonei al
differente utilizzo finale di un prodotto. Sono molto usate paste a base di talco,
pirofillite, kaolinite utilizzati come veicoli della sostanza attiva; altre volte sono
usati substrati veicolanti quali torba, vermiculite, lignite (Kloepper e Schroth,
1981; Vidhyasekaran et al., 1997). Gli alginati si prestano molto alla
veicolazione del microrganismo nell’ambiente ma dal momento che occorre
studiare, prodotto per prodotto, l’adatta formulazione hanno un costo finale
eccessivo. Il “Pesta” (Connick et al., 1991) è un formulato granulare che è
costituito utilizzando la tecnologia della “pasta fatta in casa”. Si prepara un in
impasto con la farina di semola e la kaolinite cui viene aggiunta la sospensione
conidica di interesse; si lavora l’impasto fino a creare una palla umida di pasta,
si tira in sfoglia e si producono degli spaghetti. Gli spaghetti seccati vengono poi
frammentati in granuli di 3-4 mm di lunghezza e 1-2 mm di diametro. Tale
formulato viene usato per prodotti micoerbicidi, per G. virens e per Trichoderma
spp. pur essendo molto efficace è molto costoso applicato a produzioni su vasta
scala, per l’elevato costo della kaolinite. Un ulteriore miglioramento verrà
apportato sostituendo la kaolinite con substrati più a buon mercato come la
bentonite. Gli amidi pregelatinizzati vengono utilizzati per formulare G. virens e
T. hamatum (Lewis et al., 1995); in tal caso l’amido viene gelatinizzato
aggiungendo 10 ml ogni 100 g di farina di mais creando delle maglie in cui
vengono intrappolati i microrganismi. Tale sistema garantisce una buona
sopravvivenza all’inoculo, è facile da produrre ed economico. I biopolimeri
sfruttano il medesimo principio degli amidi gelatinizzati per incapsulare il
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I
microrganismo (Bok et al., 1996). Alcuni formulati sono costituiti da emulsioni
invertite in cui il microrganismo è nella fa se dispersa, circondata dalla fase
continua oleosa: tale forma garantisce una buona protezione dagli UV.
Si può influire sull’efficacia di un prodotto microbiologico grazie a additivi che
alterino lo stato nutrizionale della sostanza attiva. L’azione di Trichoderma e
Gliocladium spp. è migliore se si aggiunge crusca di grano al formulato (Elad et
al., 1980; Elad e Hadar, 1981; Lewis e Papavizas, 1985). Sono noti casi, come
per T. flavus, in cui una formulazione “povera” garantisce risultati migliori
(Fravel et al., 1995) ed altri in cui una formulazione con sostanze nutritive
specifiche come additivi avvantaggiano l’antagonista sul patogeno (Chun et al.,
1997).
La durata di un prodotto è essenziale per garantire la qualità del prodotto nel
tempo. E’ importante ridurre il tenore di ossigeno nel preparato aggiungendo
delle sostanze adsorbenti l’ossigeno, o mediante formulati sotto vuoto. E’ utile
ridurre il tenore di acqua (Connick et al., 1996) così come si possono
aggiungere agenti osmoprotettori e UV protettori (Shapiro, 1992; Shapiro e
Robertson, 1992). L’abbassamento della temperatura non sembra essere la
giusta via da perseguire, dal momento che occorrerebbe creare sistemi quali
“catene del freddo” nei canali distributivi e ciò porterebbe, con tutta probabilità,
a problemi logistici specie in un sistema a basso profilo tecnologico come quello
agricolo italiano, rappresentato da una moltitudine di piccole aziende.
7. - GENERALITA’ SU Fusarium oxysporum
7.1. – Tassonomia
Il genere Fusarium rappresenta un gruppo ubiquitario ed eterogeneo di
patogeni responsabili di numerose malattie di piante, agenti di marciumi in
numerosi ospiti e di micosi in uomini ed animali (Liddell, 1991). Il genere
Fusarium è conosciuto in tutto il mondo da fitopatologi e micologi come uno dei
generi più difficili da distinguere in specie (Snyder e Hansen, 1939) per la
elevata instabilità dei caratteri morfologici e fisiologici influenzati dall’ambiente e
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I
della scarsa corrispondenza tra caratteristiche morfologiche e patogenetiche
(Goidanich, 1964).
La prima pubblicazione riguardante Fusarium risale al 1809 (Link) e da allora le
classificazione sono state molte. La prima classificazione prevedeva la divisione
delle circa mille specie di Fusarium allora conosciute, in 16 sezioni
(Wollenweber e Reinking, 1935). I criteri di classificazione usati per suddividere
le sezioni riguardano la presenza o assenza dei microconidi e la loro forma, la
presenza o assenza di clamidospore, la loro disposizione sull'ifa (intercalare o
terminale), la forma dei macroconidi e la forma della cellula basale dei
macroconidi. Inoltre in ogni sezione si distinguono: specie, varietà e forme sulla
base del colore dello stroma, dell'assenza o presenza di sclerozi, del numero di
setti nei macroconidi, e delle dimensioni dei macroconidi. Il sistema di
Wollenweber e Reinking (1935) risulta oltremodo complesso se si pensa che
vengono considerati anche le differenti modalità di crescita su differenti
substrati (pura influenza ambientale) come fattore per evidenziare differenze
significative.
Sono stati successivamente sviluppati dei sistemi tassonomici alternativi quali
quello di Gerlach e Nirenberg (1982, 78 specie), di Raillo (1950, 55 specie), di
Bilai (1955, 26 specie) e di Joffe (1974, 33 specie) di Snyder e Hansen (1940, 9
specie), Messiaen e Cassini (1968, 9 specie), Matuo (1972, 10 specie) di
Gordon (1952, 26 specie), di Booth (1971, 44 specie) e di Nelson et al. (1983,
30 specie). Attualmente si fa riferimento al sistema tassonomico proposto da
Snyder e Hansen ed illustrato da Toussoun e Nelson (1976) basato sulla
suddivisione in una decina di specie. In ogni specie la “cultivar” rappresenta
l’entità morfologicamente distinta e in ogni specie vengono raggruppate insieme
in forme speciali gli individui che hanno una capacità comune di aggredire il
medesimo ospite. Nell’ambito delle forme speciali si possono ancora
distinguere le razze fisiologiche o patotipi distinguibili per la selettività
cultivarietale.
I Fusaria, di cui sia nota la forma perfetta, appartengono alla sottodivisione
Ascomycotina e all’ordine Hypocreales. Possiedono dei periteci a parete
soffice, flessibile o membranosa, e di solito brillantemente colorata. I periteci
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I
hanno inoltre un ostiolo ben definito (Pyrenomycetes). Sono assenti vere
parafisi libere, ma parafisi apicali che crescono verso il basso dal centro sono
state osservate in varie specie nei primi stadi di sviluppo; gli aschi sono
unitunicati, tipicamente clavati e monoamiloidi; le ascospore sono di solito
mono- o trisettate. Le specie hanno spesso due stati conidici, conosciuti come
microconidi e macroconidi; le loro modalità di formazione sono prevalentemente
enteroblastiche (o fialidiche), ma i macroconidi possono essere generati anche
in modo oloblastico. Una terza forma conidica è rappresentata dalla
clamidospora: una spora tallica dalla parete poco ispessita, presente in molte
specie e avente funzione di resistenza nell’ambiente.
Nella classificazione di Wollenweber e Reinking (1935) una delle 16 divisioni è
la Elegans in cui si ritrova la specie chiamata F. oxysporum Schlect: Fr. (Snyder
e Hansen, 1939).
Il F. oxysporum è presente in natura come saprofita e come agente di fitopatie
(tracheomicosi). Tra i F. oxysporum sono state descritte più di 120 formae
speciales, ognuna delle quali è specifica per una specie vegetale. Nell’ambito
delle diverse forme speciali si distinguono numerose razze fisiologiche o
patotipi (Armstrong e Armstrong, 1981). La divisione in forme speciali e patotipi
(Snyder e Hansen, 1940) ha un origine fisiologica basata su criteri patogenetici
e non evidenzia in modo corretto i rapporti genetici tra isolati patogeni diversi.
Sono entrambe valide le teorie secondo cui un patogeno si evolva da una
precedente forma speciale patogena o da un insieme di funghi ad attività
saprofitica. In natura si possono trovare isolati che possiedono la medesima
specificità d’ospite ma distanti geneticamente; è il caso di un Fusarium
patogeno del banano che presenta molte similitudini con F. oxysporum f. sp.
lycopersici: il fenotipo virulento, che viene acquisito in maniera indipendente dai
due isolati evidenzia un’origine polifiletica. Diversamente sono noti casi in cui i
Fusaria patogeni delle cucurbitacee sembrano derivare tutti da un unico
progenitore (Gordon e Martyn, 1997). Per studiare l’origine monofiletica o
polifiletica di una forma specializzata o di una nuova razza si devono valutare i
diversi casi con metodiche differenti.
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I
La comparsa di una nuova infezione in una nuova area, o di un nuovo patotipo
(razza fisiologica), può essere spiegata con il fatto che il patogeno sia stato
introdotto o che sia generato localmente. L'introduzione, non deliberata, di un
patogeno in una nuova area è disciplinata da regole di quarantena severe che
in un momento di libero scambio come quello odierno spesso vengono
superate. Spesso, l'ampia distribuzione di un isolato patogeno è da ricondurre
alla dispersione clonale di un singolo genotipo, accidentalmente introdotto; tale
ipotesi è facilmente verificabile tramite l'analisi comparativa dei VCGs: se il
nuovo patogeno è stato introdotto accidentalmente o deriva da uno preesistente
in quell’area allora, verosimilmente, non sarà compatibile con le specie
indigene.
La seconda ipotesi, invece, trova la sua spiegazione nella derivazione da una
forma preesistente o nella selezione di un individuo proveniente dalle
popolazione di isolati non patogeni di F. oxysporum. Le analisi filogenetiche
condotte con tecniche di ibridazione dimostrano, a questo riguardo, che le varie
razze di F. oxysporum f. sp. conglutinans possono essere ricondotte ad un
comune antenato (Kistler et al., 1991). Le razze fisiologiche 1, 2 e 3 di F.
oxysporum f. sp. lycopersici, tutte appartenenti al VCG 0030 (Elias e Schneider,
1991), sottoposte ad analisi con RFLP sul DNA nucleare permettono di
confermare l'associazione al VCG 0030 e di ipotizzare una derivazione delle
diverse razze, l’una dall’altra. Per F. oxysporum f. sp. dianthi l’applicazione delle
diverse tecniche di caratterizzazione molecolare (VCG, RFLP, cariotipi
elettroforetici, distribuzione degli elementi trasponibili impala e Fot1, PCR) ha
permesso di ipotizzare l'evoluzione della razza 8 a partire dalle razza 1 per la
perdita di un fattore di avirulenza (Chiocchetti et al., 1999).
7.2. - Malattie causate da Fusarium oxysporum
Sotto il nome di tracheomicosi si annoverano malattie caratterizzate dalla
prevalente localizzazione del patogeno di natura fungina nel sistema vascolare
legnoso delle piante. Molte forme speciali di F. oxysporum sono i più comuni e
diffusi agenti di tracheomicosi delle piante (tracheofusariosi). Le forme speciali
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I
di F. oxysporum diffondono i loro propaguli per via aerea e penetrano nell'ospite
di solito attraverso il sistema radicale. F. oxysporum non presenta la forma
perfetta, ma produce tre tipi di spore asessuate: macroconidi, microconidi e
clamidospore. Queste ultime sono la forma di resistenza del patogeno che, in
presenza degli essudati radicali delle piante ospiti e delle condizioni ottimali,
rompono la quiescenza e germinano.
I sintomi tipici delle malattie vascolari includono: nanismo, appassimento,
clorosi, scolorimento vascolare, necrosi e morte della pianta. I diversi sintomi
possono comparire contemporaneamente, in successione o prevalere gli uni
sugli altri in funzione dell'ospite, del patotipo del parassita e delle condizioni
ambientali. La caratteristica più evidente e costante è l'imbrunimento
dell'apparato vascolare legnoso, che deve essere assunto come indizio
diagnostico di primo ordine. Possono essere interessate da tracheofusariosi
piante in qualsiasi stadio di sviluppo, ma sono le infezioni contratte
precocemente quelle che causano danni economici più rilevanti. Il patogeno
penetra nell'ospite attraverso le micro-ferite dell’apparato radicale, provocate da
nematodi o nelle operazioni di trapianto, i meristemi apicali e la zona di
allungamento delle giovani radici, dove la suberificazione dell'epidermide è
ancora incompleta, e la sua diffusione è di tipo intercellulare (Brandes, 1919;
Smith e Walker, 1930; Ullstrup, 1937). Durante la colonizzazione dei tessuti il
patogeno si sposta verso i vasi legnosi e una volta raggiunto l'interno del
sistema vascolare, il patogeno rimane confinato negli elementi dei vasi
xilematici, e si diffonde verticalmente nella pianta in queste cellule (Brandes,
1919; Pennypacker e Nelson, 1972; Tisdale, 1917; Ullstrupp, 1945). In un
secondo momento, il fungo penetra nelle cellule del parenchima xilematico
circostante, attraversando le punteggiature areolate sulla parete dei vasi stessi
(Pennypacker e Nelson, 1972; Phipps e Stipes, 1976). La colonizzazione del
sistema vascolare dell'ospite da parte del fungo è rapida e si osserva la
produzione di conidi liberi di muoversi nella corrente xilematica, fino a che non
incontrano i setti trasversi punteggiati, posti fra due elementi dei vasi. Non
potendo superare l’ostacolo a causa delle loro dimensioni, i conidi germinano,
superando il setto con i sottili tubuli germinativi. Oltre l’elemento xilematico il
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I
fungo produce conidiofori e conidi che vengono trasportati al setto successivo
dal flusso xilematico. Il processo di colonizzazione dell’ospite verso l’alto
procede “a salti”.
I Fusaria agenti di tracheomicosi, nel processo di colonizzazione dell'ospite
producono enzimi degradativi (Deese e Stahmann, 1962 e 1962, Gothoskar et
al., 1953 e 1952). Gli enzimi prodotti da questi patogeni sono in prevalenza di
tipo pectolitico con effetti di macerazione cellulare e di ostruzione dei vasi.
Le piante ospiti generalmente hanno approntato sistemi di difesa nei riguardi
della maggior parte delle forme speciali di F. oxysporum patogene. Sono in
grado di produrre gel, gomme e tille all’interno degli elementi dei vasi xilematici
(Pennypacker, 1981) e nelle cellule dell'epidermide, ipodermide e cortex delle
radici, la presenza del patogeno stimola l’ispessimento della parete in
corrispondenza dei punti di penetrazione, che possono evolvere in papille,
caratteristiche formazioni coniche, con base poggiante sull'interno della parete
cellulare, che crescono tra parete e plasmalemma in seguito a deposito di
calloso (ß-1,3-glucano) e di lignina attorno all'ifa del patogeno. Il deposito di gel
e gomme di natura pectica ed emicellulosica, che accompagna la
colonizzazione dello xilema, inizia dapprima a livello dei setti trasversi e
procede, quindi, sulle pareti laterali dei vasi. La produzione di tille nei vasi
legnosi da parte delle cellule parenchimatiche annesse ai vasi stessi, è un
ulteriore ostacolo alla diffusione del parassita vascolare. La loro formazione
sembra essere ospite-dipendente, ed è state rilevata solamente durante
l'infezione del banano (Beckman, 1969; Beckman e Zaroogian, 1967), melone e
patata dolce (Matta et al., 1996). Nel caso del banano la formazione delle
sostanze gelatinose incomincia dalla superficie superiore dei setti trasversi ed è
causata dall'ingrossamento degli stessi setti e della porzione terminale della
parete dei vasi.
Le gomme, le tille e le pareti dei vasi possono essere impregnate sia da
composti antibiotici, come i tannini, sia da altri composti fenolici rapidamente
ossidati in chinoni: questi ultimi, rilasciati dalle cellule associate ai vasi, rendono
i vasi impermeabili all'acqua e, frapponedosi negli spazi intercellulari,
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I
impediscono gli scambi di tossine e nutrienti tra il patogeno ed i tessuti
circostanti (Matta et al., 1996).
La formazione di gomme può dipendere da gelificazione dei prodotti di
degradazione della parete di vasi, operata dagli stessi enzimi pectolitici del
patogeno, o da enzimi della stessa pianta, attivati in risposta all'infezione. Si
ritiene che possano giocare un ruolo importante nel contenimento del patogeno
le cellule annesse ai vasi xilematici con ipertrofie, che si traducono in tilosi, con
iperplasie, in grado di delimitare e sostituire vasi o interi gruppi di vasi infetti e
tramite fenomeni degenerativi irreversibili come imbrunimenti e gommificazioni
(Matta et al., 1996).
Nella comparsa della malattia è fondamentale la velocità relativa con cui
avvengono i fenomeni di colonizzazione del patogeno e di difesa della pianta.
Se le difese sono attivate rapidamente e in modo persistente i conidi si ritrovano
in “sacche d'invasione”: gel e gomme rilevate nel garofano (Pennypacker e
Nelson, 1972), nella mimosa (Phipps e Stipes, 1976), nella patata dolce
(McClure, 1950), nel cotone (Bugbee, 1970) e nell'anguria (Nishimura, 1971),
giocano un importante ruolo nel limitare la diffusione del patogeno,
intrappolando i conidi fra gli elementi dei vasi. Tuttavia se il gel persiste
solamente per un limitato lasso di tempo, se le tille ritardano a formarsi o se non
si formano affatto, i conidi sono liberi di diffondere oltre l'occlusione vascolare, e
l'infezione si traduce in blocchi via via più estesi del trasporto xilematico
(Beckman, 1966). In virtù delle molteplici anastomosi tra vasi, che consentono il
facile aggiramento delle occlusioni, la disfunzione di una parte anche rilevante
dell'apparato vascolare del fusto non necessariamente è seguita da sintomi
esterni evidenti di appassimento e di avvizzimento. Essi diventano irrimediabili
ed evidenti quando il patogeno colonizza il sistema xilematico dei piccioli e delle
nervature fogliari, non ridondante e privo di anastomosi laterali (Matta et al.,
1996).
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I
7.3. - Tecniche di lotta contro le fusariosi
Le tracheomicosi ad opera di F. oxysporum arrecano danni gravi, legati
all’avvizzimento della porzione epigea della pianta, in numerosissime colture,
tra cui basilico, garofano e ciclamino. Le principali strategie di lotta alle
tracheofusariosi prevedono l’uso di fungicidi sistemici quali i benzimidazoli
(Garibaldi et al., 1986). Tale approccio porta a due tipologie di problemi che ne
limitano l’efficacia: i residui, dannosi per l’ambiente, e l’insorgenza di ceppi
resistenti, come peraltro già evidenziato per Botrytis cinerea su di versi ospiti
(Gullino e Garibaldi, 1987), a causa della specificità del meccanismo d’azione di
questi fungicidi. La fumigazione con il bromuro di metile è il mezzo più utilizzato
per l’eradicazione dei patogeni agenti di tracheomicosi e malattie telluriche
fungine. Il Protocollo di Montreal e le sue successive modificazioni recepite
dall’UE, in materia di limitazioni di impiego, hanno sancito l’anno 2005 come
data ultima, nei paesi industrializzati, per attuare l’eliminazione di tale pratica,
dannosa per lo strato di ozono atmosferico (Garibaldi e Gullino, 1995; Ristaino
e Thomas, 1997). La solarizzazione o pacciamatura riscaldante del terreno è
stata messa a punto nel 1976 in Israele (Katan, 1987). Essa si basa sul
riscaldamento del terreno nei periodi più caldi, mediante copertura con un film
plastico trasparente, così da raggiungere temperature letali per i parassiti. L’uso
della resistenza genetica (verticale e orizzontale) rappresenta lo strumento più
sicuro ed economico. Esso si basa sull’impiego di cultivar resistenti in cui il
patogeno non si insedia o non riesce a completare il ciclo di patogenicità
(Johnson, 1992).
I mezzi biologici rappresentano un ausilio, in una logica di lotta integrata, per il
contenimento delle malattie. Gli agenti di tracheofusariosi possono essere
limitati sfruttando il fenomeno naturale dei terreni repressivi. Tali fenomeni di
repressività, verso patogeni diversi, sono naturalmente presenti in terreni italiani
(Garibaldi et al., 1980) e in terreni francesi (Alabouvette et al., 1980).
L’attività antagonistica di isolati antagonisti è stata dapprima riprodotta in vitro,
con l’isolamento degli agenti antagonisti (Callegarin e Cugudda, 1983) e poi
saggiata in vaso dando risultati incoraggianti (Garibaldi et al., 1985). E’ ormai
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I
noto che trattamenti come la concia dei semi con Fusarium spp. antagonisti o
l’applicazione, al trapianto, a livello dell’apparato radicale di preparati a base di
clamidospore di Fusarium spp. serva per contenere, entro le soglie di danno, le
fusariosi vascolari (Minuto et al., 1997). Studi sul contenimento delle formae
speciales dianthi (Garibaldi et al., 1985), cyclaminis (Minuto et al.,1995) e
basilici (Minuto et al., 1997) di F. oxysporum sono stati compiuti dando risultati
soddisfacenti, se pure non paragonabili a quelli ottenuti con la lotta chimica. Le
strategie future sono comunque proiettate verso l’applicazione e della lotta
biologica integrandola con le altre risorse di difesa delle colture.
8. - CARATTERIZZAZIONE DI Fusarium spp. ANTAGONISti L’identificazione univoca di un microrganismo al fine di differenziarlo da altri è
una condizione essenziale per la registrazione, per la brevettazione e per
poterne seguire il destino una volta rilasciato nell’ambiente. Le tecniche
utilizzabili sono molte e, per essere efficaci ed efficienti, devono rispondere ai
requisiti di: economicità, rapidità di esecuzione e la facilità di esecuzione. Tra i
metodi utilizzati in diagnostica fitopatologica e in particolare per l’analisi dei
Fusarium spp. saprofiti sono state sviluppate: l’analisi dei gruppi di compatibilità
vegetativa, l’analisi di proteine, l’analisi isoenzimatica, la sierodiagnosi e l’analisi
degli acidi nucleici.
I Fusarium spp. possono essere suddivisibili in gruppi di compatibilità vegetativa
(VCG). La compatibilità vegetativa è la capacità dei funghi di formare
eterocarion, in seguito ad anastomosi ifale. La base genetica è normalmente
monogenica poliallelica o regolata da più loci (Leslie, 1993). Il fenomeno della
compatibilità si verifica, tra due funghi se possiedono i medesimi alleli vic
(vegetative incompatibility).
Per identificare i diversi VCG è possibile usare la diretta identificazione della
formazione dell'eterocarion tramite la complementazione fra marcatori auxotrofi,
ovvero si può verificare l’incapacità formare l'eterocarion, grazie alla formazione
di linee di "barrage" o verificando modalità di crescita caratteristiche di isolati
35
I
parzialmente diploidi ed eterozigoti per uno o più loci vic. Nel primo caso isolati
auxotrofi, compatibili, formano un eterocarion prototrofico. Se gli isolati
appartengono a VCG differenti, non si avrà crescita prototrofica. In genere, si
usano mutanti nit spontanei isolati su substrato a base di clorato. Tale tecnica si
è rivelata particolarmente efficiente per la caratterizzazione del genere
Fusarium. Al contrario, si può utilizzare il “barrage” come criterio di
individuazione di non appartenenza ad uno specifico VCG. La metodica
prevede l’accrescimento in piastra di funghi appartenenti a VCG diversi e la
formazione di una linea di demarcazione tra i due miceli, in cui le ife, nel punto
di contatto delle due colonie, crescono una all'interno dell'altra. La comparsa del
fenomeno richiede comunque la fusione ifale, e nella zona interessata al
fenomeno ci saranno tracce della fusione “letale”. Il "barrage" consiste quindi in
una zona centrale di contatto fra ife contenente cellule morte o morenti; si può
evidenziare una linea di pigmento che si deposita in tale zona (Newhouse e
MacDonald, 1991).
La determinazione di parentela tra isolati esclusivamente tramite VCG si presta
ad errori se non viene affiancata da altre analisi. Spesso si è evidenziato che
due isolati non sono chiaramente collocabili in un VCG se questi non sono
identici. Sono stati fatti studi complementari affiancando i VCG ad analisi
biometriche (Butcher et al., 1972) a marker molecolari (Bosland e Williams,
1987; Rosewich et al., 1999). Si è quindi evidenziato che isolati appartenenti
allo stesso VCG tendono ad essere più simili fra loro di altri, appartenenti a
VCG differenti.
Nell’ambito della specie F. oxysporum sono state distinte 122 formae speciales
e per ognuna diverse razze (patotipi) in base alla capacità di infettare diverse
specie di piante. Affiancate alle formae speciales, ne esistono molte, non
patogenetiche, che non sono in grado di causare fitopatie; si tratta in genere di
isolati saprofiti, oppure di formae speciales avirulente, o isolati scarsamente
patogeni (Gordon e Okamoto, 1992; Gordon e Martyn 1997).
Se per gli isolati patogeni si riscontra una grandissima variabilità per differenza
di ospite, lo stesso non si verifica per gli isolati saprofiti difficilmente distinguibili
su base morfologica. Per quanto riguarda i VCG i Fusarium spp. saprofiti
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I
possono essere considerati entità microbiche ecologicamente distinte in cui la
differenziazione con i VCGs sostituisce, per mancanza di specificità d’ospite il
criterio di distinzione basato sulle formae speciales. Isolati non patogeni di F.
oxysporum, colonizzanti le radici del sedano, appartengono a soli due VCG
principali (Correll et al., 1986). In base all’analisi correlata tra capacità
patogenetica e VCG si è ipotizzato che: isolati patogeni vegetativamente
compatibili possano avere un’origine monofiletica, anche se provenienti da aree
geografiche distinte e, di contro, che isolati con capacità patogeniche simili
appartenenti a VCG diversi possano avere un’origine polifiletica, cioè si siano
evoluti indipendentemente l’uno dall’altro. E' questo il caso, ad esempio, della f.
sp. dianthi, per la quale sono stati individuati ben 6 VCG diversi, tutti patogeni
su garofano (Baayen et al., 1997). L’applicazione dei VCG e l’analisi dei relativi
loci vic hanno dei risvolti negli studi di popolazione e servono come strumento
ausiliario dell’analisi molecolare. L’ipotesi di studio che sta alla base della
validazione dei VCG come strumento diagnostico riguarda l’evidenza che isolati
dello stesso gruppo di patogenicità, forma speciale, razza appartengano ad uno
o pochi VCG. Utilizzati come strumento unico possono non essere
completamente esaustivi, ma affiancati a studi di variabilità genetica con
marcatori RFLP o RAPD possono concorrere a precisare le correlazioni tra
patogenicità e filogenesi (Correll, 1991).
8.1.- Analisi delle proteine
L’analisi delle componenti biochimiche di organismi fungini è stata all’inizio
condotta sulla matrice proteica per evidenziare differenze specifiche e
subspecifiche considerando che isolati fungini coltivati in vitro producono, in
condizioni standard e in assenza di stress, le medesime proteine, a meno della
variabilità indotta a livello somaclonale. Le analisi vengono fatte normalmente
sulle proteine totali e sulle diverse frazioni proteiche presenti nei diversi
scomparti cellulari e nei diversi ambiti analizzare proteine strutturali o funzionali
(Hawksworth, 1988). L’analisi delle proteine procede per fasi distinte
riassumibili in a) concentrazione del campione fungino di partenza, b) lisi del
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I
materiale meccanica e mediante detergenti, c) separazione delle diverse
componenti proteiche, d) separazione elettroforetica o mediante diversi tipi di
cromatografie, e) colorazione e confronto.
a) Normalmente è bene partire da micelio liofilizzato e sminuzzato per avere
una buona quantità di materiale su cui lavorare.
b) Si procede alla lisi in presenza di detergenti SDS e mediante l’aggiunta di
inibitori di proteasi come la pepstatina, l’aprotinina e la leupeptina.
c) Si effettua una prima separazione precipitando con soluzioni saline le
proteine dalle altre frazioni cellulari (membrane, pareti etc.).
d) Si carica su matrici di composizione opportuna a seconda dello scopo il
campione proteico e lo si separa in base alla carica, al pH, al peso molecolare.
e) Si colora con coloranti come il Blue Coomassie, il nitrato d’argento o si
evidenziano le proteine con reazioni immuno-colorimetriche.
Le tappe cruciali una volta ottenuto l’estratto proteico sono quelle di
separazione.
La cromatografia è stata storicamente la prima tecnica di separazione di
macromolecole anche se inizialmente veniva utilizzata per separare i pigmenti,
di natura saccaridica, estratti dai vegetali.
Esistono parecchi tipi di cromatografie ed esse sono divisibili, sulla base dei
diversi principi di separazione e sulla base dei diversi supporti. Si può utilizzare
il principio della ripartizione delle molecole in diversi solventi (polari, apolari) tra
queste si possono utilizzare supporti quali la carta o matrici composte da gel di
silice su strato sottile (TLC). Ma è possibile sfruttare i principi della
cromatografia a scambio ionico e di affinità. Normalmente le matrici per questi
due tipi di separazione vengono impaccate all’interno di colonne di
cromatografia.
Nella cromatografia su carta la fase stazionaria liquida è legata alle fibre di
cellulosa di un foglio di carta, la fase mobile passa sul foglio di carta per gravità
oppure per capillarità (Lehninger et al., 1979). ll foglio è fatto permeare, a
partire da un bordo, da una miscela di solventi ed al passaggio del liquido, le
molecole del campione proteico si separano secondo la loro solubilità relativa
nei solventi. E' una delle forme più vecchie di cromatografia e attualmente viene
38
I
utilizzata in biochimica per dimostrare i principi cromatografici più che per vere
applicazioni.
Nella cromatografia su strato sottile la fase stazionaria, legata ad una matrice
adatta, si trova stratificata su una superficie di vetro, plastica o metallo e la fase
mobile liquida passa, per capillarità, sul sottile strato di materiale in posizione
orizzontale o verticale. Questo metodo ha il vantaggio di poter analizzare
simultaneamente più campioni.
Nella cromatografia su colonna, la fase stazionaria è attaccata ad una matrice
adatta (un supporto inerte ed insolubile), impaccata all'interno di una colonna di
vetro o di metallo, e la fase mobile viene fatta passare nella colonna per gravità,
tramite un sistema di pompe, oppure applicando gas sotto pressione. E' il
metodo cromatografico più usato.
Le diverse proteine sono in questo caso ritardate in base alle loro interazioni
con la matrice. Possono essere usati diversi principi in base alla matrice scelta,
le proteine possono essere separate in base alla carica (cromatografia a
scambio ionico), alle dimensioni (cromatografia su gel) e alle loro capacità di
legarsi a gruppi chimici particolari (cromatografia per affinità; Dean et al., 1985).
Il limite delle cromatografia era la risoluzione ma oggi, grazie anche ai nuovi
materiali disponibili, è possibile ottenere alte risoluzioni usando l’HPLC
(cromatografia liquida ad alte prestazioni; Gilbert, 1987). Si utilizzano per la
ripartizione del campione elevate forze di pressione ottenute da pompe. Le
colonne sono di metallo così da resistere alla forze di pressione usate per
risolvere i campioni. Rispetto alla cromatografia convenzionale presenta indubbi
vantaggi, oltre che in risoluzione anche nei tempi di analisi, dal momento che la
pressione velocizza il processo di separazione. Oltre alla cromatografia le
proteine possono essere separate e analizzate mediante l’elettroforesi. Questa
metodica sfrutta la differente mobilità delle macromolecole all’interno di un
campo elettrico.
La tecnica elettroforetica più utilizzata per analizzare le proteine è l’SDS-PAGE
(Hames e Rickwood, 1981). La matrice in cui avviene la separazione è un gel di
poliacrilammide, derivato dalla polimerizzazione in presenza di catalizzatori di
acrilammide e bis-acrilammide. Questo tipo di gel agisce come un setaccio
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I
molecolare, rallentando la migrazione delle proteine proporzionalmente alla loro
massa molecolare (Lehninger et al., 1979). I campioni proteici sono di norma
preparati in un tampone contenente SDS (sodio-dodecil solfato) e β-
mercaptoetanolo; il primo è un detergente capace di legarsi alle porzioni
idrofobiche delle proteine in maniera proporzionale alla massa, in un rapporto di
una molecola di SDS ogni due aminoacidi. Tale legame conferisce una carica
netta negativa alla proteina rendendo trascurabile la carica propria della
proteina. Il β-mercaptoetanolo è un agente riducente in grado di scindere tutti i
legami S-S, intra e inter-molecolari. L’SDS e il β-mercaptoetanolo
contribuiscono a denaturare le proteine alterandone la conformazione nativa. In
definitiva le proteine, tutte cariche allo stesso modo e linearizzate migreranno,
poste in un campo elettrico, solo in base alla differenza di peso molecolare e
verso l’anodo.
Il risultato è la separazione in bande nette del campione proteico. Le proteine
principali sono visualizzate tramite la colorazione con blu di Coomassie, mentre
le proteine meno rappresentate vengono evidenziate con il nitrato d’argento
(silver staining), che permette di visualizzare una banda contenente soltanto 10
ng di proteina. E’ possibile in tal modo confrontare i profili proteici di isolati
fungini diversi e discriminarli sulla base della presenza differenziale di proteine
specifiche.
Possono emergere profili identificativi di una specie e si possono valutare
affinità e differenze a fini tassonomici e diagnostici.
L’analisi fine delle proteine può essere migliorata purificando mediante
immunoprecipitazione con anticorpi (monoclonali o policlonali). Si effettua,
quindi, un SDS-PAGE il trasferimento su una membrana di nitrocellulosa
(Western blot) e si rileva con sistemi di chemioluminescenza. Tale metodologia
è usata di routine in ricerca di base quando si vuole studiare una proteina e le
sue associazioni con altre all’interno della cellula. Essa presuppone la
produzione a monte di un antisiero di tipo policlonale. E’ una tecnica che
richiede qualche giorno di tempo e come tale non utilizzabile per analisi
diagnostiche massali.
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I
Le prime applicazioni dell'analisi elettroforetica delle proteine miceliari per
l'identificazione di funghi risalgono agli anni '60. Clare (1963) analizzò gli estratti
miceliari di sei specie di Pythium dimostrando che ciascuna di esse aveva un
profilo proteico caratteristico. Lo stesso metodo fu usato per distinguere isolati
di Phytophthora cinnamomi, P. citrophthora e P. palmivora e si evidenziò isolati
diversi della stessa specie mostravano profili identici o simili tra loro,
indipendentemente dell'area geografica o dall'ospite di provenienza (Clare e
Zentmyer, 1966).
La analisi esterasica dei medesimi profili elettroforetici su P. cinnamomi, P.
citrophthora e P. palmivora, confermati essere molto simili, dimostrò un'elevata
variabilità intraspecifica (Hall et al., 1969).
Sono stati eseguiti numerosi studi comparativi su organismi dello stesso genere
o di generi strettamente correlati sulle proteine ribosomali (Adouvette-Panvier et
al., 1980; Delaunay et al., 1973; Gotz e Arnold, 1980), dimostrando che,
generalmente le proteine strutturali presentano un alto grado di conservazione
(Delaunay et al., 1973).
Numerosi estratti ribosomiali di specie di Fusarium sono stati sottoposti a SDS-
PAGE, evidenziando la presenza di circa 40 bande distinte per ogni estratto
proteico ribosomiale (Partridge, 1991). I ribosomi eucarioti, oltre gli acidi
ribonucleici, sono costituiti da 70 proteine strutturali, alcune con diversi gradi di
fosforilazione. Tali dati hanno permesso di concludere che esistono proteine
apparentemente comuni a tutte le specie di Fusarium e che un numero
maggiore di bande in comune è rilevabile in quelle specie che presentano fasi
sessualmente compatibili. La ricerca di proteine specifiche utili ai fini diagnostici
ha dato esiti positivi in F. moniliforme. dove è stato possibile caratterizzare
proteine ribosomiali specifiche (Marshall e Partridge, 1981).
L’analisi di proteine solo sulla base del peso molecolare non sempre permette
di evidenziare differenze utili ai fini diagnostici. L’analisi di proteine funzionali di
tipo isoenzimatico ha permesso di superare controversie tassonomiche, si è
rivelata utile per l’identificazione di patogeni, per analizzare la variabilità
genetica di popolazioni o la segregazione di loci genetici, in studi epidemiologici
41
I
per monitorare la diffusione dei patogeni ed identificarne la condizione nucleare
o il livello di ploidia (Burdon e Marshall, 1983; Tooley et al., 1989)
Gli isoenzimi sono proteine con identica funzione enzimatica, ma aventi
struttura primaria differente perché codificate da alleli diversi di uno stesso
locus (allozimi), da loci genetici diversi che controllano la produzione dello
stesso enzima, oppure in seguito a modifiche post trasduzionali. Le differenze
nella struttura primaria si riflettono sulla struttura secondaria, terziaria e
quaternaria e possono essere sfruttate per discriminare sulla base della carica
e dimensione i diversi isoenzimi.
Il profilo elettroforetico di molti isoenzimi per campione definisce una “impronta
digitale” (fingerprint) e la differenziazione di un organismo da un altro si basa,
sul confronto dei fingerprint ottenuti (Micales et al., 1986). Si può esemplificare
considerando che, nell’analisi isoenzimatica, la funzione catalitica, per ogni
enzima considerato, sia la “costante” mentre la struttura sia la “variabile”. Sulla
base di differenze strutturali, direttamente correlata con la sequenza genica, si
riesce a collocare un individuo “incognito” in una specie, di cui siano noti il
fingerprint isoenzimatici.
L'analisi isoenzimatica si è rivelata utile per confermare l'appartenenza di isolati
di F. oxysporum f.sp. lycopersici (Elias e Schneider, 1992) e per isolati di F.
oxysporum f.sp. conglutinans (Bosland e Williams, 1987) a determinati gruppi di
compatibilità vegetativa. In studi tassonomici gli isoenzimi sono stati usati per
caratterizzare isolati delle razze 0, 1 e 2 di F. oxysporum f.sp. niveum, isolati di
F. oxysporum f.sp. cucumerinum, isolati di F. oxysporum f.sp. vasinfectum e F.
solani. Gli enzimi utilizzati sono stati: glucosio-6-fosfato deidrogenasi, shikimato
deidrogenasi, esterasi e fosfoglucosio isomerasi, (Biles e Martyn, 1988).
L’analisi dei profili delle α−esterasi e della β-D-glucosilasi è stata utilizzata per
diagnosticare la presenza di infezioni di Fusarium ff.spp. in piante di ciclamino e
garofano, (Kerssies et al., 1994). La aril esterasi è stata usata per, distinguere
le razze fisiologiche di F. oxysporum f.sp. dianthi (Granada et al., 1999)
42
I
8.2. – Sierodiagnosi La sierodiagnosi è una tecnica diagnostica che prevede l’accertamento della
presenza/assenza in un campione di analisi di un patogeno, in base alla
reazione di riconoscimento antigene-anticorpo.
L’anticorpo è una proteina con peso molecolare di circa 200 kD, chiamata
immunoglobulina. Le Ig utilizzate in ricerca e a scopo diagnostico sono le IgG.
Esse sono tetrameri omodimerici formati da due catene pesanti tra loro
collegate da due ponti disolfuro e due catene leggere legate ognuna ad una
catena pesante con un ponte disolfuro.
L’antigene (“anticorpo-generatore”) è una molecola che può avere
composizione chimica molto variabile e che è in grado, se inoculata in un
organismo dotato di sistema immunitario (uomo e animali), di stimolare una
reazione di tipo immunitario che sfocia nella produzione massiva da parte dei
linfociti B di IgG. Gli anticorpi hanno la caratteristica peculiare di legarsi in modo
specifico con alta affinità di legame agli antigeni che li hanno indotti. Questa
peculiarità che viene utilizzata per riconoscere determinanti specifici dei
patogeni al fine di evidenziarli.
La sierodiagnosi presenta diversi vantaggi: il basso costo, la rapidità di
esecuzione, la specificità delle reazioni e l'assenza di rischi biologici. Tra gli
svantaggi ci sono: la difficoltà, in alcuni casi, di produrre antisieri di buona
qualità, la sensibilità non sempre paragonabile a quella di altre metodiche e la
necessità di decidere ancor prima di effettuare la prova quale patogeno cercare
e di dover disporre a priori, di numerosi anticorpi diversi (Matta et al., 1996).
Gli anticorpi contro microrganismi vengono prodotti iniettando estratti fungini in
sistemi animali (topo, ratto, coniglio, gallina), con richiami ogni settimana per un
periodo di un mese, (periodo variabile nei diversi animali). Al termine di tale
trattamento si preleva il sangue, si purifica separa il siero mediante
coagulazione e si utilizza “crudo” o si sottopone a purificazione mediante
matrice cromatografica. Il siero così ottenuto è detto policlonale perché gli
anticorpi in esso contenuti riconoscono molteplici epitopi dell’antigene ed epitopi
di molecole non di interesse. Questo grado di aspecificità è stato superato
migliorando la qualità e la specificità dell’antigene utilizzato per l’inoculo; sono
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I
stati utilizzati.precipitati proteici o estratti miceliari delle colture fungine (Gleason
et al., 1987; Gerik et al., 1987; Barker e Pitt, 1987; Mohan, 1988), sono stati
approntati antisieri contro specifiche frazioni del fungo, rappresentate da bande
specie specifiche evidenziate tramite SDS-PAGE (Poupard et al., 1991;
Sundaram et al., 1991) o da carboidrati solubili (Notermans et al., 1987;
Notermans e Kamphuis, 1990; Newton e Reglinski, 1993). La scarsa uniformità
e costanza qualitativa tra antisieri policlonali preparati a partire dallo stesso tipo
di antigene ma purificato in momenti diversi rende i risultati di una sierodiagnosi
non sempre ripetibili. Questo inconveniente può essere superato con l’adozione
di sieri monoclonali. Un antisiero è l’insieme di molecole anticorpali derivate da
diversi linfociti B. La tecnica messa a punto da Kohler e Milstein (1975) ha
permesso di ottenere ibridomi, cioè linee cellulari clonali produttrici di un singolo
anticorpo specifico. Tale metodica si avvale della fusione mediata da
polietilenglicole di linfocita B con cellule di plasmacitoma di topo mutate per la
via di salvataggio dei nucleotidi incapaci di crescere su terreno HAT (ipoxantina,
aminopterina, timidina). I linfociti B non si moltiplicano in vitro in maniera
indefinita ma sopravvivono nel terreno HAT, le cellule di mieloma si moltiplicano
indefinitamente ma non sopravvivono in terreno HAT. Gli ibridomi ottenuti con la
fusione sopravvivono su terreno HAT e si moltiplicano a dismisura. Occorre poi
selezionare, previa diluizione limite, in presenza dell’antigene il clone desiderato
utilizzando il sistema ELISA in micropiastra.
Gli ibridomi ottenuti sono propagabili come cloni individuali, ciascuno dei quali
in grado di produttore in maniera stabile e permanente un singolo tipo di
anticorpo per un unico antigene. La specificità degli anticorpi monoclonali li
rende molto più utili degli antisieri convenzionali per la maggior parte degli
scopi. Le prove sierologiche, eseguite con anticorpi monoclonali, possono
essere usate sia per diagnosi di tipo massale sia per discriminare in modo fine
sulla base di differenze proteiche intraspecifiche o tra sottospecie (Dewey e
Thornton, 1995; Dewey, 1992).
Sono state messe a punto molte tecniche usando il principio del riconoscimento
antigene-anticorpo. Tra le più datate vi sono i saggi di precipitazione o
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I
agglutinazione che sono però stati messi a punto in patologia vegetale in un
secondo momento rispetto al campo medico.
Nella precipitazione gli anticorpi e gli antigeni, si legano e formano aggregati,
dando luogo ad un precipitato opalescente, visibile ad occhio nudo.
Per l'identificazione di ceppi di Aspergillus e Penicillium, sono state utilizzate
sferette di lattice sensibilizzate, adsorbite con anticorpi specifici per
polisaccaridi fungini extracellulari (Notermans e Kamphuis, 1990).
L'immunomicroscopia e l’analisi immunoenzimatica sono più recenti della
precipitazione e più utilizzate in diagnostica fitopatologica.
L’immunomicroscopia si avvale dell’uso di anticorpi per localizzare un patogeno
nei tessuti di una pianta colpita. Si può applicare alla microscopia ottica e a
quella elettronica.
Si deve disporre di anticorpi coniugati molecole fluorescenti, quali la
fluoresceina isotiocianato o la rodamina isotiocianato (Brayton e Colwel, 1987),
o coniugati con particelle, come sfere di oro colloidale opache agli elettroni.
Utilizzando l'immunofluorescenza, si è riusciti a distinguere clamidospore,
conidi e frammenti miceliari della razza 4 di F. oxysporum f.sp. cubense da
quelli prodotti dalla razze 1 e 2 (Wong et al., 1988).
Il limite delle tecniche immunologiche e legata all’interazione stechiometrica di
un anticorpo con un epitopo dell’antigene. Spesso il riconoscimento avviene ma
non è rilevabile: la metodologia presenta una scarsa sensibilità.
L’avvento delle tecniche immunoenzimatiche ha aumentato molto la sensibilità
dello strumento sierodiagnostico. Si utilizza un anticorpo secondario, coniugato
con un enzima, che riconosca la porzione costante (Fc) dell'anticorpo primario
usato per riconoscere l’antigene. La reazione immunologica è rivelata da una
reazione enzimatica, associata alla prima. Viene comunemente utilizzato
l'enzima fosfatasi alcalina che, in presenza di appropriati reagenti, produce
fosfato inorganico e porta alla formazione locale di un precipitato colorato. Il
precipitato rivela la posizione dell'anticorpo secondario accoppiato all'enzima e,
quindi, la posizione del complesso antigene-anticorpo a cui l'anticorpo
secondario è complessato. L’amplificazione del riconoscimento è dovuto alla
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I
caratteristica dell’enzima che agendo cataliticamente genera un eccesso di
prodotto visibile.
Il test ELISA (enzyme linked immunosorbent assay) è stata la tecnica originale.
Essa prevedeva l’assorbimento dell’antigene su un supporto e la sua
rivelazione con il sistema dell’anticorpo primario e del secondario coniugato.
Sono state successivamente sviluppate varianti più efficienti.
Uno dei metodi più usati è il DAS-ELISA (double antibody sandwich - enzyme
linked immunosorbent assay), che utilizza l’anticorpo primario adsorbito su una
micropiastra per legare nel pozzetto l’antigene (se presente) e il sistema
primario-secondario per la rivelazione (Vruggink e Van Vuurde, 1990). L’uso
delle micropiastre permette un’analisi dei dati mediante colorimetri e
l’elaborazione con software adeguati agevola nel caso di prove con molti
campioni
I primi anticorpi monoclonali prodotti nei confronti di spore di F. oxysporum non
permettevano di distinguere specifiche formae speciales o razze fisiologiche
(Iannelli et al.,1983). Grazie alla tecnica della tolleranza immunologica
successivamente gli stessi ricercatori produssero un antisiero capace di
distinguere, tramite ELISA, isolati di F. oxysporum f.sp. lycopersici da isolati di
F. oxysporum f.sp. dianthi (Del Sorbo, 1993). Sono stati messi a punto due
saggi, uno per il riconoscimento specifico di F. oxysporum f.sp. cucumerinum
ed un altro per tutte le specie di Fusarium (Kitagawa et al., 1989). Un’altra
applicazione dell’ELISA è stata messa a punto sviluppando un antisiero verso
F. culmorum che riconosce tutte le specie di Fusarium ma non reagisce con
altre patogeni del colletto e può essere usato per determinare la biomassa
totale delle specie di Fusarium che attaccano la regione basale dello stelo
(Beyer et al., 1993)
Il DIBA (dot immunobinding assay) è un saggio derivato dall’ELISA. Si
utilizzano membrane di nitrocellulosa come matrice adsorbente su cui si
pongono gocce dei campioni estratti. Gli antigeni contenuti nei campioni si
legano all’anticorpo legato alla matrice. Per la rivelazione si utilizzano reazioni
enzimatiche che dopo l’idrolisi di substrati opportuni liberano prodotti insolubili,
solo nei campioni positivi (Alberts et al., 1995). Arie et al. (1993) ha messo a
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I
punto un metodo che combina la coltura fungina con i saggi immunologici per
l'identificazione dei patogeni nel terreno. Una membrana viene posta sul
substrato nutritivo contenuto in una capsula Petri, quindi viene cosparsa da una
diluizione del campione di terreno. Dopo 20 ore, si recupera la membrana che
viene sottoposta messa in contatto con l'anticorpo specifico. I propaguli dei
funghi che si sono sviluppati durante l'incubazione hanno rilasciato gli antigeni
che si sono fissati alla membrana, e possono così essere rilevati. Questa
metodica di rilevamento indiretto è stata utilizzata per rilevare F. oxysporum
f.sp. narcissi (Dewey e Thornton, 1995) e altre specie di Fusarium (Arie et al.,
1993)
8.3. - Analisi degli acidi nucleici Le metodiche descritte sino ad ora hanno l’obiettivo di evidenziare differenze tra
due o più individui per lo studio filogenetico o per l’identificazione del
microrganismo coinvolto nell’infezione e quindi presente in un determinato
campione.
La fonte di biodiversità è per definizione il DNA e tutte le tecniche diagnostiche
viste fino ad ora si basavano sull’interpretazione di differenze fenotipiche
collegate in ultima analisi a differenze intrinseche del genoma. E’ evidente che
disporre di metodologie di indagine che scrutino la “fonte di informazione”
permette di fare delle analisi più precise e maggiormente esaustive. L’analisi
degli acidi nucleici, di fatto, incominciò il suo corso nel 1944, quando Avery e i
suoi collaboratori individuarono nel DNA il materiale genetico universale e
definitivamente quando Watson e Crick scoprirono la sua struttura
tridimensionale. Da quelle prime analisi, l’indagine del DNA ha avuto
innumerevoli evoluzioni ed è entrato in modo innovativo in ogni settore della
ricerca. La diagnostica fitopatologica, con un certo ritardo, si è adeguata
adottando le moderne tecniche molecolari con rapidità crescente e
affiancandole alle tecniche già di uso corrente.
I vantaggi della diagnostica mediante analisi degli acidi nucleici risiedono nelle
caratteristiche di elevata sensibilità, specificità, nella rapidità relativa di
esecuzione e nella capacità predittiva precoce. Gli svantaggi sono legati
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I
fondamentalmente ai costi di sviluppo delle tecniche al settore di interesse e la
mancanza di sistemi diagnostici applicabili in condizioni di campo. In un settore
come la difesa delle colture queste qualità hanno un importanza superiore agli
altri settori perché ci si trova ad operare in un ambiente fortemente condizionato
da agenti interferenti (biotici ed abiotici), in cui la disponibilità finanziaria è
spesso limitata e in cui la conoscenza tecnica media degli operatori agricoli
spesso non è sufficiente. La ricerca e l’evoluzione delle tecniche molecolari sta
progressivamente orientandosi verso la soddisfazione dei criteri ottimali di
riduzione dei costi e facilità d’uso.
Di seguito verranno considerati i principali sistemi di diagnosi fitopatologica
basati sugli acidi nucleici e le loro applicazioni per il riconoscimento di funghi
fitopatogeni.
8.3.1. - Cariotipizzazione elettroforetica L’analisi del cariotipo negli organismi fungini è possibile tramite lo studio al
microscopio ma è tecnicamente complessa per le piccole dimensioni dei
cromosomi. La mappatura genica è possibile ma presenta dei problemi legati
alla disponibilità di marcatori molecolari adeguati allo studio con incroci e
ricombinazione parasessuale (Skinner et al., 1991).
Tuttavia oggi sono disponibili tecniche per l’analisi del cariotipo basate sulla
separazione elettroforetica dei cromosomi. L’elettroforesi in campo pulsato
(PFGE: Pulsed Field Gel Electrophoresis) hanno aperto nuove prospettive per
l'analisi genetica dei microrganismi. Uno dei problemi principali, superato con il
PFGE, è stata la separazione di macromolecole (cromosomi) di dimensioni
variabili da circa 100 kb a oltre 10 Mb, non separabili in un campo elettrico
unidirezionale, in quanto la loro velocità non è più proporzionale alla lunghezza.
Le notevoli dimensioni delle molecole, inoltre, non ne consentono la migrazione
elettroforetica attraverso pori molecolari del gel di agarosio. Con l'elettroforesi in
campo pulsato si riescono a separare le macromolecole sottoponendole a
campi elettrici che si alternano in due o più direzioni (Vollrath e Davis, 1987).
Poiché, in un campo elettrico, il tempo necessario per una molecola per
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I
cambiare il suo orientamento spaziale in seguito è proporzionale alla sua
dimensione è possibile, separare molecole di diversa dimensione variando
l'intensità di campo la concentrazione di agarosio, il numero di vettori che si
alternano, l'angolo tra essi compreso, ed altre variabili (Mills e McCluskey,
1990).
Le evoluzioni tecniche del PFGE hanno dato origine all OFAGE (Orthogonal
Field Alternation Gel Electrophoresis) di Carle e Olson (1985), alla FIGE (Field
Inversion Gel Electrophoresis) di Carle et al. (1986) ed alla TAFE (Tranverse
Alternating Field Electrophoresis) di Gardiner et al. (1986). La tecnica, derivata,
più utilizzata per l’analisi elettroforetica del cariotipo è il CHEF (Contour-
clamped Homogenous Electric Field; Chu et al. 1986) che, utilizza 24 elettrodi
disposti attorno al gel di agarosio a formare un esagono. Tale tecnica di
migrazione permette la risoluzione delle grandi molecole cromosomiche
variando l'orientamento dell'angolo di campo fra 60° e 120°. I geli di agarosio
possono essere colorati con bromuro di etidio e le bande di DNA, osservabili
mediante l’irraggiamento con UV formano per ciascun campione il cariotipo elettroforetico. Il CHEF è stato inizialmente applicato per analizzare i cromosomi di
Saccharomyces cerevisiae (Schwartz e Cantor, 1984), ma è stata poi estesa
all’analisi di numerosi altri funghi (Mills e McCluskey, 1990). Si è potuta
evidenziare la notevole variabilità nel numero e nel peso molecolare dei
cromosomi fungini riscontrabile anche tra isolati appartenenti allo stesso
genere, specie, forma specialis e razza (Mills e McCluskey, 1990). Gli svantaggi
della tecnica sono principalmente legati ai tempi molto lunghi di separazione
elettroforetica e alla esperienza richiesta per la preparazione dei campioni. Da
un punto di vista diagnostico massale è di fatto scarsamente applicabile. E’
pero una tecnica altamente informativa se accoppiata con sonde molecolari
cromosoma-specifiche, utili per la caratterizzazione di funghi fitopatogeni.
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I
8.3.2. - Analisi dei profili di restrizione Le endonucleasi di restrizione sono enzimi batterici purificati che riconoscono
specificamente una sequenza, variabile da quattro a otto nucleotidi, sul DNA e
la tagliano in due frammenti. Oggi sul mercato sono disponibili oltre cento
tipologie di enzimi di restrizione ed è possibile utilizzarli come ausilio nell’analisi
a scopo diagnostico. Il numero e le dimensioni dei frammenti di restrizione
originati dal taglio di un campione di DNA riflettono direttamente la sequenza
del DNA. Si può, analizzando i profili ottenuti, separati mediante elettroforesi,
ottenere informazioni di tipo diagnostico (Magnano di San Lio et al., 1995).
L’RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphism), si basa sul principio che
mutazioni sulla sequenza del DNA possano alterare i siti di riconoscimento degli
enzimi di restrizione e quindi generare profili elettroforetici diversi (Nathans e
Smith, 1975). L'RFLP ha permesso lo studio dei polimorfismi a livello genomico
solo nei batteri, dotati di genoma ridotto (E. coli.: 3 x 104 bp). Le elevate
dimensioni del genoma fungino, al contrario, non consentono la risoluzione di
tutti i frammenti di restrizione generati e si ottiene un profilo non informativo
(smear).
Per superare questo inconveniente si è ricorso all’analisi di frammenti digeriti
provenienti dal DNA mitocondriale o ribosomiale. Si devono comunque
utilizzare enzimi a bassa frequenza di taglio (rare cutters), per creare un ridotto
numero di bande, facilmente risolvibili per via elettroforetica.
Il DNA mitocondriale dei funghi è una molecola di DNA a doppio filamento
circolare, lunga meno di 100 kb. E’ una molecola che presenta regioni
altamente conservate e regioni altamente variabili. E', quindi una molecola che
si presta facilmente all’analisi delle relazione filogenetiche tra isolati e
popolazioni strettamente correlate (Kimura, 1968; Taylor, 1986). Nel caso
specifico di F. oxysporum (Kistler et al., 1987; Kim et al., 1990, 1991 e 1992;
Jacobson e Gordon, 1990) si è potuto organizzare isolati provenienti dalla
stessa area geografica o aventi lo stesso spettro di ospiti in gruppi
geneticamente omogenei.
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I limiti applicativi dell’analisi RFLP, seppure ristretta al mtDNA, risiedono nella
scarsa sensibilità del metodo e nell’assenza di predittività: occorre sempre
coltivare il fungo in purezza per disporre di DNA altamente purificato (Magnano
di San Lio et al., 1995).
8.3.3. - Ibridazione degli acidi nucleici L’ibridazione degli acidi nucleici è un fenomeno di interazione, con diversi gradi
di specificità, tra due singoli filamenti di DNA o RNA, che costituiscono una
doppia elica stabile. E’ un fenomeno influenzato da fattori, quali l’omologia di
sequenza (complementarietà), la temperatura e la concentrazione salina: la
formazione dell’ibrido è promossa tra sequenze altamente complementari, dalle
basse temperature e bassa concentrazione salina (Schildkraut et al., 1961;
Wetmur, 1991). Il DNA bersaglio viene deposto direttamente su una membrana
di nylon o di nitrocellulosa (dot blot), o in seguito a separazione elettroforetica
su gel di agarosio di frammenti di restrizione viene trasferito alla membrana
facendolo assorbire ad essa per capillarità (Southern blot; Southern, 1975). Il
DNA, fissato alla membrana mediante irraggiamento con radiazioni U.V.,
denaturato e posto a contatto con una soluzione contenente la sonda
nucleotidica marcata a singolo filamento.
Dopo l’ibridazione si eliminano con dei lavaggi i residui di sonda che non si è
legata al DNA bersaglio. La rivelazione è condotta ponendo una lastra
autoradiografica sulla membrana che si impressiona laddove è avvenuta la
formazione dell’ibrido. La sonda ideale deve essere particolarmente specifica
con l’organismo da analizzare e non rilevare in maniera aspecifica campioni
non bersaglio. In patologia vegetale si deve porre attenzione al tipo di sequenza
scelta per costituire la sonda perchè sequenze del patogeno potrebbero
coesistere nelIa pianta, seppure a minor grado di omologia e questo potrebbe
andare a detrimento del risultato finale di analisi. La scelta può ricadere su
frammenti clonati a caso dal DNA del microrganismo da identificare, come
dimostrato in Fusarium spp. (Manicom et al., 1987), Pythium spp. (Martin, 1991)
e Ophiosphaerella herpotricha (Sauer et al., 1993), o può essere rappresentare
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I
sequenze altamente ripetute nel genoma bersaglio, così da permettere di
evidenziare la presenza di un numero esiguo di propaguli fungini. E’ stata
costituita una sonda costituita da un frammento di DNA mitocondriale di F.
oxysporum f.sp. niveum per distingure in F. oxysporum agenti di fusariosi
vascolari delle Cucurbitaceae, isolati appartenenti a cinque diverse formae
speciales (Kim et al., 1993). La marcatura “fredda” delle sonde ha agevolato e
reso più sicuro il lavoro dell’operatore: è stato sviluppato un sistema di sonde
marcate con fluorocromi per l'identificazione di alcune formae speciales di F.
oxysporum (Nonomura et al. 1996). In base allo scopo si possono impiegare
sonde di origine diversa: le sonde possono derivare dallo stesso organismo
(sonde omologhe) o da organismi appartenenti a specie, o in senso lato, ad
organismi diversi (sonde eterologhe; Michelmore e Hulbert, 1987). Possono
essere usate come sonde per l’ibridazione di sequenze di DNA genomico,
rDNA, mtDNA e cpDNA. Le sonde specifiche per il DNA ribosomiale, sono
particolarmente utili per l’analisi filogenetica fra gli eucarioti perché individuano
sequenze altamente conservate e presenti in centinaia di copie. Esse sono in
grado di distinguere individui a livello specifico o subspecifico (Kasuga e
Mitchelson, 1994). I minisatelliti sono sequenze genomiche ripetute in tandem,
impiegabili per differenziare isolati della stessa specie ma provenienti da
diverse aree geografiche o aventi differente attitudine parassitaria (Jeffreys et
al., 1985). Pur essendo una tecnica altamente specifica all’atto pratico le
tecniche di ibridazione molecolare si rivelano inadeguate per analisi
diagnostiche rapide e su molti individui.
L’ibridazione con sonde a DNA è spesso collegata con la tecnica PCR PCR
(Polymerase Chain Reaction). Mediante PCR è possibile fornire sequenze
nuove da utilizzare come sonde negli esperimenti di ibridazione: per
l'identificazione del fungo ectomicorrizico Tuber magnatum, è stata sviluppata
una sonda, a partire da un frammento specifico di DNA, ottenuto con
l’amplificazione RAPD (Lanfranco et al. 1993). Recentemente è stata messa a
punto una sonda specifica per rilevare F.oxysporum f. sp. basilici agente di
tracheofusariosi sul basilico (Chiocchetti et al., 1999).
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I
8.3.4. - PCR e applicazioni
La PCR (Polymerase Chain Reaction; Saiki et al., 1988) è un metodo
enzimatico per la sintesi in vitro di sequenze specifiche di DNA. La reazione
enzimatica ricalca, in parte, il fenomeno della replicazione del DNA nucleare: un
filamento di DNA viene ricopiato a partire da uno originale. Poichè le DNA
polimerasi, generalmente necessitano di inneschi oligonucletidici per iniziare la
sintesi si utilizza questi per determinare la specificità della reazione. Nella
miscela di reazione vengono posti a contatto in un tampone di reazione
adeguato: il DNA bersaglio (target o template), due sequenze oligonucleotidiche
di riconoscimento specifico (primer), i nucleotidi fosforilati (dNTPs), una DNA
polimerasi termostabile (Taq, isolata dal batterio termofilo Thermophilus
aquaticus). La reazione consiste in una successione di cicli composti da tre fasi
distinte in base alla temperatura di reazione: 1) denaturazione. 2) ibridazione,
3) polimerizzazione. Essa viene condotta in un ciclatore termico capace di
modificare la temperatura di reazione in modo programmato e molto
rapidamente.
1) La fase di denaturazione permette di rendere le molecole a singolo
filamento e rendere così possibili le successive fasi; di norma la temperatura
utilizzata è 94°C per un tempo variabile con le caratteristiche del DNA bersaglio
e dello scopo di analisi.
2) L'ibridazione (annealing) è la fase in cui gli oligonucletidi complementari si
possono appaiare alle sequenze del DNA bersaglio, qualora esse siano
presenti. La temperatura di questa fase è critica e varia da 35° a 68° C nelle
diverse tipologie di PCR. La temperatura di annealing viene calcolata sulla base
della temperatura di fusione dei primer.
3) La polimerizzazione avviene a 72° C, temperatura alla quale la polimerasi
è in grado di sintetizzare, incorporando nucleotidi a stampo, una catena
complementare al DNA bersaglio, creando un doppio filamento.
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Queste tre fasi vengono ripetute per un numero di cicli successivi variabile tra i
30 e 45 (n) della durata ognuno di 2-5 minuti. Il risultato netto è la sintesi di 2n
copie (amplificazione) del DNA bersaglio delimitato come sequenza dai due
primer: a partire da 1 pg-25 ng di DNA bersaglio si possono produrre masse di
DNA pari a 1 µg di prodotto finale (McPherson et al., 1992; Henson e French,
1993). La reazione condotta avvalendosi di primer specifici produce un
prodotto specifico se è presente la sequenza bersaglio nel campione
analizzato se essa non è presente non si ottiene alcun prodotto amplificato.
La scelta dei primer è fondamentale ai fini diagnostici e va effettuata seguendo
gli stessi principi usati per scegliere le sonde molecolari (Oliver, 1993). Per la
scelta dei primer oggi sono disponibili dei programmi appositi che tengono
conto delle caratteristiche ottimali affinché un oligonucleotide sia adeguato dal
punto di vista termodinamico. Il grado di omologia con regioni del DNA
bersaglio è inversamente proporzionale alle dimensioni del primer, quindi è
opportuno scegliere la lunghezza del primer adottando, nel caso di omologia
massima, dimensioni di 18-30 bp. Il contenuto in guanina e citosina (G+C) deve
essere pari ad almeno il 50% del totale e particolare riguardo va posto sulle
interazioni intramolecolari e intermolecolari: le prime generano dei duplex interni
mentre le seconde formano dei duplex tra i due primer ed entrambe
sottraggono all’equilibrio gli oligonucleotidi rallentando o bloccando la reazione
(Henson e French, 1993). Le reazione di ibridazione specifiche e quelle intra- e
intermolecolari sono caratterizzate da una energia di associazione/
dissociazione che è influenzata dalla temperatura. Si può quindi conosciuti tutte
le variabili, determinare la temperatura di fusione del primer: la temperatura alla
quale il 50% degli oligonucleotidi è appaiata al DNA bersaglio.
In letteratura si ritrovano moltissimi casi di applicazioni diagnostiche della PCR
e come per tutte le tecniche sin qui discusse, anch’essa ha fatto il suo ingresso
in diagnostica fitopatologica in tempi più recenti rispetto al suo utilizzo in campo
biomedico.
La PCR è stata applicata all’amplificazione di DNA genomico e proveniente da
organelli. Nell’ambito dell’amplificazione di frammenti genomici, gli studi
filogenetici sui geni ribosomali hanno avuto grande successo per le loro
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I
caratteristiche intrinseche di conservazione e variabilità nell’ambito degli stessi
loci e dal punto di vista tecnico per la loro abbondanza: sono presenti in copie
multiple nel genoma, il che li rende facilmente amplificabili (White et al., 1990;
Bruns et al., 1991; Lee et al., 1992; Ward et al., 1993).
I geni ribosomali negli eucarioti sono presenti in unità trascrizionali ripetute in
tandem 60-200 volte per una lunghezza complessiva di 2-30 Kb (Bruns et al.,
1991). Sono presenti nell’ordine una sequenza 18 S, una 5,8 S e una 28 S
intervallate da regioni ITS (Internal Transcribed Spacer). Nelle regione trascritte
si ritrovano regioni spaziatrici non trascritte NTS (Non Transcribed Spacer e tra
le unità trascrizionali si ritrovano le regioni IGS (Inter Genic Spacer). Tutte
queste tipologie presentano differenti gradi di conservazione, utilizzati per studi
filogenetici.
Si può utilizzare la PCR, amplificando con primer universali designati sulla
base del gene codificante l’rDNA 16S nei procarioti e il 18S per gli eucarioti: in
particolare, si sono dimostrati efficaci per la classificazione dei fitoplasmi
(procarioti), patogeni del sistema floematico (Lee et al., 1993; Gundersen e Lee,
1996). Primer disegnati sulle sequenze del rDNA 18S ha permesso
l’amplificazione del DNA di funghi endomicorrizici vescicolo-arbuscolari (VAM)
da estratti complessi, comprendenti DNA di piante e altri funghi (Simon et al.
1992).
Le regioni ITS (Internal Transcribed Spacer) permettono di ottenere maggiori
informazioni sulla variabilità genetica (White et al., 1990; O'Donnell, 1992). Le
regioni NTS e le regioni spaziatrici intergeniche (IGS) presentano un grado di
variabilità ancora maggiore. Quindi da un lato è possibile amplificare con primer
universali sequenze appartenenti a specie anche molto differenti e con le
diverse regioni spaziatrici discriminare nell’ambito della stessa specie.
Popolazioni patogene e non patogene di F. oxysporum associate alle radici
sono state distinte grazie all’analisi mediante PCR applicata alle regioni IGS
(Edel et al., 1997; Appel e Gordon, 1996). L’uso della PCR applicata alle
sequenze ribosomali è stata di aiuto nella sistematica di Fusarium e numerose
specie sono state catalogate con la PCR: F. sambucinum (O'Donnell 1992).
Sono stati messi a punto sistemi di primer per la diagnosi in tempi brevi e il
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I
riconoscimento di tre patogeni F. culmorum, F. graminearum e F. avenaceum,
difficilmente distinguibili tra loro se presenti contemporaneamente sulla pianta
infetta (Schilling et al., 1996).
Partendo da precedenti sonde molecolari specifiche per F. oxysporum f.sp.
canariensis, agente della fusariosi della palma da dattero, da cui sono stati
disegnati primer specifici da utilizzare in analisi PCR (Plyler et al., 1999). Anche
lo studio approfondito della distribuzione dei trasposoni in F. oxysporum ha
permesso di trovare marcatori specifici. Usando le giunzioni degli elementi
trasponibili, come marcatori amplificabili mediante PCR, sono stati sviluppati
primer specifici per F. oxysporum f.sp. dianthi (Chiocchetti et al., 1999), che
consentono la distinzione delle principali razze fisiologiche del patogeno e per
F. oxysporum f.sp. albedinis, agente di fusariosi delle palme (Fernandez et al.,
1999).
La tecnica di base della reazione polimerasica a catena ha subito numerose
varianti che ne hanno ampliato l’utilizzo per ogni genere di studio. Vedremo nei
prossimi paragrafi le principali varianti a questa tecnica.
8.3.4.a. - RAPD (Random Amplified Polymorphic DNA)
Tale tecnica, con opportune variazioni, è anche chiamata AP-PCR (Arbitrarily
Primed PCR; Welsh e McClelland, 1990). Essa è utile nel caso in cui non si
abbiano informazioni preliminari sul polimorfismo genetico di un organismo e si
vogliano confrontare molti individui (Williams et al., 1991).
Si basa sull'impiego di un solo primer, in genere di 7-10 nucleotidi, per
amplificare casualmente in corrispondenza di regioni omologhe nel DNA
bersaglio. I prodotti di amplificazione che si ottengono sono imprevedibili nel
numero e nel peso molecolare ma, ottenibili con notevole ripetitività a parità di condizioni sperimentali. Gli amplimeri possono essere analizzati mediante
elettroforesi su gel di agarosio o su gel di poliacrilammide. Le condizione di
reazione sono meno stringenti che per una PCR tradizionale e prevedono:
denaturazione a 94° C, annealing a 36° C ed estensione a 72° C. I singoli cicli
sono di circa 1-2 minuti ma sono molto più elevati di numero (Williams et al.,
1990).
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I
Nei funghi fitopatogeni, l'utilizzo dei RAPD ha consentito di differenziare razze
diverse di Cochliobolus carbonum (Jones e Dunkle, 1993), C. orbiculare (Correll
et al., 1993), P. herpotrichoides (Nicholson e Rezanoor, 1994), F. solani f.sp.
cucurbitae (Crowhurst et al., 1991), F. oxysporum f.sp. pisi (Grajál-Martín et al.,
1993), f.sp. dianthi (Manulis et al.,1994; Migheli et al., 1994 e 1996), f.sp.
vasinfectum (Assigbetse et al., 1994), f.sp. ciceris (Kelly et al., 1994) e f.sp.
basilici (Chiocchetti et al., 1999).
La tecnica RAPD può essere applicata nella sua variante SCARs (Sequence
Characterized Amplified Region; Paran e Michelmore, 1993; Gressoff, 1995).
Essa consente di risalire, tramite il clonaggio e le procedure di sequenziamento,
alla sequenza di un amplimero valutato come specifico sulla base di confronti
con altri individui. Sulla base della sequenza possono poi essere disegnati
primer specifici, come è stato fatto per la distinzione specie-specifica di isolati di
F. culmorum, F. graminearum e F. avenaceum (Schilling et al., 1996) e per la
distinzione della forma specialis basilici da altri isolati patogeni di F. oxysporum
(Chiocchetti et al., in preparazione).
8.3.4.b. - DAF (DNA Amplification Fingerprinting)
Si basa sull'uso di oligonucleotidi molto corti di 5-7 residui come primer per la
reazione di amplificazione (Caetano-Anollés et al., 1995). La probabilità che
questi primer incontrino regioni complementari sul DNA bersaglio è molto alta e
vengono quindi generate miscele di amplimeri assai più complesse. Per la
separazione dei frammenti è consigliabile l’elettroforesi su gel di
poliacrilammide ed un’analisi con programmi analizzatori di immagine per
l’identificazione delle bande. Per tale motivo questa variante della PCR non è
stata ancora applicata su larga scala per il riconoscimento di funghi
fitopatogeni, ma rappresenta un sistema di identificazione ad alta qualità
informativa, che nel caso dell’uomo è capace di discriminare tra individui
consanguinei (Caetano-Anollés et al., 1995).
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I
8.3.4.c. - REP-PCR Essa utilizza primer specifici disegnati su sequenze ripetute e conservate nel
genoma (Versalovic et al., 1991). Le sequenze usate sono palindromiche
extrageniche ripetute (REP), le sequenze intergeniche di consenso ripetute
degli enterobatteri (ERIC) e gli elementi BOX.
I primer sono disegnati tra due elementi ripetuti adiacenti in modo da
amplificare il DNA tra loro compreso. Non sono pero da escludere fenomeni di
appaiamento con sequenze omologhe non bersaglio (Gillings e Holley, 1997).
La collezione di primer (REP, ERIC e BOX) è stata utilizzata per analizzare
diversi specie di batteri e specificamente batteri delle piante Gram positivi e
Gram negativi (Clark et al., 1998; deBruijn, 1992; Louws et al., 1994 e 1998;
Sadowsky et al., 1996). La presenza di sequenze ERIC-simili è stata ritrovata
anche in funghi quali Aspergillus: ciò ha permesso la differenziazione di isolati
strettamente correlati. In F. oxysporum è stata ritrovata la presenza di elementi
ERIC e grazie all’analisi della sua distribuzione, 60 isolati non patogeni sono
stati raggruppati in 27 tipi: risultati analoghi erano stati ottenuti con analisi RFLP
e RAPD (Edel et al.,1995).
8.3.4.d. - AFLP (Amplified Fragment Length Polymorphism)
Le potenzialità della PCR possono essere aumentate, laddove la specificità dei
primer non sia sufficiente a distinguer due o più isolati, accoppiando ad essa la
digestione enzimatica con endonucleasi di restrizione (Louws et al., 1999).
Questa tecnica è stata utilizzata con successo nel fingerprint di batteri
fitopatogeni (Bragard et al., 1997; Clerc et al., 1998; Janssen et al., 1996).
La tecnica AFLP prevede tre passaggi: 1) la digestione del DNA genomico; 2)
l’aggiunta alle estremità digerite di adattatori (linker) con sequenza
complementare al primer della successiva reazione; 3) l’amplificazione del
frammento usando due primer complementari all’adattatore e in parte, 1-2 bp,
alla sequenza bersaglio (Vos et al., 1995).
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8.3.4.e. - ARDRA (Amplified Ribosomal DNA Restriction Analysis)
E’ analoga all’AFLP ma viene utilizzata per amplificare regioni di rDNA,
successivamente digerite con enzimi ad alta frequenza di taglio per determinare
la diversità e per identificare isolati dello stesso genere o specie (Louws et al.,
1999). È utilizzata nello studio della filogenesi batterica (Manceau e Horvalis,
1997; Nesme et al., 1995; Ponsonnet e Nesme, 1994; Vaneechoutte et al.,
1992) ed in diagnostica fitopatologica, dove viene usata per l'identificazione e la
classificazione di fitoplasmi (Lee et al., 1993; Schneider et al., 1993). Alcune
specie di Fusarium sono state identificate tramite l’ARDRA (Edel et al., 1996).
L’evoluzione delle tecniche di PCR ha portato ad integrare con buoni risultati le
tecniche immunodiagnostiche con quelle molecolari.
8.3.4.f. - Immunocapture Essa utilizza anticorpi monoclonali per concentrare il potyvirus del vaiolo della
prugna isolato da piante infette: in un secondo tempo il virus viene amplificato
mediante primer specifici disegnati su sequenze di RNA delle particelle virali
(Wetzel et al., 1992).
Per l’identificazione di Salmonella in alcuni campioni sono state utilizzate
particelle magnetiche adsorbite con anticorpi, al fine di concentrare il batterio e
quindi è stata eseguita l’amplificazione con primer specifici (Widjojoatmodjo et
al., 1991).
8.3.4.g. - Immuno-PCR L’individuazione del patogeno è legata all’anticorpo. La sensibilità della
reazione immunologica viene aumentata coniugando l’anticorpo con una
sequenza di DNA mediante un ponte molecolare proteina A-streptavidina-
biotina (Sano et al., 1992). Viene effettuata una reazione di PCR sulla
sequenza etichetta (Henson e French, 1993). La sensibilità della reazione è
aumentata anche di 250 volte rispetto ad un’amplificazione diretta dei virus
vegetali (Wetzel et al., 1992). L’immuno-PCR oltre alla potenzialità intrinseca
della tecnica non richiede la conoscenza di una specifica sequenza del
patogeno ma richiede solo che si disponga di un anticorpo specifico.
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I
I vantaggi in termini di sensibilità della PCR non sono comparabili nessun’altra
tecnica oggi a disposizione. La PCR presenta, però, determinati difetti che
possono precluderne un uso corretto.
Pur essendo altamente specifica si presta ad evidenziare dei falsi positivi, in
genere legati a problemi di contaminazione da acidi nucleici derivate da
precedenti manipolazioni nell’ambiente di lavoro. La presenza di inibitori della
reazione può generare falsi negativi. Per ovviare alle contaminazioni è
necessario seguire una serie di pratiche di laboratorio che tendano a
minimizzare questi eventi e approntare sistemi di decontaminazione da DNA di
tipo preventivo. Per il problema degli inibitori occorre mettere a punto metodi di
estrazione del DNA bersaglio rapidi, puliti e di facile attuazione a partire da
tessuti vegetali infetti o dal terreno.
Il problema che forse più limitava l’utilizzo della PCR su vasta scala era la
disponibilità di sistemi di automazione, come avvenuto per l’ELISA, per analisi
di un gran numero di campioni. Sono noti da tempo ed ora reperibili sul mercato
dei sistemi automatici di amplificazione che permettono l’analisi degli amplificati
senza ricorrere all’elettroforesi su gel d’agarosio che mediante l’uso di
fluorocromi.
8.3.4.h. - Automatizzazione della PCR Le tecnologie disponibili riguardano la polarizzazione in fluorescenza (Gibson
et al., 1997), il sistena TaqMan™ (Holland et al., 1991; Livak et al., 1995) e i
Molecular Beacons (Tyagi e Kramer, 1996; Tyagi et al., 1998). I molecular
beacons sono sonde oligonucleotidiche coniugate alle due estremità con un
fluoroforo ed una molecola "quencher". Quando la sonda non è ibridata al DNA
bersaglio, adotta, in soluzione, una conformazione a forcina; e cosi strutturata il
fluoroforo ed il "quencher" vengono a trovarsi appaiati: quest’ultimo assorbe la
radiazione del fluoroforo. In questo modo la sonda è incapace di emettere
fluorescenza. Quando, invece, la sonda incontra la molecola bersaglio, si forma
un ibrido più stabile della forcina, la cui rigidità e lunghezza precludono
l'appaiamento dei terminali ed il fluoroforo, non più appaiato al quencher, può
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I
emettere la radiazione luminosa, che aumenta fino a 100 volte (Bonnet et al.,
1999).
I "molecular beacons" hanno finora trovato ampio utilizzo in campo biomedico e
in genetica umana (Tyagi et al., 1998; Kostrikis et al., 1998 e 1998), nello studio
di retrovirus (Vet et al., 1999), in ecologia (Schofield et al., 1997) e nella
localizzazione di specifico RNA all'interno di cellule viventi (Matsuo, 1998).
Il sistema antagonista del TaqMan™ è il sistema LightCycler™ messo a punto
dalla Roche. Esso sfrutta la fluorescenza emessa da un agente intercalante, il
SYBR® Green I, che è in grado di legarsi al solco minore della doppia elica del
DNA. Questa molecola, intercalandosi al DNA, emette un segnale che diviene
sempre crescente finche la reazione di PCR prosegue e nuove molecole
diventano disponibili per il marcatore. Permette quindi di seguire in tempo reale
una reazione di PCR e di fornire, previa costituzione di curve di taratura, un
risultato quantitativo.
9. - ELEMENTI TRASPONIBILI La prima prova di esistenza dei trasposoni risale al 1956. Barbara McClintock
(1956), una studiosa statunitense, osservando delle pannocchie di mais, scoprì
che alcune cariossidi che erano prive di colore, o che erano colorate a macchie
ritornavano al fenotipo iniziale dopo un certo periodo di tempo. Suppose che si
il fenotipo revertante fosse indotto da geni che si spostavano, e li battezzò
“jumping genes”. All’inizio il fenomeno non venne compreso in termini
molecolari e solo molti anni dopo, con l’isolamento dellelemento Ac in mais
nell’allele wx-n7, si riusci a spiegare il ruolo dei trasposoni in quella bizzarra
mutazione (Behrens et al., 1984).
I trasposoni sono sequenze discrete di DNA capaci di spostarsi direttamente da
un locus ad un altro del genoma. “Il salto” del trasposone è in genere un evento
raro ma può aumentare di frequenza sotto stimoli ambientali che inducano
stress nella cellula. L’effetto dello spostamento di un elemento mobile è una
mutazione che interessa grandi regioni del genoma. In seguito ad un salto si
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I
possono creare inserzioni, delezioni, duplicazioni, inversioni, traslocazioni e
riarrangiamenti genici e cromosomici. La mutazione più frequente si verifica
quando un trasposone viene escisso e si integra in un locus genico,
alterandolo. Tale cambiamento può portare ad attivazione o inattivazione di
allelica a seconda del punto di inserzione dell’elemento mobile. Tuttavia sono
stati fatti studi che dimostrano un ruolo attivo dei trasposoni nel riarrangiamento
genico e nell’evoluzione (Berge e Howe, 1989).
Dai tempi della prima scoperta (McClintock, 1956), i trasposoni sono stati
oggetto intenso di studio per le potenziali capacità mutagene e di veicolazione
di DNA. Fin'ora, sono stati ritrovati trasposoni in tutti gli organismi viventi in cui
si sono cercati.
9.1. - Tipologie di elementi trasponibili Gli elementi trasponibili sono stati divisi in tre classi da Finnegan (1989) sulla
base del loro differente meccanismo di trasposizione. La classe I comprende
tutti gli elementi che si traspongono mediante un la trascrizione inversa di un
intermedio a RNA. La classe II comprende tutti gli elementi che si traspongono
mediante trasposizione con intermedio a DNA (trasposoni di tipo batterico).
Esistono tuttavia elementi mobili che non rientrano in tali modelli e rientrano
nell’insieme degli elementi non classificabili. Nei paragrafi seguenti se ne
darà una breve descrizione.
9.2. -Elementi mobili di classe I Tali elementi si traspongono tramite un intermedio a RNA che viene trascritto in
una copia di DNA (cDNA) tramite una trascrittasi inversa il cui gene è spesso
codificato dallo stesso elemento mobile. Per tale modalità sono chiamati più
semplicemente retrotrasposoni. Essi sono divisibili in base alla caratteristiche
strutturali primarie in: retrotrasposoni con LTR (A) e retrotrasposoni sprovvisti di
LTR (B).
A) I retrotrasposoni con LTR si distinguono dagli altri perché portano
sequenze alle estremità di 334 bp orientate nello stesso verso. Le sequenze
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I
LTR (long terminal repeats) hanno la funzione di promotori forti. Sono note due
tipologie di retrotrasposoni: la famiglia Ty3 e la famiglia Ty1/copia. Gli elementi della famiglia Ty3 presentano i domini codificanti per la
poliproteina pol in un ordine simile a quello ritrovato nei retrovirus e
generalmente presentano una cornice di lettura supplementare che codifica per
una proteina simile a env dei retrovirus (Finnegan, 1994). Tra i più noti v’è il
retrotrasposone gipsy, oggi considerato un retrovirus.
Gli elementi Ty1/copia prendono il loro nome dai due retrotrasposoni identificati
in per la prima volta in lievito e presentano, rispetto a Ty3, una diversa
organizzazione dei domini del gene pol
B) I retrotrasposoni sprovvisti di LTR non possiedono sequenze promotori forti
alle estremità ma presentano al 3' di una sequenza di poly A o poly A/T. Sono
stati ritrovati nella maggior parte degli organismi eucarioti e sono presenti nel
genoma in migliaia di copie. Tra i retrotrasposoni privi di LTR ci sono il gruppo
dei SINEs, dei LINEs e gli pseudogeni I SINEs (Short Interspersed Elements) sono elementi mobili di piccola taglia
che hanno perso la di codificare proteine (Deininger, 1989). Tra i SINEs le
sequenze AluI sono quelle più presenti nel genoma dei primati (Houck et al.,
1979).
I LINEs (Long Interspersed Elments) sono sequenze identificate per la prima
volta nei mammiferi (Hutchinson, 1989). Contengono frequentemente due
cornici di lettura aperte simili ai geni gag e pol dei retrovirus.
Gli pseudogeni sono geni non funzionali con sequenza strettamente correlata
ai normali geni funzionali. Essi mancano di sequenze regolatrici non presentano
introni e presentano una coda di polyA al 3’. Sono probabilmente legati
all’integrazione nel genoma di mRNA, ricopiato in cDNA, per trascrizione
inversa.
9.3. - Elementi di classe II Si traspongono con un meccanismo DNA/DNA e possiedono alle estremità 5’ e
3’ sequenze terminali ripetute e invertite di lunghezza variabile a seconda
dell’elemento (ITR). Tra le sequenze ripetute terminali si ritrova un gene per
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I
necessario la trasposizione, codificante per l’enzima trasposasi. Sono stati i
primi trasposoni ad essere scoperti e sono tipici degli organismi procarioti.
Esistono le sequenze di inserzione (IS) identificate analizzando mutazioni
spontanee e i trasposoni Tn implicati nella trasmissione di resistenza agli
antibiotici.
La struttura delle sequenze IS è formata da una regione centrale codificante
(trasposasi), e due regioni terminali ove sono poste due sequenze ripetute e
invertite (ITR).
I trasposoni batterici posseggono o una struttura semplice simile a quella delle
IS ad eccezione della presenza di geni supplementari (ad esempio Tn3;
Sheratt, 1989), oppure una struttura più complessa (trasposoni composti) dove
la regione centrale codificante è fiancheggiata da due IS. Il Tn10 presenta alle
estremità due copie di IS10 (Kleckner, 1989).
Negli eucarioti sono presenti un gran numero di trasposoni di classe II e la loro
struttura è simile a quella delle IS dei batteri. Possono essere suddivisi in due
sottoclassi: gli elementi contenenti il dominio DDE o non contenenti il dominio
DDE (Capy et al., 1998).
Il dominio DDE è la sequenza codificante per una proteina indispensabile allo
svolgimento della funzione catalitica della trasposasi. Il dominio presenta tre
aminoacidi invarianti, due acidi aspartici (D) distanti 90 aminoacidi e un acido
glutammico (E) separato dall' ultimo aspartato di 34 o 35 residui aminoacidici.
E’ un dominio abbastanza conservato e lo si ritrova in alcune famiglie di IS e
nelle integrasi dei retroelementi (Fayet et al., 1990; Kulkosky et al., 1992).
Nell’ambito degli elementi provvisti di dominio DDE si ritrova la superfamiglia
degli elementi Tc1-mariner. Ad essa appartengono gli elementi di tipo Tc1
(TLE) scoperti in Caenorhabditis elegans (Emmons et al., 1983) e gli elementi
mariner (MLE), ritrovati per la prima volta in Drosophila mauritiana (Jacobson
et al., 1986). Sono elementi ubiquitari e rappresentati in tutti i tipi di organismi
nei protozoi, nell'uomo, nei funghi e recentemente sono stati identificati in una
pianta (Jarvik e Lark, 1998). Hanno una lunghezza limitata e si inseriscono in
sequenze in cui è presente un dinucleotide specifico (TA). Codificano
generalmente per la sola trasposasi di circa 350 aminoacidi. Gli elementi
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I
mariner hanno motivi terminali variabili ma la lunghezza delle ITR è costante
(24-30 bp).
Tra gli elementi con dominio DDE sono state ritrovate sequenze raggruppabili
nella superfamiglia Pogo:
Sulla base della similitudine delle sequenze nella regione del dominio DDE,
Smit e Riggs (1996) hanno recentemente raggruppato in una sola famiglia gli
elementi pogo di D. melanogaster (Tudor et al., 1992), tiggers1 e 2 nell' uomo
(Smit e Riggs , 1996; Robertson 1996), Tc4 e Tc5 dei nematodi (Moermann e
Waterson, 1989) e l' elemento Fot1 del fungo F. oxysporum (Daboussi et al.,
1992),
La seconda categoria di elementi di Classe II sono quelli senza DDE. Tra
questi, la superfamiglia hAT che proviene dal raggruppamento degli elementi
hobo di Drosophila, Ac di mais e Tam3 della bocca di leone (Calvi et al., 1991).
Sono elementi ubiquitari presenti nelle piante, negli insetti, nei pesci, nei
nematodi, nei funghi (Kempken e Kuck, 1996). Tutti hanno delle sequenze ITR
corte e motivi subterminali ripetuti, un sito di inserzione duplicato di 8 bp, e
omologia di sequenza nella regione C-terminale della trasposasi (Calvi et al.,
1991).
La superfamiglia degli elementi P prende il nome dal primo elemento
identificato in Drosophila. E’ lungo 2,9 Kb, presenta ITR di 31bp e possiede 4
esoni codificanti per la trasposasi (Engels, 1989). L'elemento è attivo solo nelle
cellule della linea germinale dell’insetto. Attualmente sono stati trovati in
drosofilidi e in qualche altro dittero (Kidwell, 1994)
La superfamiglia CACTA è presente solo nelle piante. Questi elementi hanno
ITR che iniziano con la sequenza CACTA. Fino ad oggi sono stati ritrovati En
(Spm) in mais (Gierl, 1996), Tam1 nella bocca di leone (Nacken et al., 1991),
Tgm in soia (Vodkin et al., 1996), nel pisello Pis1 (Shirsat, 1988), Tnr3 nel riso
(Motohashi et al., 1996).
L'elemento Mu è stato identificato in una linea particolarmente instabile di mais
(Robertson, 1978), questa famiglia comprende più sottofamiglie composte di
elementi attivi e inattivi che presentano tra loro omologie delle ITR di circa 200
bp (Young et al., 1994).
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I
9.4. - Elementi non classificabili
Questi elementi non sono chiaramente classificabili perché non ci sono
sufficienti informazioni sulla loro modalità di trasposizione. Possiedono ITR più
o meno lunghe e ciò suggerisce una similitudine con gli elementi trasponibili di
classe II.
Tra i diversi gruppi ci sono i Foldback (FB) che, identificati in Drosophila,
costituiscono una famiglia eterogenea nella struttura. Hanno lunghe ripetizioni
terminali invertite, costituite da numerose ripetizioni in tandem di sequenze da
10 a 31 bp (Bingham e Zachar, 1989). Sono presenti nel riccio di mare
(Liebermanne et al., 1983), nei nematodi (Yuan et al., 1991), nelle piante
(Oosumi e Belknap, 1997). La grande diffusione suggerisce che siano ubiquitari
tra gli eucarioti.
Gli elementi MITE (Miniature Inverted Transposable Elements) sono stati
identificati per la prima volta in pianta (Bureau e Wessler, 1992). Hanno una
sequenza relativamente breve, non hanno capacità codificante e non esistono
prove dirette e indirette della loro trasposizione. Presentano, tuttavia come gli
elementi di classe II, delle ripetizioni terminali invertite di circa 20 bp, sono ricchi
in TA (Bureau et al., 1996). Sono stati trovati nei funghi filamentosi (Yeadon e
Catcheside, 1995), nell' uomo (Morgan, 1995) e nella mosca della febbre gialla
(Tu, 1997).
10. - GLI ELEMENTI TRASPONIBILI IN FUSARIUM OXYSPORUM Nel genoma di F. oxysporum sono state trovate almeno sei famiglie diverse di
elementi mobili appartenenti alla classe dei trasposoni batterici e dei
retrotrasposoni. Sono stati identificati mediante il clonaggio in sequenze ripetute
(elementi Foret1 e Palm) e mediante l’inserzione nel gene per la nitrato riduttasi
(elementi Fot1, Fot2, impala e Hop)
Foret1 è un retrotrasposone provvisto di LTR e possiede sequenze interne alle
LTR omologhe ai geni retrovirali pol. L’elemento isolato è difettivo per la
66
I
trasposizione e sequenziato ha evidenziato una sequenza mutata con molti
stop codon e mutazioni “frameshift” (Julien et al., 1992)
L’elemento Palm è un retrotrasposone con LTR di tipo LINE isolato da un F.
oxysporum f.sp. elaeidis che attacca la palma da olio, durante un analisi di
popolazioni per fingerprinting (Mouyna et al., 1996). Nel genoma di F.
oxysporum sono presenti inoltre i trasposoni di tipo batterico Fot1, Fot2, impala
e Hop. Hanno la stesa struttura formata da due ITR lunghe da 27 a 96 bp e una
regione centrale che codifica in modo putativo per una trasposasi. Si possono
distinguere per la modalità di duplicazione del sito di inserzione in due gruppi:
Fot1, Fot2 e impala duplicano un dinucleotide TA mentre Hop si distingue dagli
altri.
Fot1 è presente in circa 100 copie in alcuni genomi di isolati di campo. E’ lungo
1928 bp possiede ITR di 44 bp e la regione centrale codifica per una trasposasi
il cui mRNA misura 1.6 kb. E’ una famiglia molto omogenea di trasposoni e fa
parte della superfamiglia degli elementi Tc1 di Caenorhabditis elegans.
Fot2 è presente in circa 100 copie in alcuni genomi di isolati di campo. E’ lungo
2.1 kb e possiede ITR di 66 bp. Le ITR hanno 25 bp che sono omologhe con
quelle di Fot1 e si verosimilmente tra loro correlati.
L’elemento impala è stato isolato, per la prima volta, in due mutanti niaD
(Langin et al., 1995); E’ lungo 1280 bp, ha ITR di 27 bp ed ha una regione
centrale contenente una ORF priva di introni. Il polipeptide dedotto dall'analisi
dell’ORF rivela delle similitudine con le trasposasi degli elementi della
superfamiglia Tc1-mariner, come pure le sequenze ITR. Le copie di impala
presentano spesso polimorfismo di dimensioni e di profilo di restrizione,
identificabili nelle tre sottofamiglie E, D, F che raggruppano al loro interno le
differenti strutture degli elementi impala finora caratterizzati (Hua-Van et
al.,1998). La famiglia di impala presenta poche copie sparse per il genoma (1-
6).
L’elemento Hop è lungo 3.5bp ed ha ITR di 96 bp. Durante i fenomeni di
escissione-integrazione produce una duplicazione di 7 bp, ritrovata nel gene
niaD.
67
I
11. - SCOPO DEL LAVORO
Sono ormai in aumento gli agenti di contenimento biologico messi in
commercio, tra i quali anche isolati attivi di F. oxysporum. Come è stato
discusso nel capitolo precedente, un microrganismo, usato per la lotta
biologica, è assimilabile ad un prodotto fitosanitario e come tale deve essere
sottoposto alla legislazione vigente valevole per i fitofarmaci (Decreto
Legislativo numero 194 del 17/5/95). Uno dei requisiti principali per un
microrganismo è la sua identificabilità e distinguibilità da quelli presenti
nell’ambiente o immessi dall’uomo in maniera deliberata, nonché la sua
rintracciabilità, così da poter seguire il suo destino nello spazio e nel tempo. A
tal fine è stata provata la strada dell’etichettatura genica, con geni codificanti
per la resistenza all’antibiotico igromicina e al fungicida benomyl, inserite
mediante processi di trasformazione. Il ricorso alla modificazione genica ha
fornito le possibilità di individuare un isolato anche molti mesi dopo il suo
rilascio (Gullino et al., 1995; Gullino e Migheli, 1999). I funghi così modificati
rientrano però sotto la disciplina del Decreto Legislativo 91/93 e sono, quindi,
sottoposti a molteplici restrizioni che ne limitano lo sfruttamento economico. Si è
pensato, quindi, di adottare una strategia non modificativa per i ceppi
antagonisti con più elevata capacità di contenimento biologico. Per le sue
potenzialità di sensibilità, economicità e rapidità si è scelto di adottare la PCR
(Saiki et al., 1988).
In questo lavoro si è voluto caratterizzare un insieme di isolati antagonisti di F.
oxysporum per poterli distinguere, in maniera univoca, ai fini della registrazione
o di un eventuale protezione brevettuale. L’identificazione mediante l’analisi
degli acidi nucleici rende più efficienti e agevoli le procedure di valutazione del
rischio, richieste dalla legge a seguito dell’immissione deliberata nell’ambiente
di un microrganismo. A questo proposito, è stata fatta, dapprima, un’analisi
mediante la tecnica RAPD per caratterizzare tutti gli isolati antagonisti e
successivamente si è cercato di isolare una sequenza caratteristica per gli
isolati 233/2 e 245 wt, dotati di buona attività antagonistica.
68
I
L’analisi RAPD non ha permesso l’individuazione di una banda unica e non si è
potuto applicare la strategia SCAR per gli isolati prescelti (vedi il paragrafo
8.3.4.a., cap.1). Si è quindi optato per la costituzione di primer specifici
disegnati sulle regioni fiancheggianti di inserzioni uniche degli elementi
trasponibili impala e Fot1, come nei lavori precedenti su Fusarium oxysporum f.
sp. albedinis (Fernandez et al., 1999) e su Fusarium oxysporum f.sp. dianthi
(Chiocchetti et al., 1999). Si scelto di concentrarsi maggiormente sul trasposone
impala analizzandone la distribuzione nei diversi isolati per evidenziare bande
specifiche e distinte da quelle presenti nelle diverse forme speciali così da
usarle per costruire gli oligonucleotidi specifici.
69
II
CAPITOLO 2
2. - MATERIALI E METODI.
2.1. - Isolati fungini utilizzati Per l’analisi tramite Southern blot, la PCR inversa, le prove di PCR e i RAPD, è
stata usata una collezione di F. oxysporum saprofiti, isolati da terreni repressivi
liguri e dotati attività antagonistica verso diverse formae speciales di F.
oxysporum. Sono stati inclusi nel lavoro anche i singoli rappresentanti di F.
oxysporum ff.spp. basilici, canariensis, cepae, cyclaminis, gladioli, lilii,
lycopersici, melonis, pisi, radicis-lycopersici e tulipae.
La collezione è mantenuta presso il Di.Va.P.R.A.- PatoIogia Vegetale, Facoltà
di Agraria di Torino su agar patata-destrosio (PDA) sotto olio minerale a 12°C
(Tabella 1).
2.2. - Coltura degli isolati fungini e liofilizzazione
Con un’ansa sterile, lavorando sotto cappa a flusso laminare orizzontale, si
preleva un frammento di micelio da un tubo contenente PDA (vedi «Soluzioni e
Terreni»), e Io si trasferisce in capsule Petri contenenti idrolizzato di caseina. Le
colture liquide vengono mantenute a temperatura ambiente o in incubatore a
24°C senza agitazione per un periodo di 5-7 giorni. Il micelio viene
successivamente filtrato, per eliminare residui di terreno di crescita e di acqua,
trasferendolo in un filtro di porcellana del diametro di circa 10 cm, contenente
sul fondo una membrana di nylon con pori del diametro di 100 µm (entrambi
precedentemente autoclavati) e adagiato su una beuta collegata ad una pompa
a vuoto (BioRad). Dopo l'operazione il micelio ottenuto viene trasferito su carta
bibula sterile e quando è ben asciutto viene messo in una capsula Petri sterile e
congelato mediante azoto liquido (-196°C, vedi «Soluzioni e Terreni»). Le
capsule vengono conservate a -80°C per 15 minuti, quindi si trasferiscono nel
70
II
liofilizzatore (Heto) per 2-3 giorni. Il micelio liofilizzato viene conservato in tubi
da 4 ml a -20°C.
2.3. - Estrazione di DNA genomico
2.3.1. - Estrazione di DNA genomico da micelio liofilizzato Si preleva circa 0,5 g di micelio liofilizzato che viene frammentato tramite un
pestello in microprovette eppendorf da 2 ml; si risospende in 1 ml di soluzione
di lisi (vedi «Soluzioni e Terreni»), quindi viene incubato a 37°C per 30 minuti in
un bagnetto termostatico (VELP Scientifica). Dopo l'incubazione e l'inattivazione
dell'enzima a 70 °C per 15 minuti, vengono aggiunti 100 µl di acetato di
potassio 5M, miscelati con l'aiuto del vortex e posti in un bagno di ghiaccio per
30 minuti. I campioni vengono poi centrifugati a 13000 r.p.m. per 15 minuti in
una microcentrifuga (Sanyo), il surnatante viene estratto con un volume di
fenolo : cloroformio : isoamilalcool (25:24:1) (Sigma) e i tubi vengono posti su
un agitatore basculante (Platform shaker STR6, Stuart Scientific) per almeno 15
minuti, centrifugati a 13000 r.p.m. per 15 minuti sotto cappa chimica; il
surnatante prelevato viene posto in una nuova eppendorf cui viene aggiunto
mezzo volume di acetato di ammonio 7,5 M (vedi «Soluzioni e Terreni»). Dopo
15 minuti in un bagno di ghiaccio e la centrifugazione a 13000 r.p.m. per altri 15
minuti, al sumatante prelevato viene aggiunto un volume di isopropanolo
(Merck). Il DNA, sotto forma di gomitolo biancastro, viene trasferito in una
nuova eppendorf contenente 1 ml di etanolo (Merck) 75% freddo e centrifugato
per 5 minuti a 13000 r.p.m.. Viene aspirato il surnatante e lasciato asciugare il
pellet, quest'ultimo viene risospeso in 200 µl di TE pH 8 (vedi «Soluzioni e
Terreni») e incubato a 65°C per una più rapida risolubilizzazione. Il DNA viene
poi conservato a 4 °C per ulteriori manipolazioni.
2.3.2. - Estrazione di DNA rapida da impiegare in reazioni di PCR E' possibile ottenere un'amplificazione di DNA mediante la PCR partendo da
poche copie di DNA stampo; è perciò utile disporre di un metodo di estrazione
71
II
rapido. Si preleva un cm quadrato di micelio da isolati cresciuti su PDA e si
frantuma con un pestello in una microprovetta, cui era stata aggiunta un volume
di 300 µl di soluzione L (vedi «Soluzioni e Terreni»). La microprovetta viene poi
passata in azoto liquido, quindi in acqua per alcuni istanti: tale procedimento
viene ripetuto per tre volte, per facilitare l’estrazione del DNA. Si procede alla
bollitura per 10 minuti del campione e alla sua centrifugazione per 5 minuti a
13000 r.p.m. Vengono prelevati 200 µl di surnatante che viene poi utilizzato
come DNA-stampo per le reazioni di PCR.
2.3.3. - Preparazione di un gel di agaroso I DNA estratti vengono separati su un gel di agaroso (Sea Kem) 0,8% ottenuto
sciogliendo, nelle adeguate proporzioni, agaroso in TAE 1X (vedi «Soluzioni e
Terreni») ed aggiungendo 1 µl/100 mI di bromuro di etidio (10 mg/ml, Sigma).,
Si utilizzano 5 µl di 1 kb Ladder (GibcoBRL), avente bande di peso molecolare
comprese tra 500 bp e 12000 bp, così da quantificare visivamente il DNA
estratto Si aggiunge ad ogni campione il tampone di carica 6X (vedi «Soluzioni
e Terreni»), quindi si caricano i pozzetti del gel, già posto nella vaschetta
elettroforetica contenente TAE 1X, con 1µl di campione. Si applica una
differenza di potenziale tra gli elettrodi pari a circa 100 V e si effettua la
migrazione del DNA. Alla fine della corsa elettroforetica le immagini sono
rilevate con il Gel Doc 1000 Molecular Analyst (Bio-Rad). La quantificazione del
DNA estratto avviene confrontando l'intensità della banda di DNA estratto con il
segnale del Ladder di taglia 1.6 kb (50 ng)
2.4. - Southern blot 2.4.1. - Digestione del DNA genomico e precipitazione
Vengono digeriti circa 10 µg di DNA genomico con 50 U di Xho I o Bgl II a 37
°C per 16 ore in un volume di 100-200 µl. Un'aliquota di 5 µl viene prelevata al
termine del tempo di incubazione e controllata su gel di agaroso per verificarne
l’avvenuta digestione. Il DNA viene successivamente precipitato con 1/10 di
72
II
volume, della reazione di digestione, di sodio acetato 3M pH 5,2 (vedi
«Soluzioni e Terreni») e 2 volumi di etanolo 96% pre-refrigerato a –20 °C. Le
microprovette vengono mantenute a –80 °C per 30 minuti e poi centrifugate a
13000 r.p.m. per 15 minuti a 4 °C. Viene effettuato un lavaggio del pellet con 1
ml di etanolo 70% e di nuovo un passaggio in centrifuga a 13000 r.p.m. per 5
minuti a 4 °C. Viene aspirato il surnatante e il pellet viene seccato all’aria per
qualche minuto. Il DNA viene risospeso in 10 µl di TE.
Il DNA così preparato viene separato per elettroforesi su gel di agaroso allo
0.8% in tampone TAE 1X (vedi Appendice "Soluzioni e terreni”). La separazione
sulla base della taglia molecolare dei diversi frammenti di digestione viene
eseguita lentamente per 12 ore a 35 V in una camera elettroforetica
(Pharmacia).
2.4.2. - Trasferimento su membrana dei DNA genomici digeriti
I campioni di DNA genomico digerito e separato per elettroforesi sono stati
trasferiti su una membrana di del tipo Nylon Transfer Membrane "Hybond N"
(Amersham): un supporto più maneggevole per i successivi esperimenti di
marcatura. Per il trasferimento si è utilizzato un sistema a depressione (Bio-
Rad) e come protocollo quello fornito dalla ditta. Vengono preparati dei
rettangoli di carta 3M (Whatman) dello spessore di 3 mm e la membrana di
trasferimento entrambi tagliati delle dimensioni del gel e poi imbibiti in acqua
milliQ (Millipore) sterile. Si dispongono nell’ordine sul supporto di trasferimento
la carta, la membrana, la finestra con guarnizioni, il gel, il coperchio di tenuta.
Viene poi applicata una depressione di 15 mm Hg mediante una pompa a vuoto
(Vacuum pump, Biorad). Si ricopre il gel con una soluzione di depurinazione
(vedi Appendice "Soluzioni e terreni”) per 4 minuti ripetendo l'operazione per 2
volte. Si lava il gel con acqua sterile e poi lo si ricopre con una soluzione di
denaturazione (vedi Appendice "Soluzioni e terreni”) per 20 minuti. Si ricopre
poi con una soluzione di neutralizzazione per 5 minuti (vedi Appendice
"Soluzioni e terreni”). Si termina ricoprendo con una soluzione di trasferimento
(vedi Appendice "Soluzioni e terreni”) per 30 minuti. Al termine la pompa a
73
II
vuoto viene spenta e smontato l’apparato si preleva la membrana che viene
mantenuta per 5 minuti su carta bibula imbibita di SSC 2X orientata verso l’alto
(vedi Appendice "Soluzioni e terreni”). Viene fatta asciugare rapidamente e poi
fissata mediante raggi UV a 260 nm per 5 minuti tramite un trans-illuminatore
(2011 MACROVUE transilluminator, LKB). La membrana può essere utilizzata
subito per diverse manipolazioni o conservata a –20 °C avvolta in una pellicola
per alimenti (I.DI. Torino)
2.4.3. - Marcatura delle sonde a DNA con digossigenina
Per la marcatura delle sonde si è adottato kit “DIG DNA Labeling Kit” (Roche). Il
DNA viene marcato usando la digossigenina-11-dUTP, usando come metodo di
marcatura il "Random Primed DNA Labeling": la reazione di marcatura è in
grado di produrre una sufficiente quantità di sonda marcata in breve tempo.
Durante La reazione di marcatura una molecola di digossigenina è incorporata
ogni 20-25 nucleotidi della sonda di interesse. Previa separazione e
purificazione da gel di agaroso dei prodotti di PCR mediante kit Jet-quick
(Genomed) 1 µg DNA viene marcato secondo il protocollo della ditta: le provette
contenenti il DNA da marcare vengono fatte bollire per 10 minuti per
denaturarlo e repentinamente poste in ghiaccio per 5 minuti al fine di evitarne la
rinaturazione. Vengono poi aggiunti i componenti della miscela di reazione nelle
giuste proporzioni: in un volume finale di reazione di 20 µl si utilizzano 2 U
enzimatiche del frammento Klenow, esanucleotidi e dNTP. Viene fatta avvenire
la reazione a 37°C, in un bagnetto termostatico, per tutta la notte. Il risultato
finale è una sonda marcata non radioattiva.
2.4.4. - Precipitazione del DNA marcato con digossigenina
Il DNA marcato viene precipitato aggiungendo 1/10 di volume di 200 mM EDTA
pH 8 (vedi «Soluzioni e Terreni»), 1/10 di volume di 4 M cloruro di litio (Merck) e
3 volumi di etanolo 96% freddo, pre-refrigerato a –20°C.Le microprovette
vengono mantenute a –80 °C per 30 minuti e poi centrifugate a 13000 r.p.m.
74
II
per 15 minuti a 4 °C. Viene effettuato un lavaggio del pellet con 1 ml di etanolo
70% e di nuovo centrifugate a 13000 r.p.m. per 5 minuti a 4 °C. Viene aspirato il
surnatante e il pellet viene seccato all’aria per qualche minuto. Il DNA marcato
viene risospeso in 20 µl di TE pH 8 (vedi Appendice "Soluzioni e terreni”). Si
procede poi alla quantificazione della sonda marcata mediante il kit di controllo
annesso a quello di marcatura (Roche) I primer impiegati ed i relativi pesi
molecolari dei frammenti, con cui sono state ottenute le sonde utilizzate, sono
elencati nelle tabelle 2 e 4.
2.4.5. - Controllo del DNA marcato Per verificare una corretta marcatura delle sonde e per quantificarle si è
utilizzato il DNA di controllo fornito con il kit “DIG DNA Labeling Kit” (Roche).
Vengono eseguite cinque diluizioni del DNA di controllo (stock [20 ng/µl]): (A)
1:20, (B) 1:10 della diluizione A, (C) 1:100 della diluizione B, (D) 1:1000 della
diluizione C, (E) 1:10000 della diluizione D. Il DNA marcato viene portato alla
medesima concentrazione della diluizione A di controllo (1 ng/µl); una volta
ottenuta questa concentrazione, si effettuano le medesime diluizioni del DNA di
controllo (A’, B’,C’, D’, E’).Le diluizioni vengono fatte in un tampone fornito nel
kit. Si pone un 1 µl di ogni diluizione su una frammento di membrana Nylon
Transfer Membrane "Hybond N" (Amersham), si lascia asciugare alI'aria e
successivamente si pone per 5 minuti sul transilluminatore a U.V., per fissare il
DNA all membrana. Il filtro viene reidratato con MBS 1X (vedi Appendice
"Soluzioni e terreni), e poi incubato con BR 1% (vedi «Soluzioni e Terreni») in
agitazione a 37°C per 30 minuti. In seguito vie mantenuto in agitazione su un
piano basculante (Platform shaker STR6, Stuart Scientific) a temperatura
ambiente alla presenza di anticorpo anti-digossigenina (1:10000 in BR 1%).
Dopo due lavaggi di 10 minuti ciascuno in MBS 1X, si trasferisce la membrana
in una vaschetta con il tampone AP (vedi «Soluzioni e Terreni») e si lascia
basculare per 5 minuti. Si sostituisce il tampone AP con il substrato lumigeno
CSPD (Roche) (1:100 in tampone AP, (vedi Appendice “Soluzioni e terreni”), al
buio, e si lascia basculare per 5 minuti. Si pone la membrana a contatto con
75
II
una lastra autoradiografica (Kodak) e si effettua una esposizione di per 30
minuti a 37°C. Si sviluppa la lastra in camera oscura ponendola per 2 minuti
nella soluzione di sviluppo (vedi Appendice “Soluzioni e terreni"), per qualche
secondo in acqua e per 2 minuti nella soluzione di fissaggio (vedi Appendice
“Soluzioni e terreni"). Si confrontano sulla lastra ottenuta il DNA di controllo con
il DNA marcato e si stabilisce la quantità di sonda ottenuta.
2.4.6. - Preibridazione e ibridazione
La membrana, su cui è stato trasferito il DNA digerito, viene incubata a 65°C
con un soluzione di preibridazione (vedi Appendice “Soluzioni e terreni”), per un
tempo variabile da 2 a 6 ore secondo la dimensione della membrana. La
membrana viene successivamente posta in una soluzione di ibridazione (vedi
Appendice Soluzioni e terreni). La sonda viene fatta bollire per 10 minuti e
subito posta in ghiaccio per 5 minuti per evitare la rinaturazione, quindi unita
alla quantità di liquido di preibridazione necessaria e sufficiente a ricoprire la
membrana, aggiungendo un 1 µl di sonda (stock 20ng/µl) per ogni mI di liquido
di preibridazione. Viene eseguita una ibridazione per tutta la notte.
2.4.7. - Sviluppo della chemioluminescenza
Si recupera il liquido di preibridazione con la sonda, che può essere congelata e
riutilizzata più volte per un periodo di circa sei mesi. La membrana viene
sottoposta a 4 lavaggi (due con la soluzione 1 e due con la soluzione 2: vedi
«Soluzioni e Terreni») di 10 minuti ciascuno a 65°C, pre-riscaldando le soluzioni
a 65°C. La membrana viene poi posta su carta bibula sterile e mantenuta a
basculare per 5 minuti nella soluzione di lavaggio (vedi «Soluzioni e Terreni»).
Si incuba poi in BR 1% filtrato tramite della carta bibula, a 37°C in agitazione
per 1 ora. Viene sostituito il BR 1% con una soluzione di BR 1% più mAb anti-
digossigenina (Roche) in proporzioni di 1:10000, Incubando per 1 ora a
temperatura ambiente in agitazione. La membrana vie poi trattata con la
soluzione di lavaggio per quattro volte, ciascuna di 10 minuti, in agitazione a
76
II
temperatura ambiente. La membrana è trasferita in una vaschetta pulita e
lasciata basculare per 5 minuti in tampone AP. Viene poi incubata in una
soluzione contenente lumigeno CSPD® (Roche) diluito 1:100 in tampone AP, in
agitazione per 5 minuti al buio. Si preparano due lucidi e si pone tra loro la
membrana, poi si mette il tutto a contatto con una lastra autoradiografica
(Kodak) e si effettua una esposizione di 1 ora a 37°C. Si sviluppa la lastra in
camera oscura ponendola per 2 minuti nella soluzione di sviluppo (vedi
Appendice .Soluzioni e terreni"), per qualche secondo in acqua e per 2 minuti
nella soluzione di fissaggio (vedi Appendice “Soluzioni e terreni").
2.5. - Reazione di pcr inversa (IPCR) 2.5.1. - Digestione del DNA genomico e precipitazione
Si digerisce una aliquota di DNA genomico pari a 5 µg con 20 U di Bgl II
(BioLabs), alla presenza di tampone “Sure cut buffer” (BioLabs), in un volume
finale di reazione di 100 µl. Si incuba a 37°C per tutta la notte. Si precipita il
DNA digerito aggiungendo 1/10 di volume di 3M sodio acetato pH 5.2 (vedi
«Soluzioni e Terreni») e poi 2 volumi di etanolo 96%, pre-refrigerato a –20 °C.
Le microprovette vengono mantenute a –80 °C per 30 minuti e poi centrifugate
a 13000 r.p.m. per 15 minuti a 4 °C. Viene effettuato un lavaggio del pellet con
1 ml di etanolo 70% e di nuovo centrifugate a 13000 r.p.m. per 5 minuti a 4 °C.
Viene aspirato il surnatante e il pellet viene seccato all’aria per qualche minuto.
Il DNA viene risospeso in un volume di 10 µl di acqua milliQ sterile.
2.5.2. - Autocircolarizzazione dei DNA digeriti Si procede alla circolarizzazione dei singoli frammenti di digestione su loro
stessi. Per facilitare la auto ligazione ed evitare la formazione di concatameri, si
esegue la reazione in un volume relativamente ampio pari a 100 µl e a bassa
temperatura. Si utilizza tutto il DNA precedentemente digerito aggiungendo 1 U
di T4 DNA ligasi (Roche) nel tampone di reazione specifico per l’enzima. Si
incuba la reazione per tutta la notte a 4°C. Il DNA viene poi precipitato con 1/2
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II
volume di ammonio acetato 7.5 M e 3 volumi di etanolo 96%, lavato e
centrifugato con le modalità precedentemente descritte. Si risospende il
campione in 10 µl di acqua milliQ sterile.
2.5.3. - Reazione di IPCR
Si utilizzano come DNA stampo una quantità variabile tra 100 ng e i 500 ng di
DNA circolarizzato. Vengono preparate due miscele di reazione. La prima
contiene: 350 nm di ciascun nucleotide (Roche), 500 nm di sequenze
oligonucleotidiche IMP1 con IMP2 disegnati sulle porzioni terminali di impala,
diretti verso l’esterno e utilizzati per isolare le regioni fiancheggianti il
trasposone (Figura 1), 5 µl di DNA e acqua fino ad un volume di 25 µl. La
seconda contiene: 5 µl di tampone di reazione e 0.75 µl di Taq (predisposti dal
kit: Expand® long template PCR system, Roche). Viene aliquotata la prima
miscela in un tubo di reazione a parete sottile (Thin walled PCR tube, Roche),
vengono aggiunti 50 µl di olio minerale (Sigma) sterile. Il tubo viene posto poi
nel blocchetto del termociclatore Perkin Elmer Cetus 9600 (Emeryville, CA).
Quando la temperatura raggiunge i 94 °C si aggiungono 25 µl della seconda
miscela di reazione (Chow et al., 92). Le reazioni sono soggette a 35 cicli di
denaturazione a 94°C per 10 secondi, all'appaiamento dei primer sulle regioni
omologhe con un passaggio di temperatura da 68°C a 60°C (2 cicli a 68°C, 2
cicli a 65°C, 1 ciclo a 63°C e 30 cicli a 60°C) per 1,5 minuti, alI'estensione a
68°C per 2 minuti ed un autoestensione di 10 secondi per i restanti 30 cicli. Le
reazioni sono completate con un'incubazione a 68°C per 7 minuti. I prodotti di
amplificazione vengono controllati tramite elettroforesi su gel di agaroso (Sea
Kem). Qualora l'amplificazione non dia un risultato apprezzabile su gel si
esegue una PCR annidata con gli oligonucleotidi IMP5 e IMP6 posizionati più
esternamente su impala rispetto a IMP1 e IMP2 (Figura 1).
78
II
2.6. - Clonaggio dei prodotti dell'IPCR
2.6.1. - Separazione delle bande su gel L'intero volume di reazione della PCR inversa viene caricato su un gel di
agaroso all'1%. Le bande di interesse vengono tagliate con un bisturi, ponendo
il gel sul transilluminatore a raggi U.V. (LKB).
2.6.2. - Estrazione del DNA da gel
Si esegue una purificazione da gel di agaroso mediante il kit Jet-quick
(Genomed). Si pesa il frammento tagliato dal gel cui si aggiungono 300 µl di
soluzione L1 (predisposta dal kit) per ogni 100 mg di banda e si pongono le
microprovette eppendorf in un bagno ad acqua calda a 50°C per almeno 15
minuti, agitandole ogni 3 minuti, così da favorire la solubilizzazione del gel. Si
trasferiscono 700 µl di tale sospensione sulla colonnina fornita dal kit e si
centrifuga immediatamente a 13000 r.p.m. per 1 minuto. Si aggiungono 700 µl
di soluzione L2 (predisposta dal kit) e si lascia riposare per 5 minuti. Si
eseguono due centrifugate a 13000 r.p.m. di 1 minuto ciascuna e si trasferisce
la colonnina su un tubo sterile da 1,5 mI; Si aggiungono 50 µl di acqua milliQ
sterile preriscaldata a 50°C, quindi si centrifuga per 2 minuti. Il DNA così
ottenuto è controllato su un gel di agaroso all'1 % mediante elettroforesi.
2.6.3. - Ligazione del DNA nel vettore
Il DNA purificato da gel è stato successivamente clonato nel vettore plasmidico
pGEM-T (Promega). L'enzima Taq polimerasi (Expand® long template PCR
system, Roche) utilizzato per la PCR inversa aggiunge, una volta su due, alle
estremità di ogni amplimero una coda di adenina (tail). Si è utilizzato, per il
clonaggio, pGEM-T (Fig. 2), un vettore avente una lunghezza di 3 Kb (50 ng/µl).
Tale plasmide viene venduto già linearizzato e provvisto di una timina pendula
all'estremità 5' e al 3'. Il sito di clonaggio è stato generato, all'interno del gene
codificante per il peptide α del cistrone lacZ, mediante un taglio con l'enzima
79
II
EcoRV e successiva aggiunta di una coda di timina (tailing). La frequenza di
ligazione del frammento di IPCR è stata così notevolmente aumentata. La
reazione di ligazione avviene in un volume di reazione di 10 µl. Si prepara una
miscela contenente: 5 µl di tampone 2X della T4 DNA ligasi, 1 µl di T4 DNA
ligasi, 1 µl di vettore pGEM-T (reagenti predisposti dal kit), 1 µl di prodotto di
IPCR. La reazione viene fatta avvenire a 4 °C per tutta la notte, così da evitare
la richiusura su se stesso del plasmide e quindi massimizzare, dopo la
trasformazione, il numero di trasformanti positivi.
2.6.4. - Trasformazione
Il prodotto della reazione di ligazione viene utilizzato, senza ulteriori
manipolazioni, per trasformare un ceppo di E. coli competenti JM109 (JM109
High Efficiency Competent Cells, Promega). Tali cellule sono state manipolato
in maniera da contenere l'episoma F', che reca i geni proAB, complementanti la
auxotrofia per la prolina di tale ceppo. Lo stesso plasmide porta la porzione
lacIqZ∆M15, richiesta per la selezione "blu/bianco" delle colonie trasformate. Si
fanno scongelare le cellule competenti in ghiaccio (circa 5 minuti). Si centrifuga
per pochi secondi a 13000 r.p.m. il prodotto di ligazione, per raccoglierlo sul
fondo del tubo. Si trasferiscono 2 µl della miscela in una nuova microprovetta
pre-raffreddata in un bagno di ghiaccio. Ad essi si aggiungono 50 µl di cellule e
si agita gentilmente. Si incuba in ghiaccio per 20 minuti. Si esegue uno shock
termico a 42 °C per 45-50 secondi e si rimette la provetta in ghiaccio per 2
minuti. Si aggiunge successivamente un volume di 950 µl di terreno di coltura
SOC (vedi «Soluzioni e Terreni») e si incuba a 37°C, in agitazione, per 90
minuti. Si piastra un volume di 100 µl di reazione di trasformazione su terreno
LBA supplementato con ampicillina (Merck), con 30 µl, rispettivamente, di IPTG
100 mM (indolilpropil-tio-beta-galattoside, BioRad) e di X-gal 50 mg/ml (5-
bromo-4-cloro-3-indolil-beta-galattoside, Promega) (vedi «Soluzioni e Terreni»).
L'IPTG è un induttore stabile che si lega al repressore dell'operone lattosio,
determinando una attiva trascrizione dei geni Z, Y e A. L'X-GAL è un analogo
sintetico del lattosio che viene metabolizzato dalla β galattosidasi, dando come
80
II
prodotto di reazione un pigmento blu. La selezione viene fatta sfruttando il
fenomeno della mancata complementazione del α lacZ con il lac operon. Le
cellule trasformate con il vettore auto richiuso daranno colonie blu, per la
capacità di complementare l'operone. Le cellule trasformate con il plasmide e
l'inserto appariranno bianche, dal momento che l'inserto lede la funzionalità del
lacZ, che incapace di dare complementazione produrrà un enzima inattivo
incapace di metabolizzare l'X-GAL. Vengono prelevate le colonie bianche
mediante uno stuzzicadenti sterile e vengono fatte crescere in 3 ml di terreno
LB con ampicillina (vedi «Soluzioni e Terreni»), in agitazione a 37°C per tutta la
notte.
2.6.5. - Protocollo per estrazione dl DNA plasmidico dalle cellule batteriche trasformate Le colonie batteriche accresciutesi vengono utilizzate per l'estrazione del DNA
plasmidico, così da verificare l'avvenuta trasformazione. Si trasferisce in una
eppendorf sterile un volume pari a circa 1.5 ml di coltura batterica, lo si
centrifuga per 30 secondi a 13000 r.p.m. e si elimina il surnatante. Vengono
aggiunti 100 µl di soluzione R (vedi «Soluzioni e Terreni»), si risospende il pellet
batterico aiutandosi con un vortex (VELP Scientifica), si aggiungono 100 µl di
soluzione L di lisi (vedi «Soluzioni e Terreni»), si agita con il vortex, indi si
aggiungono 400 µl di soluzione N (vedi «Soluzioni e Terreni»), per precipitare la
parete batterica, agitando nuovamente. Si centrifuga per 5 minuti a 13000 r
p.m., si recupera il surnatante in un eppendorf sterile da 1,5 mI e si aggiungono
600 µl di etanolo 96 %, miscelando per inversione. Si centrifuga per 10 minuti a
13000 r. p.m., si aspira il surnatante e si aggiunge 1 mI di etanolo 75%,
miscelando per inversione. Si centrifuga per altri 10 secondi, si elimina il
surnatante e si lascia asciugare all'aria il pellet di DNA. Si risospende il pellet
con 20 µl di TE (pH 8) (vedi «Soluzioni e Terreni»).
81
II
2.6.6. - Digestioni di controllo
Per verificare che i cloni batterici, derivati una colonia bianca, presentino
l'inserto di interesse si eseguono delle digestioni differenziali del DNA
plasmidico estratto. Si utilizzano gli enzimi di restrizione Nco I e Pst I che sono
in grado di riconoscere siti unici di restrizione sul polylinker di pGEM-T,
rispettivamente a sinistra e a destra del punto di clonaggio dell'inserto. Si
prepara una miscela di reazione, in un volume di 20 µl, contenente: 5 µl di DNA
plasmidico estratto, 1 U di Nco I e Pst I, 2 µl di tampone specifico per gli enzimi
e acqua milliQ sterile. Si incuba a 37°C per 1 ora in un bagnetto termostatico. Si
evidenziano i prodotti di digestione su un gel di agaroso all'1% mediante
elettroforesi in tamponeTAE 1X (vedi «Soluzioni e Terreni»).
2.6.7. - Protocollo di estrazione di DNA plasmidico da cellule batteriche in media scala Per la estrazione plasmidica è stato utilizzato un protocollo predisposto dalla
ditta fornitrice il kit di purificazione Nucleobond AX100 (Macherey-Nagel). Per le
soluzioni utilizzate consultare l'Appendice "Soluzioni e terreni". Viene inoculata
una colonia batterica in 100 ml di terreno LB (vedi «Soluzioni e Terreni») con
ampicillina in una beuta da 250 ml. Si mantiene in agitazione a 37°C per tutta la
notte fino al raggiungimento di una densità di coltura adeguata. Per conservare
i cloni si preparano degli strisci su piastra di LBA più ampicillina e si preparano
anche delle provette con glicerolo: si miscelano 400 µl di glicerolo sterile con
600 µl di coltura batterica (Sworder et al., 1976).
La restante coltura viene centrifugata a 5000 r.p.m. a 4°C per 5 minuti, in
contenitori (Sorvall) sterili. Il surnatante viene eliminato ed il pellet risospeso in
4 mI di tampone S1 (vedi «Soluzioni e Terreni»), cui viene preventivamente
addizionata100 µg/ml di RNAsi A (Roche). La sospensione batterica viene
trasferita in tubi più piccoli (Beckman) resistenti alla centrifugazione. Si
aggiunge un volume di 4 ml di tampone S2 (vedi «Soluzioni e Terreni»), quindi
si miscela con cautela e si incuba a temperatura ambiente per 5 minuti. Si
82
II
aggiungono, poi, 4 mI di tampone S3 (vedi «Soluzioni e Terreni»), si agita
delicatamente, mediante inversione dei tubi per 6-8 volte, al fine di ottenere una
sospensione omogenea. Si pongono, successivamente i tubi in un bagno di
ghiaccio per 5 minuti e si centrifugano a 9500 r.p.m. a 4°C per 38 minuti. Nel
frattempo si equilibra la colonnina NUCLEOBOND AX 100 (Macherey-Nagel)
con 2 mI di tampone N2 a pH 6.3 (vedi «Soluzioni e Terreni»). Terminata la
centrifugazione, si rimuove il surnatante con cura evitando di aspirare il
precipitato bianco, lo si filtra con una garza sterile e lo si carica sulla colonnina.
Si lava la colonnina per 2 volte con 4 mI di tampone N3 a pH 6.3 (vedi
«Soluzioni e Terreni»). Il DNA plasmidico viene eluito con 3 mI di tampone N5 a
pH 8.5 (vedi «Soluzioni e Terreni»), trasferendo la colonnina su un nuovo tubo.
Il DNA plasmidico viene poi precipitato aggiungendo 0,7 volumi ( con
riferimento al volume di eluizione) di isopropanolo, preequilibrato a temperatura
ambiente. La soluzione è centrifugata a 9500 r.p.m. per 15 minuti a 4°C. Viene
eliminato il surnatante e il DNA viene lavato con una adeguata quantità di
etanolo 70%, girando il tubo un paio di volte. Dopo aver nuovamente eliminato il
surnatante, il pellet è risospeso con 200 µl di TE (vedi Appendice .Soluzioni e
terreni"). Vengono successivamente compiuti dei controlli, mediante restrizione
con enzimi, per confermare la positività del clone.
2.7. - Sequenziamento del DNA
Il sequenziamento dei DNA è stato fatto dal Servizio di Sequenziamento del
Dipartimento di Biologia-LIMA presso il BIOINDUSTRY PARK CANAVESE S.r.l.
(Colleretto Giacosa). La reazione di sequenza viene ottenuta utilizzando
termociclatori PCR PTC-100 MJ Research e PCR Express Thermal Cycler della
Hybaid. Il sequenziamento viene effettuato su CEQ 2000 Analysis System
(Beckman Coulter). Il sistema CEQ 2000 si basa su un processo di elettroforesi
capillare completamente automatizzato, ideato per determinare la sequenza in
basi di DNA mediante l'uso di un kit specifico "4 color-labeled". Il rilevamento
avviene tramite fluorescenza laser-indotta in quattro canali spettrali distinti. I
dati grezzi sono archiviati in formati compatibili con le applicazioni più diffuse.
83
II
Le sequenze sono state analizzate con il programma Chromas 1.45 (Mc
Carthy). Le sequenze delle regioni fiancheggianti impala, identificate nei cloni
ACQ1 e ACQ2 sono state depositate presso la GenBank (numeri di accesso:
DA REGISTRARE, rispettivamente).
2.8. - Reazione di PCR 2.8.1. - Amplificazione RAPD-PCR L'analisi molecolare tramite RAPD è stata condotta con 7 ceppi di F. oxysporum
antagonisti isolati da terreni repressivi liguri, (Tabella 1), per valutare
l'omogeneità dei profili di amplificazione, utilizzando il DNA estratto da micelio
liofilizzato e da rappresentanti di ff.spp. di Fusarium oxysporum.
Le amplificazioni sono state realizzate in 15 µl di miscela di reazione, contenenti
10 mM Tris-HCl, pH 9,0, 1,5 mM MgCl2, 50 mM KCl, 0,1% Triton X-100, 0,01%
(w/v) gelatina, 60 µM di ciascun dATP, dCTP, dGTP e dTTP (Promega), 5 pM
di primer, circa 0,1 ng di DNA bersaglio e 0,75 U di SuperTaq DNA polimerasi
(HT Biotechnology). Trenta oligonucleotidi di 10 basi ognuno (Operon
Technologies Inc.; Tabella 3 ) sono stati provati come primer. Tutti i reagenti
(tranne il DNA) sono stati preventivamente miscelati e le aliquote distribuite in
tubi Eppendorf di reazione da 0,5 ml, prima dell'aggiunta del DNA bersaglio e
dell'olio minerale sterile per PCR (Sigma), per ridurre il rischio di
contaminazione.
La quantità di DNA è stata valutata attentamente per migliorare la specificità e
ripetibilità della reazione RAPD secondo i criteri suggeriti da Davin-Regli et al.
(1995)
La reazione di amplificazione è stata effettuata nel Cetus Gene Amp PCR
System 9600 (Perkin-Elmer). E' stato usato un programma di amplificazione di
45 cicli che prevedeva un ciclo di denaturazione di 2 minuti e 30 secondi
seguito da 30 secondi di denaturazione a 94°C, 1 minuto a 36°C e 2 minuti a
72°C.
84
II
2.8.2. - Utilizzo di primers specifici per il ceppo antagonista 233/2
Gli oligonucleotidi specifici sono stati disegnati sulle sequenze fiancheggianti
utilizzando il programma Input3 (prodotto da Richard Resnick, http://www-
genome.wi.mit.edu/cgi-bin/primer/primer3_www.cgi). Per le reazioni di PCR si è
utilizzato DNA genomico fungino purificato da micelio liofilizzato, in quantità da
1 µl a 5 µl corrispondenti a 100 ng- 500 ng. Per ciascuna coppia di primer sono
tate approntate reazioni di PCR in condizioni diverse: (Tabella 5). E' stata
messa a punto una reazione di PCR "hot start", per fare in modo che l'enzima
entri in contatto con gli altri reagenti solo alla temperatura adeguata. Per ciò
vengono preparate due miscele di reazione. La prima contiene: 350 nm di
ciascun nucleotide (Fynzymes), 500 nm di sequenze oligonucleotidiche
disegnate, rispettivamente sulla sequenza fiancheggiante di ACQ1 e di ACQ2
(Tabella 4) e sulla porzione terminale di impala, diretti verso l’esterno acqua fino
ad un volume di 11,5 µl. La seconda contenente: 2,5 µl di tampone di reazione
(vedi Appendice “Soluzioni e terreni") e 0,75 µl di Taq Polimerasi (vedi
Appendice “Soluzioni e terreni") e acqua fino ad un volume di 11,5 µl. . Viene
aliquotata la prima miscela in un tubo di reazione, viene aggiunto il DNA, indi
vengono aggiunti 25 µl di olio minerale (Sigma) sterile. Il tubo viene posto poi
nel blocchetto del termociclatore Perkin Elmer Cetus 9600 (Emeryville, CA).
Quando la temperatura raggiunge i 94 °C si aggiungono 12,5 µl della seconda
miscela di reazione (Chow et al., 92). Le reazioni sono soggette ad un primo
ciclo di denaturazione di 5 minuti a 94°C e successivamente a 30 cicli di
denaturazione a 94°C per 10 secondi, di appaiamento dei primer sulle regioni
omologhe con un passaggio di temperatura da 70°C a 64°C (2 cicli a 70°C, 2
cicli a 68°C, 2 cicli a 66°C e 30 cicli a 64°C) per 30 secondi, alI'estensione a
64°C per 1 minuto. Le reazioni sono completate con un'incubazione a 68°C per
5 minuti. I prodotti di amplificazione sono controllati dopo l'amplificazione
caricando 10 µl delle reazioni su un gel di agaroso (Sea Kem) al 2%, mediante
separazione elettroforetica e acquisizione dell'immagine mediante il Gel Doc
1000 Molecular Analyst (Bio-Rad).
85
II
2.9. - "SOLUZIONI E TERRENI"
2.9.1. - Coltura degli isolati fungini
ldrolizzato di caseina (HC):
Pesare 1 g estratto di lievito (Merck), 2 g di idrolizzato di caseina, 1,5 g di
fosfato di potassio monobasico (Merck), 1 g di solfato di magnesio (Sigma), 15
g di glucosio (Merck), 10 ml di A-Z soluzione. Solubilizzare le polveri in 1 litro di
acqua distillata in un becher agitando con un ancoretta magnetica, su un
agitatore magnetico. Aggiungere un volume di circa 70 ml in beute da 200 mI.
Autoclavare, per 10 minuti a 121°C a due atmosfere di pressione, la beute
tappate con tappi di cotone.
Soluzione elementi A-Z in tracce:
Disciogliere in 3 litri di acqua distillata: 0,93 g di cloruro di litio (Merck), 0,166 g
di solfato di rame pentaidrato (Sigma), 0,166 g di solfato di zinco, 1,83 g di
acido borico (Sigma), 0,166 g di solfato di alluminio, 0,083 g di cloruro di stagno
diidrato, 1,17 g di cloruro di manganese tetraidrato, 0,166 g di solfato di nichel
esaidrato, 0,166 g di nitrato di cobalto esaidrato, 0,166 g di biossido di titanio,
0,083 g di ioduro di potassio (Sigma), 0,083 g di bromuro di potassio (Sigma) .
Potato dextrose agar (PDA, Merck):
Sciogliere 39 g di polvere in un litro di acqua distillata. Sterilizzare in autoclave,
per 10 minuti a 121°C a due atmosfere di pressione, ed aliquotare con dosatore
sterile, 9 mI per capsula Petri.
Azoto liquido:
fornito da AIR LIQUIDE ltalia Srl-Grugliasco-Torino
86
II
2.9.2. - Estrazione di DNA genomico
2.9.2.a. - Estrazione di DNA genomico da micelio liofilizzato Soluzione di lisi:
50 mM EDTA, 0,2% sodio dodecil solfato (Merck), 100 µg/ml di proteinasi K.
EDTA 0,5 M: Sciogliere in un becher 186,1 g di disodioetilendiaminoacetato diidrato (Sigma)
in 800 mI di acqua distillata, agitare con ancoretta magnetica e rettificare il pH a
8-8.5 con pastiglie di idrossido di sodio (BDH); portare al volume di 1 litro.
Dispensare in aliquote di 50 ml e sterilizzare in autoclave.
SDS 10%:
Sciogliere in un becher 100 g di SDS (Merck) in 900 mI di acqua distillata
sterile, riscaldando a 68°C. Rettificare il pH a 7,2 con qualche goccia di acido
cloridrico fumante (Merck) e portare il volume a 1 litro; Dispensare in aliquote e
conservare a temperatura ambiente.
Proteinasi K:
Sciogliere 100 mg di proteinasi K (Roche) in 10 ml di acqua distillata sterile;
dispensare in aliquote da 1 ml (10 mg/ml).
Potassio acetato 5M:
Sciogliere, in un becker, 490,66 g di potassio acetato (Merck) in 1 litro di acqua
milliQ; Facilitare la dissoluzione con l'aiuto di un'ancoretta magnetica, su un
agitatore magnetico. Sterilizzare in autoclave.
Fenolo cloroformio isoamilalcool (Sigma):
disponibile nella formulazione 25:24:1.
Ammonio acetato 7,5 M:
87
II
Sciogliere, in un becker, 578,1 g di ammonio acetato (Merck) in 1 litro di acqua
distillata; facilitare la dissoluzione con l'aiuto di un'ancoretta magnetica, su un
agitatore magnetico. Sterilizzare mediante filtrazione, con membrana porosa
0.22 µm (Millipore).
lsopropanolo: (Merck)
Etanolo 96%:(Merck)
Etanolo 75%:
Preparare una soluzione con 75 ml di etanolo 96% (Merck) e 25 ml di acqua
milliQ sterile.
TE:
Preparare una soluzione acquosa contenente 10 mM tris-
idrossimetilaminometano (Merck) e 1 mM EDTA pH 8 (Sigma).
2.9.2.b Metodo rapido di estrazione del DNA per PCR
Soluzione L:
Preparare una soluzione acquosa contenente 0,1 mM EDTA (Sigma), 10
mM Tris-HCI pH 8.
Tris 1M:
Sciogliere, in un becker, 121,1 g Tris base (Bio Rad) in 1 litro di acqua
milliQ sterile; facilitare la dissoluzione con l'aiuto di un'ancoretta
magnetica, su un agitatore magnetico, rettificando il pH con acido
cloridrico fumante (Merck).
88
II
2.9.3. - Southern blot
2.9.3.a. - Trasferimento su membrana dei DNA genomici digeriti. Soluzione di depurinazione:
Preparare una soluzione 0,25 M di acido cloridrico fumante (Merck).
Soluzione di denaturazione:
Preparare una soluzione 0,5 M di idrossido di sodio (BDH), 1,5 M di cloruro di
sodio (Merck).
Soluzione di neutralizzazione:
Preparare una soluzione 1,5 M di cloruro di sodio (Merck), 0,5 M di Tris-HCI pH
7.5, e 1 mM EDTA (Sigma).
SSC 20X:
Preparare una soluzione sciogliendo 175,3 g/I di cloruro di sodio (Merck), 88,2
g/I di sodio citrato (Merck) in acqua milliQ sterile; portare a pH 7 con qualche
goccia di acido cloridrico fumante (Merck).Dispensare in aliquote e autoclavare.
SSC 2X
Preparare una soluzione diluita 10 volte della soluzione madre SSC 20X
2.9.3.b Marcatura delle sonde a DNA con digossigenina.
“DIG DNA Labeling Kit” (Roche):
Sistema costituito da: esanucleotidi, dNTPs, enzima Klenow 2 U/µl
2.9.3.c. - Controllo del DNA marcato
Il kit di controllo “DIG DNA Labeling Kit” (Roche) contiene:
DNA di controllo:
marcato con digossigenina (20ng/µl)
89
II
Tampone di diluizione:
contenente 50µg/ml di DNA di sperma di aringa in 10mM Tris-HCl e 1mM EDTA
a pH 8.
Anti-DIG-AP conjugate:
Frammenti Fab di anticorpi policlonale prodotti in pecora (150 U/µl), coniugati
con l’enzima fosfatasi alcalina.
Blocking reagent (BR) 10%:
Sciogliere 50 g di BR in 500 ml di MBS 1X
Blocking reagent (BR) 1%:
Preparare una soluzione diluita 10 volte in MBS 1X di BR 10%; filtrare su carta
bibula.
MBS 1X:
Preparare una soluzione 0,1 M acido maleico (Sigma), 0,15 M cloruro di sodio
(Merck); rettificare con idrossido di sodio (BDH) a pH 7.5.
Tampone AP:
Preparare una soluzione 0,1 M di Tris-HCI pH 9,5 e 0,1 M di cloruro di sodio
(Merck) in acqua milliQ sterile.
Lumigeno:
Preparare una soluzione acquosa con CSPD® 25 mM (Roche).
Soluzione di sviluppo:
GBX Developer (Sigma) concentrato da diluire in acqua milliQ (103 mI in 370
mI di acqua).
90
II
Soluzione di fissaggio:
GBX Fixer (Sigma) concentrato da diluire in acqua milliQ.
2.9.3.d. - Preibridazione e ibridazione
Liquido di preibridazione:
Preparare una soluzione con blocking reagent 1%, 0,1% N-laurylsarcosine
(Sigma), 2% sodium dodecil solfato (Merck).
2.9.3.e. - Sviluppo chemioluminescenza
Soluzione 1:
Preparare una soluzione 2X SSC, 0,1% sodio dodecil solfato (Merck).
Soluzione 2:
Preparare una soluzione 0,1% di SSC, 0,1% sodio dodecil solfato (Merck).
Soluzione di lavaggio:
Preparare una soluzione 0,3% Tween-20 (Merck) in MBS 1X.
Per il Blocking reagent 1%,l’anticorpo, l’AP buffer, il lumigeno, e le
soluzioni di sviluppo (vedi il paragrafo: “Controllo del DNA marcato).
2.9.4. - Reazione di IPCR
2.9.4.a. - Digestione del DNA genomico e precipitazione Enzima utilizzato: BglII: 10U/ml (BioLabs)
Sodio acetato 3 M:
Sciogliere, in un becker 408,1 g sodio acetato triidrato (Merck) in 800 mI di
acqua milliQ, rettificando il pH a 5,2 con acido acetico glaciale (Merck) e
portando a volume di 1 litro. Dispensare in aliquote e autoclavare.
91
II
Etanolo 96% (Merck):
Conservato alla temperatura di –20°C.
Etanolo 75%:
Preparare una soluzione con 75 ml di etanolo 96% (Merck) e 25 ml di acqua
milliQ sterile. Conservare a –20°C.
2.9.4.b. - Autocircolarizzazione del DNA digeriti
Tampone di ligazione:
66 mM Tris-HCI pH 7.5, 5 mM cloruro di magnesio (Carlo Erba), 1 mM
ditiotritolo (Sigma), 1 mM ATP (Roche).
Cloruro di magnesio 1 M:
Sciogliere, in un becher, 203,3 g di cloruro di magnesio esaidrato (Carlo Erba)
in 1 litro di acqua milliQ; sterilizzare in autoclave.
Ditiotritolo (DTT) 1 M:
Sciogliere 3,09 g di DDT in 20 mI di 0,01M di sodio acetato (Merck) a pH 5,2;
sterilizzare per filtrazione, dispensare in aliquote da 1 mI e conservare a –20°C.
ATP 0,1 M:
Sciogliere 60 mg di ATP (Roche) in 0,8 mI di acqua milliQ sterile, portando a pH
7 con 0,1 M di idrossido di sodio (BDH); portare al volume finale di 1 mI con
acqua milliQ sterile. Dispensare in aliquote e conservare a -70°C.
Ligasi T4:
1 U/µl (Roche)
92
II
2.9.4.c. - Reazione dl IPCR
dNTP:
predisposti dal kit: “Expand Long Template PCR System” (Roche, Mannheim),
usati alla concentrazione di 350 µM per ogni nucleotide.
Oligonucleotidi IMP1,IMP2, IMP5, IMP6 (Life technologies):
usare 300 nm di ogni sequenza primer.
TamponeTaq: (buffer 3)
tampone predisposto dal kit “Expand Long Template PCR System” (Roche,
Mannheim), con 22.5 nM MgCl2
Taq:
miscela enzimatica contenente un enzima Taq termostabile e la DNA polimerasi
Pwo: usare 0,75 µl per o gni reazione di amplificazione.
2.9.5. - Clonaggio dei prodotti di PCR
2.9.5.a. - Separazione elettroforetica del DNA Gel agaroso (Sea Kem) 0.8 %:
Sciogliere 0.4 g di agaroso in 50 ml di tampone TAE 1X
TAE 50X:
Sciogliere 242g Tris (Bio Rad), in acqua milliQ sterile, aggiungere 57,1 mI di
acido acetico glaciale (Merck), 100 mI di 1,5 M EDTA (Sigma) pH 8; portare ad
un volume finale di 1 litro di acqua distillata e autoclavare.
Marcatore del peso molecolare (Gibco BRL):
Sono caricati su gel 10 µl del marcatore avente concentrazione 1 µg/µl: la
banda a 1.6 kb è quantificata dalla ditta 100 ng (10% della massa totale).
93
II
Tampone di carica TIPO Il:
Preparare una soluzione contenente 0.25% blu di bromofenolo (Sigma), 0,25%
xilene cianolo, 15% Ficoll tipo 100, in acqua milliQ sterile. Conservare a
temperatura ambiente.
2.9.5.b. - Reazione di ligazione del DNA nel vettore
Tampone ligasi:.
10X concentrato (Roche).
Ligasi T4:
1U/ µl (Roche)
2.9.5.c. - Trasformazione
LBA (Luria-Bertani addizionato di agar):
Sciogliere in una becher 10 g/I di triptone (Difco), 5 g/I di estratto di lievito
(Merck), 10 g/I di cloruro di sodio (Merck), aggiungere 10 mM di cloruro di
magnesio (Carlo Erba); portare a pH 7.5 aggiungendo idrossido di sodio (BDH)
10 N; versare un volume di di 500 ml in una bottiglia da 1 litro e aggiungere 15
g/I agar (Merck). Autoclavare. Attendere che il substrato, ancora liquido si sia
raffreddato, aggiungere eventuali molecole termolabili (ampicillina, IPTG, X-
GAL, etc.) e aliquotare in capsule petri.
Ampicillina sale sodico
Preparare una soluzione, in acqua sterile milliQ, alla concentrazione di 100
mg/ml (Merck) lavorando in ambiente sterile.
lsopropiltiogalactoside (IPTG):
Preparare una soluzione, in acqua sterile milliQ, alla concentrazione di 100 mM
di IPTG (BioRad) .
94
II
5-bromo 4-cloro-3-indolil-βgalattoside (Xgal):
Preparare una soluzione, in acqua sterile milliQ, alla concentrazione di 50
mg/ml di X-GAL (Promega)
2.9.5.d. - Protocollo per l’estrazione di DNA plasmidico da cellule batteriche trasformate
Soluzione R:
Preparare una soluzione 20 mM Tris-HCI pH 8, 5, 1M NaEDTA (Sigma) pH 8,
10µg/ml RNAsi (Roche).
Soluzione L:
Preparare una soluzione all’1% di SDS (Merck) e 0,2 M di idrossido di sodio
(BDH).
Soluzione N:
Preparare una soluzione 4 M cloruro di sodio (Merck) e 100mM acido acetico
(Merck).
2.9.5.e. - Protocollo di estrazione di DNA plasmidico da cellule batteriche su larga scala (MIDI preparation)
Tampone S1:
Preparare una soluzione 50 mM Tris-HCI pH 8, 10 mM EDTA (Sigma), 100
µg/ml RNAsiA (Roche) .
Tampone S2:
Preparare una soluzione 200 mM idrossido di sodio (BDH), 1% SDS (Merck).
Tampone S3:
Preparare una soluzione 2,8 M potassio acetato (Merck) pH 5,2 .
95
II
Tampone N2:
Preparare una soluzione 100 mM Tris (Bio Rad), 15% etanolo (Merck), 900 mM
cloruro di potassio (Carlo Erba), rettificato con acido fosforico (Merck) a pH 6,3.
Tampone N3:
Preparare una soluzione 100 mM Tris (Bio Rad), 15% etanolo (Merck), 1150
mM cloruro di potassio (Carlo Erba), rettificato con acido fosforico (Merck) a pH
6,3 .
Tampone N5:
Preparare una soluzione 100 mM Tris (Bio Rad), 15% etanolo (Merck), 1000
mM cloruro di potassio (Carlo Erba), rettificato con acido fosforico (Merck) a pH
8,5
2.9.6. - Reazione di PCR
Tampone:
10 mM Tris-HCI pH 8,8, 1,5 mM cloruro di magnesio (Carlo Erba), 50 mM
cloruro di potassio (Carlo Erba), 0,1% Triton X-100 (Merck), 0.01% (w/v)
gelatina.
dNTP (Finzymes):
rispettivamente 200 mM di dATP,dCTP, dGTP, dCTP.
Oligonucleotidi:
0,05 mM di ciascuno.
Taq polimerasi: preparata seguendo il protocollo di Desai e Pfaffle
(1995).
96
II
2.10. - Reazioni di RAPD PCR
Tampone:
10 mM Tris-HCI pH 8,8, 1,5 mM cloruro di magnesio (Carlo Erba), 50 mM
cloruro di potassio (Carlo Erba), 0,1% Triton X-100 (Merck), 0,01% (w/v)
gelatina.
dNTP (Finzymes):
rispettivamente 200 mM di dATP,dCTP, dGTP, dCTP.
Oligonucleotidi:
0,05 mM di ciascuno.
97
III
CAPITOLO 3
1. - RISULTATI 1.1. - Analisi dei profili RAPD-PCR Per valutare il polimorfismo dei Fusaria antagonisti sono stati fatte 25 analisi
RAPD, utilizzando 25 primer (Tabella 3). Sono stati ottenuti degli amplificati
contenenti da uno a cinque frammenti; le dimensioni delle bande, variabili da
isolato a isolato, sono comprese tra 0.3 Kb e 3 Kb. I diversi isolati di Fusarium
antagonisti sono stati confrontati con diverse formae speciales di Fusarium
oxysporum (Tabella 1).
Per l’analisi dei dati è stato usato il programma “Statistica” (Starsoft); si è scelto
come algoritmo, per costruire il dendrogramma, l’UPGMA (unweighted pair-
group method using arithmetic averages). Le distanze tra i diversi
raggruppamenti sono state valutate in distanze euclidee per evidenziare meglio
le differenze.
L’analisi ha evidenziato una sostanziale differenza tra le forme speciali e tra
queste ultime e gli antagonisti. Si sono riscontrate similitudini tra gli isolati
233/2, 245 wt e MSA 32 che formano un gruppo a se' stante rispetto alle forme
speciali e agli isolati 152, 257 e 251, e MSA 35 (Figure 1A e 1B).
1.2. - Analisi dei polimorfismi dell' elemento trasponibile impala
Per analizzare il polimorfismo del trasposone impala è stato eseguito un
Southern blot dei medesimi isolati utilizzati per l’analisi RAPD (Tabella 1). Il
DNA genomico estratto da ciascun campione è stato digerito con l’enzima di
restrizione BglII, che non riconosce siti di taglio nella sequenza di impala. Tali
frammenti sono stati separati tramite elettroforesi, trasferiti su una membrana di
nylon e quindi fissati tramite irraggiamento con raggi UV. La membrana è stata
ibridata con le sonde impala R1 e impala 245. impala R1 è stata ottenuta
amplificando il trasposone da un isolato di Fusarium oxysporum f. sp. dianthi
razza 1, mediante PCR e successiva marcatura con digossigenina mentre
98
III
impala 245 è stata ottenuta dall’isolato 245 wt con le medesime procedure.
L’analisi con le due diverse sonde ha evidenziato dei profili diversi: il profilo
ottenuto con la sonda impala 245 è poco polimorfico, ma sovrapponibile
interamente a quello, altamente polimorfico, ottenuto con la sonda impala R1
(figure 2A e 2B)
Il Southern blot ha permesso di evidenziare dei polimorfismi di inserzione
dell’elemento trasponibile impala. Utilizzando impala R1 si ottengono profili
delle forme speciali molto diversi tra loro e polimorfici rispetto agli antagonisti in
generale. Utilizzando la sonda impala 245 si ottiene, in tutti gli isolati, eccetto
che in 245 wt, 233/2 e MSA32, un doppietto delle dimensione di 3.6 kb e 4 kb
(Figura 2A). Con entrambe le sonde gli isolati 233/2, 245 wt e presentano un
profilo unico analogo formato da inserzioni del trasposone a 2.8 kb, a 3.3 kb, un
doppietto a 4.3-4.5 kb e a 12 kb mentre MSA 32 ha lo stesso profilo eccetto per
la banda a 3.3 kb (corsia 14, 15, 18, Figure 2A e 2B).
1.3. - Isolamento delle regioni fiancheggianti (“giunzioni”) del trasposone impala nell’isolato 233/2
Per isolare le giunzione del trasposone ci si è avvalsi della tecnica della PCR
inversa (Chiocchetti et al., 1999). Con i primer IMP1 e IMP 2 è stato ottenuto un
amplimero di circa 3.8 kb, corrispondente all'inserzione a 4.3 kb sul Southern
blot. Si risale alla dimensione della banda sul Southern aggiungendo 567 bp al
frammento di IPCR ottenuto, dal momento che i primer cosi disegnati (Figura 3)
su impala, escludono una zona di 567 bp.
E stata provata sul primo ciclo di amplificazione con IMP1 e IMP2 un secondo
ciclo con i primer IMP5 e IMP6 disegnati più esternamente (Figura 3). Questa
PCR annidata non ha mai dato origine ad alcun amplificato quando si partiva da
un DNA stampo derivato dal primo ciclo. Al contrario si è ottenuto un prodotto di
2.2 kb quando sono stati utilizzati direttamente IMP5 e IMP6 sul prodotto di
ligazione. Tale frammento corrisponde ad una banda sul Southern blot di 3.2
kb. In realtà la sequenza di questo prodotto di PCR ha evidenziato un
99
III
trasposone tronco alle estremità; L’amplimero a 2.2 kb dovrebbe corrispondere
sul Southern blot alla banda a 2.8 kb.
I prodotti di PCR inversa sono stati chiamati ACQ1 (3.8 kb) e ACQ2 (2.2kb)
1.4. - Sequenziamento dei cloni ACQ1 e ACQ2
Sono state ottenute le sequenze parziali (circa 500 bp per lato) delle regioni
fiancheggianti impala, identificate nei cloni ACQ1 e ACQ2. Di seguito vengono
riportate le sequenze:
ACQ1 sp6 AATCCTATAGAGAATCTGTGGGCGTTGATGAAGGCAGAGATCTGCGACTCGCTGAGGTTCTCTATCTTGTAACGTT
ATAGCGTTGTTAACGAGAGCAGGCCAGCGGCTGAGCCATTTATCGAGACTGGTGTTGCTAAGGCCCTTCTTAAGCT
TTTCAAACTCAGTCCTAACATTCTGCTTCTGGTCTTTCGCGGTGGGTTGGATGCTATCAGCCAGCGCGATGAGTTAC
CGCGGACGTCATGGATTCCGAGGTAGTGCTGCTTGAACTCCCTGACACACTGTGAGGTCAATGCGATCAGAGACC
TTGTCGTAT
ACQ1 T7 GCGGATCGGTTATGACGGTATCATAAATCTGATCCCGTTGCTCTTCTGTAAGCTTACGTGGCGCGCCTGATCGCGG
CAGGGATATGTTATCGGCTCCACGTTGTGCCTCGCGGCGTAGGGTCGTTATTGATCGTGCCGAGAGGGATATCAG
GGAAATGCTTCTTGATCTGTGAGTGCGTAAGCCCTTGCCTACGTAATTCACATATACGAGACCGTAATGACGGCGA
TAATTCCTTGCCTCGAGGCATCGTCATGGTGTNGTGATGTGTGTTGTGGGGAACAGGGGCTGCCGTCAGATCAATC
AAATCAGATTAGGGCGTAAATCTGAACTGAACTGATACTTTACCCTCTGCATCTGATCTGATTGATTGATTGATAGAT
ATCTGATATATAATAGGTCACGTGGAGCTATNCCCAGCCCTCACGATTCTGCCCCGTGGGATCTGACTGCCCTTGT
TNGCTTAAGCNTACGC
ACQ2 sp6 GTGAGACTATGCCGAACCGTGTTACTGCTGTAATTACTGCAGAAGGTTGGTATACAAAGTACTGAAGCTGTTCTAAT
TGACCTTGTTAGGTCATAAATTACAATATCACAGCAGCAGCATAACAGCTGCCCGTTTCGGCTAGCCTCGATCGTC
GGTACCTCTTGGTGTCTTCAAACTTATTGCACCCCACTGTATGTCCATCGTATTCGCCTTGAGCTTAGGTTAAGACG
GAGAGGCAAGCCGGTCTCGGCTTGCGCATAGAGCCTTAGAGGAACGAAGTTTAGAGGTCGGAGGCAGATGGGTT
GCACGTTCTCTAGAGTAAAGTGGCATTTCCNTTTTATAGCTAGATAATACGGCTAATTTGGTCNGGGTTNACTNTTTT
CCCACNCTGAGANNTATTTGCGGACTGATAA
ACQ2-T7 TTGTGTTGTGTGTGTGGAGGAGGAAGAAAGAGCGGCATCGAAACGCGGTCCCGCTCGGGTTAGGCCGGACCGAG
ATACCTGCAGATGTATTCAAACTTATTGCACCCCACTGTATTACGATATATCCTGTAGCACGTGCCGAGAAATGTCA
GTGTCCACGGATAAGCGGCACAATATGACCTTACGTCATTTTCCTACGACCCCAATAATATCCCGAAACTCTGTTAC
CCGGCTTATGAACACAAAGTATCGGTACCGCTTCCGGTCGTCGGGTGAACGGCTTCCGAACGGCTTCAAGAACGG
100
III
CTTTACTGATCCGAAAGTGTGTCGTAGTGTGTGTATACAGTATTGAGCAAGCAGCGATGCTTATAAATACTGACAAA
TCATATGCTTACCANGTAGAGCCATGTACCCNAAAGGTCTCCACCCCTAGACTTTACAAAAGAGCATG
1.5. - Amplificazione dei ceppi antagonisti 233/2 e 245 wt
Per ottenere degli amplimeri corrispondenti ad ogni sequenza fiancheggiante
clonata, sono state eseguite quattro diverse reazioni di PCR con quattro coppie
di primer. Ogni reazione prevedeva l’uso di un oligonucleotide disegnato sulla
sequenza fiancheggiante e l’altro su un estremità del trasposone impala (Figura
3).
Le reazioni sono state eseguite analizzando gli antagonisti e le diverse forme
speciali di F. oxysporum. Come stampo è stato utilizzato DNA genomico
estratto da micelio liofilizzato. Le coppie A2I/IMP5 e A2F/IMP6 hanno dato
l’amplificazione, rispettivamente, di un amplimero di 313 bp e di 305 bp in tutti
gli antagonisti, seppure con intensità diverse e amplificati di diversa taglia
molecolare per le forme speciali. La coppia A1I/IMP1 ha dato un amplimero di
439 bp nei ceppi 233/2, 245 wt. MSA32, MSA35 e dei prodotti a diverse taglie
molecolari per gli altri ceppi. La coppia A1F/IMP2A non ha dato amplimeri.
2. - DISCUSSIONE I ceppi antagonisti di Fusarium, isolati da terreni repressivi liguri rappresentano
un valido strumento di lotta biologica alle malattie causate da F. oxysporum
patogeni. La loro immissione nell’ambiente andrebbe controllata in tempi diversi
per evidenziare l’entità della popolazione, la sopravvivenza nel terreno e la
dispersione nel suolo. Le strade perseguite in passato sono state la
mutagenesi, la fusione di protoplasti e la trasformazione genetica. Studi di
valutazione dell’impatto ambientale riguardanti ceppi di Fusarium dotati di
capacità antagonistica erano già stati compiuti utilizzando ceppi
opportunamente trasformati con il gene per la resistenza all’igromicina (Migheli
et al.,1996), mutanti colorati ottenuti per mutagenesi e ceppi ibridi derivati dalla
fusione di protoplasti (Gullino et al.,1995).
101
III
Nel corso di questa tesi, si è cercato di sviluppare un mezzo diagnostico esente
da restrizioni di tipo normativo. L’obiettivo del lavoro era quello di sviluppare dei
marcatori molecolari, utilizzando i trasposoni naturalmente presenti nel genoma,
al fine di “etichettare” gli isolati 233/2 e 245 wt senza ricorrere a sistemi di
trasformazione genica nè di mutagenesi. La modificazione genetica avrebbe
fatto rientrare i ceppi antagonisti 233/2 e 245 wt nel gruppo degli OGM e ciò
avrebbe, di fatto, rallentato il processo di registrazione a causa del grande
numero di prove richiesto dalla direttiva 90/219. La mutagenesi avrebbe invece
potuto pregiudicare la funzionalità dei funghi come agenti di contenimento
biologico e creare della variabilità non prevedibile a priori.
A tale scopo è stato studiato, prima, il profilo RAPD degli antagonisti per
ampliare i dati sul polimorfismo presente tra gli antagonisti e la distribuzione
dell’elemento trasponibile impala nel genoma degli isolati 233/2 e 245 wt
confrontandolo con altri isolati di Fusarium saprofiti e con diverse forme
speciali. Dall’analisi mediante Southern blot è emersa una grande diversità di
distribuzione di impala tra 233/2 e 245wt rispetto a tutti gli altri isolati patogeni e
saprofiti. L’isolato MSA32 ha mostrato un profilo simile ma non identico a 233/2
e 245 wt, mancando della banda a 3.3 kb e la banda alta del doppietto 4.3-4.5
kb.
Ipotizzando che la giunzione di una copia di impala inserita in una posizione
unica nel genoma sia anch’essa unica, si è pensato di poterla amplificare
mediante una reazione di PCR che utilizzasse un primer disegnato sul
trasposone, diretto verso l’esterno e un primer disegnato sulla regione
fiancheggiante diretto verso il trasposone (Figura 3).
Per rendere più semplice il clonaggio delle regioni fiancheggianti Fot1 o impala,
senza bisogno di costruire una libreria genomica per gli isolati di F. oxysporum
233/2 e 245 wt, è stata adottata la tecnica di PCR inversa (IPCR; Ochman et
al., 1988; Silver e Keerikatte, 1989; Triglia et al., 1988). Essa prevede una
preliminare digestione del DNA con un enzima che non tagli all’interno della
sequenza desiderata, una auto-ligazione dei frammenti e l’amplificazione
mediante PCR utilizzando due primer “inversi” che fossero disegnati orientati
verso l’esterno delle sequenza di appaiamento.
102
III
Tale amplificazione dà origine potenzialmente ad un insieme di amplimeri pari
al numero di inserzioni del trasposone nel genoma. Esiste però un limite tecnico
rappresentato dalla capacità della Taq polimerasi di generare frammenti non
troppo lunghi. L’enzima utilizzato nella IPCR era in realtà una miscela di Taq
polimerasi e Pwo DNA polimerasi che garantiva caratteristiche di efficienza e
fedeltà molto elevate. Sono stati ottenuti amplimeri di 3.8 kb e 2.2 kb
corrispondenti a inserzioni specifiche nel genoma di 233/2 e 245 wt.
L’utilizzo di elementi trasponibili come marcatori molecolari ha in se' il pericolo
dello “salto del trasposone” e come conseguenza la perdita del marcatore nella
posizione originale; ciò potrebbe portare a dati non costanti nel tempo e quindi
non più attendibili. Da analisi mediante Southern blot, ripetute in tempi diversi,
su isolati patogeni e saprofiti di F. oxysporum è stata riscontrata una pressochè
nulla mobilità dell’elemento impala. Per ovviare, comunque, a questo potenziale
inconveniente è possibile studiare le copie del trasposone, troncate all’estremità
e quindi prive delle sequenze ITR, necessarie per la trasposizione (Fernandez
et al., 1999).
Nonostante le sequenze clonate coincidessero le giunzioni caratteristiche degli
isolati 233/2 e 245 wt gli esperimenti di PCR messi a punto per amplificare le
giunzioni hanno mostrato una assenza di specificità assoluta. Le amplificazioni
hanno fornito amplimeri delle dimensioni attese in 233/2 e 245 wt ma
contemporaneamente anche in altri isolati e amplimeri di taglie molecolari
diverse in Fusarium oxysporum patogeni (Figura 4).
L’analisi mediante Southern blot, compiuta utilizzando come sonde gli
amplimeri derivati dall’IPCR su impala, ha dato origine a profili di ibridazione
molto complessi, dimostrando che questo elemento è inserito in regioni ripetute
nel genoma di F. oxysporum. Questo dato era già stato messo in evidenza per i
differenti patotipi di F. oxysporum f.sp. dianthi (Chiocchetti et al.,1999). Dati
ottenuti, con lo stesso approccio, su un nuovo isolato di Fusarium agente di
tracheofusariosi nella margherita confermano tale tendenza anche per il
trasposone Fot1 (Pasquali et al., in preparazione).
La tendenza a trasporsi di questi elementi trasponibili in zone ripetute e quindi
non attive dal punto di vista trascrizionale, potrebbe essere spiegata
103
III
ipotizzando che un salto in tali regioni genomiche non apporti alcuna mutazione
letale o selezionante in senso negativo rendendo l’evento di trasposizione
compatibile con la sopravvivenza del fungo. Alcune copie potrebbero essersi
accumulate in tali siti genomici e rappresentare una fonte di variabilità di cui tali
funghi dispongono per l’adattamento nell’ambiente. Si potrebbe dimostrare
l’inserzione preferenziale in regioni ripetute mediante l’isolamento di tutte le
regioni fiancheggianti e con l’analisi di regioni fiancheggianti più estese.
L’ibridazione con sonde ricavate da regioni fiancheggianti su cariotipi ottenuti
mediante elettroforesi su campo pulsato e l’ibridazione in situ su cromosomi
purificati potrebbe fare comprendere la localizzazione preferenziale di questi
elementi trasponibili nei diversi cromosomi.
3. - CONCLUSIONI
La tecnica della PCR inversa, che fino ad oggi ha dato risultati abbastanza
soddisfacenti, non si è dimostrata applicabile, in modo efficace, al campo dei
funghi antagonisti. Non si è riuscito, infatti, a discernere tra i diversi isolati di
Fusarium antagonisti in maniera univoca. Cio' deve portare a considerare
questo approccio in modo più realistico e a concludere che la tecnica della PCR
inversa è potenzialmente utile, seppure non deve essere sopravvalutata, e che
l’utilizzo di tale metodo applicato ai trasposoni presenta dei pericoli intrinseci
legati alla distribuzione e localizzazione degli elementi trasponibili nei diversi
genomi.
104
IV
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