LODI,G- Le Mie Piante Grasse ( Testo)

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Italiano, manuale storico sulla coltivazione delle piante grasse.Prima parte

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Prefazione

Spero che agli amici delle piante grasse possano essere utili questi ricordi di un collega che conosce le piante grasse da un'ottantina di anni.

Alla fine del secolo scorso, quando andavo ancora all'asilo infantile, avevamo in giardino, a Zola, una «aloè, che fiorisce ogni cento anni» e qualche altra pianta grassa spinosa, tonda e senza foglie, che fioriva. I loro nomi, Agave e Echinopsis li seppi qualche anno più tardi.

Nel 1912, studente liceale, conobbi, all'Orto botanico, i Cereus, le Opuntia, le Mammillaria e le vere Aloe.

Nel febbraio 1920 fui mandato, convalescente, a finire l'inverno a Bordighera. Oltre le palme, la caratteristica di Bordighera, vidi agavi, opunzie e mesembriantemi che crescevano liberamente presso le strade.

Passavo ore nei giardini creati da Ludwig Winter, uno dei pionieri della floricoltura ligure: i suoi figli stavano riprendendo, alla Braia Grande, la coltivazione delle cactee, quasi abbandonata cinque anni prima per la guerra.

Visitai più volte il giardino della villa Hanbury, alla Mortola, nel quale lo stesso Winter aveva piantato all'aperto, cinquant'anni prima, migliaia di piante di tutte le parti del mondo. Delle piante grasse alcune erano cresciute in esemplari maestosi, altre avevano formato, fra i sassi, piccoli gruppi meravigliosamente cesellati.

Mi presi una mezza cotta per le cactee piccole globose, che avrei potuto coltivare anche in città sul davanzale. Ai primi di aprile mi portai a Bologna un Notocactus ottonis a sette coste, del quale ho ancora i discendenti, e le poche altre piante che potei avere dai Winter.

Portai anche cento garofani rossi del mercato dei fiori di Ventimiglia per una ragazzina, sorella del migliore dei miei amici. Il viaggio di nozze, nell'aprile 1922, lo facemmo a Bordighera. Alla Mortola ammi­rammo molto VEchinocactus grusonii, e ne prendemmo uno dai Winter. Era grosso un centimetro e mezzo: lo pagammo dieci soldi. Adesso è grosso più di mezzo metro: ha visto Mino, la sposina, invecchiare con me e lasciarmi poco prima che diventassimo bisnonni.

Nel 1922 cominciammo anche a fare venire cactee e qualche mesem-briantemo nano dal Belgio e dalla Germania, dove le piante grasse erano, e sono ancora, molto più coltivate che da noi.

Visitavo gli orti botanici, le coltivazioni (ne andavano sorgendo, ancora a Bordighera, a Sanremo, Chiavari, più tardi a Bologna e Firenze), con qualche capatina sulla Costa Azzurra e a Zurigo per visitare grandi collezioni-guida e coltivazioni specializzate. Contrabban-

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davo qualche importazione, o altre piante introvabili in Italia (l'importa­zione delle cactacee era stata proibita nel 1933).

Nel 1945 ebbi a mia disposizione una serra: potei tenere cactee più grandi e anche piante di altre famiglie.

Trovavo le piante, ma raramente ne sapevo i nomi. Le piante che prendevo dai fiorai non avevano quasi mai il nome, e anche quando l'avevano me ne fidavo poco.

La maggior parte delle cactee che avevo prima aveva cambiato nome. Negli anni Trenta, libri e cataloghi europei seguivano la classifi­cazione di SCHUMANN, con le cactee divise in ventuno generi. Qualcuno accennava alla nuova classificazione di BRITTON e ROSE, con le cactee divise in centoquarantadue generi; ma le piante del commercio avevano ancora i vecchi nomi.

Dopo la guerra sono venute altre variazioni (BACKEBERG, BUX-BAUM e altri). Attualmente si parla di oltre duecento generi di cactee, in parte accettati da tutti, in parte accettati dagli uni e non dagli altri: la stessa specie si può trovare collocata, da due autori diversi, in un genere o in un altro.

Certi generi (Cereus, Echinocactus, Mammìllaria) hanno perduto decine o centinaia di specie, passate nei nuovi generi, o hanno cambiato nome {Epihyllum, Phyllocactus); Pilocereus è addirittura scomparso.

Sono comparse nuove famiglie: Agavaceae (con generi a ovario infero, prima comprese nella famiglia Amaryllidaceae e altri a ovario supero, già appartenenti alle Liliaceaé) e Mesembryanthemaceae (che altri dicono Fìcoidaceae) con più di cento generi e migliaia di specie, che quando ero giovane io appartenevano tutte al genere Mesembryan-themum (famiglia Aizoaceae).

Seguire tutti questi cambiamenti non era facile. L'unico libro italiano che conosco, il manuale Hoepli del TREVISAN, del 1932, fatto bene nella parte generale e bene illustrato, ma già ai suoi tempi troppo sommario e arretrato nella parte speciale, non mi poteva servire.

In francese trovavo manuali più recenti, più aggiornati e molto più particolareggiati, ma che non mi bastavano ancora.

Dovevo arrangiarmi con libri e riviste in tedesco o in inglese, lingue che non conosco. La lenta e faticosa traduzione, quasi parola per parola col dizionario, come i vecchi compiti di latino (o di greco: i miei primi libri tedeschi erano in caratteri gotici) mi lasciava spesso, e mi lascia ancora, qualche volta, un vago timore di avere preso lucciole per lanterne.

Poi col tedesco ho preso una certa confidenza: spesso (non sempre!) posso leggere le descrizioni anche senza dizionario. Ma con l'inglese sono ancora a terra.

E gli altri dilettanti italiani stanno quasi tutti peggio di me: anche se conoscono le lingue, non hanno quelle pubblicazioni da consultare, né il tempo per farlo. Per aiutarli un poco, e anche per fare venire sera nei miei lunghi giorni di pensionato, cominciai, qualche anno fa, a notare quello che leggevo (o mi pareva di leggere), quello che avevo visto fare da coltivatori più pratici di me, e specialmente quello che mi avevano insegnato, e mi andavano insegnando le mie piante.

Parlo solo delle piante che ho avuto e coltivato, circa cinquecento specie. Sono solo una piccola parte delle diecimila specie di piante grasse che si conoscono, ma rappresentano la maggior parte di quelle che si trovano in commercio da noi. Le figure in bianco e nero sono quasi tutte da fotografie mie delle mie piante: ho creduto bene aggiun-

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geme qualcuna che ho fatto in altre collezioni, o ho preso da libri e cataloghi, se le piante mie, ancora molto giovani, erano meno caratteri­stiche.

Nel mio lavoro mi aiutavano i coltivatori e gli importatori, special­mente i signori GIOVANNI ALLAVENA e, dopo la sua morte, il figlio GIACOMO (Bordighera), fratelli CROVETTO (Chiavari), P. CUPPINI (Bo­logna), M. TORRINI (Firenze), O. EBNER (Zurigo) e J. ZEHNDER (Turgi) che in cambio dei mie doppi mi davano piante nuove e rare, e semi.

Adesso mi aiutano i colleghi dilettanti, specialmente i signori G. BERGAMASCHI, L. MAGAGNOLI, dr. A. POLUZZI, ing. F. TAGLIONI (Bologna), R. MANGANI e signorina D. BARTOLINI (Firenze), prof. C. GASPERINI (Catania), L. BATTAIA (Padova), C. ZANOVELLO (Vicenza), portandomi le piante e i semi che io non posso più andare a cercare.

I ragazzi dell'Orto botanico: N. VICINI tecnico, e i giardinieri G. BUGAMELLI, addetto agli scambi con gli altri istituti, A. MONGARDI, E. FRANCIA e G. PALMIERI mi aiutano quando ne ho bisogno. E dopo gli ottantanni, con migliaia di piantine si ha spesso bisogno di aiuto: MONGARDI, che ha nel suo raggio d'azione le piante grasse, è da anni il mio braccio destro.

I professori R. SA VELLI, F. BERTOSSI, A. MELANDRI, A. PIROLA che si sono succeduti nella direzione dell'Orto, hanno migliorato la serra (non era stata fatta per le piante grasse), ma sulle piante mi hanno sempre lasciato fare quello che volevo. Non mi hanno mai dato consigli, che avrebbero potuto parere direttive e limitarmi l'autonomia. Mi lasciavano magari sbagliare, ma a modo mio. Anche di questo li ringrazio.

GIUSEPPE LODI

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Si dicono grasse, o succulente le piante che hanno le parti sopra terra (fusto e rami, foglie) ingrossate e carnose.

Succulente sarebbe più giusto che grasse, perché l'ingrossamento è dato da succo, cioè da acqua, e non da grasso. Ma ormai da tanto tempo si dice piante grasse, in Italia e Francia, che non sarà facile cambiare, tanto più che, nel linguaggio comune, succulento ha più il significato di gustoso che di acquoso (una cenetta succulenta non deve avere molto a che fare con l'acqua). Succulente invece che grasse è usato in Germania, in Inghilterra ecc., spesso come sostantivo (die Sukkulenten, le piante grasse). Da noi è usato, come aggettivo o come sostantivo, da botanici o da giardinieri specializzati.

L'ingrossamento si può formare nel fusto, o nelle foglie (raramente nell'uno e nelle altre): si può quindi fare una distinzione pratica in piante a fusto grasso (cactee, euforbie ecc.) e piante a foglie grasse (mesembriantemi, crassulacee ecc.) (*).

Tanto nel fusto, quanto nelle foglie l'ingrossamento può essere molto diverso da una pianta all'altra: dai fusti sferici o quasi della Euphorbia obesa e dell'' Astrophytum asterias a quelli cilindrici scanalati di altre Euphorbia e dei Cereus e a quelli appiattiti dei fillocactus; dalle foglie carnose, ma sempre appiattite delle Echeveria a quelle cilindriche di certi Sedum e a quelle sferiche di Senecio rowleyanus ecc.

Tutte le piante grasse hanno in comune l'ingrossamento acquoso del fusto o delle foglie, ma possono differire molto l'una dall'altra per la struttura, il tipo dei fiori ecc. Le piante grasse sono distribuite in una cinquantina di famiglie.

Qualche famiglia è formata tutta, o quasi, di piante grasse: sono a fusto grasso quasi tutte le cactee, a foglie grasse le crassulacee e le mesembriantemacee.

Altre famiglie comprendono centinaia di specie grasse (le asclepiadacee e le euforbiacee a fusto grasso, le gigliacee a foglie grasse) e un numero molto maggiore di specie non grasse.

Anche certi generi comprendono specie grasse (es. le tante Euphorbia a fusto grasso dell'Africa ecc.) e altre non grasse sparse in tutto il mondo (da noi, l'erba cipressina e le tante erbe lattarole dei campi e degli orti). Il genere Senecio ha, specialmente in Africa, specie a fusto grasso, altre a foglie grasse e, in tutto il mondo, specie non grasse (es. le nostre erbe cardelline o verzelline).

(a) In certe piante il fusto si ingrossa solo alla base, con o senza ingrossamento alla radice. Queste piante con fusto ingrossato alla base si dicono caudiciformi (dal lat. caudex, base del tronco).

Si può avere l'ingrossamento anche in parte delle radici (in certe cactee, euforbie ecc., ma queste radici ingrossate, sotterranee e invisibili, non ci interessano).

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Dove e come vivono le piante grasse

Le piante grasse vivono generalmente in luo­ghi nei quali a periodi di pioggia, più o meno abbondante, si alternano con una certa regolarità periodi di siccità. Nella stagione piovosa le pian­te vegetano, assorbono l'acqua e se ne fanno una riserva da utilizzare nella stagione secca, che può durare anche parecchi mesi.

Non si trovano piante grasse nei veri deserti (Sahara, o simili) nei quali possono anche passa­re anni senza che piova: le piante non potrebbe­ro farsi una provvista d'acqua sufficiente per tan­to tempo (2).

Ne vivono nei cosiddetti deserti nebbiosi, in prossimità delle coste del Perù, del Cile, del Sudafrica occidentale, anche questi senza pioggia per anni, ma coperti per mesi da fitte nebbie umide, causate da correnti marine fredde, paral­lele alla costa. Senza arrivare alla vera pioggia, le goccioline della nebbia inumidiscono le piante e gli strati superficiali del terreno, permettendo la vita alle piante.

Altre piante grasse vivono epifite in poco ter­riccio raccolto sugli alberi della foresta equatoria­le sempreverde, specialmente in America: hanno per lo più il fusto molto sottile o appiattito come una foglia (i fillocactus, le Rhipsalis, le meno grasse fra le cactee: possono vivere perché il terriccio è sempre umido).

La patria della maggior parte delle piante grasse è il subdeserto, nel quale a periodi di siccità di mesi, che richiedono una notevole riser­va di acqua per essere superati, si alternano più o meno regolarmente periodi piovosi, che per-

(2) In questi deserti vivono solo piante con le radici lunghissime, che arrivano a trovare l'acqua a grande profon­dità, e la parte sopra terra ridottissima, a ciuffo compatto che disperde poca acqua, oppure «piante effimere», che na­scono dopo la pioggia, crescono, fioriscono, fruttificano in pochi giorni e muoiono, lasciando i semi che germineranno alla prossima pioggia, magari dopo anni.

mettono di fare la riserva. Il clima migliore è il subtropicale caldotempe-

rato, con minime invernali non inferiori a 5-6 gradi e con notevoli escursioni di temperatura fra l'estate e l'inverno e fra il giorno e la notte.

Le piogge possono cadere dall'autunno alla primavera, con siccità estiva (press'a poco come da noi), ma generalmente cadono nell'estate (giugno-agosto nell'Emisfero settentrionale, dicembre-gennaio nell'Emisfero meridionale), con siccità invernale.

L'acqua della pioggia in parte scorre sul ter­reno, in parte vi penetra, poco se la pioggia era scarsa, più profondamente se era più abbondante (3) o se la terra era già bagnata. Dal sottosuolo poi risale in superficie per capillarità ed evapora. Le piante assorbono tanto l'acqua che cade, quanto quella che risale, e i sali che vi si sono sciolti, necessari per la nutrizione. Quando le piogge sono finite e il sottosuolo è asciutto, le piante «fanno economia».

In queste condizioni la vegetazione è scarsa: vi si trovano erbe perenni, bruciate dal sole per la maggior parte dell'anno, piante bulbose e piante grasse.

Più che la quantità di acqua che cade in un anno, influisce la lunghezza del periodo di sicci­tà. In certe zone del Messico cade in un anno più del doppio dell'acqua che cade a Bologna, ma in pochissimi mesi, e il periodo secco dura molto più a lungo.

Credo non inutile riportare, a spizzico e tradotte liberamente, alcune pagine di botanici specializzati e di raccoglitori professionisti, che la patria delle piante grasse l'hanno conosciuta direttamente.

(3) Negli osservatori, la pioggia si misura in millimetri, col pluviometro; in campagna si «misura» guardando fino a quale profondità è scesa nel terreno: «è andata giù due dita, un palmo, una mano di vanga».

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La professoressa H. BRAVO (4), messicana, parla degli adattamenti alla vita del deserto, poi aggiunge che l'acqua, che tanto gelosamente queste piante con­servano nei loro tessuti dovrà servire almeno per un periodo di dieci mesi. Nonostante tutti gli adattamen­ti, molte muoiono di sete prima che venga la stagione umida, e quelle che riescono a sopravvivere arrivano a un grado estremo di esaurimento. Però al cadere delle prime piogge l'assorbimento dell'acqua si fa rapida­mente, le piante si rigonfiano, entrano in un attivo periodo di accrescimento e presto spuntano i fiori belli e brillanti; gli insetti portano il polline da un fiore all'altro e con la fecondazione si producono i frutti che assicurano la vita della specie per mezzo dei semi; passata la fruttificazione, le piante continuano la loro penosa vita vegetativa per il resto della stagione secca, finché tornano le piogge e il ciclo si ripete.

H. W. VIERECK, ritornato in Germania dopo essere stato per anni nel Messico, rispondeva, in tono un po' scanzonato, a quelli che gli invidiavano gli anni passati nel paese delle cactee (=).

Ricorda le spine delle Opuntia, delle agavi, delle altre piante della macchia (tutto fora: alberi, arbusti, erbe), i glochidi delle Opuntia, la loro estrazione e le imprecazioni, prima tedesche, poi, esaurite queste, spagnole. Racconta che una volta non sapendo come portare a casa un Echinocactus ingens di un metro di diametro, gli piantarono attraverso il corpo un palo appuntito, e lo fecero viaggiare così (in portantina, diremmo noi): la pianta sopportò bene il «barbaro» trattamento (l'aggettivo è di Viereck) e ancora per anni visse e fiorì, finché le crebbe attorno un pergola­to di viti, e le frequenti annaffiature, necessarie a queste, la fecero marcire.

Perché là le annaffiature non si fanno con la broc­ca, ma sommergendo il terreno con mezzo piede di acqua, come fa anche il buon Dio, quando fa piovere dopo mesi di siccità: tutta la zona diventa un lago. Ma è incredibile con quanta rapidità l'acqua scompaia. Un giorno misurarono col pluviometro più di centodieci millimetri di pioggia in venti ore (6). Il dopodomani il terreno alla superficie era tanto asciutto che il vento poteva sollevare la polvere.

F. RITTER, famoso raccoglitore, mandando, per primo, in Europa il Peniocereus maculatus, scriveva che alla fine della stagione secca è tanto malridotto, floscio, giallo-rossiccio chiazzato, che si può appena pensare alla possibilità di una ripresa dopo la pioggia.

F, SCHWARZ (7) raccoglieva nel subdeserto messica­no piante da esportare.

Non pioveva da otto mesi e il sole era allo zenith.

(4) Las Cactàceas de Mexico, pag. 4 e 5. (5) «Kakteenkunde», VI, 1934, pag. 121. (6) A Bologna, trenta anni di osservazioni hanno dato

una media annuale di settantun giorni piovosi, con 601 mm totali di precipitazioni (pioggia, neve, grandine). Cioè là in un giorno era caduto quasi un quinto dell'acqua che a Bolo­gna cade in un anno, distribuita in una settantina di giorni.

Che cosa significhi questo lo possono capire solo quel­li che conoscono il deserto in tutta la sua durezza. I radi arbusti erano risecchiti da un pezzo. Perfino le cactee erano raggrinzite, bruno-azzurrognole. Gli arti­coli delle Opuntia pendevano flosci e avvizziti.

Il sole scagliava senza pietà i suoi raggi ardenti. L'arsura aveva contorto e storpiato le piante che era­no ancora in vita. Pareva di sentirle lamentarsi. Tutta la natura mandava come un solo grido: acqua, acqua, acqua!

E ancora «La maggior parte delle cactee sta per morire, e se non piove presto, non potrà più soppor­tare l'ardore continuamente crescente del sole».

Da questo possiamo dedurre:

1) le cactee sono adattate a condizioni di vita du­rissima (sole e mesi di siccità);

2) possono sopportare anche ferite gravi e pro­fonde;

3) possono sopportare abbondantissime inaffiatu-re, se il terreno si asciuga presto; ma sono uccise se l'umidità si prolunga troppo;

4) le piante da esportare si raccolgono nei mesi di siccità, quando sono in riposo.

Il prof. W. RAUH, direttore dell'Istituto di Botani­ca sistematica di Heidelberg, ha fatto viaggi nel Perù, nel Sudafrica, nell'Arabia meridionale, nel Madaga­scar. Riferisce che anche là la temperatura di giorno è altissima, fino a cinquanta gradi o più, ma di notte può scendere perfino sotto zero, con formazione di abbondante rugiada e anche di brina, che certe piante che vivono in montagna, fra cui cita YEuphorbia pul-vinata, possono sopportare periodi di neve e di gelo. Vaste distese del Sudafrica occidentale, nella stagione secca, hanno, con le loro piante avvizzite, un aspetto tetro, sconsolato; subito dopo le prime piogge si co­prono di fiori, di piante annuali, o bulbose, e special­mente di mesembriantemi. Spettacolo che richiama migliaia di visitatori dalle città vicine; ma finite le piogge, le piante annuali seccano, le altre riprendono il cupo abito bruno (8).

Le piante grasse abbondano specialmente in America e in Africa.

Le cactee sono tutte americane. In certe loca­lità dell'America settentrionale (Messico e parte occidentale degli Stati Uniti: California, Arizona) i grandi Cereus possono essere tanto fitti da for­mare boschi: di saguaro (9) in Arizona, di Ce-

(7) «Sukkulentenkunde», IV, 1951 e VI, 1957. (8) «Die grossartige Welt der Sukkulenten». (9) Il saguaro (Cereus giganteus ENG., Carnegiea gigan-

tea Br. et R.) si trova nell'Arizona, nella California, nel Messico nordoccidentale. Qualcuno dice che può arrivare a 20 metri di altezza; in realtà, i più grandi saguaro conosciuti attual­mente arrivano solo a una dozzina di metri (e sono quin­di superati da altre cactee, fra le quali, per dire la più cono-

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phalocereus e altri nel Messico specialmente me­ridionale. Le cactee basse (Mammillaria, Echino-cereus ecc.) si trovano specialmente nelle zone desertiche settentrionali del Messico, e nei monti anche più a sud. Le Opuntia cilindriche sono più delle parti settentrionali; le appiattite delle parti centro-meridionali del Messico e degli Stati Uni­ti. Quasi tutte del Messico sono, fra le piante a fo­glie grasse, le agavi, le Echeveria, molti Sedum ecc.

Nell'America Meridionale, oltre le molte Opuntia, cilindriche e appiattite, si trovano, sulle Ande, gli Oreocereus, più o meno pelosi, Opun­tia basse ad articoli brevi, globosi (sottogenere Tephrocactus). In Brasile, Urugay, Argentina, Bolivia orientale le grandi cactee colonnari: Ce­reus jamacaru, Cereus peruvianus (che è del Bra­sile, non del Perù) e molte piccole cactee globose: Gymnocalycium, Notocactus, Parodia ecc. Nel­la foresta sempreverde, specialmente del Brasile, vivono molte epifite (Epiphyllum, Rhipsalis ecc.).

In Africa, nelle Canarie, nell'Arabia meridio­nale, nel Madagascar vivono, talvolta in grandi quantità, centinaia di specie di Euphorbia grasse, nei cui fusti si rivedono quasi tutte le forme delle cactee. Altre piante a fusto grasso sono le Stape-

sciuta da noi, la testa di vecchio). Ma, anche così ridimen­sionato, il saguaro è una pianta notevole per l'aspetto mae­stoso e per gli abitanti che può ospitare (Tav. 1, 1). Un picchio, grosso circa come il nostro storno, si scava nel fusto una breve galleria orizzontale, e una cavità verticale, larga un palmo e profonda il doppio, nella quale fa il nido. La pianta sopporta bene la ferita e riveste la cavità di uno strato di sughero: nei vecchi saguaro morti, fra gli avanzi della polpa decomposta, si possono vedere i fiaschi sugherosi a collo piegato, che erano i nidi dei picchi. L'anno dopo, il picchio non usa il vecchio nido, ma ne scava un altro, cercando sempre di non avere altri nidi sopra di sé. Il nido abbandonato è occupato da altri uccelletti: chi ha visto «De­serto che vive», di Walt Disney, ricorderà la piccola civetta (è grossa poco più di un passero) affacciata alla porta-fi­nestra di casa. «Un saguaro carico d'anni è una sorta di vivo grattacielo, nel quale all'ultimo piano abitano i picchi» (SCORTECCI. Animali, III, 408) e negli altri le civette, o altri uccelletti.

(10) Africano è anche il baobab {Adansonia digitata L.), parente non molto lontano, dal punto di vista sistematico, della nostra malva, ma molto diverso come portamento. Qualcuno lo diceva addirittura «il più grande albero del mondo». E certo è uno dei più grossi: il tronco arriva a decine di metri di circonferenza. Ma si ramifica presto e la chioma è relativamente piccola: l'altezza totale non arriva a una ventina di metri. Il baobab ha legno molto tenero e poroso, ricco di acqua. Gli elefanti ne staccano, con le zanne, dei pezzi e li mangiano. Per questo fusto tozzo, tenero e acquoso, il baobab si trova in certi libri collocato fra le piante grasse: certamente non è il più grande albero del mondo, ma è la più grande pianta grassa che conosca (Tav. 1,2).

Ha ( ). Fra le piante a foglie grasse, le Aloe e i generi affini (Haworthia ecc.) e specialmente le centinaia di specie di mesembriantemi, quasi tutti dell'Africa meridionale, specialmente occidentale.

L'Asia (se si esclude l'Arabia) e l'Oceania hanno poche piante grasse.

Piante grasse nostrane sono i Sedum e i Sem-pervivum, con decine di specie e varietà, diffuse dalla pianura alla montagna. Il terreno nel quale vivono (fessure e piccoli incavi delle rocce, muri a secco, pendii argillosi nei quali le piogge brevi scorrono senza penetrare) si prosciuga rapida­mente e le piante debbono fare provvista d'acqua per sostituire quella che il sole e il vento, sempre forti in montagna, asportano. D'inverno, poi, il terreno è gelato, ed è come se fosse secco, per­ché le piante non possono assorbire l'acqua.

Perfino in terreni paludosi salmastri, per esempio attorno alle valli di Comacchio, abbon­dano piante grasse: Salicornia, e altre. L'acqua nel terreno c'è sempre o quasi sempre, ma la pianta la deve portare via alla soluzione salina, che la cede molto difficilmente: anche l'acqua che gonfia la piante è salata, più che quella del terreno.

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Se le piante grasse spontanee da noi sono poche, il clima della Riviera e dell'Italia centrale e meridionale permette di coltivarne molte anche all'aperto: agavi e aloe, opunzie, Cereus, mesem­briantemi ecc. Qualcuna vi si è naturalizzata, cioè vi si trova come a casa propria: fico d'India, agavi, fico degli ottentotti hanno in certi punti sostituito la flora mediterranea originaria.

Ma non ci si deve fidare troppo della affinità di clima fra le zone nostre e i paesi d'origine. In questi il periodo delle piogge, breve o lungo che sia, cade generalmente nell'estate; il periodo asciutto comprende il resto dell'estate e le stagio­ni fredde. Da noi è l'inverso: il periodo più pio­voso va dall'ottobre all'aprile.

Negli altipiani del Messico, delle Ande, del Sudafrica la temperatura può scendere fino a zero o anche sotto; può venire anche la neve, ma quando le piante sono in riposo da mesi, — cioè retratte, le piccole seminascoste nel terreno, con all'interno succhi concentrati, qualcuna con una fitta pelliccia che l'isola della neve — e soffrono relativamente poco.

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Da noi, il freddo accompagnato dalla umidità le coglierebbe gonfie d'acqua e le farebbe marci­re ( u ) . In Riviera le piante, d'inverno, vanno difese più dall'umidità che dal freddo.

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Le piante che debbono vivere e crescere in zone con piogge scarse o a lunghi intervalli, inso­lazione intensa e alta temperatura, venti violenti e persistenti, condizioni sfavorevoli alle piante in genere, debbono potere assorbire rapidamente l'acqua anche se in piccola quantità, immagazzi­narla e conservarla.

L'assorbimento dell'acqua è fatto per la mas­sima parte dalle radici, che spesso sono molto superficiali. Il fittone (12), cioè la radice principa­le, che penetra verticalmente nel terreno, può anche essere molto piccolo in proporzione della pianta: pochi centimetri nelle cactee globose, de­cimetri nei grandi Cereus. Subito sottoterra se ne dipartono le radici laterali molto lunghe, che si estendono orizzontalmente e portano radici sem­pre più sottili e ramificate. Anche se le piante, sopra terra, sono a metri di distanza una dall'al­tra, sotto la superficie del terreno, da uno a cinque centimetri di profondità, si ha tutto un fitto reticolo di radici sottili, che possono assorbi­re non solo la pioggia, per poca che sia, ma perfino l'acqua della rugiada e della nebbia. Se poi la pioggia è abbondante, l'acqua scende più profonda e, risalendo alla superficie per evapora­re, vi porta sciolti i sali del terreno.

Nella stagione secca, le radici non trovano più acqua da assorbire: le più sottili muoiono, e restano solo le grosse, generalmente ricoperte da uno strato di sughero che le difende dalla perdita di acqua. Alla nuova stagione delle piogge si riformano le sottili radici assorbenti.

Sulle spine delle cactee, sui rilievi delle foglie di altre piante (le punte del Delosperma echinatum, il ciuffo di peli delle foglie di Trichodiadema ecc.) si può condensare l'umidità dell'aria (rugiada, neb­bia) e la pianta la può in parte assorbire. Questa

(n) I danni provocati dal freddo, come le scottature da sole sono tanto più gravi, quanto maggiore è la quantità d'acqua nei tessuti della pianta.

( ) Le monocotiledoni (es. Agave, Aloe) non hanno il fittone. Dalla base del fusto si dipartono numerose radici molto lunghe, che in gran parte vanno a cercare l'acqua in profondità.

acqua, anche quando non porta i sali del terreno e non serve per la nutrizione, contribuisce a ritardare il pericolo di morire di sete.

La riserva di acqua può essere fatta in tutte le parti della pianta. Certe cactee (Peniocereus, Wilcoxia, Ariocarpus ecc.), certe euforbie, YHa-worthia maughanii hanno anche radici grosse, ricche di acqua. Ma molte di più sono quelle che formano la riserva di acqua nel fusto o nelle foglie, cioè le piante a fusto grasso e quelle a foglie grasse.

Il fusto è il serbatoio dell'acqua in quasi tutte le cactee, nelle euforbie grasse e in molte altre piante, appartenenti a gruppi (famiglie, v. pag. 48) che dal punto di vista sistematico possono essere anche molto lontani uno dall'altro. Ma la necessità comune a tutte di immagazzinare e di­fendere l'acqua dà a molte di esse un aspetto più o meno simile a quello dei cactus (13). Nella tavola 1, 3 possiamo vedere alcuni esempi di piante cactiformi.

La pianta a) è un Cereus cioè un cactus; la b) è una Euphorbia, parente prossima della nostra erba cipressina e dalle tante altre «erbe lattarole» dei campi e degli orti, annue o perenni, a fusto sottile, eretto o strisciante e foglie larghe o stret­te, ma sempre sottili; la e) è una parente delle Ceropegia, a fusto sottile, strisciante o rampican­te (Tav. 9 e 10); la d) è della stessa famiglia alla quale appartengono le nostre margherite; la e) è molto vicina alle nostre viti; la f) è affine al nostro geranio. In tutte queste piante il fusto è ingrossato, le foglie o mancano, o sono sostituite da spine, o sono ridotte a squamucce piccolissi­me, o sono relativamente grandi, ma durano solo la stagione delle piogge, cioè poche settimane. Il fusto le deve sostituire nella funzione clorofilliana; rimane verde per parecchi anni e molto spesso la sua superficie è aumentata dalla presenza di rilievi (tubercoli, coste) formati dalle basi fogliari.

L'apice è spesso infossato, e nelle cactee, pe­loso, per difendere le parti giovanissime dal sole e dal vento: quando arrivano a sporgere, hanno già la superficie indurita; la cuticola in certi casi (es. Ariocarpus) può avere uno spessore tale che,

(13) I biologi, botanici e zoologi, chiamano convergenza morfologica il fenomeno per cui piante o animali, anche distanti dal punto di vista sistematico, assumono aspetti simi­li per adattarsi a particolari condizioni di vita (fra gli animali basterà ricordare i cetacei e i pesci).

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anche se la pianta muore e secca, si vuota, ma il guscio di cuticola può rimanere disteso o quasi. Qualche volta la cuticola rimane sottile (es. Lo-phophora, Lithops): la pianta si ritrae tanto, nel­la stagione secca, che rimane più o meno coperta dal terreno. Gli stomi delle piante grasse sono pochi (poche decine per millimetro quadrato: nelle altre piante sono a centinaia) e spesso in­fossati.

Il tessuto acquifero, cioè che conserva l'acqua, è molto sviluppato e può formare quasi tutto il fusto. La tavola 1, 4 mostra una fetta di un ramo di Trichocereus macrogonus, grosso 4 cm, taglia­to a 5 cm dall'apice. Attorno al midollo la cer­chia dei fasci, sottilissimi: la parte legnosa è qua­si inutile, perché la rigidità del ramo è data dalle cellule gonfie d'acqua; bastano pochi e piccoli vasi per portare la poca acqua necessaria per una traspirazione in stretta economia. Quasi tutto quindi è tessuto acquifero, che forma il midollo e la grossissima corteccia. Questo ci spiega perché i fusti di molte piante grasse si tagliano tanto facilmente con un coltello (negli innesti, rami di 2-3 cm si tagliano con un solo colpo di lametta da rasoio di sicurezza). La figura mostra anche una fetta di ramo della stessa pianta, che si era rotto a due metri dalla cima, quindi aveva alcuni anni più dell'altro. Attorno ai sottili fasci, il cam­bio aveva formato molte nuove cellule, e i fasci si erano allungati radialmente, ingrossando molto il cilindro centrale. Si erano formati molti nuovi vasi (per portare più acqua, dato l'aumento della superficie traspirante del ramo) e specialmente molte fibre per aumentare la solidità e l'elasticità del ramo, allungato, appensantito e più esposto agli urti.

Le piante a foglie grasse possono avere forme molto diverse. Specialmente dove la siccità non è molto lunga, le foglie possono essere grandi e relativamente sottili, spesso però disposte a ro­setta più o meno fitta, in modo da coprirsi in parte una con l'altra, lasciando solo la parte estrema esposta al sole e al vento.

Più frequenti e più adattate alla siccità pro­lungata sono le foglie evidentemente carnose, fi­no a essere cilindriche o sferiche addirittura. Più larghe che grosse, e ancora disposte a rosetta sono, per esempio, le foglie delle Aloe, delle Haworthia e dei Sempervivum, che, quando av­vizziscono, si possono curvare in dentro, venen­

do a formare quasi un bulbo. Cilindriche sono le foglie di certi Sedum, di Senecio haworthii ecc.; sono sferiche quelle di Senecio rowleyanus.

Certe volte le foglie fitte vengono a formare un cilindro continuo o quasi, lasciando scoperti solo i margini (es. Crassula marnieriana. Tav. 62» 2, C. teres, Tav. 63, 7).

In certi mesembriantemi, le foglie, piccole, ricchissime di acqua (che può formare il 90% e più del peso totale) stanno nascoste nel terreno, lasciando scoperto solo l'apice, con una finestra. priva di clorofilla e quindi trasparente, attraverso la quale la luce arriva alla parte sotterranea per­mettendo la fotosintesi.

Le piante grasse possono avere anche, sol fusto e sulle foglie, peli che le difendono in parte dal sole o dal vento, o rivestimenti cerosi che coprono la cuticola, diminuendone ancora la per­meabilità.

Spesso le basi fogliari formano una parte del fusto grasso. Tanto nelle foglie a lamina grande, quanto in quelle a lamina piccola, invisibile o quasi ad occhio nudo (es. Euphorbia aphylla. Tav. 71, 2) la base fogliare può esser lunga e larga, saldata al fusto avvolgendolo in parte: ri­mane anche dopo la caduta della lamina e la sostituisce nella funzione clorofilliana. Può essere quasi invisibile dall'esterno: in Senecio articulatus (Tav. 56, 3) delle basi fogliari si vedono solo tre linee scure (i margini e la linea mediana); in Euphorbia bubalina le basi fogliari appaiono co­me squame quasi piane (Tav. 71, 4c); in Euphor­bia pteroneura (Tav. 105, 4) sporgono i margini e la linea mediana, formando rilievi simili a coste, sotto ogni nodo.

Molto spesso le basi fogliari sporgono netta­mente. I podari, cioè le basi fogliari concresciute col fusto, persistenti e più o meno sporgenti, possono rimanere separati uno dall'altro: i tuberco­li delle Mammillaria, delle Euphorbia, ecc. (Tav. 72, 3b), o fondersi in serie continue, forman­do le coste di molte cactee, euforbie, stapelie ecc.

I fiori delle piante grasse durano pochi giorni, o addirittura poche ore, si aprono generalmente nella stagione delle piogge, utilizzano le riserve _ di acqua del fusto o delle foglie e non hanno bisogno di adattamenti per immagazzinarla e conservarla. Non hanno quindi caratteristiche speciali e conservano il tipo dei fiori della fami­glia alla quale appartengono.

La coltivazione delle piante grasse

Ho sentito molti dire che avevano dovuto rinunciare alle piante grasse perché sono troppo difficili da tenere. In certi casi questo può essere vero. Esistono piante grasse che non si possono certo consigliare a un principiante. Ma moltissi­me, e si può dire quasi tutte quelle che si trova­no in commercio da noi, possono essere coltivate anche da un principiante con buone speranze di riuscita. Ne ho qualcuna da più di sessant'anni, cioè da quando cominciai.

E certo però che ogni organismo vivente, pianta o animale, ha bisogno, per vivere e pro­sperare, di un ambiente adatto, e che anzi le piante si adattano molto meno che gli animali ai cambiamenti. Bisognerà quindi, prima di coltiva­re una pianta, grassa o non grassa, vedere quali condizioni le possiamo offrire: potremo poi, fra quelle adatte a queste condizioni, scegliere quella che ci piacerà di più.

I fattori di cui dobbiamo tenere conto sono specialmente: l'aria, la luce, il calore, la natura fisica e chimica del terreno, l'acqua. Terreno e acqua potremo regolarli quasi a nostro piacimen­to. Meno potremo fare, in certi casi, per la luce, il calore e l'aria, ma anche qui avremo larghe possibilità di scelta fra le piante che si possono adattare alle condizioni nostre.

La luce

Le piante delle zone molto soleggiate degli altipiani del Messico, delle Ande, del Sudafrica non potranno avere, qui da noi, tutta la luce che avrebbero in patria. Le pubblicazioni tedesche e inglesi fanno confronti fra il sole della patria delle piante grasse e quello europeo, parlano dei tentativi, non sempre riusciti, di rimediare alle

forti perdite di luce, di raggi ultravioletti ecc. Anche da noi questo problema esiste, ma è

meno grave. HERRE paragona il sole del Sudafri­ca al sole della Sicilia. Non tutta l'Italia ha il «sole della Sicilia» e in certe regioni dovremo rassegnarci a non vedere le spine grandi e colo­rate che vediamo in certe foto o nelle piante che arrivano dai loro paesi d'origine. Ma dando alle nostre piante tutto il sole che potremo dare (da­vanzali esposti a mezzogiorno, terrazze, giardini soleggiati), potremo avere risultati non molto in­feriori. E magari rinunceremo a coltivare certe piante (es. Ferocactus a grandi spine) se vedremo che restano troppo lontane dal loro aspetto natu­rale.

Molte piante grasse vivono fra erbe e arbusti che nella stagione delle piogge (quando anche le piante grasse vegetano) hanno le foglie e fanno ombra, poi le perdono nella stagione secca, quando anche le piante grasse vanno in riposo. Altre vivono fra piante più grandi: alberi, grandi cactus, e agavi in America, grandi euforbie e aloe in Africa, o fra macigni che le tengono più o meno ombreggiate almeno per una parte del giorno. Altre vivono addirittura fra la chioma degli alberi della foresta equatoriale, cioè all'om­bra o quasi per la maggior parte dell'anno.

Fra tutte queste avremo molto maggiore li­bertà di scelta per l'esposizione al sole e il collo­camento.

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I coltivatori dilettanti si possono dividere in tre categorie: quelli che possono disporre solo del davanzale delle finestre o, al massimo, di un balcone; quelli che possono mettere un cassone o una gradinata in una terrazza o in un giardino, e quelli che hanno una serra.

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Il davanzale permette di tenere solo poche piante: questo fatto, che pare dannoso, è invece utile per il principiante, perché lo obbliga a limi­tare la quantità (*) e a scegliere con cura la qualità delle piante che si accinge a coltivare.

Le finestre migliori sono quelle esposte a sud­est; hanno la luce e il sole dalla mattina alle prime ore del pomeriggio. I processi di assimila­zione da parte delle piante sono più attivi nelle ore della mattina che nelle pomeridiane. Buone sono anche le finestre a mezzogiorno; vengono poi quelle a levante. In quelle a ponente le pian­te ricevono improvvisamente il sole molto caldo nel pomeriggio e cominciano a rinfrescarsi verso sera, quando la luce diminuisce e agisce meno.

Le finestre esposte a settentrione hanno, nel­l'estate, il sole nelle prime ore della mattina e in quelle della sera; nelle altre ore non hanno il sole. Ma possono essere utilizzate per piante che amano l'ombra (es. Haworthia) specialmente se di fronte c'è una casa che riflette la luce.

Le piante sul davanzale possono disturbare l'uso delle persiane e delle tende. Per le piante collocate sul davanzale, lo spessore del muro, nelle finestre esposte a mezzogiorno o a ponente, causa un ritardo all'arrivo del sole. Può servire una mensola, 20-30 cm più bassa del davanzale. Io utilizzavo, e l'ho visto fare anche da altri, l'asse sulla quale tenevamo al fresco, di notte, la carne e il latte, quando nelle case non c'era ancora il frigorifero. La differenza di livello fra il davanzale e la mensola si può regolare secondo l'altezza delle piante che vi si vogliono coltivare: si ricordi però che quanto maggiore è la differen­za, tanto più scomodo è lavorare sulle piante, specialmente sulle più grandi, che sono proprio quelle che richiederebbero maggiore dislivello.

Sul davanzale o sulle mensole, i vasi debbono esssere in cassette, di legno o di altro materiale, piantati fino quasi all'orlo in sabbia o torba. Si evitano pericoli di cadute per il vento o per urti, una troppo rapida evaporazione dell'acqua attra­verso la parete dei vasi, e un eccessivo riscalda­mento della parte dei vasi esposta al sole. Meglio ancora è piantare direttamente le piante nelle cassette.

Q-) Un consiglio che tutti gli autori danno ai principianti è di cominciare con poche piante facili, che aiutino a fare pratica.

Ho visto tenere piante fra le doppie finestre, anche in piani sovrapposti. Ma, specialmente coi muri attuali, lo spazio utile fra i due vetri è ridotto a 12-15 cm: non vi si possono mettere cassette, ma solo vasetti isolati. Si può aumenta­re la distanza fra i due vetri, venendo a formare quasi un armadio a vetri, parte sul davanzale e parte dentro la camera; l'ho visto solo in figura nei libri.

Il cassone si può fare in un giardino o in una terrazza. In terrazza però bisogna impermeabiliz­zare bene il pavimento, sul quale si stenderà uno strato di sabbia. Il cassone si fa generalmente di legno; si può fare anche di mattoni. La sponda a nord deve essere la più alta, in modo che i telai a vetri che vi si mettono sopra abbiano una certa pendenza.

Le piante debbono essere tenute in casa d'in­verno e messe nel cassone quando non sono più da temere gelate. In caso di freddo improvviso si può riparare il cassone con stuoie o tappeti o teli di plastica, o riscaldarlo artificialmente.

Appena portate dalla casa al cassone, le pian­te si tengono ombreggiate per qualche giorno (anche 2-3 settimane) per evitare scottature da sole. Per i primi giorni è bene tenere sul cassone i telai a vetri, in modo da riparare le piante anche dall'aria; poi i vetri si sollevano nelle ore più calde e, quando non sono più da temere eccessivi abbassamenti di temperatura, si levano del tutto, in modo che le piante possano avere l'aria, il sole del giorno e il fresco della notte.

Molto comode sono, quando non è da temere il freddo, le comuni gradinate da giardino, di ferro o di legno. A queste gradinate è bene sovrapporre una rete metallica sottile, a maglie di 1-2 cm, per difendere le piante dalla grandine. Il telaio della rete si può fare sostenere da paletti piantati in terra. Sopra la rete, si può appoggiare un telo di plastica trasparente. Generalmente si tiene ripiegato, ma si può distendere: in primave­ra, appena si portano fuori le piante, può rappre­sentare un leggerissimo schermo contro i raggi del sole; sempre, e specialmente d'autunno, di­fende le piante dalle piogge troppo frequenti e prolungate.

Anche sul cassone è bene tenere la rete anti­grandine.

La serra permette di tenere centinaia di pian­te al riparo durante l'inverno e di regolare la

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temperatura. D'estate, la serra può dare delusio­ni. Le nostre serre, specialmente quelle dei giar­dini privati, sono fatte più per il riposo invernale delle piante che per la vegetazione estiva. In genere mancano di areazione.

Il vetro lascia entrare, con la luce, il calore del sole, ma poi lo lascia uscire molto lentamen­te. Questo fatto è prezioso nell'inverno, perché permette di mantenere calda la serra anche per ore, ma è dannoso nell'estate, perché causa nella serra un ristagno di calore. Nel deserto, la vege­tazione scarsa o quasi nulla, il cielo sereno dan­no, di notte, una intensa radiazione e un forte raffreddamento, con abbondante rugiada (2). Le piante grasse si sono adattate alle notti fredde e alle abbondanti rugiade. Se le teniamo all'aperto, potranno avere condizioni quasi uguali a quelle che avrebbero in patria. In serra, specialmente se chiusa, no: la serra non arriva a raffreddarsi del tutto; non si ha la rugiada. Quando poi ritorna il sole, si riaccende la fornace. Se in una di queste serre con una sola porta si entra verso mezzo­giorno, l'ora migliore per vedere i fiori e fare le impollinazioni, si ha l'impressione di soffocare: pare di sentire, direbbe Schwarz, una sola invo­cazione: aria, aria, aria!

Nella maggior parte delle piante nostrane, i processi di assimilazione cominciano già a pochi gradi sopra zero, raggiungono il massimo attorno ai 30 gradi (3), rallentano o cessano a temperatu­re maggiori. Sopra i 50 gradi, il protoplasma, cioè la parte vivente della cellula e quindi della pianta, muore. Le piante dei paesi caldi soppor­teranno il calore meglio che le nostrane, ma non è detto che ne godano! L'esperienza (non la mia: quella degli autori che ho consultato) mostra che la temperatura migliore, anche per le piante grasse, è attorno ai 30 gradi, piuttosto meno che

(2) Anche qui da noi, le mattine più fredde e con più abbondante rugiada (o brina, in primavera e d'autunno) si hanno quando è sereno.

(3) Si parla della temperatura all'interno dei tessuti della pianta, che non è sempre uguale a quella dell'ambiente. La traspirazione, cioè l'emissione di acqua allo stato di vapore, abbassa la temperatura, la quale quindi all'interno della pianta può essere notevolmente inferiore a quella esterna. La traspirazione è favorita dall'aria mossa (vento) e asciutta. Nelle serre poco arieggiate l'aria è ferma e carica di vapore acqueo, dato dalle piante e specialmente dalla terra dei vasi e dal pavimento. La traspirazione è lenta e quindi la tempe­ratura della pianta si avvicina a quella, troppo alta, della serra.

più. Un eccesso di calore causa l'arresto della vegetazione, la perdita della clorofilla, la morte delle parti più colpite dal sole e poi di tutta la pianta. Le piante sopportano molto sole, se han­no molta aria.

Due ricordi personali possono servire come esempi.

Nel 1960 avevamo, in un vasetto in serra, sei piantine di Mammillaria bombycina, da talee del­l'anno precedente. Ai primi di giugno tutte per­dettero il colore verde: diventarono bianco-gial-loverdognole, semitrasparenti, come uva biaanca che maturi. Ne tagliai una: a parte la perdita della clorofilla, appariva normale. Portai le altre a Zola, all'aperto. Avevano il sole dalla levata alle cinque del pomeriggio, cioè molto più che in serra, ma avevano anche fresco e rugiada la not­te e la mattina, e aria sempre. Ricominciarono a vegetare alla fine di luglio: le parti nuove erano verdi. Poi il verde si estese verso il basso, e in ottobre, quando le riportai in serra, le piante erano ritornate normali.

Cominciammo quell'anno a spruzzare i vetri con latte di calce in primavera, per ombreggiare un poco le piante. Li lavavamo in ottobre, per dare più luce alle piante nell'inverno. Ma in gen­naio e febbraio 1972 il cielo fu quasi coperto per una cinquantina di giorni. Non era freddo; le piante «sentivano già la primavera» e comincia­vano a vegetare (e le annaffiammo), ma non erano abituate al sole. Il quale arrivò quasi im­provvisamente agli ultimi giorni di febbraio. Del­le piante più vicine ai vetri, proprio quelle che d'estate richiedono più sole, non poche riporta­rono scottature. Le conseguenze immediate furo­no più gravi per i mesembriantemi che le cactee e le euforbie: morì una parte di Lithops, di quelli a foglie più sporgenti da terra (altri, a foglie più interrate soffrirono meno); delle cactee quasi nessuna morì. Ma i mesembriantemi scottati che non erano morti cambiarono le foglie nell'inver­no 1972-73 e ritornarono normali; le euforbie, e specialmente le cactee (Astrophytum, Neorai-mondia ecc.) sono ancora deturpate dalle cicatri­ci (Tav. 5, 5 - 6).

Questi danni si possono prevenire in parte, o almeno limitare, spruzzando i vetri con latte di calce, come si fa generalmente. Ma sempre si dia aria, con finestre e con sfiatatoi in alto, per lasciare uscire l'aria più calda. Meglio ancora, se

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si può, portare all'aperto le piante in primavera e riportarle in serra nell'autunno; cioè tenerle in serra solo nella stagione fredda.

La coltivazione in serra anche d'estate è mol­to utile ai giardinieri che coltivano per la vendi­ta: dà un accrescimento maggiore e più rapido e quindi permette di vendere prima le piante. Ma i giardinieri professionisti sono attrezzati e prepa­rati meglio di noi dilettanti, e possono interveni­re appena ne vedono la necessità (e non sempre la pianta più grossa, bella e vendibile che inte­ressa il giardiniere è quella «naturale» che cer­chiamo noi).

L'aria

L'aria è necessaria alla pianta per la nutrizio­ne. Con l'anidride carbonica dell'aria il tessuto clorofilliano forma la prima sostanza organica, dalla quale deriverà poi la sostanza vivente; nel­l'aria la traspirazione libera quasi tutta l'acqua con la quale le radici avevano assorbito dal terre­no i sali nutritivi.

Il vento, che aumenta la traspirazione, può essere dannoso nel deserto quando riduce la scarsa riserva d'acqua delle piante in riposo. Ma nelle piante in vegetazione, in natura durante l'estate, la stagione delle piogge, da noi nei vasi annaffiati, la traspirazione aumentata ha il dupli­ce vantaggio di abbassare la temperatura interna della pianta, e di lasciare il posto a nuova acqua che le radici trovano nel terreno e assorbono, coi sali nutritivi che vi sono sciolti.

Sono dannose invece, e si debbono evitare, specialmente nella stagione fredda, le correnti d'aria (gli spifferi) dati da fessure fra i telai, da usci mal chiusi ecc.

L'acqua

Una volta, ci insegnavano che «le piante gras­se non si annaffiano mai, perché bevono l'umidi­tà dell'aria».

Come regola fissa è sbagliata. «Bevendo l'u­midità dell'aria», meglio se condensata in rugiada o nebbia, le piante grasse possono resistere per mesi, ma la resistenza non è illimitata, e le pian­te spesso si riducono in condizioni pietose. Di

più, nei paesi di origine delle piante grasse, la differenza di temperatura fra il giorno e la notte è molto maggiore che da noi, e molto più abbon­dante è la rugiada. Da noi, la rugiada è meno abbondante proprio in estate, quando le piante sono in vegetazione. D'estate, non abbiamo neb­bie, che possano dare umidità.

A noi non basta che le piante sopravvivano alla meno peggio: le vogliamo vedere crescere e fiorire. Non basta che bevano: debbono anche «mangiare», cioè assorbire i sali sciolti nell'acqua del terreno. Quando le piante sono in vegetazio­ne, le dobbiamo annaffiare: dobbiamo dare loro una stagione delle piogge. La possiamo anzi al­lungare, anticipandone l'inizio di un paio di mesi e ritardando la fine di qualche settimana.

La pratica ci insegna quando, quanto e come annaffiare. La distanza di tempo fra una annaf­fiatura e l'altra, la quantità di acqua variano a seconda della stagione, del tempo che fa, dei vasi che si usano (piccoli o grandi, di terracotta o impermeabili), della terra più o meno sabbiosa (4), della specie della pianta (3).

In serra si può cominciare ad annaffiare alla fine di febbraio o ai primi di marzo, quando le piante accennano a vegetare: all'apice della pian­ta compaiono il verde «fresco» dei tessuti nuovi e i colori vivaci delle giovani spine, ancora carno­se, che nell'autunno si erano fermate.

In principio si annaffia ogni 8-15 giorni, poi si aumenta la frequenza e in maggio (e anche alla fine di aprile, se è caldo) si arriva ad annaffiare quando la terra in superficie è asciutta: anche tutti i giorni, se è il caso (6). A cominciare dalla metà di agosto si diminuisce la frequenza e alla

(4) Le piante possono assorbire l'acqua anche da un ter­reno che a voi sembra asciutto. Prove fatte con certe piante (non grasse, che data la loro riserva d'acqua e la loro strut­tura, non appassirebbero) hanno mostrato che in un terreno formato di sabbia grossolana basta un contenuto dell'uno per cento di acqua, perché le piante ne possano assorbire tanta da non appassire; se la sabbia è fine, la quantità d'acqua deve arrivare al 3% circa; al 6-7% in un terreno misto di sabbia e argilla, al 10% in un terreno argilloso, al 15% in un terreno argilloso-calcareo. Certe volte poi, il terreno può essere asciutto in superficie e evidentemente umido sotto.

(D) La maggior parte delle piante grasse vegeta d'estate e riposa nell'inverno. Ma alcune, specialmente di quelle origi­narie dell'Africa meridionale (certe Crassula, certi mesem-briantemi e gerani grassi) anche portate qui, vegetano da ottobre a febbraio (l'estate dell'emisfero australe) e vanno annaffiate allora. È bene tenerle da parte.

(6) Ma è meglio non esagerare, nemmeno d'estate.

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fine di ottobre, o anche prima, se l'autunno è precoce, si smette del tutto.

Quando è fresco, si annaffia la mattina, in modo che la sera le piante siano asciutte e la terra umida ma non troppo bagnata in superficie. Si vede spesso consigliato di bagnare, finché è fresco, solo la terra e non la pianta: questo si può fare quando le piante sono poche e l'annaf­fiatura si fa direttamente col tubo (dalla brocca, o collegato con l'acquedotto), ma non si può fare quando le piante sono molte e si deve adoperare l'annaffiatoio, nella stagione calda poi, una spruzzata sulla pianta la mattina o la sera può sostituire la grande rugiada dei paesi d'origine. C'è anzi chi consiglia di dare anche la sera con una pompa un po' d'acqua nebulizzata, per dare umidità alle piante. Finché è fresco, non si an­naffi se il cielo è coperto, o se si prevede che lo sarà presto: possono servire le previsioni del tempo, dei giornali o della televisione.

D'estate si annaffia verso sera, quando è pas­sato il gran caldo (7).

Non si annaffi se la terra è già bagnata, per la pioggia o per una precedente annaffiatura. (Le piante del deserto nebbioso, adattate alla lunga umidità della nebbia, sono meno sensibili a que­ste annaffiature a terra umida).

Si bagnino con precauzione le piante a cutico­la coperta di cera {Stenocereus beneckei, Cotyle-don undulata ecc.): l'acqua asporta la cera e la pianta perde una gran parte della sua caratteristi­ca e della sua bellezza. È bene bagnare la terra e non la pianta.

Non si bagnino i fiori che si vogliono usare per l'impollinazione o che si sono impollinati da poco (pag. 28). In natura la pianta «ha impara­to» a chiuderli quando il tempo minaccia la piog­gia: non li può difendere dai nostri acquazzoni senza preavviso.

In primavera, non si ripassi con l'annaffiatoio su mesembriantemi con frutti che stanno matu-

(7) Si legge che le annaffiature nelle ore molto calde fanno morire le piante. A me questo sembra esagerato. Dal 1945 al 1954 ho dovuto tenere le piante in una serra lontano da casa e dal mio posto di lavoro. Le andavo a curare la domenica mattina, e vi passavo una volta o due la settimana fra le dodici e mezzo e l'una per le impollinazioni. E le annaffiavo: non ho notato danni per queste annaffiature nelle ore caldissime. Usavo acqua conservata nell'interno della serra, cioè quasi alla temperatura dell'ambiente,

rando: la prima passata fa aprire i frutti maturi; la seconda può fare schizzare via i semi.

È meglio dare annaffiature abbondanti e piut­tosto rade, che scarse e troppo fitte, che non lasciano asciugare la terra fra l'una e l'altra.

D'estate è bene che l'acqua di ogni annaffia­tura bagni tutto il pane della terra. Ma se l'acqua è troppa, quella che esce dal foro di scolo dilava la terra e la impoverisce (8). La esperienza ci insegnerà a non darne troppa, né troppo poca.

D'inverno noi annaffiamo (e poco!) solo le piante sudafricane a vegetazione invernale.

Anche nelle altre stagioni, in caso di dubbio, è meglio scarseggiare che abbondare, special­mente come frequenza di annaffiature. Le piante grasse hanno sulle altre il grande vantaggio di potere sopportare periodi di asciutta, anche d'e­state. Più volte ho dovuto assentarmi, in luglio, per 2-3 settimane. Facevo annaffiare (dal basso) solo le piantine nate in primavera. Le altre le annaffiavo io quando ritornavo. E non soffri­vano.

Riassumendo: non pretendiamo che le piante vivano bevendo l'umidità dell'aria, ma ricordia­mo che ci vogliono mesi e mesi per fare morire di sete una pianta grassa e può bastare qualche settimana per farla marcire (9).

La terra

Non si può parlare di una terra per le piante grasse: ne vivono nelle fessure delle rocce, nei terreni sassosi e sabbiosi o argillosi dei deserti, o fra le erbe e i cespugli, nei residui vegetali che si raccolgono sulla corteccia degli alberi nella fore­sta equatoriale. I mozziconi di radici di certe importazioni sono incrostati di terra argillosa.

(8) Durante l'asciutta invernale, la terra che contiene molto terriccio di foglie (quella per Kalanchoe, Echeveria ecc.) si può retrarre: si forma fra il pane di terra e la parete del vaso uno spazio nel quale l'acqua scorre ed esce subito dal foro di fondo, senza quasi bagnare la terra. In questi casi è bene cominciare, in primavera, con una annaffiatura dal basso: si mette il vaso in un catino con acqua il cui livello resti un po' inferiore all'altezza della terra, si leva quando la terra è umida in superficie.

(9) Una talea di Echinocereus pectinatus, staccata nell'a­prile 1950 e tenuta in una cassetta con altre piante radicate, emise le prime radici nell'agosto 1952 (dopo ventotto mesi!), accennò a vegetare e marcì: l'avevo voluta aiutare troppo?

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Questo spiega le tante qualità dei terricci che sono state proposte, talora da dosare con bilanci­no del farmacista.

Ogni tanto un Tizio innovatore scopre che i terricci finora usati non sono adatti e propone nuove miscele, che vanno bene finché non arriva Caio a scoprire che sono deleterie e a proporne altre, che vanno benissimo fino all'arrivo di Sem­pronio che... ecc.

Questo ci porta a una confortante constata­zione: le piante grasse, in genere, resistono a tutti i nostri pasticci. Purché rispondano a questi requisiti fondamentali: essere permeabili all'aria e all'acqua, non seccare troppo rapidamente o trop­po lentamente e non essere troppo grassi (cioè troppo ricchi di azoto).

Le piante, grasse o non grasse, non mangiano il terreno, ma assorbono l'acqua che vi si trova, e con l'acqua assorbono e utilizzano i sali mine­rali che vi sono sciolti. Ma soffrono e possono anche morire, se l'acqua ristagna nel terreno. Più che le caratteristiche chimiche della terra, sono importanti quelle fisiche.

Come terriccio base, si può partire da una miscela di terra comune argillosa (di campo o di giardino), sabbia grossolana e terriccio di foglie, in parti uguali. Di questi tre componenti nessuno può bastare, da solo.

La terra di campo, argillosa, contiene i sali nutritivi già pronti per l'assorbimento da parte della pianta. Ma cede molto difficilmente l'acqua (le piante, non potendo assorbire l'acqua, non possono assorbire nemmeno i sali che vi sono sciolti). È compatta, senza spazi aerei e, si dice, non lascia respirare le radici (è vero?). Secca, forma una massa dura e spesso con spaccature o screpolature, che rompono le sottili radici assor­benti.

La sabbia cede molto facilmente l'acqua alle piante, ma la lascia anche scolare tanto rapida­mente, da asportare subito i sali nutritivi. Di più, secca troppo presto.

Il terriccio di foglie, quando è secco, assorbe l'acqua molto lentamente; bagnato, la trattiene e rimane umido a lungo. Essendo formato di foglie decomposte, contiene gli elementi chimici delle piante, ma non pronti per essere utilizzati. Biso­gna che la scomposizione, da parte di batteri, sempre presenti nel terreno, sia portata molto più avanti, fino alla formazione di sali minerali

che, sciolti nell'acqua del terreno, possano essere assorbiti dalle radici. E le fasi di queste trasfor­mazioni sono lente.

Con terra, sabbia e terriccio di foglie, si ha una miscela soffice, sciolta, che si può mantenere umida al punto giusto, con sali nutritivi in parte già pronti e in parte di riserva, da utilizzare per mesi e per anni.

Il terriccio preparato deve essere permeabile all'aria e all'acqua, quindi formato di particelle non troppo sottili. Deve essere di colore bruno. Si usa leggermente umido (non bagnato! stretto nel pugno, deve conservare la forma quando si apre la mano, ma si deve sgretolare se si urta).

Deve avere una reazione leggermente acida. La maggior parte delle piante grasse vive in ter­reni leggermente acidi (pH 5,5-6,5). Altre, spe­cialmente certe cactee nordamericane (Astrophy-tum, Ariocarpus ecc.) vivono in terreni neutri o leggermente alcalini (pH 7-8). Per questo si po­trà aggiungere alla terra un po' di calce.

Si consiglia generalmente il calcinaccio di vec­chi muri, pestato. Ma può essere meglio il gesso, che dà il calcio e non l'alcalinità del calcinaccio. Si consiglia anche di usare pietre calcaree (es. marmo) pestate non troppo fine. Alcalinizzano meno che la polvere del calcinaccio e la pianta può trovare il calcio di cui ha bisogno (si sa che le radici possono intaccare il marmo). Si possono usare anche conchiglie (io uso gusci di vongole) pestate alla meglio.

Uria volta si aggiungeva sempre alla terra per cactee una percentuale di calce (5% o più), per evitare l'inacidimento del terreno, dannoso per le piante. Ma si è visto che le nostre terre (se si eccettuano le zone, specialmente montane, nelle quali crescono le eriche e i mirtilli) contengono calce in quantità più che sufficiente per i bisogni di quasi tutte le piante grasse; le acque dure dei nostri pozzi e acquedotti aggiungono un po' di calce a ogni annaffiatura: col tempo, si ha una calcificazione, cioè una alcalinizzazione, non un inacidimento della terra (10).

In terreno alcalino, il calcio della calce, e anche il magnesio, si legano al ferro, dando sali

(10) Per vedere se una terra, o una sabbia, contiene calce, si mette in recipiente con un acido: basta l'aceto. Si ha quasi sempre una effervescenza (la terra «frigge») tanto più forte quanto più abbondante era la calce.

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composti insolubili e quindi non assorbibili. Cer­te piante possono scindere questi sali e anche in terreno alcalino-calcareo assorbire il ferro, for­mare la loro clorofilla (pag. 16) e vivere bene (piante calcicolé). Altre {piante calcifughe) non li possono scindere, non possono assorbire il ferro e formare la clorofilla: diventano gialle (cloroti-che) e possono anche morire.

Si è visto anche che è più facile fare vivere in terra neutra o leggermente acida le piante dei terreni alcalini, che fare vivere in terra alcalina le piante dei terreni acidi. Potremo coltivare, anche senza aggiungere calce, Astrophytum e Ariocar-pus; dovremo coltivare in terra poverissima di calce le Rhipsalis, i Gymnocalycium e, in genere, le cactee sudamericane.

• • •

Per preparare il terriccio, la terra comune va passata per un setaccio a maglie di 3-4 mm. La sabbia deve contenere poca calce: si può usare quella comune dei muratori, di fiume o di cava (quella fine, da intonaco, non serve). Si passa per setacci di 4-5 mm, per eliminare quella trop­po grossa, che però può servire per drenaggi, in fondo ai vasi, o sopra.

La sabbia di fiume è quasi sempre mescolata ad argilla: se l'argilla è poca, la sabbia si può usare come è; se l'argilla è troppa (qualche volta si hanno ammassi di argilla sabbiosa difficili da rompere con le mani) è meglio lavarla.

Si può lavare mettendola in un recipiente più alto che largo (es. un bidone) e facendo arrivare dalla bocca al fondo del recipiente un tubo colle­gato con l'acquedotto. L'acqua, salendo dal fon­do, attraversa la massa sabbiosa e trabocca, tra­sportando l'argilla e i residui vegetali (pezzi di foglie, di rami) che vi possono essere in mezzo. Regolando col rubinetto la quantità e la velocità dell'acqua e spostando ogni tanto il tubo, perché vada a smuovere tutta la massa della sabbia, si ha più o meno rapidamente una sabbia pulita, che, seccata, si può poi setacciare per averla nelle varie misure (per semine, coltivazione, dre­naggio, ecc.).

Il terriccio di foglie deve avere almeno tre anni. Si può preparare raccogliendo le foglie ca­dute e ammucchiandole. Si rimescolano ogni tan­to e dopo 3-4 anni si passano per un setaccio di 3 mm circa, per eliminare le parti non abbastanza

decomposte, che, decomponendosi poi, possono danneggiare le piante. Questa preparazione non è comoda: si trova facilmente terriccio di foglie dai giardinieri, ma c'è il pericolo che non sia abbastanza vecchio.

È meglio raccoglierla nei boschi di faggio o di castagno, nei punti nei quali si ammassano le foglie cadute. Allontanate le foglie, si trova sotto la terra, che negli strati superiori è bruno scura, formata quasi tutta di residui di foglie. Se nel raccogliere questa, vi resta mescolata della terra sottostante, poco male ( n ) : si potrà, tutt'al più, ridurre la quantità della terra di campo.

Prima di mescolare il terriccio, vi si aggiunge un po' di perfosfato minerale (2-3 grammi per litro di miscela) e di solfato potassico.

Il terriccio base, cioè la miscela di terra di campo, terriccio di foglie e sabbia in parti uguali, si può usare per Cereus e per la maggior parte delle piante grasse. Si può rendere più grasso, aggiungendo terriccio di foglie (per le Stapelia, per le piante a foglie), o più magro, aggiungendo terra comune e sabbia (per Astrophytum, Epithe-lantha, Echinocereus pectinatus ecc.).

Dal punto di vista fisico, si può rendere più pesante, aggiungendo terra di campo (per le piante a radice carnosa: si ha anche il vantaggio di diminuire la proporzione del terriccio di fo­glie, che le piante del deserto sopportano male), o più leggero aggiungendo sabbia (per le piante a radici sottili, come i mesembriantemi).

Le aggiunte si fanno un po' a occhio: una parte di aggiunta a 4-5 parti di terriccio base, a seconda della specie e delle condizioni delle piante. È meglio una terra piuttosto magra che una troppo grassa: alla scarsa fertilità si può ri­mediare, almeno in parte, con la concimazione; ai danni di un eccesso di azoto non sempre si può rimediare.

Ho tenuto in sabbia di fiume naturale, con la sua ghiaietta e l'argilla, senza concimazione, al­cuni mesembriantemi (Pleiospilos bolusii e altri): vivevano benissimo e fiorirono per anni.

Qualcuno consiglia anche (es. Werdemann) di preparare la miscela con terra di campo, terriccio

(n) Nei boschi di faggio e di castagno, la terra è povera di calce, cioè è leggermente acida. Non si confonda la terra del castagneto col terriccio di castagno dei giardinieri, dato dal legno decomposto degli alberi, che va bene per le garde­nie, non per le piante grasse.

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di foglie, sabbia e letame bovino molto vecchio, in parti uguali. In certi giardini di Bologna si era ammucchiato, nell'inverno 1944-1945, il letame delle vacche portate in città per sottrarle alle requisizioni che i Tedeschi andavano facendo nelle campagne. Dal 1955 al 1962 ho adoperato anch'io di questo letame, passato col setaccio del terriccio di foglie. Esposto per anni al sole e al vento, dilavato dalla pioggia, credo che avesse solo il vantaggio di alleggerire il terreno, ma dava ottimi risultati. Finito quello, non ne ho più trovato, così vecchio, tritato e soffice, nemmeno nelle concimaie dei poderi abbandonati della col­lina bolognese.

Si aggiunge anche torba granulosa (non pol­vere), che assorbe una parte dell'acqua e la libe­ra quando la terra è secca: c'è anche chi coltiva addirittura le piante in torba.

Si consiglia anche una miscela di due parti di torba, due di terra calcarea (la torba è acida) e una di sabbia.

Al terriccio preparato si può aggiungere mat­tone in pezzetti, il quale è pure poroso, assorbe acqua e la conserva, cedendola quando la terra secca. Si libera dalla polvere per mezzo di un setaccio a maglia di una millimetro circa. Si può aggiungere anche carbone di legna, pure pestato.

È bene preparare per tempo terra, sabbia e terriccio di foglie e conservarli all'aria, ma al riparo dal sole e dalla pioggia. Anche la miscela preparata si consiglia di tenerla per un certo tempo prima di usarla, non esposta alla pioggia, ma non del tutto secca.

Nutrizione e concimazione

Tutti gli organismi viventi, animali o piante, hanno bisogno di nutrirsi. Gli animali si nutrono mangiando parti di piante, o altri animali che si erano nutriti di piante. Non potrebbero vivere animali se non vi fossero piante da mangiare.

Le piante si nutrono con l'anidride carbonica dell'aria e coi sali che assorbono sciolti nell'ac­qua del terreno. Con l'anidride carbonica e l'ac­qua, in presenza di luce, il tessuto clorofilliano forma gli idrati di carbonio: zuccheri, amido ecc.; da questi prodotti della sintesi clorofilliana, combinati con gli elementi assorbiti dal terreno,

arriva poi alle sostanze più complesse, fino alla sostanza vivente.

Gli elementi che la pianta assorbe dal terreno (12) sono specialmente azoto, fosforo, zolfo, po­tassio, calcio, magnesio e ferro, tutti necessari come il carbonio dell'aria e l'idrogeno e l'ossige­no dell'acqua: l'assenza, o anche la presenza in quantità insufficiente, di uno solo di essi impedi­sce alla pianta di svilupparsi, in qualsiasi quantità si trovino gli altri (13).

La pianta assorbe l'azoto sotto forma di sali dell'acido nitrico (nitrato di potassio, di calcio, ecc.) o di ammoniaca (solfato di ammonio, nitra­to di ammonio ecc.). Le concimazioni dei campi o delle piante da fiore o da foglia, nei giardini o nei vasi, sono molto ricche di azoto, il quale entra nella composizione della sostanza vivente, favorisce l'utilizzazione degli altri elementi, e sti­mola fortemente la vegetazione. Vedremo che l'abbondanza di azoto è dannosa a molte piante grasse.

Il fosforo vien assorbito come fosfati. Favori­sce la formazione di nuove cellule, e quindi di rami, radici, fiori, semi. Nelle nostre terre è spesso scarso. Bisogna aggiungerne, specialmente per le piante dalle quali si vogliano avere fiori, semi o talee.

Lo zolfo viene assorbito come solfati. Entra nella composizione delle sostanze proteiche. Nel­le nostre terre è in quantità sufficiente e non c'è bisogno di aggiungerne.

Il potassio favorisce il ricambio generale della pianta (se è in quantità insufficiente, si ha rallen­tamento della fotosintesi ecc.). Aumenta la resi­stenza alle malattie e alla deficienza di acqua. È

(12) Si possono coltivare le piante anche senza il terreno, in un recipiente, con le radici a bagno in acqua contenente piccolissime quantità di sali nutritivi, (centigrammi di ciascu­no per litro d'acqua): nitrato di potassio, fosfato di calcio, cloruro di ferro, solfato di magnesio. Questa coltivazione idroponica, cioè in acqua, che una volta si faceva solo nei laboratori scientifici, adesso si fa nella pratica, per piante ornamentali, anche grasse, e da orto. Si fa in vasche con ghiaietta o altro materiale che tenga a posto le radici o con tavolette forate che tengano sollevate le piante: la soluzione dei sali nutritivi si rinnova quando è esaurita.

(13) Secondo la legge del minimo, il complesso degli ele­menti nutritivi assorbiti da una pianta, è utilizzato in propor­zione dell'elemento che è presente nella quantità minima. Naturalmente si intende per quantità relativa ai bisogni della pianta. Per esempio, nelle ceneri di varie piante, si trova dal 15 al 20% di fosforo, che entra nella composizione di tutte le cellule, e solo Fl-2% di ferro: è evidente che il «minimo» necessario di fosforo è molto maggiore di quello del ferro.

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quasi sempre presente in quantità sufficiente nel­le nostre terre. Ma è bene aggiungerne un poco, per essere sicuri.

Il magnesio è uno dei costituenti della cloro­filla ed è quindi necessario alla pianta. Probabil­mente agisce anche nel ricambio del fosforo. Nei campi è in quantità sufficiente nel terreno: nei vasi, o per perdite, o perché fissato da altri ele­menti, che ne impediscono la utilizzazione, può essere in quantità insufficiente. Qualcuno consi­glia di dare ogni tanto alle piante un po' di solfato di magnesio.

Il ferro non entra nella costituzione della clo­rofilla, la quale però non si forma se non è presente il ferro. Ne bastano quantità piccolissi­me, sempre presenti nel terreno se non c'è un eccesso di calce (carbonato di calcio).

Il calcio è scarso nelle parti giovani delle piante, abbondante nelle parti vecchie. Regola il ricambio dell'acqua, rallentandone l'assorbimen­to ma favorendone il trasporto e favorendo la difesa dai danni della siccità, lega e rende inno­cuo l'acido ossalico, che si forma in quasi tutte le piante e in grande quantità nelle piante grasse (14). La terra di campo nostra contiene calcio in quantità sufficiente per quasi tutte le piante grasse.

Altri elementi (silicio, cloro, zinco, mangane­se, ecc.) si trovano normalmente nelle piante, in quantità notevoli o piccolissime. Nel terreno so­no generalmente contenute in quantità suffi­ciente.

ir ir ir

Si dice che la concimazione danneggia le pian­te grasse. E spesso è vero. Ma i danni sono,

(14) L'acido ossalico (come gli altri acidi organici) si for­ma nelle piante quando debbono risparmiare ossigeno nella respirazione. È dannoso alle piante e deve essere subito combinato con un metallo che lo renda innocuo. Questo metallo può essere il potassio (l'ossalato di potassio resta sciolto nel succo delle cellule e dà il sapore brusco alle acetoselle, alla Oxalis herrerae ecc.), ma generalmente è il calcio. L'ossalato di calcio non è solubile e non ha più nessuna azione, né utile né dannosa: nelle piante a foglie cade con le foglie; nelle cactee si accumula nel fusto, sotto forma di masserelle piccolissime, microscopiche, o più gros­se, come sabbia. In certe cactee, fino all'85% del peso delle ceneri può provenire dall'ossalato di calcio; per la sua pre­senza, certi Cereus inceneriti conservano la loro forma. In certe località del Messico, si incontrano mucchi di sabbia di ossalato di calcio, e dalla forma delle masserelle si può riconoscere da quale specie è stato formato.

almeno in parte, dovuti a una concimazione sba­gliata.

Si dava alle piante grasse la concimazione che serviva per quelle dei campi o dei giardini, colti­vate, in piena terra o in vaso, per le foglie e i fiori. Ma fra le condizioni di vita, gli adattamenti e le esigenze delle une e delle altre c'è molta differenza.

Le piante da fiori o da foglie hanno bisogno di molto azoto. In natura lo trovano nei residui vegetali, specialmente foglie cadute, decomposte dai batteri e trasformate in humus; noi lo diamo, ancora come terriccio di foglie, oppure come le­tame, pollina, terricciato o concimi chimici (ni­trati, sali d'ammonio).

Le piante grasse, specialmente quelle del de­serto, vivono in terreni nei quali la vegetazione è scarsa, quindi le foglie che cadono sono poche, cadono nella stagione secca e sono poco o niente attaccate dai batteri; si forma quindi pochissimo humus. La pioggia cade scarsa e nella stagione calda: quella che era penetrata nel terreno fino a una certa profondità, risalendo alla superficie per evaporare, vi porta sciolti sali ricchi specialmente di fosforo e di potassio. Le piante sono adattate a una nutrizione povera di azoto e ricca di fosfo­ro e di potassio.

Se diamo loro i soliti concimi ricchi di azoto, avremo piante più grandi, ma cicciute, gonfie, a «pelle» sottile e lucida, con spine piccole: qualcu­no le potrà trovare più belle, ma sono innaturali e sono anche molto più esposte ai parassiti e alle malattie, specialmente al marciume.

L'aggiunta di perfosfato minerale e di solfato potassico alla miscela preparata (pag. 15) le dà un po' di fosforo e potassio.

Durante la coltivazione, la terra dei vasi si impoverisce, per l'assorbimento dei sali da parte delle piante e per il dilavamento dall'acqua delle annaffiature che esce dal foro di scolo. Si può rimediare con sali contenenti i tre elementi più importanti: azoto, fosforo e potassio. Si consiglia di dare per ogni parte di azoto 2-3 parti di fosfo­ro e 4-6 parti di potassio: noi mescoliamo in parti uguali nitrato potassico e fosfato monopotassico. Si dà circa mezzo grammo di questa miscela ogni litro d'acqua di annaffiatura. Si può preparare una soluzione madre, cioè concentrata: in un litro cento grammi di ciascuno dei due sali, e diluirla al momento dell'uso: dieci centimetri cu-

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bi (circa due cucchiaini da caffè) in una brocca da quattro litri.

Se invece che con la brocca si annaffia diret­tamente con l'acquedotto, si può dare prima con una brocca la soluzione madre diluita (una parte in 30-40 parti d'acqua) e subito dopo fare l'an­naffiatura con l'annaffiatoio.

Non si esageri con le concimazioni: le piante assorbono i sali in soluzioni diluìtissime. Conci­mazioni troppo frequenti e concentrate sono sempre dannose.

Non dimentichiamo che in molte piante del deserto (es. Pelecyphora, Aztekium, Ariocarpus) gli stomi molto radi, piccoli, infossati, lasciano uscire poco vapore d'acqua e difendono la pianta da un eccessivo prosciugamento, ma lasciano an­che entrare poca aria, e quindi pochissima anidri­de carbonica. La pianta con una alimentazione tanto povera di carbonio, che costituisce la mas­sima parte della sostanza vivente, utilizza pochis­simo anche gli altri elementi e cresce lentissima­mente, benché nel terreno siano presenti fosforo e potassio. L'aggiunta di fosforo e potassio è inutile; l'aggiunta di azoto può essere dannosa.

Gli elementi di cui la pianta ha bisogno in piccola quantità, si trovano già nel terreno o nella stessa acqua di pozzo o di acquedotto.

Siccome in natura la concimazione avviene molto spesso dal basso (l'acqua coi sali sciolti viene dal sottosuolo), si consiglia anche di im­mergere i vasi in una bacinella con la soluzione al mezzo per mille e di toglierli quando la terra in superficie è umida. Questo si può fare se si hanno pochi vasi: si fa sempre, per esempio, con le semine. Ma se si hanno molti vasi, è impossi­bile o quasi.

/ vasi

Pochi dilettanti possono coltivare piante gras­se in piena terra: in Riviera, in certe parti dell'I­talia centro-meridionale o delle isole, o in grandi serre. Generalmente le dobbiamo coltivare in vaso.

Fino a pochi anni fa si usavano solo vasi di terracotta. Si diceva che la terracotta, porosa, lascia passare l'aria necessaria per la respirazione delle radici e che un vaso impermeabile le avreb­be «asfissiate». Che questa affermazione fosse

per lo meno esagerata, lo mostravano, anche qui da noi, le piante di certi giardinetti di campagna, rigogliosissime in vecchi secchi di lamiera, in pentole di alluminio, in barattoli da conserve.

In certi paesi subtropicali la coltivazione in barattoli o in latte si faceva normalmente da molto tempo: un po' perche i vasi di terra erano difficili da procurare, ma specialmente perché il terriccio in questi vasi seccava troppo presto. In­fatti, in un vaso non poroso, in un barattolo, per esempio, l'acqua evapora solo dallo strato super­ficiale della terra; in un vaso poroso evapora anche da tutta la superficie esterna del vaso e richiama l'acqua dalla terra interna, affrettando­ne il prosciugamento. E bisogna annaffiare an­cora.

Queste annaffiature ripetute frequentemente hanno i loro inconvenienti:

1) L'evaporazione rapida sottrae calore alla massa della terra, e per conseguenza alle radici della pianta: si ha uno squilibrio di temperatura fra le radici al freddo e il resto della pianta, soleggiato e caldo, con danno della vegetazione.

2) Si forma una corrente di acqua dalla terra interna alla parete del vaso, corrente che porta alla parete i sali sciolti che la pianta deve assor­bire per nutrirsi. Anche le radici assorbenti si portano sulla parete interna del vaso. Quando la terra secca, seccano e muoiono non solo i minu­tissimi peli assorbenti, ma anche le radici sottili: la loro morte impedisce l'assorbimento da parte della pianta e quindi la sua nutrizione, e può aprire la strada a infezioni, marciume ecc.

3) L'acqua delle frequenti annaffiature (alme­no l'acqua dura dei nostri pozzi e acquedotti) porta un eccesso di calce nella terra.

4) Per quanto si cerchi di regolare la quantità di acqua delle annaffiature, ne esce quasi sempre dal foro di fondo del vaso: si ha quindi maggiore dilavamento e impoverimento della terra.

La perdita dei sali nutritivi dal fondo e l'ec­cessivo apporto di calce si hanno anche coi vasi non porosi, ma sono più gravi con quelli porosi, che richiedono più frequenti annaffiature. Tutti i danni poi, sono tanto maggiori quanto più i vasi sono piccoli e hanno, a parità di massa di terra contenuta, maggiore superficie esterna evapo­rante.

Generalizzando i danni dei vasi porosi piccoli,

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si è arrivati a dire che il vaso poroso è un vero ammazzapiante. E questa mi pare un'altra esage­razione: o almeno le tante piante che ho da decine di anni mi fanno pensare che il vaso poro­so le ammazzi molto lentamente (l3).

Da noi, il vaso di terracotta è anche adesso il più usato. I vasetti di plastica si usano quasi solo-nelle misure molto piccole, per esempio i vasetti di 4-6 cm delle piantine che compriamo dal fio­raio. Ma i vasetti di 4-6 cm, di plastica o di terracotta che siano, non sono adatti per la colti­vazione. Sono più comodi per la spedizione dal produttore al fioraio, sono meno fragili, più gra­ziosi e meno ingombranti in vetrina e per portarli a casa o in regalo, ma per farci vivere una pianta sono troppo piccoli (16). I pochi grammi di terra che contengono, porosa o non porosa che sia la parete, seccano in poche ore, e bisognerebbe annaffiarli continuamente. Se proprio si vogliono tenere le piante in vasi piccoli, questi debbono essere seppelliti fin quasi all'orlo nella sabbia (o nella torba) umida. E in questo caso il vaso poroso serve più che il non poroso.

Meglio non coltivare piante in vasi larghi me­no di dieci centimetri. Il timore che un vaso «troppo grande» danneggi le radici (per l'umidità che resta non utilizzata dalla pianta e può dare «l'inacidimento del terreno», come si leggeva una volta) non è giustificato: le piante in cassette larghe, con tanta terra a disposizione, crescono benissimo.

Il vero inconveniente dei vasi più grandi è che occupano più spazio. Se si hanno piante pic­cole, giovani o nane, si possono mettere in un certo numero per ogni vaso o, meglio ancora, piantare in cassette.

Le cassette hanno, sui vasi singoli, notevoli vantaggi, ma anche qualche inconveniente.

Si possono tenere decine di piante in poco spazio. Le radici di ciascuna di esse si possono estendere largamente, per andare a cercare l'ac-

(15) Nel 1912, studente di liceo, ammiravo, nell'Orto bo­tanico, certe cactee (Opuntia e Cereus) alte più di me. Un vecchio giardiniere mi disse che cinquant'anni prima qualcu­na era alta circa mezzo metro. C'erano ancora quasi tutte nel 1944, quando i ripetuti bombardamenti aerei distrussero serre e piante. Quelle cactee avevano circa un secolo: i vasi-killer non le avevano ancora ammazzate.

(16) Le piantine che compriamo dal fioraio sono state coltivate in cassette o in piena terra, e messe in vaso poco prima della vendita.

qua e il nutrimento. La quantità notevole di ter­ra ci permette di tenere più a lungo una umidità moderata e uniforme, che favorisce l'assorbimen­to da parte delle radici.

Basta un piccolo urto per rovesciare e magari fare cadere un vasetto: ci vuole un cataclisma per fare cadere dal davanzale una cassetta. Se, per un cambiamento di tempo o per altra causa, si debbono ritirare le piante dalla finestra, è molto più comodo trasportare una cassetta che 20-30 vasetti. È vero che si possono tenere i vasi in una cassetta grande, con sabbia o torba, ma si ha un aumento di peso e di spazio occupato senza guadagnare spazio utile per le radici.

La cassetta rettangolare ha il suo spazio fra le altre sul davanzale o sul banco. Se si deve spo­stare momentaneamente, quando si rimette a po­sto, ritorna esattamente come era prima: un vaso rotondo, quando si rimette a posto, può essere più o meno girato. Secondo alcuni questo è utile; secondo altri è dannoso per la pianta (17).

Nelle cassette le piante si possono lasciare per più anni senza doverle trapiantare. Questo è uti­le, perché il trapianto, anche se fatto con cura, può essere dannoso, o addirittura pericoloso per certe piante (es. Ariocarpus, certi mesembriante-mi). Ma proprio qui può essere il primo inconve­niente. Il trapianto dalla cassetta richiede il ta­glio di radici, della pianta trapiantata e delle vicine, taglio che per il trapianto da vaso a vaso non è necessario. Mi capitò (molti anni fa: poi non sono stato più attento!) di trapiantare con gran cura il «nostro grusonii» e di vedere morire una pianta vicina, alla quale avevo tagliato alcu­ne radici e che avevo imprudentemente annaffia­to subito.

Di più, gli attacchi degli insetti alle radici si scoprono più facilmente nelle frequenti rinvasa-ture, che nei trapianti, più distanziati, dalle cas-

(17) Qualcuno consiglia di girare ogni tanto il vaso, in modo che il sole, colpendo la pianta da tutti i lati, la faccia sviluppare più regolare (una pianta, illuminata sempre da una parte, tende a curvarsi). Secondo altri, questi cambi di orientamento si debbono evitare: in natura non ci sono. Una pianta a foglie con picciolo può semplicemente curvare o ruotare i piccioli. Per una pianta grassa, senza foghe, o con foglie larghe e grosse alla base, questi spostamenti rappre­sentano un grave disturbo, che può portare fino alla caduta dei bocci fiorali. W. Haage consiglia addirittura di marcare un punto cardinale in ogni vaso, in modo da poterlo rimette­re nel giusto orientamento ogni volta che si è dovuto spo­stare.

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sette, nelle quali è anche più facile il passaggio dei parassiti da una pianta all'altra. Ma con l'uso degli insetticidi questi inconvenienti si possono evitare, o almeno limitare.

Si vedono consigliate e usate cassette di le­gno, eternit, cemento. Ho provato anche cassette di plastica, bacinelle della misura giusta, alle quali avevo fatto i fori di fondo. Erano poco comode da maneggiare (orlo troppo sottile) e dopo pochissimi anni, anche se erano di materia­le reclamizzato, si spaccavano: quasi si disinte­gravano .

Adesso uso solo cassette di terracotta. Co­minciai con le grandi cassette del commercio di cm 50 x 38 X 10 (misure esterne: peso, a vuoto, più di otto chili) poi sono sceso a misure molto minori: 30 x 20 x 8, e 22 x 15 x 8.

Quelle del commercio non sono sempre adat­te: generalmente quelle per piante da fiori sono troppo alte (12-13 cm) e le terrine da semina troppo basse, per la coltivazione (5-6 cm; in ogni modo, meglio queste che le alte).

Preferisco farmele io, con argilla rossa finissi­ma di certi calanchi sopra Bologna, e me le cuoce un amico che ha una fornace di laterizi. Posso regolare le misure quasi pianta per pianta: da 7-8 cm di altezza normale, a 10 per le piante a fittone grosso e lungo (fino a 20 per Leuchten-bergia), lunga e stretta (70 x 15 X 10) per Ma-chaerocereus eruca. Faccio vasi quadrati larghi per piante cespitose (es. Mammillarìa hahniana). I vasi quadrati hanno sui rotondi il vantaggio di utilizzare meglio lo spazio e di avere le pareti dell'uno quasi a contatto con quelle dell'altro, lasciando meno spazio alla circolazione dell'aria asciutta e all'evaporazione esterna.

Mi sono fatto fare anche vasi rotondi, a ruo­ta. Quelli del commercio comuni da noi, a cono tronco col diametro superiore esterno uguale al­l'altezza e il diametro inferiore circa 3/5 del su­periore, vanno bene per Aloe, Agave, Cereus, ma sono troppo stretti e alti per le altre. I vasi dei coltivatori, della Riviera sono in proporzione più bassi dei nostri e più larghi, tanto alla bocca quanto alla base. Le misure migliori sono: lar­ghezza 9-10 cm, altezza 6-7, larghezza alla base 7 circa, arrivando fino a 15 x 10 x 12.

Quando e come si rinvasa

Una volta le piante grasse si rinvasavano, tut­ti gli anni (o quasi), all'inizio della primavera, in marzo. La rivasatura era resa necessaria dai vasi piccoli che si usavano, con poca terra non conci­mata che esauriva presto la riserva nutritiva, dal­l'aggiunta, alla terra, di calce che, sommata a quella portata dalle frequenti annaffiature con acqua dura, dava un crosta calcarea superficiale e una reazione alcalina di tutta la terra (il famo­so «inacidimento») dannose per molte piante. E fatta in marzo, dava alla pianta la terra fresca per la ripresa della vegetazione.

Adesso, coi vasi più grandi, la terra concima­ta nella preparazione della miscela e nelle annaf­fiature, con l'aggiunta di calce sono in pochi casi e in piccolissima quantità (e magari usando, inve­ce del calcinaccio, il gesso, che dà il calcio ma non l'alcalinità), si possono diradare le rinvasa-ture.

E non è necessario nemmeno farle tutte in marzo, il che sarebbe difficile per un dilettante con centinaia di vasi. Il marzo è ancora il mese che i vari esperti consigliano più spesso (18) ma c'è chi preferisce rinvasare nell'inverno, quando la pianta è in riposo: in primavera è più pronta per la ripresa della vegetazione. E c'è chi consi­glia di rinvasare in aprile, quando la pianta è già in vegetazione: la pianta si riprende più rapida­mente dal trauma del trapianto. In Riviera ho visto un famoso coltivatore rinvasare soggetti piuttosto grossi ai primi di agosto.

Cioè si rinvasa quando la pianta ne ha biso­gno, in qualsiasi stagione dell'anno. Noi escludia­mo solo i mesi di settembre, ottobre, e novem­bre, nei quali la pianta, ancora gonfia d'acqua, si prepara al riposo invernale.

Una pianta ha bisogno di essere rinvasata quando il vaso è evidentemente troppo piccolo, o la vegetazione si ferma (nell'estate però si può avere un rallentamento provvisorio della vegeta­zione anche quanto tutto è a posto) o quando le radici, che normalmente si distendono in senso orizzontale, arrivano invece a uscire dal foro del fondo.

In questi casi è bene vedere che cosa succede

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(18) Le piante che fioriscono in primavera si rinvasano dopo la fioritura.

dentro il vaso. Per levare una pianta dal vaso, si aspetta che la terra sia appena umida: non trop­po bagnata ma neppure troppo secca. Si può infilare una bacchetta rigida nel foro di scolo e spingere in alto il coccio che, sollevandosi, solle­va il pane di terra. Ma se le radici molto cresciu­te aderiscono molto al vaso, e specialmente se il coccio è troppo piccolo e si sposta lateralmente, si possono ferire le radici più in basso. È meglio voltare in basso il vaso, tenendo ferma la pianta con la mano, e battere l'orlo del vaso su un piano di legno: lo spigolo di un tavolo o un'assi­cella appoggiata su un piano duro (19). Battendo direttamente sul piano duro, muricciolo o altro, si può rompere, o almeno scheggiare, l'orlo del vaso.

Levato il vaso, possiamo osservare il pane di terra. Se le radici sono sane, solo un po' fitte, sì allentano un po' con le dita: si fa cadere una parte della terra, già sfruttata dalla pianta. Qual­che volta, se una pianta rigogliosa è stata tenuta troppo tempo senza rinvasarla, si ha un groviglio di radici lunghe e piuttosto grosse, che hanno fatto giri e giri contro la parete del vaso. Non si riesce ad allentarle: è meglio tagliarne una parte. Le radici sottili rimaste e le nuove che spunte­ranno le sostituiranno. Ma si aspetti ad annaf­fiare!

Se vi sono pidocchi, si facciano i trattamenti necessari. Se vi sono radici morte, si levano. Se qualche radice è ammalata, si taglia dove il tes­suto è ancora sano. Se la maggior parte delle radici grandi è morta o ammalata, si taglia il fusto alla base e si cerca di salvarlo come talea.

Le dimensioni del nuovo vaso variano a se­conda dello stato della pianta: se la pianta è sana e vigorosa il vaso sarà più grande del precedente; sarà uguale, o magari più piccolo, se la pianta è stentata o se si sono tagliate molte radici.

I nuovi vasi debbono essere puliti: se sono già stati usati è bene lavarli e spazzolarli. Se vi sono

(19) Certe piante grandi (es. grossi Echinocactus) o che formano gruppi spinosi (es. Mammillaria gemìnispina, eufor­bie) non si possono svasare in questo modo. Si possono coprire, o fasciare addirittura, con tela rada e molle, nella quale le spine entrano senza rovinarsi: vanno benissimo i sacchi di juta, ripiegati più volte, se necessario. Poi si volta il vaso e si solleva: la pianta rimane con le radici in alto, sulle quali si possono fare gli esami, e eventualmente gli interventi necessari. Messa la pianta nel nuovo vaso, la co­pertura di tela si toglie facilmente, senza nessun danno per le spine.

morte piante, è bene passarli in acqua molto calda.

Il foro del fondo deve essere largo almeno un centimetro: se è più stretto, è bene allargarlo. Vi si mette sopra un coccio di vaso, piuttosto largo, con la concavità in basso. Attorno al coccio si mette sabbia molto grossa, e su questa uno stra-terello di sabbia meno grossa: lasciano scolare l'acqua e trattengono la terra. Gli altissimi dre­naggi che si usavano una volta, più che inutili sono risultati dannosi. Qualcuno consiglia di met­tere sopra la sabbia uno straterello di carbone tritato fine, per difendere le radici da parassiti che possono entrare dal basso.

Si mette nel vaso una parte della nuova terra e su questa la pianta, non troppo profonda: deve essere piantata, non seppellita. Se si era disfatto il vecchio pane di terra, si distendono un po' le radici. Si versa attorno e sopra altra terra, che deve essere abbastanza asciutta per scorrere fra le radici (20). Si aiuta dando scosse al vaso o battendolo sul piano di legno, e premendo sulla terra con le dita o con una bacchetta (senza punta!) specialmente lungo la parete del vaso. Si eviterà che vi restino spazi vuoti, che potrebbero essere dannosi più tardi.

Sopra la terra, è molto utile uno straterello di sabbia grossa, quasi ghiaietta: «fa molto deser­to», si asciuga presto, ma rallenta l'evaporazione dell'acqua della terra sottostante, impedisce la formazione di crosta e gli schizzi della terra sulle piante in caso di piogge o annaffiature violente. Nel nuovo vaso la pianta non deve essere pianta­ta più profonda che non fosse nel vecchio.

La superficie della sabbia deve restare un po' sotto l'orlo del vaso. Questo spazio vuoto varia secondo la grandezza del vaso: dovrebbe conte­nere l'acqua di una annaffiatura normale.

Moltiplicazione

Chi si limita a coltivare le sue piante, senza moltiplicarle, conosce solo una parte delle soddi­sfazioni che esse gli possono dare. Specialmente

(20) Astrophytum asterias, Ariocarpus e certe piante a radice grossa e carnosa temono l'umidità stagnante. È pru­dente mettere terra solo attorno alle radici sottili, e attorno al fittone mettere sabbia grossa e ghiaietta, con pochissima terra. E non annaffiare troppo spesso, nemmeno d'estate.

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la semina: la nascita della nuova piantina, i pas­saggi fra le varie forme della pianta e delle spine, il primo fiore, il primo frutto sono causa di «fe­sticciole» per il coltivatore.

Moltiplicazione per via vegetativa

La moltiplicazione per via vegetativa (o aga­mica, cioè senza fecondazione) ci dà forme già conosciute e scontate, ma è più semplice, più rapida e può essere altrettanto utile. Anch'essa ci permette di avere piante di riserva per sostitui­re quelle che ci venissero a mancare, piante per amici, per qualche principiante da incoraggiare, per scambi con altri coltivatori, dilettanti, o pro­fessionisti (21).

Ha anche il vantaggio di dare piante uguali alle madri, cioè di non fare bastardi.

Moltiplicazione per talea

È la più semplice e la più usata. Quasi tutte le piante grasse emettono rami laterali, che si stac­cano facilmente (22). In certe Cactee (Echinopsis, Mammillaria gracilis e altre) basta una trazione leggerissima sui rami per staccarli. Questi rami si

(21) Tutti gli anni gli Orti botanici si scambiano l'Index seminum, cioè il catalogo dei semi, o delle piantine, che possono mandare in cambio agli altri. Subito dopo la guerra, provai di fare cambi con Giovanni Allavena, a Bordighera: per i miei doppi mi diede anche piante che pochi giorni prima non aveva voluto vendere a un mio amico, andato a tastare il terreno. E da allora ho fatto cambi con quasi tutti i miei fornitori: portavo le mie piante, sceglievo quelle che mi interessavano, pagando solo la differenza, e me le portavo subito a casa (magari di contrabbando, quando andavo alla Kaktimex, a Zurigo o a Turgi: l'importazione delle cactee era, e credo che dalla Svizzera sia ancora, proibita, e quello era l'unico modo per averle. Non vi ho mai trovato paras­siti).

(22) Ma questi rami laterali sono una caratteristica di molte piante (es. le piante cespitose). Staccandoli, si altera spesso l'equilibrio estetico e anche l'equilibrio biologico della pianta: bisogna quindi staccarne meno che si può e «meglio» che si può. Meglio ancora è tenere una pianta da collezione, che non si disturba, e una di riserva, dalla quale si possono staccare i rami. Avere almeno due piante, non dello stesso clone è poi necessario per avere semi da piante autosterili (pag. 26).

Certe piante non emettono spontaneamente rami laterali (es. fra le cactee gli Astrophytum, fra le euforbie la Euphor-bia obesa: se proprio si vuole (ma non lo consiglio), si possono obbligare a emetterne, cimandole. I rami laterali di certe Euphorbia {caput medusoe, pugniformis ecc.) usati co­me talee, si allungano senza formare la caratteristica capoc­chia. Cimandoli, emettono rami di secondo ordine che spes­so formano la capocchia(non sempre!).

possono mettere in terra anche subito. Se il ramo non si stacca facilmente, è meglio

tagliarlo alla base: si eviteranno strappi, sfilaccia­ture del cilindro centrale ecc., che possono esse­re dannosi alla pianta madre o alla talea. Queste talee tagliate, prima di essere messe in terra, dovranno stare all'asciutto finché il taglio non è seccato: bastano pochi giorni. Se però la talea è stata tagliata in un punto dove è già grossa (se si cerca di salvare una pianta che comincia a marci­re in basso, o si vuole ringiovanirne una troppo suberificata o imbruttita) bisogna aspettare qual­che settimana. Del resto, non c'è da avere fretta a mettere in terra le talee: emettono le radici anche fuori terra. Ma non si debbono tenere per troppo tempo appoggiate orizzontalmente su un piano: possono emettere le radici lungo la parte che resta di sotto.

Nelle talee a base larga può darsi che le radi­ci, che partono sempre dal cilindro centrale, at­traversino tutto lo strato corticale e vadano a uscire attorno alla base, il che disturberà la rin-vasatura: è bene assottigliare la base a tronco di cono (lasciando, naturalmente, intatto il cilindro centrale).

La terra per le talee deve essere molto sab­biosa: meglio addirittura la sabbia pura. Le talee vanno piantate poco profonde. Se un ramo è lungo, piuttosto che piantarlo più profondo per farlo stare diritto, si leghi a un sostegno, che si pianterà alla profondità necessaria, tenendo su­perficiale la talea.

Le talee si possono fare radicare in vasi sin­goli o in un certo numero in un vaso. In quest'ul­timo modo si risparmia spazio, ma si ha l'incon­veniente che quando una ha emesso le radici e riprende la vegetazione, per poterla mettere in vaso bisogna disturbare le altre, danneggiando o magari rompendo le loro radici che stanno spun­tando e sono delicatisime. Le talee si fanno radi­care in ambiente caldo, ma non molto soleggiato, con la sabbia leggermente umida.

Si possono tenere le talee a mazzi in un vaso di terracotta vuoto, tenuto dentro un vaso più grande, pieno di torba, che si mantiene umida. L'umidità della torba, attraverso il vaso poroso, crea un ambiente favorevole all'emissione delle radici.

Molto vicina alla talea è la divisione dei cespi. Molte piante formano gruppi di fusti e di rami,

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prima dipendenti da una radice unica, poi, spes­so, ciascuno con radici proprie. Staccando questi rami, si possono avere subito tante piante indi­pendenti. Anche in natura capita che la parte centrale del cespo muoia e i rami restino isolati: se non hanno già le radici che li fissano al terre­no, possono esser trasportati dagli animali, o dal­l'acqua o dal vento anche a una certa distanza e diffondere la pianta.

Si possono fare anche talee di foglie: foglie intere (vari Sedum, certi Echeveria ecc.) o parti di foglia: una foglia di Kalanchoe beharensis può dare più talee, di pezzi di picciolo e di pezzi di lamina. Mezza foglia di Kalanchoe tomentosa può dare piantine tanto dal nervo mediano quan­to dai nervi laterali. Certe Haworthia e Aloe si possono moltiplicare per talea di foglie: si afferra la foglia e si piega in fuori e in basso, tirando fino a staccarla. Dall'orlo basale, che era attacca­to al fusto, spunteranno radici e piantine (Tav. 2, 1); ne ho avute fino a sette in una sola foglia di Haworthia maughanii (23).

Certe cactee si moltiplicano per talee di tu­bercoli, es. Mammillaria longimamma: anche questi è meglio strapparli che tagliarli. Ho prova­to anche con tubercoli di Mammillaria schiedea-na, come avevo visto consigliato: data la loro piccolissima riserva d'acqua, seccavano presto. Ho visto raramente spuntare la radice; mai for­marsi una piantina nuova (24).

Ho visto radicare anche foglie di Pereskiopsis: finora non ho visto formare il fusticino.

Nella cassetta, dalla quale avevo tolto delle Coryphantha elephantidens, ho visto spuntare piantine dalle radici rimaste nel terreno (Tav. 2, 3). Ho provato a fare talee con radici tagliate in pezzi: con ventidue pezzi di radice di C. elephan­tidens lunghi 3-4 cm e grossi 3-4 mm ho avuto quindici piantine; con altre Coryphantha non ho avuto nessun risultato. Attorno alle Kalanchoe beharensis affiorano talvolta dal terreno radici

(23) Generalmente, però, una foglia di Hawothia mau­ghanii da 1-2 piantine (e spesso nessuna). Quando le pianti­ne erano una o due, ho provato a staccarle per vedere se la foglia ne dava ancora. Non conviene: le piantine, non più nutrite dalla foglia crescevano più stentate; la foglia non dava altre piantine.

(24) Una talea di ramo di Mammillaria piumosa marcì: alcuni tubercoli, venuti a contatto col terreno, radicarono ed emisero uno o due rami subito sotto l'areola: ho provato a farlo con tubercoli tagliati alla base, senza risultato.

sottili che danno piantine (pelose, in principio, anche se vengono da piante glabre). Ho provato a tagliare pezzi di radicele farne talee, ma senza risultato.

Innesto

L'innesto consiste nel prendere una parte di una pianta (marza o, senz'altro, innesto) e fissar­la su un'altra pianta {soggetto) in modo che i cambi dei fasci dell'una e dell'altra siano a con­tatto. I nuovi tessuti che i cambi formeranno saranno strettamente connessi e l'innesto si svi­lupperà come una parte del soggetto. Soggetto e marza debbono essere affini: si innestano cactee su cactee, asclepiadacee su asclepiadacee ecc.

Gli scopi dell'innesto sono:

1) Fare crescere rapidamente piante che sulle proprie radici sarebbero molto lente {Ariocarpus, Pelecyphora ecc.). Quando l'innesto è abbastan­za cresciuto si può staccare e fare affrancare, cioè crescere su radici proprie, o passare su un altro soggetto più robusto e accelerarne ancora lo sviluppo.

2) Accelerare la moltiplicazione agamica; si innesta su un soggetto vigoroso e dopo la ripresa si cima. Si ha una pianta madre, che darà getti laterali da staccare, per talee o altri innesti (Tav. 3, 4).

3) Salvare una pianta ammalata o rovinata alla base, mettendola su una base sana.

4) Fare vivere piante che sulle proprie radici sarebbero troppo delicate, o addirittura piante (es. i Gymnocalycium rossi, i cactus fragola) che, essendo senza clorofilla, muoiono di fame se non hanno un soggetto verde che prepari per loro la sostanza organica dall'aria.

Questi vantaggi sono preziosi specialmente per il professionista che può vendere con anni di anticipo certe piante. Possono rendere utile l'in­nesto anche per il dilettante, nonostante il grave inconveniente di alterare spesso il portamento della pianta innestata. Sarà cura del coltivatore moderare queste alterazioni.

Quali piante grasse si innestano? In teoria si potrebbero innestare tutte le dicotiledoni, che, avendo il cambio, permettono la saldatura dei nuovi tessuti del soggetto con quelli della marza: resterebbero ecluse, delle piante grasse, le Aloe

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e specie affini e le agavi. In pratica si innestano specialmente le cactee: si fanno innesti di ascle-piadacee (Tavaresia su Ceropegia), di euforbia, di Adenium obesum su oleandro.

Quando si innesta. Rispetto alla stagione, si innesta quando almeno il soggetto è in piena vegetazione e il cambio funziona attivamente, cioè dalla fine di aprile alla metà d'agosto. In caso di necessità, per salvare una pianta che sta per marcire, si può tentare l'innesto anche fuori stagione, ma con poche speranze di buon risul­tato.

Rispetto all'età delle piante, si escludano, spe­cialmente come soggetto, le parti troppo vecchie, a fasci già troppo legnosi. Si possono invece in­nestare piantine di pochi giorni.

Come soggetto si possono usare quasi tutte le piante vigorose e non delicate. I soggetti migliori sono: Trichocereus spachianus e altri {T. macro-gonus, pachanoi, bridgesiì). Cereus jamacaru, C. peruvianus. Eriocereus jusbertii dà, almeno a me, una minore percentuale di attecchimenti: si for­ma qualche volta una secrezione mucillaginosa che isola la marza. Ma l'innesto attecchito su jusbertii è il migliore per lo sviluppo, rapido ma meno deformante, per la scarsa tendenza a emet­tere getti propri che sottraggono alimento all'in­nesto, per la facilità di fioritura.

Ho avuto per più di cinquant'anni un Ario-carpus fissuratus innestato su Echinopsis.

Anche le Opuntia possono servire; danno pe­rò uno sviluppo eccessivo e deformante all'inizio e forse durano meno che gli altri soggetti. Le Pereskia si usano specialmente per le piante che debbono fiorire nell'inverno (es. Zygocactus); le Pereskiopsis per marze, anche molto piccole, che si vogliono fare crescere in fretta.

Si trovano spesso in commercio innesti su Hylocereus: crescono rapidamente (e la pianta si vende presto), ma a me sembrano brutti: sanno troppo di «falso». E, se non si ha una serra vera, durano molto meno degli altri (25).

Come si innesta. I tipi di innesto per le cactee sono due: per sovrapposizione e a spacco.

Il più usato è l'innesto per sovrapposizione. Scelto il soggetto, che deve essere in vaso (26) e in piena vegetazione, si taglia orizzontalmente a una certa distanza dall'apice, distanza che può essere di pochi millimetri se si tratta di piante giovanissime, di qualche centimetro, se si tratta

di piante cresciute ( ). In queste, i fasci debbo­no essere bene visibili, ma non troppo lignificati. Si può tagliare il soggetto dove il colore verde fresco mostra che è cominciata la vegetazione dell'anno: meglio un poco più sotto, nella vege­tazione dell'anno precedente. Rispetto all'altezza del soggetto, si trovano in commercio innesti con soggetti alti 2-4 cm, ma anche piante crestate (Cephalocereus senilis e altre) innestate su Tri­chocereus macrogonus alti un palmo e più.

Dopo l'innesto, il soggetto non cresce più, né in altezza, né in grossezza; anzi, col passare degli anni, rimane sempre più nascosto e può finire col fare quasi solo da radice all'innesto. Se la marza è verde, collabora con la clorofilla a formare la sostanza organica e l'innesto vive e cresce; se non è verde (es. cactus fragola) non ha la foto­sintesi e, se il soggetto è troppo ridotto, l'innesto muore di fame. Quindi gli innesti di piante senza clorofilla — rosse, gialle, viola — hanno bisogno di soggetti più forti e più duraturi che quelli per le piante normali.

Perché l'innesto possa dare buon risultato, bisogna che almeno uno dei fasci della marza sia sovrapposto a uno di quelli del soggetto. L'ideale è che tutta la cerchia dei fasci (28) del soggetto e quella della marza coincidano. Se questo non è

(25) Haage (Freude mit Kakteen) divide i vari generi, nei quali è stato diviso il genere Cereus, in quattro gruppi, a seconda delle esigenze culturali. Colloca gli Hylocereus nel primo gruppo, il meno indicato per le piccole coltivazioni in casa. Piante dell'America Centrale, e specialmente delle An-tille, a temperatura e umidità elevate e costanti, non soppor­tano né i salti di temperatura delle piccole serre di fortuna né l'aria calda, ma asciutta, delle case abitate. Nel gennaio 1980 ci arrivarono all'Orto botanico nove «cactus fragola», acquisti di Natale, che avevano perduto il soggetto. Moriro­no tutti prima che li potessimo innestare ancora.

( ) Il vaso può essere piccolissimo (ne facevo di larghi 2 cm; adesso uso quelli del commercio larghi 3 cm).

(2/) La piantina in vegetazione ha alla sommità spine giovanissime, ancora carnose alla base. Se il soggetto è mes­so in vaso poco prima dell'innesto, si strappano le spine dell'apice, che, ancora carnose, vengono via facilmente. Il soggetto è pronto per l'uso quando crescono le nuove spine, che indicano la ripresa della vegetazione.

(28) La cerchia dei fasci, non il diametro della pianta. Generalmente i Cereus hanno la cerchia dei fasci più stretta che quella delle piante globose (Mammillaria e altre) a pari­tà del diametro del fusto. Quindi, volendo innestare, per esempio una Mammillaria, è bene avere pronti anche Cereus più grossi, per non trovarsi poi, a tagli fatti, con due cerchie di fasci troppo diverse. Opuntia e Pereskiopsis hanno lo strato corticale sottile e la cerchia dei fasci molto larga; le Opuntia appiattite hanno anche la cerchia dei fasci appiatti­ta. I fillocactus hanno il fusto appiattito ma la cerchia dei fasci rotonda.

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possibile, si cercherà di fare in modo che almeno qualcuno dei fasci del soggetto e della marza coincidano.

Sul soggetto tagliato, si smussa lo spigolo tut­to attorno, e si levano anche le areole superiori che, con le loro spine, disturberebbero l'opera­zione. Si taglia una fettina di tutta la faccia supe­riore del soggetto, grossa circa un millimetro, e si rimette subito a posto: servirà a impedire che il taglio buono resti esposto all'aria e si prosciu­ghi durante il lavoro. Il taglio, e specialmente il distacco della fettina deve essere fatto con un colpo solo: i movimenti di va e vieni e i tagli in due tempi danno una superficie irregolare, a sca­lini o a gobbe, che danneggia, o impedisce addi­rittura la saldatura. Si usi quindi una lama piut­tosto grande, e robusta e tagliente (per le pianti­ne molto piccole servono bene le lame di rasoio di sicurezza, liberate, se sono nuove, del grasso che le unge).

Si prepara la marza allo stesso modo e si sovrappone subito al soggetto (dopo avere tolto a questo la fettina di protezione), premendo un poco e facendo piccoli movimenti di va e vieni, in modo da allontanare eventuali bolle d'aria o eccesso di secrezione mucillaginosa rimasta sulle due superfici. Se la cerchia dei fasci del soggetto e quella della marza hanno la stessa larghezza, la marza si mette nel mezzo, in modo che i fasci e i cambi dell'uno e quelli dell'altra coincidano; se la cerchia dei fasci della marza è più stretta (o più larga, ma in questo caso è meglio, se si può, cercare un altro soggetto), si mette un po' eccen­trica, in modo che almeno una parte dei fasci dell'una venga a combinare con quelli dell'altro.

Poi si fissa l'innesto. Si può tenere fermo con un elastico (o due) che passi sopra la marza e sotto il vaso (Tav. 2, 5). Si fa notare che l'elasti­co può spostare la marza e perfino farla scattare via, specialmente se è piccola. Qualche volta è capitato anche a me, ma nonostante questo io uso sempre l'elastico: mi permette di spostare il vaso quando voglio. Se l'elastico non si può fare passare sotto il vaso, si possono fissare nel sog­getto due forti spine, una da una parte e una dall'altra del soggetto, e si ferma a queste l'ela­stico. Se il soggetto è una talea non ancora radi­cata, si può fare passare l'elastico al di sotto della base.

Certi Cereus lunghi e sottili (es. Aporocactus,

Wilcoxia) si possono mnestare tagliandone un pezzetto a metà per il lungo e mettendo una delle due metà su un articolo di una Opuntia piatta, pure tagliata, in modo che i fasci vengano a combinare, fermandole con uno o due elastici e, se si vuole, con una o due spine (Tav. 2, 5b). Ma per questi Cereus si usa più l'innesto a spacco.

La tensione dell'elastico deve essere tale, che le superfici tagliate, della marza e del soggetto, siano sempre a contatto, anche se nei primi gior­ni si retraggono un poco: maggiore tensione se si tratta di piante dure (specialmente di importazio­ni), minore se si tratta di piante tenere. L'inne­sto delle piantine di 2-3 millimetri deve essere tenuto a posto più dal peso che dalla tensione dell'elastico.

In queste piantine piccolissime, la cerchia dei fasci è poco più di un punto. Come soggetti si possono usare Cereus peruvianus o jamacaru del­la stessa età (o, per gli innesti primaverili, nati nella semina autunnale dell'anno precedente), che hanno pure la cerchia dei fasci piccolissima. Le marze grosse due mm o più, si possono inne­stare anche su getti sottili di giovani piante di Selenicereus grandiflorus o pteranthus, che, es­sendo quasi conici, permettono di scegliere il punto di grossezza adatto alla marza.

Le marze più piccole può essere addirittura impossibile fermarle con l'elastico, ma in questi casi estremi non è neppure necessario. Basta mettere a posto la marza e premere leggermente (attenti a non schiacciarla!).

Queste piantine piccolissime è meglio inne­starle su Pereskiopsis. Come soggetto si usano talee radicate, alte 5-8 cm, grosse circa 3-4 mm: si tagliano orizzontalmente un paio di cm sotto la cima, nella parte ancora erbacea e tenera. Come marza si possono usare anche piantine di pochi giorni: anzi qualcuno consiglia di preferire pianti­ne di meno di un mese, magari ancora con la cuffia del tegumento seminale. Si afferra la pian­tina per la radice e si taglia l'ipocotile poco sopra la base (a me non è facile tagliare una piantina grossa un millimetro o meno senza schiacciarla, ma forse è colpa dei miei ottantanni). Si appog­gia sul soggetto presso l'orlo: la Pereskiopsis ha la cerchia dei fasci molto larga (Tav. 1, 4b) e se la marza si mette al centro va sul midollo, e l'innesto non riesce. Si preme molto leggermente:

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non si fissa. L'attecchimento dell'innesto e lo sviluppo sono molto più rapidi che nell'innesto su Cereus di seme. Da anni innesto le piantine di seme solo su Pereskiopsis (29).

Innesto a spacco. Le piante allungate e sottili (Aporocactus, Wilcoxia) o appiattite (fillocactus e simili), si innestano generalmente a spacco. Sul soggetto tagliato orizzontalmente si fa un secon­do taglio, verticale, nella cerchia dei fasci, si taglia a cuneo la marza e si inserisce nel taglio, cercando di fare combaciare i fasci delle due parti. Se necessario, si allarga il taglio del sog­getto in modo da avere una spaccatura che corri­sponda al cuneo della marza. Non è facile fare i tagli, della marza e del soggetto, della stessa misura: è meglio che la spaccatura sia più stretta che più larga. Infilata la marza, si mantiene fer­ma attraversandola con due spine di cactee (ri­correre a spilli solo se non si trovano spine).

In nessun innesto di cactee si usa mastice.

Fatto l'innesto, si mette in un luogo caldo, ma non a pieno sole. Certi autori tedeschi consiglia­no di tenerlo al sole, per fare asciugare prima le ferite rimaste scoperte; ma là l'aria è più umida e il sole meno attivo che da noi. Io metto gli innesti in un vaso grande, scoperto, al sole, con solo un po' di sabbia sul fondo: hanno aria, e la parete del vaso li difende dal sole diretto. Nei primissimi giorni i tessuti feriti e scoperti si asciugano e qualche volta pare che l'innesto «si sieda» sul soggetto, ma già poco dopo, se l'inne­sto è attecchito, si vedono come gonfiarsi e risol­levarsi. Dopo pochi giorni si può togliere l'elasti­co. Poi gli innesti si trapiantano in vasi più gran­di, adatti alle dimensioni della pianta, o in cas­sette.

Se si innestano marze molto avvizzite (impor­tazioni, o piante che si sono molto prosciugate nel riposo invernale e non si riprendono ecc.) possono tardare molto di più a cominciare a ri­gonfiarsi (20-30 giorni). Non si abbia fretta di gettarle via.

Le piantine di seme innestate, quando sono cresciute possono essere staccate per innestarle

(z9) Ma mi pare che le piantine innestate su Pereskiopsis siano difficili da affrancare. L'affrancamento naturale non si può avere perché il soggetto è troppo alto e rigido; le marze staccate seccano quasi sempre ^senza avere emesso radici, anche se si taglia il soggetto subito sotto l'innesto.

su un soggetto ancora più forte e accelerarne ancora lo sviluppo, o per tenerle franche, cioè sulle proprie radici.

Per affrancarle, non è sempre necessario stac­carle dal soggetto. Questo, col crescere dell'inne­sto, resta sempre più coperto e più corto. Dopo un certo tempo, variabile da una pianta all'altra (da pochi mesi a 2-3 anni) la marza è a contatto diretto col terreno e quasi sempre emette radici avventizie, che le danno l'acqua e i sali dal terre­no e alle quali rimanda le sostanze elaborate. Per un certo tempo l'innesto assorbe con le radici proprie e con quelle del soggetto, poi general­mente il soggetto viene tagliato fuori dagli scam­bi e finisce col morire (Tav. 3, 5). Ma intanto la marza, che sulle proprie radici fino dalla nascita sarebbe cresciuta molto lentamente (es. Pelecy-phora) ha guadagnato qualche anno nello svilup­po. Non ho mai notato che la morte e la decom­posizione del soggetto abbiano dato danno alle piantine affrancate.

La terra degli innesti che stanno affrancando­si deve essere quella adatta alla marza. È più facile fare vivere un Cereus in terra magra da Pelecyphora o Ariocarpus, che una di queste in terra grassa da Cereus.

La semina

La semina è il modo più interessante di molti­plicare le cactee, i mesembriantemi e molte altre piante grasse (30). Ci permette di vederle nasce­re, di seguirne lo sviluppo, spesso attraverso va­rie fasi, diverse l'una dall'altra.

Se poi i semi li faremo produrre alle nostre piante, ci potrà capitare di vedere qualche «cosa non detta in prosa mai né in rima» avrebbe detto l'Ariosto, cioè di cui nessuno ci aveva mai parla­to, o perché non era conosciuta (es. i frutti del-YAriocarpus scapharostms, delle Mammillaria egregia e mercandesis) o perché ritenuta insignifi­cante e non meritevole di essere riferita, ma che per noi può essere nuova e interessante. La ri-

(30) Ed è praticamente il solo per quelle piante (es. Astrophytum, Euphorbia obesa) che non emettono sponta­neamente rami e che non si vogliono rovinare cimandole. È anche il più comodo per avere in collezione nuove specie: è molto più difficile (e da noi, in certi casi proibito dalla legge) avere dall'estero le piante; l'importazione dei semi è sempre libera.

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produzione per seme ci aiuterà, direi quasi ci obbligherà, a conoscere meglio le nostre piante e la loro vita (31).

Si dice che la semina non conviene, perché ci vuole troppo tempo per vedere crescere le piante. Questo può anche essere vero: certe piante, special­mente cactee (Ariocarpus, Pelecyphora, Aztekium) crescono molto lentamente. Ma tante altre sono più svelte: si vedono fiorire certi mesembriantemi, Crassu­la corallina e altre nell'anno stesso della semina; fra le cactee possono fiorire, in febbraio, piante nate nell'a­prile di due anni prima (a ventidue mesi d'età Mam-millaria denudata, M. schìedeana) o addirittura nel settembre (a diciassette mesi; es. M. mercadensis). E a tre-quattro anni fioriscono Astrophytum e altre.

Se poi vogliamo guadagnare qualche anno, inne­stiamo le piante lente su un soggetto (Cereus, Pere-skiopsis) che ce le farà crescere più in fretta.

La semina ha invece un altro difetto, più grave che la lentezza: si hanno facilmente bastardi. Per questo bisogna sapere da dove vengono i semi, o, se li faccia­mo fare noi, come lo facciamo.

Perché un fiore dia il frutto e i semi, è neces­saria Vimpollinazione, cioè il passaggio del polli­ne dall'antera allo stimma. In certe piante (es. fra le nostrane più conosciute, la viola mammola, fra le piante grasse certe Frailea) si hanno fiori che si aprono e altri che non si aprono {fiori cleistògami, da gr. kleistòs chiuso): in questi il polline passa direttamente dall'antera allo stim­ma, col quale, nel piccolissimo boccio, l'antera è a contatto. Nelle Frailea, anche i fiori che si aprono si impollinano spesso da soli, senza inter­venti estranei. Ma generalmente il polline deve essere trasportato, dal vento o da animali, e spe­cialmente da insetti.

Nelle collezioni, non c'è da augurarsi l'impol­linazione fatta dagli insetti. È utilissima nei cam-

(31) Un «frutticultore» di piante grasse non metterebbe insieme (nello stesso genere) Pelecyphora aselliformis, pedi­nata e valdeziana, tutte con tubercoli compressi e spine pettinate, ma che fruttificano in modo tanto diverso: nella aselliformis i frutti si formano e crescono sotto la lana all'a­pice della pianta, e solo dopo un anno e mezzo li possiamo vedere, spostati in fuori, secchi, come capannine chiuse; nella pedinata si formano già lontani dall'apice, crescono nell'interno del corpo della pianta e ne spuntano maturi e carnosi, cinque-sei mesi dopo; nella valdeziana crescono sco­perti, neri, lucidi, grossi fino alla fecondazione, all'apice della pianta, come su un piedistallo, e già dopo poche setti­mane maturano, si aprono e seccano. E si può anche ricor­dare che noi raccoglievamo frutti e semi di Mammillaria egregia, senza sapere a quali complicazioni burocratiche avrebbe poi dato luogo il fatto che quei frutti erano scono­sciuti (pag. 90).

pi e nei frutteti, dove si coltivano migliaia di piante più o meno uguali, e il passaggio del polli­ne dall'una all'altra dà semi da cui nasceranno piante ancora omogenee (nei frutteti, poi, si ba­da alla quantità dei frutti, e non alla purezza dei semi). Ma nelle collezioni si hanno spesso vicine piante di specie diverse, e se un insetto passa dall'una all'altra, o non si ha fecondazione, e in questo caso è un bene, o si ha un incrocio, e questo è un male. Noi non dobbiamo fare, o favorire, incroci: lasciamo le cose come le ha fatte la natura, che le fa tanto bene (32).

Per evitare incroci involontari, si possono coprire i fiori con cuffiette di garza fitta, che non lasci passare gli insetti. Per essere ancora più sicuro, quando fiori­rono i primi Astrophytum asterias, levai tutti i bocci degli Astrophytum, che avrebbero potuto fiorire in quegli stessi giorni. Certe piante meno delicate, le levo dalle cassette, le porto a fiorire a chilometri di distanza e le rimetto a posto dopo che i fiori si sono richiusi.

Nel fare l'impollinazione ci troviamo di fronte a varie possibilità. Generalmente stami e pistillo sono nello stesso fiore {fiore ermafrodito), ma vi possono essere fiori con soli stami o con solo pistillo {fiori unisessuali, i quali possono essere monoici — in una casa unica — cioè maschi e femmine sulla stessa pianta, o dioici — in due case — cioè maschi su una pianta e femmine sull'altra).

Ma non solo nel caso dei fiori dioici è neces­sario avere almeno due piante. Anche quando i fiori sono ermafroditi è molto frequente l'auto-sterilità: quasi tutti i mesembriantemi, gli Astrop­hytum, molte Mammillaria, certi Gymnocalycium e altre sono autosterili: non si può avere feconda­zione fra polline e ovuli della stessa pianta. E la stessa pianta va intesa in un senso molto largo. Tutte le piante dello stesso clone, cioè derivate per via agamica dalla stessa pianta madre, anche quando vivono per conto proprio, magari dopo parecchi passaggi, sono rami della pianta dalla quale sono state staccate: non si può avere fe­condazione fra madre e figlie o fra una figlia e l'altra. Bisogna avere due piante di due cloni diversi.

(32) I tanti incroci che danno piante più forti e più resi­stenti, con fiori più grandi e più belli, li lascio fare agli specialisti e non li coltivo: preferisco le piante naturali.

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Quando si impollina. Come si impollina.

Le ore migliori sono quelle sul mezzogiorno o poco dopo: quasi tutti i fiori sono aperti (3j).

Nei fiori ermafroditi, generalmente è pronto prima il polline: quando il fiore si apre, spesso le antere esterne sono già aperte e polverose; le altre si apriranno poco dopo. Lo stimma, nelle cactee, ha ancora i lobi addossati uno all'altro, a colonnina: si apriranno a stella più tardi, spesso solo il giorno dopo. Il fiore può stare così, pron­to, anche per 2-3 giorni, chiudendosi la sera e riaprendosi la mattina. Quando il fiore si chiude definitivamente, il polline forma masserelle ag­glutinate, lo stimma avvizzisce: la fecondazione non è possibile.

Per l'impollinazione, il polline deve essere asciutto, polverulento. Sarebbe bene che lo stim­ma fosse già allargato, a stella, ma si possono avere buoni risultati anche prima.

Negli Astrophytum il fiore funziona per due mezze giornate. Il primo giorno si apre verso mezzogiorno e si chiude dopo 4-5 ore, i lobi dello stimma sono ancora uniti, a colonnina. Il secondo giorno si apre la mattina e si chiude definitivamente nelle prime ore del pomeriggio (34). Scambiando il polline fra un fiore appena aperto e uno aperto il giorno prima, si può avere il frutto da entrambi, anche da quello che, si sarebbe detto, non aveva ancora lo stimma pron­to. Ho provato anche ad aprire un fiore che naturalmente si sarebbe aperto solo il giorno do­po e a richiuderlo alla meglio dopo avere messo sulla colonnina dei lobi dello stimma alcune ante­re mature, di un fiore aperto. Qualche volta (non sempre!) ho avuto il frutto.

Ho anche aperto per forza e impollinato fiori maturi, ma che non si erano aperti perché il cielo era coperto. Fruttificavano regolarmente.

Invece non ho mai avuto frutto (e ho provato centinaia di volte: si fa tanto presto!), impolli­nando fiori di Cissus cactiformis appena aperti, ancora coi petali e gli stami. Anche questi fun­zionano per due giorni, ma il primo giorno solo da maschi, il secondo da femmine (pag. 176).

(33) I fiori di certi mesembriantemi (es. Lithops, Pleiospi-los) si aprono nel pomeriggio avanzato; quelli di Stomatium al tramonto. Quelli di certi Cereus si aprono e si chiudono definitivamente in una notte.

(34) Raramente e solo in giovani Astrophytum capricorne in giugno-luglio, ho visto fiori aprirsi per un giorno solo.

Si consiglia di passare un pennellino con peli molto morbidi sulle antere, in modo che si im­polveri di polline, e di passarlo poi sullo stimma da impollinare. Lo stimma potrà essere dello stesso fiore o di un altro fiore della stessa pianta, se è autofertile (Frailea, Rebutia, Lophophora ecc.). Se è autosterile, bisogna avere un'altra pianta della stessa specie fiorita contemporanea­mente o quasi. Se una pianta è fiorita e l'altra fiorirà fra pochissimi giorni, si può conservare il polline della prima, in una bustina o in un tubet­to: può resistere per 3-4 giorni (3^).

Quando si usa, il polline deve essere polveru­lento e asciutto: non si usi polline troppo invec­chiato, nel fiore o nel tubetto, a granuli aggluti­nati.

Non si annaffino piante con fiori aperti che si vogliono usare per l'impollinazione o che si sono impollinati da poco. L'acqua delle annaffiature o schizza via asportando il polline, o resta nel fio­re, facendo scoppiare e morire i granuli di polli­ne, rimasti sull'antera o portati sullo stimma.

In natura molte piante grasse fioriscono nella stagione delle piogge. E hanno imparato a difen­dere il polline dall'acqua. Moltissime, cactee e mesembriantemi, aprono i fiori solo quando c'è il sole, magari verso il tramonto: di notte, nelle mattine fredde e rugiadose, nelle giornate a cielo coperto, che può portare la pioggia, li tengono chiusi. Anche da noi, se facciamo ombra a una di queste piante, o la portiamo in casa, la vedia­mo chiudere i fiori in pochi minuti; e se la ripor­tiamo al sole, può darsi che li riapra, molto lentamente (con precauzione, viene voglia di di­re), ma può darsi anche, se li aveva chiusi a metà, che il movimento di chiusura continui an­cora, almeno per un certo tempo.

Il pennellino che si è usato per impollinare i fiori di una specie, prima di essere usato per un'altra, deve essere immerso in alcool, per fare morire i granuli di polline rimasti aderenti e im­pedire incroci non desiderati. Cominciai così an­ch'io; poi trovai più comodo usare pezzetti di filo di lana molto fine, nera (i granuli di polline,

i35) Ho provato anche a usare polline tenuto per un mese in frigorifero (due volte con polline di Astrophytum coahuilense e due volte con polline di Glottiphyllum): impol­linavo 3-4 fiori ogni volta, ma non ho mai avuto frutti.

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generalmente gialli, si vedono meglio), tagliati lunghi circa un centimetro: si afferrano con le pinze, si usano come i pennellini, dopo l'uso si buttano via e si pulisce la pinza. Invece del filo di lana può servire anche un mazzetto di barbe di penna morbide. Ancora più semplice è strap­pare con la pinza un ciuffetto di stami (attenti a non strappare anche lo stilo!) e toccare con le antere lo stimma. Questa operazione è quasi ne­cessaria per certi fiori (Epithelantha, Euphorbia, Cissus) che hanno pochissimi stami e quindi trop­po poco polline per disperderlo sul pennellino o simili (nei Cissus, poi, l'abbondante nettare im­pasta il polline, nel pennellino).

In certe cactee (36) si potranno osservare i movimenti degli stami. Se un insetto entra nel fiore di una di queste piante (Lophophora, Epi­thelantha, Coryphantha elephantidens Turbinicar-pus, Notocactus, Parodia, Opuntia bergeriana e altre) in cerca di nettare e urta i filamenti stami­nali, questi si curvano: l'insetto, uscendo, urta l'antera e si carica di polline più che se gli stami fossero rimasti diritti.

La reazione degli stami agli urti varia da una specie all'altra. In Turbinicarpus il movimento è lento e ridotto: quando tocchiamo gli stami, non notiamo quasi che si muovano, ma se guardiamo dopo qualche secondo, vediamo le antere sposta­te in dentro e addossate allo stilo, In certe Opuntia e nelle Epithelantha il movimento è già più evidente: lo stame si muove in direzione della parte che è stata urtata, tanto verso il cen­tro del fiore, cioè verso lo stilo, quanto verso l'esterno (Tav. 3, 6c), o in senso tangenziale. In Lophophora, in certe Coryphantha, Parodia, No­tocactus il movimento è molto più marcato e sempre verso lo stilo: il filamento si curva quasi a cerchio (37). Se per fare l'impollinazione strap­piamo con la pinza gli stami presso la base del filamento, può capitare di strofinare sullo stimma la curva del filamento stesso, e non l'antera, che la curva ha spostato in alto.

In certi fiori (es. Gymnocalycium saglionis fra le cactee, Argyroderma fra i mesembriantemi) lo stilo è brevissimo e lo stimma è quasi sul fondo del fiore: bisogna portare fin là il polline.

(36) I movimenti degli stami si hanno anche in altre fami­glie: nelle piante grasse li ho visti solo in alcune cactee.

(3/) Nel fiore della tavola 3, 6, gli stami sono sterili, ma si curvano come quelli fertili dei fiori normali.

Il frutto.

Il tempo necessario per lo sviluppo e la matu­razione dei frutti varia molto da una pianta al­l'altra: va dai 14-15 giorni degli Astrophytum che fioriscono in estate (ho avuto piantine nate 18-20 giorni dopo l'impollinazione del fiore) a un anno di certe Coryphantha e Mammillaria, I frutti dei mesembriantemi maturano in 5-6 mesi, ma i semi germinano solo dopo altri 5-6 mesi, cioè un anno dopo la fioritura (in natura, nella nuova stagione delle piogge).

Il tipo di frutto e il modo di raccogliere i semi variano naturalmente da una famiglia all'altra. Ricordo i frutti dalle più importanti famiglie che comprendono piante grasse.

Il frutto delle Asclepiadacee è formato di due follicoli (Tav. 12, 3) con semi appiattiti general­mente muniti di un ciuffo di peli che permettono il trasporto da parte del vento: si raccolgono i frutti preferibilmente appena si aprono e si strap­pa il ciuffo dal seme prima che i peli si allar­ghino.

I frutti delle Crassulacee sono formati di 4-5 follicoli piccoli, che contengono semi piccolissi­mi. Non conviene quasi mai raccoglierli. Le cras­sulacee si moltiplicano agamicamente (38).

I frutti delle Composite sono acheni, con o senza pappo di peli. Gli acheni dei Senecio grassi coltivati da noi sono generalmente vuoti.

II frutto delle Euforbiacee è formato da tre cocche, ciascuna con un seme, che a maturità si aprono di scatto, lanciando il seme a notevole distanza: ho visto nascere una Euphorbia obesa a quasi un metro e mezzo dalla pianta più vicina; ho letto di distanze anche molto maggiori. Per raccogliere i semi si possono raccogliere i frutti quasi maturi, quando cioè seccano gli stimmi e le cocche cambiano colore, e metterli in una garza o in una scatoletta, dove presto scattano. Si può anche usare una garza per avvolgere il ramo coi frutti o, per esempio nella E. obesa, coprire la pianta. Quando le cocche scattano, i semi resta­no trattenuti (Tav. 74, 3).

(38) Conviene raccogliere i semi della Crassula corallina, perché le piantine di seme sono più compatte che quelle delle piante vecchie. Bisogna raccogliere quelli del Sedum coeruleum, che è annuale e non si moltiplica agamicamente. Negli scambi di semi fra Orti botanaci arrivano spesso semi di Crassulacee: pochi germinano.

2S

Il frutto dei mesembriantemì (se si eccettuano i Carpobrotus, i fichi degli ottentotti) è secco, con più logge. Chiuso quando è asciutto, si apre quando si bagna. Si mettono i frutti nell'acqua e, quando si sono aperti, si agita: i semi escono e vanno a fondo. È bene, allora, sminuzzare i frut­ti e rimetterli in acqua e agitare ancora: molti semi erano rimasti trattenuti da pieghe del frutto o da peluzzi che rivestono le logge.

I frutti delle cactee sono generalmente carnosi. Molti crescono allo scoperto fino al principio (Opuntia, Astrophytum ecc.); hanno una buccia relativamente resistente, formata dal pericarpello e dall'ovario, e una polpa, spesso formata dai funicoli grandi e carnosi dei semi.

In altri generi restano per molto tempo picco­lissimi e invisibili, nascosti fra la lana dell'apice della pianta (es. Coryphantha) o nelle ascelle dei tubercoli o addirittura nel corpo della pianta: alla maturazione dei semi, cioè dopo alcuni mesi, il frutto cresce rapidamente e in pochi giorni rag­giunge il massimo dello sviluppo.

Non raramente, se la pianta ha un arresto di vegetazione, per esempio in seguito a trapianto, o anche per altre cause, i frutti, anche coi semi maturi, seccano senza crescere. I semi restano avvolti dal pericarpo sottilissimo, quasi come un sacchettino di stretta misura, che può rimanere nascosto per anni, o viene spinto fuori dalla pianta (Tav. 24, 3). Anche in piante normali i sacchettini secchi possono essere più numerosi che i frutti cresciuti. Una Epithelantha fungifera che per settimane aveva avuto tutti i giorni 5-10 fiori, fece settanta frutti: diciannove cresciuti e cinquantuno sacchettini. Nel 1962, cinque Mam-millaria pennispinosa fecero quattro frutti cre­sciuti e quindici sacchettini (39). I semi di questi sacchettini, se erano maturi e se non sono troppo invecchiati sulla pianta, germinano come quelli dei frutti cresciuti.

In certi generi {Astrophytum, Turbinicarpus e altri) i frutti si aprono maturando e non c'è che da estrarre i semi; in altri restano carnosi (anche per mesi, in certe Mammillaria). Se maturano a notevole distanza di tempo uno dall'altro, è bene

(39) Lo stesso KRAINZ, che ha fatto conoscere la Mam­millaria pennispinosa, scrisse che il frutto era lungo mezzo centimetro, e dovette poi correggere le descrizione: la prima pianta si era presentata con soli sacchettini.

raccoglierli man mano e metterli in una busta o in un recipiente aperto, nel quale seccano senza marcire. L'estrazione dei semi si fa poi mettendo i frutti a bagno nell'acqua: rinvengono e si pos­sono spappolare. Si mette la polpa in una pro­vetta con acqua e si agita: i semi si separano. Spesso però il fruttino, anche senza bagnarlo, si sgretola quando lo stringiamo e i semi restano liberi.

• • •

I semi sono quasi sempre piccoli, qualcuno piccolissimo. Fanno eccezione quelli di Jatropha podagrica, lunghi più di un centimetro e pesanti 15-16 centigrammi. Per altri ho dovuto pesare un campione (fino a 500 semi, per i più piccoli) e dividere il peso per il numero. Riferisco qualcu­no dei pesi medi trovati. Ficodindia 2 ctgr.; Eu-phorbia obesa 1 ctgr.; Astrophytum coahuilense 2 mgr.; Mammillaria hahniana 0,2 mgr.; Gymnoca-lycium saglionis 0,137 mgr.; Aztekìum ritteri 0,065. Dei mesembriantemì: Lithops lesliei 0,18 mgr.; L. pseudotruncatella 0,124; Lapidaria mar-garetae 0,057. Una bustina di semi di Dinterant-hus vanzijlii conteneva 572 semi, che pesavano 76 decimilligrammi, cioè circa 1/75 di milligram­mo ciascuno (non riuscii, quell'anno, a salvare nessuna delle minuscole piantine nate, benché li avessi seminati parte in primavera e parte in autunno).

Questi semi piccolissimi possono essere conte­nuti in gran numero in un frutto, specialmente nei rnesembriantemi: ho calcolato 500 semi in un frutto di Lithops pseudotruncatella, 800 in uno di Lapidaria. Gli otto frutti di Gymnocalycium sa­glionis della Tavola 28,1 contenevano circa 34.000 semi, più di 4.000 ciascuno; un altro, del­la stessa pianta, l'anno dopo (avevo impollinato il fiore con gran cura) ne conteneva più di sette­mila. In altre cactee invece, i semi si contano a decine, o a unità.

La germinabilità dei semi è generalmente con­servata per anni. Ho trovato citato, come estremi opposti, certi semi di Ariocarpus che germinano dopo trent'anni, e i semi di Frailea asterioides, che perdono presto la facoltà germinativa. Avevo troppi anni e troppo pochi semi per fare la prova con gli Ariocarpus. La feci con cento semi di Frailea asterioides, raccolti nell'agosto 1964. Nel settembre 1965, tredici mesi dopo la raccolta, ne

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seminai venticinque: ne germinarono ventiquat­tro. Nell'aprile 1966, venti mesi dopo la raccolta, ne seminai altri venticinque: ne germinarono ventuno. Nell'aprile 1967 seminai gli altri cin­quanta; ma la sera avevo altre specie da semina­re nella cassetta e la lasciai sul banco. La mattina le formiche avevano portato via i semi. La prova rimase a metà, ma per due anni la germinabilità non era diminuita di molto.

Nel 1948 raccolsi a Bordighera un migliaio di semi freschissimi di Cereus jamacaru. Ne semina­vo qualche decina tutti gli anni, per avere sog­getti per l'innesto di piantine di seme. Dopo 3-4 anni ne germinavano sempre meno: nel 1955 misi da parte gli ultimi, circa duecento, e ne cercai altri. Nel 1958 seminai quei duecento, a dieci anni dalla raccolta: nessuno germinò. Sia che si vogliano seminare per sé, sia che debbano servi­re per cambi, è meglio non tenere i semi per più di un anno (o due).

Anche seminandoli freschi, si ha talvolta una germinabilità molto bassa. Semi raccolti sulla stessa pianta in due anni successivi, e apparente­mente uguali, possono germinare tutti o quasi, o pochissimi o nessuno. Fra le piante che mi hanno dato le maggiori differenze di germinabilità fra un anno e l'altro, ricordo gli Astrophytum e pro­prio la Frailea asterioides: la germinabilità dei semi di cui avevo letto, era diminuita rapidamen­te, o era molto bassa o nulla anche prima?

In cinquant'anni di semine ho imparato a es­sere contento se mi germina la metà dei semi. E a seminare molto fitto: se nascono piantine trop­po fitte, le dirado. <

Quando e come si semina.

Si può seminare a calore artificiale (con ser-rette da camera, riscaldate con acqua calda o con una lampadina) o a calore naturale. Cominciai seminando a calore artificiale, in febbraio, ma le piantine che mi nascevano, forse per sbagliati rapporti fra calore, umidità e luce, non mi dava­no buoni risultati. Da una cinquantina d'anni semino a calore naturale, verso la metà di aprile. È già caldo e le piantine non debbono più teme­re danni per un abbassamento di temperatura: in giugno-luglio saranno quasi tutte abbastanza forti per sopportare il caldo estivo e, se necessario, qualche giorno di sete.

In serra, si può fare una semina anche ai primi di settembre. Qualche volta le ultime pian­tine della semina primaverile, specialmente i pic­colissimi mesembriantemi, soffrono (e qualcuna muore) per i primi forti calori estivi, se arrivano improvvisamente dopo giorni freschi e di cielo coperto. Le piantine nate in settembre crescono più rapidamente che quelle nate in primavera; nell'inverno le hanno quasi raggiunte e si posso­no trattare come queste. Si ha poi il vantaggio di potere seminare anche i semi raccolti o ricevu­ti nell'estate: anche i semi dei mesembriantemi raccolti in marzo-aprile, che seminati allora non sarebbero germinati, germinano in settembre. Tre Fenestraria nate in settembre fiorirono in aprile, a sette mesi. Si può guadagnare quasi un anno, fatto molto importante: per i giovani, che hanno fretta, e per i vecchi, che hanno imparato a non avere fretta, ma di anni ne hanno ancora pochini, davanti a sé.

La semina si fa in cassette (o vasi) alte 5-6 cm. I giardinieri che seminano migliaia di semi, usano cassette o terrine larghe, una o più per ogni specie. Noi, che seminiamo poche decine di semi per ogni specie, usiamo cassette piccole e le dividiamo in piccoli scompartimenti, uno per ogni specie, separati da listerelle di plastica o di alluminio. La forma delle cassette non ha impor­tanza: si possono usare anche vasi comuni, ma non troppo alti. Io adopero cassettine lunghe e strette, o gli abbeveratoi per pulcini dal commer­cio, non verniciati: sono lunghi 32 cm, larghi 9, alti 6 (misure interne 30 x 7 x 5): vi faccio due fori distanti circa 12 cm.

Sul buco, o sui buchi, del fondo si mette il solito coccio, con attorno mattone pestato o sab­bia piuttosto grossa, poi uno strato di sabbia più fine e sopra questa il terriccio per i semi. Il quale deve essere permeabile, magro e piuttosto fine. Si può preparare mescolando un parte di terriccio di foglie setacciato fine (mezzo millime­tro circa) e due di sabbia, non calcarea, grossa circa un millimetro. Si può aggiungere torba set-tacciata fine, o mattone pestato, grosso circa 1 mm, senza polvere: anzi BUXBAUM consiglia di seminare in solo mattone pestato. Quanto più magro è il terriccio, tanto più sarà facile mante­nere sana la coltivazione. Si può sterilizzare il terriccio, riscaldandolo, qualche giorno prima di usarlo. La sterilizzazione non mette al sicuro da

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malattie (le particelle di polpa che aderiscono ai semi, l'acqua delle annaffiature, il pulviscolo del­l'aria portano presto spore di alghe, di funghi): impedisce che da semi minutissimi, presenti nel terriccio, nascano erbe (Oxalis, parietarie ecc.) che disturbano la coltivazione.

Il terriccio si tiene circa 1 cm al di sotto dell'orlo della cassetta: un po' più basso, se poi vi si mette sopra un vetro.

I semi debbono essere liberati da avanzi di polpa o da altra sporcizia. Si consiglia di lavarli, magari stropicciandoli fra le dita, con una solu­zione all'I per mille di permanganato di potassio e di asciugarli prima di seminarli.

La larghezza dei singoli scompartimenti di­pende dal numero dei semi che vi si vogliono seminare e dallo sviluppo delle piantine che ne dovranno nascere. Si va da poco più di un centi­metro per pochi semi di cactee basse (Mammilla-ria ecc.) o di mesembriantemi nani (es. Lithops) a due centimetri o più per Cereus, opunzie, eu­forbie ecc. Messi a posto i divisori, piantandoli nella terra, ma lasciandoli sporgere per circa mezzo centimetro, si spargono i semi. Se sono molto piccoli, si mettono su un cartoncino piega­to e si fanno cadere con piccole scosse.

Si abbia l'avvertenza di non seminare una accanto all'altra due specie che si somigliano troppo. Per quanta cura si abbia, può capitare che qualcuno dei minutissimi semi cada, invece che nel suo scomparto, in quello vicino, e le piantine si possono confondere, specialmente se si tratta di specie che si coltivano per la prima volta.

E non si seminimo vicine nemmeno piante a sviluppo troppo diverso. Può capitare di vedere nascere dai semi minutissimi di certi mesem­briantemi (Fenestraria, Pleiospilos) piantine che in pochi mesi hanno foglie di 2 cm e più e coprono del tutto le piccole cactee vicine, alte 3-4 millimetri. Si cerchi di mettere queste specie alle estremità della cassetta: se danno fastidio, si trapiantano.

I semi minuti non vanno coperti: si premono un po' con un dito o con uno stecchino in modo che siano del tutto circondati dalla terra. I semi grossi più di un millimetro si coprono con un po' di terra.

Si consiglia di mettere in ogni scompartimen­to una etichetta col nome della pianta, o almeno

con un numero, dato che il nome richiederebbe una etichetta troppo grande. Ma il numero ri­chiede un quaderno, o almeno un foglio, che faccia da protocollo. Un foglio o quaderno è sempre necessario, ma credo che sia meglio farvi una mappa, e non mettere nella cassetta nessuna etichetta. Si ha lo spazio più libero, e si è sicuri che non avvengono spostamenti, che non potreb­bero essere esclusi, specialmente in un luogo aperto al pubblico.

La cassetta coi semi viene annaffiata dal bas­so. Si mette a bagno in una bacinella con acqua, la quale deve restare a un livello inferiore a quello della terra della cassetta. L'acqua entra dai fori del fondo e sale per capillarità fino a bagnare tutta la terra. Se l'acqua della bacinella arriva a un livello superiore a quello della terra, i semi possono venire a galla e spostarsi. La cas­setta, levata dal bagno, si copre con un vetro e si mette in una posizione calda e luminosa, ma riparata dal sole troppo vivo.

La faccia inferiore del vetro si appanna e vi si possono formare anche grosse gocce d'acqua. È bene asciugarla.

I risultati migliori si hanno tenendo le semine a temperatura fra i 20 e i 25 gradi: non dobbia­mo temere lievi sbalzi di temperatura, frequenti anche in natura. Anzi, si è visto che, dopo certe «scosse» di temperatura (cessazione del riscalda­mento artificiale ecc.), germinavano semi che «dormivano» nel terreno da mesi.

La germinazione comincia generalmente dopo pochi giorni: gli Astrophytum e certi mesem­briantemi dopo 3-4 giorni. Altre specie comincia­no solo dopo 10-12 giorni; le Opuntia dopo qual­che settimana. Anche nella stessa specie si posso­no avere germinazioni a distanze notevoli da un seme all'altro: anche di qualche mese. C'è chi consiglia di scartare le piantine che nascono in ritardo, perché saranno deboli e tardive anche nel crescere. Non me ne sono accorto.

Le piantine spuntano generalmente incappuc­ciate dal guscio del seme. Non si abbia fretta di liberarle: spesso si leva il cappuccio, ma non raramente si rompe la piantina o si strappa dal terreno e bisogna ripiantarla.

Capita non raramente che la piantina non spunti diritta, e che la radice, invece di affondar­si nel terreno, vi strisci sopra. Con una pinza o uno stecchino si fa nella terra una buchettina, vi

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si mette diritta la piantina con la radice a posto e si rincalza con sabbia fine e asciutta, che si può premere, molto leggermente.

I gusci dei semi, caduti o levati quando non c'è più pericolo di danneggiare la piantina, vanno buttati via: ingombrano e possono diventare cen­tri di formazione di muffe. Si levino e si buttino via anche le piantine che qualche giorno dopo la nascita sono ancora bianche: se si lasciano, muoiono, marciscono e ammuffiscono.

Le piantine normali e sane, che erano bian­che appena spuntate, fin dai primi giorni diventa­no verdi (o rosse, es. Astrophytum myriostigma, o verdibrune, es. Ariocarpus).

Quando cominciano a nascere le piantine, bi­sogna dare più aria alla cassetta e diminuire l'u­midità: si solleva il vetro da una parte, prima di poco, tenendolo sollevato con un coccio, poi sempre di più. Quando le piantine sono cresciute (le cactee cominciano a formare le areole, le euforbie a formare il fusticino sopra i cotiledoni) il vetro si può togliere del tutto.

Non si lasci asciugare del tutto la terra: secca­no i peli assorbenti, può morire la piccolissima radice e la piantina può morire, o avere un arre­sto di vegetazione, finché non si è formata una nuova radice.

Ancora per qualche tempo si annaffia dal basso: una annaffiatura dall'alto, anche se l'an­naffiatoio ha i fori molto piccoli, scalza le pianti­ne e le sballotta qua e là. Si comincia ad annaf­fiare con la brocca, e con precauzione, quando le piantine sono bene ancorate al terreno.

E allora si comincia a lasciare asciugare il terreno in superficie, fra una annaffiatura e l'al­tra. Anche se prima della semina si era sterilizza­ta la terra, l'umidità costante per settimane causa spesso chiazze bluastre, o verdi, o grigiastre for­mate da alghe microscopiche. Queste chiazze, prima piccole e isolate, crescono poi e si unisco­no una all'altra, formando una pellicola che in­globa le particelle superficiali della terra. Quan­do la terra si asciuga, si forma una crosta che tende ad arrotolarsi e certe volte arriva a solleva­re le piantine e a staccarle dal terreno. Si può prevenire questo danno rompendo la crosta con una pinza, in modo che non possa arrotolarsi in pezzi grandi, o trapiantando le piantine in terra fresca, o, dato che spesso la formazione di alghe è favorita dal terreno alcalino, dando un po' di

acido nitrico molto diluito (4-5 gocce di acido nitrico in un litro di acqua), che corregge l'alcali­nità e impedisce la formazione delle alghe, spe­cialmente quelle azzurre, le peggiori (40).

• • •

Da alcuni anni adopero per le semine due cassette, una dentro l'altra. Semino in una cas­setta fatta da me, (o in un abbeveratoio per pulcini) che riempio di terra fino quasi all'orlo e, dopo la semina e l'annaffiatura, la metto in una cassetta del commercio (25-35 x 15 X 12 cm circa), e metto il vetro su questa (Tav. 4, 1).

Mi pare di averne i seguenti vantaggi:

1) Divisioni in fila semplice, che rendono più spiccia la lettura della mappa. Nelle cassette lar­ghe, che si vedono nei libri, la superficie è divisa in senso trasversale, longitudinale, obliquo. Non è un guaio irrimediabile, ma complica un poco la mappa e la sua consultazione: può essere quasi necessaria l'etichettatura, col nome della pianta o un numero.

2) La cassetta interna in principio è appog­giata su uno strato sottile di sabbia sul fondo della cassetta grande. La superficie della terra è a 3-4 cm di distanza dal vetro: si ha una camera d'aria umida più grande, le pareti della cassetta interna evaporano molto meno acqua, la tempe­ratura e l'umidità restano più costanti e la terra ha meno bisogno di essere bagnata di nuovo.

3) Quando le piantine hanno bisogno di più luce, si aumenta lo strato di sabbia sul fondo della cassetta grande e la cassetta interna viene portata più vicina al vetro.

4) Quando si vuole dare aria, un filo di ferro piegato, dentro la cassetta grande, permette di tenere sollevato il vetro. Regolando le piegature del filo, il vetro può essere sollevato da pochi

(40) BUXBAUM lo consiglia, altri lo sconsigliano, perché l'acido danneggia le piante, o addirittura i vasi. Io l'ho provato e ne sono stato contento. Dò una passatina rapida con la soluzione acida e subito annaffio, lavando le piantine. Ho visto fermare e ridursi la crosta e, in certe piantine con spine piccole e fitte {Epithelantha, Turbìnicarpus) diminuire e scomparire piccole croste formate dalla calce dell'acqua, che dalla terra bagnata sale, passando da una spina all'altra. Quando evapora, l'acqua lascia sulle spine la calce, che accumulandosi per settimane forma la crosta. Anche quando non scompare, con l'acido questa crosta si rompe, si sfalda e si stacca più facilmente dopo alcune annaffiature.

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millimetri a qualche centimetro, permettendo la circolazione dell'aria in tutti i sensi.

5) Le cassette possono stare all'aperto d'esta­te (e le piantine hanno il caldo del giorno e il fresco della notte) e anche durante i temporali. Bisogna avere l'avvertenza di fare gli uncini ter­minali del filo piuttosto stretti, per impedire che una folata di vento faccia volare via il vetro (mi capitò, in principio), usare un vetro grosso, che possa resistere a chicchi di grandine di 1-2 cm, e piuttosto grande (quello della figura va bene in serra, ma all'aperto è un po' piccolo; l'acqua di un acquazzone violento, che cada obliqua per il vento, può raggiungere le piantine più in fuori e scalzarle).

Se si vogliono ombreggiare le piantine, si può imbrattare il vetro con acqua e calce, o argilla. Se se ne vuole ombreggiare solo una parte, si abbia l'avvertenza di seminare quelle più sensibili al sole (Mammillaria poco spinose, Conophytum) verso la metà della cassetta e di tingere il vetro pure verso la metà: le piantine sotto avranno il sole la mattina e la sera, e saranno all'ombra nelle ore più calde.

Un filo di ferro così piegato, ma più grande si può usare, in una cassetta bassa da frutta (di quelle dei fruttivendoli) o anche senza, per copri­re 3-4 cassette con le semine di anni precedenti.

77 trapianto.

Spesso si trova consigliato di trapiantare, special­mente le cactee, appena le piantine emettono le prime spine e magari una seconda volta in luglio. Si otterrebbe una maggiore rapidità di sviluppo. Era anche in commercio un semplicissimo tra­piantatoio, formato da un filo metallico robusto, terminato a un estremità a piede di porco. Lo feci e l'usai per qualche anno, poi ho smesso di trapiantare le singole piantine di poche setti­mane.

Per quanta cura si abbia, i minutissimi peli assorbenti si rompono o si sciupano sempre, e spesso si rompe anche la radice: la pianta ne soffre. Se le piantine non sono a contatto una con l'altra, si possono lasciare stare. Se proprio sono troppo fitte, si diradano sollevando con una pinza una zolletta di terra, che porta alcune piantine con le loro radici. Queste zollette si mettono a posto, senza cercare di dividerle, per

non rovinare le radici, in una miscela di terriccio da semina e di terra, di quella che si usa normal­mente per la coltivazione. Si hanno nuove colo­nie, le cui piante hanno attorno lo spazio per crescere.

Il foro rimasto dove si è levata la zolletta si riempie di terra da coltivazione. Anche qui le piantine circostanti hanno nutrimento e spazio per ingrossare. Il trapianto di queste si può fare l'anno dopo: più robuste, con radici più grandi e ramificate, lo sopporteranno molto meglio.

Ho provato a tenerne anche per 3-4 anni nella cassetta della semina, aiutandole con annaf­fiature con sali nutritivi o anche con la semplice acqua del pozzo. Specialmente i mesembriantemi nani, sobri come sono, crescono bene e arrivano a fiorire.

La rapidità della crescita non è sempre pro­porzionale alla grandezza che le piante avranno da adulte. I grandi Cereus, le euforbie, Jatropha sono generalmente, anche giovanissimi, i più svelti a crescere (41), ma certe cactee nane (Re-butia, Mammillaria denudata, M. mercadensis), che arriveranno poi a 3-4 cm al massimo, cresco­no, nei primi 2-3 anni, come quelle che adulte saranno molto più grandi (Gymnocalycium, Astrophytum) e possono cominciare a fiorire. Ariocarpus kotschubeyanus e A. agavoides, i due nani del genere, ci mettono 8-10 anni a raggiun­gere i 3 centimetri di diametro e a fiorire, ma VA. fissuratus, alla stessa età è poco più grande, ha l'aria ancora «infantile» e comincia appena a formare le fessure sui tubercoli.

È interessante osservare i cambiamenti che si hanno in molte piante, specialmente fra le cac­tee, nel passaggio dalla forma «infantile» alla forma adulta, definitiva (Tav. 97).

Tutte le cactee, nei primi mesi di vita,.hanno le spine, anche quelle {Lophophora, Ariocarpus, Astrophytum) che non le avranno più negli anni successivi. Le spine piumose, rare nelle piante adulte {Mammillaria pennispinosa, Turbinicar-pus) sono frequenti nelle giovanissime (difesa dal sole e dal vento? superficie che assorbe e trattie­ne l'umidità della notte e della mattina?).

UE chino cactus grusonii, nei primi due anni, è

(41) Ma si legge che le piantine di Carnegiea gigantea, a due anni d'età, sono alte solo un quarto di pollice (6-7 mm).

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rosso, e anche dopo ha, per alcuni anni, le coste divise in tubercoli (l'ho visto con l'etichetta Mammillaria). Pelecyphora e Ariocarpus hanno già, giovanissime, la radice ingrossata, a ravanel­lo. La Pelecyphora ha il fusticino cilindrico e solo dopo alcuni anni comincia a ingrossarlo a clava. \J Ariocarpus kotschubeyanus ha i tubercoli lun­ghi e sottili, accostati quasi a formare un tubo: poi li fa più brevi e larghi, e solo poco prima di fiorire si allarga a formare la superficie superiore piana.

Nei Gymnocalycium saglionis di 3-4 anni la lunghezza delle spine supera spesso il diametro della pianta. In Mammillaria hahniana le setole alle ascelle dei tubercoli compaiono solo in pian­te di 2-3 anni, ma presto la loro lunghezza può essere il doppio o più del diametro della pianta (Tav. 97, 2).

Nei giovanissimi Echinofossulocactus le spine centrali, molto lunghe, sono erette per un tratto, poi piegate, e formano quasi un intreccio che adombra la piantina, già avvolta e quasi coperta dalle spine radiali molto fitte.

Certe Mammillaria (es. denudata, guerrero-nis) possono avere da giovani spine centrali unci­nate, che più tardi non faranno più.

Le piante descritte, in principio, come Turbi-nicarpus schwarzii e T. polaskii sono poco diver­se da adulte, e collegate da tante forme interme­die, che certi botanici non le ammettono come specie distinte. Ma se è difficile o impossibile distinguere le due piante adulte, non è possibile confondere le giovani, fra i sei mesi e i tre anni d'età, per le differenze fra le spine (Tav. 52, 5).

Certe Coryphantha, che da adulte hanno grandi areole con spine radiali e grandi spine centrali, da giovani hanno solo piccole areole con brevissime spine tutte radiali (C. werdermanniì). Le giovanissime C. retusa hanno da giovani una quindicina di spine radiali, tutte sottili e uguali, poi compaiono grandi spine centrali e nella pian­ta adulta le radiali vere, sottili sono ridotte a 2-3, nella parte superiore dell'areola.

/ nuovi arrivi

Appena arrivate, le piante nuove vanno esa­minate con cura, per vedere se vi sono parassiti o segni di malattie.

Cinquant'anni fa, le piante grasse non erano «di moda» in Italia e le facevo venire dal Belgio e dalla Germania. Erano sempre spedite senza vaso e senza terra e l'esame era inutile o quasi. Adesso si trovano dai fiorai, in minivasi. Quelle che si comprano dai fiorai-rivenditori, che le ri­cevono dai produttori, sono sane e senza parassi­ti. Basta levarle dai vasi, sempre troppo piccoli, e metterle in vasi più grandi, con terra più magra.

Non altrettanto si può dire delle piante che si trovano da colleghi dilettanti o da giardinieri non specializzati, che magari le hanno da anni e non le hanno mai curate. E qualche volta proprio questi hanno piante che non si trovano in altro modo e che dispiace non avere.

Per le cactee è bene cominciare con una ener­gica lavatura generale. Si apre il rubinetto del­l'acquedotto e con un dito si lascia uscire solo un getto sottile ma violento, dal quale si fa investire la pianta, rigirandola in tutti i sensi. L'acqua asporta tutta la terra fra le radici e, se vi sono, i pidocchi delle radici e del fusto. Se non vi sono, nelle radici, tubercoletti causati dalle anguillule, la pianta si lascia asciugare e riposare per un paio di giorni, poi si rinvasa. Se vi sono nodi da anguillule, si può provare di combatterle (pag. 41), ma forse è meglio bruciare tutto.

• • •

Un cenno a parte meritano le importazioni. Con questo nome si intendono piante, special­mente cactee, ma anche mesembriantemi, eufor­bie e altre raccolte nei loro paesi di origine e spedite in Europa. Nei cataloghi degli specialisti stranieri si vedono spesso offerte importazioni semiacclimate o d'importazione recente, queste ultime, almeno una volta, a prezzi molto bassi.

Anch'io, fra il 1922 e il 1932, ne comprai alcune decine: erano piante già abbastanza gran­di, di aspetto caratteristico (non panciute, lucenti come erano spesso le piante coltivate qui), con spine enormi in confronto con le nostrane e mol­to più vivacemente colorate. I risultati però era­no generalmente poco buoni. Alcune vivevano bene e crescevano (gli Astrophytum,. compreso Yasterias che è piuttosto delicato, Leuchtenber-gia, Cephalocereus); altre (Pelecyphora, Ariocar­pus ecc.) vivacchiavano un paio d'anni poi mori-

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vano; altre morivano senza nemmeno accennare a vegetare. I tentativi di aiutarle con l'innesto qualche volta davano buoni risultati, qualche vol­ta no.

Nel 1933 fu proibita in Italia Vimportazione di piante, parti di piante e frutti di cactacee da tutti i Paesi esteri «in vista del pericolo di introdurre insetti, nematodi, funghi e batteri dannosi al fico d'India». Non so se il fico d'India ci entrasse davvero. Mi pare più attendibile quello che mi disse un importatore svizzero: il divieto doveva proteggere le coltivazioni italiane che si andava­no diffondendo specialmente in Riviera e che dalle importazioni erano danneggiate direttamen­te e indirettamente. Direttamente perché i nostri coltivatori non potevano resistere alla concorren­za di quei prezzi (42); indirettamente perché noi inesperti, allettati da quei prezzi, le comprava­mo, non le sapevamo trattare e ce le vedevamo morire. C'era chi si disgustava, non delle impor­tazioni, ma delle piante grasse in genere, «troppo difficili da tenere».

E le importazioni erano davvero molto diffici­li da trattare. Sono generalmente piante vecchie (nel deserto crescono più lentamente che da noi) raccolte nel periodo di riposo, cioè dopo mesi di siccità, esauste, coi tessuti rinsecchiti e quasi le­gnosi, con cuticola grossissima che doveva difen­dere la scarsa riserva d'acqua dal sole e dal vento del deserto. Nella raccolta le radici si strappano quasi tutte, e il mozzicone muore in gran parte nei mesi che passano fra la raccolta, l'ammassa­mento, il viaggio per terra e per mare, la sosta presso l'importatore e dopo (la sosta dei pacchi alla dogana italiana durava anche più di un me­se). Alla raccolta e durante il viaggio, le piante non raramente riportano ammaccature e ferite, che possono essere punto di partenza di infezioni e marciume. Spesso l'avanzo della radice o la base del fusto si coprono di uno strato di sughero attraverso il quale non possono uscire le nuove radici.

(42) Nel 1932 un giardiniere di Bologna importò un mi­gliaio di cactee a un prezzo medio di undici cent, franco Orizaba, più il 20% di spese: il dollaro costava circa 19 lire. I prezzi singoli andavano dai 4-8 cent per le Solisia pectìnata ai 14-30 per i Cephalocereus senilis (due piante alte più di mezzo metro 75 cent l'una), 15-18 per VEchinocactus ingens (un dollaro per una pianta di 35 centimentri).

Piante in queste condizioni richiedono tratta­menti speciali per essere salvate.

Bisogna ripulirle accuratamente, magari la­vandole con un violento getto dell'acquedotto, liberarle dalle parti morte o ammalate, riabituar­le alla luce, dopo mesi di buio, abituarle al no­stro clima e alla nostra terra. Spesso, data la perdita della maggior parte delle radici, bisogna trattarle come talee, tenerle al caldo e all'ombra per un certo tempo, in terriccio molto sabbioso, o meglio ancora, coi mozziconi delle radici in contatto solo con sabbia o con carbone sminuzza­to. Non si debbono annaffiare, ma spruzzare leg­germente ogni tanto. E aspettare, magari qual­che mese.

E noi dilettanti, un po' per mancanza di pra­tica, un po' per la fretta di vedere crescere le nostre belle piante, le forzavamo e facevamo mo­rire. L'ostracismo alle importazioni quindi ci danneggiava poco: spesso anzi ci risparmiava spese e delusioni. Ci danneggia invece il divieto generalizzato di importazione da tutti i paesi esteri, che, fra l'altro, ci impedisce di avere le piante che continuamente si vanno conoscendo.

Dopo la guerra ho provato ancora a prendere importazioni di piante che in Italia non potevo trovare. Le andavo a scegliere io dagli importa­tori: andavo coi miei doppi (in Svizzera l'impor­tazione è libera) e ritornavo con le nuove piante in tasca. Sceglievo le piante più giovani (43), e quelle con le radici meno malridotte (qualcuna stava addirittura emettendo nuove radici).

Non so se fosse per la raccolta in condizioni migliori o per il trasporto più rapido, il risparmio della sosta di settimane alla dogana: è certo che i risultati furono molto buoni. Dopo 20-30 anni e senza avere quasi mai dovuto ricorrere a salva­taggi con l'innesto, conservo ancora la maggior parte di quelle piante: Pelecyphora, Ariocarpus, Turbinicarpus, Epithelantha ecc. Altre (Epithe-lantha, Neolloydia) mi sono morte dopo avere per anni fiorito e dato semi, e ne ho ancora le discendenti. Pochissime (es. Echinocactus hori-

(43) Quanto più una pianta è giovane, tanto più si può sperare di salvarla. Ed è più piccola di una pianta vecchia della stessa specie, vantaggio non indifferente, per un «con­trabbandiere» che viaggia in treno e la deve nascondere in tasca.

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zonthalonius, Echinomastus unguispinus) mi sono morte, come avevano fatto cinquantanni fa, sen­za accennare a vegetare (44).

Tre consigli per chi può avere importazioni: 1) Cerchi di avere almeno due piante per

ogni specie: avrà la possibilità di avere semi an­che se si tratta di piante autosterili, e, in ogni caso, maggiori probabilità di salvarne almeno una.

2) Non prenda piante a grandi spine: i Fero-cactus, tanto «fieri» all'arrivo, crescono stentati per anni e fanno spine misere, più piccole di quelle delle piante nate qui; gli Echinofossulo-cactus crescono bene, ma anch'essi con spine mi­sere.

3) Cerchi sempre, fra la lane dell'apice o fra le basi dei tubercoli superiori (4:>), frutti o sac-chettini di semi. Ne potrà avere piante della pu­rezza delle quali si potrà fidare più che di quelle coltivate qui.

Finché ho potuto, conservavo le importazioni morte: mi davano il modello da imitare nelle piante che coltivavo. Può essere più utile una importazione morta che una pianta viva imba­stardita o alterata da una coltivazione sbagliata.

Divieto di importare cactee

Il divieto importazione delle cactee non è stato abrogato ufficialmente, ma nell'interno della Comuni­tà Economica Europea tutte le piante, cactee compre­se, possono circolare purché accompagnate da un cer­tificato fitosanitario rilasciato dal Paese di provenien­za. In parte per questo, in parte per la maggiore coltivazione che se ne fa anche in Italia, quasi tutti i

(44) Il divieto di importazione era già stato mitigato. Si potevano importare cactee a scopo di studio e sperimenta­zione: bastava ottenere di volta in volta l'autorizzazione del Ministero dell'Agricoltura e tenere le piante alla Stazione sperimetale di floricoltura di Sanremo per almeno un ciclo vegetativo. Avevo poche speranze nel Ministero, ma andai a Sanremo, a chiedere informazioni. Mi dissero che non ave­vano mai avuto piante in quarantena e che, se ne avessi fatto mandare, non avrebbero saputo dove metterle, perché non avevano né spazio né personale. Trovai più semplice fare una comitiva di ventidue persone e andare a Zurigo a ritirare le piante. La sera in treno ce le dividemmo per nasconderle alla dogana. Vidi che non era difficile, e le altre volte ci andai da solo.

(45) Ho trovato spesso semi in sacchettini anche vicini alla base delle piante: erano troppo vecchi e non germinava­no più.

fiorai adesso hanno cactee che qualche anno fa era difficile, o addirittura impossibile trovare anche dagli specialisti: specie rare e nuove, ibridi, piante crestate e mostruose. Un giorno ho visto, da un importatore, più di mille cactus-fragola.

Quasi tutte le cactee sono innestate su Hylocereus, in vasetti piccolissimi di plastica (il vasetto di terracot­ta è praticamente scomparso), con un terriccio che pare formato per la massima parte di torba, con po­chissima sabbia molto fine.

Io rinvaso subito le piante, togliendo una parte della torba (non tutta, anche per non rovinare le radici sottili) e mettendole in un vaso un poco più grande, con la terra che uso da tanti anni: tutte cre­scono bene.

Le piante crestate

Individui crestati si possono trovare in moltis­sime specie di piante, grasse o non grasse: in commercio si trovano specialmente le cactee.

Le forme crestate sono date da una anomalia {fasciazione) dell'apice vegetativo. Il fusto si divi­de in rami tutti disposti sullo stesso piano, in modo che la pianta, invece di crescere cilindrica o conica, si appiattisce. I rami possono separarsi uno dall'altro (46), o restare uniti in modo che la pianta assume l'aspetto di una cresta, o di un ventaglio aperto. Crescendo ancora, il ventaglio forma pieghe (a ventaglio più o meno chiuso) o curve, e può arrivare a formare circonvoluzioni più o meno complicate: la Mammillaria della Tav. 99, 3 ricorda il cervello di un animale.

In una stessa pianta si possono trovare rami crestati e rami normali: si vedono rami crestati crescere su rami normali e viceversa (47).

(46) In certe piante il fusto si divide normalmente in due rami che si separano subito: si ha una ramificazione dicoto­mica. La Mammillaria parkinsonii si ramifica così, dicotomi­camente; altre possono avere all'apice la ramificazione dico­tomica ed emettere in basso rami laterali. In certi Astrophy-tum (io l'ho visto solo in A. myriostigma nudum) si può avere, nei primi mesi di vita, un accrescimento a cresta, con divisione in due o più fusticini normali, dei quali general­mente uno solo si sviluppa: gli altri scompaiono subito. Una sola, delle nostre piante, cresce con due fusti.

(47) I nove rami del Nyctocereus serpentinus (Tav. 98, 3) si allungarono ancora, si curvarono fino a terra, emisero radici, si affrancarono e crebbero normali. Li staccai; la pianta ne emise altri, tutti normali. Non abbiamo più N. serpentinus crestati. Avevamo perduto anche YOpuntia vesti­ta crestata: la pianta emetteva sempre rami cilindrici; la parte crestata, invecchiata, è morta. Ma la pianta è comune in commercio ed è facile sostituirla.

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La fasciazione è una deformità, non una ma­lattia. Le piante crestate crescono rigogliose (la Mammillaria della figura è larga 25 cm: l'ho dal 1938 e per più di vent'anni ne staccavo rami crestati e rami normali per farne talee): general­mente, però, le cactee hanno, sui rami crestati, le spine, specialmente le centrali, più piccole, e fioriscono raramente. Delle nostre, ho visto fiori­re solo le Epithelantha poco crestate e la Mam­millaria wildii.

Non si sa a cosa siano dovute le fasciazioni: si vedono attribuite a un eccesso di vigore che ha bisogno di sfogarsi; se ne sono viste comparire dopo scottature, dopo lesioni meccaniche (schiac­ciamento della parte superiore o altre), per attac­chi di insetti, con o senza inoculazione di funghi parassiti ecc.

Per ottenerle artificialmente c'è chi consiglia di fare, sull'apice delle piante normali, compres­sioni, punture con aghi, tagli, con o senza l'a­sportazione della punta. Altri escludono che se ne possano avere risultati (48).

Nella pratica, le forme crestate si moltiplica­no per talea o per innesto. Secondo alcuni, dai semi delle piante crestate si possono avere piante crestate (49), secondo altri, no.

Si possono avere altre deformazioni [piante mostruose): ramificazione disordinata, con rami fitti a molte coste ammassate, interrotte, contor­te {Cereus peruvianus monstrosus, comunissimo

(48) Nel 1972, per moltiplicare una Echeveria agavoides normale, la divisi a metà. Le due mezze piante crebbero normalmente per due anni, poi entrambe diventarono cresta­te. Per il taglio o per qualche altra causa? All'ascella di una foglia mezzo tagliata nella divisione, si sviluppò un ramo, che è cresciuto normale. Ho asportato tutto l'orlo di una Euphorbia lactea crestata, per obbligarla a emettere rami laterali. Finora ne ha emesso sette: nessuno è crestato.

(49) È quello che si ha, fuori dalle piante grasse, nella cresta di gallo dei giardini {Ceiosia cristata L.), erba annuale che quindi bisogna riprodurre per seme: si hanno normal­mente piante crestate.

Dai semi delle nostre Mammillaria geminìspina normali nasce qualche pianta crestata. Non posso escludere che qual­cuna delle piante madri derivi dalla nostra crestata, ma il tipo di fasciazione mi sembra diverso: la pianta vecchia e quelle che ne abbiamo avuto per talea hanno creste abba­stanza regolari, grosse un paio di cm, e hanno anche rami normali. Quelle di seme, anche dopo 10-12 anni, hanno creste fitte e aggrovigliate, grosse 3-5 mm e non hanno nessun ramo normale (Tav. 99, 4).

I rami cilindrici del Notocactus scopa, finché sono sulla pianta crestata, non fioriscono; innestati su E. jusbertii fiori­scono e danno semi. Ne ho avuti centinaia di piante figlie: nessuna è crestata.

dai fiorai ecc.). UOpuntia tuna, che normalmen­te ha gli articoli appiattiti, può crescere cilindrica o quasi, con ramuscoli a ogni areola. In Tricho-cereus bridgesii,mvece, si può avere la scomparsa quasi totale delle coste e delle areole (Tav. 53, 3-4).

Le piante mostruose si moltiplicano agamica­mente: si trovano spesso innestate, ma basta la talea.

Cereus peruvianus mostruoso fiorisce e frutti­fica: i suoi semi danno una notevole percentuale di piante mostruose.

Malattie e parassiti

Se sono tenute bene (terra adatta, aria e sole, annaffiature non eccessive) le piante grasse si mantengono sane facilmente.

La malattia più grave, specialmente delle cac­tee e dei mesembriantemi, è il marciume. Colpi­sce le piante tenute in terra troppo grassa, o al freddo umido. Comincia generalmente dalla radi­ce, poi si estende al fusto. Ed è allora che ce ne accorgiamo.

Per prevenirlo si usi terra di foglie ben matu­ra e in quantità non eccessiva, non si annaffi troppo presto dopo il trapianto, e anche dopo si lasci "asciugare la terra fra una annaffiatura e l'altra.

Per curarlo, si taglia la pianta nel tessuto sano, sopra la parte marcita. Questo non è sem­pre facile nelle piante basse: quando ci accorgia­mo della malattia, la pianta spesso è già perduta. Ma è sempre bene tentare. Se tagliando vedia­mo, nel tessuto bianco sano, macchie o punti gialli, specialmente in corrispondenza dei fasci, significa che la malattia è già arrivata fin lì, e bisogna tagliare ancora più in alto, finché si arri­va alla parte sana. Dopo ogni taglio, si disinfetti il coltello con l'alcool, per non portare più in su l'infezione.

La parte sana potrà servire come talea, o come marza per un innesto. Abbastanza spesso (non sempre!) si riesce a salvarla.

Da parecchi anni lascio fare alla natura. Nella primavera 1945, al nostro Echinocactus grusonii, grosso 30 cm marcì la radice (D°), e anche nel fusto, attorno al cilindro centrale, pure marcito, si era fatta, nella polpa, una colonna marcita

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che, larga alla base 7-8 cm, arrivava a pochi centimetri dall'apice della pianta. Era inutile ta­gliare: non potevo fare una talea larga 25 cm e alta tre o quattro; non potevo pensare a un inne­sto con una marza di quelle dimensioni. Misi la pianta, vuotata dal marcio, su un banco al sole, a morire in pace. Ma nell'agosto spuntarono radici in fondo al buco, alla base di quel po' di cilindro centrale rimasto sano. Riempii la cavità di sab­bia, che bagnai perché non scorresse via mentre voltavo la pianta per appoggiarla diritta in un vaso con terra da Echinocactus. Dopo pochi an­ni, quando rinvasai la pianta, la base appariva normale: la cavità si era chiusa.

Da allora non ho più tagliato le pochissime piante che mi marciscono. Pulisco la superficie sana e tengo la pianta all'asciutto: qualcuno mi muore e qualcuno si salva, come quando le ta­gliavo .

Se invece si ammala un mesembriantemo na­no, specialmente Lithops, si butti via subito; an­che se è colpita una foglia, il marciume si esten­de all'altra foglia e al fusticino.

Da anni non vedo più la muffa delle semine, che, anche quando capitava, non mi ha mai dato grandi danni, ma che a quello che ho letto nei libri (forse più a nord, in climi più freddi e umidi) può distruggere molte piantine. Forma alla superficie della terra un reticolo di sottilissi­mi filamenti (ife del fungo) che circonda, attacca le piantine e le fa morire. Bastava levare il reti­colo (con uno stecchino o una pinza) e buttare via le piantine colpite, e le prime attorno, anche se sembravano sane.

Più frequenti e più gravi sono i danni causati dagli animali, specialmente dai pidocchi, delle parti aree (cerosi, lanosi, a scudetto) o delle radici, dal ragno rosso o dalle anguillaie.

Col nome di pidocchi noi profani intendiamo tanto i comunissimi afidi o gorgoglioni (i veri pidocchi delle piante, verdi, neri o grigiastri, con

(50) Per colpa mia, non della pianta. Nella primavera 1944, sfollato in campagna, l'avevo messa in piena terra, perché crescesse più in fretta. E infatti, favorito dall'estate piovosa, era cresciuto molto. Ma alla fine d'agosto, in piena «stagione delle piogge», dovemmo sgombrare d'urgenza. Le­vai la pianta, cercando più di far presto che di far bene, e a Bologna, in una casa affollatissima, la misi su un armadio, in una camera senza riscaldamento. Un giorno trovammo il ghiaccio, in un lavandino.

zampe evidenti, con o senza ali, e generalmente con due minuscoli tubetti sopra la parte posterio­re del corpo) quanto le cocciniglie, con zampe piccolissime o mancanti, senza tubetti e, le fem­mine che attaccano le piante, senza ali.

Tutti vivono succhiando la linfa delle piante, le danneggiano sottraendo loro il nutrimento e le sporcano coi loro escrementi, sui quali possono poi svilupparsi funghi microscopici, o muffe che le imbruttiscono.

Se si hanno poche piante, i pidocchi si posso­no eliminare schiacciandoli con uno stecchino o una pinza, o lavando la pianta con getto d'acqua. Ma è più comodo, e specialmente più sicuro, ucciderli con veleni, per contatto o sistemici.

I veleni per contatto, arrivati su un insetto, lo fanno morire asfissiandolo, o corrodendo i tessuti esterni ecc.: appartengono a questo gruppo le piretrine, il rotenone, molto velenosi per gli in­setti e poco per l'uomo, l'estratto di tabacco, il DDT e altri. Si applicano spennellando di solu­zione le piante con pennelli morbidi, o per mez­zo di pompe a polverizzazione molto fine, in modo che tutti gli insetti siano bagnati il più possibile. Restano uccisi solo quelli che sono col­piti direttamente e largamente: gli altri no.

I veleni sistemici, generalmente esteri dell'aci­do fosforico, sono assorbiti dalla pianta, la ren­dono velenosa per un certo tempo e fanno mori­re gli animali che la mangiano o ne succhiano la linfa. Sono molto velenosi anche per l'uomo (51) e vanno usati con grande precauzione: il loro acquisto, la detenzione e l'uso sono soggetti a disposizioni di legge che possono essere diverse da un paese all'altro.

Gli afidi non sono frequenti, sulle piante grasse. Possono coprire del tutto certi Sedum tenuti all'aperto, si possono trovare sui bocci dei fillocactus, ma non li ho mai visti sulle piante in casa. Si combattono facilmente schiacciandoli o lavando le piante, meglio se con insetticidi.

I pidocchi delle piante grasse sono special­mente cocciniglie (32).

(51) A questi insetticidi sono dovuti i casi di avvelena­mento, anche mortali, che i giornali attribuiscono general­mente agli anticrittogamici, cioè a quei mezzi che si usano contro le malattie delle piante date da funghi (peronospora, oidio ecc.). Gli anticrittogamici (solfato di rame e altri) sono molto meno velenosi per noi che gli esteri fosforici.

(52) Non si confondano le cocciniglie con le coccinelle, o violine della Madonna, piccoli coleotteri, generalmente rossi

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I pidocchi cerosi si trovano specialmente sulle cactee, presso l'apice, nei solchi fra le coste o attorno alle areole. Sono lunghi un paio di milli­metri o poco più, secernono uno straterello di cera in granellini farinosi che li fa apparire bian­chi. Bagnati con alcool appaiono più grigi; schiacciati danno una polpa rossastra. Sono i più facili da combattere: se si hanno poche piante, si possono addirittura liberare lavandole con un getto d'acqua o schiacciando i pidocchi con uno stecchino. Da parecchi anni non ne vedo più, sulle nostre piante.

I pidocchi lanosi emettono la cera in forma di fili sottilissimi e ne fanno nidi che somigliano a batuffoletti di lana, impermeabili o quasi all'ac­qua. Si annidano specialmente fra le foglie delle rosette dei Sempervivum, fra i fusticini fitti delle Stapelia e delle Huernia; ne ho visto più volte nidi fra le foglie accostate dei mesembriantemi. In questi punti l'acqua arriva poco e non penetra nell'interno del nido (53): gli insetticidi per con­tatto servono poco. I pidocchi sono all'asciutto nel nido; si moltiplicano molto rapidamente e, specialmente fra l'inverno e la primavera, posso­no invadere molte piante. Qualche anno fa ne avemmo, all'Orto botanico, un attacco molto for­te: ci vollero mesi, e ripetuti trattamenti per liberarcene (Tav. 4, 3).

I pidocchi a scudetto, o cocciniglie bianche, si proteggono coprendosi con uno scudetto largo un paio di millimetri, bianco-grigiastro. Attacca­no moltissime piante, grasse e non grasse, e si moltiplicano molto rapidamente: ne ho viste co­perte certe Opuntia inselvatichite, in Riviera, gli oleandri dei giardini e perfino la berretta da pre­te (Evonymus europoeus) dei boschi. Di piante grasse ho visto attaccate le cactee, specialmente Opuntia, Cereus, Astrophytum e un mesembrian-temo importato.

Gli insetticidi per contatto sciolti in acqua

con pochi grossi punti neri. Le coccinelle sono utili, perché vivono mangiando i pidocchi, ma sono qualche volta accusa­te di danneggiare le piante come i pidocchi. «Tanto è vero» mi spiegava un accusatore «che si trovano tanto spesso in­sieme».

(53) Ho provato a tenere immersi per due giorni in una vasca due vasi, con piante giovani di Stapelia a rami molto fitti e con molti nidi di pidocchi lanosi. In uno morirono Stapelia e pidocchi; nell'altro morirono poche piante e quasi tutti i pidocchi, ma i pochi salvatisi nei nidi impermeabili ricominciarono a riprodursi.

non penetrano sotto lo scudetto. Si possono usa­re sciolti in alcool (54). Ma anche senza ricorrere ai sistemici, la cura non è difficile: si spazzola la pianta con una spazzola morbida o con un pen­nello duro, poi basta lavarla con acqua o con un insetticida per contatto.

Più insidiosi e più dannosi sono i pidocchi delle radici. Ce ne accorgiamo solo alla rinvasa-tura, o quando la pianta, già gravemente danneg­giata, non cresce più nemmeno se ha tutte le condizioni favorevoli, o ingiallisce.

I pidocchi delle radici attaccano molte piante grasse, ma non tutte sono ugualmente danneggia­te: certe cactee a radici carnose {Astrophytum asterias, Mammillaria guelzowiana e pennispino-sa) possono morire se curate in ritardo; certi mesembriantemi, anche con molti pidocchi nelle radici non mostrano di soffrirne (55).

I pidocchi si possono trovare in qualsiasi pun­to delle radici: sono lunghi un paio di millimetri, appaiono bianchi per uno straterello di cera, che copre come di una muffa biancastra, impermea­bile all'acqua, anche le particelle terrose attorno, o la parete del vaso. Per eliminarli, si lava la pianta con un getto forte di acqua, che asporta terra e pidocchi. Si lascia asciugare. Prima di rinvasare la pianta è bene immergere le radici in un insetticida per contatto: qualche pidocchio o qualche ovo può essere rimasto nel groviglio del­le radici.

Se la pianta ha le radici molto danneggiate, o marcite, si tagliano e prima di rinvasare si aspet­ta che il taglio si asciughi. Qualche volta la cura è inutile e la pianta muore (56).

(54) Tutti i pidocchi si possono combattere con insetticidi sciolti in alcool, e spesso con alcool solo. La goccia d'alcool, arrivata sulla pianta, si allarga rapidamente e penetra nei rivestimenti cerosi, nei nidi lanosi e sotto gli scudetti. Ma ha i suoi inconvenienti: asporta i rivestimenti cerosi di certe piante {Cereus, crassulacee), può uccidere le piante se usato a pieno sole, e con alcool solo non sempre i pidocchi muoiono.

(55) Ho letto che i mesembriantemi sono molto danneg­giati dai pidocchi delle radici. A me ricordano i portatori sani delle epidemie degli animali: non hanno i sintomi della malattia, ma ne portano addosso i germi e li possono diffon­dere.

(56) Il fatto delle radici marcite, specialmente nell'A-strophytum asterias, fa pensare che la pianta, più che dalla sottrazione di linfa, sia danneggiata da sostanze inoculate, o da germi: anche da noi, se ci punge un insetto, siamo dan­neggiati non tanto dai milligrammi di sangue sottratto, quan­to da sostanze inoculate nella ferita, che a molti non danno fastidio, ad altri danno pizzicore, arrossamento, gonfiore, o addirittura una infezione.

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Sulle radici delle monocotiledoni (agavi, Aloe, Haworthia) vive un pidocchio più grande, lungo fino a 5 mm, più bianco, che forma gruppi più numerosi. Si combatte come gli altri pidocchi delle radici (Tav. 4, 4).

Le anguillule sono nematodi, simili a minu­scoli vermiciattoli: i maschi sono lunghi poco me­no di un millimetro e sottilissimi, le femmine sono molto più grosse, piriformi. Penetrano nelle radici: si forma un nodulo grosso qualche milli­metro, che si riempie di anguillule. La radice muore e le anguillule passano in altre radici. Attaccano moltissime piante: campi, orti, giardi­ni ne possono essere infestati.

La difesa non è facile. Si esaminino sempre con cura le piante nuove che arrivano in collezio­ne. Se si trovano noduli nelle radici, è meglio bruciare e disinfettare tutto: pianta, terra, vaso. Se la pianta interessa in modo speciale, si posso­no tagliare via le radici: la parte sopra terra non è attaccata. Quando ebbi la Brasiliopuntia, mi accorsi che aveva le anguillule: tagliai il fusto alla base e ne feci una talea. Caddero tutti i rami, ma il tronco emise nuove radici e nuovi rami e in tre anni era ritornato quasi come prima.

Si consiglia anche di immergere le radici, li­berate dalla terra, in una soluzione di veleno sistemico (es. E605 forte, al 3%) per ventiquat­tro ore, poi di rinvasare e di annaffiare con la stessa soluzione, oppure di tenere per qualche minuto le radici in acqua a 50 gradi, che uccide le anguillule e non la pianta, o in una soluzione di sistemici al 3% a 42-45 gradi per mezz'ora.

Il ragno rosso (o ragnetto) non è un ragno: è un acaro, piccolissimo (circa 1/3 di millimetro) rossiccio, o giallo o bruno. Attacca specialmente le cactee a epidermide sottile: Chamaecereus, Lophophora, ma anche parecchie altre, sempre in prossimità dell'apice, dove l'epidermide è più giovane e più tenera. Si moltiplica molto rapida­mente e può causare danni molto gravi.

L'epidermide attaccata secca e appare gri­gio-rossiccia: con la lente si vedono gli acari che «passeggiano», spesso su una rete di filuzzi minu­tissimi. Quando il fusto cresce, l'epidermide sec­ca non può seguire l'accrescimento e si screpola: la pianta ne rimane deturpata.

Si previene tenendo la pianta all'aperto e al sole più che si può. Il sole indurisce l'epidermi­de, che oppone una resistenza molto maggiore al

parassita; l'aria asciuga prima la terra, e le più frequenti annaffiature e la pioggia, asportando acari e uova, difendono la pianta (57).

Si combatte con acaricidi (Kelthane), con in­setticidi sistemici, o con prodotti a base di zolfo (zolfo colloidale, solfuro di bario), che svolgono idrogeno solforato, velenoso per l'acaro.

Questo elenco di potenziali nemici non deve spaventare: le possibilità di infestazione sono nu­merose: le probabilità sono molto meno.

Nell'orto botanico di Bologna si trovano qual­che volta i pidocchi delle radici: da anni non vediamo più nessuno degli altri parassiti. Per precauzione, due volte l'anno, in ottobre appena messe in serra le piante e in aprile prima di portarle all'aperto, irroriamo con un insetticida tutte le piante.

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Altri animali possono danneggiare anche le piante grasse, come tutte le altre piante dal giar­dino.

Le formiche rubano i semi, specialmente delle cactee, e degli Astrophytum in modo particolare. Anche frutti che un giorno ci sembrano non ma­turi e che vorremmo lasciare maturare sulla pian­ta, li possiamo vedere, la mattina dopo, vuotati dalle formiche. Si può riempire d'acqua un reci­piente largo (una scodella, per esempio) mettervi un vaso vuoto e su questo il vaso o la cassetta con le piante da difendere finché non si sono raccolti i semi (Tav. 4, 5).

Le formiche sono ghiotte anche di secrezioni di piante (es. nettare: qualche volta si vedono, attorno all'apice di certi Ferocactus, mucchietti di terriccio portato dalle formiche per difendere i nettàri estranuziali, mucchietti che la prima an­naffiatura farà scomparire) o di altri insetti: pi­docchi o altri. Questa ghiottoneria ci permette di utilizzarle come «cani da ferma».

Se in una pianta il viavai affaccendato delle

(D7) Il ragno rosso, come anche i pidocchi, teme l'acqua, e in genere, l'umidità. In serra si vede che nelle estati nuvolose e piovose i danni del ragno rosso sono più gravi. La spiegazione di questo fatto paradossale mi sembra sem­plice. Il sole debole lascia più attaccabile l'epidermide e ritarda il prosciugamento della terra nei vasi. E siccome non si deve annaffiare finché la terra è umida, dobbiamo dirada­re le annaffiature. Il ragno rosso, lasciato più in pace, può vivere e moltiplicarsi meglio.

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formiche è più accentuato, ci possiamo già met­tere in sospetto. Se poi ne vediamo una ferma, guardiamo con la lente: molto probabilmente ve­dremo che sta «occupandosi» di un pidocchio che forse sarebbe sfuggito a un nostro esame superfi­ciale e che potremo schiacciare, prevenendo ma­gari la formazione di una colonia (58).

Nell'Orto botanico non ho mai visto Euphor-bìa obesa dare frutti e semi se non avevo traspor­tato io il polline da una pianta all'altra. In cam­pagna certe formiche nere, piuttosto grandi e camminatrici più svelte delle altre, passano dai nettari di una pianta a quelli di un'altra e tra­sportano il polline dai maschi alle femmine: ho avuto frutti anche senza il mio intervento. Ma è un aiuto del quale non mi fido: non è costante e non so da quale pianta venga il polline.

I porcellini dì terra sono piccoli crostacei (Oniscus, Porcellio) lunghi circa un centimetro, duri sul dorso, molli nel ventre: alcuni si arroto­lano a palla, se si disturbano. Sono comunissimi in tutti i giardini, nei luoghi oscuri. Raramente danneggiano le piante grasse, ma una volta mi vuotarono quasi una cassetta di piantine di poche settimane. È meglio prevenirli: si taglia una pata­ta cruda e si appoggia con la parte tagliata sul terreno. I porcellini ne sono avidissimi: arrivano nella notte a mangiarla e vi si fermano sotto. La mattina si possono schiacciare. Si consiglia di lasciare sul posto i morti, il cui odore richiama gli altri.

Le larve di certe farfalle notturne possono mangiare, nell'autunno, i giovani frutti dei me-sembriantemi: le poche volte che ho trovato il danno, trovavo anche la larva, più o meno na­scosta al piede della pianta e la schiacciavo.

Le lucertole non mancano mai nelle serre so­leggiate dalle piante grasse. Mangiano gli insetti e si possono ritenere utili. Nei loro escrementi si trovano sempre avanzi di insetti e qualche volta semi di piante varie. In una masserella trovai undici semi di Astrophytum: li seminai e ne nac­quero quattro A. coahuilense. Non so se, trovan­do formiche coi semi, mangino ladre e refurtiva, o se mangino i semi coi funicoli carnosi: si sa che

(58) Da qualche anno non abbiamo più pidocchi sulle piante grasse, ma le «formiche da ferma» funzionano ancora bene, per esempio sui limoni. Gli entomologi ci dicono già che le formiche cercano, difendono e magari trasportano gli afidi. Nelle piante grasse e nei limoni si tratta di cocciniglie.

mangiano anche piccoli fruttini carnosi, come le more. Le ho viste leccare i nettari delle Euphor-bia e quelli estranunziali dei Ferocactus.

Alle lucertole credo di dover attribuire la scomparsa di certe piccole Mammillaria a spine uncinate, trapiantate da poco e non ancora anco­rate al terreno (nella serra entravamo solo io e le lucertole). Ho trovato sette volte lucertole unci­nate da spine di Mammillaria: una era ancora viva e la liberai; le altre erano morte. Anche se le lucertole sono uncinate solo per la pelle, la morte è rapida: un giorno osservai a mezzogior­no una M. guelzowiana fiorita; ritornando alle quattro, vi trovai una lucertola, già morta (Tav. 4, 6).

Se la pianta è piccola, trapiantata da poco e non ancora fissata al terreno, la lucertola uncina­ta se la trascina dietro, e noi la perdiamo.

1 passeri beccano e rovinano certe piante. Per qualche anno mantenevano brucate le foglie di Sedum sieboldii verdi, trascurando quelle della forma variegata, nei vasi accanto. Adesso, senza che abbiamo fatto niente per obbligarveli, le ri­spettano tutte. Ma continuano a beccare e a ro­vinare altre piantine: cactee, Lithops ecc. Nem­meno la dura cuticola di Ariocarpus, Pelecyphora e Haworthia maughanii li tratteneva. Dobbiamo difendere le piante più piccole con gabbie di rete metallica.

Nell'inverno 1944-45 dovemmo tenere in can­tina la maggior parte delle cactee: quelle spinose non soffrirono; le inermi furono mangiate dai topi. Una vecchia importazione di Astrophytum ornatum aveva avuto, in un bombardamento ae­reo dell'aprile, una larga ferita di striscio, e l'a­veva coperta con uno strato sugheroso. Nell'in­verno i topi forarono il sughero e vuotarono la pianta, lasciando solo la base dura del cilindro centrale e, intatto, il guscio di cuticola con le spine. Una Lophophora innestata fu mangiata; il soggetto, spinoso, no. In serra non abbiamo dan­ni dai topi.

L'animale più temibile per le nostre piante è l'uomo maleducato.

Anche persone oneste, che inorridiscono all'i­dea di «rubare» cinquanta lire, trovano più che naturale prendere, o, come qualche volta ammet­tono, «grattare» una piantina, o un ramo, o un frutto. E magari, dopo averle curate per anni, ci vediamo scomparire piante che difficilmente po-

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tremo sostituire, se lo potremo ( ). Ricordo, fra le altre, il mio primo, e allora unico, Astrophy-tum coahuilense, l'ultima Mammillaria solisioides, il prima ramo laterale del «nostro» Echinocactus grusonii, tutte le piante che tenevo all'aperto su un muro per provarne la resistenza al freddo (pag. 47).

E come c'è chi vuole «avere un souvenir», c'è anche chi vuole lasciare il ricordo di sé, della propria visita, del proprio amore e relativo og­getto. Sulle pale di Opuntia poco spinose, e spe­cialmente sulle foglie delle grandi agavi si posso­no trovare incisi nomi, isolati o a coppie, con o senza data, con o senza cuori trafitti (60).

Questi vizi non sono solo nostri e non solo di adesso. Che non siano solo nostri lo dicono i vetri che, nella raccolta civica di Zurigo, separa­no (cioè difendono) le piante dai visitatori (61) e i nomi, anche stranieri, che nella agave della Tavola 6, 1, facevano compagnia a Vincenzo e Agnese. Che non sono solo di adesso lo racconta già l'Ariosto: la mente sconvolta di Orlando eb­be il colpo di grazia dal vedere incisi su «teneri arbuscelli» i nomi di Angelica e Medoro in vari modi I legati insieme di diversi nodi. E, passando dalla fantasia del poeta alla realtà ancora più vecchia, scrittori latini ci dicono che si faceva anche allora (e non solo sui muri di Pompei).

Temo che l'unica difesa sia data da telai con vetri o con rete metallica. E purtroppo, se non si vogliono o possono fare gabbioni, bisogna tenere in serra le piante tascabili, che avrebbero tanto bisogno di stare all'aperto.

Piante infestanti

Attorno alle piante dai vasi crescono spesso erbe nate da piccoli semi che erano nel terriccio.

(59) Tutti gli anni talee e semine ci danno centinaia di piantine in soprannumero: e siamo felici di liberarcene rega­landole. Vorremmo essere noi a scegliere quelle da tenere e quella da regalare, ma forse pretendiamo troppo dalla edu­cazione di certi visitatori.

(60) Nel settembre 1951, andando a Portoferrario per una festa che aveva richiamato turisti anche da altre regioni d'Italia, vidi, accanto a una agave davanti alla casa di Napo­leone, un uomo di guardia: doveva «spiegarci» che quella era una pianta ornamentale e non il registro delle firme.

(61) Ritornando a Zurigo nel 1980, vidi che molti dei vetri sono stati tolti. Ma ho letto (K.u.a. gennaio 1981) che vi sono frequenti furti di piante rare.

Alcune sono vistose, con lungo ipocotile e le strappiamo facilmente. Altre hanno il fusticino brevissimo e ramificantesi alla superficie del ter­reno. Spesso ce ne accorgiamo solo quando la radice è già fortemente fissata. Strappando, rom­piamo la parte alta e la base resta nel terreno e rivegeta.

La più fastidiosa, almeno da noi, è YOxalis corniculata, una delle «erbe brusche» dei giardi­ni: ha fusto e fitti rami striscianti e radicati, lunghi anche qualche decimetro, foglie con tre foglioline lunghe e larghe fino a un centimetro, fiori gialli, frutto allungato, che a maturità sca­glia a distanza i semi, infestando anche i vasi vicini. Fra le piante spinose, i rami salgono fra le coste, e sporgono attorno solo le foglie. I rami si troncano facilmente, ma è difficile estirpare tutta la pianta, e i pezzi rimasti ricrescono. Credo che l'unica speranza sia da riporre in un diserbante selettivo.

Altrettanto frequenti sono piccolissime Eu­phorbia, a fusticini e rami lunghi pochi cm, stri­scianti, rossi, come sono spesso sfumate di rosso le minuscole foglie. Appartengono a specie varie, nostrane o venute dall'America o dall'Africa. Col tempo formano tappetini, che si allargano, perché anche le Euphorbia lanciano i semi a una certa distanza. Ma i rami non emettono radici, e la piantina, afferrata alla base, si strappa tutta. È molto meno fastidiosa che YOxalis.

I Bryophyllum crescono a decine o a centi­naia attorno alle piante madri (pag. 129), che quindi sarebbe bene tenere isolate.

Certe Ceropegia a fusto sottile e strisciante si espandono come la gramigna e possono arrivare, radicando, a disturbare le altre piante. Per cin­que anni ho lasciato libera di espandersi una pianta di Ceropegia debilis: dal suo vaso di 15 cm, non rivasata né disturbata, i rami strisciano fra i vasi e sotto (i vasi non sono interrati), emettono radici e formano tuberi globosi, grossi fino a 1 cm o, sotto i vasi, appiattiti, grossi anche poco più di un mm: qualche volta ne vedo spuntare rami accanto ad altre piante, nel vaso delle quali è entrata dal foro di fondo. Era arri­vata a otto metri di distanza dal suo vaso. La C. woodii, che le è vicina, non si è mai mossa.

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Cure stagionali

La fine dell'inverno, (febbraio-marzo).

Già in febbraio le giornate si sono allungate, il sole si fa più alto e riscalda di più. Specialmen­te in serra si notano nelle piante i primi segni di risveglio. Cominciano a fiorire certe Mammilla­ria, Notocactus haselbergii, Pleiospilos nelii, Crassula e altre. Nelle cactee, qualche spina che d'autunno si era fermata a metà sviluppo rico­mincia ad allungarsi, scoprendo la parte nuova, carnosa e a colori più vivaci. L'apice di qualche pianta comincia a mostrare i tessuti nuovi, di un verde più vivo.

E noi cominciamo a sentire il prurito di aiuta­re il risveglio annaffiando. Aspettiamo! La pianta ha ancora nel suo interno acqua da utilizzare: annaffiamola quando la vegetazione è più avan­zata. In febbraio, a giornate di sole che hanno portato aria calda e umida possono ancora segui­re giorni freddi, che condensano l'umidità in nu­vole, pioggia, neve. Almeno a Bologna, le grandi nevicate cadono in febbraio (62).

È un momento molto buono per i trapianti: le vecchie radici sono indurite, e non ne stanno ancora crescendo di nuove. Si può scuotere più vigorosamente la vecchia terra asciuttissima, e la nuova, pure asciutta, scorre più facilmente e riempie meglio gli interstizi fra una radice e l'al­tra. Si possono diradare le piante di 2-3 anni nelle cassette, e vuotare del tutto le cassette piantate da qualche anno. Si rinnova del tutto la terra e si fa un po' di pulizia.

Si cerchino i pidocchi delle radici, che duran­te l'asciutta invernale si moltiplicano attivamen­te. Anche i pidocchi cerosi e lanosi si moltiplica­no molto in questi giorni. Si osservino special­mente le piante piccole a spine molto fitte (Epi-thelantha, Mammillaria herrerae, egregia ecc.): il ragno rosso vi può restare nascosto e portare danni dai quali le piante si riprenderanno molto lentamente.

Le piante trapiantate in questo periodo non si

(62) La grande gelata del 1929, che colpì quasi tutta l'Europa e che portò a Bologna mezzo metro di neve farino­sa, venne a metà febbraio. Una sola volta ho visto a Bolo­gna scaricare la neve che minacciava di sfondare i coperti di certe case: il 27 febbraio 1933. Si possono avere neve e ghiaccio anche in marzo.

annaffiano per settimane, nemmeno le giovanissi­me. Secondo molti questo è eccessivo; ma evita le perdite. Le ferite delle radici hanno tutto il tempo per rimarginarsi e le piante così trattate saranno le prime a riprendere la vegetazione in primavera.

Si ricordi che le piante non abituate al sole sono più esposte alle scottature: se si può, si dia una imbiancata ai vetri, o si metta un foglio di carta alla finestra.

In serra, alla fine di febbraio si può comincia­re ad annaffiare: una mattina soleggiata, in modo che la sera le piante siano asciutte. Chi vuole, può cominciare le semine, in serretta riscaldata.

Primavera (marzo-maggio).

Si continuano le rinvasature. Nella seconda metà di marzo possiamo cominciare a mettere sul davanzale qualcuna delle piante meno delicate. Si ritirino la sera, se la notte si annuncia fredda. Chi ha un cassone con vetri in terrazza o in giardino può cominciare a portarvi le piante.

In serra, si può cominciare ad annaffiare re­golarmente, e ad aggiungere all'acqua delle an­naffiature i sali nutritivi.

Alla metà di aprile si fa la semina a calore naturale. Si portano all'aperto le piante che vi possono portare. E si dà tutta l'aria possibile alla serra, per quelle che non si possono portare al­l'aperto.

In maggio si possono cominciare gli innesti.

Estate (giugno-metà agosto).

È la stagione di più intensa vegetazione delle piante, ma per noi è la più tranquilla. Le piante hanno solo bisogno di annaffiature (in natura è la stagione delle piogge): possiamo annaffiare le piante anche tutte le sere, se la terra è asciutta, e se noi possiamo. Se non possiamo, le piante pos­sono aspettare anche qualche giorno.

Fino a metà agosto si possono fare gli innesti. Nelle zone nelle quali cade la grandine, si

metta, sulle piante piccole, un telaio antigrandi­ne, cioè con rete sottile, a maglia di un centime­tro circa.

In più di quarant'anni, non avevo mai avuto danni da grandine e avevo smesso di tenere la rete protetti­va. Nel settembre 1965 venne una abbondante grandi­nata, prima a chicchi piccolissimi, poi sempre più

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grossi, ma non più di un paio di centimetri. Alla fine, uno strato di alcuni centimetri copriva il terreno. Non diede molto danno: nelle piante grandi, ammaccature e qualche strappo nelle foglie, le spine giovani, ancora molli, delle cactee troncate. Le piante piccole, nelle cassette, erano già coperte dai chicci piccoli, quando arrivarono i grossi: il problema era l'allontanamento della grandine che le copriva. Provammo con pennelli, con fascetti di ramoscelli: si correva il rischio di rovi­nare le piantine, senza levare tutta la grandine.

C'era un grande mastello pieno d'acqua: un aiu­tante mi allungava una cassetta; la tuffavo nell'acqua, la sollevavo rapidamente e la passavo a un altro. I chicchi di grandine restavano a galla e quando solleva­vo la cassetta scorrevano via ai lati. In pochissimi minuti liberammo dalla grandine una ventina di cas­sette. E le piante non soffrirono.

Non so se capiterà spesso una grandinata che co­pra e protegga le piante piccole, prima che arrivino i chicchi grossi. Se dovesse capitare, si può rimediare come feci io. Da allora però tengo sempre sulle piante piccole la rete antigrandine.

Ho visto, da un collega dillettante, foglie di me-sembriantemi, e specialmente di Lithops, ammaccate e quasi spappolate dalla grandine: alcune morirono, e morì la pianta; altre tirarono avanti alla meglio e alla prima muta delle foglie le piante ritornarono normali.

Autunno.

Già alla fine di agosto il sole riscalda meno, le notti sono più lunghe, più fredde e più umide. Le piante cominciano a prepararsi al riposo in­vernale. Rallentano la vegetazione e riducono la riserva d'acqua. Le piante più molli (Lophopho-ra, Epithelantha ecc.) diminuiscono il volume, l'apice si infossa. Non dobbiamo pensare che ab­biano sete e continuare ad annaffiarle spesso: invece di risvegliarle le facciamo marcire. In que­sta stagione, poi, la rugiada è molto più abbon­dante e tiene umida la pianta per parecchie ore della notte e della mattina. Nelle annaffiature, diradate, non si aggiungono più i sali nutritivi.

Si riparano le piante delicate dalla pioggia che d'autunno può essere troppo frequente e ab­bondante. Si mette sopra la rete antigrandine un telo di plastica trasparente che si raccoglie in alto quando non piove troppo: le piante hanno così il sole che indurisce i tessuti e li prepara per l'in­verno.

In settembre-ottobre cominciano a fiorire cer­ti mesembriantemi {Lithops, Pleiospilos bolusii e altri), Mammillaria schiedeana, Crassula marnie-riana ecc.

Alla fine di settembre è prudente cominciare

a portare dentro le piante ( ). Nel portarle den­tro si guardi se vi sono parassiti (anche sotto i vasi possono nascondersi le lumache). Anche se non abbiamo notato parassiti, quando abbiamo messo dentro le piante noi diamo una buona spruzzata di un insetticida.

Inverno (novembre-febbraio).

Le piante sono in riposo. Chi le può tenere in serra non ha preoccupazioni. Chi non ha la ser­ra, può tenere le piante anche in camere abitate, benché la temperatura che vi si mantiene, attor­no ai 20 gradi, o spesso anche più, sia un po' elevata per le piante. Sarebbe meglio tenerle in camere non riscaldate: come ripiego può servire la tromba delle scale, un corridoio (senza corren­ti d'aria!) e perfino una cantina. La temperatura migliore è fra 8 e 12 gradi (64).

È bene che le piante abbiano luce, ma se sono veramente in riposo, la luce scarsa non le danneggia. Per una dozzina d'anni abbiamo tenu­to come soprammobile, in un portavaso, il nostro E. grusonii e per qualche anno anche una Mam­millaria hahniana. Alla primavera non abbiamo mai notato danni: solo neh"Echinocactus le spine mezzo formate dell'autunno erano fragili e la punta si staccava facilmente. Nel Sudafrica, d'in­verno, certi Lithops retratti sono coperti dalla polvere e dalla sabbia, e per trovarli bisogna scopare il terreno dove si sa che debbono essere.

Schwantes provò a tenere chiusi in un arma­dio in una camera abitata alcuni Lithops pseudo-

(63) Non credo che ci siano pericoli gravi per un modera­to abbassamento di temperatura. Ho avuto una leggera bri­nata verso la fine di settembre, quando avevo ancora fuori tutte le piante. Riportarono scottature superficiali alcune foglie di Agave sìsalana e di Furcraea, senza altre conseguen­ze: nessun danno visibile alle cactee.

(64) La maggior parte delle piante grasse in riposo, può resistere a temperature più basse. Le cactee in genere, e specialmente quelle di montagna (Messico, Ande) sono più resistenti delle altre. Anche nel Sudafrica, nelle zone a piog­ge estive, possono venire, nell'inverno, gelate piuttosto forti, che le piante in riposo sopportano senza danni seri (HERRE).

Le serre dell'Orto botanico di Kiel, nel gennaio 1944, furono colpite e distrutte dalle bombe. Le piante furono liberate dalla neve, dal ghiaccio e dai vetri rotti solo dopo alcuni giorni. Morirono Aloe, molte Echeveria, le Stapelia, Huernia,molte grandi Euphorbìa, le Crassulacee a vegetazio­ne invernale. Dei mesembriantemi morirono Conophytum e altri, a vegetazione invernale, grossi Pleiospilos e qualche Lithops: Lithops più retratte si salvarono. Si salvarono anche i Cissus, in riposo (JACOBSEN).

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truncatella importati nell'autunno. Messi in un vaso in primavera, crebbero regolarmente e a suo tempo fiorirono.

Nella serra dell'Orto botanico tenevamo, d'inverno, la temperatura minima fra 7 e 10 (25 circa nelle ore di sole). Nell'inverno 1974-75 la temperatura scese, per alcuni giorni, a 4: moriro­no due dei tre Adenium obesum che avevamo, si chiazzarono di grigio, ma senza morire, gli Steno-cereus marginatus e dumortieri, perdette la parte sopra terra il Cryptocereus, ma emise rami in basso. Da allora la temperatura minima non sce­se più sotto i sette gradi: nessuna pianta mostrò più di soffrire il freddo.

Nell'inverno 1980-81, per l'arrivo di nuove piante a vegetazione invernale (Conophytum, Crassula, Pelargonium), abbiamo tenuto la tem­peratura più alta (minimo 10-12, con punte, nelle ore di sole, di 28) e abbiamo dovuto aumentare le annaffiature: ogni 10-12 giorni per le piante in vegetazione e una spruzzata ogni 20-30 giorni anche per le altre, comprese quelle che prima non annaffiavamo. La temperatura e l'umidità aumentate hanno anticipato la vegetazione: le prime Mammillaria sono fiorite in gennaio-feb­braio, gli Echinocereus pectinatus e pentalophus, Cyphostemma uter in marzo.

Fuori della serra facevo qualche altra prova. Ai primi di gennaio 1965 misi in una camera a pianterreno di una casa abbandonata di campa­gna alcune piante e un termometro a massima e minima: andavo a vedere ogni tanto. Alla fine di gennaio il termometro indicava una massima di 5 e una minima di zero; il 20 febbraio la massima era 7, la minima ancora zero. Morirono Aloe arborescens, Aloe ciliaris, Agave ferox, fico d'In­dia, Carpobrotus acinaciformis. Non soffrirono Opuntia bergeriana, Chamoecereus silvestrii, Tri-chocereus spachianus, Echinopsìs (i soliti incro­ci), Mammillaria candida, Sedum sieboldii, S. compressum, S. stahlii. Di quattro Eriocereus ju-sbertii due morirono, due morirono in alto, ma ributtarono in basso. Un Astrophytum asterias e un A. coahuilense, che parevano sani, marcirono appena riportati in serra. Mammillaria, Sedum compressum, Graptopetalum fiorirono appena ri­portati in serra; in maggio fiorì anche Sedum stahlii, che svernato in serra non era mai fiorito.

Nel 1970 misi nell'Orto botanico, in buchi di un muro esposto a mezzogiorno, che sostiene un

mucchio di terra alto due metri, alcune piante: Sedum dasyphyllum, S. sieboldii, S. sieboldii va­riegato, 5. stahlii, Graptopetalum paraguayense, Chamoecereus silvestrii; nel 1972 aggiunsi due Euphorbia pulvinata e una Agave parviflora. Le radici delle piante arrivavano nella terra retro­stante: non misi alcun riparo per il sole o per il freddo e non annaffiavo. Non ne è rimasta nes­suna. Sedum dasyphyllum seccò nella torrida estate 1974, Sedum stahlii morì per il freddo dell'inverno 1978-79 (la temperatura era scesa — 12), le altre sono state rubate. Le Euphorbia avevano sopportato molto bene una due inverni e una tre (in primavera cominciavano a vegetare prima che quella tenuta in serra), il Chamaece-reus ne avea sopportato undici (65), YAgave no­ve: aveva lo scapo alto mezzo metro (forse la prima fioritura, a Bologna, di una Agave tenuta all'aperto) quando, alla fine del maggio 1981, l'abbiamo trovata sradicata. Rinvasata in serra, è fiorita regolarmente.

Credo interessanti i risultati di prove fatte, da me e da colleghi, nell'inverno 1978-79, che, coi suoi minimi di —12, era stato a Bologna il più freddo dell'ultimo decennio.

Tenevo all'aperto, in vasi appoggiati in terra davanti alla serra, Opuntia bulbispina, Sedum sieboldii verdi e variegati, Sedum stahlii e Glot-tiphyllum (i soliti ibridi). Non toglievo la neve, che ogni tanto li copriva difendendoli in parte dal freddo. UOpuntia e i Sedum sieboldii non soffrirono, i Glottiphyllum morirono tutti. Di Se­dum stahlii morirono tutte le piante, ma alcune foglie, più o meno avvizzite, che prima erano cadute sulla terra dei vasi, in primavera diedero nuove piantine, che non hanno sofferto, all'aper­to, negli anni seguenti.

L'amico e collaboratore Gino Bergamaschi teneva in una serretta non riscaldata, formata di un telaio di ferro e fogli di lana di vetro e plasti­ca, in una terrazza esposta a levante, centinaia di piante delle varie famiglie che abbiamo. La tem­peratura minima nella serretta è stata —4; la massima, se non c'era il sole, era attorno allo zero.

(fo) L'imbecille che, nel marzo 1981, la strappò dal suo buco nel muro (Tav. col. I) si trovò in mano decine di rami staccati uno dall'altro, e li buttò via: li trovammo sparsi tra l'erba.

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Delle cactee morirono tutte le talee di Pere-skiopsis preparate nell'autunno per gli innesti primaverili (una trentina) e l'unico Myrtillocactus geometrizans, una piante forte e ramosa. Le altre cactee non mostrarono di soffrire: Pereskiopsis adulte e talee fatte in primavera, Opuntia varie, Eriocereus, Cephalocereus senilis, Echinocereus, Arìocarpus, Astrophytum, Echinocactus, Lobivia (66), Parodìa, Notocactus, Mammìllaria.

Delle non cactee morirono l'unica Kalanchoe beharensis, Euphorbìa fruticosa, E. milii, E. pte-roneura, E. tirucalli, E. trigona (una pianta forte e ramosa), Pelorgonium tetragonum (67). Non mostravano di avere sofferto le altre Crassulacee, le Euphorbia mammillarìs, obesa, pulvinata, le agavi, i mesembriantemi (Bergeranthus, Fauca-ria, Fenestraria, Lapidaria, Lìthops di varie spe­cie, Oscularla, Pleiospilos, Trìchodiadema).

Tutte le piante della serretta erano tenute asciutte dall'ottobre, più o meno raggrinzite e re­tratte. I mesembriantemi di una cassetta, {Fene­straria, Lapidaria, Lithops) portati a metà feb­braio, in una serra più calda dell'Orto botanico e annaffiati, hanno ripreso subito la vegetazione.

La dottoressa Isolda Melandri, farmacista a Bonassola (La Spezia), aveva piante grasse in serra e altre in piena terra, all'aperto, senza al­cun riparo. Queste furono colte all'improvviso dal freddo: in pochissimi giorni la temperatura scese da 15 a —3. Morirono le Euphorbia grandi-des, virosa, abyssinìca, le Crassula (falcata lyco-podioides, obliqua), gli Aeonium, le Kalanchoe. Resistettero, tutt'al più con lesioni superficiali, le agavi (A americana, filifera, strida, victorioeregi-noe), le Aloe (arborescens, ciliaris, ferox, mitri-formis) le Gasteria (maculata e verrucosa), le Ha-worthia, le Echeveria, le Oxalis herreroe. La O-thonna crassifolia, che con gli anni ha formato un praticello largo qualche decimetro, alla fine di marzo cominciava già a fiorire (68).

Questi risultati confermano quello che già si

(66) Il dott. A. Poluzzi, medico e alpinista, nell'agosto 1978 raccolse sulle Ande, a più di 4000 m d'altezza tre Lobivia (L. pentlandiì) che avevano i fiori aperti a pochi centimetri di distanza dalla neve. Per precauzione le teniamo in serra, ma dovrebbero sopportare bene i nostri inverni.

(67) I Pelargonìum non hanno, d'inverno, un vero riposo, e conservano i rami piuttosto acquosi. L'inverno 1978-79 ha fatto morire anche molti gerani comuni, che dopo una deci­na d'inverni piuttosto miti, ci si era abituati a riparare alla meglio.

sapeva: le cactee, che da decenni vivono e fiori­scono a Montecarlo, alla Mortola, a Bordighera hanno sopportato più volte nevicate e gelate; i mesembriantemi, in riposo e asciutti, sopportano anche in patria, gelate piuttosto forti; le Euphor­bia temono il freddo più che le cactee.

Se si debbono tenere le piante in casa o in una piccola serra di fortuna, credo ancora che sia meglio non annaffiarle d'inverno, o almeno an­naffiarle raramente.

C'è chi teme che la terra secchi fino a fare morire le radici sottili e che la necessità di rifor­marle quando si riprendono le annaffiature faccia ritardare la ripresa della vegetazione. Mi pare che gli inconvenienti e i pericoli siano maggiori se si annaffia.

Le piante tenute al freddo annaffiate d'inver­no possono marcire.

In quelle tenute al caldo, si può risvegliare la vegetazione e, specialmente in casa, senza sole, si può avere Yeziolamento: la pianta «fila», cioè cresce più sottile, allungata, meno verde (gialla o perfino bianca); le cactee hanno le spine rade e piccolissime. Le parti filate riprendono poi il co­lore verde, ma non la forma normale. Se si tratta di una pianta ramosa, le parti eziolate si tagliano via (e addio guadagno di tempo); nelle piante semplici o poco ramose rimane per sempre la strozzatura, senza spine o quasi (Tav. 5, 4).

Una pianta di forma normale, anche se vege­ta con qualche giorno di ritardo, è meglio che una marcita o deformata per sempre. Durante l'asciutta, a certe piante retratte, e quindi diven­tate più piccole, le spine, più fitte e in proporzio­ne più grandi, possono dare l'aria di una «impor­tazione fatta in casa» (Tav. 5, 3). E anche nei casi più spinti (Tav. 5, 1-2), le piante che scom­paiono quasi sottoterra o che si afflosciano e si curvano, ci danno l'idea di quello che può succe­dere in natura, nel deserto.

(68) Un collaudo molto più severo hanno avuto le piante tenute all'aperto nel gennaio 1985. Per più di due settimane sono state coperte dalla neve: i termometri sono scesi fino a —20. Morirono Chamaecereus silvestrii, una Euphorbia pul­vinata con un centinaio di rami, i Carpobrotus (edulis e acinaciformis), Graptopetalum mac-dougallii, due delle tre piante di Graptopetalum paraguayense (l'altra parte ha perso una parte dei rami), una decina di piante di Sedum stahlii (ma anche questa volta una foglia raggrinzita, che era caduta prima, ha dato una nuova pianta). Non hanno sofferto Se­dum sieboldii e i Sedum e i Sempervivum nostrani.

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/ nomi delle piante

Nel linguaggio scientifico, per indicare una pianta si usa la nomenclatura binomia, cioè tutte le piante, in tutti i paesi del mondo sono indicate con due nomi, in latino.

La pianta della tavola 6, 2 è detta Agave americana. Esistono molte altre piante più o me­no simili a quella, e tutte di origine americana, ma col binomio (o combinazione, come dicono i botanici) Agave americana si indica proprio quel­la, e solo quella.

A questi due nomi si aggiunge spesso un no­me di persona, abbreviato o no (1). Si può trova­re aggiunto un altro nome, fra parentesi, prece­duto o non dalla abbreviazione fam. (famiglia). Si avrà quindi in tutto: Agave americana L. (fam. Agavaceae).

Dei due nomi che non mancano mai, il primo indica il genere, il secondo la specie. Il nome di persona indica Vautore che per primo diede quel nome a quella specie (2); il nome fra parentesi indica la famiglia.

Il nome del genere è dato da un sostantivo e si scrive sempre con iniziale maiscuola. Può essere il nome volgare della pianta (3) latinizzato: Rosa, Pirus (o Pyrus), Vitis; può ricordare la forma (es. Mammillaria, per i rilievi simili a piccole mammelle), la provenienza (es. Notocactus, cioè cactus meridionali), l'ora della fioritura (Selenice-

(l) I nomi di persona possono essere anche due, il primo dei quali fra parentesi (v. nota a pag. 49).

(*) L. indica LINNEO, scienziato svedese del secolo XVIII, che usò per primo la nomenclatura binomia per le piante allora conosciute. I nomi e le descrizioni erano in latino, la lingua dei dotti. Anche adesso chi dà il nome a una nuova pianta, deve aggiungere, pure in latino, la dia­gnosi cioè la descrizione della pianta, in tutte le sue parti (v. nota 3 pag. 90), in modo che non possano sorgere equivoci.

(3) Molte piante conosciute da molto tempo, coltivate o che ci interessano perché utili o dannose, o per altri motivi (rosa, vite, ortica, ecc.) hanno un nome volgare, cioè non latino, che può variare da una lingua all'altra e perfino da un paese all'altro della stessa provincia e che quindi può servire solo per l'uso locale. Le piante grasse, conosciute da poco tempo e coltivate da un numero ristretto di persone,

reus, che fiorisce al chiaro di luna) ecc. Molti ricordano nomi di persona da onorare per i loro studi (es. Haworthia) o per altre ragioni (es. Carnegiea, in onore di A. Carnegie, industriale e filantropo americano: dalla fondazione Carnegie fu finanziata la pubblicazione di The Cactaceae di Britton e Rose).

In principio il nome della specie era general­mente un aggettivo, che ricordava una caratteri­stica (es. Viola odorata, Vitis vinifera). Spesso era un sostantivo: o era il nome volgare della pianta (es. Pirus Malus, il melo), o indicava l'uso (es. Dipsacus fullonum, cardo dei lanaioli) ecc. Sempre più numerosi sono poi diventati i nomi di specie in onore di persone. Fino a una cin­quantina d'anni fa (o anche meno, da noi) il nome della specie si scriveva con iniziale minu­scola quando era un aggettivo, o un nome comu­ne (es. Dipasacus fullonum), con iniziale maiu­scola quando era il nome volgare della pianta (es. Pirus Malus) o un nome di persona, o un aggettivo derivato da un nome di persona (es. Opuntia Bergeriana, in onore di A. Berger).

Attualmente il nome della specie si scrive sem­pre con inziale minuscola, anche se è un nome di persona (es. Echinocereus delaetii, in onore di Frantz De Laet, coltivatore di Anversa) (4). Il nome della specie, se è un aggettivo, «concorda

non hanno quasi mai un nome volgare. A parte fico d'India, diventato pianta fruttifera, si sente dire testa dì vecchio, ruota della fortuna, cappello da prete, ma raramente. In altri Paesi i nomi volgari delle piante grasse sembra che siano più usati. Oltre a testa di vecchio, cappello da prete (il prete in Francia e in Germania è diventato vescovo — bonnet d'évé-que, Bischofsmutze — e nel Messico, mi disse un italiano emigrato là, addirittura cardinale), si trovano i nomi fico degli ottentotti, cactus arcobaleno ecc. Sasso vivo in America indica un cactus e in altri luoghi certi mesembriantemi, in Africa detti anche in tono scherzoso popò degli ottentotti.

(4) E come si pronunciano questi nomi di persone e di località, e gli aggettivi da essi derivati? Una volta si voleva­no pronunciati alla latina: «un nome scritto in latino va letto in latino» si diceva. Ma anche qui si va cambiando. Bux-baum, citando YEchinocereus deloetii, aggiunge fra parentesi

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in genere, numero e caso» col nome del genere (es. Ferocactus latispinus); se è un sostantivo può concordare (es. Pirus malus entrambi femminili e nominativi) o no (es. Dipsacus fullonum, nomi­nativo singolare e genitivo plurale). Naturalmen­te non concorda quando è un nome di persona al genitivo (es. Echinocereus delaetii) (5).

Appartengono alla stessa specie tutte le pian­te che sono simili fra loro come sono simili fra loro tutti i discendenti di un'unica pianta o di un'unica coppia, e possono fecondarsi l'una con l'altra dando discendenti simili a loro.

Il genere comprende le specie che hanno in comune certi caratteri (6), ma differiscono per altri {caratteri differenziali fra le specie): tutte le specie di Agave hanno lo stesso tipo di infiore­scenza, di fiore e di frutto, ma differiscono per la forma e le dimensioni del fusto e delle foglie.

I generi affini sono riuniti in famiglie, le fami­glie in ordini, gli ordini in classi ecc.

Fra queste unità sistematiche si trovano spes­so gradi intermedi: le famiglie sono spesso divise in sottofamiglie, certe famiglie e sottofamiglie in tribù e sottotribù, certi generi in sottogeneri e sezioni, molte specie in sottospecie, varietà, e, se le differenze sono minime, forme.

II nome delle famiglie è dato generalmente dal nome di un genere {genere tipo) con la desi­nenza àceoe: da Agave, Agavàceoe (7); il nome

(pronuncia de laatii) cioè alla fiamminga, e non alla latina E scrive de laetii staccato, come scriveva lo stesso De Laet, al quale evidentemente non era piaciuto che lo onorassero scrivendo male il suo nome.

La pronuncia alla latina sarebbe più comoda e più facile: quasi tutti sanno come si pronuncia adesso il latino; con certi nomi stranieri, non sempre si capisce di che paese sono quelle persone o quelle località; pochi, o pochissimi, cono­scono la pronuncia esatta di tutte le lingue del mondo, specialmente se i nomi in origine erano scritti con caratteri diversi dai nostri, e che magari non hanno un suono esatta­mente corrispondente nelle lettere nostre.

(5) Questi nomi al genitivo dovrebbero usarsi solo per le persone che hanno effettivamente scoperto quella specie nel­la sua patria (Werdermann). Non so se De Laet, Gruson, Saglion siano andati in America a scoprire le piante che portano il loro nome.

(6) Certe specie, es. Pelecyphora aselliformis, non ne hanno altre tanto affini da potere essere riunite in uno stesso genere: Pelecyphora è un genere monotipico, cioè con una sola specie. Welwitschia bainesii è tanto diversa da tutte le altre piante, che è la sola specie dell'unico genere della famiglia Welwitschiaceae. I generi Euphorbia e Senecio com­prendono ciascuno più di 1.500 specie.

(7) Meno spesso indica una caratteristica della famiglia, es. Compositae, perché i fiori sono «composti», cioè sono infiorescenze; molti però le dicono Asteraceae, dal genere Aster.

delle sottofamiglie è dato dal nome di un genere con la desinenza oidèoe (da Opuntia, Opuntioi-deoé) il nome delle tribù ha la desinenza eoe quello delle sotto tribù ha inoe.

• • •

Ma tutte questa categorie sono più convenzio­nali che naturali.

Anche dai semi dello stesso frutto si possono avere, nelle piante figlie, differenze nelle dimen­sioni, nella forma, nel rivestimento di peli, nelle spine, nei fiori. Differenze che nelle generazioni successive possono poi attenuarsi, ma possono anche accentuarsi, specialmente se intervengono fattori esterni: altitudine, natura del terreno, umidità, esposizione al sole ecc. Si possono an­dare selezionando forme più adatte ai singoli am­bienti: più grandi, più piccole, più o meno spino­se; certi mesembriantemi assumono il colore del terreno sul quale vivono. Le varie forme assunte dalle piante sono in principio collegate da forme intermedie, che poi possono scomparire, lascian­do le forme estreme, tanto diverse, che non si direbbero «discendenti da una unica pianta».

Spesso poi, fra le varie forme di due specie vicine, si hanno somiglianze tali, che non si sa dove finisca una specie e cominci l'altra.

Altrettanto avviene per il genere. Certe diffe­renze (forma del fusto, presenza o meno di peli, setole o spine nel fiore ecc.), che secondo alcuni non sono sufficienti per parlare di un nuovo ge­nere, lo sono per altri. Si è avuto così per un certo tempo un aumento del numero dei generi, in parte dovuto alla scoperta di nuove piante diverse da quelle che si conoscevano prima, ma molto di più alla diversa valutazione dei vari autori.

Fra le piante grasse coltivate, si può ricordare che le cactee nel 700 erano tutte comprese da Linneo in un solo genere, Cactus; nella prima metà dell'800 De Candolle era arrivato a sette generi, all'inizio di questo secolo Schumann era arrivato a una ventina, nel 1922 Britton e Rose salirono a 142 e nel 1962 Backeberg arrivò a 233. Ma nel 1967 Hunt ridusse il numero a 84, seguito (o quasi) da altri Inglesi, ma non dai Tedeschi, che continuano coi vecchi nomi di Backeberg.

Anche i mesembriantemi all'inzio di questo secolo erano tutti riuniti nel solo genere Mesem-

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bryanthemun, della famiglia Aizoaceoe: attual­mente sono divisi in più di cento generi e forma­no una famiglia a sé; Mesembryanthemanceoe (che i Francesi dicono Ficoidaceoe).

La comparsa e la scomparsa di tante specie e di tanti generi hanno richiesto cambiamenti di migliaia di combinazioni (8) in modo che nemme­no gli esperti vi si possono raccapezzare.

E noi dilettanti, che per conoscere meglio le nostre piante, o per determinarle, cioè per saper­ne il nome, se non lo conosciamo ancora, ne cerchiamo notizie in vari libri, troviamo spesso la stessa pianta con nomi diversi, dati da autori diversi, o anche da uno stesso autore, che, aven­done visti individui diversi uno dall'altro, li con­siderava appartenenti a specie diverse (v. Mam-millaria centricirrha, pag. 90).

Questi sinonimi, cioè nomi diversi che indica­no la stessa pianta, o quasi, sono frequentissimi nelle piante grasse e specialmente nelle cactee e nei mesembriantemi.

Si hanno anche, meno frequenti, casi di omo­nimia, cioè di due piante diverse che hanno lo stesso nome.

Siccome ogni specie deve avere il suo nome, si stabilì (legge, o principio, di priorità) che in caso di omonimia il nome deve restare alla pian­ta che lo aveva avuto per prima (9); in caso di sinonimia deve essere conservato (nomen conser-vandum) il nome più vecchio. // quale nome non deve più essere cambiato, né dall'autore né da altri, nemmeno se sbagliato, a meno che non si

(8) La pianta descritta come Cactus senilis da HAWORTH, nel 1824, fu detta Cereus senilis da DE CANDOLLE nel 1828, Cephalocereus senilis da PFEIFFER nel 1838, Pilocereus senilis da LEMAIRE nel 1839.

Quando si cambia una combinazione (perché la specie è stata passata da un genere a un altro, o perché, descritta come specie, viene poi ritenuta una varietà di un'altra spe­cie, o viceversa) il nome dell'autore che per primo aveva dato il nome e la diagnosi, rimane e va messo fra parentesi, prima del nome di quello che ha formato la combinazione definitiva: si ha quindi Cephalocereus senilis (HAW). PFEIFF., senza tenere conto degli intermedi o dei nomi non accettati.

Qualche volta lo stesso nome si trova nella parentesi e fuori, es. Lithops fulviceps (N. E. BR.) N. E. BR.: NICHO­LAS EDWARD BROWN ha passato nel genere Lithops la specie che egli stesso aveva descritto come Mesembryanthemum fulviceps.

(9) Lo stesso nome può essere dato a due specie di generi diversi (es. Cephalocereus senilis, Mamillopsis senilis); non può essere dato a due generi nemmeno se di famiglie diverse (v. Mammillarìa).

tratti evidentemente di un errore di stampa. La legge di priorità non si applica ai nomi anteriori a Linneo (1753).

Credo interessante, come esempio delle «peripe­zie» che un nome può incontrare, ricordare il genere Mammillarìa.

Nel 1812 l'inglese HAWORTH diede questo nome alle cactee con rilievi simili a mammelle. Ma nel 1827 fu fatto notare che in latino il diminutivo di mamma è mamilla e non mammilla: quindi si doveva scrivere Mamìllaria. In America si continuò a scrivere Mam­millarìa, in Europa si scrisse Mamillarìa. L'inglese In­dex kewensìs, l'«anagrafe» di tutte le fanerogame del mondo, ebbe Mammillarìa fino al 1905, poi passò a Mamillarìa. Intanto si era visto che le cactee con rilievi a mammella potevano essere molto diverse per forma di tubercoli, posizione e forma dei fiori ecc.; ne era stata staccata una quindicina di generi nuovi, due dei quali (Coryphantha, Epithelantha) ormai ammessi da tutti, altri ammessi dagli uni e non dagli altri. Fu anche fatto notare che nel 1809 Stackhouse aveva dato a un genere di alghe il nome Mammillarìa, che quindi non poteva essere usato, dopo, per nessun altro genere di piante: Britton e Rose cambiarono il nome in Neomammillaria. Poi il genere Mammillarìa di Stackhouse fu dichiarato non valido: il nome era libero e ritornò alle cactee. Fu risolta anche la que­stione dell'm semplice o doppia: nel 1940 l'Index ke-wensis dava, come nome conservandum, il più vec­chio, Mammillarìa (10). Ma non tutti l'accettarono: anzi Backeberg, che prima (Kakteenjagd, 1930) scrive­va Mammillarìa, nel 1961 (Die Cactaceoe) scrive e cerca di dimostrare che si deve scrivere Mamillarìa, seguito ancora da libri e cataloghi, di commercianti e di qualche Orto botanico.

Nel 1950 studiosi di tutta Europa costituiro­no, a Zurigo, la Organizzazione internazionale per le ricerche sulle piante grasse {Internationale Organisation fur Sukkelentenforschung: I .O.S. , trasferita poi a Wageningen, in Olanda) che ha, fra gli altri, lo scopo di mettere ordine in questa intricatissima nomenclatura.

Ci riusciranno? Quando?

(10) In certi dizionari latini si trova: mammilla, meno usato di mamilla. Meno usato, non sbagliato: il professore di latino di Haworth l'avrebbe forse segnato con una linea tratteggiata rossa. Ma avrebbe certamente sottolineato con un fregaccio blu la traduzione di Gymnocalycium saglionis (di Saglion) in Gymnocalycium saglione, accettato dai puristi che non accettano Mammillarìa.

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Parte seconda Le mie piante grasse

Il possessivo mie non significa di mia proprietà. Le piante sono più dell'Orto botanico che mie. Ma le ho scelte io, nei cataloghi o, più spesso, nelle serre dei coltivatori e degli importatori e nelle vetrine dei fiorai, e le ho coltivate io (*). I giardinieri dell'Orto mi aiutano, in parte mi sostituiscono già, e potranno continuare da soli quando io andrò a raggiungere la mia vecchia; ma finora ho fatto io solo le impollinazioni, le raccolte dei semi, le semine, gli innesti e perfino le annaffiature in serra.

Le piante sono ordinate per famiglie. Le famiglie, nelle famiglie i generi, e nei generi le specie sono in ordine alfabetico.

I nomi delle piante. Per la nomenclatura seguo l'edizione 1967 del catalogo della raccolta civica di Zurigo (StSSZ), che rappresenta quasi la voce ufficiale della I.O.S. Le pochissime volte che mi pare di non poterlo seguire, spiego il perché. Per le piante che non sono nel catalogo, mi sono aiutato specialmente con Sukkulentenlexicon, con Exotica, e con l'Index kewensis.

È dato anche qualche sinonimo, col quale la pianta è indicata in vecchi libri: spesso è il nome che la pianta aveva quando la presi.

Qualche nome sarà sbagliato. Le piante che si comprano dai fiorai sono quasi sempre senza nome: e anche quando l'hanno, non c'è sempre da fidarsene. Bisogna determinarle, e la determina­zione è spesso molto facile, ma qualche volta è molto difficile. Basta vedere quante volte la stessa pianta è indicata con nomi diversi dai diversi autori. E quale è il giusto? Trent'anni fa, annotavo i mie dubbi e ogni tanto andavo a cercare di risolverli in una grande collezione. Cinque volte sono andato alla collezione civica di Zurigo, diretta da Krainz, espertissimo conoscitore specialmente delle cactee (la StSSZ è anche la più comoda da Bologna, e l'ingresso è libero tutti i giorni).

Dopo la settantina, anche Zurigo cominciava a diventare scomoda. Ho mandato foto e piante al signor Krainz, pregandolo di aiutarmi. Mi aiutò e si era anche offerto di rimandarmi le piante: non ce n'era bisogno perché erano doppioni. Ma non potevo andarlo a seccare tutte le volte che avevo dubbi: non potevo mandargli piante che non avessi potuto sostituire se le poste o le dogane me le avessero perdute o sequestrate. E ho dovuto ritornare ai libri: e ai dubbi.

(') In principio tenevo le mie piante, quasi solo cactee globose, in casa, in una camera non riscaldata nell'inverno, sui davanzali in primavera e in giardino a Zola nell'estate. Dopo la guerra, cresciuta la famiglia, non potevo più tenere in casa le piante. Le ospitò un giardiniere, che con la guerra aveva perduto quasi tutte le piante, ma salvato una parte delle serre. Nel 1954, l'Orto Botanico, che sotto i ripetuti bombardamenti aveva perduto serre e piante, aveva costruito nuove serre, ma le aveva vuotate. Ci unimmo: l'Orto ebbe le piante, io ebbi l'uso di una grande serra, nella quale vado ancora a passare qualche ora tutti i giorni, l'aiuto dei giardinieri e la possibilità di avere, per mezzo di scambi con gli Orti botanici di tutto il mondo, semi di piante rare, o introvabili in Italia.

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