L'Odissea e il tema dello straniero - itcgalilei.gov.it · L’ODISSEA E IL TEMA DELLO STRANIERO...

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L’ODISSEA E IL TEMA DELLO STRANIERO “Lo straniero è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l'intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui. [...] Lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri”. Julia Kristeva Questa riflessione rimanda alla difficoltà, propria di ogni epoca, di comprendere, accettare e confrontarsi con chi si presuppone diverso da noi. La differenza è tuttavia un meccanismo essenziale del nostro essere nel mondo e del nostro modo di interpretare la realtà: noi pensiamo, ragioniamo e conosciamo il mondo alla luce della differenza; noi costruiamo la nostra identità, ci identifichiamo come soggetti, nel momento in cui percepiamo la distanza tra noi e l’esterno. Possiamo dire “io” solo se contemporaneamente diciamo anche “altro”. Possiamo dirci uomini rispetto agli animali, alle piante, alle cose; bianchi in rapporto ai neri; settentrionali in relazione a chi abita a Meridione; maschi riguardo alle femmine. Se possiamo dire che l’altro ci determina, nello stesso tempo non possiamo negare che ci limita. L’istintivo desiderio di affermare l’io fa sempre i conti con qualcosa di cui non facciamo parte. Proprio per questo, possiamo percepire l’altro come una minaccia: l’altro diventa allora l’estraneo, l’opposto, il nemico. La nostra identità sembra allora venir meno e le nostre certezze paiono minacciate. La diffidenza può insorgere sia verso chi ci è vicino e non vogliamo conoscere, sia verso chi vive lontano da noi e non possiamo conoscere.

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L’ODISSEA E IL TEMA DELLO STRANIERO

“Lo straniero è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra

dimora, il tempo in cui sprofondano l'intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi, ci

risparmiamo di detestarlo in lui. [...] Lo straniero comincia quando sorge la coscienza

della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri”.

Julia Kristeva

Questa riflessione rimanda alla difficoltà, propria di ogni epoca, di comprendere,

accettare e confrontarsi con chi si presuppone diverso da noi.

La differenza è tuttavia un meccanismo essenziale del nostro essere nel mondo e del

nostro modo di interpretare la realtà: noi pensiamo, ragioniamo e conosciamo il mondo

alla luce della differenza; noi costruiamo la nostra identità, ci identifichiamo come

soggetti, nel momento in cui percepiamo la distanza tra noi e l’esterno. Possiamo dire

“io” solo se contemporaneamente diciamo anche “altro”. Possiamo dirci uomini

rispetto agli animali, alle piante, alle cose; bianchi in rapporto ai neri; settentrionali in

relazione a chi abita a Meridione; maschi riguardo alle femmine.

Se possiamo dire che l’altro ci determina, nello stesso tempo non possiamo negare

che ci limita. L’istintivo desiderio di affermare l’io fa sempre i conti con qualcosa di

cui non facciamo parte. Proprio per questo, possiamo percepire l’altro come una

minaccia: l’altro diventa allora l’estraneo, l’opposto, il nemico. La nostra identità

sembra allora venir meno e le nostre certezze paiono minacciate. La diffidenza può

insorgere sia verso chi ci è vicino e non vogliamo conoscere, sia verso chi vive lontano

da noi e non possiamo conoscere.

Ovviamente, non esistono un “io” e un “altro” assoluti. Gli altri sono diversi rispetto

a noi, ma noi siamo diversi rispetto agli altri. Anche se siamo costretti ad essere noi,

dobbiamo accettare la possibilità e la necessità di essere, allo stesso tempo, gli altri.

L’Odissea riflette tutti questi temi. Ce ne parla da un tempo che è lontano tremila

anni e da uno spazio remoto com’è il mondo degli Achei, ma con un linguaggio

universale, quello del mito, capace di colmare ogni distanza di tempo e di spazio.

PRIMA DELL’ODISSEA

Nel racconto di Omero, la guerra di Troia sarebbe stata scatenata da due episodi: il

giudizio di Paride e il rapimento di Elena. Paride, il bellissimo figlio del re di Troia

Priamo, chiamato da Zeus a giudicare chi fosse la più bella tra le dee Era, Atena e

Afrodite, aggiudica a quest'ultima il primato, dopo aver ricevuto la promessa che avrà

in cambio la più bella tra le donne.

In questo modo egli si attira l'odio delle due dee sconfitte e la predilezione di

Afrodíte, che gli assicura l'amore di Elena, la bellissima sposa di Menelao, re di

Sparta. Paride, accolto ospitalmente da Menelao, riesce a sedurre Elena e a fuggire

con lei a Troia.

Per vendicare l’offesa all'onore e al sacro vincolo dell'ospitalità, Menelao raduna gli

altri sovrani achei. La spedizione contro Troia, guidata da Agamennone, si protrae per

ben dieci anni e culmina con la presa e la distruzione della città.

Tra le fila achee c’è anche Odisseo, re di Itaca, figlio di Laerte e Anticlea, sposo di

Penelope e padre di Telemaco. Nella preparazione della spedizione e durante l'assedio

di Troia è protagonista di numerosi episodi in cui si segnala per l’astuzia e l’ingegno.

Celebre tra tutte è la sua idea di costruire un grande cavallo di legno, entro il quale

nascondersi con i più valorosi tra i guerrieri, per penetrare di nascosto in città.

Il suo viaggio di ritorno in patria è l'argomento dell'Odissea.

1. Telemaco a Sparta (Libri IV e XV)

La vicenda

Il poema si apre con il viaggio di Telemaco verso Pilo e Sparta, dove spera di

ottenere notizie di Odisseo. Questo viaggio è reso necessario dalla difficile situazione

in cui si trova Itaca, dove la lunga assenza del padre ha lasciato spazio

all’arroganza dei nobili locali, i Proci. Senza ritegno, essi vogliono costringere

Penelope a prendere come sposo uno di loro. Telemaco si reca dunque da coloro

che, con Odisseo, hanno combattuto la guerra di Troia: dapprima dal re Nestore e

poi, accompagnato dal figlio di quest’ultimo Pisistrato, dal re Menelao.

Menelao è a banchetto, in onore del matrimonio dei suoi due figli. Telemaco e

Pisistrato arrestano il loro carro davanti alla porta del palazzo reale. Un nobile

avverte il sovrano dell’arrivo di due giovani stranieri, apparentemente di sangue

reale, e gli domanda se intenda accoglierli o indirizzarli altrove. Menelao risponde

che l’ospitalità attira la protezione di Zeus -progenitore di tutte le stirpi reali- e

ordina che i cavalli degli stranieri siano accuditi e che loro stessi siano introdotti al

banchetto.

Così, i due giovani sono accompagnati nel palazzo. Dapprima essi prendono un

bagno in vasche di pietra, poi, dalle schiave, sono lavati, unti d’olio e rivestiti con

tuniche e mantelli di lana puliti. Infine sono fatti sedere accanto a Menelao.

A tavola, una schiava reca loro una brocca d’oro piena d’acqua e un bacile

d’argento, in modo che possano lavarsi le mani. La dispensiera serve pane e vivande

tenute in serbo, mentre lo scalco offre carne e vino in coppe d’oro. Menelao, che li

identifica allo sguardo come stirpe di re, li invita a mangiare e rinvia a dopo il

pranzo ogni riconoscimento formale; quindi, offre loro la porzione di carne destinata

a lui.

Dopo aver mangiato, Telemaco ammira con Pisistrato le ricchezze della reggia.

Menelao spiega che quegli oggetti sono stati da lui acquisiti nel viaggio di ritorno da

Troia. Confida poi il suo dolore per i compagni morti in guerra e, soprattutto, per

Odisseo di cui si è persa ogni traccia. Telemaco si commuove e cerca di dissimulare

i suoi sentimenti coprendosi il volto con il mantello color porpora, ma la sua

reazione non sfugge al re.

Appare Elena, scesa dal suo appartamento, che rivela al marito di notare una

straordinaria somiglianza tra uno dei due giovani forestieri e Odisseo; Menelao

conferma l’osservazione e racconta alla donna la precedente, insolita reazione

dell’ospite. Interviene Pisistrato, che chiarisce l’identità del compagno, afferma che

la scelta dell’anonimato è stata dettata solo da prudenza e vergogna e precisa lo

scopo della visita.

Menelao parla del suo affetto per Odisseo: immagina che, se fosse stato suo ospite

con tutti gli Itacesi, gli avrebbe donato una città in cui abitare e regnare. Il re, Elena,

Telemaco e anche Pisistrato (che pensa al fratello morto nella guerra di Troia) sono

vinti dalla commozione; poi, il re propone di rinviare ogni discorso all’indomani.

Elena mescola al vino una droga egiziana, in grado di calmare i dolori del corpo e

dello spirito.

Telemaco e Pisistrato sono alloggiati nel vestibolo del palazzo, in lettiere poste

sotto il portico, ricoperte di tappeti purpurei, mantelli e coltri di lana. Al mattino,

Menelao, dopo aver raccontato di aver saputo da un indovino egiziano, che Odisseo

era bloccato contro la sua volontà nell’isola di Calipso, propone a Telemaco di

prolungare la sua visita per una decina di giorni. Tuttavia, il giovane gli risponde di

voler tornare al più presto in patria.

Dopo il pranzo, Telemaco riceve i doni di commiato: dal re una tazza d’oro a

doppio manico, da Elena un peplo ricamato per Penelope e da Megapente un cratere

d’oro e d’argento, fabbricato dal dio Efesto e ricevuto in regalo da un sovrano

fenicio. Quindi, con Pisistrato, riparte alla volta di Pilo e poi di Itaca.

L’interpretazione

In questo episodio, sono presenti molti elementi di identità in grado di accomunare i

due giovani stranieri e gli abitanti del palazzo.

Alcuni di questi elementi di identità richiamano ricordi e sentimenti comuni.

Altri elementi richiamano la comune origine etnica (sono Achei) e la comune

estrazione sociale (sono nobili) dei protagonisti:

- il comportamento (il nascondere i propri sentimenti di commozione proprio dei

maschi; l’agire con senso di vergogna e con prudenza proprio dei giovani; il condurre

un’esistenza appartata e il dedicarsi a lavori femminili durante le uscite pubbliche

proprio della donna sposata);

- i materiali e la fattura degli oggetti (oro, argento, avorio, ambra e bronzo per i

manufatti; la lana e il color porpora per le tuniche e i mantelli maschili; i ricami per i

pepli femminili);

- le armi (il carro trainato da cavalli su cui giungono Telemaco e Pisistrato).

Altri elementi di identità, i più importanti, rimandano infine alla comune tradizione

dell’ospitalità. Per gli Achei, e più tardi per i Greci, infatti l’ospitalità era un obbligo

fondamentale, che ogni individuo doveva rispettare e assolvere. Essi credevano che

ogni ospite, indipendentemente dalla sua condizione, fosse protetto da Zeus e che il

mancargli di rispetto o il non accoglierlo con il dovuto onore costituisse un sacrilegio.

Per questo l’ospitalità era considerata un vero e proprio rito ed era regolata da norme

precise. Il padrone di casa, dopo aver accolto il forestiero, gli consentiva di ripulirsi e

lo invitava a banchetto, cedendogli la propria porzione di cibo. Solo dopo che si era

ristorato, lo interrogava per conoscerne il nome, la provenienza e il motivo del viaggio.

Lo alloggiava per la notte e, al momento del commiato, gli consegnava un dono.

2. Odisseo a Scheria (Libri VI, VII, VIII e XIII)

La vicenda

La narrazione si sposta sul protagonista, Odisseo. Partito su una zattera da

Ogigia, l’isola della dea Calipso, fa naufragio e raggiunge a stento Scheria, la terra

dei Feaci. Allo stremo delle forze, cade in un sonno profondo.

Al risveglio, scorge sulla spiaggia alcune fanciulle: sono Nausicaa, figlia del re

Alcinoo, e le sue ancelle, giunte fin lì per ispirazione di Atena. Odisseo si presenta

alle fanciulle nudo, con il solo sesso coperto da una fronda, e sporco di salsedine. Le

ancelle fuggono alla vista dello sconosciuto; solo Nausicaa rimane. Odisseo le

racconta le sue ultime sventure, si dichiara straniero e le chiede di indicargli la

direzione verso la città e di dargli qualche straccio con cui coprirsi.

Nausicaa, disposta ad aiutarlo, gli rivela di trovarsi nella Terra dei Feaci, un

popolo che soddisfa i supplici, governato da un re generoso. Poi, richiamate le

ancelle, ordina loro di nutrire e lavare lo straniero. Le ancelle portano una tunica,

un mantello e un’ampolla d’oro piena d’olio, ma Odisseo egli chiede loro di

allontanarsi, dicendo che, per vergogna, provvederà da solo.

Dopo le abluzioni, per intervento di Atena Odisseo appare simile a un dio.

Nausicaa lo fa sfamare, poi, apprestandosi a tornare a casa, gli propone di seguire il

suo carro fino alle porte della città. Gli chiede di attendere la sua entrata a palazzo

prima di farsi indicare la strada da qualcuno; una volta a palazzo, egli dovrà

rivolgere le sue suppliche alla regina Arete.

Reso invisibile da Atena, Odisseo entra in città. Nel palazzo, i nobili si apprestano

a tornare alle loro case. Odisseo raggiunge Arete e, quando le abbraccia le

ginocchia, torna ad essere visibile tra lo stupore generale. Invoca felicità, ricchezze e

privilegi per i presenti, poi chiede una scorta per sé che lo riaccompagni in patria. Il

più anziano tra i nobili invita Alcinoo a far sedere l’ospite e a dargli da bere e da

mangiare. Un’ancella versa da una brocca d’oro dell’acqua in un bacile d’argento,

affinché possa lavarsi le mani; quindi, serve pane e vivande tenute in serbo.

Alcinoo ordina che sia servito a tutti il vino, in modo da poter brindare a Zeus, che

si accompagna ai supplici e li vuol rispettati. Quindi, congeda i nobili e li riconvoca

per l’indomani mattina, per sacrificare agli dei e preparare il ritorno in patria dello

straniero.

Concluso il pasto, Arete domanda a Odisseo quale sia il suo nome, quale la sua

patria, chi gli abbia dato quelle vesti e come sia giunto a Scheria. Lo straniero, pur

tacendo la sua identità, racconta le vicende trascorse, dai sette anni passati a Ogigia

fino all’incontro con Nausicaa.

Odisseo viene alloggiato in una lettiera traforata, ricoperta da tappeti color

porpora e da coltri e mantelli di lana, posta sotto il portico. Al mattino, Alcinoo

guida il forestiero sulla piazza, dove parla ai nobili guerrieri. Non sa chi sia l’ospite,

né dove sia la sua patria, ma il cuore gli impone di riportarlo là, secondo le

consuetudini del Paese. Incita a mettere in mare una nave nuova e a scegliere i

migliori giovani del Paese perché si pongano ai remi; prima della partenza, li farà

nutrire a palazzo. Infine chiede ai nobili a seguirlo a palazzo per onorare l’ospite.

A palazzo, l’aedo canta un episodio della guerra di Troia riguardante proprio

Odisseo. Mentre ascolta il racconto, Odisseo si copre il volto con il mantello color

porpora, per nascondere le lacrime, e Alcinoo lo nota. Dopo il banchetto, il re invita

tutti a uscire sulla piazza per dar vita a gare sportive, in modo che l’ospite possa

raccontare in patria la bravura dei Feaci.

Al termine del pomeriggio, Alcinoo ordina a ognuno dei dodici nobili più

importanti di donare all’ospite un mantello, una tunica e un talento d’oro. Il re

chiede quindi ad Arete di porre nella più bella tra le sue casse i doni dei Feaci e un

mantello e una tunica e la coppa d’oro che egli stesso gli vuol regalare.

Si prepara un bagno per Odisseo, al termine del quale le ancelle lo ungono d’olio

e lo vestono con una tunica e un mantello. Odisseo prende posto accanto ad Alcinoo

per la cena e chiede all’aedo di raccontare la vicenda del cavallo di Troia. Sentendo

il racconto, si commuove e, nuovamente, solo Alcinoo si accorge delle sue lacrime. Il

re chiede che il canto, che provoca il pianto dell’ospite, sia fermato: è ora che il

forestiero sveli la sua identità e il nome della sua patria, in modo che i Feaci possano

riaccompagnarlo lì, sebbene un’antica profezia affermi che Posidone li punirà per

questa loro disponibilità, affondando una loro nave e avvolgendo la loro città con un

monte.

Odisseo accontenta Alcinoo e inizia a narrare le sue vicissitudini. Al termine, il re

si rivolge ai nobili, chiedendo a ciascuno di loro di aggiungere ai doni già fatti un

tripode grande e un bacile di bronzo. Al mattino, i doni sono caricati sulla nave,

quindi si sacrificano le cosce di un bue a Zeus e, con il resto, si appronta il pranzo.

Al tramonto, Odisseo ringrazia i Feaci e, sperando di poter godere la propria casa,

la propria sposa e i propri cari, augura ai presenti di fare altrettanto e di avere dagli

dei ogni bene. Alcinoo propone brindare a Zeus. Finalmente, la nave parte.

L’interpretazione

Anche in questo episodio, sono presenti molti elementi di identità in grado di

accomunare il forestiero e gli abitanti del palazzo.

Alcuni di questi elementi di identità richiamano ricordi e sentimenti comuni.

Altri elementi di identità, particolarmente significativi in una circostanza in cui lo

straniero appare come un misero naufrago e non conosce il luogo in cui si trova,

richiamano invece il senso di appartenenza all’umanità:

- sulla spiaggia, Odisseo dice a Nausicaa di non sapere se si trova davanti a una dea

o a una mortale, di cui comunque loda la bellezza; la ragazza lo contraccambia

ammirandone la bellezza e augurandosi di averlo in sposo;

- a palazzo, quando Alcinoo gli chiede se è un mortale o un dio, Odisseo gli

risponde di essere un uomo e di lasciarlo cenare, malgrado la sua pena, in quanto il

ventre, senza uguali nell’essere odioso, lo costringe a mangiare, a bere e a dimenticare

i suoi patimenti anche se è sfinito e angosciato;

- sempre a palazzo, Alcinoo biasima Nausicaa perché non ha condotto subito

Odisseo da lui, ma quest’ultimo la scusa, affermando di aver rifiutato l’invito ricevuto

per riguardo verso il re e per timore che si adombrasse nel vederlo, pensandolo

suscettibile come tutti gli esseri umani.

Altri elementi richiamano la comune origine etnica e la comune estrazione sociale

dei protagonisti, rimandando a:

- il comportamento (il nascondere i propri sentimenti di commozione proprio dei

maschi, come nel caso di Odisseo che, commosso dal canto dell’aedo, per due volte

nasconde le lacrime coprendosi il volto con il mantello; l’agire in pubblico con senso

di vergogna proprio delle giovani, come nel caso di Nausicaa quando, nel tornare in

città dalla spiaggia, ritiene sconveniente per sé, non ancora sposata, suscitare

chiacchiere maligne per essersi accompagnata senza il consenso dei genitori a uno

straniero, oppure quando, a palazzo, saluta Odisseo dalla soglia del megaron, senza

mostrarsi a lui);

- la religione (sulla spiaggia, Odisseo paragona Nausicaa a un virgulto di palma

spuntato sull’isola di Delo, nei pressi del santuario d’Apollo; spesso, Alcinoo

organizza brindisi e sacrifici in onore degli dei e, in particolare, di Zeus);

- i racconti (a palazzo, l’aedo canta episodi della guerra di Troia e vicende

mitologiche riguardanti le vicende degli dei);

- le tradizioni (l’ascoltare il canto dell’aedo mentre si banchetta; il rivolgere le

proprie suppliche abbracciando le ginocchia, come nel caso di Odisseo nei confronti

della regina Arete; l’organizzare le gare sportive sulla piazza, come fa Alcinoo in

modo che l’ospite possa raccontare la bravura dei Feaci una volta tornato in patria);

- i materiali e la fattura degli oggetti (oro, argento, avorio, ambra e bronzo per i

manufatti; la lana e il color porpora per le tuniche e i mantelli maschili; i ricami per i

pepli femminili);

- il senso dello spazio abitativo (sulla spiaggia, Nausicaa descrive Scheria, il porto

con le navi, la piazza e il recinto sacro a Posidone; il palazzo è descritto da Omero

come splendente, con pareti di bronzo, un fregio di smalto turchino, le porte e le

maniglie d’oro, l’architrave e gli stipiti d’argento e statue d’oro e d’argento che

rappresentano cani; all’interno del palazzo, cinquanta ancelle sono addette a macinare

il grano, a filare e tessere abilmente la lana; fuori del palazzo, l’orto recintato ha peri,

meli, fichi e ulivi, viti ben esposte alla luce solare, aiuole di erbaggi d’ogni tipo e due

fonti a cui attingono i cittadini; nel palazzo, la sala principale -il megaron- ha seggi alle

pareti, ricoperti di coltri sottili e ben filate, e statue d’oro raffiguranti giovani che

reggono torce per illuminare l’ambiente).

Altri elementi di identità, i più importanti, rimandano infine alla comune tradizione

dell’ospitalità, che anche in questo episodio è pienamente rispettata, a costo di sfidare

l’ira del dio Posidone e benché lo straniero si presenti come un misero naufrago.

3. Odisseo a Ismaro (Libro IX)

La vicenda

Mentre si trova nel palazzo di Alcinoo, Odisseo racconta le sue vicende dopo la

fine della guerra di Troia. All’inizio del viaggio di ritorno, approda a Ismaro, il

Paese dei Ciconi. Con i compagni, devasta la città, fa strage degli abitanti, rapisce le

donne e saccheggia ogni ricchezza.

Dal figlio del sacerdote di Apollo, come ricompensa e riscatto per aver

risparmiato la vita a lui, al figlio e alla moglie, Odisseo riceve vari doni: sette talenti

d’oro, un cratere d’argento e dodici anfore di vino dolce purissimo, riservato al

sacerdote e alla moglie, molto forte, tanto da dover essere servito diluito nella

misura di una parte ogni dodici d’acqua.

Dopo quest’azione di guerra, Odisseo propone ai compagni la fuga, ma essi non

gli danno retta: sulla spiaggia, macellano il bestiame, approntano un banchetto e

bevono smodatamente.

Nel frattempo, i Ciconi superstiti chiedono aiuto ai connazionali dell’interno e

piombano sui Greci, che riprendono il mare dopo aver subito perdite.

L’interpretazione

A differenza che nei precedenti episodi, in questo caso il rapporto tra stranieri e

autoctoni è conflittuale. Il fondamentale elemento di differenza è la diversa origine

etnica: i Ciconi non sono Greci, ma Traci e, per giunta, alleati dei Troiani. Proprio

questo fatto autorizza gli Achei a scatenare la loro aggressività. Così, lo straniero

anziché ospite diviene predone, mentre i doni divengono bottino. Anche un potenziale

elemento di identità, quale la presenza di una stessa religione, (Apollo è un dio

venerato tanto dai Ciconi quanto dagli Achei), viene del tutto annullato.

4. Odisseo nel Paese dei Lotofagi (Libro IX)

La vicenda

Nel palazzo di Alcinoo, Persa la rotta del ritorno a causa di una tempesta di vento,

Odisseo e i suoi compagni approdano nel Paese dei Lotofagi, popolo che “mangia un

cibo di fiori”, spinti dalla necessità di fare rifornimento di acqua dolce. Odisseo

manda due marinai e un araldo verso l’interno, con l’ordine di informarsi su che

uomini vivano lì, tra quelli che “sulla terra mangiano pane”. I Lotofagi offrono a

questi esploratori il dolce frutto del loto, che toglie loro la voglia di portare notizie e

di tornare. Odisseo deve riportarli a forza sulle navi, piangenti. Dopo averli legati e

rinchiusi nella stiva, le navi riprendono il mare.

L’interpretazione

L’incontro con i Lotofagi è privo di quell’aggressività che caratterizza i rapporti tra

Achei e “barbari”. Ugualmente, però, appare denso di pericoli agli occhi di Odisseo,

che vede nell’uso dei frutti del loto una minaccia al senso d’identità suo e dei

compagni. E’ proprio per non perdere la propria identità, la stessa che lo spinge a

tornare in patria, che Odisseo decide di fuggire, anche se deve agire contro la volontà

dei compagni.

5. Odisseo nella Terra dei Ciclopi (Libro IX)

La vicenda

Il racconto di Odisseo ad Alcinoo prosegue con la descrizione dei Ciclopi. Essi

sono selvaggi. Allevano capre selvatiche e raccolgono vegetali, perciò le isole in cui

vivono non hanno pascoli né coltivi, sebbene la natura dia la possibilità di ricavarli e

la terra sia fertile. Non sanno costruire navi e non affrontano viaggi per mare verso

altri Paesi, benché le loro isole siano dotate di porti naturali che non richiedono

attrezzature. Abitano in caverne, divisi per nuclei familiari, e non conoscono

istituzioni e leggi.

Odisseo e i suoi approdano in una fitta nebbia. Cacciano capre con l’arco e, al

tramonto, allestiscono un banchetto. Avvertono voci degli abitanti e fumo delle

abitazioni, ma preferiscono dormire sulla spiaggia. Al mattino, Odisseo sale su una

nave e si dirige verso una seconda isola. Avvista su un promontorio vicino al mare

una grotta in mezzo a un bosco di lauri; intorno a essa, tra pini e querce, vi è un

recinto di pietre, entro il quale sono chiuse pecore e capre. Nella grotta vive un

essere gigantesco e solitario, che non somiglia a un uomo che mangia pane. Odisseo

si reca con i dodici compagni più valorosi a parlare con lui; porta con sé vivande e

un otre del vino datogli a Ismaro dal figlio del sacerdote di Apollo.

Ha un presagio circa la natura dell’abitante, che immagina forte, selvaggio,

ignorante di costumi civili e di norme morali. La grotta è deserta; i compagni

consigliano a Odisseo di caricare sulla nave formaggi, capretti e agnelli e di

riprendere il mare, ma lui non dà loro retta. Così, accendono il fuoco e offrono agli

dei del formaggio. L’abitante torna, portando con sé un carico di legna secca che

viene scaricato con grande frastuono. Odisseo e i suoi, spaventati, si rifugiano in

fondo alla grotta. Le bestie sono fatte entrare nell’antro per essere munte, poi

l’ingresso è sbarrato con un pietrone. Dopo aver badato al bestiame, preparato il

formaggio e trattenuta una parte del latte per la cena, l’abitante accende il fuoco e

scorge gli intrusi.

Domanda loro chi siano, da dove e con quale scopo vengano, dubitando che siano

pirati. Odisseo risponde che sono guerrieri Achei, vengono da Troia e stanno

tornando a casa, ma sono stati sviati da venti contrari. Si dichiara supplice e chiede

un dono per ospitalità o ricordo, com’è sacro dovere per rispetto degli dei e

soprattutto di Zeus, che si accompagna agli ospiti e li vuol rispettati. L’abitante gli

dà dello sciocco, perché i Ciclopi come lui non temono Zeus né gli altri dei; chiede

dove sia la loro nave e Odisseo, mentendo, risponde che Posidone l’ha distrutta

gettandola contro uno scoglio e che tutti gli altri suoi compagni sono morti.

L’abitante afferra allora due compagni di Odisseo, li uccide fracassandone la testa

contro il suolo, li fa a pezzi e li divora; poi, beve il latte e si addormenta.

Odisseo, che ha pianto per l’orrore e vorrebbe uccidere il Ciclope, si rende conto

di non poter uscire dalla grotta. Al mattino, dopo la mungitura, il pasto cannibalico

si ripete. La sera, dopo la terza ripetizione dell’evento antropofagico, Odisseo offre

al Ciclope il vino puro e, questi, bevutolo, si ubriaca; l’abitante chiede ad Odisseo

quale sia il suo nome: saputo che è Nessuno, in cambio, gli promette che, come dono,

lo divorerà per ultimo. Odisseo aspetta che il Ciclope sia addormentato per effetto

del vino, poi lo acceca con la punta carbonizzata e acuminata di un tronco. Polifemo

chiama in aiuto gli altri Ciclopi e grida che Nessuno vuole ucciderlo con l’inganno,

ma i compagni non gli danno retta.

Odisseo e i compagni superstiti si legano sutto il ventre dei montoni, così al

mattino, quando Polifemo apre la grotta per far pascolare le bestie, possono uscire

senza che il Ciclope se ne accorga. Odisseo fa caricare le bestie sulla nave e

riprende il mare. Al largo, dialoga con il Ciclope, rimproverandogli la prepotente

violenza delle azioni malvage e la mancanza di ritegno nel divorare l’ospite, vera

causa della vendetta di Zeus e degli altri dei che la sua mano ha portato. Sfuggito a

una rupe scagliata da Polifemo, Odisseo riprende a parlare e, benché i compagni lo

rimproverino per la temerarietà, rivela la propria identità. Polifemo ricorda una

profezia fattagli da un indovino, secondo la quale proprio un uomo di nome Odisseo

gli avrebbe tolto la vista; poi rivela di essere figlio di Posidone e ne invoca la

vendetta. Odisseo mette in dubbio la possibilità che questo accada, ma Polifemo

prega il padre di non far più tornare lo straniero in patria o, almeno, di fargli

trovare guai a casa e di perdere i compagni.

Gli Achei raggiungono le altre navi. Le bestie sono divise tra tutti e Odisseo

sacrifica a Zeus le cosce dell’ariete che gli spettano. Mangiano e bevono tutto il

giorno, poi, passata la notte, ripartono.

L’interpretazione

Gli elementi di differenza tra Achei e Ciclopi prevalgono ampiamente su quelli di

identità.

Alcuni elementi riguardano le differenze fisiche (i Ciclopi sono esseri giganteschi

con un occhio solo).

Altri elementi riguardano le differenze nell’organizzazione economica e sociale (i

Ciclopi sono allevatori di capre selvatiche e non di mandrie, sono raccoglitori di

vegetali anziché agricoltori; non sanno costruire navi, nèé comunicano con altri popoli;

sono privi di istituzioni e di leggi e divisi in nuclei familiari ed ignorano costumi civili e

norme morali).

Altri elementi ancora riguardano le differenze nell’organizzazione dello spazio

abitativo (i Ciclopi abitano in caverne e non in case).

Altri elementi, infine, riguardano le differenze culturali (i Ciclopi non rispettano la

volontà degli dei e sono antropofagi; sono caratterizzati come selvaggi arretrati, in

opposizione agli avanzati Greci e, non a caso, Odisseo prevale su Polifemo grazie alle

armi del linguaggio e dell’astuzia, proprie di una civiltà progredita).

Sebbene reclami il rispetto delle sacre leggi dell’ospitalità, Odisseo è sbeffeggiato e

aggredito da Polifemo: la prevalenza della differenza sull’identità, spiega l’aggressività

dell’uno e giustifica la vendetta dell’altro.

6. Odisseo a Ea (Libri X e XI)

La vicenda

Il racconto di Odisseo ad Alcinoo continua. Dopo la visita al dio Eolo e il

catastrofico approdo a Telepilo Lestrigonia, la flotta di Odisseo è ridotta a una sola

nave, che raggiunge l’isola di Ea, dove vive la dea Circe.

Metà dei marinai, guidata da Euriloco, va in esplorazione. Quando giunge presso

il palazzo della dea, sentono uscirne una voce femminile e decidono di entrare; solo

Euriloco, non fidandosi, rimane fuori.

Dapprima gli ospiti vengono neutralizzati con una droga che toglie loro la

memoria, poi sono trasformati in maiali. Non vedendoli più uscire, Euriloco torna da

Odisseo per annunciare la sparizione dei compagni.

Allora, Odisseo parte per cercare gli scomparsi. Strada facendo, è avvicinato dal

dio Ermes, che, sotto le spoglie di un fanciullo, gli svela il mistero della sorte dei

compagni, gli fornisce un antidoto in grado di annullare la magia di Circe e gli

consiglia il comportamento appropriato da adottare.

Odisseo entra nel palazzo della maga, ma con lui l’incantesimo non funziona.

Vinta, Circe accoglie Odisseo (di cui già conosce l’identità a causa di una profezia

fattale da Ermes) come ospite: lo fa entrare nel suo letto, lo fa lavare e ungere dalle

ancelle, gli fa lavare le mani e nutrire con pane e altre vivande tenute in serbo.

Odisseo ottiene che i suoi compagni riprendano le sembianze umane, poi si reca alla

nave per far venire anche gli altri. Giunti al palazzo, tutti sono trattati secondo il rito

dell’ospitalità.

La permanenza degli Itacesi a Ea dura un anno, quindi sono inviati da Circe

all’Ade affinché Odisseo possa ascoltare dall’ombra dell’indovino Tiresia una

profezia. Nell’Ade, Odisseo vede, tra gli spettri noti e sconosciuti, anche quello di

Elpenore, uno dei suoi compagni morto accidentalmente nel palazzo di Circe e

rimasto senza sepoltura.

Tornato a Ea, Odisseo crema il cadavere di Elpenore e ne seppellisce le ceneri.

Quindi, dopo aver ascoltato la profezia della dea, gli Achei riprendono il mare.

L’interpretazione

Da principio, gli Achei sono ridotti a una condizione di prigionieri dall’incantesimo

di Circe, che da un lato fa perdere loro la memoria (la voglia di tornare in patria) e

dall’altro toglie loro l’abituale aspetto fisico: entrambe le azioni mirano comunque a

privarli dell’identità per tenerli soggiogati.

Poi, grazie all’intervento di Ermes, essi rovesciano i rapporti di forza con Circe, che

applica le norme dell’ospitalità. La piacevole permanenza a Ea si procrastina per un

anno e solo il severo richiamo alla patria lontana fatto dai compagni scuote Odisseo e

lo spinge a ripartire.

La sepoltura di Elpenore assume un senso particolare se pensiamo che i popoli

antichi consideravano il rituale funerario (in questo caso, la cremazione e la sepoltura

delle ceneri) come un forte elemento di identità.

7. Odisseo nell’isola del Sole (Libro XII)

La vicenda

Odisseo racconta ad Alcinoo di essere sfuggito, grazie alla profezia di Circe, alle

insidie delle Sirene e del vortice Cariddi, ma di aver perso sei compagni divorati dal

mostro Scilla. Egli e i marinai superstiti giungono infine nelle vicinanze dell'isola del

Sole.

Messo sull'avviso dalle profezie di Tiresia e di Circe, Odisseo, informa i compagni

che, sull'isola, essi corrono un rischio gravissimo e li consiglia di schivare l'approdo.

Ma essi, spinti da Euriloco, si dicono stanchi e affamati, convincendolo a cambiare

idea. Comunque, Odisseo li fa giurare che in nessun caso essi cacceranno e

uccideranno il bestiame che vive sull'isola, di proprietà del Sole Iperione.

Dopo che gli Achei sono scesi a terra, inizia a spirare un vento di tempesta che

impedisce loro di ripartire. Da principio, essi si nutrono con i viveri immagazzinati

sulla nave, poi provano a catturare pesci e uccelli. Infine, dopo un mese di

permanenza sull'isola, mentre Odisseo si reca da solo nell'interno a pregare gli dei

affinché facciano mutare il vento e si addormenta, Euriloco persuade i compagni che

è meglio affrontare la collera degli dei piuttosto che morire di fame e che è giunta

l'ora di uccidere le giovenche del Sole.

Quando Odisseo si sveglia e torna presso i compagni è troppo tardi: molte bestie

sono già state uccise e cucinate. Il Sole chiede giustizia a Zeus e questi, dopo aver

fatto cessare i venti contrari e fatto ripartire gli Achei, scatena una tempesta che

affonda la nave. L'unico superstite del naufragio è Odisseo che, aggrappato a un

relitto, sfugge nuovamente a Cariddi e infine approda sull'isola Ogigia.

L’interpretazione

I compagni di Odisseo, stranieri sull'isola del Sole, sono indotti da un bisogno

umano primario (la fame) a rubare il bestiame, violando con ciò le norme della

convivenza tra ospite e "padrone di casa". Proprio per questo, sono puniti duramente

da Zeus, che fa perdere loro la vita.

8. Odisseo a Ogigia (Libri VII e XII)

La vicenda

Il racconto di Odisseo ad Alcinoo sta per finire. Ormai solo, egli approda a

Ogigia, isola abitata dalla dea Calipso, che non ha relazioni con nessuno degli dei e

degli uomini.

La dea accoglie il naufrago come ospite e gli offre in dono l'immortalità e l'eterna

giovinezza. Ma Odisseo continua a disperarsi, così dopo otto anni Zeus lo libera,

obbligando Calipso a lasciarlo partire su una zattera.

Dopo aver fatto naufragio per una tempesta scatenata da Posidone, adirato per

l’accecamento del figlio Polifemo, Odisseo approda nella terra dei Feaci.

L’interpretazione

Calipso accoglie Odisseo come ospite, offrendogli addirittura doti divine quali

l'immortalità e l'eterna giovinezza. Ma questi, spinto dalla nostalgia della patria e

dall'attaccamento alla propria condizione umana, rifiuta i doni e riesce a ripartire.

9. Odisseo a Itaca (Libri XIII-XXIII)

L’incontro con Eumeo

La vicenda

Odisseo, riportato a Itaca dai Feaci (cfr. 4. Odisseo a Scheria), viene avvicinato

da Atena. La dea, celata sotto le spoglie di un giovane pastore, lo mette in guardia

sulla difficile situazione dell’isola: i giovani nobili, i Proci, vogliono impadronirsi del

suo trono e uccidere suo figlio. Dopo che Atena gli ha dato l’aspetto di un vecchio

mendicante, Odisseo si dirige verso la casa di Eumeo, un suo servo, capo dei custodi

dei maiali.

Eumeo lo salva dai cani da guardia e lo accoglie come ospite, nutrendolo con due

porcellini uccisi per l’occasione e cotti allo spiedo. Il porcaro si lamenta sia perché

teme la morte del suo caro re, che non vede da troppi anni, sia perché i Proci stanno

avviando Itaca alla rovina. Odisseo gli dice che il suo re tornerà presto e ristabilirà

l’ordine sull’isola; chiede che quel giorno egli possa essere ricompensato per

l’annuncio fatto con una tunica e un mantello. Eumeo, sfiduciato, è restio a credere a

quelle parole e prega lo straniero di raccontare la sua storia.

Odisseo gli narra allora di essere figlio di un ricco cretese e di una schiava, e di

aver partecipato alla guerra di Troia; prosegue raccontando che, tornato a casa, ha

fatto rotta verso l’Egitto, ma che l’atteggiamento poco corretto dei compagni ha

provocato la violenta reazione degli abitanti del luogo; solo la pietà del re, a cui si è

arreso, gli ha salvato la vita; poi, dopo otto anni, un Fenicio l’ha dapprima condotto

nella sua patria e quindi, con l’inganno, in Libia, dove intendeva venderlo come

schiavo; la tempesta ha fatto però naufragare la nave durante il viaggio e l’ha

deposto sulle rive della terra dei Tesproti; alla corte del sovrano di quel Paese, egli

ha sentito parlare del ricco Odisseo, che in precedenza era stato lì come ospite e in

quel momento si trovava a Dodona, nell’Epiro, dove si era recato per ottenere un

responso dall’oracolo locale prima di tornare in patria; prima di poterlo incontrare,

però, egli è ripartito su una nave alla volta dell’isola di Dulichio, senonché i

marinai, approdati a Itaca, hanno pensato di venderlo come schiavo; mentre essi

sono sbarcati, egli si è tuttavia liberato dalle funi che lo tenevano prigioniero ed è

fuggito.

Eumeo lo compiange, ma dice di non credere alla storia appena udita riguardante

Odisseo, a causa della delusione già provata quando un Etolo, giunto a Itaca, l’ha

illuso raccontandogli una vicenda analoga e promettendogli il pronto ritorno del suo

re. Per convincerlo di non volerselo ingraziare con delle falsità, Odisseo gli propone

allora un patto: avrà la tunica e il mantello se il suo annuncio si rivelerà vero, avrà

la morte se risulterà invece falso.

Tornano gli aiutanti di Eumeo e questi ordina loro di uccidere e cucinare il più

bello dei maiali in onore dell’ospite. Dopo aver compiuto i rituali sacrifici in onore

degli dei, Eumeo serve a Odisseo la porzione di carne migliore, del pane e una tazza

di vino. Scende la notte e il mendicante, per convincere i presenti a offrirgli un

mantello con cui coprirsi, racconta un episodio della guerra di Troia in cui proprio

Odisseo gli ha dato la possibilità di difendersi dal freddo inducendo con l’astuzia un

altro guerriero a cedergli il mantello. Eumeo gli prepara allora un giaciglio vicino al

fuoco con pelli di pecora e capra e gli getta addosso il suo mantello invernale.

Quindi, il porcaro esce per dormire vicino ai maiali, affinché qualcuno non li rubi o

uccida durante la notte.

La sera seguente, Odisseo annuncia ad Eumeo di volersi recare a Itaca il giorno

dopo, per mendicare, per annunciare alla regina il prossimo ritorno del re e, se

possibile, per restare a guadagnarsi un pranzo come servo nel palazzo. Eumeo cerca

di dissuaderlo, visto che i Proci sono arroganti e violenti, e lo invita a restare in

attesa del ritorno di Telemaco, da cui sarà più facile ottenere protezione. Il

mendicante gli risponde ricordando come sia difficile procurarsi del cibo quando si è

viandanti e chiede notizie dei genitori di Odisseo. Eumeo racconta allora della

solitaria disperazione del padre Laerte e della morte della madre, causata dal dolore

per la lontananza del figlio. Poi, interrogato da Odisseo, gli racconta la sua storia di

figlio di un re, rapito da mercanti fenici e venduto a Laerte.

L’interpretazione

Odisseo si trova nell’insolita e scomoda condizione dello straniero anche dopo

essere tornato ad Itaca, poiché la prudenza lo spinge a non farsi riconoscere da alcuno.

Il primo incontro avviene con Eumeo, che, pur limitato dalla sua umile condizione, non

esita a far propria la sacra usanza dell’ospitalità, nutrendo il mendicante forestiero e

offrendogli un confortevole giaciglio per la notte.

Gli elementi di identità, che aiutano Odisseo a riconoscere Eumeo come servo

fedele, sono numerosi: dalle parole (Eumeo gli dice e gli fa capire in diverse occasioni

di essere fedele come un tempo al re che crede lontano), al comportamento (Eumeo gli

dimostra di saper proteggere e amministrare nel migliore dei modi i maiali avuti in

affidamento), al rispetto del rituale dell’ospitalità, che segnala che il porcaro ha

conservato un animo puro, capace di rispettare le più profonde tradizioni religiose.

L’incontro con Telemaco

La vicenda

Grazie alla protezione di Atena, Telemaco, di ritorno da Sparta, sfugge

all’agguato che i Proci gli hanno preparato al largo di Itaca.

Sbarca e si reca subito da Eumeo. Qui incontra Odisseo, ancora sotto le mentite

spoglie di mendicante: pur non essendo in grado di ospitarlo a palazzo, vista la

situazione di pericolo, si offre di inviargli in dono una tunica, un mantello, calzari e

una spada a doppio taglio e di farlo accompagnare dove preferisce.

Telemaco invia Eumeo da Penelope, perché l’avvisi del suo ritorno a Itaca. Partito

il porcaro, appare Atena che, senza che Telemaco se ne accorga, restituisce a

Odisseo le sue vere sembianze. Odisseo si mostra a Telemaco: questi lo scambia

dapprima per un dio e solo in un secondo momento comprende di trovarsi di fronte

al proprio padre. Dopo un lungo momento di commozione, Odisseo propone a

Telemaco un piano per vendicarsi dei Proci.

L’interpretazione

Il rituale dell’ospitalità, già avviato da Eumeo, è completato da Telemaco, che si

offre di rivestire degnamente quello che crede essere un mendicante straniero.

Il riconoscimento reciproco di Odisseo e Telemaco è segnato da un forte elemento

di identità: il sentimento, evidenziato dal pianto dirotto a cui si abbandonano padre e

figlio dopo la lunga separazione.

L’incontro con Melanzio

La vicenda

Eumeo torna a casa e Telemaco gli ordina di accompagnare Odisseo, cui nel

frattempo Atena ha ridato le sembianze di vecchio mendicante, in città.

I due partono e, lungo la strada, incontrano un servo di Odisseo, il guardiano di

capre Melanzio. Convinto che il suo re sia morto e schierato dalla parte dei Proci,

egli deride il mendicante e insulta Eumeo che lo accompagna e Telemaco che lo

protegge, augurando al primo di essere venduto come schiavo e al secondo di venir

ucciso da Apollo.

L’interpretazione

Mentre Eumeo incarna il servo fedele, Melanzio rappresenta il servo infedele, ormai

schierato dalla parte dei Proci. Le differenze tra Eumeo e Melanzio sono sottolineate

dall’opposto atteggiamento verso il mendicante: attento a rispettare il sacro rito

dell’ospitalità il primo, pronto a disprezzarlo il secondo.

L’incontro con ilcane Argo

La vicenda

Fuori dal palazzo, abbandonato su un mucchio di letame e pieno di zecche, giace

il cane Argo, allevato da Odisseo poco prima di partire per la guerra. Il cane

riconosce il padrone, finalmente tornato a casa, benché abbia l’aspetto di vecchio

mendicante. Eumeo spiega che, dopo la partenza del re, nessuno dei servi l’ha più

curato. Mentre Odisseo, non visto, si asciuga una lacrima, il cane muore.

L’interpretazione

Guidato dall’istinto, potente elaboratore dei segni d’identità, il cane riconosce

l’uomo che l’ha allevato e a cui è rimasto fedele per vent’anni, al di là dell’aspetto

fisico mutato e della mancanza di cenni di saluto. Al riconoscimento di Odisseo,

segnato dal levarsi della testa, dall’abbassarsi e dall’alzarsi delle orecchie e dal

dimenarsi della coda, l’animale dedica gli ultimi istanti di vita.

L’incontro con i Proci

La vicenda

Nel palazzo, non appena vede il mendicante, Telemaco porge a Eumeo un pane e

della carne affinché glieli dia. Invita poi i Proci a fare altrettanto, ma Antinoo, uno di

essi, ribatte che non c’è bisogno di vagabondi e di pitocchi molesti che approfittino

delle ricchezze del padrone di casa. Telemaco gli risponde che gli dei non

permettono che si scacci un forestiero dalla sala e che lui, figlio del padrone di casa,

autorizza i Proci, che pure sono ospiti, a sfamarlo. Tutti i Proci allora riempiono la

bisaccia del mendicante di pane e di carne. Il mendicante si avvicina allora ad

Antinoo, raccontandogli la vicenda che già ha narrato ad Eumeo (cfr. L’incontro con

Eumeo), ma l’altro persiste nel suo rifiuto e, irato, lo colpisce scagliandogli contro

uno sgabello: contro di lui, il mendicante invoca la vendetta degli dei.

Penelope chiede ad Eumeo di chiamare il forestiero, affinché possa interrogarlo e

sapere se è in possesso di notizie di Odisseo: in cambio, gli darà una tunica e un

mantello. Eumeo le conferma che lo straniero ha saputo che Odisseo sta per tornare

in patria. Ma quando Eumeo si avvicina al mendicante per riferirgli la volontà della

regina, questi rifiuta, per timore dei Proci ostili, violenti e arroganti, e chiede che la

regina rimandi il colloquio a sera.

L’accattone girovago Iro, appena tornato a palazzo, vuole scacciare Odisseo e lo

sfida alla lotta: incitati dai Proci, che pregustano lo spettacolo, i due si battono ed è

Odisseo ad avere la meglio.

Ispirata da Atena, Penelope decide di presentarsi ai Proci. Dapprima,

rivolgendosi a Telemaco non udita dai pretendenti, lo rimprovera per aver permesso

che l’ospite straniero venisse oltraggiato nel palazzo. Poi, racconta ai Proci che

Odisseo, al momento della partenza per Troia, l’ha autorizzata a sposarsi in caso di

un suo mancato ritorno nel momento in cui fosse spuntata la prima barba a

Telemaco: ora, con dolore, sente che il momento è giunto, ma crede anche di dover

rimproverare i pretendenti perché mangiano impunemente la sostanza altrui anziché

portare doni come si conviene. Così, uno dopo l’altro, i Proci le fanno porgere dagli

araldi doni bellissimi.

Odisseo allontana le ancelle, dicendo loro che resterà lui ad alimentare il fuoco

nel megaron; una di esse, Melanto lo insulta, taciandolo di insolenza per voler

restare nella sala, ma Odisseo minaccia di riferire quelle parole a Telemaco,

affinché la tagli a pezzi. Viene poi sbeffeggiato da Eurimaco, un altro tra i Proci, che

lo accusa di far l’accattone per poca voglia di lavorare; quando Odisseo risponde

che gli è facile fare l’insolente e mostrare l’animo duro in assenza del re e che

tuttavia se il re tornasse egli non saprebbe far altro che fuggire, Eurimaco, irato, gli

scaglia contro uno sgabello che non giunge a destinazione solo per l’abilità del

bersaglio a schivarlo. Su consiglio di Telemaco, i Proci tornano alle rispettive case.

L’interpretazione

L’atteggiamento di Antinoo, di Eurimaco e degli altri Proci (più avanti vedremo

anche Ctesippo impegnato in un’analoga condotta), che mostrano assoluto disprezzo

per il sacro rituale dell’ospitalità, chiarisce a Odisseo la vera natura dei pretendenti,

arroganti e privi di ritegno nell’approfittare dell’assenza del re.

L’incontro con Euriclea

La vicenda

Su consiglio di Odisseo, Telemaco fa allontanare le ancelle dalla sala e, con il

padre, ripone le armi che vi si trovano in un ripostiglio esterno.

Scende nel megaron Penelope. Per la seconda volta Melanto inveisce contro

Odisseo, rimproverandolo per essere rimasto nel palazzo anche dopo che è scesa la

notte e accusandolo di voler insidiare le donne; il mendicante le risponde ribattendo

che, con quelle parole, lei insulta uno straniero costretto dal bisogno e minaccia la

punizione divina. Anche Penelope rimprovera aspramente l’ancella per la sua

malvagità.

La regina interroga il mendicante sulle sue origini e questi le risponde di non aver

voglia di parlarne per il troppo dolore seguito alla triste sorte che vive. Penelope

ribatte allora che anche lei, in qualche modo, condivide la sua stessa sorte: il suo

sposo è partito da molto tempo e lei è assediata dai pretendenti, malgrando si

strugga di desiderio per il ritorno di Odisseo. Racconta poi di avere per qualche

tempo tenuto a bada i Proci, chiedendo loro di attendere che fosse finito il sudario

destinato al vecchio Laerte; quel sudario che lei tesseva di giorno lo disfaceva di

notte, ma la complicità delle ancelle ha permesso ai Proci di svelare l’inganno. Ora

il sudario è finito e non c’è più modo di rimandare le nozze.

Odisseo le narra la storia riguardante la sua origine già esposta a Eumeo (cfr.

L’incontro con Eumeo) e le riferisce di aver incontrato a Creta, la sua patria,

Odisseo mentre si trovava in viaggio verso Troia. Penelope, temendo un inganno, gli

chiede di dirle quali abiti indossasse suo marito e quali compagni lo

accompagnassero al momento di quell’incontro e, ottenuta una risposta attendibile e

particolareggiata, si scioglie in un pianto dirotto. Il mendicante le racconta poi della

seconda volta in cui ha incontrato Odisseo e di aver saputo che il re sta per tornare

in patria.

Alla fine del racconto, Penelope ordina alle ancelle di lavare l’ospite e di

preparargli un comodo giaciglio per la notte. L’indomani, prosegue, esse dovranno

nuovamente lavarlo e ungerlo, per prepararlo al banchetto a cui parteciperà come

ospite accanto a Telemaco. Odisseo ribatte che, da quando è lontano da Creta, non

fa che passare le notti insonne e che non intende cambiar modo ora. Quanto al

bagno, chiede che solo la serva più vecchia, una che sia buona e fedele e che abbia

sofferto quanto ha sofferto lui, possa lavargli i piedi.

E’ Euriclea, colei che nutrì Odisseo da piccolo, la serva scelta. Mentre si accinge

a compiere il lavacro, scopre però sulla gamba del mendicante una vecchia cicatrice,

identica a quella che la ferita provocata dalla zanna di un cinghiale aveva lasciato

molti anni prima sul corpo di Odisseo. Con sorpresa e commozione, riconosce nel

mendicante il suo re e sta per avvertire Penelope, ma Odisseo l’afferra e le ordina di

non dir nulla, per non rovinare il suo piano di vendetta. La nutrice allora gli

assicura che obbedirà.

L’interpretazione

Euriclea incarna la serva fedele al suo re. Ad Odisseo è legata da un vincolo di

sangue, visto che l’ha allattato: questo rappresenta certamente un forte segno

d’identità. Alto elemento di identità risulta essere la conoscenza del corpo del re, come

dimostra il riconoscimento della cicatrice.

All’opposto, Melanto rappresenta la serva infedele, ormai schierata dalla parte dei

Proci (cfr. anche L’incontro con i Proci), che mostra disprezzo per il mendicante e, con

lui, per il sacro rito dell’ospitalità.

L’incontro con Penelope

La vicenda

Odisseo si corica nel vestibolo, su un giaciglio di fortuna, ma non dorme e,

all’alba, è scosso dal pianto disperato di Penelope.

All’ora di pranzo, entrano a palazzo i Proci e uno di loro, Ctesippo, dopo aver

affermato di voler dare un dono al mendicante straniero, gli scaglia contro una

zampa di bue raccolta da un cesto, che Odisseo prontamente evita.

I pretendenti chiedono a Telemaco di costringere sua madre a scegliere finalmente

un nuovo sposo; il giovane risponde indignato mentre i Proci rincarano la dose,

proponendogli di vendere il mendicante straniero come schiavo.

Quindi entra nel megaron Penelope, che propone ai pretendentii di superare una

prova, in modo da determinare chi sarà il suo sposo. La prova consiste nel tendere

l’arco che fu di Odisseo e di scagliare una freccia in modo che passi dentro gli anelli

di dieci scuri conficcate nel suolo a distanza regolare.

Intanto, fuori dal palazzo, Odisseo si fa riconoscere da Eumeo e dal fedele

guardiano di buoi Filezio, mostrando loro la cicatrice sulla gamba, e propone loro di

aiutarlo a vendicarsi dei Proci.

Nel megaron, nessuno dei Proci è riuscito a tendere l’arco. Entra Odisseo e chiede

di poter a sua volta affrontare la prova. Antinoo ed Eurimaco si oppongono

infuriatii, ma Penelope li placa dicendo che, se lo straniero riuscirà nell’intento, gli

donerà un mantello, una tunica, dei calzari, un giavellotto e una spada a doppio

taglio e lo farà accompagnare dove meglio crede. Telemaco stesso si offre come

garante di queste condizioni.

Intanto, Eumeo fa in modo che Euriclea chiuda dall’esterno le porte del megaron e

Penelope torna nelle proprie stanze. Odisseo tende l’arco senza sforzo e scaglia la

freccia, che traversa esattamente i dieci anelli. Con l’aiuto di Atena, Odisseo,

Telemaco, Eumeo e Filezio fanno strage dei Proci, senza risparmiarne alcuno.

Quando Euriclea riapre le porte del megaron, Odisseo chiede che siano convocate

le ancelle infedeli. Ordina loro di sgomberare i cadaveri e di pulire la sala dal

sangue. Terminata l’operazione, le fa impiccare da Telemaco, Eumeo e Filezio.

Anche Melanzio è punito dai compagni di Odisseo: paga la sua infedeltà al re con

una morte orrenda. Infine, Euriclea disinfetta la stanza, bruciando zolfo.

Per ordine di Odisseo, Euriclea va a chiamare Penelope, annunciandole che il re

suo sposo è tornato e che si tratta del mendicante straniero. Penelope crede che

Euriclea voglia farsi beffe di lei e, anche quando la serva le racconta la strage dei

Proci, continua a mostrare di non credere alla realtà, sebbene in cuor suo abbia

capito che Odisseo è davvero tornato.

Scesa nella sala, Penelope è apostrofata da Telemaco perché non riconosce

Odisseo, ma la donna risponde che potrà farlo solo quando questi ricorderà un

segreto di cui solo lei e il marito sono a conoscenza.

Odisseo viene lavato e unto da una serva, che lo veste con una tunica e un

mantello; Atena gli ridà il suo vero aspetto. Odisseo chiede di poter dormire e

Penelope ordina ad Euriclea di preparargli fuori dalla stanza nuziale il letto che il re

stesso costruì con le proprie mani. Ma Odisseo dice che nessuno può far uscire quel

letto dalla stanza nuziale, visto che egli costruì quella stanza intorno a un albero di

fico e, dal tronco ancora radicato, ricavò il letto. Penelope allora abbraccia e bacia

Odisseo: i due sposi finalmente si ricongiungono.

L’interpretazione

Già in precedenza, Penelope ha dimostrato di rispettare la sacra usanza

dell’ospitalità, proteggendo il mendicante e offrendosi di farlo lavare e ungere dalle

serve, oltre che di dargli un giaciglio per la notte e un posto d’onore al banchetto. Ciò

che ha determinato questo suo atteggiamento (che di solito non potrebbe permettersi in

quanto donna e, perciò, persona non autonoma nel mondo degli Achei) è certamente

l’immutato amore per Odisseo, che il racconto del mendicante ha ravvivato facendo

rinascere la speranza di una ricongiunzione con il marito.

Il rispetto dell’ospite non risparmia alla regina la pena di essere l’ultima persona del

palazzo a sapere del ritorno del marito. Dal canto suo, comunque, Penelope decide di

mettere alla prova Odisseo anche dopo che in cuor suo s’è convinta che è davvero

tornato. Mentre Eumeo e Filezio sono persuasi dal riconoscimento della cicatrice, alla

regina serve un elemento di identità più intimo e profondo: un segreto che la accomuna

allo sposo, qual è quello che racchiude il letto coniugale.

L’incontro con Laerte

La vicenda

Al termine della notte, Odisseo si reca dal padre, che vive in campagna. Lo trova

mentre sta lavorando la terra, ormai anziano e molto mal ridotto, tuttavia, decide di

non rivelarsi e di metterlo alla prova. Si presenta perciò come un viaggiatore

straniero, figlio di un re della Sicilia; racconta di aver ricevuto la visita di Odisseo

cinque anni prima e di averlo accolto come ospite per un breve periodo. Al pensiero

che il figlio non sia ancora tornato in patria e che forse non tornerà più, Laerte è

travolto dal dolore: lamentandosi, raccoglie cenere da terra e se la sparge sul capo

in segno di umiliazione. Finalmente, Odisseo decide di farsi riconoscere, ma è Laerte

a chiedergli un segno di riconoscimento. Così, il figlio mostra la vecchia cicatrice

alla gamba e ricorda quando, da bambino, il padre gli donò tredici peri, dieci meli,

quaranta fichi e cinquanta filari di vite. Laerte getta infine le braccia al collo di

Odisseo e, per l’emozione, sta per svenire, tanto che dev’essere sorretto.

Padre e figlio tornano al palazzo, davanti al quale si sono radunati i parenti dei

Proci a reclamare vendetta. A un breve scontro, placato dall’intervento di Atena,

seguono il ristabilimento dell’ordine e la riconciliazione tra Odisseo e i suoi sudditi.

L’interpretazione

Odisseo, che non rinuncia a farsi credere uno straniero nemmeno davanti al padre,

deve fornire una prova della propria identità per ottenere il riconoscimento: la vecchia

cicatrice e, soprattutto, il ricordo del dono ricevuto costituiscono gli elementi

necessari.

L’ultima prova che il re deve superare è quella di farsi riconoscere dal suo popolo e

i soli segni d’identità utili a questo scopo sono il coraggio e la ferma determinazione a

imporre la propria autorità sui sudditi.