L'Oblò sul Cortile_Giugno2012

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NOME SOCIETÀ Giornalino del Liceo Ginnasio Statale G. Carducci, Milano A NNO VI N UMERO VII G IUGNO 2012

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Ultimo numero dell'Oblò, A.S. 2011/1012

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Giugn o 2 012

NOME SOCIETÀ

Giornalino del Liceo Ginnasio Statale G. Carducci, Milano

ANNO VI — NUMERO VII

G IUGNO 2012

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L’Editoriale ANNO VI — NUMERO VII PAGINA 2

di Chiara Compagnoni

“Me ne vado, nun c’a fazz cchiù. Chello ch’è stato è stato. Basta... ricomincio da tre” “Da zero” “Eh?” “Da zero: ricomincio da zero” “Nossignore, ricomincio da... cioè... Tre cose me so' riuscite dint'a vita, pecché ag-gi'a perdere pure chelle? Aggi'a ricomincià da zero? Da tre!”

Così Troisi nel suo film “Ricomincio da tre” dichiarava il desiderio di ricominciare, di lasciare Napoli, di andarsene e di ripartire non da zero, ma da tre, da ciò che gli era riuscito nella vita e che aveva perciò inten-zione di salvare. Con il liceo spero di conclu-dere quest’anno un capitolo da ricordare, da poter annoverare tra una delle mie tre cose riuscite.

Arrivata al Carducci cinque anni fa avevo due propositi, due soli pensieri: studiare con più passione possibile ogni materia per ottenere ottimi risultati e diventare redat-trice del giornale scolastico. La seconda pare sia riuscita efficacemente: scrivere era ed è rimasta per me la soddisfazione più grande, la forma più spontanea di espres-sione, e lavorare in questo giornale mi ha permesso non solo di parlare regolarmente a coloro che hanno avuto la pazienza di leggere un periodico redatto con dedizione e impegno da studenti che a loro volta han-no trovato sempre la voglia di comunicare qualcosa alla scuola, ma mi ha permesso di organizzare un prodotto che in questi pochi ma lunghi anni ha cambiato forma, conte-nuti, opinioni e ha cercato di migliorare la propria qualità. Il primo proposito invece è stato soddisfatto all’inizio con grande coe-renza, per poi perdere quest’ultima con il passare del tempo e con il sopravvento

della consapevolezza di non poter sempre destreggiarsi tra mille impegni e altrettan-te passioni, ma di dover talvolta cedere il passo a solo alcune attività e soprattutto allo studio.

A queste due soddisfazioni si aggiunge la terza importante conquista liceale: la co-noscenza degli amici, che stando alle leg-gende popolari pare ci si trascini con sé per il resto della vita. Le amicizie del liceo sono state le più interessanti, le più inten-se, le più amate e le più odiate, saranno realmente le più ricordate? Cercherò di tornare per farlo sapere a eventuali curio-si, nonostante l’ambiente scolastico subi-sca un continuo mutamento e già ora le mie conoscenze siano completamente alterate da quelle che feci appena giunta in quarta ginnasio.

E allora io ricomincio da queste tre cose, che per ora mi sono riuscite e che posso e devo attribuire tutte al liceo, al Carducci, al Cardo, al Giòsue (o come preferite chia-marlo), a quello che è stato e sarà il mio liceo, il nostro liceo, pieno di insidie, di travagli, di antipatie, di paradossi, di lotte, eppure apparentemente così armonioso, così tranquillo e sì, bisogna dirlo, così ac-cogliente. Nonostante il pensiero della temuta interrogazione, dei professori leg-gendariamente nemici per natura dello studente, l’ingresso ogni mattina al sorriso della Signora Elena e a quello dei compa-gni di classe e di sventure mi ha sempre rincuorata, lontana dalla noiosa casa, dalla solitudine dello studio pomeridiano; an-che perché, contrariamente alle mitologi-che voci, abbiamo avuto, tra le altre, l’opportunità di conoscere Professori che

hanno saputo guidarci e stimolarci oltre che insegnarci. Possono sorgere nei cinque anni dei dubbi sulle scelte compiute, ma nono-stante la fatica vissuta non mi pento di aver preferito il Carducci o il classico ad altre scuole, ad altri indirizzi. E ricordando la Professoressa Gusmini che cita Virgilio: “...forsan et haec olim meminisse iuva-bit” (“forse un giorno sarà bello ricordare anche questo”, Eneide I, 203).

Voglio ringraziare tutti i miei redattori e i miei compagni degli anni scorsi per essermi stati vicini, per avermi sopportata, per aver voluto essermi amici, per avermi criticata o per avermi appoggiata e voglio dire a loro e a tutti: il liceo è una risorsa, non sprecatela studiando esclusivamente sui libri, ma as-sorbite molto dall’ambiente, vivete nella società, cercate sempre di esprimere le vostre opinioni, temete invece, come dice-va Michele Serra, chi pretende di avere la verità, e manifestate contro chi cerca di imporvi la propria, sperimentate il più pos-sibile, se volete scrivere della realtà che vi circonda non fermatevi a notizie autorevoli e affidabili ma uscite e informatevi in prima persona, verificate sul campo, non accon-tentatevi mai di un’unica versione del mon-do, scopritele tutte e trovate la vostra, e soprattutto partecipate, partecipate per essere liberi, per sentirvi più liberi di quello che vi dicono potreste essere.

Con questo vi auguro come sempre e per sempre

Buona lettura attiva

Arrivederci, Carducci

Ricomincio da tre

Il cruciverba a cura di Mattia Sanvito ORIZZONTALI

1. Serve d’inverno – 12. Divinità nordica – 13. Paesaggio particolare – 14. Voglio… ai tempi di Dante – 15. Idrocarburo semplice – 16. Feat nelle canzoni (abbr.) – 17. … Lemà Sabactàni? – 19. Distorcere, modifi-care l’indole – 21. Bufera di neve – 23. Ministero Istruzione, Università e Ricerca – 24. Mare che bagna l’Italia Meridionale – 25. Linee poetiche – 26. Ingresso, passaggio – 27. Lontana – 28. Così salutavano i morituri – 29. Quella social potrebbe “salvare” l’uomo secondo Leopardi – 30. Suffisso che raddoppia – 32. A lei Milano ha soffiato l’EXPO – 34. Spesso contrasta con il reale – 36. “Ufficio” del regista – 37. In mezzo a loro – 38. Preposizione semplice – 39. Napoli – 41. Si ottiene quando si paga più del dovuto – 43. Ranking tennistico – 45. Possono essere di struttu-ra o da ponte – 48. Altari romani – 49. Arma di terrificante potenza

VERTICALI

1. Quello più famoso nella storia fu quello ardente – 2. Falso dio – 3. Un Inzaghi calciatore (iniz.) – 4. Consiglio Nazionale delle Ricerche – 5. Sta nel cuore del Laos – 6. Non più recente – 7. La propria donna – 8. Più per meno – 9. Smisuratamente – 10. Alle porte di Novara – 11. Famosa è quella della Luna Piena – 15. Autore degli Annales – 16. Sprona i ca-valli al galoppo – 18. Una parte dell’occhio – 19. Percepisco – 20. Così è anche chiamato il Novara – 22. Dativo di εγώ – 25. Entrandovi bisogna fare molta attenzione – 26. Cupidigia – 27. Gheddafi lo era in Libia – 28. Calciatore blaugrana – 29. Centimetro – 31. Sostenitore accanito – 32. Ipotesi – 33. Lo è colui che muore per la patria – 35. Sono uguali nel rombo – 37. Antico contenitore di liquidi – 40. Royal Air Force – 42. Lo zio americano – 44. Pordenone – 46. È insieme allo zero in una raccolta di racconti di Calvino – 27. Sei romano

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A scuola si dovrebbe morire solo di noia di Martina Calcaterra

S abato 6 maggio alle ore 7,45 un ordi-gno, probabilmente innescato da un comando a distanza, ha generato una spaventosa esplosione davanti alla

scuola Morvillo Falcone di Brindisi, provo-cando la morte di una studentessa ed il feri-mento di altre sei. La vittima si chiamava Melissa Bassi e aveva solamente sedici anni. Come le sue compagne era davanti alla pro-pria scuola, in attesa di entrare per l’inizio delle lezioni. Le indagini, coordinate dal Procuratore Capo di Brindisi Marco Dinapoli, vanno in tutte le direzioni senza tralasciare alcuna pista, con uno spiegamento di forze enorme, equamente sud-diviso tra polizia e carabinieri, con la scientifica ed i RIS che stanno analizzando con attenzione i resti della bomba trovati sul luogo della tragedia. Tre sono comunque le ipotesi sulle quali gli investigatori si stanno muovendo: -La pista mafiosa della Sacra Corona Unita -La strage terroristica -Il gesto isolato di un folle Al momento, come già detto, nessuna ipote-si viene scartata a priori, sebbene quella che nelle ultime ore sta prendendo più corpo è quella del gesto sconsiderato di un folle. Il perché di tale scelta è presto detto. Gli in-quirenti tendono ad escludere la pista della Sacra Corona Unita per diverse ragioni. In primo luogo quella scuola era frequentata da figli e nipoti di importanti membri di tale organizzazione. In secondo luogo il tipo di esplosivo adoperato (bombole di gas) non è assolutamente usuale per la mafia che, al

contrario, ha sempre fatto ricorso al tritolo per attentati di questo genere. C’è da consi-derare poi che nel mirino della mafia non c’è mai stata la gente comune, bensì magi-strati, carabinieri, giornalisti e via dicendo. Inoltre, un attentato di tale nefandezza ha di fatto blindato la città di Brindisi, ostaco-lando tutti gli affari della Sacra Corona Uni-ta. La quale – a ulteriore riprova del suo mancato coinvolgimento – si è persino resa disponibile a collaborare in ogni modo alla cattura dei colpevoli. Per quanto riguarda poi la pista terroristica, due sono le ragioni

principali che spingo-no gli inquirenti ver-so la sua esclusione: -Non c’è stata alcuna rivendicazione -Mai sino ad ora era stato preso di mira un istituto scolastico Alla luce di tali consi-derazioni rimane l’ipotesi di un gesto isolato di un folle o di qualcuno che potesse avere motivi di ran-

core verso qualcuna delle vittime dell’esplosione. Quel che appare certo è che, in ogni caso, l’obiettivo del responsabi-le era senz’altro compiere una strage, in quanto l’orario prescelto era proprio quello in cui gli studenti sono soliti entrare in clas-se. Il che denota una meticolosa pianifica-zione dell’azione in ogni suo momento. Il quadro si fa più nitido ora che la polizia è entrata in possesso di una video-registrazione filmata da una telecamera di sicurezza che sembrerebbe avvalorare la tesi del comando a distanza: le immagini ritraggono infatti una persona che, poco distante dall’ordigno, sembra azionare un telecomando, per poi allontanarsi veloce-mente. Gli inquirenti stanno dunque proce-dendo ai primi riscontri. Al di là delle ipotesi

più avvalorate, a suscitare clamore è la coin-cidenza della data della strage con il ventesi-mo anniversario della strage di Capaci, dove persero la vita per opera della mafia il giudi-ce Falcone, sua moglie e i membri della scor-ta, e il fatto che tale gesto sia avvenuto in una scuola intitolata proprio a Giovanni Fal-cone e alla moglie. Che tutto ciò sia una pura casualità o meno, resta comunque il fatto certo e innegabile della paura reale, della paura lecita di ragazzi che ormai non si sen-tono più sicuri e tutelati quando varcano la soglia della propria scuola. E questo è pro-prio quello che invece non deve accadere. E’ comprensibile che ciò possa avvenire, ma è necessario riuscire con tutte le nostre forze a reagire. La scuola è la fucina del sapere, l’istituzione dove i ragazzi imparano a diven-tare dei cittadini responsabili e consapevoli all’insegna della legalità, dove si plasmano le generazioni future. E’ un luogo dove gli stu-denti hanno il diritto di sentirsi al sicuro. Tutto ciò deve continuare e deve essere pre-servato. Nella lettera che il Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha mandato a tutti gli studenti, sono proprio questi i temi trattati. Lo Stato deve essere sempre e subito presen-te in momenti come questi per far sentire la propria vicinanza e la propria reazione di fronte a gesti così inumani. Ma soprattutto, ha continuato il Ministro, “non bisogna cadere nella trappola della paura, dobbiamo sapere dire no e, quindi, mi aspetto che tutti domani tornino a scuola per dare un segnale importante in tal senso”. Ebbene tutti gli studenti sono tornati a scuo-la, hanno dato il loro segnale importante, non si sono lasciati intimidire. Aspettiamo fiduciosi che anche lo Stato dia le sue risposte importanti, chiudendo al più presto le indagini ed arrestando gli autori di questo misfatto. Con la speranza che questa non passi alla storia come l’ennesima strage rimasta impunita.

ATTUALITÀ

Per Falcone e Borsellino di Chiara Conselvan

I l 23 Maggio è ricorso il ventennale dell’omicidio da parte della mafia del magistrato Giovanni Falcone. Con lui e Capaci sono morti la moglie e tre agen-

ti. Due mesi dopo anche Paolo Borsellino ha subito la stessa sorte insieme agli uomini della sua scorta. E’ in memoria di questo che un gruppo di studenti e professo-ri, guidati dalla prof.ssa Ma-scellani e dal prof. Farina, hanno pensato di intitolare la nostra Aula Magna a Falcone e Borsellino, sia pure simbolicamente e uffi-ciosamente: l’iter burocratico è molto lungo e partirà dal CdI, il quale ha però avuto luo-go il 31 Maggio. Soprattutto in seguito agli eventi che hanno segnato Brindisi e hanno messo in allarme tutta Italia, la proposta di

commemorare proprio a scuola i magistra-ti antimafia, che più hanno lavorato per la sicurezza dello Stato, ha riscosso un gran-de successo tra studenti e professori; la dirigenza ha invece taciuto. Nonostante ciò, durante l’intervallo, un folto gruppo di

ragazzi e docenti si è riunito davanti all’Aula Magna. Il nostro rap-presentante d’istituto Simone Zanin ha fatto

una piccola introduzione all’intitolazione, lasciando poi la parola al prof. Giovannetti, che ha esposto brevemente l’importanza storica e sociale dei due magistrati e ha insistito su quanto la mafia rappresenti realmente l’anti-Stato, e sia un cancro per tutti noi. Dopo di lui la prof.ssa Anna Maria Frigerio ha spiegato che una vicenda del

genere non richiede solo la capacità di emo-zionarsi, ma deve soprattutto far nascere dentro di noi la consapevolezza dei fatti accaduti e di un problema che ancora oggi mina la nostra sicurezza. La targa per il mo-mento consiste in uno striscione di carta appeso sopra la scritta: “la (p)rovin(ci)a di Milano”, ma è probabile che parta dal CdI la richiesta di un’intitolazione ufficiale alla Provincia stessa, proprietaria dell’Aula Ma-gna. Per il momento agli studenti del Car-ducci, che come me condividono pienamen-te questa iniziativa, basta anche solo guarda-re quella scritta, ricordare i due magistrati ed essere fieri che la propria Aula Magna abbia finalmente un nome, il quale, proprio perché evidenziato con uno striscione fai-da-te, rappresenta la voglia che tutti noi abbia-mo di commemorare per non dimenticare.

“partirà dal CdI la richie-sta di un’intitolazione

ufficiale alla Provincia”

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di Chiara Compagnoni

Macao è un esperimento, un movi-mento, un’idea che ancora deve modellarsi sulle esigenze e sulle proposte dei cittadini milanesi e che è nata dal desiderio dei lavoratori dell’arte di trovare uno spazio ideale e concre-to al tempo stesso per poter amministrare orizzontalmente le necessità artistiche della città. Dopo le esperienze del Cinema Palazzo di Roma, primo e più longevo tentativo di quella che artisti e lavoratori hanno chiamato “liberazione” di uno spazio pubblico destinato alla chiusura e al degrado culturale, del Teatro Valle, il più attualmente noto e importante caso di occupazione in Italia, stimolo per numerosi altri movimenti, del Tea-tro Marinoni e del Sale Docks di Venezia, del Teatro Coppola di Cata-nia, del Teatro Garibaldi di Palermo, del Forum delle culture di Napoli, anche a Milano un grup-po di lavoratori dell’arte ha espresso la volontà di avere per sé un luogo in cui creare liberamente e organizzare democratica-mente gli spazi e le attivi-tà. Perciò è nato Macao (nome che trae spunto dalle sigle dei Musei di Arte e che parodisticamente ne riprende l’inizio dell’acronimo per coniarne uno pro-prio, al quale però non è ancora stato attribui-to un significato definitivo): il movimento, radunatosi per la prima volta nel giugno 2011 per sviluppare riflessioni sulla cultura e sulla precarietà milanesi, dà vita ad assemblee pubbliche nel settembre e dopo un’occupazione temporanea di un giorno del PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) si dedica allo sviluppo finale del progetto Macao dal novembre 2011 ad oggi. Il 5 maggio 2012 viene così occupata la Torre Galfa, grattacielo abbandonato da 15 anni e di proprietà dell’imprenditore Salvatore Ligresti, adiacente alla Stazione Centrale di Milano, punto nevral-gico di comunicazioni e di integrazione cultu-rale. Sgomberato tale edificio il 14 maggio, dopo il primo tentativo, il movimento è rima-sto nello spiazzo di fronte alla torre, propo-nendo assemblee pubbliche e un enorme concerto di studenti del Conservatorio Verdi e di musicisti uniti in una extra-large jam ses-sion, fino a sabato 19, quando Macao si è spostato a Brera per occupare il vuoto Palazzo Citterio (statale), “liberato” da Macao fino al martedì successivo, 22 maggio, data del se-condo sgombero subito dal movimento.

Ad ora non si hanno notizie certe sul futuro di

Macao, data la decisione degli occupanti di mantenere a seguito dell’accaduto il silenzio stampa, ma il suo obiettivo è ormai dichiara-to: gli spazi occupati dovrebbero essere destinati a individui o associazioni che, par-tecipando al bando già indetto (e che ha ricevuto centinaia di proposte) dal movi-mento (http://bando.macao.mi.it/), verreb-

bero scelte secondo criteri decisi democrati-camente dalla comunità di Macao, perché trovino in essa il proprio libero mezzo e-spressivo.

Differenti sono però le opinioni sulle occupa-zioni finora attuate e le teorie riguardanti gli spazi di tali occupazioni: intervistando da una parte Francesco Purpura, attivista di Macao, giovane educatore e co-docente di scuola superiore, e dall’altra, invece, l’Assessore alla Cultura Architetto Stefano Boeri, ho constatato quali siano state le affinità, i punti d’incontro e diversamente i contrasti tra l’amministrazione comunale e i promotori del movimento.

Francesco (noto come Franz) spiega che la Torre Galfa (ex sede SAI di pro-prietà Ligresti) è stata occupata poiché partendo dall’arte si è voluto andare oltre per stabilire un collegamento con l’esterno tramite la cultura: si è voluto dare un impatto simbolico for-tissimo per muovere una critica alla modalità con cui viene governata la città e alla speculazione edilizia. L’occupazione voleva essere un atto pubblico, “il gesto è stato quello di aprire un luogo insieme”. L’Assessore

Boeri manifesta da subito il proprio appoggio a tale gesto, presentandosi a Macao per dimostrare il suo favore, anche se nell’intervista chiarisce la situazione dell’edificio: “Ligresti

per quanto riguarda la Torre Galfa è ormai fuori dai giochi, ora l’amministrazione di quel-lo spazio è in mano agli acquirenti della Fon-diaria, venduta poiché in fallimento”. Inoltre Boeri afferma che l’amministrazione Comuna-le per difendere l’occupazione di Macao a-vrebbe esclusivamente potuto costituire un protocollo per facilitare il riutilizzo di spazi in

disuso temporaneo oppure cambiare i prin-cipi dell’IMU sulle se-conde proprietà, ma entrambi i meccanismi (o altri) avrebbero ri-chiesto dei tempi trop-po lunghi rispetto alla tempestiva richiesta di sgombero da parte di Fondiaria SAI.

I passi successivi al primo sgombero hanno portato a un’assemblea permanente, come racconta Franz, tenuta-si di fronte al grattacie-lo, che ha permesso di discutere pubblicamen-te le caratteristiche del luogo che si sarebbe

voluto occupare, mentre in seguito, a causa dell’impossibilità di rendere manifeste le co-ordinate della nuova illegale occupazione, è stato il gruppo originario di Macao a concre-tizzare la scelta e il gesto, facendo subito con-fluire il resto dei cittadini a Palazzo Citterio. L’edificio fa capo al Ministero per i beni cultu-rali, è dunque statale ed è situato al centro della città, in via Brera, nelle vicinanze dell’Accademia. È vuoto da 40 anni (ha solo ospitato nel 2010 per qualche mese una mo-stra) e Francesco racconta che “su di esso pende un progetto, fermo e che al momento non vede concreta possibilità di realizzazione, per il quale già in precedenza erano stati stan-ziati 52 milioni di euro, scomparsi, e comun-

ANNO VI — NUMERO VII ATTUALITÀ

Si potrebbe anche pensare di volare

Intervista all’Assessore alla Cultura Stefano Boeri e a Francesco Purpura, attivista del movimento Macao

Foto di Chiara Compagnoni, Palazzo Citterio — web editors

Foto di Chiara Compagnoni Inside TorreGalfa

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PAGINA 5 G IUGNO 2012

Macao

que insufficienti per la totalità del progetto, come insufficienti sono i 23 milioni nuova-mente stanziati lo scorso anno sui 150 neces-sari”. Boeri replica evidenziando che Palazzo Citte-rio è coinvolto nel progetto “Grande Brera”, il quale prevede di spostare parte dell’Accademia nella Caserma Mascheroni (da ristrutturare), di recuperare Palazzo Citterio (in cui trasferire parte della Pinacoteca) e di ristrutturare la Pinacoteca stessa. L’intero progetto richiederebbe un finanziamento di 105/120 milioni, di cui per ora è stato stanzia-to 1/5 (a Palazzo Citterio andrebbero circa 13 milioni per la ristrutturazione di tutta la parte storica settecentesca, al piano terra, alla Ca-serma Mascheroni 4/5 milioni, mentre il resto

andrebbe all’Accademia di Brera). “È un primo passo” sostiene l’Assessore, “non definitivo ma di fondamentale importanza. Inoltre, es-sendo Palazzo Citterio statale, il mio è stato un ruolo esclusivamente di grande pressione per la realizzazione del progetto, che è stata annunciata pubblicamente già tre mesi fa”.

Macao, nonostante le assicurazioni fatte dal Comune e dal Ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi sulla prossima partenza del progetto di Palazzo Citterio, ha temuto che ciò non sarebbe avvenuto e ha voluto dare con l’occupazione una scossa alle istituzioni coin-volte, mentre l’Assessore Boeri conferma che se il bando per il progetto. partirà quest’anno, i lavori potrebbero iniziare ad aprile o maggio prossimi.

Tra le due occupazioni Macao ha ricevuto dal Comune la proposta di trasferire il movimento negli spazi dell’ex-Ansaldo, ma gli occupanti hanno rifiutato l’offerta, poichè, come ricorda Francesco Purpura, “gli spazi dell’ex-Ansaldo

erano già stati dedicati a un progetto del Comune, perciò Macao non ha voluto avere alcuna “corsia preferenziale”, né privare di quello spazio chi prima di lui era in attesa di poterne usufruire. Inoltre Macao non vuole dipendere dal Comune, da una gerarchia, ma vuole sperimentare dal basso dei metodi per unire chi presenta e chi riceve le propo-ste di un bando”. A tale proposito Boeri spiega che per l’Ansaldo era già stato pensa-to un progetto di “Officine Creative” da svi-luppare nello spazio di 6000 metri quadri che lo compongono, oltre ai laboratori del Tetro alla Scala, al Museo delle Culture (“Città Mondo”), alla zona dedicata a moda e design, il quale dovrebbe

andare in autogestione a realtà interessanti di Milano, che non siano mediate da un bando, ma a cui gli spazi siano assegnati secondo il rispetto di criteri definiti.

Macao non è apparso totalmente favorevole alla collaborazione con il Comune, però Franz sostie-ne: “la collaborazione è possibile, ma Pisapia non deve dare un soluzione a Macao, bensì è ben-venuto a parlare con il movimen-to per trovarne una insieme. In

ogni caso Macao non deve limitarsi al suo spazio, deve invece cercare di sistemare anche la situazione al proprio esterno”.

Sullo stesso tema Boeri, alla domanda della collaborazione, risponde: “capisco e rispetto le ragioni di chi, occupando uno spazio vuo-to, ritiene non di occuparlo ma di liberarlo, però è indubitabile che tale comportamento sia non “antagonista” ma sicuramente “altro” dalle politiche pubbliche. L’amministrazione riconosce che possano esserci tali spinte, energie, movimenti, rela-zioni di potere orizzontali, e quando questa alterità si manifesta anche in forme spaziali di non liceità o legittimità formale, va capita, seguita e controllata, se risulta compatibile con l’utilità sociale”.

Momentaneamente il movimento di Macao sta organizzando nuovi tavoli di lavoro in diverse zone della città per raccogliere artisti e cittadini per la formulazione di un nuovo progetto e, riunendosi regolarmente, sta

pensando al suo futuro e a un nuovo spazio da occupare. Francesco racconta di come durante l’occupazione siano nati spontanea-mente gruppi di lavoro, dalle proposte perso-nali di chi notava dei bisogni per la struttura o per gli occupanti: c’è chi si è dedicato agli interni, per rimuovere oggetti pericolosi e sistemare gli spazi, chi all’esterno (gruppo giardinaggio che ha rinnovato il poco verde delle Torre Galfa rendendolo spazio piacevole e orto destinato a fruttare), chi della pubblici-

tà sul web, chi della parte informativa per la stam-pa, chi del bando, chi del lato artistico (musica, pittura, recitazione): o-gnuno ha potuto collabo-rare con le proprie idee e le proprie proposte.

La meta è ora quella di riuscire a ricostruire una realtà effettivamente democratica e che permetta a qualsiasi cittadino di partecipare attivamente, senza restrizioni e senza costri-zioni.

Macao, in qualsiasi forma si manifesti, tramite

qualunque individuo, organizzazione o comu-

nità deve rappresentare un bene comune che

aiuti e dia la possibilità a chiunque di espri-

mersi, deve essere di tutti e per tutti. Nono-

stante la sua genesi sia avvenuta grazie ad

alcuni soli soggetti, il suo scopo deve essere

quello di diventare proprietà collettiva e aper-

ta. Se vuole perseguire l’obiettivo prepostosi

deve poter essere disposto anche alla collabo-

razione con il Comune, per trovare quello

spazio ideale ma concreto nel quale possa

effettivamente realizzare il proprio progetto

culturale, che per quanto nato dal basso pos-

sa poter convivere con l’istituzione all’interno

della quale si è generato e si riproduce.

ATTUALITÀ

“Meravigliosamente Accadono Cose Anche Francesco Oggi” Purpura

Foto di Chiara Compagnoni, Piazza Macao (@TorreGalfa)

Foto di Chiara Compagnoni, Giardinaggio @TorreGalfa

Foto di Chiara Compagnoni, Piazza Macao (@TG)

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PAGINA 6 ANNO VI — NUMERO VII ATTUALITÀ

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PAGINA 7 G IUGNO 2012 ATTUALITÀ

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PAGINA 8 ANNO VI — NUMERO VII CRONACHE CARDUCCIANE

di Federico Regonesi

L 'ultimo consiglio d'istituto dell'an-no si è svolto, dopo vari rinvii, il 31 maggio. Questo ha creato un certo malcontento tra gli studenti.

Si era infatti chiesto di tenere il consiglio in anticipo, per approvare il pagamento delle foto di classe, ma malgrado le frequenti sollecitazioni si è stati costretti a fare le foto senza l'approvazione del CdI, votando in seguito il prodotto finito — su cui oltre-tutto la Preside ha espresso una certa di-sapprovazione: non ama la grafica dell'an-nuario, ma accetta la scelta degli studenti. Come al solito non si è portato a temine quasi nulla, solo la prolunga di vari con-tratti di servizio, cioè di quei contratti con le ditte fornitrici di fotocopiatrici, con i responsabili dell'aula di informatica, e simili. Dopo le prime formalità si è parlato delle foto di classe, come accennavo prima. Gli studenti hanno dimostrato la loro re-sponsabilità in questo frangente, in quanto non solo hanno dovuto fare tutto da sé, pur avendo a più riprese chiesto un consi-glio d'istituto, ma hanno anche dovuto fare una scelta poco trasparente tra le varie proposte. Una volta approvata la scelta degli studenti si è parlato delle pro-ve Invalsi recentemente svoltesi, ma ri-guardo a questo non c'è molto da dire che interessi gli studenti, ma pare che siamo più bravi della media in Italiano, mentre in Matematica abbiamo più problemi. Illumi-nante. Si è anche discusso dell'alternativa all'inse-gnamento della religione. I dati sono chiari: la maggior parte degli studenti non si avvale dell'insegnamento della religione, ma di tutti quelli che non sono in classe in quell'ora — cioè più di 400 — solo 19 frequentano attività alter-native. La motivazione di questo evidente falli-mento è stata data dagli studenti. Infatti come sarebbe stato possibile scegliere di svolgere un'attività, senza sapere QUALE attività?

Ci è stato chiesto di scegliere a scatola chiu-sa come passare un'ora alla settimana, quando potevamo passarla comunque a studiare o a rilassarci. Come è stato possibi-le credere che questa idea avrebbe preso piede? Rimando alla conclusione le mie osserva-zioni su questo punto. In questo momento ero veramente stupe-fatto: eravamo quasi alla fine del consiglio e non si era ancora litigato. Ovviamente le mie speranze sono state vilmente calpestate. L'ultimo punto era l'intitolazione dell'aula magna a Giovanni Falcone e Paolo Borselli-no; durante la discussione ho sentito cose che mi hanno turbato non poco, ma pur-troppo non sono nemmeno riuscito a segui-re tutta la questione, in quanto a un certo punto sono stato allontanato. Andiamo con ordine. Il primo a intervenire è stato il Dirigente Scolastico, che ha fatto notare che ciò che è avvenuto non è una intitolazione, in quanto le intitolazioni sono ufficialmente riconosciute, mentre questa non lo era. Poi un gruppo di professori ha letto una propria lettera, che diceva più o meno: “pur essendo noi assolutamente favorevoli alla celebrazione di figure quali quelle di Falcone e Borsellino, riteniamo che il modo in cui è avvenuta questa celebrazione non sia consono a queste due grandi personali-tà”. Falcone e Borsellino sono morti per lo Stato e per la legalità, e quindi per celebrarne adeguatamente la memoria bisognerebbe passare per mezzi legali e non basarsi uni-camente sul "consensum gentium". Personalmente ho molto da ridire. Il cosiddetto "consensum gentium" è pro-prio ciò che avrebbe permesso a Falcone e Borsellino di sconfiggere la mafia. Se, grazie alla volontà di tutti, si riuscisse a rompere il velo di colpevole omertà che è posato sulle zone infestate dalla mafia, allora il loro lavoro si potrebbe dire concluso. E' proprio la volontà del popolo di venire incontro all'istituzione l'obiettivo dell'antimafia,

non, come pare che alcuni credano, la sem-plice prova di forza nello scontro tra mafia e stato. E l'antistato si combatte proprio con azioni come quella del 23 maggio, azioni piccole e radicate nel territorio, testimoni di una volontà di cambiamento. La lotta alla mafia non si fa ai piani alti, ma qua giù per le strade e sui marciapiedi. Non solo, l'iter burocratico necessario all'ap-provazione da parte della Provincia per un'intitolazione ufficiale è molto lungo, e quindi per arrivare giusti il 23 maggio ci si sarebbe dovuti attivare molto tempo prima. Inoltre il percorso per arrivare all'intitolazio-ne parte dal CdI, che dovrebbe semplice-mente rispondere alla volontà di tutti. Purtroppo la risposta alla lettera non è stata questa, ma piuttosto si è ribattuto che nella scuola si rispettano le regole come e quando si vuole. Chi ha risposto ha citato il caso -senza farne il nome - della ragazza che, en-trata in Presidenza per proporre l'intitolazio-ne, è uscita in lacrime. La discussione si stava infiammando, ma il DS mi ha fatto uscire dalla sala, in quanto in virtù della norma sulla privacy non è possibi-le per esterni assistere alle sedute del Consi-glio se vengono fatti nomi propri. Ovviamente sono uscito senza protestare, ma ho avuto la sensazione che questa norma non sia stata applicata con assoluta regolari-tà, ma solo al momento più utile. Quindi così finisce la mia esperienza di quest’anno in CdI. E ho imparato una sola cosa: il Consiglio di Istituto è un organo malato. Tutte le propo-ste che gli studenti portano alle elezioni non contano assolutamente nulla. Non importa che cosa venga promesso agli studenti, sia essa un'assemblea aggiuntiva come gli stati generali, o una mostra sull'unità nazionale, tutto si perde in un marasma di proposte inutili, per cui alla fine tutto si impantana e nulla viene deciso. Non ho mai visto un cambiamento in questa scuola. Però la colpa non è solo della lentez-za del CdI. I veri cambiamenti li dovremmo fare noi, gli studenti. Per una buona volta ci dovremmo attivare, superare tutti gli impe-

dimenti burocratici e FARE. Una volta ottenuto un risultato gli altri dovrebbe-ro semplicemente accettarlo. Ma queste cose le sanno tutti. La verità è che quasi nessuno in questa benedetta — davvero! — scuola è inte-ressato al cambiamento. E a questo non so proprio come porre rimedio. Ma credo che nessuno di coloro che lavora-no per il bene della collettività smette-rà di provarci.

CdI - Terzo e ultimo capitolo

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PAGINA 9 G IUGNO 2012 CRONACHE CARDUCCIANE

I Sette Savi torneranno a casa di Eleonora Sacco e Mattia Serranò

La storia

La prima versione dei Sette Savi - altre, infat-ti, seguiranno nel corso degli anni - viene realizzata prima del 1940. Alcune sono state smarrite o collocate negli studi e nelle case di architetti e artisti milanesi. Una in gesso è collocata con un allestimento di grande atmo-sfera al piano d'onore del Mart di Rovereto. Quella che tratteremo è la versione in pietra di Viggiù che è stata ritrovata inaspettata-mente alla fine del 2007 nei sotterranei del Liceo Carducci di via Beroldo, a Milano. La vicenda di queste sette statue comincia nel 1960, quando, su commissione (onerosa: quasi 6 milioni di vecchie lire) del Comune di Milano, Melotti realizza una copia in pietra dei “Sette Savi” per il Liceo. Il Comune di Mi-lano aveva precedentemente commissionato a quattro artisti opere da collocare nelle arca-te delle logge di Piazza Duomo. Le statue, in realtà, furono poste in quattro istituti supe-riori di Milano, in base a una legge che asse-gnava una quota non infe-riore al 2% della spesa stata-le, prevista nel progetto d e l l ’ e d i f i c i o , p e r l’abbellimento di edifici pubblici con opere d’arte. I “Sette Savi” di Melotti al Carducci, dopo due anni, vengono danneggiati dalle imbrattature di alcuni stu-denti e collocate (solo re-centemente si è potuta ricostruire tutta la storia) in un garage all’interno della scuola. Già pochi anni dopo, fonti ufficiali e non conside-rano le opere “disperse”: Melotti, da un giorno all'al-tro, passando di fronte al liceo vede sparire le sue statue e non ottiene risposta di alcun genere né dalla scuola né dall'assessorato competente dell'epoca. Per-sino al Carducci, la loro memoria rimane viva solo fino ai primi anni Ottanta, quando il Pre-side Diotti del Carducci si mette, purtroppo inutilmente, alla ricerca delle statue e dei documenti. Melotti, nel frattempo, offeso dal trattamento riservato alla sua opera, discono-sce i Savi carducciani e realizza nuove copie per il PAC di Milano e la Galleria d’Arte Mo-derna di Roma. La morte di Melotti, avvenuta nel 1986, porrà fine alla questione.

Il ritrovamento

Nel 2007, dopo ricerche e indagini, le statue vengono rinvenute dal professor Vincenzo Viola e dalla custode della scuola in un garage sotterraneo, sepolte da banchi, sedie e altro materiale in disuso. La vicenda finisce su tutti i giornali. L’allora Assessore ai Beni culturali del comune di Milano, Vittorio Sgarbi, il diret-tore scolastico regionale e della Provincia visitano il deposito, promettendo un tempe-stivo restauro. I quotidiani riferiscono anche le intenzioni dell’ex carducciano Virginio (Gerry) Scotti, che afferma di voler donare circa 25mila euro per il restauro, a condizione che le statue rimangano al Carducci. Il Diri-

gente Scolastico Mirella De Carolis, però, rifiuta ogni offerta senza fornire spiegazioni.

Chi è il proprietario? Comune vs. Provincia

Quando le statue furono commissionate, gli edifici scolastici e il materiale in essi conte-nuto appartenevano ai singoli Comuni. L’11 Gennaio 1996 viene emanata la legge 23 che sancisce il passaggio degli edifici, ospi-tanti scuole superiori, di proprietà comuna-le in uso gratuito alla province di pertinen-za. Accade così che anche il Carducci, il 21 dicembre del 2001, viene passato alla ge-stione della Provincia di Milano. Attenzione: l'edificio e le sue pertinenze, in uso; i ban-chi, le lavagne, le sedie in proprietà. Un’opera d’arte come quella di Melotti è considerata secondo consolidata giurispru-denza come “pertinenza” dell’edificio (cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa); pertanto segue la sorte del bene principale. In uso l'edificio Carducci, in uso le statue. Fino al 2009 si credeva che le statue fossero state un dono

di Melotti al Carducci, e la mancanza di do-cumenti ufficiali ren-deva la vicenda - fino a quel momento - assai oscura e incom-prensibile. Nel set-tembre 2009, il ritro-vamento dei docu-menti originali relativi al contratto tra Co-mune di Milano e lo scultore nell’archivio del Comune di via Deledda, da parte di Elisabetta Pellarin, matematica, studiosa e collaboratrice in Bovisa dell'Arch. S.

Levi della Torre per Storia dell'Arte contem-poranea ed ex vice presidente del Consiglio d’Istituto, contribuisce a dissipare definitiva-mente la nebbia intorno alla proprietà delle opere. Nel 2010 la Provincia tenta nuova-mente il ratto, comunicando a Pellarin che le avrebbe iscritte da lì a poco al suo patri-monio. Pellarin subito allerta il direttore di settore allora competente, quello dell'Edu-cazione del Comune di Milano, dr. Merca-dante, che comprende la gravità della situa-zione: coinvolge l'allora Ass. Moioli e invia una lettera di fuoco, a chiare lettere, che intima alla Provincia di non procedere oltre con pretese infondate sul valorosissimo bene. Non è finita qui: alla fine del suo man-dato, nel maggio 2011, è assodato (notizie recenti) che la giunta Moratti abbia trasferi-to (a firma del dr. Claudio Salsi, direttore del Castello Sforzesco) la proprietà alla Provin-cia di Milano tramite una “lettera”. Modali-tà irrituale per operazioni di questo genere: anche gli spilli, in Comune, necessitano di delibera di Giunta per essere trasferiti in proprietà ad altro ente. La Provincia di Mila-no, interpellata dopo il trafugamento dalla giornalista Tiziana De Giorgio, La Repubbli-ca, comunicherà il passaggio di proprietà ma non esibirà mai la carta.

Trafugati di nascosto

Arriviamo al 31 Gennaio 2012: il Dirigente Scolastico De Carolis comunica al Consiglio d’Istituto del liceo, in coda alle comunicazioni del dirigente, di aver consegnato le statue alla Provincia. Il pomeriggio di sabato 28 gen-naio, a scuola deserta, un camion ha caricato le statue "portandole a restaurare con i finan-ziamenti di SEA, per poi esporle all’aeroporto di Malpensa". I membri del Consiglio riman-gono sbalorditi. Al CdI seguente, il DS afferma di non avere mai ricevuto comunicazioni ufficiali riguardo alle intenzioni della Provin-cia, e, anzi, di essere stata “la meno informa-ta di tutti”, perché – ha dichiarato – ne è venuta a conoscenza solo “tramite conoscen-ze, in maniera del tutto informale” il giorno precedente. La consegna remissiva delle sta-tue è, a detta del Consiglio, inspiegabile, so-prattutto perché la Provincia, prima di prele-vare l’opera, avrebbe dovuto interpellare l’organo scolastico competente.

I Savi all’aeroporto

Niente più Savi al Carducci, dunque. La noti-zia consegue poco successo mediatico; gli stessi studenti, per larga parte, non ne sono a conoscenza. Le voci parlano di un’intesa fra Provincia e SEA, la società di gestione degli aeroporti di Milano, che avrebbe pagato il restauro in cambio di un’esposizione a Mal-pensa. Pochi sanno che Fausto Melotti conce-pì i suoi Savi con una precisa disposizione, detta di “conversazione”, studiata apposita-mente per il cortiletto del Liceo Carducci. La prof.ssa Pellarin, informata da membri del Consiglio di Istituto, allerta immediatamente il Sindaco Pisapia, l'Ass. Boeri, il Presidente del Consiglio Comunale, Basilio Rizzo e l'Asso-ciazione degli ex Carducciani. Anche Marta Melotti, la figlia dell'Artista, è all'oscuro di molte manovre, e mobilita le avvocature. La Provincia, inizialmente, sembrerebbe averla avuta vinta, ma…

Fine lieto, ma non troppo

Il parere dell’avvocatura comunale, consulta-ta in via ufficiale dall'Ass. Boeri, è netto: la proprietà delle opere è inequivocabilmente del Comune di Milano, che diplomaticamente sottoscrive un accordo con SEA. Il restauro sarà a suo carico (si noti che nel 2011 l'asso-ciazione degli ex Carducciani aveva concreta-mente proposto il restauro all'ente gestore, la Provincia, senza mai ottenere riscontro), che potrà esporre le statue a Malpensa per alcuni mesi, per poi restituirle al Comune. I Sette Savi, ha dichiarato l’assessore Stefano Boeri anche durante l'incontro recente nell'ultimo Agorà, troveranno collocazione definitiva presso il Liceo Carducci.

Questa conclusione positiva arriva dopo anni di conflitti e trattative, a volte paradossali, e molti punti ancora oscuri, tra diversi ammini-stratori locali, incapaci di gestire la cosa pub-blica nell’interesse comune, ma sempre pron-ti a cercare vantaggi per la propria fazione politica. Senza l’intervento dei cittadini, geni-tori, studenti e docenti della scuola la conclu-sione sarebbe stata sicuramente molto diver-sa.

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PAGINA 10 ANNO VI — NUMERO VII CRONACHE CARDUCCIANE

I n seguito all’articolo di Eleonora Sacco, apparso sul giornalino del Liceo Classico Carducci, a proposito del corso di Educa-zione all’affettività “Corso interattivo sull’affettività di coppia”, ripropongo all’attenzione dei lettori i risultati del questio-nario anonimo presentato dal Consultorio accreditato ASL La Famiglia, compilato al termine del corso dagli studenti delle 3 classi partecipanti.

Essendo esauriente rispetto alle obiezioni mosse, ritengo che denoti che quanto scritto nell’articolo siano valutazioni sogget-tive e personali dell’autrice. Il sondaggio permette un’analisi approfondita dei vari aspetti dell’esperienza del corso e non so-lamente una risposta generica sulla valutazione del corso.

Si riportano le valutazioni espresse in percentuali ed in “decimi” (perché più familiari in ambito scolastico rispetto alle rispo-ste in scala da 1 a 5 del questionario).

PRINCIPALI ITEMS DEL QUESTIONARIO ANONIMO RISERVATO A CIASCUN PARTECIPANTE

- Riproporresti il corso ad altre classi? RISPOSTE: 49 Sì (94%) e 3 no (6%)

Ricordo che la partecipazione ai corsi proposti dalla Scuola con il Progetto di Educazione alla Salute (proposto ed approvato in Collegio Docenti) per le classi del triennio è libera, a scelta tra due proposte, e ratificata dai singoli Consigli di Classe. In data 22/5/12 si è svolta la restituzione del corso ai genitori.

Venerdì 8/6/12 alle h.13.15, in collaborazione con l’equipe del Consultorio, in un’aula al 2° piano, proponiamo un incontro libero ed aperto agli studenti interessati ad un giudizio approfondito e documentato sul corso stesso e per esprimere esigen-ze personali o richieste per l’anno prossimo.

La Referente al Progetto di Ed. alla Salute Prof.ssa Marcella Del Genovese

1.1 Gli argomenti trattati sono utili e interessanti: valutazione decimale: 7,40

1.2 Il corso è stato un’occasione di approfondimento del modo di pensare a se stessi e alle proprie relazioni: 6,72

1.3 Nel corso le domande poste e la trattazione a partire da esse ti sono servite: 6,78

1.4 I tuoi compagni si sono coinvolti: 6,40

1.5 Tu ti sei coinvolto: 6,73

1.6 C’è stata la possibilità di confrontare le proprie esperienze in un dibattito: 6,85

1.7 Il clima della classe durante gli incontri è stato favorevole: 7,35

1.8 Il tempo a disposizione è stato sufficiente: 6,37

Valutazione riguardante gli operatori: 2.1 Capacità di coinvolgere 7,34

2.2 Chiarezza logica ed espositiva 8,31

2.3 Compresenza di psicologa e ginecologa 8,71

2.4 Tecniche di conduzione degli incontri 7

2.5 Metodo utilizzato: raccolta delle domande 6,90

Corso di Educazione all’Affettività La professoressa Del Genovese risponde sul tema dell’affettività

di Eleonora Sacco

L ’articolo metteva in discussione la scientificità delle informazioni e dei dati forniti dagli esperti del Consultorio, non il gradimento del corso.

La professoressa dichiara di essere stata “esauriente rispetto alla obiezioni mosse”; eppure le accuse erano “aggiramento del-le domande, mancanza assoluta di fonti nei dati presentati e di oggettività, approccio scientifico inadeguato”, per non parlare delle

“percentuali imprecise e senza fonte”, contrastanti con quelle fornite da enti e sondaggi internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Si sostiene, però, che “quanto scritto nell’articolo siano valutazioni soggettive e personali dell’autrice”, argomentando soltanto con sondaggi compilati dagli studenti. Dunque le loro percentuali sono solo “le mie impressioni”. E le lamentele di altre decine di studenti, nel corso degli anni, sono “valutazioni personali”. Come si è detto in redazione, il gradimento di un corso non rispecchia la sua qualità: non c’è alcuna con-nessione logica tra l’apprezzamento e la validità di un corso.

Se, nonostante le pecche rilevate nel mio precedente articolo, il corso ottiene un così alto gradimento da parte degli studenti, forse è il caso di chiederci quanto grave siano le conseguenze della mistificazione da parte degli esperti, ogni qual volta propugnano dati non scientifici: eviden-temente gli studenti non ne sono consapevoli e l'alto gradimento del corso sarebbe da prendere come un campanello d'allarme.

La risposta dell’autrice

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PAGINA 11 G IUGNO 2012 CRONACHE CARDUCCIANE

Per chiudere l’anno ad arte

di Alessandra Ceraudo

I l Liceo Classico Giosuè Carducci, mon-do di studio, cultura e fatica, sa pre-starsi anche ad attività ben diverse, quali il teatro e la musica, capaci di

dare sfogo ad anima e corpo, svelando quelle qualità di alunni e docenti che altri-menti rimarrebbero celate.

Per due settimane l’Aula Magna ha ospita-to una rassegna di tutti i lavori dell’anno; parteciparvi da spettatrice è stato entusia-smante e coinvolgente. Per la prima volta si sono uniti tre laboratori differenti (ex studenti, gruppo avanzato e docenti) in un unico grande progetto (coordinato dalla regista e docente di recitazione presso il nostro Liceo, Michela Blasi): l’Orestiade, traduzione di Pasolini del capolavoro euri-pideo suddiviso in tre tragedie. Il primo spettacolo è stato l’Agamennone, inscena-to da alcuni ex studenti del nostro liceo nostalgici di un così bel laboratorio teatra-le; il secondo, le Coefore, ha messo in luce il talento dei ragazzi del gruppo avanzato; il terzo, le Eumenidi, con attori i nostri professori, ha chiuso le danze con elegan-za ed entusiasmo. Brillano di verità le pa-role della Professoressa Romussi, respon-sabile del progetto, nella presentazione delle Coefore: “i ragazzi hanno recitato con una magica e profonda innocenza, non nel senso di ingenuità ma nel senso di purezza, spesso sconosciuta agli adulti”. La trilogia è stata rappresentata in modo ineccepibile, gli attori si sono fatti sentire, hanno emozionato, sempre fedeli e coe-renti al personaggio. Nel seguire tutti e tre gli spettacoli colpiva il vedere lo stesso personaggio inscenato da persone diverse (prima un ex studente, poi uno studente esperto e infine un docente); in questo

modo si potevano notare i tre diversi modi di calarsi in una parte, in relazione all’età, alle esperienze, alla formazione.

Oltre all’Orestiade sono stati presentati altri lavori di laboratori teatrali di classe o interclasse tra i quali: “Romeo e Giulietta” e “After Juliet”. Il primo è un grande classico, rap-presentato in maniera anticonformista e sugge-stiva, con i ruoli di Romeo e Giulietta interpretati da più attori. “After Juliet” è stato una novità, un grup-po di lavoro che univa nuovi acquisti a “vecchie” colonne. Da un testo di un’autrice straniera è venuto fuori un prosieguo della storia delle due grandi famiglie veronesi dopo la morte per a-more dei due giovani. Spettacolo sfizioso e piacevole. Leit-motiv dei laboratori teatrali è la giustizia che ha permeato ogni opera esposta sotto diverse forme e sfaccettature. Ogni spettacolo è stato importante, fonte di crescita per attori e spettatori.

A chiusura delle due settimane di perfor-mance, una serata interamente dedicata alla musica. Il maestro di improvvisazio-ne Fabio Soragna ha presentato il suo lavoro con tre alunne; con due flauti traversi e un violino le tre ragazze hanno improvvisa-to ispirandosi ai temi del freddo, del ghiaccio, varian-do poi con melodie più rit-miche o dolci e rilassate,

destreggiandosi fra sound e ritmi genuini.

A seguire la 1D si è esibita in canti di ope-re di Bach con intensità e maestria. Rinata dalle ceneri come un’araba fenice, l’orchestra del Carducci ha dato il meglio di sé in tre brani, augurandoci che possa tornare ad essere ricca e attiva come un tempo.

Infine Simona Severini, ex alunna del no-stro liceo, cantante jazz di talento, ha con-cluso con un concerto il progetto di storia della musica jazz, promosso dalla profes-soressa Gusmini. Epilogo delle due setti-mane, canzoni afro-americane, in cui rie-cheggiano atavici i temi della schiavitù e della giustizia, in eterna oscillazione fra miraggio e realtà.

Recensioni degli spettacoli teatrali e musicali, dall’Orestiade 3.0 al canto jazz

Esecuzione di “Bridge over troubled water”, 1D, classe del laboratorio musicale. Foto di Eleonora Sacco

Orestiade 3.0, Eumenidi — spettacolo dei professori Foto di Gaia De Luca

Orestiade 3.0, Coefore — spettacolo del gruppo di teatro avanzato Foto di Gaia De Luca

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PAGINA 12 ANNO VI — NUMERO VII

quotidiana, sono qualcosa di sensazionale. Lo cerchiamo sempre oltre, eppure il Bello è tra le ciglia della persona che si ama, nelle pieghe dei gomiti, nelle increspature dei sorrisi. Amo fare, e cerco sempre di fotografare il fatto strano, che ci illumini, l’isola non trovata.

Sono un fratello e una sorella al parco di Porta Venezia. Elettra e Oreste, li ho chiamati.

“Era già tanto se aveva dieci anni, quella bam-bina. Ma se voleva poteva averne mille di più.” (Dira in Oceano Mare, A. Baricco)

Elettra è legata ad Oreste da un amore inscin-dibile, ancorato al ricordo del padre. “Tu non eri di tua madre, eri mio e di nessun’altra: ero io la tua nutrice e al contempo tua sorella.” (cito a memoria, passatemi le sviste). E così Oreste cresce in braccio alla sorella che lo ama come un figlio, che vede il lui l’unica speranza di vita nuova per lei. Guardano lon-tano cercando l’ombra del padre, rincuoran-dosi a vicenda, colpevoli ma innocenti.

di Eleonora Sacco

La Foto del Mese | Maggiugno Il vento è cambiato. Le ombre lunghe, le nuvo-le e i sandali portano l’estate. La Foto del Me-se muore così, di un dolce e caldo torpore, nella luce rosata di un maggio tardo, su una sedia a dondolo, mentre riposa. Fabrizio lo diceva a Ninetta, che a crepare di Maggio ci vuole tanto, troppo coraggio. Ma un’idea nata con le cicale dei prati in estate muore, d’estate, all’ombra dell’ultimo sole. Grazie a tutti i lettori, a tutti i fotografi che mi hanno dato da scrivere, a tutti i complimenti e le critiche: è stato bello, ma non poteva durare in eterno.

Questo è un addio. E un addio è sempre diffi-cile; infatti, amarus in fundo, trovate uno scat-to mio, e qualche frase qui e là.

Voi, però, non smettete di fotografare: l’estate è il momento migliore! Buona lettura.

Gaia De Luca di 5H rispolvera l’archivio e ci riserva un finissimo ed inaspettato autoritrat-to, un modo per dipingere almeno una volta se stessi nascondendosi. È strano, quando passi la vita a vedere l’invisibile, negli altri, e a fornirne la prova, quando cerchi di cogliere un briciolo di verità dal mondo, dalle persone, dal libro della vita: ma se fotografi te stesso non puoi lasciare che si liberi tutto il tuo io. Sirena che ammalia, l’autoritratto, si trasfigura, in-ganna, strega e inebria i sensi. La mente della foto si traduce nell’atmosfera, nel senso che affiora, come uno spirito, dal buio di velluto. Il contrasto è violento, la luce è tagliente, affila-ta, spietata e severa, le mani scivolano, copro-no, scoprono, soffocano, creano, cambiano. Le mani sono il click. Il volto si vuole mostrare, ma ha vergogna. Paura. Si incornicia di bianco, un abbraccio di carne avvolgente che lo pro-tegge, nasce dall’ombra e la rifugge, con le sue proiezioni e i suoi solchi, sposando la luce. Guardatemi, ma non guardatemi. Le mani ruotano, mi sconvolgono, ma io rimango placi-

do, atarassico. Ci sono anche io, nella felicità d’inchiostro delle fotografie: solo che non mi si vede.

Giada Fanti di 4E ha provato scatti sul “set”. I suoi lavori sono molto evocativi, enigmati-ci, irrequieti. Esprimono una forte paura di rivelarsi appieno ma vogliono intensamente farlo. Il bagnato, sensuale, lascia intravedere un nudo molto vago, irraggiungibile. Poten-tissima è la posa delle mani caste, quasi in preghiera, che esprimono paura, disagio, contrastando nettamente, insieme alle luci e alle ombre marcate, livide, con il vedo-non-vedo della camicia bianca e bagnata. Anche qui le spalle, le mani, le braccia emergono con timidezza dalle ombre avvolgenti, spri-gionando un universo di sensazioni. Ansia, brivido, attrazione, paura e male da assassi-nio: un thriller anni ‘50, ovviamente in bian-conero. Abbiamo visto gesti, mani per messaggi e-motivi diversi. I gesti delle persone, nella vita

Gaia De Luca | ↑ Autoritratto, Nikon D40 + 18-55mm, 26mm, Manuale, 1/40, f/4.0, 400 Iso.

Giada Fanti | ↓ XXX, Nikon D3000 + 18-200mm, Manuale, 1/80, f/5.6, 400 Iso.

Eleonora Sacco | → Elettra e Oreste, Nikon D3100 + 70-300mm, 300mm, Manuale, 1/160, f/5.6, 200 Iso.

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PAGINA 13 G IUGNO 2012

testo e fotografia di Eleonora Sacco

I l vecchio conosceva a memoria tutti gli orari del treno. I suoi familiari avevano da sempre coltivato quelle terre a limoni e rosmarino. Quando arrivò il 1872, in paese

si iniziò a parlare di un progetto colossale, che avrebbe sconvolto le loro vite: una ferrovia che inghiottiva gli arbusti e scavava le monta-gne, sfidando a corsa le onde che si infrange-vano sulla scogliera. Nessuno ci capiva niente, non sapevano nemmeno leggere, gli ufficiali diedero loro due lire ed espropriarono gli ap-pezzamenti. Rimasero con un lembo di terra e una staccionata di legno, che tracciava il confi-ne con il binario 2.

Il vecchio era sempre stato vecchio.

All’epoca la sua stirpe aveva accolto l’esproprio come un segno del destino. Belin! Belin! Gli altri contadini se n’erano a poco a poco andati a lavorare in cantiere a Genova o a La Spezia, ma lui era rimasto lì: la ferrovia era diventata la sua vita. Con gli anni i capelli e gli occhi avevano preso il colore della ruggine, a furia di guardare quelle due rotaie che colle-gavano il suo piccolo borgo al continente. Le mani erano ormai secche e ruvide come le pietre tra una traversina e l’altra, i gomiti e i ginocchi erano rossi e spigolosi come bulloni, e la sua lingua raccontava solo storie di marinai, whiskey e tabacco d’importazione. Quand’era ubriaco parlava delle sirene del promontorio, che avevano i seni come delle arance mature. A volte gli sfuggiva qualche particolare sulla sua terra di agrumi e arbusti, chiusa e arrocca-ta su se stessa, un po’ sporca e incrostata di salsedine. A volte le storie le raccontava in quattro lingue, per frasi fatte: Do not cross the railway lines – Défense de stationner sur la passerelle – Rauchen verboten – Posto riserva-to ai mutilati di guerra.

Le case del borgo crescevano colorate una sopra l’altra a panni stesi e cornici delle fine-stre, mentre la locomotiva passava e ruggiva sputando vapore fumo fuliggine calore, spa-ventando i mocciosi che giocavano a pallone sui sassi della riva.

Il vecchio era invece sempre rimasto affascina-to dalla ferrovia. La vedeva come un prodigio, così continuava a coltivare il suo fazzoletto di terra, a bagnare origano e salvia lungo la stac-cionata, tra un arrivo e l’altro.

L’orologio della stazione era totalmente arrug-ginito da decenni, le lancette si erano fermate; il vecchio voleva credere che questo allungas-se i suoi momenti piacevoli, come le nottate al bordello in cima alla montagna. Un tempo era stato una caserma militare, poi abbandonata e occupata dalle prostitute; nessuno aveva più avuto voglia di staccare l’insegna all’ingresso. Era fatto delle stesse pietre e degli stessi into-naci, scrostati e sbiaditi, dei palazzi regali della grande città; il vecchio ci andava spesso, per sfogare un rimpianto – avrebbe voluto pren-

dere il mare e vivere con le sirene che si pettinano i capelli con le conchiglie, ma non poteva abbandonare la sua terra e la ferrovi-a – e per trasgredire la monotonia della sua vita, scandita dal fischio del capotreno e dal fiorire della limoncina. Prima, un salto in osteria per un amaro al carciofo e due chiac-chiere col capitano – le mareggiate, la pesca, i venti – poi, l’abbraccio soffocante della più grassa di tutte, quella con il grembiule rosa.

Era sempre stato con la sua ferrovia: quando ogni primavera davano il gesso, quando ogni inverno spalavano la neve, quando anche l’ultima valigia dei torinesi in ferie aveva toccato il suolo, quando anche l’ultima lom-barda, alla fine di settembre, era salita sul regionale un po’ più abbronzata, con due pacchi di focacce al rosmarino sotto il brac-cio.

Contava i passi che toccavano quella terra per la prima volta, contava gli oggetti persi in stazione e li collezionava in un mobile che aveva intagliato lui, da un ulivo morto: la teca era un finestrino di treno rotto.

Nessuno sa quanti anni avesse. L’età, il vino e la zappa lo seccavano e lo rendevano sem-pre più nodoso.

Un tardo pomeriggio di aprile sedeva sulla sua staccionata di legno e cordami, le labbra spaccate dal vento e il sangue in grumi sui denti, aspettando il regionale veloce che arrivava da Milano. Alle 17.42 vide la cinghia luccicante di uno zainetto di cuoio toccare la banchina, poi i tacchi scendere il gradino del treno, infine le calze di rayon con la cucitura proiettare una lunghissima ombra sui binari. Quella sua catenina d’oro aveva riflesso il sole del tramonto a intermittenza, tra una galleria e l’altra; a Milano suo fratello le aveva bucato le orecchie con ago e limone.

Al tempo le cittadine occhi chiari e gonnella ammaliavano terribilmente gli abitanti del posto. L’ultima volta che il vecchio aveva visto una figura simile aggirarsi da quelle parti rincorreva ancora i gatti nei vicoli bui, alla domenica aiutava lo zio a tagliare le canne di bambù, su alla segheria, finché la luce rossa dell’ovest e il dialetto della mam-ma non lo richiamavano a casa per la zuppa.

Il profilo di lei gli spaccò definitivamente il labbro, come un pezzo di vetro.

Non l’aveva mai fatto, di giorno, ma la tenta-zione fu troppo forte: nulla lo frenò. Abban-donò la ferrovia. Diserzione, diserzione! Saltò la staccionata, sfuggì alle fauci della locomo-tiva che passava, superò i binari e si lanciò giù per le scale, inseguendola. Le sue gambe ossute diventarono pistoni roventi, corse inseguendo quella figura che sfuggiva tra la folla. Bum. Era un treno senza macchinista. Ormai era sua, se lo sentiva martellante in gola. Stava camminando con la sorella sotto i pini di mare, quando lui le si piantò davanti,

guardandola fisso. Non si dissero né i nomi né l’età, tacquero entrambi; il vecchio le portò la borsa fino alla locanda. Lei salì con la sorella, e lui rimase ai piedi delle scale, guardandole salire. Era bastato un attimo a fargli dimenti-care gli occhi suini delle prostitute, i loro a-vambracci obesi, le loro dita sporche di grasso animale e sudore.

Cercò le sue mani sottili nelle finestre illumi-nate della sera, la aspettò sotto la grandine e sotto il sole delle due per giorni, ma lei non uscì. Aveva già progettato di ristrutturare e ampliare la catapecchia vicino alla ferrovia, aveva già scelto la data delle loro nozze, aveva già deciso che la primogenita si sarebbe chia-mata Elettra, aveva pensato che gli sarebbe piaciuto piantare un albero di limoni per ogni nipote. Aspettava, sapeva che prima o poi sarebbe uscita e che sarebbe diventata sua moglie. La sorella sarebbe tornata a Milano da sola. Aveva vissuto di più in quei giorni passati aspettando, seduto sotto il portico, che in tutta la sua vita senza tempo, di arrivi e par-tenze mute, senza il ticchettio dell’orologio della stazione. Sarebbe dovuta scendere. Pri-ma o poi. Non poteva non scendere. Doveva scendere per forza. Sarebbe davvero rimasta lì dentro per sempre? Certo che no: lei l’aveva visto di sicuro, stava lì ormai da settimane. Le aveva pure lanciato i semi di limone contro il vetro della finestra – era la sua, ne era certo.

Cedette, entrò in quella locanda d’aspirazione borghese e chiese delle due ragazze: l’oste non seppe rispondere.

Al che si arrese. Decise che non gliene impor-tava più. Lui ci aveva provato, ed era andato tutto inspiegabilmente storto: ma di chi era la colpa? In fondo anche l’amore è “solo un gio-co” – quando perdi. Tirò su la camicia sporca e cominciò a camminare sul pavé del borgo, contando gli aghi di pino nelle pozzanghere, succhiando un limone come se fosse dolcissi-mo. Lo irritava, più che la delusione in sé, il non poter ancora capire. Si fermò a contare le anatre in volo pensando alla sua vita, alla sua terra. E quella terra, di ulivi e scogliere, era lui. Ma ancora non capiva. Quella ventata d’aria nuova, cittadina, aveva fatto crollare il mondo in cui lui era sempre vissuto, in cui aveva sem-pre creduto. La ferrovia in quel momento era solo la ruvida reminescenza di una vita di vec-chio infante, senza tempo, senza parole: un giovane foulard profumato aveva scavalcato un universo, una vita, dissipando - in pochi secondi - abitudini, chimere, rimpianti. Se anche ora fosse tornato, non sarebbe stata più la stessa cosa.

Se ne sarebbe andato, ma non senza sapere. Avrebbe seguito le linee infinite dei binari del treno, ossidati come le sue efelidi, verso altri mondi, altre rotte, altri orizzonti. S’incamminò su una strada diversa. Fece il giro dell’isolato: solo allora vide che la locanda aveva un’uscita sul retro.

Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni?

Un racconto | Pensieri e impressioni di un viaggio in treno per una terra nuova e non troppo estroversa.

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ANNO VI — NUMERO VII PAGINA 14

L a grandezza di Stephen King è un rosone di cattedrale, immenso e colorato, composto di miliardi di sfaccettature. Si potrebbe definire

un grande scrittore per miliardi di motivi. Uno di quelli che senz'altro ho sempre ama-to e ammirato di più di questi è che King è davvero in grado di raccontare qualsiasi storia. E' per questo che una volta, in un'in-tervista, disse: “...la gente dice che io sono uno scrittore horror, ma non è vero. Io scrivo quello che mi sento. E' la gente che poi ci potrà vedere dentro quello che vuole”. Anche se è innegabile che buona parte dei lavori di King (IT per primo, ma anche Shi-ning, solo per citare i più famosi) sia venata da un gusto per il terri-ficante assolutamente giustificato e mai gra-tuito, perché utile per meglio descrivere il reale, non è questo il caso della saga della Torre Nera. E' probabile che alla maggior parte di voi questa saga sia sconosciuta. King stesso ne è ben consapevole: alle conferenze stampa, quando chiede chi abbia mai letto almeno un suo libro alzano la mano praticamente tutti, e quando poi domanda chi ne abbia mai letto uno della Torre Nera, a lasciarla su sono sempre in pochissimi. Eppure è lui stes-so a definirla “il mio capolavoro”. E' una saga maestosa che ha scritto spalmandola su ben 33 anni della sua vita. Ed è assolutamente la cosa più fuori di testa che io abbia mai letto. King stesso dice di averla scritta sull'onda dell'entusiasmo suscitato dall'uscita del Si-gnore degli Anelli, che ha significato moltissi-mo per tutta la sua generazione. Sia per gli hippies di Woodstock, sia per i novelli ro-manzieri come lui, che sognavano di scrivere un'epopea grandiosa come quella di J.R.R. Tolkien. Ma King non copia mai, né lascia i lavori a metà. Da misero sogno, la saga della

Torre Nera è diventata frusciare di pagine, viaggi meravigliosi, amicizie, mondi ine-splorati: una concretezza fantastica che la fa rivaleggiare comodamente contro altri grandi cicli come Shannara o Le Cronache di Narnia. Il fatto è che la Torre Nera non c'entra assolutamente niente con nulla di quel che avete letto, tanto meno di King stesso. Di King mantiene soltanto lo stile narrativo appassionante, accattivante, morbosamente dettagliato. Il resto è adre-nalina pura. Ditemi dove lo trovate un incipit più accat-

tivante di questo: “L'uomo in nero fuggì nel deserto e il cavaliere lo seguì”. L'ho sem-pre amato: semplice, diretto, come un ceffone: e lascia aperta la porta su spazi infini-ti. Il “cavaliere” è l'anti-Frodo: Roland di Gilead, eroe tragico e uomo vero, sofferente, ultimo della stirpe dei pistole-

ri, guerrieri che vivono in un mondo a metà tra il Medioevo e il Far West, che mantene-vano la pace come paladini della giustizia. E' rimasto solo Roland, e il mondo versa nel caos. L'unica salvezza è rappresentata dalla Torre Nera, il fulcro dell'universo, il perno attorno a cui ruotano le vicende di tutti, e tutte le dimensioni, tutti i mondi possibili e immaginabili. Ma nessuno l'ha mai vista. E' l'avventuroso viaggio della vita di ciascu-no di noi. Il viaggio verso la salvezza, sulla strada della speranza, in un mondo pronto a farci fuori. Non solo per la salvezza no-stra, ma di tutti. E Roland non si fermerà di fronte a niente pur di raggiungere il suo obiettivo: anche se contro di lui si scatene-ranno delle forze misteriose e terribili, i servi del Re Rosso che vuole impadronirsi della Torre... Vi pare forse che i compagni di viaggio di Roland in questa epopea potranno mai essere gente normale, o insospettabile? Niente affatto! Tra mille insidie, Roland si

fa accompagnare da un bambino di 10 anni, un eroinomane e una ragazza sulla sedia a rotelle, schizofrenica, per giunta. Una presa in giro? Tutt'altro. Gente crudel-mente normale, al fianco di questo eroe disincantato e tremendo. Come a voler dire che quest'avventura è alla portata di ciascu-no di noi, se solo volessimo: c'è un pistolero nel cuore di ognuno. Non c'è bisogno di ap-pellarsi agli eroi, all'Aragorn della situazione, perchè qui è la gente qualsiasi che viene chiamata in causa per rendersi eroica e sal-vare il mondo. Che d'altronde sarebbe il compito di ciascuno di noi che andiamo a scuola, spazziamo le strade, lavoriamo in banca, in panetteria... Vedete forse supere-roi in giro? Io no. Se la grandezza umana e l'eroismo non vengono fuori da noi, da chi? Non si può stare ad aspettare per sempre che venga giù qualcuno a risolvere i proble-mi. Roland attorno a sé sceglie persone ba-nali, con problemi di tutti i giorni. Poi, come facciano l'eroinomane e gli altri due a tro-varsi nel mondo di Roland, lo lascio a voi e spero, dunque, alla vostra lettura. Si tratta di 7 romanzi, vi assicuro uno più scorrevole dell'altro. Come in ogni opera di King, lo sguardo del narratore è attento a tutto l'uni-verso, in tutti i suoi dettagli: vedremo allora senso del dovere combattersi contro i desi-deri personali in un dramma che ricorda quasi quello dell'Eneide, e poi ancora civiltà cadute in rovina, il rapporto con l'ignoto, con la paura, con il mistero, lo sforzo di su-perare i propri limiti... E soprattutto avven-tura e mostri a non finire, in una storia la cui lettura va benissimo per chiunque, maschio o femmina, proprio come Il Signore degli Anelli. Un fantasy con tutti i crismi, ma non fine a se stesso, bensì veramente torbido e sporco di situazioni così dolcemente umane, per cui coinvolgenti e motivo di meditazione per ciascuno. Un viaggio meraviglioso dal quale sognerete di non uscire mai.

Speciale — Libri sotto l’ombrellone di Carlo Simone

C iao a tutti gli amici della Bibliobussola! E' finito un bellissimo anno insieme, è finito perfino questo mese di Maggio, straziante come tutti i Maggi, che sembrava non volersene andare via più, e proprio quando sembra che la storia più fantasy di tutte la stia vivendo l'Italia tra atroci attentati e scosse di terremoto esce anche l'ultimo numero dell'Oblò, e con lui questa rubrica. Vi ho preparato uno speciale su Stephen King, autore affascinante e universale, che vi propongo di portarvi in vacanza quest'e-

state al mare con gli amici, in montagna con la nonna sorda, su Plutone o ovunque vi toccherà andare. Facendo gli scongiuri per non essere qui a Milano a studiare per i debiti! Auguro a tutti buonissime vacanze, eccovi servite due storie d'eccezione!

La Torre nera

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IT

G IUGNO 2012 PAGINA 15

S tephen King o lo si ama o lo si odia. Non c'è modo di scendere a patti con quello che, a mio avviso, va

considerato come uno dei più grandi can-tastorie del nostro secolo. Tutt'altro che commerciale come tanti altri autori dai nomi altisonanti e dalle copertine colora-te, questo romanziere ha una fantasia infinita e conosce mille modi per orche-strare le sue moltissime storie, per render-le tutte una più ingegnosa e accattivante dell'altra. Quando scrive, non si risparmia niente, e così neanche al lettore. Prendere o lasciare: leggere King è come lanciarsi in una rissa da cui si esce o pesti o rinfranca-ti. E ha un talento tale da riuscire a dare ad ogni sua opera un'impronta diversa, mai banale, mai scontata, sempre affasci-nante: avendo ben chiaro un messaggio in testa e sottoponendolo all'attenzione del lettore grazie ai più disparati espedienti. E' questo il caso di IT, il suo romanzo forse più celebre e celebrato, da cui è stato tratto un film del 1990. Avete in mente quel pagliaccio killer, un mix tra Ronald MacDonald e Alien? Ecco, è di lui che sto parlando. IT è un libro immenso, in tutti i sensi. Senz'altro per mole, ma certamente anche per contenuti. Prendendosi il lusso di scri-vere tutte quelle pagine, King ha modo di raccontare di tutto il mondo, dai dettagli più discreti come la vita in una cittadina sperduta del Maine, a temi universali co-me il razzismo, la follia, l'amore, e il tutto all'insegna del Tema per eccellenza: la grande, spettacolare, infinita lotta tra il Bene e il Male. Che cosa sono esattamen-te? Si può sconfiggere il male, o contro di esso si risulterà sempre sconfitti, schiavi del dolore, della paura? In che modo si può vincere questa guerra che ha sempre visto l'uomo scontrarsi, alla fine, contro se stesso? IT è il male. IT è il mostro per eccellenza. Lo dice il suo stesso nome: IT, la Cosa. Da dove viene il male? King lascia voluta-mente sul vago la storia delle sue origini: pare che sia piovuto dallo spazio, molto tempo fa. Insomma, c'è sempre stato. E ha sempre avuto a che fare con l'uomo: così come IT infesta Derry -la città in cui è

ambientata la maggior parte della vicenda-, così il male infesta il mondo. Ma siamo certi che il male sia qualcosa di esterno all'uomo, come se fosse un destino malvagio, che si accanisce contro di noi? O non è forse l'uo-mo stesso che l'ha introdotto nel mondo, coi suoi comportamenti, con la sua ribellio-ne? IT infatti pare essere allo stesso tempo un'entità a sé stante e un tutt'uno con la città di Derry. IT è nella gente. E IT colpisce per primi i più innocenti di tutti: si mangia i bambini, tramutandosi nelle loro più grandi paure. E saranno proprio dei bambini, allora, a muovere guerra contro IT. Poco più che dodicenni, Will Denbrough e i suoi amici vengono a conoscenza, con un impatto fortissimo, del male che inspiega-bilmente esiste. Qualcuno ha ammazzato il fratellino di Will in una giornata di pioggia, e questo getta il ragazzino nello sconforto. Tuttavia più pas-sa il tempo più Will e i suoi ami-chetti si rendono conto che non si tratta di una coincidenza, la morte del suo fratellino e di altri bambini in città; anche se nessuno degli adulti, ciechi, sembra capire. Inizierà così una caccia che spingerà i prota-gonisti, armati solo di fionde, biciclette e del coraggio infinito dell'infanzia, dritti den-tro al mistero che attanaglia Derry e la sua gente. Faccia a faccia con IT, faccia a faccia col mondo, cercando un modo per sconfig-gerlo definitivamente. Tuttavia, la meravigliosa macchina scenica di IT non si limita a raccontare questa av-ventura. In contemporanea, eccelsamente sovrapposta, viene raccontata la storia di Will da adulto, e di quelli dei suoi amici che sono sopravvissuti al primo scontro col mostro. Questo impegnativo e ben riuscito espediente ci mostra con straordinaria chiarezza il processo di formazione di questi uomini e donne che, una volta adulti, sem-

brano dover fare i conti con qualcosa di ancora più mostruoso: IT è ritornato, infat-ti, ma questa volta i protagonisti, non più bambini, sembrano non aver più la forza e il coraggio per combatterlo. Per paradosso, da piccoli erano più uniti, e più forti. Agiva-no all'unisono secondo quella che Will chia-ma la voce della Tartaruga, cioè quel signi-ficato profondo di Bene che li accomunava tutti e che li rendeva invincibili. Adesso è diverso: ora sono fragili, hanno qualcosa da perdere, la paura è meno ge-nuina ma più potente di prima. Eppure sono costretti a ritrovarsi tutti per fronteg-giare ancora una volta la terribile minaccia di IT, perchè IT è tornato, ed è ben deciso a vendicarsi. Consiglio questo romanzo perchè è molto umano. Il sovrannaturale, come in ogni

vero fantasy, diven-ta una chiave di lettura per il reale, e un modo per capirlo meglio, estremizzandolo. Tutto questo pro-cesso di formazione esisten-ziale è condito nel migliore dei modi: se non avete mai letto un libro di Stephen King non potete ben com-prendere quello

che sto dicendo. E' totalizzante. Avvincen-te. Calamitante. Pur essendo un libro lun-ghissimo, non riuscirete a staccarvi. Quella di King è senz'altro una tecnica narrativa efficace e personalissima: l'importanza decisiva di ogni dettaglio, l'attenzione data a ogni singola sfaccettatura dell'anima e della paura, il realismo estremo, pur se in un'opera di fantasia. E' la lotta dell'inno-cenza contro il Male, un Male che non ri-sparmia niente a nessuno: niente è più mostruoso di IT, nulla vi farà più paura dei milioni di metodi che IT usa per terrorizzare le sue vittime. Raffinati o brutali, sempre e comunque efficientissimi: quanto orribili appariranno ai protagonisti della storia, tanto più lo saran per voi. Siete pronti a scontrarvi coi vostri peggiori incubi?

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PAGINA 16

di Dario Zaramella

S embra ieri, miei cari Carducciani, il giorno in cui la presente rubrica emise i suoi primi vagiti; in cui l'Oblò, ormai ampiamente risorto

dalle ceneri, diede asilo a questo timido ma radioso neonato. Il neonato crebbe; ma di quel roseo pargolo sono ancora oggi presenti i tratti fondamentali: una struttura pressoché invariata — recensio-ni brevi, da leggersi furtivamente tra i banchi, intervallate da speciali un po' più articolati —, l'assenza di un qualsivoglia criterio tematico nella scelta dei film

(vuoi recensire? Recensisci. Ad libitum), e, last but not least, una costante colla-borazione da parte della radiosa fauna carducciana. "Voi", in poche parole. Vi ringrazio, allora, per aver sostenuto il progetto con tanto entusiasmo e parte-cipazione: tra queste grigie pareti sono più preziose dell'oro.

Ma bando alle ciance, e chiudiamo qui i doverosi e sentiti patetismi per presen-tare brevemente gli ultimi tre film dell'anno: si parte con il vincitore agli Oscar di quest'anno, quel The Artist che, insieme al già recensito Hugo Ca-bret, vede nella lode al cinema di una volta il proprio punto di forza; è poi la volta di Drive, tormentato e ambiguo

come il suo protagonista, un "gangster movie" atipico e surreale, con un tocco di American Psycho. Accanto a questi gigan-ti del cinema vi sono poi perle nascoste, film meno conosciuti ma non per questo meno validi: è il caso di Gia - Una donna oltre ogni limite, film prodotto per l'e-mittente statunitense HBO che narra la vita della modella Gia Carangi, in bilico tra la volontà di emergere e le irresistibili tentazioni della droga e della carne. Detto questo non mi resta che ringraziar-vi nuovamente a nome mio e di tutta la redazione, e augurarvi un'estate all'inse-gna di sollazzi, loci amoeni e impetuose passioni.

Ci rivedremo quando un autunnale man-to di foglie tornerà a coprire le strade. Fino ad allora, adieu.

C INEMA ANNO VI — NUMERO VIII

Gia — Una donna oltre ogni limite

di Anna Vaccari

G ia Marie Carangi: nome proba-bilmente sconosciuto a molti di voi. Siamo a Philadelphia, negli anni

'70: Gia è una diciassettenne che vive con suo padre e i suoi fratelli, dopo che sua madre li lasciò per un altro uomo. Gia non è come le altre ragazze: il suo carattere ribel-le, la sua volgarità e la sua straordinaria bellezza vengono notate una sera da un fotografo di moda. Trasferitasi a New York, comincia la sua tanto improvvisa quanto fortunata carriera di modella: in pochissimo tempo il suo volto è sulle copertine di Vo-gue e Cosmopolitan. Gia però è giovane e fragile e la pressione per riuscire ad essere sempre perfetta sul lavoro, il venire conti-nuamente abbandonata ora da sua madre, ora da Linda (la donna che ama) ora da Wilhelmina (la sua manager), la spingono nel baratro della droga. Cocaina, crac, eroi-na: Gia è riuscita in poco tempo a perdere ciò che si era guadagnata. Prova però a disintossicarsi, poichè in fondo ha appena ventitré anni, è così bella, e può ancora

riprendersi la sua vita. L'ultima possibilità di ricominciare tutto da capo le viene strappata dall'AIDS: Gia muore all'età di appena ventisei anni. Il film, prodotto per il canale televisivo americano HBO, è stato diretto da Miche-al Cristofer; è basato sulla vera storia di Gia Carangi, modella italo-americana, dalla car-riera breve ma inten-sa. Gia è una delle prime donne famose a morire di AIDS, anche se la vera causa delle sua morte è stata per lungo tempo non resa nota al pubblico; infat-ti pochi nel mondo della moda conosce-vano la verità. I suoi diari (grazie ai quali è stato possibile scrivere il film) te-nuti fin da quando era piccola, sono la testimonianza di un grave trauma infantile causato dall'abbandono della madre quando aveva appena otto anni; questo

shock le renderà impossibile vivere da sola e instaurare relazioni stabili con le persone. Credo che aver scoperto questo film total-mente per caso sia stata una sorta di bene-dizione: non è semplicemente la storia di una modella che si lascia condizionare

dall'ambiente della moda degli anni '70, Gia era di più: una bambina che non aveva avuto la possibilità di crescere, cata-pultata in una grande città co-me New York, in un ambiente nel quale è facile perdere se stessi. Oltre alla straziante storia di un'altra giovane (troppo giova-ne) vita distrutta dalla droga, quello che mi ha fatto innamo-rare di questo film è l'attrice che interpreta Gia: Angelina Jolie. Coloro i quali dicono che la Jolie non sa recitare, non

hanno mai visto questo film! Gia è la Jolie e la Jolie è Gia: in tutta la sua bellezza esage-rata, in tutta la sua sensualità prorompente e in tutto il suo fascino sconvolgente.

"Alcune volte penso che fosse una persona diversa per ognuno. Alcune volte sapevo chi era. Altre volte no.

Chiunque provi a dirti esattamente come Gia fosse, non la conosceva affatto"

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PAGINA 17

ANNO VI — NUMERO VI

G IUGNO 2012

Drive di Dario Zaramella

P rima di parlare di questo film vi invito caldamente a guardare il trailer italiano, facilmente

reperibile su youtube. Fatto? Bene. Se, dopo quelle immagini altamente fuorvianti, sperate di trovarvi di fronte all'erede spirituale di Fast and Furious — fidatevi di me — fareste bene a risparmiare i soldi e passare ad altro: al contrario di quanto si potrebbe pensare, Drive è tutto fuorché adrenalinico. Non ci si deve neanche aspettare il soli-to connubio "donne e motori", peraltro: la storia d'amore tra il misterioso e taciturno driver, un Ryan Gosling più in forma che mai, e la sua vicina di casa, moglie di un

galeotto nonché madre, ingrana lenta-mente, sguardo dopo sguardo, in un'at-mosfera a metà tra il noir e il surreale.

Difficile non apprezzare la maestria del regista, il dane-se Nicolas Winding Refn, nel tratteggiare in poco più di 90 minuti una figura come quella del protagonista, di giorno meccanico e di notte autista per rapinatori e cri-minali, un uomo in bilico tra legalità e illegalità, tra amo-re e violenza che a tratti sembra sfociare in pazzia. La trama, così come la sporadi-

ca presenza di inseguimenti su quattro ruote, passa quasi in secondo piano ri-spetto all'atmosfera, pur contribuendo a mettere in luce il duplice carattere del

driver, ora affettuoso con il piccolo Benicio e sua madre, ora implacabile vendicatore.

Regia, fotografia, colonna sonora, tutto contribuisce a rendere questo "falso gan-gster movie" una perla (chi l'ha visto ricor-derà la scena con la maschera, "Oh my lo-ve" di Ortolani in sottofondo), un esperi-mento pienamente riuscito del regista, tra le altre cose, di Bronson (2009), che riesce a farsi apprezzare da chi cerca un'opera so-stanzialmente psicologica, pur con tutti gli splendidi orpelli visivi del caso. Sono riuscito a destare la vostra curiosità? Sedetevi, allora, mettetevi comodi sul sedi-le di elegante pelle accanto al guidatore — fate silenzio: non ama essere disturbato! — e preparatevi a veder sfrecciare davanti ai vostri occhi le luci di una New York corrotta come sempre, ma sorprendentemente si-lenziosa e passionale.

C INEMA

"...and you have proved to be a real human being and a real hero"

The Artist

di Carlo Simone

C 'è crisi, c'è crisi, c'è crisi: ormai lo sanno anche i muri imbrattati del cortile e le pizzette giù al bar.

Esiste un modo per uscire dalla crisi, che non sia quello di tassare perfino le sigarette all'intervallo o i campi da ping pong giù in palestrina?

Secondo me un ottimo consiglio in questo senso è emerso da una fredda notte Califor-niana, il 26 Febbraio scorso: la notte degli Oscar. Il film che ne è uscito a testa alta è stato The Artist, un film muto. Muto?! Sì, muto. E logicamente in bianco e nero. Vole-te saperne una bella? E' stato sì girato a Hollywood, ma è recitato, diretto e prodotto da francesi. Orrore degli orrori, chissà che strazio!

E invece...

C'è crisi, e Hollywood dove si rifugia? In un luogo protetto, nascosto, dove la crisi non la raggiungerà mai: nel suo passato dorato. Il film infatti non è certamente muto per caso: tutto quanto è ambientato negli anni '20, quando il cinema era tutto così. Ironia dell'i-ronia, racconta di un attore del cinema muto sulla cresta dell'onda, che viene poi scaricato da tutti agli albori del sonoro.

In un momento storico -il nostro- dove mai come in passato sta regnando un pessimi-smo diffuso e il cinismo dilaga, una storia di caduta e rinascita come quella raccontata in The Artist è un toccasana. Quando soprag-

giungono i titoli di coda ci si sente intima-mente rinfrancati. E' di una dolcezza squisi-ta, toccante, profonda. L'attore che inter-preta George Valentin (il protagonista), Jean Dujardin, è stato subito ricercato da mezza Hollywood, e non è certo un caso: la sua interpretazione profondamente autoi-ronica, divertente al punto da essere esila-rante, condita dal sarcasmo tipicamente francese e da un sorriso che non penso vi scorderete mai gli ha valso -secondo me meritatamente- l'Oscar come Mi-glior attore prota-gonista. Ha fascino, e il merito di esse-re accattivante. Non meno impor-tante, The Artist è anche una bellissi-ma storia d'amore. Bèrenice Bejo in-terpreta un'ammiratrice di George che riesce a incontrarlo in circostanze fortuite, e tra i due nasce un sentimento complica-to, controverso, vario: all'inizio lei lo adora come tutte le ragazzine adorano le loro star preferite, e lui la tratta bonariamente dall'alto della sua condizione di ricco e famoso che gli permette di elargirle favori a non finire. Poi lei diventa famosa grazie a lui, mentre intanto lui cade in disgrazia. Siccome lei è totalmente rapita dal mondo del cinema e non lo cerca più, lui, somman-

do la cosa al declino della propria carriera, cade in una depressione pesantissima (tremenda e meravigliosa la scena in cui dà fuoco a casa sua), dalla quale però toccherà a lei tirarlo fuori.

Due attori fuori dal comune: pensate a quanto sia più complicato trasmettere un messaggio, un'idea e delle emozioni senza l'uso della parola. In questa intensità di rap-presentazione vengono fuori i grandi attori:

questi due, per quanto piutto-sto giovani, sono talentuo-sissimi.

Rispondere a tono alla crisi, con un'iniezione di sane risate e di speranza. E' davvero un film che alleggerisce

il cuore e dà nuove energie. Tra l'altro, l'idea di dare le spalle al giorno d'oggi così cupo e grigio aprendosi al cinema che fu è stata ripresa anche dall'altro grande vincitore della notte degli Oscar, Hugo Cabret, altro film preziosissimo che tra le sue tante storie ci racconta pure di questo. Parla di un bam-bino. Un bambino e un film muto, due cose misere, all'apparenza. Io però sono convinto che sia proprio dalla semplicità che il mondo deve ripartire, se vuole uscirne. E magari lasciarsi commuovere un po'. Dopotutto, cos'altro ci rende umani?

«Caro, sono una persona infelice» — «Come milioni di persone...»

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di Edo Mazzi

R.E.M. – Out of Time (Warner Bros. Records, 1991)

I R.E.M., gruppo rock degli anni ’80 scioltosi di recente nel no-vembre 2011 dopo aver inciso molti dischi, ha sicuramente

raggiunto l’apice del successo con il settimo album “Out of Time”, nel ’91. Alla traboccante energia rock il

disco sa alternare canzoni dai ritmi più soffusi e delicati.

Il lato A -Time Side in quest’album- inizia con “Radio Song”, in cui riecheggia, inconfondibile, la voce di Michael Stipe, che, sopra il ritmo acceso della canzone, si rivolge a una stazione radio a lui di poco gradimento. “Losing my Religion”, canzone dai ritmi Folk Rock di grande effetto, e dalle intense emozioni, è senza dubbio il singolo di maggior successo di questo disco, grazie alla grandezza del testo, disteso su un accompagnamen-to di mandolino.

Il ritmo rallenta – ma senza affievolirsi - in “Low” arricchita da uno splendido accompagnamento di basso . Si prosegue con la preziosa e particolare“Near Wild Heaven”, dove il batterista Bill Berry e il chitarrista Peter Buck, oltre a mantenere con i loro strumenti il ritmo del brano, si dilettano ad accompagnare con la voce, facendo da coro, il solista Stipe. Il primo lato si spegne infine con “Endgame”.

Il lato B – dal titolo di Memory Side- si apre con l’ormai celebre “Shiny Happy People”, canzone emblematica non solo del tipi-co ritmo Rock dei R.E.M. ma dell’album stesso; alla voce Mi-chael Stipe è accompagnato da Kate Pierson dei B-52’s.

Gemma dell’album è “Belong”, splendida in tutto il suo essere, con l’ attacco alla chitarra e subito dopo con la voce del can-tante. Dopo “Half a World Away”, segue la meravigliosa “Texarkana” cantata con eccezionale abilità da Stipe e da Mike Mills.

Dopo “Half a World Away”, è il turno della splendida “Texarkana”- il brano dei R.E.M. che preferisco- cantata davve-ro con grande abilità da Stipe e da Mike Mills. Si passa, poi, alla successiva “Country Feedback”, brano, dal ritmo melodico e forse anche un po’ romantico ma capace di lasciare emozioni. Ultimo fuoco d’artificio del disco è “Me in the Honey”, in cui Stipe è nuovamente accompagnato dalla voce di Kate Pierson. Album, “Out of Time”, davvero grandioso nella sua semplicità, consigliato assolutamente a chiunque, perché, credetemi, ne vale davvero l’ascolto.

"Mark ha la straordinaria capacità’ di far emettere alla sua Schecter Custom Stratocaster dei suoni che paiono pro-dotti dagli angeli il sabato sera, quan-do sono esausti per il fatto di essere stati buoni tutta la settimana e sento-no il bisogno di una birra forte" [Douglas Adams]

ATTUALITÀ ANNO VI — NUMERO VII

di Francesco Bonzanino

Dire Straits- Making Movies (Vertigo Records, 1980)

O ttimo disco, terzo della band che, abbandonate le influenze blues delle origini, si concentra su

sonorità rock più classiche e su testi meno autobiografici e dotati di maggior carica poetica. E' anche

il disco dell'abbandono di David Knopfler a metà incisione; im-portante è inoltre la collaborazione di Roy Bittan della E-street band di Springsteen.

Il lato A si apre con la stupenda “Tunnel of Love”, che venne estratta come singolo solo in alcuni Paesi perché ritenuta – er-roneamente - troppo lunga con i suoi soli 8 minuti e 25 secondi. Si tratta di un sostenuto ritmo rock su cui si dirama la storia di due persone ferite da pene d'amore che s'incontrano in un luna-park e, dopo una splendida serata passata insieme, decidono comunque di non iniziare una storia che potrebbe ferirli; “ in a screaming ring of faces I seen her standing in the light/ she had a ticket for the races just like me she was a victim of the night”. L'assolo finale è estremamente efficace nell'esprimere dolcezza e debolezza derivate da chi decide di aprire il suo cuore in mo-do assolutamente sincero. Come seconda traccia, ecco un altro singolo, “Romeo and Juliet” una rock ballad destinata a diventa-re 'exemplum' per chi vorrà da quel momento in poi, cimentarsi con questo tipo di forma-canzone . Tratta delle stesse temati-che della prima traccia (e di tutto l'album) aggiungendo quella dell'amore non corrisposto con un testo a tratti volutamente leggero e ironico dipingendo un Romeo buffo e impacciato, a tratti romantico come quando dice “I can't do anything but I'd do anything for you/ I can't do anything except be in love with you”. Chiude il primo lato 'Skateway' che riporta a un'atmosfera di 'narrazione rock' con venature più speranzose e meno ro-manzate o sdrammatizzanti. Nel lato B troviamo “Expresso Lo-ve” che segue la scia di “Tunnel of Love” sia per quanto riguar-da la sezione musicale sia per il testo, entrambi giusto un po' più frivoli. Segue “Hand in hand”, ballata dai toni un po' più cupi, che parla della triste consapevolezza di un amore finito e lo fa con un tappeto sonoro del pianoforte di Roy Bittan, by courtersy of E-street Band, al servizio di liriche costellate di immagini molto potenti come 'il cielo che piangendo lava via tutte le paure e le scritte sui muri, perdona e dà da bere alla città sporca’. “Solid Rock”, che si commenta dallo stesso titolo,è la penultima traccia del disco e anche di molti live, proprio per dare l'impressione che ciò che sta accadendo non sta per finire nel giro di due brani. Per descrivere questo pezzo nel modo migliore che posso sebbene possa esser visto come ignorante (quale sono, non mi offenderei), direi che si tratta di una traccia dove a una sezione musicale in stile Stones si aggiunge un can-tato in stile Lou Reed meno stanco e più pulito e sobrio che mai: ascoltate il pezzo e lasciate perdere i miei strampalati pa-ragoni. Chiude l'album “Les Boys” che, con il suo testo, rappre-senta un abbassamento del livello poetico del disco ma che non guasta con la sua leggerezza ragionata e vagamente dandy; insomma si ha un divertisment come conclusione di un album impegnativo e profondo nelle sue tematiche, affrontate da Mark Knopfler con un efficace mix di sincerità e romanticismo, condite dalla chitarra descritta sublimemente dalla citazione qui a fianco riportata.

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PAGINA 19 G IUGNO 2012 ATTUALITÀ

All'alba di quella che presto sarà la mia fuga è giunto il momento, cara Genova, di stendere un resoconto sul nostro contrastato rapporto. Diciannove anni di convivenza (e reciproca connivenza) non sono certo pochi. Nel far ciò avrei potuto, pertanto, dilungarmi in una lunga e noiosa serie di motivazioni arzigogolate e lambiccate sulle ragioni d'odio e d'a more e, infatti, lo farò. Mi piaci, Genova, perché se ho freddo nel novantanove per cento dei casi sono in un'altra città. Mi piaci perché hai un ottimo conservatorio che, in molti corsi, attira studenti da ogni parte d'Italia. Mi piaci perché se ho caldo faccio proverbialmente due passi e sono in spiaggia. Ancora mi piaci, e mi tocca essere banale, per il fatto che quando mi imbatto in una striscia di focaccia, almeno culinariamente, mi sento al centro del mondo. Ti ammiro quando nel 2004 diventi capitale europea della cultura insieme a Nizza oppure quando ogni cin-que anni frenetica ti mobiliti tutta per dar luogo all'Euroflora. Ti contemplo se in primavera tutti i giardini della riviera esplodono di vivi germogli o quando torno a casa, magari da un lungo viaggio, e sono accolto dalla salsedine che ventosa risale per le anguste stradine. Ti adoro perché grazie a personalità come Ivo Chiesa hai uno dei panorami teatrali più fervidi e frizzanti d'I-talia, con cartelloni ogni volta innovativi e stimolanti. O perché il tuo centro storico, intriso di vita e curioso cosmopolitismo dal medioevo ad oggi, è patrimonio dell'umanità secondo l'UNESCO. Mi piaci perché non hai il “Pagante”. Per contro, non mi piaci perché hai gli “Albarini”, che in ben poco si differenziano dai “Pagantes”. Non mi piaci perché la scena musicale giovanile, ma non solo, rende solo offuscatamente il fervore che po-tresti, invece, esprimere. Non mi piaci perché l'AMT, l'azienda dei trasporti, è stata privatizzata e da cinque anni ad oggi ha presso- ché raddoppiato il costo dei biglietti, ma ridotto drasticamente e sensibilmente il servizio erogato. Non mi piaci quando ti eleggono “La città più vecchia d'Europa”. Allo stesso modo non mi piaci, anzi ti detesto apertamente, quando il cosmopolitismo dei vicoli si trasforma in cieca follia e il Sabato sera, in mezzo a centinaia di ragazzi, un mio conoscente viene raggiunto da sei coltellate. Aveva tentano di aiutare un amico a cui era stato appena sfilato di tasca il cellulare. Cara Genova, un'ulteriore volta non mi piaci perché la Lanterna, il tuo simbolo, si erge in mezzo ad una centrale ENEL a carbone. Una di quelle come non se ne dovrebbero più vedere, fosse anche solo per l'impatto visivo delle ciminiere nel centro città (e non parliamo di quello ambientale). Ti biasimo profondamente quando su uno dei tratti di litorale in potenza più turisticamente attrattivi hai costruito chilometri e chilometri di acciaierie. Acciaierie di cui, per la gran parte, restano ormai solo le car-casse di ferro rugginoso, monumentale testimonianza d'un tempo che è stato e d'un danno cui non sarà posto rimedio. Non mi piaci quando il besagnino − verduraio in genovese − di Piazza Giusti a San Fruttuoso è Mimmo Gan-gemi, uno dei più importanti boss della 'Ndrangheta nel Nord-Ovest, ora per fortuna in carcere. Non mi piaci quando viene danneggiato il motorino al cantante del mio gruppo perché partecipa alle riuni- oni di un collettivo anti-fascista. Ancora una volta non mi piaci perché il tuo affascinante e coinvolgente, tanto quanto stretto e impratica- bile, “sali e scendi” non permette a me e ai miei concittadini di muoversi in bicicletta e, congestionandosi in un baleno per il grigio traffico, mi fa arrivare in ritardo. Sempre. Cosa dire allora di quando hai fatto gran vanto delle tue cinque modernissime fermate di Metro e, oltre all'epocale ritardo di dieci anni sulla scadenza prestabilita, scopro che più della metà dei tunnel era già pronta negli anni ottanta? Per l'ultima volta non mi piaci quando il Comune affida tutti i numerosi lavori di bonifica del territorio (e i milioni di euro in proventi derivanti dagli stessi) ad Eco.Ge, una ditta segnalata ufficialmente dal tri- bunale come sospettata di infiltrazioni mafiose, senza che nessuno, tranne Report, provi a fare qualcosa. In definitiva posso dire che rimane il rammarico per una città paesaggisticamente e storicamente straor- dinaria, già porto di mille genti e culla di personalità d'immane rilevanza artistico-letteraria, ma ormai irrimediabilmente consumata dal disinteresse. Lo stesso disinteresse che ha dato i natali alla situazione di putrido stagnamento politico-culturale che stiamo vivendo oggi (emblematico a riguardo il dato sull'affluenza per le amministrative scesa al 39% durante il ballottaggio Doria-Musso). Ogni tanto oggi si notano i primi timidi barlumi di un risveglio dopo il lungo letargo intellettivo culturale e di conseguenza anche economico, ma ogni giudizio è prematuro. Come ha detto, parafra- sando volgarmente, qualcuno che ne ha saputo ben più di quanto io saprò mai: releghiamo ai nostri successori il difficoltoso giudizio.

Genovese, troppo genovese Scrive per noi e ci parla della sua affascinante città Edoardo Leveratto, redattore di “Dragut”, giornalino

del Liceo Classico Andrea Doria di Genova, che abbiamo incontrato a Perugia in occasione del CISS.

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ANNO VI — NUMERO VII PAGINA 20

di Silena Bertoncelli

C osa succederebbe se si mettessero insieme una decina di giovani cervel-li, la passione per la scrittura creati-va, un'idea geniale e un accesso ad

una rete internet? 20 lin.es è la risposta. Il progetto, una startup dedicata alla scrittura condivisa che ha debuttato alla Fiera interna-zionale del Libro di Torino, è nato dalla colla-borazione di quattro co-fondatori (Pietro Polli-chieni, amministrazione, Alessandro Biggi, commerciale, Marco Pugliese e Roberto Ro-mano, programmazione) e sei giovani collabo-ratori, tutti di età compresa tra 24 e 26 anni, e tutti che all'università si sono occupati di altro (da economia a giurisprudenza, da scienze sociali ad ingegneria ed informatica). In par-tenza 20 lin.es è un sito, o meglio, una piatta-forma web, che permette di scrivere, condivi-dere, leggere e votare storie, anzi, parti di esse: 20 righe, appunto. L’idea alla base di questo progetto prevede l’applicazione dei meccanismi propri dell’intelligenza collettiva all’arte della scrittura: come? Semplice: gli utenti di 20lin.es (a cui ci si può liberamente iscrivere fornendo un nome utente, una password ed un indirizzo mail) possono iniziare una nuova storia scrivendo un incipit di massimo 20 righe e mandarlo alla mail dedicata alla selezione ([email protected] ) e che resterà attivo per i successivi 20 giorni. Altri utenti posso-no contribuire all’evoluzione della storia scri-vendo una seconda sezione, di massimo 20 righe, dando così la possibilità ad altri di pro-seguire, aggiungere una nuova sezione o ri-scrivere quella precedente, facendo così in modo che ogni incipit si possa sviluppare in una moltitudine di storie. Durante quei venti giorni un solo iter di racconto si aggiudicherà il titolo di Pillola e la pubblicazione, sotto for-ma di ebook di, ancora una volta, 20 storie in totale, grazie al lato social della piattaforma: l'"elezione" finale sarà infatti aggiudicata gra-zie al maggior numero di ''mi piace'' e condivi-sioni su Facebook, di citazioni su Twitter o di

commenti positivi e ''like'' sul sito stesso. «Ai libri di carta non ci abbiamo mai pensato», commenta Pietro. «I costi sono molto più alti. Magari, si potrebbe realizzare su base annuale una raccolta con le storie di maggior successo o anche su richiesta». Con il forma-to digitale, invece, tutto è più semplice: non servono stampatori né tipografie, «basta caricare le storie su Amazon o iTunes, che fanno un controllo legale sui contenuti, trat-tengono una percentuale minima su ogni copia venduta e permettono di vendere il libro». Lanciato in rete da meno di 20 giorni (non potevo non farmi contagiare dal numero simbolo del portale) su 20 lin.es si possono già leggere e continuare ben più di 20 storie e in homepage gli incipit del gior-no, diversi ad ogni refresh di pagina, stuzzi-cano la fantasia e la voglia di scrivere. Agli utenti/autori già registrati si aggiungeranno

a breve anche scrittori e giornalisti noti co-me Paola Calvetti, Luca de Biase, Matteo Bianchi, Maria Franco, Mimmo Gangemi ed Enrico Fierro. Inoltre per i più tecnologici, è uscita e scaricabile anche un'App per leggere l’ebook direttamente sul proprio iPhone (20lin.es). Già nel 2007 Gregorio Magini e Vanni Santo-ni idearono il cosiddetto 'Metodo SIC', legga-si Scrittura Industriale Creativa, improntato sulla collaborazione a più mani nella stesura di una storia, breve o lunga che sia. Sempre nel 2007 tra l'altro è nato Opposto.net, un sito internet con un ramo nell'editoria che

oggi conta svariate pubblicazioni di libri, rac-conti e poesie in cartaceo. Ma di progetti simili a 20 lin.es ce ne sono davvero moltissi-mi, italiani e non: THe iNCIPIT ne è un esem-pio come anche toilet, ed in America il boom di piattaforme internet con le stesse caratteri-stiche di 20 lin.es ha preso piede da un po': FoldingStory, o ancora Fickly, ma molti, molti altri. Per quanto riguarda il lato economico «l’investimento iniziale è stato minimo», spie-ga Pietro Pollichieni: «Gli sviluppatori del sito fanno parte del team e le spese per l’acquisto del dominio sono basse». Il sito, con domi-nio .es, è stato infatti registrato in Spagna: niente delocalizzazioni per risparmiare. «Ci è servito per il gioco di parole», spiegano, «è un fattore che sta diventando di moda per le nuove realtà web ma che risponde anche alla difficoltà per cui spesso i domini .com sono già occupati». Come sostentamento iniziale, i

quattro co-fondatori si sono rivolti alla scuola di scrittura Holden, autofinan-ziando però l’intero progetto. «L’intento è quello di vendere gli eBook nati dall’assemblaggio dei vari blocchi di venti righe scritti dagli utenti, con il desi-derio di allargare il progetto anche alle sceneggiature di spot televisivi e ai cor-tometraggi». La promozione e la diffusione di questo geniale progetto è avvenuta principal-mente attraverso la collaborazione e l'appoggio dei social network: Facebook, Twitter Google+. «Il vantaggio», dice

Pietro, «è che sono gratuiti. In più abbiamo investito nella partecipazione al salone del libro di Torino». Quello che manca, ancora, è una redazione. «Al momento continuiamo a incontrarci nella mansarda di Alessandro, ma presto, forse, avremo bisogno di un posto fisso», commenta Pietro. È bello accorger-si di rimanere ancora stupiti davanti ad un'i-dea ben sviluppata. Alla faccia di chi dice che i giovani italiani d'oggi sono incompetenti. E un applauso a 20lin.es, ai suoi ideatori. Per la semplicità con cui si presenta. Per il contenu-to essenziale eppure così accattivante. Per l'originalità che traspare sin dalle poche righe.

Tutti abbiamo le nostre venti righe nel cassetto

La Redazione dell’Oblò Redattori:

Martina Brandi 3E

Martina Calcaterra 1E

Maria Calvano 2B

Alessandra Ceraudo 3B

Chiara Checchetto 1D

Claudia Chendi 2B

Ines Chillemi 1E

Chiara Conselvan 3E

Elisabetta Festa 4F

Jacopo Malatesta 3C

Chiara Mazzola 2B

Alessandra Pozzi 1C

Anna Quattrocchi 4F

Federico Regonesi 4A

Beatrice Sacco 1D

Beatrice Servadio 3B

Carlo Simone 4D

Alessandra Venezia 2B

Dario Zaramella 4A

Collaboratori esterni:

Francesco Bonzanino 3E

Edo Mazzi 3E

Anna Vaccari 3B

Mattia Sanvito 5C

Alessandro Luciano (LSS Volta)

Edoardo Leveratto (LCS Doria, Ge)

Vignettisti:

Silena Bertoncelli 3C

Federico Regonesi 4A Grazie a Davide Motta 3B

Impaginatori:

Chiara Conselvan 3E

Eleonora Sacco 4F

Chiara Compagnoni 5G

Correttori di bozze:

Chiara Compagnoni 5G

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